IL PAESAGGIO COSTIERO DELLA PENISOLA DEL SINIS (OR)
TRA PREISTORIA E STORIA:
ASPETTI ARCHEOLOGICI E AMBIENTALI1
Carla Del Vais1, Anna Depalmas2, Anna Chiara Fariselli3, Rita T. Melis4
1
Università degli Studi di Cagliari, Dipartimento di Scienze archeologiche e storico-artistiche,
Piazza Arsenale 1, 09124 Cagliari
2
Università degli Studi di Sassari, Dipartimento di Scienze Umanistiche e dell’Antichità,
Piazza Conte di Moriana 8, 07100 Sassari
3
Università degli Studi di Bologna, Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni
Culturali, via degli Ariani 1, 48100 Ravenna
4
Università degli Studi di Cagliari, Dipartimento di Scienze della Terra, via Trentino 51, 09100 Cagliari
Riassunto – L’analisi delle numerose evidenze archeologiche presenti lungo le coste della
Penisola del Sinis databili a partire da età preistorica, se correlata allo studio delle
dinamiche geomorfologiche che hanno interessato la regione, rappresenta un’occasione di
grande rilevanza in rapporto alla ricostruzione delle variazioni della linea di costa
intervenute dall’antichità ad oggi. In questo senso si pone il problema della distanza
originaria dal mare di alcuni insediamenti prenuragici e l’interpretazione delle strutture
nuragiche localizzate attualmente a brevissima distanza dal litorale. Per l’età storica dati
significativi si desumono dalla città di Tharros, con i numerosi contesti abitativi e funerari
che denunciano evidenti mutamenti del paesaggio costiero, e, tra le altre emergenze, le
imponenti cave litoranee di arenaria che in vari casi risultano oggi parzialmente sommerse.
Abstract – The analysis of the numerous archaeological evidences beginning from
prehistorical age along the coasts of the Sinis Peninsula, if correlated to research about
geo-morphological dynamics that have interested the region, represents a interesting
opportunity with regard at the reconstruction of the coast-line’s variations from the
antiquity to the present time. In this perspective is the problem of the original distance from
the sea of some pre-nuragic settlements and the interpretation of the nuragic structures
localized currently to short distance from the shoreline. For the historical age, significant
data derive from the city of Tharros, with the numerous inhabited and funeral contexts that
indicate obvious changes of the coastal landscape, and, between the other evidences, the
impressive coast sandstone quarries that, in several cases, appear partially submerged today.
1
Il testo è stato scritto congiuntamente dalle quattro autrici, ognuna per la parte di competenza: in
particolare A. Depalmas ha curato la parte relativa al territorio in fase pre-protostorica, A.C. Fariselli
la parte inerente Tharros, C. Del Vais quella sugli altri siti del territorio in età punico-romana, mentre
a R.T. Melis si devono le indicazioni sulla geomorfologia dei giacimenti archeologici.
309
La Penisola del Sinis, per la forte antropizzazione documentata a partire dal
Neolitico Medio e sviluppatasi senza soluzione di continuità fino all’evo moderno,
rappresenta un’area di straordinario interesse per lo studio dell’evoluzione del paesaggio
antico ed in particolare dell’area litoranea. Le emergenze archeologiche sia di età pre e
protostorica che di epoca storica evidenziate lungo le coste, e in qualche caso oggi in parte
sommerse, offrono infatti spunti di riflessione sia in relazione ai mutamenti della linea di
costa che in riferimento alle tematiche più specificamente archeologiche, in particolare di
ordine cronologico e interpretativo. L’esistenza di strutture e manufatti lungo l’attuale linea
di riva oltre che all’evidenza topografica, che già di per sé offre indicazioni oggettive sulla
morfologia antica, si presta a letture più complesse che investono la sfera culturale,
ideologica e funzionale in misura differente a seconda della natura e della cronologia delle
emergenze antiche. La presenza di un contesto cultuale di età protostorica in
corrispondenza dell’arenile, come nel caso della fonte sacra di Sa Rocca Tunda (San Vero
Milis), ha implicazioni anche di tipo ideologico che invece non possono ricercarsi, ad
esempio, nelle cave di arenaria la cui localizzazione costiera ha probabilmente ragioni
economiche legate alla maggiore facilità di trasporto dei materiali lapidei. Anche la natura
dell’evidenza archeologica, se correttamente interpretata, può dare un apporto non
secondario alla ricostruzione degli aspetti paleoambientali; è evidente infatti che strutture
d’abitato possano sussistere solo in contesti ben protetti dall’azione marina e dunque posti a
debita distanza dal litorale; diverso invece è il caso di elementi strutturali pertinenti a
installazioni portuali per i quali la contiguità con il mare risulta imprescindibile, o quello
delle cave di materiale lapideo la cui vicinanza alla costa si giustifica con ragioni di tipo
economico.
