ROBERTO
VACCA
LA VIA DELLA
RAGIONE
LA NUOVA MORALE PER IL
TERZO MILLENNIO
www.printandread.com
Seconda edizione
2002
Prima edizione: Bompiani, 1993
2
NOTA ALLA SECONDA EDIZIONE (ON LINE)
Scrissi questo libro di morale costruttiva, moderna nel 1992. Mi
illudevo che ci sarebbero stati in Italia grandi cambiamenti positivi. E'
irritante vedere ora che gli eventi confermano vecchi detti proverbiali. Fra
questi: plus ça change, plus c'est la même chose. E in Italia (ma anche
altrove) le cose non sono cambiate molto. Onestà e correttezza sono
presenti, ma rare. Si insegna poco, si impara poco, si studia poco, si ricerca
poco, si inventa poco. Quando pubblicai il mio romanzo UNA SORTA DI
TRADITORI (1997) un giornalista mi intervistò per telefono. Chiese:
"Come mai lei, che è - diciamo - di sinistra, in questo libro tratta così
male la sinistra?" Risposi: "Perchè non basta non essere criminali: bisogna
anche avere studiato: e la gente di sinistra in Italia studia troppo poco appena, appena più della gente di destra."
Fu allora che mi venne in mente la battutaccia: "Cos'è che in Italia
accomuna destra e sinistra, pubblico e privato, laico e religioso, militare e
civile? L'ignoranza!"
Questa affermazione è corroborata da statistiche (tristi) nel Capitolo
16. E' sconsolante che di questa orrida situazione culturale nessuno parli.
Tanto meno si discutono misure correttive e piani di intervento La
conclusione forzata è che la via della ragione viene percorsa da pochi,
troppo pochi. Io continuo a testimoniare che sarebbe meglio imboccarla.
Ho rivisto tutto il libro migliorando un po' la prosa. Ho eliminato
alcune incongruenze e molte ingenuità.
I due caratteri cinesi in copertina si leggono lún dào. Significano
semplicemente "la via della ragione" e hanno funzione ornamentale. Li ho
scritti usando il pennello di pelo di tasso, il bastoncino di inchiostro e il
calamaio di lavagna, che mio padre riportò dalla Cina nel 1908. Il carattere
dào è lo stesso di "taoismo".
Non mi è venuto in mente altro simbolo per rappresentare la ragione.
La Dea Ragione nel 1789 veniva rappresentata con ragazze goffe vestite
con pepli e berretto frigio. Neanche Minerva Athena andava bene: era la
dea della guerra, oltre che della sapienza.
3
INDICE
Prefazione
5
1 Siamo davvero liberi di decidere le nostre azioni?
2 Come distinguiamo il bene dal male? Quali sono i fini giusti?
Esistono fini giusti in assoluto?
3 Le assurdità derivanti dalle regole fisse
4 Antinomie del diritto romano
5 Il cammino della ragione dalla Bibbia al Talmud
Breve nota storica sul Talmud
6 La legge morale impressa nei nostri cuori: correggiamola!
7 Contraddizioni, praticità, riserve mentali da Tommaso a Ignazio
8 Pentimento. Istruzioni 'Escape' e 'Undo'. Morale sessuale. Colpa
9 L'etica protestante del lavoro e i suoi limiti
10 Inutilmente buone le intenzioni di Henry David Thoreau
11 Mentite a vostro rischio
12 Furto, peculato, corruzione, tangenti
13 Morale della complessità, Talmud e ingegneria dei sistemi
14 Una morale artificiale affidata al computer
15 Dovremmo convertirci alla morale giapponese?
16 Le azioni di portata nazionale e mondiale
17 Controllo di qualità nell'industria e nella vita personale
18 La morale nell'innovazione tecnologica
19 Altruismo e cooperazione
20 La qualità globale: un graal di perfezione irraggiungibile
temperato dal buonsenso
13
19
27
33
37
41
45
49
55
63
71
77
83
87
101
105
111
119
129
137
145
APPENDICE - La teoria matematica della cooperazione e della
diserzione
159
Indice dei nomi
171
4
PREFAZIONE
In questo libro parlo di miglioramento. Parlo di principi e metodi per
fare andare meglio gli affari del mondo e quelli nostri privati. Questo è un
libro di morale. Credo che la mancanza di una morale efficace porti
infelicità ai singoli e alle nazioni: in casi estremi porta al suicidio, al caos,
alla guerra, al dissesto economico od ecologico.
Non sappiamo bene quanto sia probabile che una di queste catastrofi
ci colpisca. Certo ciascuno di noi intravede modi in cui le cose potrebbero
andare molto meglio. Perchè non ci vanno? La ragione è che per governare
le nostre azioni non bastano più le regole e i metodi tradizionali. Furono
formulati in tempi antichi e non riflettono più la realtà del mondo di oggi.
Ce ne rendiamo conto considerando le sfide dei sistemi tecnologici,
finanziari, politici - sempre più grandi e complessi. Ce ne rendiamo conto
nella nostra vita personale. Oggi siamo insoddisfatti pur essendo molto
più ricchi dei nostri antenati. La letteratura e la tradizione ci dicono che
probabilmente gli esseri umani non sono mai stati soddisfatti. Oggi, però,
sappiamo più cose. Apprezziamo meglio il divario fra i livelli che abbiamo
raggiunto e quelli molto più alti che potremmo raggiungere. Non siamo
deprivati - nè economicamente, nè culturalmente - ma soffriamo di
deprivazione relativa. Intanto abbiamo a disposizione strumenti efficaci
per migliorare la nostra situazione. Alcuni furono inventati secoli fa, come
la stampa, e sono stati usati solo da poca gente. Altri sono stati sviluppati
in epoca recente in ambito industriale. Qui li descrivo e dico come usarli.
Questo libro potrà esservi utile anche se avete pensato finora che i
modi migliori di comportarsi debbano essere dettati da certe dottrine
religiose, filosofiche o umanitarie. Queste dottrine cercano di suggerire
regole generali fisse. Per adattarsi a tante situazioni diverse, le regole fisse
devono essere semplici. Quindi non servono davvero quando vi trovate in
conflitto fra due scelte. Nessuna delle due vi sembra cattiva. Tutte e due
comportano rischi - e non sapete decidere. È di queste situazioni che vi
parlerò.
Le regole religiose o umanitarie, poi, ci aiutano poco per affrontare
problemi più vasti : sociali, civili o politici. Dunque, se credete che sia
importante trovare metodi per governare le azioni collettive nel modo
migliore, allora questo libro vi può servire. Vi offre qualche cosa di nuovo.
Perchè preferire il nuovo all'antico se abbiamo sentito ripetere tante volte
che gli antichi erano saggi e che dovremmo rispettare le loro credenze?
5
Perchè ormai avremmo dovuto imparare che ogni credenza e ogni presunta
saggezza va giudicata nel merito.
E poi non possiamo accettare tutte le credenze antiche perchè si
contraddicono le une con le altre. Certe azioni erano considerate
meritorie in certe epoche e presso certi popoli e abominevoli in altre
epoche e in altre regioni. Ne vedremo vari esempi. In generale le regole e i
principi morali migliorano. Rispetto a qualche secolo o anche solo a
qualche decennio fa, c'è oggi meno violenza, meno rigidità, più altruismo.
A prima vista sembra che non sia così perchè la violenza più vicina a noi
ci fa più impressione. Le stragi in Cambogia, in Somalia, in Bosnia e le
violenze dei terroristi, dei fondamentalisti e dei neonazisti sono orrende.
Ma fortunatamente sono meno gravi degli eccidi e dell'Olocausto della
Seconda Guerra Mondiale. Sono meno orrende degli annientamenti di
interi popoli avvenuti secoli fa, quando ancora non era stata coniata la
parola 'genocidio'. Certo il miglioramento è lento. Vedremo insieme come
possiamo accelerarlo. Qualcuno potrebbe pensare che le azioni individuali
e quelle sociali e civili siano governate bene dalle leggi vigenti nei vari
paesi. Non credo che sia così per ragioni esposte molto bene 200 anni fa da
Cesare Beccaria nella prefazione al suo libro DEI DELITTI E DELLE
PENE (mi sono preso la libertà di snellire e modernizzare un po' la sua
prosa):
"Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore, fatte
compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in
Costantinopoli, frammischiate coi riti longobardi e involte in
farraginosi volumi di privati e oscuri interpreti, formano quella
tradizione di opinioni che da una gran parte di Europa ha ancora nome
di leggi. È cosa funesta che a queste leggi - uno scolo dei secoli più
barbari - obbediscano coloro che tremando dovrebbero reggere le vite e
le fortune degli uomini."
Dopo due secoli le cose non vanno molto meglio. Sono state aggiunte
leggi buone, ma anche leggi contraddittorie, insulse o dannose. Non
possiamo certo sperare di tirarne fuori regole di vita. E, allora, dove
andremo a prendere regole di vita che ci servano davvero - nell'individuale
e nel collettivo, nei casi della vita già occorsi a tutti e in quelli inaspettati
che sono i più preoccupanti? Le regole di vita dovrebbero essere dettate
dalla morale. La morale viene definita come una disciplina o un sistema
per comportarsi bene. "Mores" è parola latina che indica i modi in cui la
maggioranza della gente è abituata a comportarsi. E dovremmo continuare
a comportarci come in passato? Può essere questa la nostra salvezza? No.
Non può essere vero. Specialmente in un periodo in cui tutto sta
cambiando. Almeno nei paesi sviluppati, sono sempre di più quelli che
sanno leggere e scrivere e a scuola si imparano sempre più cose.
L'elettronica e la tecnologia aerospaziale hanno cambiato il mondo oltre le
più fantasiose aspettative dei narratori di favole magiche. Facciamo viaggi
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sempre più lunghi in tempi sempre più corti. Riusciamo a fare più cose in
tempi sempre più stretti. Produciamo di più faticando di meno. La gente che
segue le pratiche religiose è sempre meno. I miti del comunismo sono
scomparsi quasi ovunque. Il disarmo nucleare si avvia sperabilmente a
diventare una realtà. La terza guerra mondiale appare sempre meno
probabile anche se i terroristi continuano a uccidere a caso persone
qualsiasi. (Fino al 2002 molto meno numerose di quelle che morirebbero in
una guerra totale).
Dunque ci vengono offerte sempre più occasioni e diventa più
difficile e più impegnativo sceglierle in tempi brevi. Succedono più cose e
tocca a noi fare in modo che vadano bene - far succedere quelle giuste. A
questo scopo dobbiamo decidere quali siano le cose giuste. E chi ce lo
insegnerà? Se non ce lo insegnano le religioni in misura adeguata,
potremmo rivolgerci ai filosofi. Ce ne sono stati di seri e ne citerò alcuni.
Qui, però, bisogna stare attenti. Certi filosofi sono del tutto inaffidabili.
Hanno accettato le scervellatezze peggiori tirate fuori in tutta la storia del
pensiero umano. Le hanno mischiate insieme, prendendole tutte per buone.
Fanno orrendi pasticci di arte, religione, mitologia e sedicente filosofia. Poi
cercano di propinarceli come esempi di cultura superiore.
Non abbiamo tempo di controbattere questa gente. Ma non dobbiamo
nemmeno lasciare che esercitino su di noi il loro meschino terrorismo
culturale. Guardiamoci, dunque, da filosofi e scrittori che si esprimono in
certi loro gerghi incomprensibili. Guardiamoci da quelli che si esprimono
solo per astratti perchè sono staccati dalla realtà che non hanno mai
guardato e sulla quale non hanno mai lavorato. Guardiamoci da quelli che
mettono troppe parole fra virgolette nell'intento di modificarne il significato
in modo indefinito e furbesco. Non hanno niente di importante da
insegnarci - anche se si occupano di questioni vitali. È sicuramente vitale il
problema del libero arbitrio, di cui parlerò nel primo e nel sesto capitolo.
Cercherò di dimostrare che siamo davvero liberi di decidere che cosa
fare o che è come se lo fossimo. Possiamo imparare a fare cose che prima
non sapevamo fare. Questo ci richiede di fare scelte informate. Quindi
possiamo farle in tanti campi diversi e poiché agire significa imparare ad
agire, è come se avessimo il libero arbitrio.
E ora cercherò di illustrare brevemente le ragioni per cui è sensato
fare quello che sto cercando di fare: provare a dettare regole generali di
comportamento - se non una teoria della morale - ispirandomi ai più vari
modelli di ragionamento tratti dalla storia del pensiero antico e da esempi
moderni di gestione illuminata dell'industria e della ricerca.
Il primo a formulare una teoria della morale fu Aristotele. Distinse
le verità speculative (come quelle della geometria) dalle verità pratiche
(relative ai modi in cui dovremmo comportarci). Sostenne che le scelte
morali buone equivalgono a verità pratiche. Molte definizioni e
ragionamenti di Aristotele sono entrati ormai nel linguaggio corrente e nei
costumi usuali di molte società. Vanno esaminati, anche se non ci bastano a
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risolvere i nostri problemi di comportamento. Il nostro problema essenziale
di comportamento è: "Come possiamo fare a stare bene - a stare meglio?"
La Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti nel 1776
suggeriva che la ricerca della felicità è un diritto inalienabile. Però
ugualmente non raggiungiamo la felicità se non facciamo le cose giuste. E
quali sono? Che azioni dobbiamo compiere?
Le morali religiose antiche imponevano liste di azioni proibite
(come 'non uccidere', 'non rubare') e di azioni obbligatorie (come: 'onora il
padre e la madre'). E andavano bene per gente che viveva in un mondo
semplice - per pastori di qualche migliaio di anni fa. Però queste liste di
azioni imposte o vietate non funzionavano. Le eccezioni erano frequenti
- a seconda delle circostanze. Quindi per spiegarle, per farle funzionare,
come vedremo, dal III al V secolo ricorsero a criteri e ragionamenti
complessi gli autori del Talmud - la grande opera di commento e
interpretazione della legge ebraica biblica scritta e orale.
Alcuni, invece, hanno cercato di evitare gli elenchi suggerendo
criteri generali per distinguere le azioni buone da quelle cattive. Le due
regole più note sono : 'Ama il prossimo tuo come te stesso (Hillel e Gesù
Cristo) e 'Agisci come se la massima della tua azione dovesse diventare
per tua volontà norma universale' (Kant).
Ma che cosa obiettare a chi rispondesse: "E perchè dovrei obbedire
a queste regole? Non sono gratuite?"
La risposta buona è che in certo senso aveva ragione Kant quando
parlava della legge morale stampata nel suo cuore. Quella di Kant, però,
è solo una similitudine. Sembra più ragionevole darne una interpretazione
darwiniana. I nostri antenati che hanno sviluppato un concetto (certo
impreciso e multiforme) di quello che è bene e di quello che è male, sono
stati capaci di sopravvivere meglio degli altri. Questo concetto, poi, non è
proprio stampato nei nostri cuori o nel nostro DNA, ma è trasmesso
culturalmente.
In ogni caso: come possiamo esprimere in modo generale l'idea che
certi fini e certi modi di comportarsi sono giusti e altri sbagliati?
È vero che viviamo meglio - come società e come individui - se ci
comportiamo in modo altruista. Esiste anche una teoria matematica
dell'altruismo che ho riportato in appendice. Però sarebbe meglio poter
affermare qualche cosa di generale su cosa sia bene e cosa sia male dal
punto di vista morale. Ho provato a farlo nel Capitolo 2 in cui propongo
alcuni assiomi che dovrebbero essere evidenti a tutti.
Ma, per tornare alle regole di Hillel (o Gesù Cristo) e di Kant,
notoriamente queste non sono state molto seguite. Hanno avuto qualche
effetto positivo, ma oggi si rivelano sempre più inadeguate. Perché ?
