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Giancarlo Limoni

2014

 Giancarlo Limoni A.A.M. ARCHITETTURA ARTE MODERNA  www.gangemieditore.it Giancarlo Limoni a cura di / edited by Francesco Moschini coordinamento / coordinator Gabriel Vaduva testi di / texts by Giuseppe Appella, Carlo Laurenti, Francesco Moschini, Lino Sinibaldi, Aldo Tagliaferri Coordinamento / Coordinator Gabriel Vaduva Crediti fotografici / Photo credits Archivio FFMAAM | Gabriel Vaduva Archivio A.A.M. | Gabriel Vaduva Archivio L’Attico | Fabio Sargentini Nunzio Stefano Fontebasso De Martino Giampiero Ortenzi Claudio Palmieri Studio Boys Traduzioni / Translations Julia MacGibbon Copertina / Cover Paesaggio con cielo rosso, 2013 Paesaggio con cielo giallo, 2013 © Gli autori per i testi / The authors for their texts © A.A.M. Architettura Arte Moderna 2013 Tutti i diritti riservati / All rights reserved © Proprietà letteraria riservata Gangemi Editore spa Piazza San Pantaleo 4, Roma w w w. g a n g e m i e d i t o r e . i t Nessuna parte di questa pubblicazione può essere memorizzata, fotocopiata o comunque riprodotta senza le dovute autorizzazioni. Le nostre edizioni sono disponibili in Italia e all'estero anche in versione ebook. Our publications, both as book and ebooks, are available in Italy and abroad. ISBN 978-88-492-2788-8 Ringraziamenti / Thanks Laura Bertolaccini Carla Salanitro Monica Manicone Giancarlo Rossi Edi Mesica David Mayer Naman Stefano Flammini Maurizio Flammini Questo volume è stato pubblicato in occasione della mostra This volume was published on the occasion of the exhibition Giancarlo Limoni Paesaggi 2008-2013 A.A.M. Architettura Arte Moderna, Roma 4 novembre 2013 - 31 gennaio 2014 a cura di / edited by Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna via dei Banchi Vecchi, 61 | 00186 Roma, Italia +39 0668307537 | info@aamgalleria.it | www.aamgalleria.it Direttore scientiico e culturale Artistic and Cultural Director Francesco Moschini Direttore responsabile Managing Director Gabriel VaduVa Coordinatore per le iniziative culturali e didattiche Curator of the gallery’s cultural and didactic projects Francesco MaGGiore Sommario Contents 8 19 L’itinerario artistico di Giancarlo Limoni come orizzonte percettivo totale Giancarlo Limoni’s artistic journey: an entire perceptive horizon Francesco Moschini 30 32 Giancarlo Limoni e l’archivio della natura Giancarlo Limoni and nature’s archive Giuseppe appella 42 44 La reggia del mendicante: per Limoni The Beggar’s Palace: for Limoni carlo laurenti 136 138 176 178 Nigredo. Dal sipario multicolore della vita ecco trapela, tracima Erebo, il nero afiora in mezzo all’arcobaleno. Pittura come pratica di vita Nigredo. From behind life’s multicoloured curtain Erebus emerges, spilling out. Black blooming at the heart of the rainbow. Painting as a way of life carlo laurenti Roberto Caracciolo e Giancarlo Limoni: tra corpo e mente, tra ragione e sentimento Roberto Caracciolo and Giancarlo Limoni: mind and body, sense and sensibility lino sinibaldi 200 202 Piccole apocalissi Little apocalypses aldo taGliaFerri 250 Note sulla poetica dei miei acquarelli A note on the poetic intent of my watercolours Giancarlo liMoni 276 Appunti di viaggio Travel sketches, croquis de voyage, skizzenbuch 298 299 Nota biograica Biographical notes 300 Apparati Appendix Francesco Moschini L’itinerario artistico di Giancarlo Limoni come orizzonte percettivo totale Attraverso la pittura e la letteratura Dopo oltre trent’anni di impegno nella misurata, progressiva ma inesorabile e millimetrica evoluzione del proprio linguaggio artistico, Giancarlo Limoni pare giunto alla assolutezza della deinizione del proprio percorso, ora pervenuto ad un serrato dialogo tra trasigurazione alchemica del reale e astrazione di ogni elemento del proprio immaginario igurativo. Gli esiti della sua attuale ricerca sembrano prepotentemente proiettati verso una perseguita modernità sul piano artistico, quasi a rammemorare gli eroici portati dell’espressionismo astratto americano coniugati con le più sofferte, intimiste e geograicamente riconoscibili, nella loro mediterraneità, esasperate e corrosive solarità dei paesaggi dell’anima di Nicolas De Staël. Sul piano concettuale poi traspare, dal lavoro più recente, una più disincantata e amara rilessione sulle universali condizioni dell’esistenza, sul nostro rapporto con la natura, con i luoghi, con la loro condizione di puri spazi residuali e inospitali che lasciano presagire la caduta non solo di ogni illusione, ma di qualsiasi parvenza consolatoria che per anni aveva caratterizzato il percorso artistico di Giancarlo Limoni. Eppure, mai come in queste opere più recenti, pur nella loro allucinata asciuttezza, nella loro perseguita afasia che le rende quasi opere “aniconiche” per la loro totale rinuncia a qualsiasi parvenza di traccia reale, si rivela il suo essere profondamente permeato dalla cultura igurativa, occidentale e orientale, dell’intero percorso dell’arte, da quella romana augustea sino alla contemporaneità. Ma il riferimento dell’artista agli esiti dell’astrazione americana tra la ine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, non va individuato in quella vitalistica volontà di andare oltre i limiti della tela stessa, alla scoperta di nuovi territori isici e spirituali, quanto piuttosto nella ricercata misura classica restituita alla stesura del colore ino a fare assumere allo stesso un carattere di levigatezza minerale, di materia rappresa e raggelata come fossimo in presenza di scultorei bassorilievi policromi. Ecco allora entrare in gioco, nelle evidenze “plastiche” di G. Limoni, le sollecitazioni-vibrazioni narrative scolpite nella corazza della statua di Augusto proveniente dalla Villa di Livia a Prima Porta o le serrate “accumulazioni” dei rilievi Grimani, come tutta la scultura di quel periodo, troppo “algida”, almeno per Ranuccio Bianchi Bandinelli nella sua rievocazione classicista, come ogni forma di ricercata classicità che accomuna tutte le “rinascenze”, a partire dalla ritrovata età dell’oro della Pax Augustea. E via via procedendo, sia pur per rapidissimi passaggi, come non rintracciare nella dimensione “litica” degli attuali “orizzonti” di G. Limoni, veri e propri grumi di materia, i paesaggi addensati come colata lavica di alcune scene giottesche nella Chiesa Superiore della Basilica di San Francesco ad Assisi (1292-1296) o nella cappella degli Scrovegni a Padova (1303-1305), le distese aperture dello scenario su cui si attesta il passo intrepido di Guidoriccio da Fogliano (1328), il ritmato svolgersi del paesaggio ne “Gli effetti del Buon Governo in campagna”, di Ambrogio Lorenzetti, nel Palazzo Pubblico di Siena (1338-1339). Riafiorano così, nelle opere attuali di G. Limoni, messe in evidenza, quasi alla ribalta visiva, la conquistata prospetticità del paesaggio urbano e naturalistico di Masaccio nella Cappella Brancacci (1424-1428), gli accesi e taglienti cromatismi della “Deposizione” del Beato Angelico (1433-1440), le astratte monumentalità delle “Battaglie di San Romano” di Paolo Uccello (1438), le proliferazioni-sovrapposizioni spaziali di Benozzo Gozzoli, nella “Cappella dei Magi”, nel Palazzo Medici Riccardi a Firenze (1459-1461), le due anime del paesaggio che si confrontano nella “Crociissione” di Antonello Da Messina, oggi a Sibiu in Romania, quella landro-borgognona e quella italo-provenzale, la vertigine della vorticosa dinamicità degli scenari naturalistici della “Orazione nell’orto” di Andrea Mantegna (1455) o delle Predelle del Polittico di San Zeno, sino alla “pittura tenue” dei levigati fondali della Camera degli sposi nel Palazzo Ducale di Mantova (1465-1474), le belliniane aperture sul paesaggio a perdita d’occhio, la visionarietà degli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara (1467-1470) di Francesco Del Cossa, la costruzione-deinizione dei volumi, attraverso la luce, di Piero della Francesca nel ciclo della “Leggenda della Vera Croce”, nella chiesa di San Francesco ad Arezzo (1452-1476), il recupero della dimensione archeologica 8 dell’ultimo Botticelli inine, il naturalismo concitato e trasigurato di Filippino Lippi e la icasticità di Domenico Ghirlandaio. Potremmo continuare con il “Cavaliere Thyssen” di Vittore Carpaccio (1510) e i suoi teleri narrativi, tra immaginario e reale, per San Giorgio degli Schiavoni, le storie di S.Orsola o il ciclo per la scuola di Santo Stefano, ma, più in generale, il tonalismo veneziano dal Giorgione della “Tempesta” a Tiziano e Veronese, o le inquietudini dei grandi artisti romani del ’500, così come il manierismo visionario o più devozionale poi, non possono certo essere assunti da G. Limoni come momenti di riferimento per il loro eccesso di simbolismo, di misticismo e di didascalicità. Bisogna giungere così alla più propriamente deinita pittura di paesaggio che, come categoria a sé stante prende avvio nel Seicento, per rileggere complessivamente il rapporto di G.Limoni con questo tema. E il rapporto non può allora che istituirsi con le sei opere su rame (1605-1608) della collezione farnesiana attribuite, con vicende alterne, ad Adam Elsheimer e poi, da Roberto Longhi e da Anna Ottani Cavina, a Carlo Saraceni, per l’insistito ricorso ad una composizione asimmetrica in cui l’ampiezza delle scene viene riuniicata e circoscritta attraverso la luminosità atmosferica, naturalmente a prescindere dalle presenze mitologiche dalle Metamorfosi di Ovidio di Arianna e di Dedalo. Ed è proprio sull’evoluzione dell’idea di “natura”, per tutto l’arco del Seicento, che ci sembra di poter riscontrare una speciicità nei riferimenti classici di Giancarlo Limoni. Dopo i raggiungimenti di Annibale Carracci e di Domenico Zampieri (Domenichino) in ambito romano e i paesaggi classici e di storia che faranno da scenario per azioni eroiche alle opere di Nicolas Poussin, o le classicità degli scorci marini di Claude Gellée le Lorrain, irrorate dalla potenza della luce come unico tema fondante delle sue opere, a metà del Seicento, la campagna romana diventerà la vera protagonista, e non solo in Poussin, si pensi a Herman van Swanevelt o al “Maestro della betulla”, con i boschi, le macchie, le rocce boscose e le acque, con quegli sfondi azzurri permeati dalla mediterraneità, che renderanno quelle opere oggetto di culto per i viaggiatori e gli artisti nordici, se non l’occasione di veri e propri souvenir da riportare nei propri paesi d’origine con una continuità che arriverà ino al Settecento. Ma è nella contrapposizione tra sublime e pittoresco, tra Alexander e John Robert Cozens e John Constable, che G. Limoni troverà ulteriore linfa per la propria idea di paesaggio corrusco e pieno di presagi, quasi a rassodare gli effetti pulviscolari della lezione appresa da Antoine Watteau e Jean-Baptiste Chardin. L’immersione nella dimensione più europea consente a G. Limoni di declinare poi le proprie propensioni solari, aperte se non propriamente mediterranee, alle scoscese verticalità del paesaggio nordico, al suo frastagliamento e alla forza della sua prorompente immagine. L’incontro di queste due anime così diverse del paesaggio, permette all’artista di aprirsi ad un confronto ulteriore tra cultura orientale e cultura occidentale sino a far intervenire ulteriori temi come l’idea di conine, di limite, di demarcazione, con memorie che spaziano dalla geograia al cinema, dalla letteratura alla poesia, come ci ricorda Piero Zanini nei suoi “Contorni delle cose” o nei “Signiicati del conine”. Già Claudio Magris aveva segnalato che i conini “muoiono e risorgono, si spostano, si cancellano e riappaiono inaspettati, segnano l’esperienza, il linguaggio e lo spazio... l’ io con la pluralità dei suoi frammenti e le loro faticose ricomposizioni... il pensiero con le sue mappe dell’ordine”. Sempre oscillando tra massima apertura alare nei confronti dei luoghi e dei paesaggi e messa a fuoco di ambiti più ristretti, ma sempre ricercando quella che James Hillman ha deinito “L’anima dei luoghi”, G. Limoni sembra guardare all’archeologia del paesaggio stesso, al suo silenzio, al suo darsi come teatro, come sosteneva Eugenio Turri, geografo, quasi con la medesima vocazione antropologica per scoprirne scientiicamente la stessa “ragione”. Ma proprio questa ragione lo porta alla scoperta di un non paesaggio, come nella prosa di Andrea Zanzotto, dove “alla paciicazione della quiete goduta nel paesaggio-riparo subentra spesso l’ansia dell’inafferrabile, causata dal senso di un grande vuoto originario” (Matteo Giancotti), quasi per entrambi, per l’artista e per il poeta, il ilo conduttore fosse l’Heidegger alla ricerca del vero luogo della poesia di Georg Trakl intravisto nella dipartenza, nello sradicamento. Ecco allora in G. Limoni farsi prepotente l’idea di Yves Bonnefoy sull’assunzione del luogo e l’idea di Georg Simmel nella sua “Filosoia del paesaggio” secondo cui lo stesso paesaggio “esiste solo grazie a un processo spirituale capace di riuniicare gli aspetti della realtà in una visione che, attraverso la parzialità, presagisce il tutto”. I dati oggettivi che hanno sempre caratterizzato il paesaggio sembrano così ormai trasmigrati dalla realtà a un’altra dimensione mentale, onirica, postuma, e all’artista non resta che individuare allora altri sguardi, e percorrerli in maniera 9 rabdomantica, girovaga e inquieta, quasi costringendosi ad allontanarsene mentalmente per poi forse ritornarvi. Il suo è un costruire approcci differenziati