Si è avviata pertanto un’indagine multidisciplinare che parte da un approccio
strettamente archeologico, con metodi che potremmo definire “tradizionali”, ma che poi si
confronta e interagisce con una lettura più articolata del territorio nel tentativo di una
ricostruzione diacronica del paleoambiente. La ricerca ha visto preliminarmente una
ricognizione sistematica del litorale, in funzione dell’individuazione delle emergenze non
ancora note in letteratura, essenzialmente le cave di arenaria, seguita da una
documentazione puntuale delle stesse. Per i contesti antichi più significativi si è cercato di
confrontare il dato archeologico con quello geomorfologico, benché in assenza di specifici
studi paleoambientali (carotaggi, stratigrafie, analisi polliniche, etc.) sia ancora prematuro
proporre ipotesi risolutive sull’assetto costiero antico della regione. Ciononostante i dati
preliminari ottenuti in questa prima fase della ricerca paiono assai promettenti per il
prosieguo della stessa.
Nel corso dell’età preistorica, nelle fasi relative agli aspetti culturali neolitici ed
eneolitici, la penisola del Sinis presenta una notevole densità insediativa, localizzata
soprattutto intorno alle zone umide che ancora oggi costituiscono uno dei tratti
paesaggistici più caratteristici di quest’area. Il rapporto con il litorale è attestato dalla
presenza di materiale preistorico presso la località di Capo Mannu, con elementi fittili e
litici che indicano la frequentazione del sito dal Neolitico recente sino al Bronzo antico.
Nella stessa zona, l’esistenza di abitati neolitici è testimoniata indirettamente dalle due
necropoli a domus de janas di Putzu Idu e di Sa Rocca Tunda scavate a breve distanza
dell’attuale linea di costa e a ridosso di una zona umida come quella di Sa Salina Manna
che doveva rappresentare una fonte di approvvigionamento del sale ([33], pag. 29).
L’assenza di rinvenimenti riconducibili alle strutture abitative costituisce però un ostacolo
310
alla precisa localizzazione dei villaggi di riferimento e non consente di valutare
compiutamente l’entità del rapporto topografico tra stanziamento preistorico e mare.
Nel corso della fase nuragica la Penisola del Sinis mostra una straordinaria densità
insediativa sostenuta certo dall’ampio spettro di risorse disponibili, come terreni con elevati
valori di potenzialità ai fini agricoli, vaste lagune costiere, saline naturali e abbondanza di
materiale da costruzione (Fig. 1, a). Gli edifici nuragici sono disposti prevalentemente
presso il rilievo tabulare dell’altopiano situato al centro della penisola, sulla sommità o nei
versanti, ma è ben attestata anche la posizione di pianura, su lievi rialzi del terreno, in
vicinanza delle zone umide ai margini delle lagune litoranee in collegamento con il mare
come gli stagni di Sale ’e Porcus e di Mistras [14, 30]. Sulle sponde di quest’ultimo bacino
sorge il nuraghe di Paegrevas ([14] pag. 129) (Fig. 1, b) che costituisce un caso
esemplificativo del rapporto tra ubicazione della struttura antica ed attuale linea di riva: ciò
che resta del monumento risulta, infatti, oggi lambito dalle acque e quindi in un assetto ben
differente rispetto a quello originale.
La presenza di insediamenti costieri, nuraghi e villaggi, è documentata per un
numero minore di edifici (9 %) che sorgono a breve distanza dal mare (la distanza media è
di 370 m), lungo la fascia costiera occidentale della penisola o alla sua estremità
meridionale (3 %), dove essi sorgono comunque in posizione rilevata rispetto al livello del
mare come è evidente nel villaggio nuragico di Murru Mannu, venuto in luce al di sotto
dell’area del tofet di Tharros [26] (Fig. 1, c). Tra i nuraghi costruiti in prossimità della
battigia attuale, è raro il caso di edifici che appaiono completamente isolati ed estranei ad
un sistema territoriale riconoscibile ed esteso all’entroterra: un caso emblematico è però
rappresentato dal nuraghe complesso dell’isola di Mal di Ventre ([3]; [36] pag. 208), che
appare formato da due torri unite da una cortina muraria e costruito a poche decine di metri
dalla spiaggia nella costa orientale dell’isola e per il quale si ripropone il problema della
distanza originaria della struttura dal mare.