Perché, come ho già accennato, il mondo diventa sempre più
complesso e le conseguenze delle nostre azioni sono sempre più difficili da
prevedere. Non basta, quindi, avere buone intenzioni e prefiggersi fini
buoni. Siamo responsabili delle conseguenze ultime. Perciò dobbiamo
diventare più bravi a prevedere l'avvenire - il che è difficile quando troppe
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situazioni cambiano continuamente. In questa situazione, come avevano
capito i talmudisti, le regole fisse come quelle bibliche non bastano: sono
vaghe e insufficienti. Oggi ci vogliono regole nuove, più stringenti, più
complicate, che incorporano dosi maggiori di conoscenza.
La nostra ricchezza - crescente - è fatta sempre meno di oggetti
materiali. È fatta sempre più di idee e di conoscenza. Questi due fattori
creano efficacemente ricchezza in ogni campo: dall'agricoltura all'industria
e ai servizi. Se però la nostra conoscenza è distorta o mal diretta, produce
sconcerti e distruzioni di ricchezza. Basta pensare ai grandi progetti che
hanno richiamato enormi investimenti e poi non sono mai stati completati.
Sono chiamati 'cattedrali nel deserto'.
Dunque dobbiamo organizzarci diversamente - per evitare gli
sprechi, le regole sociali assurde e opprimenti, le decisioni sbagliate e
le mancanze di decisioni necessarie. La regola di base da adottare è
semplice :
SFORZATI DI PREVEDERE LE CONSEGUENZE DI QUEL CHE
FAI E AGISCI IN MODO DA PRODURRE EFFETTI POSITIVI ANCHE
A LUNGO TERMINE.
Questa regola è meno generica di quelle di Gesù Cristo e di Kant.
Soprattutto non è fissa e non invita all'obbedienza cieca. Contiene verità
inespresse da rendere esplicite. Ci invita a ragionare per migliorare il
nostro futuro. Ci invita a ottimizzare. Malgrado questi pregi, contiene una
petizione di principio. Come decidiamo se un effetto è positivo? Per
farlo, useremo gli assiomi a cui ho accennato e poi dovremo discutere.
Questo libro cerca proprio di svolgere queste discussioni.
E quanto può essere lungo il termine verso il quale guardiamo? Deve
essere il più lungo possibile - anche se le difficoltà di previsione razionale
dell'avvenire ci impongono termini corti o fanno sì che i risultati ottenuti
talvolta siano diversi da quelli sperati.
Sentiamo dire spesso che le nostre conoscenze non dovrebbero
essere suddivise in compartimenti stagni. Anche nelle scuole si proclama
almeno (anche se la pratica è diversa) che non si devono separare le
materie insegnate e che si devono impartire conoscenze integrate. Le
diverse discipline si cominciano a parlare fra loro. Gli sforzi diventano
interdisciplinari.
Nel caso della morale - paradossalmente - è l'industria che ci può
dare insegnamenti validi anche nella sfera personale. È pratica industriale
antica quella di collaudare le componenti prodotte, di eseguire prove sui
materiali e sui prodotti finiti. Già da molto tempo l'artigiano o l'industriale
che vendono un prodotto inadatto all'uso o tanto difettoso da causare danni
agli utenti vengono considerati responsabili e tenuti al risarcimento.
Ma negli ultimi decenni sono successe cose nuove. Molti industriali
hanno assunto su di se responsabilità più pesanti ed estese. E, in
conseguenza, la qualità della nostra vita è migliorata. Questo miglioramento
9
è conseguenza diretta di quelli introdotti dalle industrie nella qualità della
progettazione, dei materiali, dei metodi di produzione. È un progresso
non solo materiale, ma anche intellettuale. Infatti l'intelligenza umana si
esplicita nei programmi dei computer che governano robot, macchine
operatrici automatiche, laser, trasporti interni e telecamere per collaudi
visivi. Dunque l'automazione migliora la qualità del prodotto. E, a valle, è
migliorata anche la qualità della manutenzione e delle applicazioni
pratiche finali. Certo sono i clienti, gli utenti finali, che in pratica utilizzano
i prodotti: bene o male. Dunque l'industria deve assumere in misura
crescente la responsabilità di aggiornarli e di informarli sui modi giusti di
farlo. La qualità dei prodotti e dei servizi si basa anche sulla
comunicazione.
Cose simili si verificano nel campo della protezione ambientale. Da
anni cerchiamo di limitare gli inquinamenti. Fissiamo i limiti della presenza
nell'aria o nell'acqua di sostanze nocive e misuriamo cosa accade in realtà.
Quando quei limiti sono superati, c'è chi grida alla catastrofe. Gli ingenui
credono che la situazione stia peggiorando, ma non è così. Alcuni
decenni or sono nessuno eseguiva misure dell'inquinamento dell'aria: era
inquinata, ma non lo sapevamo. Ora in molti luoghi lo è meno.
Non sostengo che tutto vada ovunque per il meglio. Non sostengo
che i prodotti industriali siano perfetti - del tutto perfetti non lo saranno
mai. Sostengo, però, che rispetto ai livelli raggiunti dalla qualità
industriale, spesso chi è rimasto in ritardo sono gli utenti. Siamo noi.
Sembra un'affermazione paradossale. Infatti oggi siamo più colti di
trenta o quaranta anni fa. Il numero degli studenti che si laureano ogni
anno è quadruplicato, facciamo lavori più interessanti e sofisticati, usiamo
più computer, sprechiamo meno tempo nei viaggi (gli aerei hanno
quadruplicato la loro velocità e le velocità medie dei viaggi in auto sono
raddoppiate, malgrado che i limiti di velocità siano stati abbassati). Però
non abbiamo imparato a comportarci meglio, nè a impiegare meglio le
risorse umane. Molti di noi si limitano a mugugnare per gli inconvenienti
che incontriamo nell'uso della tecnologia o dei sistemi tecnologici. E non
apprezziamo che molti di questi inconvenienti dipendono dalla nostra
propria inadeguatezza come operatori dei sistemi, o come utenti.
Le cose andranno meglio se applicheremo una nuova moralità e se
emuleremo anche a livello personale i miglioramenti qualitativi già
conseguiti dall'industria. Come possiamo fare? Dobbiamo progettare sul
lungo termine anche le nostre attività individuali: i modi in cui compriamo
oggetti e servizi, l'impiego del tempo libero. Nel nostro lavoro dobbiamo
assumerci responsabilità oltre quelle che ci vengono affidate formalmente.
Dobbiamo offrire qualità migliore di quella che ci viene richiesta.
Dobbiamo immaginare obiettivi nuovi e nuovi modi di raggiungere quelli
tradizionali. Se ci proveremo in tanti, realizzeremo una società migliore.
Nella nostra vita privata progettare sul lungo termine significa tarare
i nostri rapporti con i familiari, con gli amici, con gli estranei, con gli enti
in modo da ottimizzarli. Così realizzeremo per noi stessi una vita migliore.
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Significa non solo rifuggire dal vandalismo e collaborare con la forza
pubblica che lo combatte, ma anche evitare le congestioni. A questo scopo
dobbiamo informarci e osservare quando un livello di servizio si deteriora
perché tentiamo in troppi di sfruttare le stesse risorse energetiche, stradali
od offerte dalle reti di telecomunicazione. Poi dobbiamo cercare di
scaglionare la nostra domanda di servizio nel tempo. Per fare tutti insieme
queste cose di che cosa abbiamo bisogno, allora?
Forse di una nuova teoria della morale? Secondo Lucien LévyBruhl (l'antropologo della 'mentalità pre-logica' che scriveva agli inizi del
secolo) non è possibile dettare una teoria della morale perchè avrebbe un
contenuto non teorico, ma pratico. Poi Lévy-Bruhl sostiene che le teorie
morali sono irrilevanti. Infatti, qualunque sia la loro origine - religiosa,
umanistica, razionalistica - i dettami che se ne traggono sono spesso
identici anche in diverse società. Questo libro, dunque, non è una teoria
della morale. È un libro pratico. Mira a discutere metodi efficaci per far
succedere le cose che considereremo giuste dopo aver raccolto informazioni
adeguate e averci ragionato sopra. Suggerisce modi di comportarci meglio
nel privato e nel pubblico, per costruire un avvenire migliore.
Tutte le religioni pretendono di insegnare quali siano le cose giuste e
come dobbiamo organizzarci per metterle in pratica. In questo libro, però,
mi occuperò poco di religione. Parlerò poco della Bibbia e più
dell'insegnamento talmudico (rilevante in questo contesto più come metodo
che dal punto di vista religioso). Discuterò la morale protestante e quella
shintoista, rilevanti per le ragioni che dirò.
Citerò S.Tommaso più per le sue accurate classificazioni che per le
sue opinioni dalle quali dissento spesso. Altre fonti che mi hanno ispirato
sono l' ingegneria dei sistemi e la teoria del management (1). Molti
autori hanno esposto teorie della gestione aziendale prive di valore e
fatte solo di parole altisonanti. Qualche volta riescono anche a farsi pagare
somme ingenti per esporle. Di loro non mi occupo.
Cerco, invece, di trarre insegnamenti dai principi di qualità globale
che stanno alla base di un importante movimento in tutti i paesi
industriali. Credo che questi insegnamenti possano giovare anche nella
sfera personale e nelle iniziative per migliorare la gestione della cosa
pubblica. Sia in un caso, sia nell'altro è urgente pensare metodi nuovi.
Appoggiandoci sulla forza della ragione e dell'esperienza possiamo
migliorare la qualità della nostra vita, la nostra qualità di viventi e anche
l'ambiente - naturale o artificiale - in cui viviamo.
______________________________________________________
(1) Ho trattato argomenti simili a questo in MANUALE PER UNA
IMPROBABILE SALVEZZA (Mondadori, 1974) e in COME
AMMINISTRARE SE STESSI E PRESENTARSI AL MONDO
Mondadori, 1983 - disponibile in inglese su www.printandread.com.
Il messaggio che cerco di trasmettere ora è più concreto e sfrutta idee
sviluppate negli ultimi anni in ambiti industriali avanzati.
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CAPITOLO 1
SIAMO DAVVERO LIBERI DI DECIDERE LE
NOSTRE AZIONI ?
"Chiedo l'assoluzione del mio cliente perché era incapace di
intendere e di volere nel momento in cui ha commesso il fatto."
Il fatto può anche essere un omicidio efferato. Però se chi l'ha
commesso era incapace, può farla franca. I tribunali possono accettare la
tesi che l'imputato non era in sé, non era responsabile delle sue azioni. In
altre parole non era libero di decidere quale azione compiere. Agiva come
un automa, come un animale, come un essere privo di ragione.
Per dimostrare che una persona é - o é stata - incapace di intendere
e di volere normalmente si ricorre alla perizia di uno psichiatra. Questo
significa che secondo la legge e l'opinione comune tutti noi siamo
normalmente liberi di decidere cosa faremo. Quindi ne siamo responsabili.
Quindi - anche - vale la pena di inculcare nei giovani sani principi
morali: così si comporteranno meglio, dato che sono liberi di farlo. La
società se ne avvantaggerà. Se non fossimo liberi di decidere le nostre
azioni, non varrebbe tanto la pena di discutere sul libero arbitrio - e questo
mio libro sarebbe inutile.
Il biologo francese Durand de Gros alla fine del secolo scorso negò
che gli uomini abbiano il libero arbitrio e propose una sua teoria del
polizoismo. La nostra mente, il nostro cervello non avrebbero una
individualità stabile, ma sarebbero formati da insiemi di animaletti
(colonie di neuroni) - piccole coscienze parziali che volta a volta
collaborano o si combattono per far andare le cose in un modo o in un
altro. Queste colonie che abbiamo nel cervello volta a volta
si
formerebbero, si scinderebbero e si raggrupperebbero di nuovo in modi
diversi tanto da dare risultati inaspettati e sorprendere chi ci vede agire e
anche noi stessi.
Più moderno e autorevole di Durand de Gros, é contro il libero
arbitrio anche Francis Crick - il premio Nobel scopritore del DNA. Il suo
libro intitolato The Astonishing Hypothesis ("L'ipotesi sorprendente")
comincia con queste parole: "L'ipotesi sorprendente é che tu, le tue gioie e i
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tuoi dolori, le tue memorie e le tue ambizioni, il tuo senso di identità
personale e di libero arbitrio in effetti non sono altro che il comportamento
di una vasta struttura di cellule nervose e delle molecole associate con esse.
Come avrebbe potuto dire Alice nel paese delle meraviglie, 'Non sei altro
che un mucchio di neuroni'." (intervista di John Horgan nel numero di
Febbraio 1992 dello Scientific American).
A me questa ipotesi non sembra affatto sorprendente. Anche il
nostro sistema cardio-circolatorio e il nostro stomaco si comportano in
modi complicati di cui non siamo coscienti. Mi sembra ragionevole scontato - che ogni mia azione sia l'effetto di complessi fenomeni nel mio
sistema nervoso. Sappiamo bene che non ci rendiamo affatto conto di questi
processi interni. Questo vale sia per un'azione semplice, come guardare un
oggetto sia per un'azione complessa come scegliere il metodo da usare per
risolvere un problema matematico.
Anche non conoscendo i meccanismi interni, c'é un modo
semplice per decidere se il libero arbitrio esiste o no. Se non esistesse, le
ipotesi sarebbero due. La prima é che noi agiamo in modo del tutto
casuale. La seconda é che agiamo in modo deterministico, ma governato
da meccanismi naturali incogniti.
Per decidere la questione faremo bene a non usare l'introspezione.
Non ha senso sostenere che siamo davvero liberi di decidere quali azioni
compiere perché ci sembra di essere liberi. É molto probabile che
sbagliamo. Se ci potessimo fidare dell'introspezione, avremmo già
scoperto da millenni come funziona la psiche umana.
Della prima ipotesi ci liberiamo facilmente. Per dimostrare che
non agiamo sempre a caso basta considerare i numerosissimi esempi di
esseri umani che annunciano un loro progetto e poi lo portano a
compimento. Si può trattare di un'impresa sportiva o di un'operazione
finanziaria, della costruzione di un computer o di un nuovo tipo di motore
a combustione interna. Se diciamo prima quello che faremo e poi lo
facciamo, non procediamo a caso.
Una similitudine calzante si può trarre dal gioco di biliardo
chiamato 'pool'. Si gioca con 15 palle numerate e una palla bianca. Non
gioca certo a caso chi é capace di annunciare il numero della palla che
manderà in buca dopo averla colpita con la bianca e di farlo correttamente
per 15 volte di seguito. Potrebb'essere, però, che qualche volta agiamo a
caso. Questa ipotesi la analizziamo fra qualche pagina.
La seconda ipotesi é più difficile - forse impossibile - da
controbattere. Ragioniamo: la fisica ci insegna due cose - fra le tante. La
prima é che nel campo delle particelle elementari molti eventi sono casuali.
La seconda é che a livello macroscopico nessun fenomeno obbedisce a un
determinismo assoluto. In altre parole tutti i fenomeni così detti
deterministici possono essere analizzati con una precisione limitata. In
conseguenza, date le condizioni iniziali, possiamo prevederne l'andamento
con un'approssimazione buona - ma non assoluta.
Ora Francis Crick ha sicuramente ragione quando dice che la
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nostra personalità - sita nel nostro cervello - non é che un ammasso di
neuroni. Questo significa che i processi del nostro cervello potranno
essere analizzati in avvenire con precisione anche notevole ma sempre
limitata. Non é rilevante se i nostri processi cerebrali sono influenzati in
misura significativa da eventi casuali al livello delle particelle elementari.
Che lo siano o no, é ragionevole pensare che si verifichino processi
evoluzionistici.
Nell'evoluzione delle forme biologiche errori casuali nella
trascrizione del DNA portano a piccoli cambiamenti negli organismi. Poi si
verifica una selezione cumulativa che in modo veloce ed efficace perpetua
i cambiamenti che danno vantaggi agli organismi che li incorporano.