nel tempo ma sempre ritornanti come veri “circoli nel capire”, come capitava a Hermann Hesse nell’accostarsi a Venezia e alla sua laguna, con l’unico approccio possibile, che non può che essere dal basso, quasi a segnalare la necessaria partecipazione rasoterra alla vita della natura. Ancora ripensando ad A. Zanzoto allora potremmo parlare di “acque che si rialzano e si ritirano, apparvero e disparvero, memorie che guidano verso i tempi primordiali... dove tutto oscilla tutto si stabilizza, e sintetizza nell’oscillare, si succedono gli strati archeologici, le forme di civiltà... e il tempo si fa visibile, inine, di ora in ora nel gioco delle maree e dei colori”. Si chiarisce così l’enigma della laguna: “una luidità di sostanze variatissime, in una serie di igure topologiche e di frattalizzazioni... che gli conferiscono una dimensione febbrile e pur calma, capace di farci palpitare con i suoi colori mentre, aprendosi a quelli del mare fa intravedere un’autentica miriade di possibilità in tutti i campi di immaginazione... dove tutto un tessuto di ine razionalità s’interseca all’incontrollabile luidità del caotico tema ondoso”. Parallelamente assistiamo, nei paesaggi di G. Limoni, a quel capovolgimento di situazioni, di mutamento continuo, di metamorfosi eterna come estremo lascito di un altro grande scrittore come Goffredo Parise. G. Limoni sembra guardare allo smisuratamente grande e incontrollabile, per coinvolgere, nei suoi scenari privi tuttavia di tracce umane, la stessa fenomenologia dell’esperienza e dell’esistenza. Attraverso la sequenza dei suoi “paesaggi”, sembra volerci restituire la “geograia umana”, secondo l’indicazione di Franco Farinelli, di quegli spazi intesi come prima forma della presa di possesso del pensiero occidentale, dalla “sapienza greca” in poi, e proprio perciò “spazio” e “tempo”, così vistosamente sottendono la sua rilettura, con delle coordinate che sembrerebbero inadatte a spiegare meccanismi, funzionamento e immagine di luoghi tra oriente e occidente “connessi globalmente e disconnessi localmente, isicamente e socialmente” secondo la deinizione, estesa a diverse realtà, di Manuel Castells. Attraverso le sue restituzioni, l’artista tende a rideinire la natura dei principali modelli di rilettura dei luoghi, prima mediante una vera e propria mappatura dei diversi episodi del paesaggio, i differenti soggetti, momenti e luoghi diversi, lo spazio inine, con le sue sfaccettature e qualità igurative. Ma è attento altresì a quegli spazi ibridi che mettono in scena il racconto ordinario del passaggio esistenziale di tutti i giorni, per una narrazione del “polverio” dei fatti di apparente poco conto, attento a scrutare il tempo accelerato del presente che col passato intrattiene rapporti sempre più esili e fragili, poiché proprio sul rapporto tra memoria e storia l’autore sembra concentrarsi, attraverso le immagini materiali della vita che trascorre nel tempo quasi a scongiurare, mediante il linguaggio visivo delle cose stesse, la caduta della percezione del passato. E come suggerisce Antonella Tarpino, G. Limoni insinua nei suoi sguardi sulle presenze “estranee”, come la storia debba aprirsi un varco per dialogare con la memoria, con quel grumo di passato trattenuto negli orizzonti pietriicati, nelle ribalte di frangilutti, ma anche nelle sue immagini più tormentate e scompaginate dallo scatenamento della natura. Ma se storia e memoria appaiono racconti del passato tra loro incompatibili, quando si stempera la tradizione e inisce la memoria ha inizio la storia. Le opere di G. Limoni sembrano delineare una sorta di dualismo tra storia e memoria nella loro irriducibilità, proprio perché la stessa attraversa e raccorda le fasi del tempo mentre la storia tende a separarle ordinandole, al punto che l’autore sembra presentarsi contemporaneamente “debitore nei confronti della memoria che scorre al di sotto della coscienza storica, o degli stessi sentimenti del passato, ma in pari tempo, a sua volta, mediante gli esiti del proprio lavoro, a formarla”. In questo modo, G. Limoni tende a riscoprire che anche i luoghi e i paesaggi hanno un’anima, così come sostiene Orhan Pamuk a proposito di Istanbul, di cui evidenzia, guardando i panorami in successione senza ine, il suo sembrare “ininita e senza centro”, ma in realtà non è mai un luogo anonimo, un marasma di sovrapposizioni dove le persone vivono separate, ma, al contrario, “un arcipelago di quartieri dove tutto è familiare”. Ecco allora che G. Limoni, guardando a quei concetti così ben ripercorsi da Paolo Perulli di centro, di circolarità, di bordi, di zone, di vuoti, di rovine e inine di intrecci apparentemente inestricabili, sembra evitare la sottolineatura di una realtà intesa in senso post-moderno che salta a piè pari il tema del fondamento, della razionalità e delle connessioni, solo protesa a disseminare oggetti come avanzi residuali, così poco attenta al tessuto connettivo che solo offre e garantisce signiicati e direzioni al nostro agire, al nostro muoverci nei luoghi. Attraverso le sue 10 opere G. Limoni sembra rovesciare l’idea che la forma dei luoghi non esiste in quanto la realtà è in movimento e che il “mobile” non sia afferrabile dalla scienza, ma solo la mobilità lo sia, quasi a evidenziare i luoghi intesi come corpo vivente in quanto perenne successione di immagini, secondo un meccanismo cinematograico del pensiero. Il corpo della pittura Il percorso artistico di Giancarlo Limoni è segnato da una stringente continuità nel suo modo di far pittura, nelle tecniche adottate, nelle atmosfere da lui evocate, da oltre trent’anni, nonostante l’apparente discontinuità delle opere degli anni più recenti dove il naturalismo sembra cedere il passo ad una più corrosiva e disincantata attenzione al paesaggio. Ma soprattutto, e non sembri paradossale, la sua aderente attenzione al reale riesce a trasigurarsi da pura rappresentazione in una più allusiva folgorazione che allude soltanto al reale, che rimane così in iligrana, quasi memoria sotterranea, come pura intuizione e intenzionalità attraverso i rimandi dei suoi colori, delle sue tonalità, delle sue linee forza. Il suo vitalistico rapporto con la pittura è sotteso dal tentativo di portare alla luce e dare sostanza corporea all’invisibile ed in questo corpo a corpo non si limita all’epifania della natura ma, attraverso la scomposizione degli elementi e della luce che li investe, tende a sondare la loro stessa struttura più intima. Ma l’apparente attenzione scientiica ai dati reali è contraddetta dalla sua costante capacità di “alterare” il tutto per perseguire ciò che più lo attrae, ovvero l’affermazione di quell’universo fantastico che lui si è precostituito, dove la realtà è piegata a restituire emozioni ma anche a ribadire la propria sopravvivenza, sia pur come semplice parte di realtà. È signiicativo a tal proposito il breve racconto di Fabio Sargentini, ricordato in esergo di un catalogo dedicato a G. Limoni per una mostra dell’85, in cui lo stesso artista, in una serata caratterizzata da un cielo plumbeo e piovigginoso, vedendo le insegne luminose che si duplicavano sul selciato, esclamasse: «sembra di stare a Parigi», anche se lui, a Parigi, non c’era mai stato. Ed è la costruzione di questo mondo “parallelo” che l’artista intende perseguire da sempre, in dai suoi esordi artistici, interpretando il proprio lavoro come un lento e inesorabile gioco di pazienza in cui temperare opposte polarità, la componente dell’azione come espressione di una urgenza e di una vitalità dificilmente contenibile, come si era visto nel suo lavoro “in diretta” in Extemporanea, da Sargentini nell’84, e, parallelamente, il lento dosaggio di luci, trasparenze e tonalità, anche opposte tra loro, ma sempre mantenute sul ilo di instabili equilibri. Anche il suo stesso modo di intendere il mestiere è allora forzato, proprio nella tecnica pittorica, a confrontarsi con questa duplicità, procedimenti veloci, con vertiginosi accenni di pennellate ma anche interventi diretti sulla tela senza ricorrere al pennello, diluizioni e silacciamenti del suo tocco ma nello stesso tempo “ferite”, sgocciolature, e distese velature disponibili ad accogliere un brulicante turbinio di segni. La luce può allora essere impiegata dall’artista per corrompere e snaturare il colore o può concentrarsi in ilamenti e farsi essa stessa soggetto visionario per restituire l’idea di un universo frantumato, ridotto a puro brulichio di segni che si intrecciano, si sovrappongono e si allontanano in un campo gravitazionale, attratti e respinti da sotterranee forze magnetiche. È allora del tutto evidente come per G. Limoni il fare pittura non possa che contemplare le diverse anime della pittura stessa, la continuità della tradizione e la forza prorompente delle avanguardie storiche. Il suo aurorale accostamento alle “diluizioni” dell’ultimo Claude Monet, con quei tocchi rapidi di pennello che in una folgorazione assorbivano e restituivano come nuove e diverse tracce la materia trasformata in pura memoria o l’intimismo di Pierre Bonnard con quella pittura di luce protesa all’immaterialità così come le spettrali “sopravvivenze” larvali di Jean Fautrier, possono trovare sorprendente sintonia con gli azzardi igurativi delle ricomposizioni per attrazione e repulsione dei singoli elementi dei “Proun” di El Lissitzky. La stessa disseminazione di segni permette a G. Limoni di concepire le proprie opere all’insegna di una spazialità fatta di sovrapposizioni, di diversi punti di fuga, tesi a restituire una dimensione policentrica dell’opera intesa, secondo la deinizione di Achille Bonito Oliva, come “spazio delle possibili relazioni, teatro mobile di intrecci che non ha conini stabilizzati ma aperti e mutevoli”. Era quanto si poteva cogliere nella vertigine delle sciabolate segniche, negli spazi frammentati e frantumati degli iniziali ininiti atomi di pittura, in quella lucreziana visione del mondo di particelle di materia indivisibile che 11 G. Limoni evidenziava con il suo ricorso alle diverse tensioni cromatiche e materiche ora più dense, ora più rarefatte. Ma è quanto ancora oggi è possibile cogliere nella apparente frontalità dell’immagine dove la messa a fuoco più ravvicinata, se sembra costringerci ad una immersione più diretta in quella parziale visione di mondo, in realtà ci riconduce in una sospensione proprio al limite, alla soglia, quasi non dovessimo attraversare quegli equilibri instabili della materia, per non turbare la precarietà dell’apparizione. Paesaggi “Paesaggi” è il titolo della mostra più recente ed anche la sequenza delle opere che aprono questo volume dedicato a Giancarlo Limoni, teso a ripercorrere i tanti anni di sodalizio tra l’artista e la A.A.M. Architettura Arte Moderna. La mostra affronta il tema unitario del paesaggio che per l’artista è centrale nella sua produzione più recente, ma che, in dagli anni ’80, ha comunque costituito il riferimento ideale per i suoi lavori più naturalistici. La selezione di oltre cinquanta opere, olii su tela di grande formato con gli oltre trenta grandi acquarelli e i piccoli bozzetti preparatori, rappresentano l’intera articolazione del ciclo. “Paesaggi” prende avvio, non casualmente, con una serie di lavori che si pongono come “limite”, come “soglia”. In queste opere lo sguardo dall’alto dell’artista trasforma “Nel blu il paesaggio” o “Sentinelle” in vere e proprie ouvertures, in cui la pittura si fa più rarefatta, per un processo di sottrazione cromatica e materica che caratterizza la più recente ricerca dell’artista. La frontalità e la visione dall’alto sono l’antecedente di quel cospicuo numero di opere “A perdita d’occhio”, come “Paesaggio con terra rossa”, 2010, o, “Paesaggio viola”, 2011, che sul tema del “frastagliamento”, della “mineralizzazione” dei luoghi e dei suoli, tendono a dare corpo e sostanza allo Sturm und Drang (Tempesta e impeto) dei turbinii turneriani di “Marina verde”, 2009, e “Marina del nord”, 2010. Solo dopo essersi confrontato con la diversità degli sguardi e avere sondato i limiti della visione stessa, G. Limoni approda così all’apparente sospensione, alla trepidante serenità, nelle distese riappaciicanti di opere come “Marina con cielo giallo”, 2013, e di altre declinate sullo stesso tema. Ma sembra poi ritrarsi immediatamente, quasi rifuggendone, sorprendendosi addirittura della propria ritrovata “atarassia” democritea, per rimettersi in discussione con il ritrovato piacere della vertigine e dell’instabilità che più gli è congeniale, come in “Cieli gialli”, e in “Cieli rossi”, 2013, e in altre opere analoghe. Sarà proprio da queste allusioni allo sprofondamento negli abissi che l’artista, con nuove ritrovate energie, con rinnovati colpi d’ala e d’azzardo, potrà di nuovo librarsi in volo “a riveder le stelle”. Questa sorta di “punto e a capo” nell’itinerario artistico di G. Limoni era stato preannunciato nel 2007 da due straordinarie opere, “Paesaggio sommerso” e “Tentativo di paesaggio”, rimaste in “ombra” nello studio dell’artista, concentrato in quegli anni nella preparazione del ciclo “Non ho tempo (Je n’ai pas le temp)” / “Lezione di tenebre: opere dal nero”, presentato alla A.A.M. Architettura Arte Moderna nell’ottobre 2009. Quei due lavori “segreti” di G. Limoni, lasciavano afiorare alcuni elementi di paesaggio, al di sopra di una concitata naturalistica eccitazione cromatica, esibita in primo piano, come vera e propria ribalta, messa in scena di una scompigliata siepe, scossa da una sorta di “vento barocco”, protesa a occultare e, nello stesso tempo, rivelare l’orizzonte oltre se stessa. Sicuramente quelle due opere rappresentavano la volontà dell’artista di liberarsi dal rigore ascetico del ciclo “opere dal nero”, dalle costrizioni di fare del suo lavoro una pura apparizione che riemergeva dai fondi bituminosi di quel preciso momento del suo percorso artistico. È stato proprio a partire da questi elementi che insieme abbiamo individuato quello che sarebbe diventato il nucleo tematico e il nodo problematico da affrontare come successivo impegno artistico per la mostra attuale. È dalle osservazioni sulle due opere sopra indicate, che con l’artista abbiamo ritenuto di aver intravisto una nuova avventura da affrontare insieme. Sono nati così i sei piccoli “studi” del 2008 realizzati da G. Limoni come incipit della nuova “storia”. In questi bozzetti l’artista, rinunciando alla sontuosità materica che l’aveva sempre caratterizzato, sembrava concentrarsi su una circoscritta messa a fuoco di dettagli, di frammenti di paesaggio, di grumi materici, tra esplosioni magmatiche, liquide dispersioni-diluizioni e improvvise apparizioni di orizzonti, prima instabili e poi sempre più deiniti. 