Di grande significato appare la posizione di tombe individuali a fossa del Bronzo
finale (XII-XI sec. a.C.), in corrispondenza del litorale di Is Arutas ([25] pag. 459; [29]
pag. 108-109; [30] pag. 132) e di alcuni edifici di culto presenti, in particolare, nella costa
settentrionale della penisola come la struttura rinvenuta nell’arenile di Sa Rocca Tunda e
identificata con una fonte sacra (Fig. 1, d). L’edificio, attualmente non più visibile, già negli
anni Ottanta appariva lambito dalle acque del mare [32].
Oltre a questo esempio, il ritrovamento nella battigia di Su Pallosu di un deposito
votivo costituito da gruppi di ollette miniaturistiche databili al Bronzo recente (XIVXIII sec. a.C.)2 e, in un altro punto dello stessa spiaggia, di materiali dell’età del Ferro (XVIII sec. a.C.) (Fig. 1, e)3 ([27], fig. 17) appare un puntuale indicatore di un rapporto
strettissimo con l’elemento marino tale da portare i nuragici alla localizzazione di impianti
cultuali e di manifestazioni rituali in corrispondenza di uno spazio che anche nei tempi
antichi era in naturale contiguità fisica con il mare, pur se non a stretto contatto come oggi.
Nella fase attuale della ricerca è solo possibile affermare che vi sono stati fenomeni di
erosione marina che hanno causato un arretramento della linea di costa, non ancora
valutabile quantitativamente.
2
Materiali conservati nella Collezione Falchi di Oristano.
Devo alla consueta cortese disponibilità di Raimondo Zucca la segnalazione e l’indicazione della
provenienza dei materiali pubblicati in [27].
3
311
a)
b)
c)
d)
e)
f)
Figura 1 – a) Carta di distribuzione dei nuraghi del Sinis (da [30], rielaborata). b) Sullo sfondo
il nuraghe Paegrevas, lambito dalle acque della laguna di Mistras (foto C. Del Vais). c)
Veduta aerea del villaggio nuragico di Murru Mannu a Tharros (foto A. Sannio). d) Fonte
sacra di Sa Rocca Tunda (San Vero Milis, OR) (da [32]). e) Materiali rinvenuti nel litorale di
Su Pallosu (da [27]). f) Stratigrafia del sito archeologico di Funtana Meiga (R.T. Melis).
Figure 1 – a) Nuragic site distribution in the Sinis Peninsula (from [30], re-elaborated). b) In
the background the nuraghe Paegrevas, licked up by the Mistras lagoon (photo C. Del Vais).
c) Aerial view of the nuragic village of Murru Mannu in Tharros (photo A. Sannio). d) Sa
Rocca Tunda sacred font (San Vero Milis, OR) (from [32]). e) Materials recovered in the
shoreline of Su Pallosu (from [27]). f) Stratigraphy of site Funtana Meiga (R.T. Melis).
312
Di particolare interesse appare il complesso nuragico di Funtana Meiga ([4]
pag. 81, 85) (Fig. 1, f). La prima fase insediativa documentata risale all’età nuragica ed in
particolare al Bronzo finale ([5] pag. 130) e alla prima età del Ferro per la presenza di
strumenti di bronzo ([35], pag. 150, figg. 158-159) e di frammenti di ceramica decorata a
cerchielli concentrici ([30], 116), anche se non si può escludere una preesistente
frequentazione. A questa fase sono state attribuite delle strutture circolari in basalto che
fino agli anni Novanta erano visibili nell’area della battigia, in gran parte già sommerse, e
che oggi risultano completamente distrutte dall’azione dei frangenti particolarmente
violenti in quella parte della costa esposta ai venti del quadrante nord-occidentale. Nell’area
si conservano comunque numerosi conci basaltici che potrebbero riferirsi alle capanne con
zoccolo litico, anche in considerazione del fatto che nell’area non vi è alcun affioramento
naturale di basalto. Evidentemente la presenza di un villaggio non può ipotizzarsi ad una
distanza così ravvicinata dalla linea di costa. Il fronte di erosione presente a ridosso dei resti
nuragici offre ulteriori indicazioni sulla frequentazione del sito. Nei depositi colluviali
immediatamente al di sopra dei livelli protostorici, assai prossimi al paleosuolo, si sono
individuati scarsi frammenti di età storica che, se non sono sufficienti ad attestare la
presenza di un insediamento stabile nell’area, sono comunque indicativi di una
frequentazione risalente almeno al V sec. a.C.; tra questi può segnalarsi un frammento di
ansa di un manufatto attico probabilmente una stemless cup inset lip, ([31] n. 471), forma