In modo analogo l'ammasso di neuroni che abbiamo in testa
modifica le sue connessioni e la sua struttura in parte a caso e, quindi, in
modo da massimizzare i vantaggi conseguiti. Questi processi di evoluzione
mentale (e neuronale) sono ben noti: si tratta dell'apprendimento.
É nostra esperienza quotidiana che certi esseri umani imparano a
fare cose, a formulare progetti e a realizzarli con successo. Quelli di noi
che padroneggiano un mestiere o un'arte, non hanno solo esperienza dei
modi in cui loro stessi hanno imparato nozioni e procedure. Hanno anche
capito come imparano gli altri. Hanno visto il lampo di intelligenza che
folgora un apprendista quando capisce finalmente una cosa difficile.
Hanno seguito i modi di comportarsi più evoluti di chi ha già imparato.
Sono stati testimoni di conflitti fra la pigrizia e l'interesse.
Ora possiamo dire che chi non raggiunge alcun successo é
deterministicamente inadatto a evolversi. Possiamo dire che chi ha successo
é fatto in modo che non avrebbe potuto mai fallire. Sappiamo bene che
questi modi di dire sono imprecisi. Il caso ha la sua parte nelle cose umane.
In pratica, però, le nostre scelte non sono illusorie. L'ipotesi contraria é
irrilevante. Va bene che Francis Crick ci ricordi che non siamo altro che un
ammasso di neuroni. Però noi sappiamo come far funzionare il nostro
ammasso di neuroni in modi più efficaci per ottenere conseguenze che ci
piacciono di più. É come se l'avessimo il libero arbitrio.
Eppure tutto questo discorso contrasta con certe nostre esperienze
personali. Si tratta delle azioni impulsive - ampiamente descritte da
psicologi e romanzieri. Decidiamo di fare una cosa e poi improvvisamente
ne facciamo un'altra.
Retana, l'impresario di corride nel racconto di Hemingway
"L'invitto", aveva pensato di offrire solo 500 pesetas a Manuel, il vecchio
torero fallito che lo implorava di farlo lavorare. Però quando aprì la bocca
per parlare, la sua bocca disse: "Duecentocinquanta."
Alcuni di noi hanno ascoltato con impazienza e scarso interesse un
amico che raccontava i propri guai. Poi improvvisamente hanno sentito la
loro voce che diceva: "Non ti preoccupare. Per un paio di mesi posso
prestarti due o tremila euro." Oppure: "Lascia fare a me. Ci parlo io con i
tuoi parenti. Vedrai che metto tutto a posto."
Alcuni di noi, dopo aver deciso di aspettare che il treno fosse
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fermo del tutto, inaspettatamente sono saltati giù, hanno perso l'equilibrio e
hanno avuto un piede maciullato sulle rotaie.
Gli esempi sono tanti. C'é chi ha fatto proposte di matrimonio
delle quali poi si é dovuto pentire. C'é chi si é messo a giocare d'azzardo e,
in genere, ha perso dei soldi. C'é chi si é offerto volontario in missioni
pericolose. Chi ha studiato a lungo l'andamento della borsa e la storia di
una certa azienda per poi telefonare a un commissionario ordinandogli di
comprare tremila azioni di una società di cui non sapeva niente.
Quando agiamo in questo modo impulsivo, chi decide per noi?
Come dicevo prima, hanno probabilmente ragione Durand de Gros e Crick.
Decidono per noi certi meccanismi neuronali di cui non ci rendiamo conto.
Dunque - in certa misura e certe volte - il libero arbitrio non lo abbiamo
affatto. Prima o poi ne sapremo molto di più sull'argomento. Ma frattanto
possiamo ragionare sulla questione a partire dalla fine - dai risultati.
Qualche volta prendiamo una decisione impulsiva e ci va bene: facciamo
un colpaccio. Si vantano di funzionare così certi uomini d'affari. Dicono
di avere fiuto. Intuiscono un audace corso di azioni e decidono di
intraprenderlo. Comprano un'altra azienda. Investono in un titolo. Danno
fiducia a un inventore paradossale. Entrano pesantemente in un mercato
nuovo. E gli va bene.
É vero che esiste il fiuto per gli affari? Supponiamo che tutti gli
uomini d'affari prendano le loro decisioni a caso. Allora le cose come
andranno? La maggioranza avrà tanti successi quanti insuccessi. Pochi
avranno molti più successi che insuccessi o viceversa. Pochissimi
avranno successo quasi sempre o registreranno quasi sempre fallimenti.
A posteriori potremo dire allora che hanno fiuto quelli che
vincono molto più spesso, quasi sempre. E, invece, secondo l'ipotesi che
abbiamo fatto, il fiuto non esiste: si tratta di eventi casuali.
La questione é difficile e probabilmente irrisolvibile. Eppure non é
assurdo pensare che alcuni di noi abbiano poteri di intuizione maggiori
della media. Hanno studiato di più. Hanno osservato di più. Hanno meditato
di più. Quindi sono più pronti ad afferrare indizi che sfuggono ad altri. In
effetti hanno un certo fiuto e per questo potranno essere considerati più
fortunati di altri che hanno faticato per affinarsi la mente.
Da questa considerazione possiamo trarre un utile insegnamento:
evitiamo di prendere decisioni impulsive e avventate su argomenti che non
abbiamo studiato bene. Se non abbiamo faticato a lungo prima, é poco
probabile che vinciamo a caso.
Dovremmo essere noi stessi i giudici del profitto che abbiamo
raggiunto nel capire il mondo, la gente o i mercati. Sappiamo bene, però,
che spesso giudichiamo noi stessi troppo benevolmente. Allora disponiamo
di un altro criterio. Prendiamo bene nota di quanto spesso accade che una
nostra azione impulsiva abbia successo. Se accade molto spesso,
continuiamo ad agire ogni tanto in modo impulsivo. Se ci va male quasi
sempre, smettiamo.
Naturalmente questo ultimo criterio può fallire. Ci indurrà a tentare
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la fortuna se siamo stati fortunati in passato. Questo é sbagliato perché
dovremmo sapere che il caso non ha memoria. Quindi chi é stato fortunato
in passato può smettere di esserlo in qualunque momento. Ricordiamoci sia
negli affari e nel lavoro, sia nella vita privata di non confondere la fortuna
con l'abilità - poi comportiamoci a tutti gli effetti come se fossimo liberi di
agire a nostro piacimento. É quasi così. É spesso così.
Riprenderemo la questione nel Capitolo 6 a proposito della legge
morale che, secondo alcuni, é impressa nei nostri cuori. Se fosse davvero
così, non saremmo tanto liberi. Se, poi, ci fossero leggi morali diverse
impresse nel cuore di diversi gruppi umani (per esempio di nazioni
diverse) saremmo vincolati a comportarci come gli altri del nostro gruppo.
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CAPITOLO
2
COME DISTINGUIAMO IL BENE DAL MALE?
QUALI SONO I FINI GIUSTI? ESISTONO FINI
GIUSTI VALIDI PER TUTTI?
Ogni tanto uccidevano esseri umani per sacrificarli alle divinità:
cananei, ebrei, greci, romani (1), aztechi. Pensavano di fare bene. Poi
smisero. In molti paesi - alla fine del secolo XX - c'é ancora la pena di
morte. Nel secolo scorso furono condannati a morte i colpevoli di delitti
comuni e anche politici a Roma, sotto il governo del papa vicario di Gesù
Cristo sulla terra e presumibilmente responsabile della diffusione del suo
messaggio di amore universale.
Per fortuna in Italia oggi non si fanno sacrifici umani e la pena di
morte non viene usata dallo Stato, ma solo dalla criminalità organizzata.
Quello che per uno é virtù per un altro é vergogna. Non ci può essere
una soluzione semplice per mettere d'accordo quelli che credono nelle
leggi divine, quelli che credono nel diritto naturale e gli utilitaristi - secondo
i quali tutti cerchiamo il nostro proprio utile e ci comportiamo bene solo se
ci conviene.
Provo, allora, a seguire l'esempio dei geometri e a suggerire tre
assiomi. Dovrebbero apparire evidenti a tutti. Una volta che li accettiamo,
possiamo dedurne conseguenze e regole utili per definire i fini verso i
quali tendere. Resta sempre il problema di capire i meccanismi del mondo
e di prevedere le conseguenze delle nostre azioni.
Se non lo risolviamo, non riusciamo a raggiungere i fini che
abbiamo scelto. Questa é la tesi centrale del mio libro.
__________________________________________
(1) Plinio racconta nelle Storie Naturali che il Senato di Roma proibì i
sacrifici umani nel 97 a.C.
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I tre assiomi sono:
1. Non dobbiamo causare gravi danni materiali ad altri per procurarci
piccoli vantaggi, né (peggio) senza averne vantaggio alcuno
2. Non dobbiamo produrre danni spirituali a noi stessi, né ad altri neanche per produrre grossi vantaggi materiali a noi stessi o ad altri.
É bene, invece, produrre vantaggi spirituali, cioé generare e diffondere
conoscenza e comprensione
3. Non bisogna obbligare altri a fare cose che non vogliano. É bene,
invece, aumentare le possibilità di scelta proprie e altrui. Già prima della
discussione che segue bisogna citare subito la ovvia eccezione a questa
regola: perché funzionino la società, le scuole, le aziende, i sistemi
tecnologici, molte persone devono imparare o essere indotte a fare
cose che non vorrebbero fare minimamente.
Come giustifico questi assiomi? Solo notando che il mondo sarebbe
un luogo migliore se tutti li accettassero e nelle pagine seguenti spiego
perché in modo discorsivo. La teoria matematica della cooperazione
(esposta in Appendice) fornisce - almeno per analogia - una base razionale
alla convenienza di adottarli.
Certo vanno specificati meglio e discussi. Questo é importante.
Nessuna regola può essere accettata senza discussione. Dobbiamo discutere
le regole rigide come quelle del decalogo (che analizzo criticamente nel
prossimo capitolo) e quelle flessibili come i tre assiomi. Le situazioni in cui
ci possiamo trovare sono troppo variate per essere decise in modo drastico
in base al criterio: giusto - ingiusto. Le sfumature sono tante e continue.
Vedremo che possiamo concepire altri modi logici di ragionare.
Frattanto ecco alcune delle precisazioni da fare sui tre assiomi. Sul
primo dovremo spiegare come si misurano danni e vantaggi e, quindi, come
si confrontano. Potremo trarre ispirazione dai modi in cui si calcolano i
bilanci costi/benefici nell'industria.
Sul secondo dovremo spiegare meglio cosa sia materiale e cosa
sia spirituale. Su tutti, dovremo specificare in quali contesti e circostanze
valgano. Se proviamo ad accettarli, però, vediamo subito che se ne
possono dedurre conseguenze interessanti.
Dal primo assioma si deduce che non si deve esercitare violenza
in favore di privilegi. Dal secondo e dal terzo si deduce che si deve
assicurare la libertà di parola. Dai tre assiomi insieme si deduce che vanno
evitate le persecuzioni razziali e che non bisogna obbedire a ordini
infami neanche se qualcuno suggerisce che se ne avvantaggerebbe il bene
della società. Incidentalmente queste deduzioni costituiscono un robusto
argomento sulle ragioni di combattere le dittature (fasciste, staliniste, etc.).
Se seguiamo in tanti le regole dedotte dai tre assiomi, vivremo in un
mondo in cui non esiste tortura, né violenza. Per convincerci che
l'osservanza dei tre assiomi conviene a tutti, riflettiamo. Ad esempio: le
persecuzioni razziali hanno danneggiato i perseguitati, ma anche i
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persecutori. Quando i tedeschi e gli italiani hanno eliminato gli ebrei dalle
loro università e dai loro centri di ricerca, hanno anche bloccato gran
parte dello sviluppo della scienza nel loro paese. Potremmo sostenere che
Dante avesse già esposto l'essenziale di questi tre assiomi con la terzina:
"Considerate la vostra semenza
Fatti non foste a viver come bruti
Ma per seguir virtute e conoscenza."
Ma non é leale usare bei versi per spiegare o corroborare un punto
di vista. Tutti, o quasi, siamo inclinati a preferire virtù e conoscenza a
comportamenti bestiali - almeno a parole. Dopo aver letto quei versi,
però, non ne sappiamo di più.
Per saperne di più, dobbiamo ragionare ancora. Il primo assioma
potrebbe essere interpretato in modo tale da proibire ogni competizione. Se
lo interpretiamo letteralmente dovremmo astenerci da ogni concorrenza
anche industriale e commerciale. Ma sappiamo che il libero mercato in
cui la concorrenza esiste ci offre vantaggi indubbi. Se la gente non compete
più, scompare l'emulazione, che ha spinto e spinge tanti a eccellere.
Ragionamenti analoghi si possono fare per gli sport, gli scacchi e per altri
giochi competitivi.
Dunque ammettiamo che, in certe situazioni e seguendo certe
regole, possiamo procurarci vantaggi anche se danneggiamo qualcun altro.
Il primo assioma vale sicuramente in certi casi estremi. Un criterio
per confermarlo valido può essere quello della trasparenza. Io stesso posso
vergognarmi tanto di un'azione vantaggiosa per me e dannosa per altri, da
non volere che nessuno ne venga a conoscenza - nemmeno il danneggiato.
Un esempio appropriato é quello del chirurgo che fa un'operazione inutile,
se non dannosa, a un paziente al solo scopo di incassare un lauto onorario.
Mi dicono che alcuni chirurghi poco scrupolosi applicano ai loro pazienti
protesi costose e inutili solo per incassare sotto banco una percentuale dal
fabbricante delle arterie in plastica o delle articolazioni in acciaio
inossidabile.
Già Platone si era chiesto se possiamo compiere azioni ignobili,
quando ci sia garantito il segreto. Nel II libro della "Repubblica" racconta la
storia di Gige, pastore del re di Lidia che rubò un anello da una tomba
apertasi dopo forti piogge. Poi si accorse che quando lo metteva al dito con
la pietra verso il palmo della mano, diventava invisibile. Se invece la pietra
era verso il dorso della mano, tutti lo vedevano normalmente. Gige sfruttò
la sua invisibilità per stuprare la moglie del re. Poi se la fece amica e con lei
uccise il re e quanti gli si opponevano. Così diventò lui re della Lidia.
Possiamo essere d'accordo che Gige fosse ugualmente colpevole,
anche se nessuno lo aveva visto compiere quei misfatti. Restano, però, le
domande "Quali sono i fini giusti?" ed "Esistono fini giusti validi per
tutti?" A queste possiamo rispondere essenzialmente in due modi.
Il primo é già configurato nei miei tre assiomi. Potremmo chiamarlo
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"libertario". É stato descritto bene da Guido Calogero nel suo libro La
scuola dell'uomo (Sansoni, 1939).
Il secondo potremmo chiamarlo "behaviorista" (o comportamentale).
É stato presentato violentemente da Bhurrus F. Skinner nel suo libro
Beyond Freedom and Dignity (Oltre la libertà e la dignità) (Knopf, 1971).
Seguirò questi due paradigmi per presentare questi punti di vista
opposti. Io preferisco il primo.
Il punto di vista libertario prende le mosse dalla regola di Kant
"Considera gli altri esseri umani come fini e non come mezzi per i tuoi
fini". Ne deduce che la morale é essenzialmente educazione. Dà per
scontato che mi comporto moralmente verso un altro o vari altri, se faccio
in modo da dare a loro qualche vantaggio. Non basta. Se, in conseguenza
delle mie azioni o dei miei discorsi, questi altri non imparano ad essere
altruisti, la moralità della mia azione é scarsa. Infatti é inefficace a creare
un mondo in cui tutti considerano i fini degli altri - invece di considerarli
come mezzi per ottenere i loro fini.
La considerazione essenziale é quella della reciprocità. Non posso
pretendere di coartare la volontà degli altri senza che loro provino a fare
lo stesso con me. Alla lunga non ci stanno. Stare alla pari é l'unica strategia
che può funzionare sul lungo termine.