12 In questo modus operandi intendiamo rivendicare la speciicità della funzione di A.A.M. Architettura Arte Moderna con la sua intenzionalità progettuale che fa del lavoro maieutico con gli artisti, della condivisione e della individuazione dei percorsi, all’interno dell’intero Sistema dell’Arte, dall’Architettura al Design, dall’Arte Contemporanea alla Fotograia, un punto di forza e di riferimento, senza rischi o pretese di sovrapposizioni autoriali rispetto all’autonomia dei singoli artisti e, tanto meno, senza presunzioni di farci percepire come “suggeritori” di repentine e provvidenziali “folgorazioni” sulla via di Damasco. Il racconto che si snoda attraverso la mostra e il relativo catalogo è anche la storia di un’intesa più stretta tra l’artista e la A.A.M. Il volume riassume e riprende i cicli realizzati dall’artista nelle quattro mostre personali a lui dedicate da A.A.M. nel corso degli anni, teso a ricostruire il senso di un percorso condiviso. In questo parallelismo di intenti, come già chiarito, non si intende evidenziare nessuna “intromissione” nel lavoro dell’artista, ma solo le reciproche “sollecitazioni” e i “rimandi” tra l’artista e la committenza. Un viaggio che ci ha visti uniti nel passaggio dalle tracce, dai lacerti di pittura delagrata in cui le memorie di “Scuola romana” si sono sapientemente intrecciate con le “diluizioni” e le “espansioni” di Emil Nolde, via via alla scoperta dell’Oriente, agli inabissamenti e ai riafioramenti delle “opere dal nero”, agli attuali approdi su spiagge e paesaggi scarniicati da “Terra desolata” (The Waste Land) di Thomas Stearns Eliot. La mostra e il volume rendono inoltre “pubblici”, per la prima volta, il controcanto privato di Giancarlo Limoni rappresentato dai diversi “taccuini di viaggio”, come momento di rilessione sul delicato passaggio, dal particolare all’universale, dal microcosmo al macrocosmo. La pittura come pura “apparizione” «Seguo la natura senza poterla afferrare; questo iume scende, risale, un giorno verde, poi giallo, oggi pomeriggio asciutto e domani sarà un torrente», Claude Monet. Le opere di Giancarlo Limoni si impongono all’attenzione critica sin dalla ine degli anni Settanta, ma trovano più autorevole deinizione nelle “novità” igurative riscontrabili nelle sue mostre a L’Attico. Allora, come ancora oggi nei suoi lavori, la natura-innaturale dell’artista è uno sviluppo di tratti ibrosi, irrequieti che si distendono sulle tele e che spesso si rendono meno addensati verso il nucleo dell’opera, verso il centro del quadro, quasi per trattenerci lì, in quel preciso luogo abbandonandoci all’illusione di poter passare attraverso il iltro di giardini segreti. Le tele sembrano essere pervase da un’inquietudine che è divenuta un manto di colore addensato e sfarzoso, quasi sempre sazio di colmare un horror vacui intransitabile il cui oltre pare inammissibile. I loreali limiti dell’artista passano trasversalmente attraverso le antiche corposità della pittura romana da quella pompeiana, a quella seicentesca, a quella più vicina a noi della scuola romana degli anni Trenta, sino al Mario Mafai estremo, posizionandosi all’interno di un una scelta cromatica intensa e profonda che diventa anche un tentativo costante di “spostamento” con l’intento di trovare in maniera personalissima una condizione “romana” alla sua pittura senza certo cadute localistiche. Il percorso di G. Limoni ci consegna una straordinaria e costante applicazione nella volontà di penetrare nel colore, un intenso interesse cromatico stabilito su una base di tonalità raggianti nelle rapide pennellate dell’artista, così come sono costanti le sue attenzioni nell’osservazione della natura eternamente soggetto delle sue ricerche. Ma la natura per G. Limoni è anche la continua evocazione di una profondità raggiunta senza dispersioni e senza apprensioni apparenti; anche se l’inquietudine è presente dietro i iori e rappresenta, in ogni modo, un’appartata, una nascosta qualità dell’artista. Queste personali tensioni confortano l’impegno dell’artista a rendere tangibili opere impregnate di luminosità che diviene la fondamentale caratteristica di uno stile. La vorticosità del segno in molte opere rappresenta la conidenza di G. Limoni con i propri strumenti, dimestichezza con i mezzi dell’arte sempre perseguiti anche in momenti in cui la rarefazione ideologica dell’avanguardia, soprattutto in ambito romano, ha turbato e depistato molti talenti. Anche la formazione dell’artista ha dovuto confrontarsi con le incongruenze delle tradizioni di nuovo attente alle speciicità della pittura, ma nel caso di G. Limoni l’assenza di una evidente scuola di appartenenza, di un facile punto di rimando su cui proporzionare e a cui rimandare il proprio gesto artistico gli ha 13 permesso il raggiungimento di una straordinaria e solitaria testimonianza pittorica. L’originale certezza delle opere di G. Limoni è basata sulla sua disponibilità ad alternare il suo scommettere su se stesso cercando sempre di scoprire con simile, ma mai uguale ispirazione, la continua invariabilità dei suoi “Luoghi segreti”. Con queste certezze/necessità gli spazi delle tele di G.Limoni si sono disposti, secondo un criterio prima complesso e immaginario, in lussi lineari di sostanza cromatica, poi si sono convertiti in mura di colore spesse e sontuose. Una simile evoluzione di ispessimento della vacuità, di condensamento del campo, che limita i conini esterni delle igure ino a farle coincidere con esse, inevitabilmente ci riconsegna alle immagini di Jackson Pollock. Ma tutto, come già anticipato, sembra essere molto distante dall’Astrattismo statunitense, come sembrano lontani, nella sua poetica i riferimenti ad opere o ad artisti della sua stessa generazione, mentre appare sempre più chiaro e pertinente l’avvicinamento elettivo della pittura dell’artista con le opere di Claude Monet e le luminosità pittoriche di Turner. Nelle opere di G. Limoni persino lo spazio si riempie della intensità del colore. Il tempo, lo spazio e la comprensione sono conini aggrovigliati, ma quello che maggiormente si evidenzia nella sua pittura è proprio questa capacità di muoversi nello stesso modo e nello stesso tempo con un atteggiamento minuzioso ed irruente sulla supericie del quadro. La natura, intesa come organismo vivente della realtà che l’artista costituisce, sembra quindi fatta convergere in tensioni cromatiche che discioglie in luminosità ma tali tensioni sono anche i sintomi di un complesso sviluppo artistico che manifesta in ogni momento la singolarità del proprio stile. L’armonia impetuosa della pennellata e la vistosa gamma di colori di G. Limoni si carica nel suo itinerario artistico, sin dagli anni Ottanta e raggiunge una conclusione ideologica negli anni Novanta dove si apre invece ad una più puntuale ricerca verso nuovi sottili ornamenti concepiti come “lacrimazioni”, ingentiliti da nivei strati di colore. Il segno dell’artista diviene più inconsistente, meno animoso, l’esito è una giovinezza del tratto che diventa più accondiscendente, una spontaneità più tranquilla, una sicurezza quindi che viene sentita come anima di una coscienza, di una nuova capacità di emozionarsi artisticamente. Nelle opere più attuali poi diviene costante l’impegno da parte dell’artista ad identiicare colore e natura, igura e forma e di cogliere, attimo per attimo, la realtà. Lo spazio va quasi ordinandosi e, tramite un esercizio nuovo e libero del colore, G. Limoni cerca di suggerirci non più solo il senso del gesto, il risultato non era scontato, ma l’esito è ormai raggiunto: forma e colore diventano, in queste opere, una cosa sola. Certo i lavori più recenti dell’artista hanno subito una sorta di coup de fouet un vero colpo di frusta che non può che rinviare ai “ciclamini” di Hermann Obrist secondo un percorso che va da William Blake a William Morris per stemperarsi nelle “liquidità” naturalistiche di Charles Rennie Mackintosh. Certo permane anche in questa fase del lavoro dell’artista la issazione-ossesione per il tutto pieno come se un sipario o comunque una siepe ci costringessero a permanere con lo sguardo sull’opera per scoprire sempre ulteriori dettagli in una sorta di caleidoscopico blow up. Ma questo evidenziato horror et amor vacui cede ora ad alcuni momenti di più diluita rarefazione: un vento barocco scompiglia come l’angelo di Walter Benjamin qualsiasi tentativo di issità. Se ino alla ine del millennio il permanere nelle opere di G.Limoni di alti orizzonti, di intravisti paesaggi che si facevano barriera tra cui comunque spuntava qualche sia pur parziale indicazione di “fondi”, alludeva ad una ricercata sospensione del tempo, in una sorta di limbo, ora, sempre più frequenti delagrazioni e vorticose dinamicizzazioni alludono ad una precisa volontà di espressionistica deformazione del tutto. Ora i “iori” di G. Limoni scendono sempre più spesso dall’alto oppure sono esibiti in una condizione di veduta zenitale dall’alto in cui comunque la composizione e la disposizione tendono ad arrivare ai limiti isici dell’opera ma, sempre, si insinua uno scompigliamento barocco ad aprire veri e propri “goli mistici”con veloci gestualità nell’estensione della materia pittorica che crea con la sua furia dapprima leggere increspature della supericie per poi giungere ad effervescenze di eruzioni magmatiche. Solo certe issità da “esercito di terracotta dissotterrato” in cui sembrano disporsi certe sue composizioni recenti resistono apparentemente a questa nuova ondata di tensioni messe in atto dall’artista. Interviene allora un certo cangiantismo che rimanda a Federico Barocci e a Domenico Beccafumi per stemperare ogni issità sino al raggiungimento di un vero e proprio sovvertimento di ogni stato di quiete, attraverso riverberi cromatici, quasi onde di propagazione del colore come in Odilon Redon. Ma come suggerivo, il nuovo corso dell’itinerario poetico di G. Limoni pare dispiegarsi a partire dal ruolo ascritto alla linea nella sua 14 capacità di farsi struttura secondo un percorso che va da Henry Van de Velde sino alla dimensione teorica di “Line and form” di Walter Crane. Tutto però corroborato da un continuo calarsi nella matericità declinata nelle sue più diverse espressioni in cui G. Limoni non esita a confrontarsi con la dinamica ottica legata alla trasformazione delle spirali e del cerchio di Franz Kupka, ai vortici inarrestabili degli “studi per gli stati d’animo” di Umberto Boccioni, alla matericità bituminosa e vorticante di David Burliuk, alle “planetarie” estensioni di Wassili Kandinsky, giù sino alla gestualità frenetica di Jackson Pollock e a quella pluridirezionata di Emilio Vedova. Ma su tutti si erge per l’artista la laconicità, l’ineffabilità degli alberi di Piet Mondrian che con la loro spettralità di pure larve afioranti dal fondo sembrano indicare la strada più afine all’attuale ricerca di G. Limoni in cui il far pittura con l’alternanza di densità e di diluizione della materia riconduce l’opera nella condizione di fulminante e sfuggente pura apparizione. Le poetiche cantilene del colore L’estenuante corpo a corpo con la natura che Giancarlo Limoni ha ingaggiato per oltre trent’anni con alterni momenti di sibrante tensione e di più pacate e ampie stesure, che l’hanno comunque sempre consacrato come superbo dominatore della stessa, velato pur sempre da più intimisti e pacati sentimenti cosmici, sembra ora stemperarsi in più rarefatte e sottili schermaglie, veri e propri colpi di ioretto, tra gestualità, segno e scrittura, inine, tra corpo e mente, tra ragione e sentimento. Anche ora tuttavia la materia rimane per l’artista l’universo di riferimento primario, proprio per la sua capacità d’imprimervi quelle folgoranti trasmutazioni alchemiche, sia quando l’artista, lavorando sui minimi spessori, sulla quasi assenza di materia, approdava ad aspri sudari fatti di pure striature luministiche, inquietanti nel loro cinereo cangiantismo, nella loro stringata asciuttezza, nella loro laconica esattezza montaliana, sia quando, l’artista, con orgiastica esuberanza giungeva a magmatiche accensioni, vere e proprie esplosioni che si sedimentavano soltanto rapprendendosi come acquietate colate laviche. Ma si tratta ormai di una materia senza più segreti, che non va nemmeno sollecitata, pensata o indagata, tanto l’artista ne conosce e ne controlla ogni esito prevedibile. Ora G. Limoni può limitarsi pertanto a evocarla, a metterla comunque in gioco ma relegandola a ruolo di più muta presenza poiché oggi ciò a cui sembra mirare l’artista è il superiore distacco in nome di un ricercato equilibrio tra segno e scrittura, tra ordine e disordine, tra la regola e il caso: come lo scriba del caos si limita a contemplare l’improvvisa e imprevista bellezza sino al misurato ricomporsi dell’ordine infranto. Quella stessa improvvisa bellezza che sembra scaturire da certi versi cantilenanti, intrecciati e così carichi di rimandi di alcuni versi di Toti Scialoja, penso in particolare, citando a memoria, a quell’impareggiabile aggrovigliarsi “di gatti intensi di giorno e... immensi di notte, quando si riempie di pelo quel che pensi...”