che risulta assai diffusa nei contesti di tutto il Mediterraneo punico nello stesso secolo ([12]
pag. 206). Al di sopra compare uno strato colluviale con sabbie eoliche, caratterizzato da
abbondante scheggiame di arenaria e manufatti ceramici di età romana, sia repubblicana
che imperiale. La presenza sulla battigia di numerosi conci in arenaria sagomati e modanati,
ancora in corso di documentazione, rende plausibile l’ipotesi, in questa fase, di un impianto
monumentale collegato verosimilmente ad un contesto abitativo più stabile. È evidente che
l’esistenza di una ripa di erosione che taglia strati a lieve pendenza, rimanda, per l’età
punico-romana, a contesti di deposito posti ad una certa distanza dalla linea di costa. La
presenza di depositi colluviali ed eolici che in parte sovrastano le strutture nuragiche
testimoniano comunque che il territorio è stato interessato da processi morfogenetici
determinati presumibilmente da intense attività antropiche avviate già in epoca protostorica,
mentre il fronte di erosione presente a ridosso dei resti nuragici offre ulteriori indicazioni
sulla frequentazione del sito, soprattutto in relazione alle successive fasi storiche.
Presenta un rilevante interesse storico-archeologico la città fenicio-punica e
romana di Tharros, il cui suggestivo contesto ambientale ne giustifica, fra l’altro,
l’appartenenza all’Area Marina Protetta “Penisola del Sinis – Isola di Mal di Ventre”.
Come noto, il sito è minacciato da fenomeni di degrado naturale dovuti a dinamiche
meteomarine di erosione, già valutate nel dettaglio, alla fine degli anni Novanta del secolo
scorso, da parte del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali in rapporto all’emergenza
conservativa che la vulnerabilità del contesto richiede ([2] pag. 59-70). Per tali ragioni
l’insediamento costituisce senza dubbio un efficace osservatorio in relazione al
monitoraggio del profilo costiero.
Il quartiere abitativo, di cui sono a giorno i resti di età romana, si sviluppa su un
terrazzamento procedente da ovest a est, alle pendici della collina di S. Giovanni, mentre,
attraversato il cardo maximus, prospettano il Golfo di Oristano una serie di edifici di uso
pubblico ascrivibili ad un arco temporale che va dal primo impero all’epoca tardo-antica,
oggi localizzati a ridotta distanza dall’acqua. Tra il I sec. a.C. e il VI sec. d.C. l’area della
313
città bassa corrispondente alla cosiddetta “zona delle due colonne” subì una massiccia
opera di risanamento, con l’obliterazione di probabili strutture puniche a favore della
costruzione di un tempio e di edifici termali, le Terme n. 1 e quelle di Convento Vecchio, i
cui ruderi conservano un’imponenza notevole negli alzati in opus mixtum e latericium. A
nord del primo organismo termale si identificano i resti di una basilica, di un battistero e
lacerti di un fabbricato forse pertinente a una funzione monastica. Proprio la coerenza di
tale complesso paleocristiano enfatizza, mostrandone la continuità nel tempo, la destinazione
comunitaria dello spazio, secondo usi già attestati nell’Africa romanizzata ([34], pag. 108109). L’intero quartiere fu quindi oggetto di un prolungato impegno monumentale, il che
lascerebbe intuire una dislocazione primaria degli edifici più arretrata rispetto al litorale
odierno. Merita un accenno, da tale angolazione, anche la rete fognaria della città romana, di
cui sono a tutt’oggi evidenti, ad una quota elevata rispetto a quella originaria, gli sbocchi a
mare lungo la costa orientale. Eccettuati pochi tratti sottostanti a costruzioni, la maggior parte
dei collettori segue il tracciato stradale ed è percorribile, come denota la presenza di
rivestimenti di basolato a chiusura dei bracci di evacuazione. La desuetudine di alcuni
percorsi del sistema fognario, come l’imponente collettore sottostante al cardo o il ramo
prossimo alle terme di Convento Vecchio, occlusi intenzionalmente in occasioni non sempre
precisabili della vita dell’abitato ([15] pag. 193-197) e deviati su altri canali, rappresenta un
fattore significativo circa il problema delle modificazioni geomorfologiche subite dal sito.