Questa affermazione é in ovvio disaccordo con le lotte per il potere
e la ricchezza che osserviamo correntemente in tutte le società. Cosa ne
deduciamo? Che i potenti e i vincenti sbagliano tutto?
Può suonare paradossale, ma in larga misura é proprio così. Se il
vincente prevale sulla maggioranza della popolazione e non fa niente per
innalzarne la qualità della vita, sta peggio. Diventa re - ma é re straccione
di un popolo di straccioni. I fabbricanti di auto dei primi del Novecento le
costruivano una a una. Le macchine erano costosissime e gli operai non
potevano certo permettersene l'acquisto. Quei fabbricanti erano molto meno
ricchi di Ford, che costruiva in massa a prezzi più bassi e vendeva le auto
agli operai - più numerosi ed efficienti.
Ross Perot non impiegava operai, ma programmatori e analisti di
computer. Il valore aggiunto prodotto dalla sua azienda era molto maggiore
- e Perot era più ricco di Ford.
Si possono portare infiniti esempi. La scelta sbagliata di molti
vincenti é simile a quella di Giulio Cesare "Preferisco essere primo in un
villaggio, che secondo a Roma". É meglio essere quarto, quinto o centesimo
in una società avanzata e civile, che primo in una cittadina barbara. Questo
é vero non solo dal punto di vista strettamente economico, ma soprattutto
dal punto di vista della qualità della vita. Questa é fatta non solo di beni
materiali e di servizi, ma anche di rapporti umani. Se la qualità umana
media del luogo in cui viviamo é più alta, siamo più sicuri, ci divertiamo
di più a interagire con gli altri, siamo stimolati a concepire idee nuove.
Non serve a niente discutere se l'altruismo ora descritto non sia un
egoismo mascherato e ipocrita. Utilitarismo e altruismo sono la stessa
cosa. Nell'Appendice lo dimostro.
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Riprendiamo, ora, la discussione appena accennata a proposito del
terzo assioma. Dicevamo che é inevitabile che molta gente sia indotta a
fare cose che non vorrebbe fare. Lavorare intensamente e pagare i servizi
che riceviamo, pesa quasi a tutti. Ma se nessuno lavorasse intensamente
né pagasse la bolletta della luce, le cose andrebbero molto peggio. Quindi
in molti casi chi prende un impegno deve proprio essere obbligato a
rispettarlo.
Se siamo responsabili di organizzare un cantiere, un ufficio o un'
officina faremo bene a non imporre regole dure e inumane ai nostri
dipendenti, né agli utenti. Però non potremo chiederci a ogni passo cosa
pensino o sperino queste persone. É inevitabile, e opportuno, che nel
progetto e nella gestione ne consideriamo solo le funzioni. Se no
perderemmo la visione del nostro stesso compito. E questo deve includere l'
educazione e l'addestramento sia degli operatori, sia del pubblico. In
generale ci sono tanti modi in cui possiamo educarci o essere educati.
Tanti uomini hanno proposto agli altri ideali, progetti o imprese dei tipi
più disparati e contraddittori. Allora: quali scegliere?
Ragioniamo di nuovo per esempi classici. Prendiamo: San Francesco
d'Assisi, Pierpont Morgan, Thomas Watson, Mikhail Gorbachov, Bill
Gates, Napoleone Bonaparte e Adolf Hitler. Ciascuno di questi sei ha fatto
qualche cosa bene e qualche cosa male. Discutiamoli.
San Francesco predicava l'amore, ma non lo studio. Ha avuto un
buon impatto su pochi seguaci. Pierpont Morgan ha creato un impero
industriale e finanziario. Certo ha creato posti di lavoro e ricchezza. Di
questa ha incamerato una porzione forse eccessiva, ma, soprattutto, non ha
fatto molto per innalzare la qualità umana dei lavoratori e della gente in
generale. Thomas Watson e Bill Gates hanno creato IBM e Microsoft colossi dell'informatica mondiale. Hanno creato lavoro, ricchezza e profitti
e diffuso tanta cultura avanzata. Probabilmente hanno contribuito a
diffondere valori intellettuali e spirituali più di San Francesco, anche se la
loro politica (specie quella di Gates) è stata dura e spietata con concorrenti e
clienti. Ecco, allora, la definizione che serve per il secondo assioma. Non
sono spirituali solo i sentimenti, i principi, gli ideali - ma anche la
conoscenza del mondo, teorica e applicata.
Passando ai capi di stato, Gorbachov ha riportato un po' di giustizia
e libertà in Unione Sovietica. É stato un successo civile e morale che ha un
valore maggiore dell'insuccesso economico, malgrado che questo abbia
prodotto molte sofferenze e nuove ingiustizie. Gorbachov era un buon
esempio di fautore della morale libertaria - con scarse capacità di
pianificazione.
Napoleone ha contribuito allo studio dell'Egitto antico e moderno,
ha realizzato opere pubbliche e ha dimostrato efficienza nel realizzare una
grossa macchina politica e militare - che per fortuna non fu abbastanza
efficiente da imporre in Europa la sua dittatura tutt'altro che illuminata.
In Italia abbiamo ereditato da Napoleone la nefanda istituzione dei prefetti.
La dittatura nazista era peggiore di quella napoleonica. Hitler provò a
23
imporla al mondo. Causò distruzioni immani e la morte di circa 40
milioni di persone. I suoi ideali barbarici non contenevano neanche un
brandello di reciprocità e di diritti umani. Si può sostenere paradossalmente
che a lungo termine abbia avuto il buon effetto di generare un orrore per i
suoi principi sufficiente a farli condannare e a far sorgere l'Organizzazione
delle Nazioni Unite e la Comunità Europea. Certo non erano questi i suoi
intenti.
Questi rapidi esempi indicano come si possano scegliere
ragionevolmente ideali e progetti. Attenti a chi parla di concetti astratti
come gloria, onore, operosità, mentre in effetti é interessato solo a
massimizzare il proprio potere e la propria ricchezza.
E passiamo a Bhurrus F. Skinner, lo specialista di analisi del
comportamento, abilissimo nell'addestrare topi, piccioni, cottimisti e
venditori. Skinner combatte acremente quella che chiama "letteratura della
libertà". Non ammette che si parli di stati mentali e di sentimenti (1). Non
sono osservabili e, per lui, non esistono. Sarebbero caratteristiche di un
uomo autonomo o di una persona interna inesistente. Le nostre azioni sono
determinate perfettamente dalla nostra dotazione genetica cui si sovrappone
il condizionamento dovuto all'ambiente. Per ora possiamo influire poco
sul nostro patrimonio genetico. Quindi per ottenere comportamenti morali
puntiamo sul condizionamento, su cui possiamo influire molto. Così
produrremo intere generazioni condizionate a comportarsi bene, a essere
costruttive e operose. Il condizionamento funziona meglio se i
comportamenti positivi vengono subito rinforzati da un premio. Questa
procedura é migliore di quelle in cui i comportamenti da evitare vengono
puniti. Così Skinner biasima i libertari. Li accusa di preferire le punizioni
(inefficaci) ai premi. Questa loro preferenza dipenderebbe dal loro sciocco
amore per la libertà. Cita anche un passo di Rousseau secondo cui il
bambino che impara deve essere condizionato così abilmente che possa
tendere solo verso le cose che il suo insegnante approva.
Dove sbaglia Skinner? Io credo nell'affermare la necessità che
qualcuno impari, oltre che a condizionare gli altri, anche a decidere quali
sono i loro comportamenti migliori al fine della conservazione e dello
sviluppo della loro cultura. Questa cultura viene decisa dall'alto in modo
dittatoriale. É probabile che venga definita in modo errato e poi perpetuata
con il condizionamento.
Se alla parola "cultura" sostituiamo la parola "stato", le affermazioni
di Skinner sono identiche a quelle naziste.
In conclusione: esistono fini giusti solo se sono validi per tutti. Non
possono essere scelti in modo arbitrario e poi diffusi con la forza del
condizionamento. Ricordiamo, incidentalmente, che una educazione é da
considerare fallita proprio quando riesce completamente - se toglie ogni
____________________________________________
(1) Ho discusso più ampiamente le sue teorie nel mio "Manuale per una
improbabile salvezza", Mondadori, 1974 (pp.38-44).
24
originalità all'educato. Tra i fini che dobbiamo proporci deve esserci anche
quello di tirare su individui che non seguano passivamente i loro insegnanti
e che siano capaci di creare innovazioni impreviste.
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CAPITOLO
3
LE ASSURDITÀ DERIVANTI DALLE REGOLE FISSE
"Chi compra uno schiavo ebreo lo terrà per sei anni e al settimo lo
libererà.
Se durante i sei anni il padrone ha dato moglie a quello schiavo e lui ne
ha avuto figli, se ne potrà andare al settimo anno - ma la moglie e i figli
resteranno in schiavitù.
Se quello schiavo é affezionato alla sua famiglia e al padrone e non li
vuole lasciare, il padrone gli praticherà un foro in un orecchio per
segnalare che resterà schiavo finché campa."
Da dove proviene questa citazione? Provate a mostrarla in giro e
ripetete la domanda. Vi risponderanno che é di ispirazione nazista o, forse,
che quelle regole vigevano nell'antico Egitto o in qualche paese dell'Europa
orientale dove gli ebrei venivano perseguitati e sterminati ogni tanto con i
pogrom.
Invece no. Le tre leggi che aprono questo capitolo si trovano nella
Bibbia. Le ho copiate dal Capitolo 21 dell'Esodo. Sono norme dettate da
Dio a Mosé di seguito ai dieci comandamenti - e sono orrende. Non a caso
chi onora la Bibbia stende su di esse un velo pietoso.
Il Signore di Abramo e di Isacco presentava, dunque, forti analogie
con Simon Legree, il crudele padrone di schiavi della Capanna dello zio
Tom. Eppure molti ancora ritengono che le leggi fisse dettate nella Bibbia
debbano essere seguite e tenute in onore.
Sempre nel Capitolo 21 dell'Esodo si prevede che un uomo possa
vendere la propria figlia come schiava. Se un padrone percuote uno schiavo
e lo uccide, é un assassino. Se, invece, lo schiavo sopravvive un giorno o
due, il padrone non ha colpa, perché l'ha comprato col suo denaro. Questo
ragionamento non fila un gran che e suona molto barbaro e incivile.
Nel Capitolo 22 dell'Esodo gli ebrei sono istruiti candidamente a
non lasciar vivere colei che pratica la magia. Il precetto fu seguito ancora
nel 'Seicento nei processi alle streghe di Salem negli Stati Uniti. Curioso
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che la Bibbia non parli degli eventuali uomini che praticano la magia.
Queste leggi barbare continuano a essere stampate nelle edizioni
della Bibbia in tutte le lingue. Per gentilezza, però, si fa finta che non
esistano e non se ne parla mai. Rispetto ad esse fanno una figura molto
migliore le parole scritte da Seneca verso la metà del primo secolo. In una
sua lettera loda il suo amico perché trattava familiarmente i suoi schiavi e
dice:
"Sono schiavi - dunque sono uomini. Sono schiavi - dunque sono
commensali. Sono schiavi - dunque sono umili amici. Sono schiavi dunque
sono compagni di schiavitù, se riflettiamo che la fortuna ha uguale potere
su loro e su noi."
Seneca conclude che dipende solo dalla sorte se uno é schiavo o é
padrone. E non si limitava a scrivere queste cose. Fin quando poté influire
sulla gestione del governo sotto Nerone, combatté per l'affrancamento degli
schiavi e, forse per questo, fu prima esautorato e poi costretto al suicidio.
Sappiamo bene che quei costumi inumani degli antichi ebrei
vengono giustificati dai religiosi di oggi sostenendo che si trattava di
usanze antiche che proprio la religione ha contribuito a far sparire.
L'argomento non convince. Quando si accetta una rivelazione come vera,
poi non ha senso sceglierne certe parti e rifiutarne altre. Le regole fisse
non sono generate dalla nostra ragione. Ci vengono da fuori e dovremmo
considerarle vere - accettandole - oppure false o irrilevanti - rifiutandole.
Potremmo anche accettarle per convenienza - perché se tutti le
accettiamo, la società funziona meglio.
Un vecchio contadino della Lunigiana mi disse tanti anni fa :
"Io ho sempre avuto sentimenti anarchici. Non credo in nessuna
religione e odio i preti. Però la religione ci vuole per tenere a freno i
giovani."
Possiamo immaginare che forse in tempi antichissimi qualcuno
abbia attribuito con premeditazione a una divinità certe regole fisse che
riteneva utile far rispettare per il bene del gruppo umano a cui
apparteneva.
Questa é forse l'origine dei tabu sessuali, alimentari, topografici,
stagionali, dei comandamenti diffusi da Mosé e di altre regole e leggi
imposte dal Corano o da altre religioni o suggerite da eresiarchi o da guru.
Non é importante sapere come siano andate davvero le cose e, in
ogni caso, non abbiamo modo di saperlo - almeno fin quando non
riusciremo a ricostruire con certezza segnali provenienti dal passato.
É importante, invece, discutere se sia ragionevole seguire certe
regole fisse per stare meglio a titolo personale o - come anticipavo - per far
funzionare meglio la comunità.
Ma esaminiamo in maggiore dettaglio le più note fra le regole
fisse: quelle del decalogo. Il fatto stesso che comprenda dieci leggi dipende
da una preferenza per i numeri tondi. Infatti nell'Esodo (Capitolo 20) i
comandamenti che Mosé riportò dal Monte Sinai sono nove. L'ultimo
impone di non desiderare la casa del vicino, né sua moglie, né il suo
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schiavo, né la sua ancella, né il suo bue, né il suo asino, né altro suo
possedimento. Di questo nono comandamento se ne sono fatti due, ma se
ne sarebbero potuti fare anche sei portando il totale a quattordici. Poi, però,
c'erano anche le altre leggi citate all'inizio del capitolo e che sarebbero
state date insieme al decalogo per cui le tavole originali non avrebbero
dovuto contenere dieci leggi, né quattordici ma, forse trentaquattro o
cinquantaquattro.
Una tesi ancora oggi sostenuta da quelli che sono a favore delle
regole fisse é che il decalogo, ad esempio, concorda con la legge naturale.
Abbiamo già visto, però, che ripugnano alla nostra sensibilità parecchie
delle regole che risalgono alla stessa origine del decalogo. Eppure la
nostra sensibilità dovrebbe coincidere almeno rozzamente con la legge
naturale.
Se questa legge naturale é davvero connaturata all'intelletto di tutti
gli esseri umani, avrebbe dovuto essere riconosciuta anche prima di
Mosé e l'autore della Bibbia avrebbe dovuto biasimare i patriarchi che la
trasgredivano. Invece ne racconta azioni orrende senza una parola di
critica.
Nel Capitolo 19 della Genesi due angeli vanno a visitare Lot che
vive a Sodoma. Lot li accoglie a casa sua. Poco dopo i Sodomiti
minacciano di sfondargli la porta: vogliono che consegni i due angeli per
poter abusare di loro. Lot difende gli angeli e offre, invece, ai Sodomiti le
sue due figlie vergini. Dice:
"Rinunciate ai miei ospiti. Prendete invece le mie figlie e fate con
loro quello che vi piace."
Per fortuna intervengono gli angeli che accecano i Sodomiti con una
luce abbagliante, se no le figlie di Lot avrebbero incontrato "un destino
peggiore della morte". Più tardi quando la famiglia di Lot abbandona
Sodoma. La moglie di Lot contravviene all'ordine divino di non guardare
indietro e viene trasformata in un pilastro di sale. Le figlie vanno a vivere
sole col padre in una grotta. Lo ubriacano e a turno hanno rapporti sessuali
con lui per generare dei figli.