. Ebbene la stessa primordialità d’immagine, di materia e di pensiero si rovesciano sino a dissolversi in una parallela fantasmagoria di mondi altri, in una visionarietà da quotidiano trasigurato, troppo prossimo a noi per non essere decifrabile, troppo folgorante per essere riconoscibile. L’elemento di novità cui più frequentemente G. Limoni ricorre è una sorta di linea forza, che intrecciandosi, reiterandosi, costruisce una vera e propria ragnatela visiva entro cui si strutturano e si fanno largo le singole delagrazioni. Vere e proprie sciabolate cromatiche, le stesse linee, come “grafi d’amore”, irrealisticamente quasi materia asportata, tendono a comporsi in complesse strutture reticolari quasi reminiscenza di strutture zoomorfe o itomorfe per poi annullarsi in pure evoluzioni librate nell’aria. Ma si pone a questo punto il problema di quella dualità che G. Limoni sembra recuperare tra forma e struttura, tra linea costruttiva e involucro che sin dall’Ottocento ha permeato la cultura artistica e quella architettonica e che attualmente vede gli azzardi contemporanei di quel progetto aereodinamico, fatto solo di lineeforza strutturali e portanti, che solo soisticati programmi computerizzati possono permettere, come nel progetto a “nido” per lo stadio di Pechino di Herzog & de Meuron. Ma ciò che interessa all’artista non è la perturbante bellezza della struttura con i suoi abbacinanti riverberi, quanto la sua capacità di porre ordine all’informe, il suo sapersi fare ordito per poi lasciarsi subito scompigliare ma riafiorando sempre in iligrana come vero ordine del discorso. Non più parole quindi in libertà ma più pacate accensioni che calibrano, volta per volta, il loro presentarsi alla ribalta visiva, il loro 15 indietreggiare sino al loro dissolversi nella magmaticità del fondo. Ma all’insistito andare “verso oriente” delle opere di G. Limoni degli ultimi anni, dall’India alla Cina, egli sembra ora contrapporre un ritorno più meditato ad una centralità romana del suo far pittura, colta nei suoi aspetti più universalistici. Non che già non fossero vivissimi, anche in anni lontani dell’itinerario artistico di G.Limoni, gli elementi di un substrato continuamente pervaso da memorie e riferimenti che andavano dagli affreschi romani, come già evidenziato, agli espressionistici e timbrici essiccamenti della pittura di Mario Mafai. Ma ora l’affondo si fa più accorto ed esoterico, puntando su una visionarietà da pirotecnia barocca, ma senza quella prevaricazione dei valori estetici sul tutto, senza quelle esuberanze spettacolari tese a mascherare i vertiginosi abissi del vuoto, quelli già da me indicati come “goli mistici” di assenza materica, quanto piuttosto ad evidenziare la complessità di pensiero in cui il dubbio è una condizione permanente. Non quindi un trionfo della inzione barocca come constatazione di una pervasiva ine dell’etica travolta dalle esasperazione scientiiche e tecnologiche anche nel sistema dell’arte, ma un ritrovato riappaesarsi dell’artista in un luogo come Roma còlto, come suggeriva trent’anni or sono Yves Bonnefoy, uno dei più grandi poeti francesi contemporanei, non nella sua accecante maestosità e monumentalità, ma come più diluito, rarefatto e disseminato Arrière-Pays, come persistente “entroterra”, con la sua capacità di rifrazione nell’arte, nei suoi sensi e nei suoi limiti, alla ricerca di quel punto in cui la realtà si fonde con l’immaginazione. Il tutto per giungere ad una poesia sottoforma di pittura in cui le parole si trasmutano nella pittura e le immagini si distendono come un affresco. “E questo frangersi è tuttavia il nostro immaginario, questo scivolare sulla cresta dell’onda l’incitamento, se non altro, al desiderio”. Ecco allora G. Limoni concentrarsi come nelle visionarie sequenze piranesiane con i loro apocalittici microcosmi su una ossessiva invocazione del senso dell’ininito ottenuto con una costante ambiguità dimensionale tra misura e dismisura, in cui tutto sembra ottenuto attraverso una vibrazione degli elementi nell’atmosfera. Tutto viene costruito sul frammento addirittura ricorrendo ad una composizione paratattica, come in un elenco in cui sono nominati i vari elementi di questo sistema gravitazionale che sembra fondarsi sull’araldica, come in Piranesi, anche se in Limoni attraverso il timbrico imporsi dei colori. L’immagine ultima di G. Limoni è dunque quella di una classicità su fondamento gotico: ma, come già aveva chiarito Heinrich Wölflin, il mondo nordico prolunga ed essenzializza i corpi e gli elementi, quello classico circoscrive attorno al proprio asse ed è quanto succede anche nel lavoro attuale dell’artista che sembra doversi rigenerare solo distruggendosi, delagrandosi. Ma, anzichè rimanere continuamente in bilico tra nostalgia winckelmanniana e la pura assenza di speranza piranesiana intesa come “melanconia”, G. Limoni sembra indicare, dopo Gottfried Wilhelm von Leibniz, dopo il dissidio tra tecnica ed arte, tra fare e inventare, una “inlessibile necessità” che solo la scoperta vichiana della meraviglia rende possibile, quasi a suggerire quel multiversum del mondo nella magniicenza e nella molteplicità. “Non ho tempo” / “Lezioni di tenebra: opere dal nero” A distanza di alcuni anni da una sua precedente personale tenutasi presso la stessa A.A.M., l’artista presenta, in seguito, una ventina di opere recenti di grande e medio formato (olii su tela) risultato degli ultimi anni di intenso e unitario lavoro, all’insegna di un duplice tema. Il primo, dal titolo “Non ho tempo” rappresenta una sorta di omaggio a Èvariste Galois, fondatore della moderna algebra astratta; romantico personaggio morto a soli vent’anni ed emblema di quanto troppo spesso la mediocrità trioni sulla genialità, il cui lavoro, anche quello terminale redatto prima dell’alba del giorno del duello, durante terribili ore di disperazione, “costituisce ancora uno spunto di rilessione e di ricerca per i matematici moderni”. Il secondo tema dal titolo “Lezioni di tenebra: opere dal nero”, costituisce invece un evidente riferimento a Roger Caillois, straordinario scrittore e saggista, che ha segnato, in dalle sue opere del 1938 la più attenta cultura internazionale e di cui vale la pena di ricordare almeno le superbe indicazioni a proposito del piacere dello scrivere in pura perdita come unico modo per scrivere liberamente (“Il iume Alfeo”, ’78), così come la deinizione della “ipertelia” quale sviluppo esagerato e sterile di alcuni organi, che porta all’esaurimento del senso a causa della crescita del segno. Ma le due anime del lavoro più sopra indicate trovano una loro straordinaria integrazione 16 che deriva non tanto e non solo dall’essere tutte le opere uniformate dal fondo nero e bituminoso, da cui sembrano sollevarsi i grumi di pittura più accesi cromaticamente come scoppi improvvisi di luce e materia, quanto, piuttosto, dalla paziente e stratiicata esecuzione delle opere stesse, quasi a scandire una successione temporale del lavoro che per successivi ispessimenti conduce all’epifania dell’opera stessa, a indicare che solo il tempo, l’intervallo, l’interruzione e poi la ripresa possono dar vita e senso ad un lavoro paziente e ostinato teso alla ricerca della propria stessa ragione di darsi e di offrirsi. Ma è un darsi inquietante quello che traspare da queste opere poiché immediata è la sensazione che tutte alludano alla possibilità di un prossimo e ravvicinato annullamento se non a un sottile equilibrio tra “Eros e Thanatos” come se dietro quelle lussureggianti e sontuose accensioni cromatiche si insinuasse prepotentemente l’idea della consunzione, l’idea della ine, l’idea della morte. Non è casuale che l’intero ciclo pittorico presentato in mostra cerchi una sorta di continuità con le radici della pittura più esistenziale, quella della seconda metà degli anni ’50 in cui più forte è avvertito l’equilibrio della tensione tra gli artisti il cui linguaggio si basava sull’emozione, sulla percezione di una possibile ine, sul disagio di vivere, legandosi a categorie espressive quali “segno”, “gesto” e “materia”. Ed è a questa precarietà esistenziale che Giancarlo Limoni sembra guardare durante l’evoluzione del proprio linguaggio poetico, quasi si fossero inseriti improvvisi e larvati timori in quel ritrovarsi di fronte a se stesso, senza giustiicazioni consolatorie, senza inalità o teleologie ascrivibili a qualcosa o a qualcuno al di fuori di Sé. Un modo, quello dell’artista, di rivendicare la propria solitudine e quella del singolo individuo di fronte alle scelte fondamentali della propria esistenza, ma nello stesso tempo ribadendo la propria centralità quando si riascrive la possibilità e la responsabilità delle proprie scelte, alludendo così ad una propria contraddittoria collocazione tra vocazione “umanista” e condizione “individualista”. Non si può che essere soli, insieme ad altre solitudini, a rivendicare il proprio essere uomo a dispetto del buio percepito su una sempre più avvertita disgregazione se non ine dell’umanità stessa. Ma tutto ciò non signiica affatto uno sguardo rivolto all’indietro da parte dell’artista, quanto piuttosto una precisa volontà di riannodare ili interrotti con una tradizione forse troppo in fretta consumata e liquidata, quasi a ricostruire un dialogo con quella pittura in cui il sentimento è sottile equilibrio tra opposte polarità come in Nicolas De Staël, cui G. Limoni sembra far riferimento, in quel suo riprendere l’idea di pittura al limite della dissoluzione, come unico modo per entrare in contatto con il mondo stesso, come se dipingere fosse un modo per manifestare la propria adesione al mondo stesso, ed esternare i propri desideri, con tesa partecipazione emotiva di cui ogni colpo di pennello è testimonianza, destinato a interrompersi bruscamente solo di fronte all’irrompere del tragico, dell’ignoto, dell’indecifrabile. Tra corpo e mente, tra ragione e sentimento Di Giancarlo Limoni vengono presentati, inine, una serie di acquarelli su carta che volutamente si discostano da qualsiasi tentativo di apparentamento dimensionale ma anche formale per darsi come esplosione di tesissima materia su supporti che con dificoltà li trattengono e li arginano. Se il dato di partenza è quello naturalistico, come spesso accade nella pittura di G. Limoni, certo in questa serie di lavori il naturalismo viene trasmutato alchemicamente in una forza dirompente e incontenibile ma che sa trovare nel proprio dispiegarsi una straordinaria forma di sospensione che traduce in un’aerea immaterialità quei grumi di colore, quegli ispessimenti, quelle stratiicazioni sempre protese ai più sorprendenti cangiantismi. La mostra “ON PAPER”, anche essa riproposta nel volume con le relative opere, si è andata conigurando come una sorta di radiograia della ricerca contemporanea in Italia se non un vero e proprio quadro dello stato dell’arte attuale, man mano ampliato in un continuo rigenerarsi di presenze. L’idea implicita nella mostra è stato quello di conigurare la A.A.M. Architettura Arte Moderna, almeno nelle occasioni del ciclo “ON PAPER”, come una sorta di luogo “carrefour”, luogo di incontro e di incrocio tra diversi saperi, tra diverse culture, in cui lo scambio possa ridare senso, magari anche cambiandolo, alle opere esposte. Alla conclusione dell’intero ciclo ci si accorgerà come la A.A.M. abbia mirato a ricomporre, nelle diverse tappe, una collettiva di ampio respiro: vi compariranno infatti molti artisti, anche molto diversi tra loro, ma tutti accomunati da una 17 ricercata qualità dell’opera, con cui si presenteranno al pubblico in una sorta di personale autoritratto che dia conto dell’idea di passaggio, di soglia, di relazione tra esterno ed interno, non solo isico ma interiore e che corrisponde sì, alla vicenda del nuovo corso della galleria ma anche al piano personale di ogni artista. “Microcosmi” quindi come luogo “in cui si intrecciano tutte le possibili dimensioni dell’esistenza” (Pier Paolo Pasolini). “Microcosmi” come rilessione sotto forma di opera, per citare Giorgio Manganelli, “come itinerario, deposito di immagini, catalogo di simboli, collage di sogni, paesaggi, interni di abitazione, appunti di disegni, accesi da una fosforescenza che sa di memoria, di visione”. Tra gli artisti e gli architetti invitati ad esporre, si sono confrontate generazioni diverse fra loro, linee differenti di ricerca, sino a dar vita ad uno spaccato sullo stato dell’Arte e dell’Architettura contemporanee in Italia. Nessun eccesso di attivazione in questo “ricercato” doppio registro espositivo della galleria, quanto piuttosto la sottolineatura di una ormai certiicata