Sulla scia di questi dati si giunge ad affrontare la problematica relativa
all’individuazione del porto4. Per lungo tempo la letteratura specializzata ha ipotizzato, in
base alla presunta rigorosità del modulo piazza/porto nell’urbanistica fenicio-punica, in
realtà non adeguatamente comprovata sul piano storico, che la città fosse dotata di un porto
principale in corrispondenza delle acque interne sul Golfo e di approdi secondari sul
versante ovest. Campagne di archeologia subacquea succedutesi dagli anni Sessanta in poi
hanno proposto un’identificazione di ipotetiche “strutture” sottomarine al largo del fronte
orientale della penisola come antiche banchine portuali. D’altra parte, alcuni studiosi hanno
ritenuto che gli apprestamenti dello scalo cittadino, ora localizzati a nord-est di Mare
Morto, ora sulla terraferma a nord della collina di Murru Mannu, siano stati
progressivamente sepolti dai detriti trasportati dal Tirso ([10] pag. 92). Alla carenza di dati
archeologici attendibili a sostegno di tali ipotesi e alla difficoltà di lettura di quelli posti in
luce, inoltre, è stata di frequente opposta la tesi di una presunta subsidenza della penisola
con la conseguente retrocessione della linea costiera, attiva in special modo a est; fenomeno
che, tuttavia, gli studi geomorfologici condotti di recente su scala regionale hanno rivelato
poco incisivo in rapporto alla questione ([10] pag. 91-92). La complessità
dell’inquadramento dei documenti strutturali riconosciuti lungo le linee di costa, fra l’altro,
è stata rimarcata a seguito di una prospezione condotta alla fine degli anni Novanta sul
Capo San Marco. L’indagine ha evidenziato, da un lato, l’impraticabilità dell’assunto
relativo alla presenza di approdi accessori al porto principale sulla costa ovest, del tutto
inaccessibile sia a causa delle fortissime correnti, sia del profilo a strapiombo della roccia;
per altro verso, l’esame approfondito delle presunte “banchine portuali” individuate da
F. Barreca in località Sa Perda ’e s’altare (Fig. 2, a) ne ha chiarito l’originaria pertinenza al
vicino contesto necropolare e il successivo utilizzo come cava ([24] pag. 102), suggerendo
cautela e al tempo stesso un’ulteriore chiave di lettura per la decifrazione dei contesti a
4
In generale cf. [1].
314
mare. Ancora, l’interpretazione di immagini di telerilevamento prelevate nella zona del
Porto Vecchio a nord dell’altura del tofet ha evidenziato l’interramento della laguna antica e
focalizzato i resti di possibili strutture (banchine?), congiunte a Murru Mannu da un basolato,
conservato per un breve tratto e accompagnato da una limitata porzione di muro di sostegno
[21]. Dinanzi a tale frammentarietà documentaria, in sintesi, la localizzazione di un porto
idoneo a sostenere quell’imponente mole di traffici marittimi che doveva contraddistinguere
la Tharros punica e romana resta un capitolo oscuro della storia dell’insediamento.