Nel Capitolo 34 della Genesi si racconta anche la storia di Sichem
figlio di Emor, re degli Shechemiti, che aveva rapito e sedotto Dina, la
figlia di Giacobbe. Poi Emor era andato da Giacobbe offrendogli buona
dote, matrimonio e riparazione. I figli di Giacobbe, Simeone e Levi,
risposero che erano d'accordo. Anzi offrirono a Emor di fondere i loro due
popoli, purché gli Shechemiti si fossero circoncisi tutti. Gli ingenui
Shechemiti accettarono. Tre giorni dopo che si erano circoncisi ed erano
menomati e sofferenti, furono uccisi da Simeone e Levi, che
saccheggiarono le loro case portando via come bottino le loro cose, i loro
figli e le loro donne. Giacobbe biasimò i figli - ma solo perché lo avevano
messo in difficoltà con altre popolazioni circostanti che, giustamente, non
si sarebbero più fidate di loro. Non ebbe una parola di riprovazione per la
loro falsità e la loro violenza.
Ma la morale corrente non migliorò neanche dopo aver ricevuto la
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legge di Mosé. Nel Capitolo 11 del libro dei Giudici, Iefte promette a Dio
un sacrificio umano: la prima persona che incontrerà tornando, se Dio gli
farà vincere gli Ammoniti. (Incidentalmente gli Ammoniti erano i
discendenti di Lot e di una delle sue figlie). Dio lo fa vincere. Iefte torna e
la prima persona che incontra é sua figlia, la lascia in vita ancora due mesi
e poi la uccide come ha promesso. L'autore della Bibbia presenta questa
storia come una tragedia. Però sembra implicare che se Iefte avesse
incontrato un estraneo, invece di sua figlia, avrebbe potuto ucciderlo
tranquillamente. Avrebbe mantenuto la promessa del voto fatto senza far
danno a nessuno! Tanto peggio per il morto ammazzato.
Poco tempo dopo i Galaaditi, capeggiati da Iefte, uccidono 42.000
Efraimiti. Si trattava di un'altra tribù semitica i cui membri parlavano un
linguaggio leggermente diverso da quello dei Galaaditi. Non sapevano
pronunciare il suono "shi" ("sci" in italiano). Così i Galaaditi chiedevano
agli sbandati di dire "Shibbolet". Se pronunciavano "Sibbolet", venivano
uccisi.
Lo stesso fatto che una regola sia fissa implica che ogni azione
rilevante rispetto a quella regola può essere classificata solo in una fra due
classi. O rispetta la regola oppure non la rispetta. In conseguenza é
classificata come buona o legale, oppure come cattiva o illegale.
Lo stesso modo di classifica vale per le persone. Sono buone, se
compiono azioni conformi alle regole. Sono da biasimare (e anche da
punire) se compiono azioni che contravvengono alle regole.
Questo modo di classificare le cose ha il vantaggio di essere il più
semplice possibile.
Nelle officine meccaniche viene tradizionalmente applicato un
criterio simile, ad esempio agli alberi cilindrici. Se il diametro di un albero
secondo il progetto deve essere di 20 + 0,01 mm, venivano accettati al
collaudo quelli che passavano attraverso un foro con il diametro di 20,01
mm e che non passavano attraverso un foro con il diametro di 19,99 mm.
Questo sistema PASSA/NON PASSA va bene, appunto, per casi semplici.
Non va bene per casi complessi.
Da questa logica binaria si deduce il concetto di peccato. Pecca chi
contravviene alla legge naturale, razionale o divina. Naturalmente si deve
presupporre che la legge sia definita perfettamente così che si possa
decidere con sicurezza se un'azione é peccato o no.
Per adattarsi un po' meglio alla realtà, che non é discontinua, si é
fatta differenza fra peccati gravi e lievi (mortali e veniali, secondo i
cattolici).
Rubare cento milioni é peggio che rubarne uno. Dunque possiamo
classificare le azioni criminose (o riprovevoli) che causano danno ad altri
in base all'entità del danno.
Anche i giureconsulti romani davano un giudizio in base alla misura
del danno causato e un altro giudizio in merito alle intenzioni. Una colpa
poteva essere grave (lata), leggera (levis) o leggerissima (levissima) a
seconda della premeditazione, del desiderio di nuocere più o meno o della
30
semplice negligenza nell'evitare di danneggiare gli altri.
Continuando su questa strada sarebbe ragionevole, allora,
abbandonare la logica binaria e usare la logica "fuzzy" (indistinta, sfocata,
sfumata) introdotta da Zadeh. Secondo la logica fuzzy ogni affermazione
(o proposizione logica) che abbia un senso non si deve classificare
semplicemente come vera o falsa. Queste erano le uniche due possibili
alternative della logica aristotelica. Non esisteva una terza possibilità
(tertium non datur). Invece nella logica fuzzy non solo esiste una terza
possibilità : ne esistono infinite altre. Ammettiamo, cioé, un passaggio dal
vero al falso che é continuo e procede per passi piccolissimi.
Così potremmo classificare le azioni come ottime (100%), buone
(90%), abbastanza buone (80%), discrete (70%), passabili (60%), neutre
(50%), leggermente criticabili (40%), piuttosto cattive (30%), cattive
(20%), pessime (10%), efferate (0%).
Ma ovviamente non basta. Giudicheremo con un metro diverso
azioni simili, se sono state compiute in circostanze diverse da persone
diverse. Questo significa che le regole fisse sembrano tali, ma non lo sono
mai. Occorre usare metodi più sofisticati : é proprio questa la mia tesi.
Mi sembra di aver mostrato che le regole fisse non sono accettabili.
Sono inadeguate per guidare i nostri comportamenti in una realtà
complessa.
Come abbiamo visto nelle ultime pagine, però, le regole fisse si
accompagnano al concetto di colpa. I religiosi lo chiamano 'peccato'. I
giuristi distinguono, ad esempio, fra omicidi premeditati, preterintenzionali
e colposi. L'omicida che premedita il suo misfatto ha già deciso che vuole
compierlo e pianifica le sue azioni per effettuarlo. L'omicida
preterintenzionale voleva bastonare o ferire qualcuno e poi va oltre quanto
si era prefisso. L'omicida colposo non aveva intenzione di fare male a
nessuno, ma, per esempio, guida la sua auto troppo velocemente su strada
bagnata, slitta e uccide tre persone. Le colpe possono essere considerate
sempre meno gravi - ma il risultato é lo stesso: le vittime muoiono
ugualmente.
Questo desiderio di affibbiare la colpa a qualcuno e di fare il
processo alle intenzioni non é tanto ragionevole. Non vale la pena di
discutere se deriva o no dalla tradizione biblica che parla di peccato
originale, di peccati contro la divinità o la legge divina. Mi pare sia meglio
discuterne gli effetti pratici.
In Italia negli anni del terrorismo venne introdotta la così detta
legge sui pentiti. Derivava da una legge inglese secondo cui il membro di
una associazione a delinquere che testimonia contro i suoi complici e fa in
modo che siano presi e condannati, riceve una forte riduzione o anche
l'annullamento della pena in cui incorrerebbe altrimenti. La legge inglese
non si occupa affatto del pentimento di chi tradisce i complici. (In inglese si
dice "turns King's evidence", cioé: "diventa una prova a favore del re", cioé
della pubblica accusa). In Italia, invece, si é discusso a lungo se un
terrorista che aveva fatto arrestare i suoi compagni fosse sinceramente
31
pentito oppure no. Il problema non era quello. La legge non era stata
fatta per entrare nelle coscienze dei terroristi, ma per facilitare il loro
arresto.
Questa faccenda delle regole fisse non funziona neanche per
quanto riguarda gli assassini. Il quinto comandamento é: NON UCCIDERE.
Pure la Bibbia é piena di assassini che non vengono considerati peccatori.
In tempi recenti le eccezioni ammesse sono ancora più numerose. Anche
nella Seconda Guerra Mondiale ministri del culto, che tenevano la Bibbia in
onore, benedicevano eserciti contrapposti che sterminavano milioni di
persone.
Le eccezioni vengono giustificate spesso per ragioni di legittima
difesa. Quindi nel capitolo seguente ci occupiamo della legge romana che é
essenzialmente tutta basata sul concetto di legittima difesa.
32
CAPITOLO 4
BARLUMI DI MORALE MODERNA NEL DIRITTO
ROMANO E IN CICERONE
Anche nei romanzi gialli americani quando si parla di tribunali
troviamo frasi latine come "nolo contendere" (1) o "nolle prosequi" (2). I
codici italiani sono pieni di espressioni latine come: exceptio veritatis, favor
debitoris, bonus-malus, dies interpellat pro homine, e così via. Anche nel
linguaggio usuale citiamo spesso massime latine come "res perit domino"
(3) o "caveat emptor" (4).
Malgrado l'opinione negativa di Cesare Beccaria che ho riportato
a pagina 6, il diritto romano ha ancora una grande forza. Analizziamo,
allora, da dove provenga e vediamo se possa aiutarci in qualche misura a
decidere come comportarci.
Marco Tullio Cicerone era uomo di legge e teorizzava sulla legge.
Scrisse fra l'altro che "il fondamento del diritto é la propensione ad amare
gli altri esseri umani". Poi scrisse che il primo dovere della giustizia é
quello di non nuocere ad altri, se non siamo minacciati di un danno
imminente. La prima definizione introduce un principio di altruismo. É un
elemento importante e lo riprenderò nel penultimo capitolo, però mi sono
____________________________________________
(1) Significa "non voglio discutere". Questa dichiarazione viene fatta da
chi accetta una sentenza di condanna (in genere per un reato minore), ma
sottolinea che non per questo ammette la propria colpa.(2) Significa "non
voler proseguire" : lo dichiara la parte civile o il pubblico ministero quando
decide di lasciar cadere una citazione o un'accusa.
(3) Significa "la cosa va in rovina per il padrone" - cioé: se un certo bene
viene distrutto, il danno é a carico di chi ne é il proprietario. Se compro
una casa e dopo dieci minuti la vedo distruggere da un incendio, non
posso chiedere al venditore di risarcirmi: ormai il danno é mio e non suo.
(4) Significa "Stia attento chi compra!"
33
fatto l'idea che rifletta più le idee personali di Cicerone che non le basi del
diritto romano.
Invece mi sembra che la definizione del primo dovere della giustizia
sia in linea con tutta la costruzione del diritto romano. L'idea é che
nessuno deve essere danneggiato senza motivi giusti. Se ciascuno di noi
può difendersi dai danni o dalle minacce di danno, allora i nostri diritti
sono del tutto reciproci. Io non ti danneggio e tu non danneggiarmi.
Chi comincia a danneggiare l'altro ha torto e si merita reazioni tali da
neutralizzarlo. Non si può lamentare delle ragionevoli rappresaglie ed é
tenuto a risarcire i danni causati.
Se la mia difesa é legittima, quelli da cui mi difendo sono colpevoli.
In queste morali primitive troviamo sempre il concetto di colpa o di
peccato. Una volta trovato il capro espiatorio, lo sacrifichiamo e poi
staremo tranquilli.
Invece non é tanto importante decidere o scoprire di chi sia stata la
colpa di una certa situazione. É più importante organizzarsi in modo che
non ci siano nemmeno colpe da cercare. É più costruttivo ricercare chi ha
avuto il merito di far funzionare le cose. Poi discuteremo come ci é riuscito
e ne trarremo insegnamenti in modo da avere nuovi successi in avvenire.
Perché dovremmo seguire questi princìpi? La risposta romana non
era: "Perché sono ragionevoli e seguendoli stiamo tutti meglio." Era invece:
"Perché questi erano i costumi dei nostri antenati e perché il popolo di
Roma li ha accettati e codificati."
Sono dunque princìpi più generali delle regole fisse, attribuite una
per una a manifestazione della divinità come nella Bibbia.
Il risultato, però, é molto simile. Come abbiamo visto c'é qualcuno
che viene definito colpevole - e per questo non ha più diritti o ne ha molti
di meno. É quello che ha fatto male - o perché ha trasgredito la legge di Dio
o perché ha trasgredito la legge del popolo.
Ma chi erano i componenti del popolo romano? Erano quelli che
avevano lo status. Dovevano essere in stato di libertà - cioé non essere
schiavi. Dovevano essere cittadini romani, cioé non stranieri, e dovevano
essere paterfamilias - padri di famiglia, cioé non avere ascendenti maschi.
Qui vediamo che la legge divina ebrea e quella popolare romana sono
vicine almeno nell'accettare che esista la schiavitù. Sono vicine anche nel
privilegiare l'appartenenza a un popolo particolare.
Questo non é strano: ogni popolo tende a considerarsi eletto - non
solo gli ebrei e i romani. Anche alcune tribù amerindie chiamavano sé
stesse con un nome che significava "uomini" implicando che i membri
delle altre tribù o di altri popoli sono bestie, non esseri umani.
Dunque il principio di Cicerone sulla propensione ad amare altri
esseri umani era un suo pio desiderio. Gli altri uomini vanno amati e trattati
bene solo se non sono schiavi e se appartengono alla nostra tribù - se no:
niente.
Dunque le regole antiche valevano per un mondo semplice in cui
ancora si erano fatte poche esperienze. Si era sperimentato che possedere
34
schiavi era comodo - anzi: era probabilmente essenziale perché almeno
alcuni padroni potessero osservare il mondo, riflettere su di esso e
inventare la letteratura, la scienza, il diritto, la morale, le teorie. Da
questo punto di vista, dunque, la schiavitù antica é stata un bene per
l'umanità - anche se non per gli schiavi. In quel mondo semplice, però,
nessuno aveva esperienza di una società in cui esiste una certa uguaglianza.
Questa società esiste oggi nei paesi più ricchi in cui anche i più
poveri sanno leggere e scrivere. Poi i loro figli fanno mestieri sempre più
difficili, creano ricchezza e sono persone molto più interessanti e piacevoli
di quanto lo fossero in genere gli schiavi. Ricordiamo che le società
schiaviste sono state tutte molto modeste. In esse gli uomini liberi
godevano di privilegi enormi rispetto agli schiavi eppure si trovavano in
uno stato miserabile rispetto alle società moderne avanzate. Un modesto
impiegato americano o italiano é più mobile, più ricco e più colto sia di
un libero cittadino ateniese o romano antico, sia di un possidente
dell'Alabama nel 1860.
Le regole per vivere nel mondo complesso di oggi devono essere
più complicate. Come si vede, oltre che complicate, sono anche più
umanitarie.
Tornando ai romani, fra i loro doveri era fondamentale la fede.
Non certo fede in Dio, ma nel senso di mantenere le promesse. Di
nuovo stiamo parlando di reciprocità. Conviene essere onesti e affidabili
perché solo così si arriva a creare una società in cui tutti sono onesti e
affidabili e in cui perciò regna la fiducia - almeno abbastanza generalmente.
Trascuriamo altre considerazioni che fa Cicerone a metà fra il diritto
e il suo trattato sui doveri ("De Officiis"), come ad esempio: "Comportarsi
onestamente é cosa lodevole, anche se nessuno ci loda esplicitamente."
"Dovremmo aiutare, proteggere e conservare la concordia e la
comunità di tutto il genere umano".
Cicerone stimava molto la sapienza e gli studi. Scrisse che é bene
che tutti se ne occupino. Non é stato ascoltato ed é un gran peccato. Però
diceva che se mettiamo a confronto due cose utili o due azioni buone, c'é
il modo di vedere quale sia preferibile. Per esempio se abbiamo la scelta
fra perseguire i nostri diletti studi oppure compiere azioni che salvino la
repubblica o i nostri parenti, dobbiamo scegliere queste ultime. Deve
prevalere la comunità sulla sapienza.
Cicerone diceva inoltre che chi ne é capace deve gestire la
repubblica - occuparsi del governo dello stato. Affermazione giusta ma
generica. Evidenzia che le buone intenzioni (come occuparsi del governo
dello stato) non bastano. Va bene onorare i vecchi, i magistrati ed i grandi
uomini che hanno bene meritato della repubblica. Ma non basta.
Occorre capire che cosa bisogna fare per governare bene e per
far succedere le cose giuste.
Spesso non si riesce per le vie normali a far funzionare bene la
repubblica, né le aziende, né la società.