dificoltà nel “circoscrivere”, nel “raggelare”, nel proferire inine una parola come unica ed univoca. Una sorta di “stanchezza”, almeno per come la A.A.M. intende l’attività espositiva, per il già previsto, il già dato e consolidato che porta la galleria a privilegiare mostre, tranne quelle di taglio monograico, che tendono sempre più a conigurarsi come una sorta di trasmutazione alchemica, nella ricerca di sempre più vagheggiate “bellezze impreviste”, dove l’ibrido, il cangiante, il non facilmente codiicabile, diventano “valori” da difendere e coltivare, a dispetto del perbenismo sempre meno strisciante, anzi, sempre più imperante. La mostra tende pertanto poi, nel corso del tempo, a tramutarsi in altro, rispetto alle presenze iniziali, con l’avvicendamento di autori diversi, per cui si assisterà ad una vera e propria accelerazione visiva, se non ad un vero e proprio rovesciamento delle conigurazioni iniziali. C’è in questo “atteggiamento espositivo” una evidente denuncia di una paura, ma, nello stesso tempo, di un bisogno di non issare in un’ immagine immutabile, non solo il senso delle opere esposte, ma anche quello delle loro reciproche relazioni. Vere e proprie “apparizioni” andranno allora considerate le “dissonanti presenze”, nella loro diversità ricercata e sottolineata dalla mostra, con il loro provocatorio allestimento e accostamento, tutto centrato sulla sorpresa delle ricercate dissonanze formali, materiche e cronologiche, ma soprattutto poetiche, come pacata sequenza di fotogrammi, in cui tutti sembrano sottostare all’idea del “montaggio delle attrazioni diverse”. Opere di Giancarlo Limoni FG GROUP Headquarters Roma, via di Tor Pagnotta 94 Foto di Eleonora Flammini 18 Francesco Moschini Giancarlo Limoni’s artistic journey: an entire perceptive horizon Through painting and literature Having dedicated over thirty years to the measured, gradual but also inexorable and minutely detailed evolution of his own art, Giancarlo Limoni seems to have arrived at a definitive vision of his own journey, which has now become an impassioned dialogue between an alchemic transfiguration of the real and the abstraction of each element of his own figurative imagery. The results of his current experiments seem to point overwhelming towards a studied modernity, redolent almost of the heroic ambitions of American abstract expressionism coupled with the more keenly felt, intimate and geographically specific (in its very Mediterranean character), exaggerated and corrosive sunniness of Nicolas de Staël’s spiritual landscapes. And on a conceptual level in his more recent work there emerges a less romantic, harsher reflection on the universal conditions of existence, on our relationship with nature, with places and with their nature as pure spaces, residual and inhospitable – a presage not only of the falling away of all illusions but also of the collapse of any of those semblances of consolation which were, for so many years, characteristic of Limoni’s art. Yet his more recent paintings, despite their haunting dryness and the deliberate silence that in their total renunciation of any visible trace of the real world renders them almost “aniconic”, reveal how profoundly his work is imbued with the figurative culture (both western and oriental) of the history of art in its entirety, from that of the Rome of Augustus up to the present day. However, Limoni’s reference to American abstract art of the late 1940s and early 1950s is not to be found in the vivacity of an intention to move out beyond the limits of the canvas and explore new physical and spiritual territories, so much as in the deliberately measured classicism of his handling of colour, a colour which begins to acquire a mineral smoothness, the material clotted and congealed as though we were actually in the presence of polychrome bas-reliefs. Here then, in Limoni’s evident “sculpturalness”, there come into play all the narrative suggestions/vibrations carved into the breastplate of the statue of Augustus from the Villa of Livia at Prima Porta, or the dense “accumulations” of the Grimani reliefs –exaggerated in their “cool rigidity”, like all the sculpture of that period (at least according to Ranuccio Bianchi Bandinelli in his revaluation of classical art), as are all the forms of deliberate classicism in every “renaissance” from the rediscovered golden age of Augustus onwards. And moving on – swift as the passages may be – in the “stoniness” of Limoni’s current “horizons”, in the veritable clots of material, we cannot fail to notice something of the landscapes – dense as lava – of some of Giotto’s scenes in the upper church of the Basilica of St Francis in Assisi (1292-1296) or in the Scrovegni Chapel in Padua (13031305), the wide open spaces that form the backdrop against which Guidoriccio da Fogliano advances so intrepidly (1328), the rhythmic unfolding of the landscape in Ambrogio Lorenzetti’s “The Allegory of Good and Bad Government” at the Palazzo Pubblico in Sienna (1338-1339). And, highlighted, indeed almost centre-stage in Limoni’s current work, there re-emerges the perspective that Masaccio achieved in the urban and natural landscapes of his Brancacci Chapel frescoes (1424-1428); the sharp bright colours of Fra Angelico’s “Deposition from the Cross” (1433-1440); the abstract monumentality of Paolo Uccello’s “Battle of San Romano” (1438); the spatial proliferations and juxtapositions of Benozzo Gozzoli’s “Procession of the Magi” in the Palazzo Medici-Riccardi in Florence (1459-1461); the two spirits of landscape (that of Flanders and Burgundy and that of Italy and Provence) that meet in Antonello Da Messina’s “Crucifixion” – now to be found in Sibiu, Romania; the dizzying, turbulent dynamism of the naturalistic scenery in Andrea Mantegna’s “The Agony in the Garden” (1455-1459) or of the predella panels in his San Zeno Altarpiece, and the polished restraint of the backdrops in the Camera degli Sposi in the Palazzo Ducale in Mantua (1465-1474); or again, Bellini’s boundless open landscapes; the visionary quality of Francesco Del Cossa’s frescoes in Palazzo Schifanoia in Ferrara (1467-1470); Piero della Francesca’s construction/definition of volumes with and out of light in the fresco cycle of “The Legend of the True Cross” in the Basilica of San Francesco in Arezzo (1452-1476); the rediscovered archaeologies of Botticelli’s late work; and finally the animated, transfigured naturalism of Filippino Lippi and the vividness of Domenico Ghirlandaio. We could continue, citing Vittore Carpaccio’s “Young Knight in a Landscape”, the narrative episodes – partly mythological, partly historical – of his canvases for the Scuola di San Giorgio degli Schiavoni, and the stories of the legend of St Ursula or the Santo Stefano cycle. On a more general level, Venetian tonalism, from Giorgione’s “Tempest” to Titian and Veronese, or the restlessness of the great Roman masters of the sixteenth century, and Mannerism in its visionary and then later more devotional forms – all undeniably represent moments to which Limoni makes reference, in their excess of symbolism, mysticism and didacticism. However, we have to arrive as far as what, with its emergence in the seventeenth 19 century as an independent genre, can be more properly defined as landscape painting, in order to do justice to the full scope of Limoni’s relationship with the theme. And it is a relationship which surely begins with six paintings on copper (16051608) from the Farnese collection that were initially attributed to Adam Elsheimer, and then (by Roberto Longhi and by Anna Ottani Cavina) to Carlo Saraceni – in part, and naturally, because of their representation, inspired by Ovid’s “Metamorphoses”, of the mythological figures of Ariadne and Daedalus, but also thanks to their insistently asymmetrical composition in which the breadth of the scenes is given unity and is circumscribed by the atmospheric light. It is this idea of “nature” as it evolved throughout the seventeenth century that seems to characterize Limoni’s classical references. Following the achievements of Annibale Carracci and Domenichino in Rome, and the classicism of Claude’s sea views drenched in the powerful light that was the fundamental theme of all his work, in the mid seventeenth century the Roman countryside became the true protagonist – and not only of Poussin’s work: Herman van Swanvelt comes to mind, as does the “Silver Birch Master”, with all the copses and wooded hillsides, the tree-ringed rocks and coursing water set against cerulean backdrops imbued with the Mediterranean spirit for which such paintings would be revered by the travelers and artists of Northern Europe, souvenirs to carry home with a regularity that would last into the eighteenth century. However it is in the clash of the sublime and the picturesque that Limoni finds even greater nourishment for his own idea of a landscape rugged and full of presage, almost as though consolidating and thickening the pulviscular effects of the lesson learned from Watteau and Chardin. This immersion in a wider European dimension permits Limoni to declare his own sunny and open (if not specifically Mediterranean) leanings towards the precipitous verticality of the Nordic landscape, its jaggedness and the wild power of its image. The encounter with these two very diverse spirits of landscape enables him to open himself up to a further confrontation between eastern and western cultures, thus introducing new themes such as the idea of frontier, of limit, of boundary, and therefore references that range from geography to the cinema and from novels to poetry, as Piero Zanini reminds us in “I contormi delle cose” [the outlines of things] and in “Significati del confine” [the meanings of the frontier]. Claudio Magris had already noted how frontiers “die and are reborn, they shift, they are cancelled and then reappear unexpectedly, they mark experience, language and space…, the self, with its multitude of fragments and their painstaking re-composition…, the mind with its mapped order”. Eternally shifting between places and landscapes of the greatest possible breadth and a focus on far narrower compasses, but always seeking what James Hillman has called “the spirit of a place”, Limoni seems to be looking to the archaeology of the landscape itself, to its silence, to what the geographer Eugenio Turri called “the landscape as theatre”, with almost the same anthropological approach in his scientific exploration of the “sense” of landscape. But that very sense then leads him to explore a “non-landscape”, like that of the prose of Andrea Zanotto, where “the peaceful tranquility enjoyed in the landscape-as-refuge/haven often gives way to the uneasiness of the elusive, provoked by the sense of a great primal emptiness” (Matteo Giancotti), almost – for both artist and poet – as though the common thread were Heidegger’s search for the true locus of the poetry of Georg Trakl, glimpsed in the act of leaving, in the moment of an uprooting. Here Yves Bonnefoy’s notion of the identification with/appropriation of place elbows its way into Limoni’s work along with Georg Simmel’s idea (in “The Philosophy of Landscape”) according to which the landscape itself “arises, exclusively, via a spiritual process capable of unifying the various aspects of reality in a vision which, through the parts, envisages the whole”. The objective facts that have always characterized landscape thus seem to have migrated from reality to another dimension: imaginary, oneiric and posthumous, and the artist need only, therefore, select different views, and roam through them, wandering, divining and restless, almost forcing himself to withdraw, and then perhaps to return. He has constructed different approaches over time, but always coming back round to them like “circles of understanding”, like Hermann Hesse coming into Venice and her lagoon, the only approach possible being from low in the water, as if underscoring the fact that nature must be lived low to the ground. Turning once again to Zanzoto, one might speak of, “waters that rise and retract, they appeared and disappeared, memories that lead back towards the primordial… where everything oscillates and everything is stabilized and synthesized in the oscillation; the archaeological layers succeed one another, the forms of civilization… and, finally, time becomes visible, hour after hour, in the play of the tides and of colours”. And so the enigma of the lagoon is understood: “a fluidity of immensely varied substances, in a series of topographical figures and fractalisations… that give them an aspect both febrile and calm, its colours capable of throbbing through us whilst, as it opens onto to the colours of the sea, we glimpse the myriad possibilities of all forms of imagination… where the whole tissue of delicate rationality overlaps with the uncontrollable fluidity of the chaotic theme of the waves”. At the same time, in Limoni’s landscapes we also see something of the dramatic reversals, the continual mutations and the eternal metamorphoses that are the final legacy of another great writer, Goffredo Parise. Limoni seems to turn to the immeasurable and the uncontrollable in order to draw upon the same phenomenology of experience and of existence (in landscapes which are nevertheless devoid of human traces). In his 20 succession of “landscapes” he seems to want to portray the “human geography” of spaces, which