Per quanto riguarda il settore affacciato sul Mare Sardo, da nord a sud, la scogliera
dinanzi a San Giovanni di Sinis mostra un’ampia casistica di alterazioni rispetto alla
situazione primigenia. L’arenaria eolica in cui sono ricavate alcune delle tombe ipogeiche
della necropoli settentrionale tharrense, poste in prossimità del taglio verticale della falesia,
ha subito molteplici, ravvicinati e ininterrotti episodi di sfaldamento, distacco e crollo di
blocchi di considerevoli dimensioni, precipitati sul breve litorale sabbioso (Fig. 2, c). Le
consistenti lesioni sono evidenti in modo macroscopico laddove parte della camera
funeraria, in corrispondenza del vano d’accesso aperto a est, è rimasta nella posizione
originaria, sospesa nel vuoto, a seguito della perdita del settore terminale dell’ambiente
sepolcrale, più esposto all’impatto ondoso ([10] pag. 84-86). Procedendo verso il Capo, i
residui del bastione difensivo alla base del colle di San Giovanni, riportato per gli alzati in
evidenza ad età postaurelianea, mostrano tracce di laboriose opere ingegneristiche
finalizzate all’ancoraggio dei blocchi per risolvere i problemi statici del piano di posa ([19]
pag. 133-135). Parimenti, presso la cd. Porta Cornensis, la struttura in opera cementizia
visibile sulla spiaggia sotto la collina, si è riconosciuta la «corona di frana» ([10] pag. 87)
che interessa il declivio occidentale di Murru Mannu, tangente la cortina basaltica delle
mura romane. Proprio tale processo franoso potrebbe aver causato la perdita di efficacia e la
distruzione conseguente dell’acquedotto romano, di cui l’ipotetica Porta costituirebbe in
realtà un fornice crollato ([19] pag. 135), con la correlata e progressiva decadenza
dell’abitato sino al definitivo abbandono in età altomedievale ([10] pag. 87-88). Nella
stessa area, le violente e ricorrenti mareggiate hanno portato alla luce in diverse occasioni,
insieme ad altre strutture riferibili all’acquedotto, normalmente ricoperte da una coltre di
sabbia, residui di deposizioni funerarie romane, in origine dislocate lungo l’antica strada
per Cornus ([7] pag. 100-101; [13] pag. 15, 21). Infine, sul Capo San Marco, il limite
occidentale della necropoli meridionale, caratterizzata, come il precedente spazio funerario
ricordato, da tombe a fossa e a camera scavate in profondità nella roccia, funzionale alla
città di Tharros dall’età fenicia a quella tardo-antica, rappresenta un altro dato fruibile nel
controllo delle variazioni costiere. In associazione ai molteplici danneggiamenti artificiali
causati dallo scavo scellerato del quartiere tombale da parte dei profanatori nel corso dei
secoli, l’aerosol marino e il moto di slittamento soggiacente il banco litico ([10] pag. 88-89)
hanno prodotto, infatti, incisive fratturazioni della superficie rocciosa, con definitivi
cedimenti e crolli di parti delle strutture in acqua, che hanno evidentemente compromesso il
paesaggio necropolare e il suo rapporto scenografico con il mare aperto.
Lungo le coste del Sinis sussistono altre tracce antropiche di età storica di
notevole interesse in rapporto al tema in discussione, tra cui, ancora pressoché ignote alla
letteratura archeologica, le numerose cave di arenaria; alcune di queste sono localizzate a
brevissima distanza dal mare e, in vari casi, risultano oggi in parte sommerse. La prossimità
alla costa delle cave, già riscontrata in altre aree del Mediterraneo antico, è stata più volte
ricondotta all’economicità del trasporto via mare dei materiali lapidei, a fronte delle difficoltà
315
a)
b)
c)
d)
e)
Figura 2 – a) Loc. Sa perda ’e s’altare (foto C. Del Vais). b) Loc. Sa perda ’e s’altare: banco
roccioso residuo con tomba a fossa (con risega al bordo) e segni di cava (foto C. Del Vais).
c) Loc. S. Giovanni di Sinis: tombe della necropoli settentrionale di Tharros in parte
crollate sul litorale sabbioso (foto C. Del Vais). d) Cava nota come “Sala da ballo” (foto
C. Del Vais). e) “Sala da ballo”: risparmio nella roccia a protezione della parte centrale
della cava (foto C. Del Vais). f) “Sala da ballo”: sezione stratigrafica (R.T. Melis).
Figure 2 – a) Loc. Sa perda ’e s’altare (photo C) Del Vais). b) Loc. Sa perda ’e s’altare:
residual rock-bank with pit grave (with offset to the edge) and signs of quarry (photo C. Del
Vais). c) Loc. S. Giovanni di Sinis: tombs of northern necropolis of Tharros partially
collapsed on the sandy shoreline (photo C. Del Vais). d) Quarry well-know as “Dance-hall”
(photo C. Del Vais). e) “Dance-hall”: cutting in the cliff to guard the central part of the
quarry (photo C. Del Vais). f) “Dance-hall”: stratigraphic section (R.T. Melis).
316
del trasporto terrestre lungo tracciati stradali percorribili con maggiore dispendio di energie
o da realizzare appositamente in funzione dell’attività estrattiva5. Naturalmente ciò poteva
verificarsi solo nei casi in cui la qualità del banco roccioso avesse quelle caratteristiche di
compattezza e di omogeneità richieste per l’attività edilizia.