35
Allora ci vuole il lobbying (1) non nel senso peggiore del termine,
ma nel senso di informare correttamente il pubblico e anche i deputati e i
senatori su dati di fatto, meccanismi, tendenze. Dopo aver illustrato le
ragioni per cui prevediamo che si stiano per verificare certi nuovi
sviluppi, potremo suggerire quali interventi sarebbero necessari per far
funzionare meglio la società e farla evolvere in direzioni più positive.
Il lobbying fatto in questo modo é un'attività civile e necessaria per
diffondere la conoscenza dei problemi e per affrettarne soluzioni positive.
É un caso particolare di applicazione della nuova morale che sto cercando
di definire.
Nel diritto romano e in Cicerone si trovano, dunque, barlumi di
preannunzio della nuova morale. Sono particolarmente importanti quelli
relativi alla cooperazione e all'altruismo. Ne parleremo ancora nel capitolo
19 e nell'Appendice.
______________________________________________
(1) "Lobby" in inglese americano significa "atrio". Il lobbying é l'attività
degli intermediari o rappresentanti di aziende commerciali o industriali che
avvicinano gli uomini politici negli atrii del parlamento o del senato. Il loro
scopo é, ad esempio, di indurli a passare leggi favorevoli ai loro
rappresentati. In qualche caso la parola "lobbying" viene usata come
eufemismo per parlare di corruzione.
36
CAPITOLO 5
IL CAMMINO DELLA RAGIONE DALLA BIBBIA AL
TALMUD
Se le cose fossero andate un po' diversamente, oggi le chiese
cristiane si chiamerebbero, invece, hilleliane. Hillel era un fariseo, maestro
di religione e di morale. Le date sono incerte, ma pare fosse ancora vivo
quando Gesù Cristo era giovane. Secondo alcuni sarebbe stato uno dei
suoi maestri.
Hillel non lasciò niente di scritto, ma ci sono stati tramandati
parecchi suoi pensieri e ragionamenti. Pare fosse il primo a riconoscere
"che la vita nelle sue mutevoli condizioni non può subire la costrizione di
un codice fisso e immutabile: nella libera interpretazione ammessa dalla
legge orale, vide uno strumento di valore inestimabile capace di adattare [la
Bibbia] alle varie circostanze." (A.Cohen, "Il Talmud", Laterza 1935, p.8).
Alcuni consigli di Hillel non erano molto diversi da quelli di Cristo.
Si narra che un pagano gli promise che si sarebbe convertito al giudaismo a
condizione che gli insegnasse tutta la Torah nel tempo in cui sarebbe
riuscito a star dritto su un piede solo. Hillel gli rispose:
"Ciò che non desideri per te, non farlo al tuo prossimo. Questa é la
legge. Tutto il resto é commento. Va e studia."
Hillel consigliava di studiare, cosa che Cristo non sembra abbia
fatto. Hillel era più portato al ragionamento di Gesù Cristo. Aveva dettato
sette regole per dedurre dalla Bibbia ogni possibile verità o conseguenza
giusta. Era arrivato, dunque, a definire un metodo - cosa che Gesù non
arrivò a fare. É stato un peccato. Se avesse prevalso l'approccio hilleliano più metodico e ragionevole - invece di quello cristiano, così vago, forse il
mondo sarebbe oggi un luogo migliore.
Dagli insegnamenti di Hillel per vari secoli si svilupparono i
commenti alla legge orale ebraica che fu scritta solo due secoli dopo. I
commenti furono scritti verso il quarto secolo della nostra era. É il Talmud,
che contiene regole, informazioni, superstizioni, ma soprattutto
ragionamenti. (Per chi é interessato, alla fine del capitolo c'é una breve
nota storica sul Talmud).
37
Non per amore di paradosso io sostengo che esiste un parallelo una stretta analogia - fra ragionamenti talmudici da una parte, ingegneria
dei sistemi e concetto di qualità globale, dall'altra.
Io sono gentile, nel senso di non ebreo e non cristiano. In Yiddish
sarei chiamato un apikoros, cioè un miscredente, un agnostico (curioso
che l'etimologia di "apikoros" proviene dal nome di Epicuro, liberamente
interpretato nella letteratura rabbinica). Perciò - come ho già accennato non voglio certo dare alla mia tesi alcuna connotazione religiosa.
Nel pensiero talmudico non troviamo mai regole fisse proposte
senza giustificazione. Al contrario: viene discusso ogni contesto e ogni
possibile interpretazione delle scritture e delle leggi antiche.
Nessun talmudista sarebbe d'accordo con me quando affermo che
scritture, tradizioni e leggi antiche sono irrilevanti. Però io credo che il
valore universale dell'insegnamento talmudico stia nel metodo: é
l'invenzione di Hillel portata alle estreme conseguenze.
In questa opera monumentale si cerca, infatti, di discutere di ogni
azione: il contesto, la motivazione, la conformità a insegnamenti biblici
(che, come ho detto, non mi interessa ai fini delle mie tesi), l'interpretazione
di quegli insegnamenti biblici (che. sempre considerata non univoca: ogni
questione è passibile di 32 diverse interpretazioni) e, soprattutto, le possibili
conseguenze. É questo il punto essenziale. Perchè nel trattato dei torti
qualcuno venga ritenuto non responsabile di una conseguenza di una sua
azione dannosa agli altri, si deve dimostrare che ha fatto tutto quanto era
umanamente possibile per evitare i danni prodotti dalle sue azioni. Secondo
il Talmud, bisogna fare del proprio meglio.
Un caso discusso é quello del cane di Uri che entra in casa di
Menachem. Il fuoco nel camino é acceso e c'é una focaccia che si sta
cuocendo. Il cane la ruba e fugge fuori della casa. Sulla focaccia, però,
c'era un pezzo di brace. Il cane scuote la focaccia e la brace cade nel
campo di grano di Zeev, un vicino, e lo incendia.
Chi deve essere condannato a risarcire Zeev del danno subìto?
Si risponde: Uri perché é il proprietario del cane. Ma si obietta: il cane ha
causato danno a Menachem rubandogli la focaccia. Dunque Uri deve
risarcire Menachem del valore della focaccia. Ma é il fuoco che ha
danneggiato Zeev. Il fuoco era di Menachem, dunque é lui che deve
risarcire il grano bruciato.
Si obietta ancora: Menachem sarebbe scagionato se il cane di Uri si
fosse introdotto nella sua casa scavando una galleria sotto terra. Nessuno
può essere tenuto a premunirsi contro una eventualità così improbabile. A
Menachem, invece, andrebbe attribuita una parte di responsabilità se avesse
lasciata aperta la porta della sua casa. Se non lo ha fatto, sarà responsabile
in parte la persona che ha lasciato aperta quella porta. E così via.
Il trattato Baba Qamma ("Prima Porta"), 6:1-3, esamina il caso di
un gregge di pecore che esce dal recinto e calpesta il campo del vicino,
danneggiando il raccolto. Il proprietario del gregge non . responsabile di
quei danni, se aveva chiuso bene il cancello, se aveva affidato il gregge a
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un pastore esperto, se aveva usato chiavistelli adeguati a impedire l'accesso
a terzi che avrebbero potuto liberare il gregge e cos. via.
Il trattato Nedarim ("Voti"), 9:1-2, esamina i casi in cui uno può dire:
"Se avessi saputo come sarebbero andate le cose, mi sarei comportato
meglio, oppure non avrei preso certi impegni". É, però, abbastanza severo:
bisogna cercare di immaginare cosa potrà accadere, prima di impegnarsi
o di fare un voto. Su questo punto tornerà fra poco.
Una storiella Yiddisch racconta dell'ebreo che cercava di spiegare a
un gentile come funziona il ragionamento talmudico. Gli dice:
"Un uomo cammina per la strada con un amico e lo invita a casa
sua. Però quando arriva alla casa, la porta é chiusa e lui non ha la
chiave. Cosi decidono di entrare passando dal camino. Dopo che sono
entrati aprono le finestre e si guardano in faccia. Uno dei due ha la faccia
sporca e l'altro ce l'ha pulita. Quale dei due si va a lavare?" Il non ebreo
risponde: "Quello con la faccia sporca."
L'ebreo obietta: "Rifletti. Quello che ha la faccia sporca guarda
l'altro e vede che ce l'ha pulita ..."
Il gentile lo interrompe: "Ho capito! Vede che ce l'ha pulita e pensa
di averla pulita anche lui. Invece quello che ha la faccia pulita pensa di
averla sporca come l'altro e si va a lavare lui. É così no?"
"No. Non é così. Come é possibile che uno sia sporco e uno sia
pulito, se sono passati dallo stesso camino?"
La storiella finisce qui, ma si potrebbe continuare a discutere. Perché
non é passato dal camino solo il padrone di casa, andando poi ad aprire al
suo amico? Chi é passato per primo, il padrone di casa o l'amico? Quello
che é passato per primo non ha forse ripulito il camino in modo che il
secondo fosse davvero più pulito di lui? E così via. L'interessante è il modo
di sollevare obiezioni - di discutere cioè quale sia il punto di vista giusto
su ogni questione, cercando di avvicinarsi sempre di più alla verità - a
pareri più giusti.
Dopo l'affermazione di un principio o di una dottrina, il testo dice:
"Si solleva un'obiezione." L'obiezione viene esposta e poi discussa e
controbattuta. Alla fine 'si solleva un'altra obiezione per molte e molte
volte - talora per decine di pagine.
Come vedremo nel capitolo 7, questa tecnica iterativa . stata
adottata anche da Tommaso d'Aquino nella Summa Theologica. La
struttura. è la stessa :"Sed contra est :.." - "Respondeo". Ma - cosa più
interessante - la stessa procedura si usa nelle discussioni fra esperti in
tutte le fasi di progetto di un grande sistema tecnologico. Perchè? Ma
perchè i sistemisti si occupano di sistemi complessi mai visti, n.
progettati prima. Non esistono manuali che possano fornire soluzioni
prefabbricate. Spesso gli stessi esperti possono solo rifarsi a casi
precedenti solo vagamente analoghi a quelli che affrontano ora. Dunque
devono ricorrere alla immaginazione. Devono confrontare gli uni con gli
altri i modelli del mondo - e del sistema futuro - che hanno in testa. La
procedura di progetto non può essere deterministica.
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Proprio come nelle discussioni fra talmudisti, non si può dare retta
all'autorità di un sommo esperto di chiara fama. I talmudisti dicono che c'è
bisogno di un compagno con cui studiare e di un maestro cui insegnare.
Spesso la freschezza di mente (o di pensiero laterale) del novizio gli
permette di essere più acuto del maestro.
In modo analogo nell'ingegneria dei sistemi bisogna curare di farsi
venire in mente tutti gli elementi necessari. Sono proprio le situazioni poco
frequenti e poco probabili che possono causare il blocco totale del sistema,
se vengono ignorate in sede di progetto. Per individuarle e prevederle,
non c'. altro modo che discuterne sollevando obiezioni.
Non ci sarebbe mai venuto in mente il parallelo col Talmud quando
l'ingegneria si occupava di cose semplici. Ma ora non ci si occupa solo di
singole macchine o edifici, ma di sistemi complessi quanto il mondo in cui
devono funzionare. E il Talmud studia il mondo (che è complesso) non i
dettagli.
Scrive E. Levinas (nelle sue Quattro letture talmudiche):
"Discutendo sul diritto di consumare "un uovo deposto in giorno festivo"
o sull'indennità dovuta per i danni prodotti da un bue spesso violento
(muad), i savi del Talmud non discutono né di uova, né di buoi, ma mettono
in questione idee fondamentali". In altre parole si occupano di metodo. E
progettare la complessità è possibile solo con gruppi di lavoro che usino
metodi adeguati. Nessuno ha la verità - dobbiamo costruirla.
E a questo punto sollevo io stesso un'obiezione ai limiti del pensiero
talmudico, per connetterlo con le tendenze verso la qualità globale di cui
parlo più diffusamente nell'ultimo capitolo. Se é vero che sapendo di più a
priori, siamo meno responsabili di eventi avversi, allora sapere di più é un
dovere che non finisce mai. Soltanto sapendone di più sul mondo e sapendo
prevedere meglio cosa accadrà, possiamo esimerci da responsabilità colpose
e guadagnare merito. Non arriveremo mai all'onniscienza, ma dobbiamo
tendere verso di essa.
I grandi sistemi tecnologici governano trasporti, comunicazioni,
energia. Ad essi sono affidate milioni di vite umane. La responsabilità é
enorme e dobbiamo affrontarla.
Qui si può sollevare la contro-obiezione :"Non siamo tutti progettisti:
perché allora l'approccio talmudico deve interessare tutti ? Chi non progetta
sistemi non potrebbe accontentarsi della morale tradizionale?" Questa
contro-obiezione non vale. Infatti perché i sistemi funzionino bene, ci
vuole anche la collaborazione degli utenti: di tutti gli utenti. Devono
evitare i vandalismi. Devono capire bene come dovrebbe funzionare il
sistema in modo da accorgersi subito quando qualche cosa non va e da
avvisare il personale di manutenzione. Devono evitare l'abuso delle
funzioni offerte dal sistema, affollandosi tutti a richiederle nello stesso
momento. Se telefoniamo tutti insieme, la rete darà occupato a tutti. Se
partiamo tutti il 1 agosto, le autostrade si bloccano. Se consumiamo
elettricità tutti fra le 9 e le 10 o fra le 17 e le 18, facciamo crescere il
rischio di blackout. Per evitarlo dobbiamo conoscere bene il sistema e
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saperne prevedere i comportamenti futuri. Si potrebbe obiettare ancora che
questa regola riguarda le masse, non i singoli. Se io sono il solo che si
comporta bene, l'effetto che ottengo è nullo. Ma i singoli che danno il
buon esempio vengono seguiti dalle masse. Il Talmud dice: "Zikhronam
livrakhà" (il loro ricordo sia di benedizione). In senso più operativo, dare il
buon esempio può indurre altri a comportarsi in modo altruistico e, quindi,
a migliorare la situazione per tutti. Questo concetto é precisato dalla
trattazione matematica della teoria della cooperazione nell'Appendice.
Qui ho appena accennato ai metodi dell'ingegneria dei sistemi e a
quelli per ottenere qualità globale. In capitoli successivi vedremo in
maggiore dettaglio i contenuti di queste discipline che sono rilevanti anche
per la nostra morale personale.
*
* *
Breve nota storica sul Talmud
Dio sul Sinai non diede a Mosé solo le tavole della legge. Secondo la
tradizione rabbinica aveva anche pronunciato la legge orale. Per questo
Mosé era restato sul monte per vari giorni. Quando era tornato, aveva
raccontato la legge orale a Giosué che, a sua volta, l'aveva trasmessa ai
saggi. Questo insegnamento orale, quindi, aveva avuto origine insieme al
decalogo e alla Bibbia (la Torah) e conteneva spiegazione e commenti
della legge.
Questa legge orale fu tramandata oralmente per millequattrocento
anni: dal 1250 a.C. al secondo secolo della nostra era, quando Akiba bar
Joseph ne ordinò il materiale in modo sistematico. Costruì addentellati
precisi fra la legge scritta (la Torah) e le pratiche tradizionali e le decisioni
legali accumulate attraverso i secoli. Qualche decennio dopo questa
Torah orale fu codificata per iscritto da Giuda il Santo (Yehudah haNasi - il principe o il patriarca). Questa Torah orale si chiama Mishna, che
significa "ripetizione" - cioé "studio, insegnamento appreso con un metodo
orale".
La Mishna é divisa in sei parti (od ordini) : Semenze (leggi agricole e diritti
dei poveri), Stagioni (regole che riguardano l'osservanza del Sabato, i
digiuni, le festività), Donne (regole su fidanzamenti, matrimonio e
divorzio), Torti (leggi civili e criminali), Cose sante (regole sui sacrifici),
Purificazioni (norme igieniche).