in Western thinking from the “wisdom of the Greeks” onwards – as Franco Farinelli has suggested – represent the first form in which we take possession of the world; and for this very reason the concepts of “space” and “time” very conspicuously underlie his interpretation, with coordinates that, as we shift between East and West, seem inadequate to explain the mechanisms, the function and the image of places that are “globally connected and locally, physically and spiritually disconnected”, according to the definition (encompassing diverse realities) offered by Manuel Castells. Limoni’s paintings redefine the nature of the principal interpretative models applied to places, initially by effectively mapping the diverse “episodes” of the landscape: different subjects, diverse moments and locations; and then eventually the “space” [of the landscape], with all its various facets and figurative qualities. But he is equally interested in those hybrid spaces that are the theatre for the ordinary story of the existential landscape of our everyday lives, a narrative formed of the “dusty cloud” of apparently banal facts, and he intently scans the rapid world of the present day, whose ties with the past seem ever weaker and more fragile. With his material images of life rolling by in time he seems in fact to be focusing on the relationship between memory and history, almost using the visual language of things themselves to forestall the loss of our perceptions of the past. And as Antonella Tarpino has suggested, in his visions of what is present Limoni insinuates that history must open up a path to dialogue with memory, with that clot of past that lingers in the petrified horizons, in the resurging waves, but also in those of his images most tormented and disrupted by the unleashing of nature. Yet if history and memory seem to be mutually incompatible versions of the past, where tradition is diluted and memory ends, history begins. Limoni’s work appears to describe a sort of dualism between the intransigence of history and that of memory, precisely because memory traverses and records the phases of the passing of time, whilst history tends to separate and order them, to the point at which the artist seems to be, “in debt to the memory that flows beneath historical consciousness or behind the sentiments of the past, but at the same time he himself – in the work he produces – shapes it”. Thus Limoni rediscovers that even places and landscapes have a soul: like Orhan Pamuk who, writing of Istanbul, observes that, seen as an succession of boundless panoramas, the city seems “infinite and unfocused”, but in reality it is never anonymous, never a chaotic jumble in which people live separate lives but, on the contrary, “an archipelago of neighbourhoods in which everything is familiar”. And so, with his interest in the concepts – so well outlined by Paolo Perulli – of circularity, borders, zones, voids, ruins and, finally, of apparently inseparable intertwinings, Limoni seems to avoid featuring a reality seen in the post-modern terms that skip straight past the theme of foundations, of rationality and of connections, interested only in disseminating objects like scattered jetsam, with no concern for the connective tissue that – alone – offers and guarantees meaning and direction in our actions and in our action within places. There is an idea that “place” does not exist in physical form because reality is constantly in movement, and science does not comprehend that which is “mobile”, only its mobility: Limoni’s work seems to turn this idea on its head, almost to emphasise a cinematographic conception of places as living organisms, because they are a perennial succession of images. The corpus of painting Giancarlo Limoni’s artistic career has been marked by an unflagging continuity; continuity in his approach to the act of painting, in the techniques he has adopted and, for over thirty years now, in the atmospheres that he evokes: this, despite the apparent discontinuity represented by the work he has produced in recent years, where his naturalism seems to have made way for a more corrosive and less romantic interest in landscape. But above all (and it seems no paradox), his unswerving attention to the real world succeeds in transforming pure figuration into a more allusive revelation which only hints at the real world, leaving it a form of filigree, almost a subterranean memory, like a pure intuition, an intention perceived in the references suggested by his colours, his tonalities and his “force lines”. Underlying his vital relationship with painting is an attempt to bring to the light and give corporeal substance to the invisible world, and in this duel-like struggle he does not limit himself to the epiphany of nature but, by deconstructing the painting’s elements and the light that falls on them, he plumbs the depths of the most intimate aspects of their very structure. However, his apparently scientific interest in real data is contradicted by a persistent capacity to “alter” the whole in pursuit of what it is that most attracts him – the affirmation of a fantastic universe that he has created for himself, in which reality bends to the dictates of emotions but also to reflect and reiterate its own survival, even if only as a partial reality. Significant, from this point of view, is Fabio Sargentini’s brief tale (which he cites, as an aside, in a catalogue text dedicated to Limoni that accompanied an exhibition in 1985) in which, on a rainy evening marked by leaden skies, an artist (Limoni himself) sees shop signs reflected on the wet paving and exclaims, “It’s like being in Paris!”, despite never having been there in person. And right from the start the 21 construction of this “parallel” world has always been the artist’s aim, Limoni seeing his own work as a slow and inexorable game of patience during which polar opposites temper one another: there is the element of action, which emphasizes an urgency and a vitality that it is a struggle to contain (as was seen in his “live” painting for Extemporanea, the exhibition organized by Sargentini in 1984), and, parallel to this, the slow careful dosing of lights, transparencies and tones, at times in direct contrast with one another, but always poised on a knife edge of unstable equilibrium. So even in his very interpretation of his own profession, in his pictorial technique, he is forced to confront this duality: proceeding rapidly with dizzyingly swift brushstrokes, but also intervening directly on the canvas without the use of a brush, diluting his strokes, pulling them apart, but at the same time “wounds”, drips and generous transparencies prepared to welcome in a swarming vortex of signs. The light, then, can be used by the artist to corrupt and deform the colour, or it can condense into fraying threads and become, in itself, the visionary subject, conveying the idea of a fragmented universe, reduced to a pure swarm of signs that are interwoven, juxtaposed and drift apart in a gravitational field, attracted and repulsed by subterranean magnetic forces. It is, therefore, very clear that for Giancarlo Limoni the act of painting cannot but evoke the differing spirits of painting itself: the continuity of tradition and the explosive force of the historical avant-gardes. He combines the “dilutions” of Monet’s later work (with those rapid brushstrokes that, in moments of overwhelming inspiration, absorbed and re-conveyed the material, transformed – new and different – into pure memory) or the intimacy of Bonnard, and a luminous painting that tends towards immateriality, redolent of Fautier’s spectral ghostly “traces”; and here a surprising accord can be found with the figurative gambles of El Lissitzky’s Prouns, with their recomposing of the individual elements via relationships of attraction and repulsion. This very dissemination of signs allows Limoni to conceive his paintings in terms of a space made up of juxtapositions, of diverse vanishing points, which combine to give his work a polycentric aspect, seen – as Achille Bonito Oliva defines it – as a “space of possible relationships, a moving theatre of interwoven combinations the outlines of which are not fixed but open-ended and shifting”. And this was what could be perceived in the vertigo-inducing slashes of signs, in the fragmented and splintered spaces of his first infinite atoms of painting, in the Lucretian vision of a world formed of indivisible particles of material which Limoni highlighted by employing diverse degrees of tension in his colour and material – at times growing denser, at times more rarefied. However it is also what can still be seen today in the apparent frontality of his images, where the focus from closer-to seems to force us to immerse ourselves more directly in that partial vision of the world, whilst in reality it brings us back to a sort of suspension, right on the edge, at the threshold, almost as though it is not for us to cross over and into those unstable equilibria of material, lest we disturb the precariousness of the apparition. Landscapes “Paesaggi” [landscapes] is the title of Giancarlo Limoni’s most recent exhibition, and also of the sequence of paintings with which we begin this volume dedicated to his work, looking back over the many years of collaboration between the artist and A.A.M. Arte Architettura Moderna. The exhibition’s overall theme of landscape is one that has been central to Limoni’s recent work but has also, from the 1980s onwards, always been the theme of his more naturalistic pieces. The selection of over fifty works – large oils on canvas, together with over thirty large watercolours and small preparatory sketches – represents the cycle in all its articulations. “Paesaggi” begins, not by chance, with a series of works that present themselves as a “limit”, a “threshold”. In these pieces the artist’s gaze transforms “Nel blu il paesaggio” or “Sentinelle” into veritable overtures, in which the painting becomes increasingly rarefied thanks to a process of subtraction, a removal of colour and material that has characterised Limoni’s recent research. The frontality and the bird’s eye view of these particular pieces paved the way for the prolific “A perdita d’occhio” series, with paintings such as “Paesaggio con terra rossa” (2010) or “Paesaggio Viola” (2011) which, with their theme of the “fragmentation” and “mineralization” of places and of the land, give a form and substance to the Sturm und Drang of the Turneresque vortices of “Marina Verde” (2009) and “Marina del nord” (2010). It is only after having confronted the diversity of possible viewpoints, and having probed the limits of vision itself, that Limoni arrives at the apparent suspension and the tremulous serenity of the peaceful expanses of “Marina con cielo giallo” (2013) and other paintings handling the same theme. But then he seems to have immediately drawn back and almost taken refuge from (even surprised by) his own new-found Democritean “cheerfulness”, and he has put himself on the line yet again, rediscovering the pleasures of that vertiginous instability with which he is most at his ease in “Cieli gialli” and “Cieli rossi” (both 2013) and other paintings like them. And so, with these allusions to a plunging into the depths, Limoni once again takes to the air – with renewed energy and a new impetus and daring – setting off “to rediscover the stars”. 