A nord della necropoli settentrionale di Tharros si conservano i resti monumentali
di una cava a cielo aperto assai estesa, denominata localmente “Sala da ballo” ([11]
pag. 81) (Fig. 2, d). Nella parte centrale, dove l’estrazione ha raggiunto il livello più basso
fino ad esaurire il banco di eolianiti, essa risulta protetta sul lato a mare da un risparmio
roccioso spesso alcuni metri (Fig. 2, e), evidentemente funzionale, così come ipotizzato per
altri consimili giacimenti mediterranei6, a salvaguardare l’attività di cava dall’azione dei
marosi, tanto più che si tratta di una zona particolarmente battuta dal vento di Maestrale;
lungo tale risparmio sono ricavati alcuni passaggi di modeste dimensioni che
verosimilmente erano funzionali all’imbarco dei materiali lapidei verso la destinazione di
utilizzo. Le tracce di lavorazione visibili sia nella parte centrale che in quelle periferiche
della cava, che restituiscono numerosi blocchi solo parzialmente liberati, indiziano sul tipo
di lavorazione effettuata, ben documentata in altri giacimenti antichi7: l’attività estrattiva,
che si svolgeva a partire da tale risparmio, prevedeva l’escavazione, con l’uso di picconi
metallici, di solchi larghi dai 5 ai 20 cm circa, progressivamente più stretti verso il basso e a
sezione a V o a U, che consentivano di delimitare blocchi, anche di dimensioni
considerevoli, liberandoli sulle facce laterali; il distacco della faccia inferiore avveniva
tramite l’utilizzo di cunei, in metallo o forse anche in legno, conficcati profondamente nella
roccia con l’ausilio di pesanti mazze.
Un’altra cava di dimensioni considerevoli, caratterizzata però da un banco roccioso
meno compatto e attualmente assai degradato dall’azione meteomarina, si localizza più a
nord, in corrispondenza della Punta Maimoni (Fig. 3, a). Oltre alla presenza del risparmio
nella roccia a protezione della parte più interna del giacimento, sul versante esterno esposto a
Maestrale si evidenziano blocchi anche di grandi dimensioni parzialmente sagomati e lasciati
in posto (Fig. 3, b) oltre che solchi e tracce di cunei funzionali alla cavatura di conci ormai
rimossi. A ridosso del risparmio di roccia menzionato si è potuta riconoscere un’ampia
superficie ribassata, ad andamento orizzontale e con tracce del distacco di blocchi, delimitata
su due lati da fronti di cava alti alcuni metri; tale piano si trova al di sotto del livello del mare
per un massimo di 30 cm e dunque appare completamente sommerso.
Di straordinaria rilevanza, per dimensioni e tracce d’uso, risulta una terza cava,
ubicata sulla Punta su Bardoni (Fig. 3, c) ([11] pag. 80), a nord di Is Arutas. Oltre al vasto
settore localizzato sulla terraferma, con ampi risparmi a protezione dai marosi, la cava ha una
significativa estensione al di sotto del pelo dell’acqua, giungendo, in alcuni tratti, ad una
profondità massima di 60 cm. Anche in questo caso si osservano i solchi praticati con il piccone
e le tacche dovute all’uso dei cunei (Fig. 3, d), sebbene la caratteristica saliente del giacimento
sia rappresentata dalla presenza di gradini di modesta altezza residua, dovuti al distacco dei
blocchi, con piano obliquo, in conformità con la giacitura della roccia sedimentaria (Fig. 3, e).
5
Cf. ad es. [6] pag. 138-140; [20] pag. 26; [22] pag. 58.
Cf. ad es. [23] pag. 57; [20] pag. 26; [22] 61-62.
7
Cf. Ad es. [16] pag. 635-638; [17] pag. 371;[6] pag. 101-109; [18] pag. 79-80; [20] pag. 27; [22]
pag. 62-63. Sugli strumenti utilizzati per l’escavazione dei solchi e per il distacco dei blocchi cf. ad
es. [6] pag. 123-126; [18] pag. 70, 72; [8]; [9] pag. 156-158.
6
317
La sommersione di ampi settori delle ultime due cave può risultare, se correlata ad
altre indagini di tipo geomorfologico, particolarmente significativa in relazione allo studio
dei mutamenti della linea di costa in quanto l’attività estrattiva realizzata con la tecnica
descritta non poteva effettuarsi in presenza dell’acqua; così come osservato anche in altri
contesti mediterranei8, la parziale sommersione delle emergenze deve intendersi dunque
successiva all’abbandono delle stesse che divengono dunque indicatori archeologici utili
alla ricostruzione della morfologia costiera antica. Il medesimo discorso può farsi solo in
parte per la “Sala da ballo”, dove unicamente nel settore prossimo alla breccia ricavata per
il trasporto dei conci si evidenziano tracce di lavorazione in corrispondenza della battigia;
va detto però che qui è la stessa litologia del banco roccioso ad aver sconsigliato di
proseguire in profondità con l’attività di estrazione in quanto, al di sotto di uno strato di
arenaria eolica compatta e a granulometria piuttosto fine, si trova un microconglomerato di
spiaggia con elementi quarzosi non adatto per l’attività edilizia il cui livello di affioramento
supera di poche decine di centimetri quello marino attuale (Fig. 2, f).