Intanto vari maestri continuavano a produrre commenti alla Mishna.
Anche questi furono tramandati oralmente per secoli. Furono scritti
separatamente a Gerusalemme e in Babilonia nel quarto e quinto secolo
della nostra era. Questo commento si chiama Gemara o completamento: é il
Talmud.
Il Talmud babilonese contiene 63 trattati ed é tre volte più lungo di
quello palestinese, che ne contiene 39. Le due versioni riflettono una
stessa tradizione orale. I loro autori erano in frequente comunicazione.
Quindi non ci sono contraddizioni degne di nota fra i due testi. Quest'opera
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monumentale commenta la Mishna, ma tratta anche di altre fonti esterne
ancora tramandate oralmente al tempo della stesura.
Il Talmud non é ordinato per argomenti - come lo é rigidamente la
Mishna. Le sue parti sono aggregate con criteri esteriori. Riflettono, ad
esempio, questioni di legge, ma anche di igiene, di riti e di tecnologie
che erano state toccate in una discussione fra certi maestri. Il testo é pieno
di digressioni. Può dare l'impressione che ogni tanto salti di palo in frasca.
I contenuti del Talmud, quindi, sono di due tipi, chiamati Halakhah
(letteralmente "cammino"), che é la legge commentata, e Haggadah
("narrazione"), che é costituita da storie, concezioni sociali e politiche,
leggende, folklore, favole e cronache. Alcune di queste storie leggendarie
sono del tutto fantastiche. Per esempio un rabbino raccontava che in un
suo viaggio per mare aveva visto un pesce gigantesco che nuotava nella
direzione opposta a quella della sua barca. Era così lungo che avevano
navigato per tre giorni e tre notti, andando molto veloci, prima di arrivare
alla coda del pesce. La Haggadah, dunque, é più pittoresca - ma qui ci
interessa poco: molti la considerano di valore secondario. La Halakhah é
talora molto contorta e illeggibile. Ce ne interessa il metodo - non le
credenze che accetta, né i contenuti letterali.
Lo studio del Talmud é basilare per la formazione dei rabbini, che
non sono sacerdoti, ma interpreti della legge. Nelle comunità ebree
tradizionali il rabbino aveva anche la funzione di giudice e decideva
anche cause civili. Questi giudizi si chiamavano Din Torah.
Da quanto detto si capisce che lo stesso Talmud richiede grossi
sforzi di interpretazione per essere ben compreso. Non é un codice formato
in un certo momento con una concezione unitaria. Mi sembra che il Talmud
- a parte le sue origini religiose - presenti qualche analogia con la
legislazione anglosassone basata essenzialmente sui precedenti legali. Per
interpretarne un passo é necessario conoscere anche tutti gli altri passi che
possono essere rilevanti in un certo contesto. Naturalmente il lavoro degli
interpreti deve obbedire al vincolo che nessuna proposizione contenuta nel
Talmud potrà mai essere contraddetta da un'altra proposizione.
Quando parleremo di progettazione di sistemi tecnologici mai
realizzati prima, vedremo che in questo campo non possiamo avere
garanzie simili. Però ho già detto che "non si può dare retta all'autorità di un
sommo esperto di chiara fama". Quindi le analogie fra i ragionamenti
sistemistici e quelli talmudici sono più profonde di quanto sembra.
Il trattato Baba Metzia (Porta Media) 59b racconta di una
controversia fra Rabbi Yehoshua e Rabbi Eliezer. Questo stava avendo la
peggio e disse:
"Se la legge é conforme alla mia opinione, possa provarlo questo
carrubo."
E l'albero di carrubo si spostò miracolosamente di cento metri. Però
gli altri maestri obiettarono:
"Non si può dedurre una prova da un carrubo."
Eliezer allora compì altri miracoli. Fece invertire il flusso di un
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fiume e fece inclinare i muri della casa in cui si trovavano, preannunciando
questi prodigi come prove delle sue asserzioni - ma non convinse nessuno.
Allora invocò il cielo e dal cielo venne una Bath Kol (letteralmente "figlia
di una voce"), cioé si sentì la voce di Dio che gli dava ragione. Ma gli
altri saggi non diedero valore neanche a quella (1). Si vede così che
"soltanto la ragione deve decidere la corretta interpretazione della Torah"
- come dice A. Cohen nel suo libro citato sul Talmud.
Nella tradizione ebrea dell'Europa orientale i metodi di interpretare il
Talmud si chiamano colloquialmente pilpul, che significa "pepe". Il
senso é che il ragionamento deve essere piccante come il pepe. Quando un
talmudista espone ad alta voce gli argomenti concatenati di un pilpul il suo
tono si fa cantilenante seguendo un modello tradizionale. Graziosi esempi
di pilpul si trovano nei romanzi di Harry Kemelman, in cui un rabbino
americano fa il detective e risolve ogni volta un caso criminale col
ragionamento talmudico.
A metà del XIII secolo l'Inquisizione condannò il Talmud e ordinò di
sequestrare e bruciare tutte le copie esistenti. Nel 1242 a Parigi furono
bruciati 24 carri contenenti 12.000 volumi di manoscritti ebraici. Seguirono
vicende alterne di tolleranza e di rigore violento. Nei primi anni del XVI
secolo papa Leone X permise che si ristampasse il Talmud a Venezia..
L'inquisizione lo condannò di nuovo al rogo nel 1553. Pochi anni dopo il
Concilio di Trento ne permise la stampa a condizione che ne fossero omessi
certi passi incriminati.
____________________________________________________
(1) Qui, però, mi sembra di aver trovato una contraddizione nel Talmud.
Nel trattato Erubin (Amalgamazioni) 13b (che fa parte del secondo ordine
"Stagioni") si racconta che la controversia fra Hillel e il suo avversario
Shammai fu decisa a favore di Hillel proprio da una Bath Kol!
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CAPITOLO 6
LA LEGGE MORALE IMPRESSA NEI NOSTRI
CUORI - CORREGGIAMOLA
Una telefonata da Helsinki ci dice che si é suicidato il nostro amico
Pentti. "Perché lo ha fatto?" - chiedo a Paolo che lo conosceva bene. Me lo
aveva presentato lui. Risponde:
"Si é suicidato perché era finlandese."
É una risposta delirante? É uno scherzo nero di Paolo che fa il cinico
per consolarsi della morte dell'amico? Oppure sta alludendo a pene sofferte
dalla famiglia di Pentti durante la seconda guerra mondiale quando la
cittadina in cui abitavano era stata occupata dai russi dopo scontri
sanguinosi.
"No." - mi spiega - "Un finlandese in media ha una probabilità 5
volte maggiore di quella di un italiano di morire suicida." Paolo, in certo
senso, ha ragione. La tabella seguente è relative a varie date verso la fine
del secolo XX:
Suicidi ogni 100.000 abitanti
Finlandia
Francia
Austria
Giappone
Danimarca
USA
Germania
Svezia
Norvegia
Olanda
Spagna
Regno Unito
Portogallo
Italia
Grecia
Maschi
41.8
30.2
33
23
22.9
21.9
21.8
20.3
18.5
12.5
11.8
11.3
9.9
8.26
5.2
45
Femmine
11.4
9.8
8.9
10.9
8.7
4.5
7.1
8.4
6.1
6.1
3.3
3
2.2
2.59
1
Se si contenessero come le francesi, non si ucciderebbero in un anno
800 italiane, ma 3.000. Già questo raffronto è abbastanza sconvolgente.
Pare che in Giappone la tradizione dello harakiri (o seppuku) stia
passando di moda, dato che il numero dei suicidi in quel paese é minore di
quello francese e maggiore di quello tedesco occidentale.
A Roma sotto gli imperatori Flavi il suicidio era comune. Seneca
ne parlava bene e lo consigliava a chi avrebbe corso altrimenti il rischio di
vivere male o senza onore. Diceva: "Imbecillus est et ignavus qui propter
dolorem moritur, stultus qui doloris causa vivit" (É imbecille e vigliacco chi
si uccide perché é afflitto da un dolore, ma é sciocco chi si ostina a vivere
sebbene debba soffrire dolore.). Poi fu costretto a praticarlo. Scrisse che
non é importante morire un po' prima o un po' dopo. É importante morire
bene invece che male.
Gran parte delle notevoli disparità fra diversi Paesi sono da attribuire
alle diverse regole o propensioni delle autorità giudiziarie di classificare
certi suicidi come incidenti. Non esiste alcuna correlazione fra latitudine e
suicidi. Gli inglesi che stanno più al Nord si suicidano appena più degli
italiani e molto meno dei tedeschi e dei francesi. Possiamo immaginare che
le complesse cause dei suicidi siano: economiche, genetiche, connesse con
l'alimentazione, ma soprattutto sociali e culturali. Negli Stati Uniti la
notoria diffusione delle armi da fuoco é molto probabilmente una delle
cause maggiori di suicidi. Il 60% dei suicidi americani usa armi da fuoco.
In ciascun paese il numero di morti per cadute cambia pochissimo di
anno in anno. Quello dei morti in incidenti stradali varia lentamente (in
Italia si é quasi dimezzato negli ultimo 20 anni). Invece il numero dei
suicidi cambia parecchio da un anno all'altro. Grosso modo subisce
variazioni del 15% in più o in meno rispetto a un valore medio. Taluno ha
voluto riconoscere in queste variazioni una periodicità deterministica che
però non é corroborata dalle serie storiche. Hanno sostenuto che quelle
variazioni erano sincronizzate con gli alti e i bassi dei cicli economici.
Non trovo convincenti queste teorie. Non si riconosce nessuna semplice
relazione di causa ed effetto tra il numero dei suicidi in un paese e alcun
parametro economico, sociologico o culturale facilmente misurabile.
L'incertezza causata da una miriade di fattori impossibili da analizzare
individualmente, é molto forte. In ogni caso migliaia di persone si
comportano in modi uniformi in ciascun paese e difformi tra un paese e
l'altro. Non siamo affatto in grado di capire perché si comportino in
questi modi. Seguono leggi morali diverse? Risentono di una compulsione
ad autodistruggersi? Tendono più o meno intensamente a danneggiare gli
altri? Differiscono nella capacità di funzionare in modo normale?
Forse queste persone hanno in comune una cosa. Sono incapaci
di progettare. Non si interessano di quello che avverrà dopo la loro morte.
Probabilmente non riescono a capire quali conseguenze positive potrebbero
ottenere compiendo sequenze di azioni ben congegnate. Subiscono
l'effetto di fattori sociali e culturali complessi che incidono sulle loro
decisioni e sulle loro depressioni. La depressione é una sindrome mal
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definita, ma certo esistente che menoma la nostra vitalità, ci impedisce di
funzionare - eventualmente ci distrugge. Secondo l'insegnamento della
chiesa cattolica il suicidio é peccato mortale. Chi lo commette dispera della
salvezza finale (uno dei sei peccati contro lo Spirito Santo). Fino a tempi
recenti i suicidi non venivano sepolti nella terra consacrata dei cimiteri.
Questi insegnamenti della chiesa cattolica in se non ci interessano molto.
Però pretenderebbero di coincidere con una legge morale connaturata a
tutti gli uomini. In paesi prevalentemente cattolici (Ungheria, Austria e
Italia) questa esplicitazione della legge naturale dovrebbe produrre
comportamenti difformi da quelli comuni negli altri paesi. Invece le
nazioni così dette cattoliche si trovano sia in testa, sia in coda alla
classifica dei suicidi. Dunque anche il tipo di morale che abbiamo scelto o
che ci é stato impartito e in base al quale dovremmo decidere le nostre
azioni é irrilevante. Un'azione così definitiva come quella di distruggere
noi stessi, la decidiamo in base alla nostra nazionalità - non alle nostre
credenze, né a pretese leggi universali interiori.
Allora per queste ragioni dovremmo dubitare di nuovo che il libero
arbitrio sia prerogativa di tutti gli esseri umani. Sembra che alcuni di noi
almeno non lo abbiano e siano forzati a comportarsi in certi modi da fattori
esistenti nel paese in cui vivono. Nel caso del suicidio le conseguenze sono
esiziali e ovvie. C'é da sospettare che gli stessi fattori (per altro non
conosciuti) condizionino a fare altre scelte importanti anche se meno
clamorose, parecchie persone che non si rendono conto di agire in modo
meccanico - condizionato dall'esterno. Dunque non aveva ragione
Immanuel Kant quando diceva:
"Due cose riempiono l' animo di ammirazione e di reverenza sempre
nuove e crescenti, quanto più spesso e a lungo il pensiero vi si ferma su: il
cielo stellato sopra di me e la legge morale in me."
La frase é tanto famosa che tendiamo a considerarla vera. Se lo
fosse davvero, non avremmo nessun bisogno di ragionare sulla morale, sui
modi di comportarsi, sulle idee concepite da filosofi, pensatori e giuristi. Se,
guardando dentro di noi trovassimo leggi morali poco diverse le une dalle
altre, non ci sarebbe bisogno di questo mio libro. Invece questa pretesa
legge morale innata o ereditaria é impressa dentro di noi in modo incerto
e, soprattutto, ha contenuti e implicazioni diverse per individui diversi.
Abbiamo già visto che le leggi morali implicitamente accettate
nel primo libro della Bibbia (Genesi) erano primitive e bestiali. Abbiamo
visto che il decalogo non ha migliorato di molto le cose. Infine non solo
le percentuali dei suicidi, ma anche i comportamenti considerati normali e
per bene differiscono molto da una civiltà all'altra.
Da alcuni popoli la schiavitù é accettata ancora oggi. In certi paesi le
adultere vengono lapidate e ai ladri si tagliano le mani e anche i piedi se
sono recidivi. Pare che la fedeltà coniugale fosse sconosciuta agli eskimesi.
Gli amministratori pubblici si procurano spesso vantaggi personali illeciti:
in certi paesi lo fanno in modi ostentati, in altri paesi cercano di farlo di
nascosto. Gli stessi valori umani tenuti in considerazione più alta variano
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molto: la bellezza, la forza fisica, la pinguedine, la soavità, la bontà, la
ricchezza, il bel canto, la potenza politica, la saggezza, la cultura.
Dunque la legge morale scolpita nei nostri cuori é una
incrostazione derivata da tante origini diverse. Incorpora regole empiriche
tradizionali riconosciute grosso modo ragionevoli. Contiene prescrizioni
imposte ad arbitrio in tempi remoti e che non sono state combattute
abbastanza. É fatta di regole poi modificate in modi casuali. É fatta di leggi
dedotte da premesse gratuite. In generale sembra che l'evoluzione dei criteri
morali e dei modi in cui vengono applicati sia positiva. In molti paesi
avanzati (o forse solo più ricchi: é una coincidenza che li consideriamo più
avanzati?) la pena di morte é stata abolita - e questa decisione é stata
indipendente dalla accettazione di principi superiori religiosi o mistici.
In Vaticano nel secolo scorso l'unico apporto della rivoluzione
francese ad essere accettato fu la ghigliottina. Sostituiva forme di
esecuzione capitale molto più crudeli: l'impiccagione, la decapitazione con
mannaia e l'uccisione a colpi di mazza (mazzolamento). Ora che le leggi
improntate al messaggio d'amore cristiano non valgono più, nel territorio
della repubblica italiana, di queste barbarità non si parla nemmeno. La pena
di morte, reintrodotta dal fascismo nel 1925, é stata abolita. Non sembra
ragionevole dedurne che la legge morale impressa nel cuore dei legislatori
in certe epoche dicesse di torturare e uccidere certe persone, mentre ora
non lo dice più. É più probabile che la coscienza civile si sia evoluta in
senso positivo perché si riconosceva che accettare certi princìpi conduce a
creare una società in cui si vive meglio.