22 A presage of this U-turn in his work was offered in 2007 in the form of “Paesaggio sommerso” and “Tentativo di paesaggio”, two extraordinary pieces that remained hidden in the “shadows” of the artist’s studio while he concentrated on preparing the cycle “Non ho tempo (Je n’ai pas le temp)” / “Lezione di tenebre: opere dal nero”, presented at A.A.M. Architettura Arte Moderna in the October of 2009. In the two “secret” paintings Limoni has allowed elements of landscape to bloom, above a busy naturalistic buzz of colour that occupies the picture plane – which becomes a veritable stage, the scene it displays a disorderly hedgerow or bank of vegetation, stirred by a sort of “baroque wind”, simultaneously concealing and revealing the horizon beyond. Clearly the two paintings represent the artist’s desire to free himself of the severity of his “opere dal nero” series, and of the constraints involved in making of his work the pure apparition that emerges from the tarry backgrounds which characterized his paintings of that period. It was these elements in particular that suggested the central theme and the core problem addressed in his work for the current exhibition. As we observed and discussed these two paintings with the artist, ideas emerged for our next joint adventure, and the six small “studies” that Limoni produced in 2008 were born: the beginning of a new “story”. In these sketches, abandoning the sumptuous use of material that has always typified his work, the artist seems to concentrate on a circumscribed focusing on details, on fragments of landscape, on clots of material, amid lava-like explosions, liquid dispersions/dilutions and suddenly-appearing horizons, at first unstable and then increasingly defined. Working together in this way, the intention has been to celebrate the very particular function played by A.A.M. Architettura Arte Moderna, the gallery’s project-based approach, the maieutic method we apply, working together with the gallery’s artists to analyze and identify possible directions to be taken within the art system as a whole (from architecture and design to contemporary art and photography). This modus operandi has undoubtedly become a point of strength and of reference but, importantly, there is no intention or risk here of confusing the true authorship of the work of our always-autonomous individual artists, and still less of presenting ourselves as the ”prompters” of sudden and fortuitous “revelations” on the artists’ road to Damascus. The story that emerges in the exhibition and the book is, among other things, the story of a close relationship between the artist and A.A.M.. This book summarizes and recounts the cycles of work that Limoni has produced for the four solo exhibitions that A.A.M. has dedicated to him over the course of the years, the aim being to illustrate and analyse the significance of what has been a shared “journey”. As we have already underlined, in portraying this joint adventure there is no intention of representing the gallery’s role as one of “interfering” in the artist’s work – just the reciprocal “solicitations” and “cross references” between the artist and those involved in commissioning works. A journey that has seen us united in a passage from the hints and fragments of the inflamed paintings in which Limoni skilfully blended his early “Scuola Romana” work and the “dilutions” and “expansions” inspired by Emil Nolde, and then, gradually, his discovery of the Orient, the profound depths and resurfacings in his “Opere dal Nero” series and his recent arrival on and amid stark shores and landscapes so redolent of Eliot’s “The Waste Land”. The exhibition and the book also make public, for the first time, Giancarlo Limoni’s private counterpart to all this in the form of his various “traveller’s diaries”, offering a moment of reflection on the delicate passage from details to the universal, from microcosm to macrocosm. Painting as pure “apparition” “I follow nature but I am unable to grasp her; this river lows out and then lows back, one day green, another day yellow, this afternoon it is dry and tomorrow it will be a torrent”, Claude Monet. Giancarlo Limoni’s work began to attract critical attention at the end of the 1970s, but it was the stylistic “novelties” revealed in his exhibitions at L’Attico that truly marked him out. Back then, as is still the case today, his works’ “unnatural nature” was a crescendo of restless fibrous strokes that stretch out across the canvas, often becoming denser nearer the centre of the painting, nearer its heart, almost as though to hold us there, in that precise spot, abandoning ourselves to the illusion that we can cross through the net formed by these secret gardens. The paintings seem pervaded by a restlessness that becomes a cloak of dense and sumptuous colour, almost always over- compensating for an impassable horror vacui, moving beyond which seems inadmissible, impossible. The artist’s floral barriers traverse the ancient densities of Roman painting and that of Pompei, running through and across the full-bodied seventeenth century and the more recent massy substance of the Roman school of the 1930s, up to and as far as Mafai at his most extreme. Their chromatic range is deep and intense, and becomes a continual attempt at “repositioning”, with the aim of achieving a very personal condition of “Roman-ness” without falling into localisms. Giancarlo Limoni’s paintings manifest an extraordinarily focused and unwavering desire to penetrate the depths of colour – a chromatic intensity that emerges 23 from the radiant tones of the his rapid brushwork – and a similar constancy of focus, too, in his observations of what has always been his subject: nature. But nature, for Limoni, also represents a continually evoked profundity, achieved without any dissipation and with what seems to be great serenity; although there is a disquietude behind his flowers, a sense, in any event, of something hidden, lurking in his work. These personal tensions strengthen the artist’s intent to render tangible the luminosity that permeates his works and which becomes the fundamental characteristic of his style. The dizzying vortex of line in many of his paintings is a sign of Limoni’s confidence in his own tools, his command of the instruments he has always sought to use, even in moments when (above all in the Roman art world) many artists have been distracted and thrown off course by the ideological rarefaction of avant-garde contemporary art. As he developed as an artist, he found himself having to confront the incongruities of an art world that was demonstrating a renewed interest in painting, but in Limoni’s case the fact that he was not linked with any particular movement or school, and the lack of obvious points of reference against which to measure and compare his own style, has allowed him to achieve an extraordinary and unique form of pictorial testimony. The sure-footed originality of Limoni’s work has its roots in his willingness to vary the gamble that he takes on himself, eternally exploring – with forms of inspiration that resemble one another but are never the same twice over – the constant invariability of his “Secret Places”. Against the backdrop of these certainties/necessities, the spaces of Limoni’s canvases initially presented themselves (according to a criteria both complex and imaginary) in flowing lines of chromatic substance, which then mutated into thick and sumptuous walls of colour. An evolution of this sort, the thickening of a void, a condensing of the field of colour which constricts the outer borders of the forms to the point at which field and forms merge into one, inevitably recalls Pollock. Yet in Limoni all this seems a long way from American Abstract painting, just as his poetics seem very distant from other work or artists of his own generation, and at the same time a deliberate step in the direction of Monet and the luminosity of Turner seems increasingly obvious and important. In Limoni’s work even space itself is filled with the intensity of his colour. Time, space and understanding form tangled boundaries, but the most startling aspect of his work is precisely this capacity to move across the surface of the painting combining – simultaneously and in equal measure – elaborate detail and impetuousness. Nature, which in the reality that he constructs is a living organism, seems therefore to be channelled into chromatic tensions that dissolve into the light, but tensions of this kind are also symptoms of the complex evolution of an art that constantly manifests the singularity of its style. Throughout the 1980s the impetuous harmony of Limoni’s brushstrokes and the opulent range of his colours form a crescendo that reaches its ideological apex in the 1990s when, in contrast, his work opens itself up to a newly delicate precision in his experimentation with new and subtle forms of ornament that he conceives as “tears”, softened by snowy veils of colour. Limoni’s handling becomes more immaterial, less impetuous, and the result is a freshness of line that becomes more obliging, a more serene spontaneity, a confidence, therefore, that comes across as the very heart of a particular spirit, of a new capacity for artistic emotion. In his more recent work the artist’s commitment to identifying colour and nature, figure and form becomes a constant, capturing reality moment by moment. Certainly the artist’s latest works have seen a dramatic transformation, one which inevitably suggests Hermann Obrist’s “cyclamens” and a whole tradition that stretches from William Blake to William Morris, finally softening into the “fluidity” of Charles Rennie Mackintosh. At this point Limoni’s obsession/fixation with overwhelming fullness clearly still remains, as though a curtain or a thick bank of vegetation were forcing us to peer hard into the work in order to make out yet more details in what is a sort of kaleidoscopic blow-up. But this obvious horror et amor vacui now begins to make way for moments of more diluted rarefaction: like Walter Benjamin’s angel, a baroque wind ruffles any attempted fixity. Up until the end of the millennium lofty horizons and glimpses of landscape were present in his work, acting as barriers behind which a hint of background could still be made out and suggesting a deliberate suspension of time, a sort of limbo, but now ever-more-frequent deflagrations and dizzying dynamisms suggest a clear desire to achieve an expressionistic deformation of the work as a whole. Now Limoni’s “flowers” increasingly descend from above, or are portrayed looking down from the painting’s zenith: the composition and arrangement of the forms pushes at the physical limits of the painting. Yet an element of baroque disorder always insinuates itself, opening up veritable “mystic gulfs” with the rapid brushstrokes whose fury initially just ripples the surface but then builds up to bubbling lava-like eruptions. The only apparent resistance to this new wave of tensions that the artist has set in motion seems offered by a certain terracotta-army-style fixity that characterises some of his recent compositions. But then an element of cangiantismo, redolent of Barocci and Beccafumi, softens any fixity to the point at which any degree of calm is undermined by the reverberating colour, waves of it propagating, as in Odile Redon. However, as I suggested at the start, the new direction that Limoni’s poetics have taken seems to begin with the role he assigns to the line as the basis for structure – following in a tradition that runs from Henry Van de Velde to Walter Crane’s theoretical work in “Line and 24 Form”: all, however, invigorated by Limoni’s continual plunging into material in all its various forms, and in which he is unafraid to measure himself against the visual dynamics of František Kupka’s growing circle and spirals, the unstoppable vortices of Umberto Boccioni’s “States of Mind”, the tarry whirl of David Burliuk’s material and the “planetary” dilations of Wassily Kandinsky, and then onwards up to the freneticism of Pollock and the multidirectional brushwork of Emilio Vedova. But for Limoni all of this is overshadowed by the terse ineffability of Mondrian’s trees which, spectral as pure shades blooming out of the painting’s ground, seem to most clearly foreshadow Limoni’s current experiments in which, alternating density and the dilution of the material, his work becomes pure apparition, both overwhelming and elusive. The lilting poetries of colour For over thirty years Giancarlo Limoni has been engaged in a drawn-out wrestling match with nature, alternating moments of exhausting tension and calmer more expansive intervals, but always confirming himself supreme master of his partner in combat. This duel, whilst veiled, as always, behind more intimate and calmer universal sentiments, now seems to have given way to a more subtle, rarefied form of fencing, a veritable swordplay involving gesture, signs, writings and, in the end, body and intellect, sense and sensibility. Yet the artist’s true world remains that of the pictorial material, precisely because of his ability to brand it with electrifying alchemical transformations, both when – working with minimal thicknesses, the material almost absent – he creates austere veils formed of streaks of light, unsettling in their ashen cangiantismo, in their terse dryness, in their laconic Montale-esque precision, and when, in an orgy of exuberance, he produces flaring magmas, authentic explosions that are only suspended when the material coagulates like cooled lava. By now the material has no secrets for him: he has no need to solicit it, reflect on it or question it; he knows and controls its every predictable result. At this point Limoni can limit himself to evoking it, at any rate putting it into play, but assigning it the role of a muter presence because nowadays what he is aiming for seems to be a superior detachment, in the name of an intentional symmetry of sign and sign, order and disorder, regulation and pure chance: like the scribe of chaos, he limits himself to contemplating a sudden and unexpected beauty, until the disrupted order calmly recomposes itself. This is the same sudden beauty that seems unleashed in the singsong lilt of certain lines, entwined and pregnant with references, from the poetry of Toti Scialoja: here I am thinking in particular (and cite from memory) of that incomparable knot of, “by day when cats are intense […] by night when cats are immense, and your thoughts become furry… ” [Di giorno quando i gatti sono intensi […]/Di notte quando i gatti sono immensi/ si ricopre di pelo quel che pensi…]. The same primordial quality in the images, material and ideas pours forth and dissolves into a parallel phantasmagoria of different worlds, a visionary transfiguration of the every-day, too near to us to be indecipherable, too electrifying to be recognizable. The element of novelty to which Limoni most frequently makes recourse is a sort of “force line”. Entwined and reiterated, it weaves a veritable visual spider’s web within which individual deflagrations form and spread. Chromatic cutlass strokes, like “loving scratches”, almost – unreally – material removed, these lines tend to form complex reticular patterns that have something of the zoomorphic or the phytomorphic to them, and then annul themselves in pure evolutions lifting into the air. At this