A questo punto emerge con chiarezza la questione più spinosa di tale indagine,
vale a dire l’attribuzione cronologica delle cave. Al momento i dati in nostro possesso, in
relazione alle tre citate e più in generale sui giacimenti sardi di questo tipo, sono assai
scarni. È possibile che le cave descritte si riferiscano ad un periodo successivo alla fase
punica, così come risulta dal confronto con le tecniche di estrazione utilizzate nella
necropoli settentrionale di Tharros, parzialmente distrutta da un’attività estrattiva
evidentemente incompatibile con l’uso funerario dell’area e dunque recenziore rispetto a
tale utilizzo (Fig. 3, f); oltre che nella citata località Sa Perda ’e s’altare, dove però le
sepolture, a fossa parallelepipeda scavata nel banco roccioso, sono di modeste dimensioni
(Fig. 2, b)9 e dunque riferibili verosimilmente ad una pratica incineratoria in uso fino ad età
primo-imperiale [28]. Va detto inoltre che anche alla “Sala da ballo” alcuni tagli evidenziati
nel settore meridionale potrebbero ascriversi a tombe puniche a fossa parallelepipeda
distrutte dall’attività di cava.
Le tecniche estrattive documentate nel Sinis trovano stretto riscontro in altre
regioni mediterranee, in contesti che vengono generalmente ricondotti ad età antica. La
mancata attestazione di manufatti ceramici nelle cave costiere del Sinis, anche quando,
come alla “Sala da Ballo”, risultano consistenti i detriti conseguenti alla cavatura, non
consente di trarre ulteriori indicazioni al riguardo. Assai poco probante è risultato anche il
dato metrologico. Una prima stima delle misure dei blocchi cavati, approntata grazie ai
segni conservati in situ, non ha offerto dati significativi in quanto si è riscontrata una
cospicua varietà di soluzioni dimensionali che non è agevole ricondurre ad un qualsivoglia
sistema fisso di unità metriche note nel mondo antico.
Giungendo alle conclusioni, si può affermare che lo studio integrato delle
evidenze archeologiche e paleoambientali, sebbene ancora allo stadio preliminare, pare
assai promettente in relazione alla ricostruzione della costa del Sinis e del rapporto tra
l’uomo e il mare a partire da età preistorica.
8
Cf. [23] pag. 58; [22] pag. 64.
Se ne evidenziano con chiarezza due: quella ubicata più a nord è larga 39 cm, lunga 85 cm e alta
50 cm; l’altra, caratterizzata al bordo da una risega che corre sui quattro lati, ha dimensioni totali di
76 cm x 45 cm per un’altezza massima di 47 cm, mentre la risega è larga dai 5 ai 7 cm e alta altrettanto.
9
318
a)
b)
c)
d)
e)
f)
Figura 3 – a) Punta Maimoni. parte esterna della cava (foto C. Del Vais). b) Punta
Maimoni: blocchi parzialmente liberati lasciati in posto (foto C. Del Vais). c) Punta su
Bardoni (foto C. Del Vais). d) Punta su Bardoni: particolare dei segni lasciati dai cunei
(foto C. Del Vais). e) Punta su Bardoni: particolare dei segni di cava sommersi (foto C. Del
Vais). f) Necropoli settentrionale di Tharros (loc. S. Giovanni di Sinis): tombe in parte
distrutte dall’attività di cava (foto L. Campisi).
Figura 3 – a) Punta Maimoni. external part of the quarry (photo C. Del Vais). b) Punta
Maimoni: blocks partially cleared left in place (photo C. Del Vais). c) Punta su Bardoni
(photo C. Del Vais). d) Punta su Bardoni: particular of the signs left with the wedges
(photo C. Del Vais). e) Punta su Bardoni: particular of the signs of submerged quarry
(photo C. Del Vais). f) Northern necropolis of Tharros (loc. S. Giovanni di Sinis): tombs
partially destroyed from the quarry activity (photo L. Campisi).
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