point, however, we encounter the problem of the duality that Limoni seems to rehabilitate: form and structure, line and shell; a duality that has permeated the cultures of art and architecture since the nineteenth century and which can currently be seen in the contemporary gambles of those aerodynamic projects only possible thanks to sophisticated computer programmes, such as Herzog & de Meuron’s “Bird’s Nest” Olympic stadium for Peking. But Limoni is interested not so much in the perturbing beauty of the structure, with its dazzling reverberations, as in its capacity to impose order on the formless, or to establish an underlying pattern which suddenly breaks up but then always resurfaces in filigree as the true structure of his discourse. No longer, therefore, free-flowing words, but calmer flames carefully calibrating, time after time, their presence in the visual limelight, their slipping backwards until they dissolve into the shifting background lava. Having moved insistently eastwards over recent years, from India to China, in its more universalistic aspects Limoni’s work now seems to be making a contrasting and more meditated return to Rome – although years back there were already vivid elements of a substratum pervaded with memories and references that ranged from the “Roman-ness” of the frescoes of the Villa of Livia to the dry expressionistic timbre of Mario Mafai’s painting. But now the thrust is surer and more esoteric, gambling on a visionary quality that is baroque in its fireworks, but without the overriding aesthetic valences, without the spectacular exuberance that previously masked the dizzying abysses of the void – which I earlier called the “mystic gulfs” of absent material. What is now in evidence is, rather, the complexity of an intellectual approach in which doubt is a permanent condition. Not, therefore, a triumph of baroque artifice affirming the general demise of ethics (flattened by scientific and technological 25 hyperbole even in the art world), but a new return home to a Rome that the artist captures not in its dazzling majesty and monumentality but, in terms conceived thirty or more years ago by France’s great contemporary poet Yves Bonnefoy, as a more subdued, rarefied and scattered “Arrière-Pays”, a lingering “hinterland” which is refracted through art, its meanings and its limits, in the search for the precise point in which reality and imagination fuse. All this in order to arrive at a new poetry in the form of painting, in which words mutate into paint and the images spread out like a fresco: “this breaking surf is, in any event, our imagination, this slipping over the crests at the very least incites desire”. So now we see Limoni focus – like Piranesi’s visionary sequences with their apocalyptic microcosms – on an obsessive invocation of a sense of the infinite, achieved via a constant ambiguity of scale, shifting from measure to excess, all apparently due to a vibration of the elements in the atmosphere. On a compositional level this is all built upon the fragment, in a sort of parataxis, like a list naming the various elements of this gravitational system – an apparent amassing of “heraldic insignias”, like Piranesi’s architecture, although in Limoni’s case the mass is that of the colours’ tonal weight. The lingering impression in Limoni’s work is one of a classicism founded in the gothic: but as Wölfflin explained, the art of northern Europe lengthens bodies and forms reducing them to the essential, whilst classical art is centred around its own axis, and it is this that happens even in Limoni’s current work, which seems to need to regenerate itself by disintegrating – burning up. Yet rather than remaining eternally poised between a Winkelmann-esque nostalgia and a Piranesi-like utter lack of hope which might be seen as “melancholy”, Limoni seems to point (after Gottfried Wilhelm von Leibniz, after the conflict between technique and art, between the act of making and the act of inventing) to an “inflexible necessity” that only a Vichian “discovery” of wonder renders possible, suggesting an entire universe of possible worlds in this splendour and multiplicity. “Non ho tempo” / “Lezioni di tenebra: opere dal nero” A few years on from his previous one-man show at A.A.M. Architettura Arte Moderna, the artist presented approximately twenty works in large and medium formats (oils on canvas) which represented the result of two years of intense and cohesive work focusing on two themes. The first, entitled “Non ho tempo” [“I haven’t got time”] presents a sort of homage to the founder of modern abstract algebra, Evariste Galois, a romantic figure who died at only twenty years of age; an emblem of how all too often mediocrity triumphs over genius, and whose work – even his very last, written during terrible hours of desperation before dawn on the day of the duel, “still constitutes a stimulus for reflection and research for modern mathematicians”. The second theme entitled “Lezioni di tenebra: opere dal nero” [“Lessons of darkness: works from black”], instead makes evident reference to Roger Caillois the extraordinary writer and essayist who left his mark, with his works from 1938 onwards, on international culture at its most refined, and who at the very least should be remembered for his superb suggestions regarding the pleasures of automatic writing as the only truly free method for writing (Le leuve Alphée , 1978), as well as his definition of “hypertrophy” – the exaggerated and sterile development of certain organs, which via the growth of the sign leads to the exhaustion of meaning. However, the extraordinary degree to which the twin themes of this cycle of Limoni’s work are integrated derives not so much and not only from the fact of the pieces having in common a black and bituminous ground, from which lumps of brighter paint seem to rise like sudden explosions of light and material, as, rather, from the patience and stratification involved in the paintings’ very execution, almost as though they map out the temporal progress of the process that, through successive thickenings, leads up to the epiphany that is the painting itself, suggesting that only time, intervals, interruptions and then reprises can give life and sense to a patient and obstinate process whose aim is to search for its own reason for giving and for proffering of itself. But it is a disquieting offering, because there is a very clear feeling that they all allude to the possibility of an imminent annulment, a closing-in, if not to a subtle pact between Eros and Thanatos, as if behind those luxurious and sumptuous illuminations of colour an idea of consumption insinuates itself domineeringly; the idea of an ending, of death. It is no coincidence that all the paintings presented in the exhibition seek a sort of continuity with or roots in the painting of that most existential of periods, the late 1950s, the poised tension of which is most evident in the work of artists whose language was based on emotion, on the perception of a possible end, on the difficulty of living, associated with forms of expression categorised as “sign”, “gesture” and “material”. And is it this existential precariousness that Giancarlo Limoni seems to be considering whilst his own poetic language evolves, almost as though sudden, disguised fears had slipped into that moment of self-confrontation, without any consoling explanations, without purposes or teleologies related to anything or anyone beyond the Self. This is one way in which the artist vindicates his own solitude and that of the single individual facing the choices fundamental to his own existence, but at the same time reiterating his own centrality when he re-attributes to himself the possibility and the responsibility of his own decisions, in this way 26 alluding to his own, contradictory, collocation somewhere between “humanist” vocation and “individualist” condition. We cannot but be alone, together with other solitudes, in vindicating – despite the darkness felt in an ever-increasing sense of the scattering if not the end of humanity itself – our own essence as man. None of this, however, in any way implies that the artist is looking backwards, but on the contrary, it suggests a pointed desire to mend broken links with a tradition perhaps too soon consumed and put to one side. The intention seems to be that of re-establishing a dialogue with a form of painting whose emotions are a delicate see-saw of contradictory sentiments: that of Nicolas De Staël, for example, to whom Limoni seems to refer in his re-exhuming of the idea that a kind of painting poised on the brink of dissolving offers the only means of establishing contact with the world itself; as if painting were a way of expressing his own part in that world and of manifesting his own desires, with a tense emotional involvement to which every brushstroke bears witness – destined to be brusquely interrupted only when the tragic, the unknown or the indecipherable break in. Body and intellect, sense and sensibility In a 2005 exhibition [with Roberto Caracciolo] Giancarlo Limoni presented a series of watercolours on paper that deliberately avoid any attempt at normal relationships of scale or even form, but reveal themselves an explosion of incredibly tense material on supports that struggle to hold them back and in. While, as is often the case in Limoni’s work, their starting point is nature, in this series of paintings the naturalism is alchemically transformed into a shattering and uncontainable force, albeit one which, as it evolves, achieves an extraordinary form of suspension, translating into ethereal immateriality those clots of colour, those thicknesses, those stratifications and the unexpected cangiantismo that they always create. “ON PAPER” was one of a series of exhibitions (an account of which features in the current volume together with illustrations of the works that were on show) offering a sort of radiography of contemporary art in Italy if not a veritable photograph of current conditions: an “image” which was gradually expanded with the constant addition of other artists to the series. The implicit idea was that, at least on the occasion of the “ON PAPER” exhibitions, A.A.M. Architettura Arte Moderna became a sort of “crossroads”, a place in which different ideas and cultures meet and combine in an exchange that contributes new meaning to or even changes the meaning of the works on show. As the series reaches its conclusion it will become very clear that A.A.M. Architettura Arte Moderna’s aim, throughout the various stages of the project, has been to bring together a widely varied group. The series will, in fact, be featuring many very different artists, but all producing work of great quality, presented to the public in a sort of series of very personal self-portraits that suggests an idea of passage, of threshold, of a relationship between exterior and interior worlds, not only physical but also mental, representing both the new direction that the gallery has taken and each artist’s personal universe. “Microcosms” therefore, “in which all the possible dimensions of existence are interwoven” (Pasolini). “Microcosms” as reflections in the form of art: to quote Giorgio Manganelli, “Like an itinerary, a repository of images, a catalogue of symbols, a collage of dreams, landscapes, interiors, sketched notes, illuminated by a phosphorescence that has the feel of memory, of vision”. Among the artists and architects invited to exhibit, different generations have encountered one another, different styles and approaches, establishing a cross-section of the current state of Art and Architecture in Italy. The deliberately dual approach of the gallery’s exhibitions represents not an excess of energies but rather an attempt to underline the recognized difficulty of “circumscribing” things, of “freezing” them, of suggesting a single unambiguous interpretation. It is a kind of “weariness” with the already-predicted, the already-given and consolidated (in terms of the activity of creating exhibitions as A.A.M. Architettura Arte Moderna sees it) that leads the gallery to privilege exhibitions which – with the exception of the solo shows – increasingly tend to take the form of a sort of alchemic transformation, pursuing, with ever-greater hunger, “unexpected beauties” in which the hybrid, the shifting and the hard-to-classify become “values” to be defended and nurtured in the face of a “respectable” conformism which is ever-less apologetic and actually increasingly imperious. Over time, therefore, the exhibitions have begun to acquire a different character from that of the initial shows, as artist follows artist, and we see an authentic visual crescendo, if not a complete revolutionizing of the original concept. This approach to exhibiting obviously reveals a certain fear of and, simultaneously, a need to avoid setting in stone not only the sense of the works exhibited but also their reciprocal relationships. So these “clashing presences” are treated as veritable “apparitions”, with their deliberately underlined diversity and with the provocative nature of their presentation and pairings – all focused around the surprising effects of the knowingly dissonant combinations of forms, materials, periods and above all, of poetics, like a careful sequence of freeze frames which all seem to defer to the idea of a “montage of counter-attractions”. 27