Purtroppo i princìpi e le morali comunemente accettate non evolvono
ovunque in direzioni positive. Regrediscono a livelli barbarici nei paesi in
cui si riaffermano fondamentalismi religiosi. Dovremmo mandare in questi
paesi missionari laici che insegnino: per vivere in modo decente é meglio
usare il buon senso e riconoscere diritti uguali a tutti, che non appellarsi a
principi superiori e immutabili. Organizzarsi in modo ordinato e realizzare
sistemi tecnologici efficaci porta più vantaggi alla gente di quanti ne
possano dare volumi (o milioni di ore di predicazione) di regole fisse, di
ordini gratuiti, di fisime antiquate concernenti una pretesa perfezione
descritta in prose sublimi. Solo per il fatto che sono antichi c'é da sospettare
che i testi sacri siano inadeguati o dannosi.
Certo il lavoro di questi missionari non sarebbe facile. I fanatici che
si sono messi qualcosa in testa difficilmente ci rinunciano. E, poi, per poter
mandare in giro missionari dovremmo prima creare una società in cui siano
largamente diffusi e accettati i valori della razionalità e della abilità di
prevedere e pianificare. Come accennavo sopra, sono proprio queste le
componenti che mancano alla formazione e alla personalità di troppi
cittadini dei paesi così detti avanzati. Questa mancanza motiva
comportamenti individuali e collettivi casuali o negativi che portano a
distruggere risorse e a degradare la qualità umana. Per evitare questi
danni, abbiamo bisogno di una morale nuova - di una tecnica dei fini e delle
azioni. Cerco di fornirle con questo libro.
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CAPITOLO 7
CONTRADDIZIONI, PRATICITÀ, RISERVE
MENTALI DA TOMMASO A IGNAZIO
Il frate era tanto grasso che avevano segato via dalla tavola un settore
semicircolare per fare posto alla sua grande pancia. Il fratone non
ascoltava il novizio che leggeva il manoscritto della vita di un santo.
Masticava lentamente - e sembrava che ruminasse. I confratelli lo
chiamavano "il bue paziente". Aveva lo sguardo accomodato all'infinito.
Improvvisamente alzò il braccio e colpì il tavolo col suo grosso pugno,
facendo tintinnare il povero vasellame della mensa. Gridò:
"A questo argomento non troveranno risposta gli Averroisti!"
Il frate era Tommaso d'Aquino. Dopo la sua morte la Chiesa lo
chiamò "Doctor Angelicus" e lo santificò.
Tommaso d'Aquino scrisse la Summa Theologica, un'opera
monumentale dentro la quale c'é tutto: logica, teologia, fisica, cosmogonia,
storia sacra, dogmi della fede cristiana - e morale.
Da molti secoli, ormai, religiosi e teorici della religione di tanti tipi
diversi si sono occupati di morale. Conviene analizzare che cosa hanno
sostenuto anche a chi non é religioso o appartiene a chiese o sette diverse
da quelle degli autori. Nel terzo capitolo ho sostenuto che é assurdo
accettare regole fisse. Malgrado questo non possiamo escludere che sia
stato pensato qualche argomento valido e rilevante anche da chi in linea di
principio accetta regole fisse.
Non esistono uomini che hanno ragione su tutto e sono rari quelli
che hanno torto su tutto. La maggioranza di noi dice cose inutili e false su
qualche argomento e dice cose vere e utili su altri argomenti. Vediamo,
dunque, se anche in San Tommaso possiamo trovare qualche utile
insegnamento o se ci conviene rivolgerci altrove.
Tutta la Summa Theologica procede per ragionamenti e controversie
simili in certo modo a quelli che si trovano nel Talmud - come anticipavo
nel Capitolo 5. Lo schema seguito da Tommaso, però, é più rigido di quello
talmudico, improvvisato da tanti autori diversi in epoche diverse. Ad
esempio la questione XLII nel secondo volume della Seconda Parte della
49
Summa tratta della sedizione, che é opposta alla pace. É divisa in due
articoli: nel primo si discute se sia o no un peccato distinto dagli altri
peccati; nel secondo se sia sempre peccato mortale. Per ciascun articolo
vengono prima addotti argomenti o citazioni di classici contrari all'assunto
ed altri favorevoli. Poi Tommaso risponde a ciascun argomento e trae le
conclusioni finali.
Nel caso della sedizione ragiona che é peccato grave, se porta la
discordia nel popolo. Però se la sedizione viene fatta contro un regime
tirannico, che é cattivo, allora la sedizione porta discordia contro il male e
può non essere peccato. C'é un'ulteriore distinguo: la sedizione contro il
tiranno é peccato se causa perturbazioni così disordinate da danneggiare la
maggioranza dei cittadini più di quanto non avrebbe continuato a
danneggiarla il tiranno. Quest'ultimo ragionamento fila ed é uno dei modi in
cui le regole fisse bibliche o cristiane sono state temperate e rese più
aderenti alla realtà.
Si sa che Tommaso d'Aquino si appoggia continuamente ad
Aristotele. Come punto di partenza non é disprezzabile - almeno per quanto
riguarda la logica. Questo implica una costanza del tipo di ragionamento
molto maggiore che nel Talmud. Meno solida naturalmente é la parte che si
occupa della conoscenza del mondo fisico - che però esula dal nostro
discorso centrale.
Tommaso si trova in gravi difficoltà perché il bagaglio dogmatico
che si porta dietro é più pesante di quello biblico: comprende la Bibbia, i
vangeli e gli scritti dei padri della Chiesa fra cui Agostino.
I principi dogmatici sono indiscussi. Nell'Articolo Terzo della
Questione CX nel Secondo volume della Seconda Parte della Summa si
dimostra che non ci può essere niente di falso nella Sacra Scrittura e che, se
davvero qualche cosa é falso, allora si vede che deve essere interpretato in
senso figurato.
Le Scritture vengono trattate, dunque, come le teorie vaccinate definite da Karl Popper come quelle che per definizione devono essere
accettate come vere a prescindere da osservazioni, testimonianze o risultati
di esperimenti vecchi e nuovi. Come abbiamo visto nel Capitolo 5, chi
accetta teorie vaccinate e regole fisse, deve fare i salti mortali per
mettere d'accordo princìpi e fatti che fatalmente si contraddicono.
Tommaso si mise nei pasticci quando si mise a ragionare sulla
predestinazione. Le sue idee sono in netto contrasto con quelle che ho
esposto nel primo capitolo. Tommaso crede nelle profezie e nella
predestinazione, che sarebbe la decisione presa da Dio ab aeterno di
assicurare a qualcuno la vita eterna. La predestinazione consegue il suo
effetto in modo certissimo e infallibile. Nessuno si salva senza di essa.
Poi sostiene che nessuno può fidarsi della predestinazione, dandosi al
peccato e astenendosi dalle opere buone. Come ci sono i predestinati,
infine, ci sono anche i reprobi, ai quali Dio permette di dannarsi - certo: se
ci mettono del loro e peccano abbastanza, mentre a rigore potrebbero anche
non farlo. Mettere d'accordo l'onnipotenza di Dio con il libero arbitrio é
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un'opera disperata. Tommaso d'Aquino ci é riuscito, ma ha pagato un
prezzo altissimo di contorsioni logiche che avrebbero lasciato Aristotele
esterrefatto.
Altre contorsioni sono necessarie per giustificare le curiose regole
bibliche di cui abbiamo già parlato. Perché il padrone che bastona lo
schiavo non é colpevole se questo muore dopo due o tre giorni? Non lo é
perché lo schiavo potrebbe essere morto anche per altre cause.
Le regole sugli ebrei tenuti schiavi e sulla vendita della propria
figlia come schiava, Tommaso le giustifica sostenendo che non si tratta di
vera e propria schiavitù, ma di rapporto mercenario, di servizio. Allora
non c'é niente di male nel trovare lavoro a qualcuno.
Dunque Tommaso d'Aquino fu il primo cristiano a usare la casistica,
che sarebbe un buon modo di ragionare per esempi concreti. Però questo
approccio é stato esasperato da altri dopo di lui. In particolare i Gesuiti
hanno accettato in blocco le teorie e il modo di ragionare di San Tommaso.
Hanno sviluppato modi di ragionare sulle intenzioni e sulle motivazioni
arrivando a punti di vista blandi - che furono chiamati "lassisti". Pare che
i Gesuiti seguissero queste tendenze per non contrariare troppo né i fedeli,
né i convertiti in terra di missione e, quindi, per dare maggiore seguito alla
Chiesa e al Papa.
Nel linguaggio corrente si parla di morale gesuitica per riferirsi a chi
spacca i capelli in quattro per giustificarsi e, addirittura, mente pur non
pronunciando frasi letteralmente false. Una volta sentii un gesuita che
ragionava così:
"Supponiamo che io stia per attraversare in treno una frontiera.
Prima del controllo doganale, nascondo nel sedile oggetti che dovrebbero
pagare dogana. Poi quando il doganiere mi chiede:
"Ha niente da dichiarare?"
Rispondo: "Non ho con me niente che debba pagare dogana."
Dicendo "con me", intendevo "sulla mia persona" e - quindi - non
ho mentito e non ho peccato. Poi, passata la frontiera riprendo gli oggetti
incriminati dal sedile, li rimetto in tasca - ma in quel momento nessuno mi
sta chiedendo se devo pagare dogana o no."
Si racconta anche la storia del Gesuita che vede passare di corsa
un criminale fuggiasco. Per qualche ragione gli rimane simpatico - o,
forse, spera di convertirlo in avvenire. L'evaso scappa. Poco dopo arriva la
polizia che lo insegue e chiede:
"É passato di qui un uomo che correva con un vestito scuro
stracciato?" Il gesuita risponde:
"No. Di qui non é passato."
E, di nuovo, non mente e non commette peccato se, mentre
pronuncia quelle parole, infila il dito della mano destra nel polsino della
sua manica sinistra. É vero: il fuggiasco non é passato per la sua manica.
Questi sono casi estremi e fabbricati. Però alcuni gesuiti hanno sostenuto
seriamente la teoria della "direzione di intenzione". In base a questa,
un'azione per se riprovevole e peccaminosa non lo sarebbe più, se
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commettendola pensiamo più intensamente ai risultati buoni che potrebbe
avere e non a quelli cattivi.
Altra teoria criticabile dedotta dalla casistica tomistica é il
probabilismo. Molte azioni non sono peccato, se uno mentre le compie non
é del tutto sicuro che la legge di Dio le proibisca.
Tutti questi contorcimenti ci possono sembrare alieni. C'é un aspetto
però che non ci é affatto alieno. É la riserva mentale. Ci cadiamo dentro
quando facciamo finta che le cose siano diverse da come sappiamo bene
che sono allo scopo di non dover fronteggiare compiti sgradevoli o faticosi.
Fare finta che il mondo sia diverso (che certi rischi non ci siano, che
certe perdite non siano state già sofferte) o che le persone intorno a noi
siano diverse, é sicuramente un'azione sbagliata.
Non voglio dire certo che sia peccato. Intendo dire che sul lungo
termine ogni volta che facciamo finta corriamo il rischio grave di dover
fronteggiare una realtà che nel frattempo é diventata peggiore di quanto
era quando capimmo (senza ammetterlo) quale era il problema. Concludo
che le regole fisse vanno evitate non solo quando sono barbariche e
antiche, come ho detto nel Capitolo 3. Non possono essere giustificate
nemmeno se vengono contornate da interminabili discussioni solo
apparentemente razionali. Il difetto di base sta nel formalismo da cui si
spera di trarre un metro di giudizio applicabile a ogni azione, valutandola
in se a prescindere dalle conseguenze.
La nuova morale di cui sto parlando, invece, considera che un'azione
é buona se le sue conseguenze ci piacciono. É cattiva, se le conseguenze
non ci piacciono. La decisione su cosa ci piaccia e cosa no, non é
arbitraria, né casuale. Deriva da un quadro del mondo che sia il più ampio
possibile e che non sia limitato al momento attuale, ma proiettato verso
l'avvenire. Una volta che lo abbiamo formato nella nostra mente, non
abbiamo più voglia, né tempo di perseguire obiettivi meschini. I così detti
peccati non ci interessano più. In altre parole: non possiamo definire i
nostri valori (le decisioni sul bene e sul male) per mezzo di enunciati o
proposizioni dichiarative. Possiamo definirli solo illustrandone le
conseguenze anche lontane. Un principio astratto può risultare anche
neutro. Non saranno neutre, in generale, le conseguenze derivanti dal fatto
che noi - o che una gran massa di persone accettiamo quel principio.
Tommaso d'Aquino, dunque, si porta dietro un bagaglio dogmatico
dannoso, mentre gli manca la visione dell'avvenire - necessaria per far
succedere le cose giuste. Ho già anticipato qualche pensiero su questo punto
e ci tornerò ancora sopra.
A parte le inadeguatezze citate, Tommaso non si curava che le sue
regole fossero accettate: le enunciava e basta. Si ergeva ad autorità
indiscussa sulla base di Aristotele, dei padri della Chiesa e della ragione
(anche se usava quest'ultima in modi strani). Ignazio di Loyola, invece, era
un ex-militare. Si pose il problema di come ottenere l'obbedienza alle
regole morali da parte di individui pigri e poco riflessivi. Voleva ottenere
buone prestazioni anche da parte degli imboscati o dei lavativi.
52
Spronò, allora, i suoi seguaci alla virtù inducendoli a meditare sulle
pene sofferte da Cristo durante la passione. L'obiettivo era quello di
generare sensi di colpa tali da far comportare bene gli educandi. Questa
parte dell'opera di Ignazio non é interessante.
É più interessante la parte pratica, relativa alla educazione e al
dovere dei gesuiti di seguire la strada lavorativa e studiatoria scelta dai
superiori: questo lo hanno fatto con successo. Hanno anche suggerito modi
per migliorarsi e per raggiungere certi obiettivi. Gli Esercizi Spirituali di S.
Ignazio sono intitolati:
EXERCICIOS ESPIRITUALES PARA VENCER A SI MISMO
E ORDENAR SU VIDA, SIN DETERMINARSE POR AFFECION
ALGUNA QUE DESORDENADA SEA (Esercizi spirituali per vincere
se stessi e ordinare la propria vita, senza lasciarsi influenzare da alcuna
affezione che sia disordinata).
É importante vincere la propria lentezza o la propria pigrizia per
combinare qualche cosa. Però stare in lotta continua con se stesso alla fine
disturba - dovremmo imparare anche a placarci, a stare in pace con noi
stessi: si chiama igiene mentale.
Sebbene non avesse alcuna esperienza militare, anche Gautama
Budda fu un precursore di Ignazio. Insisteva anche lui sull'importanza di
vincere sé stessi. Diceva che é più importante vincere se stesso che vincere
mille nemici. E a che scopo? Budda sosteneva che dobbiamo sforzarci
di evitare: il peccato, il desiderio, i pensieri piacevoli, il possesso, l'ira, la
speranza, il dolore e la realtà del mondo. Be': se uno desse retta ai buddisti,
certo non combinerebbe mai niente né per se, né per gli altri. Lo scopo
ultimo dovrebbe essere quello di arrivare al Nirvana in cui finalmente si é
staccati da tutto e non si rinasce più. Questa prospettiva sembrerà attraente
a chi crede che dopo ogni vita rinasciamo sotto forma di uomini o di
animali - ma chi non ci crede resta freddo.
Ritengo, quindi, che non possiamo sperare di trovare grandi verità
in questi scritti antichi. Tutt'al più ci troveremo qualche suggerimento
metodologico, ma dobbiamo stare attenti a non prenderli troppo alla lettera.
Anche i testi più recenti, come quelli dei gesuiti, fanno una gran
confusione fra dogmi, regole bibliche e ragionamenti pratici. Per esempio
i gesuiti non condannavano la schiavitù nel Nuovo Mondo ove furono
presenti molto presto - anche se in Brasile difesero gli indiani (per altro con
poca efficacia) contro la caccia all'uomo cui erano soggetti dai coloni
portoghesi.
Nel XVII secolo le missioni dei gesuiti in Paraguay diventarono un
vero e proprio regno in cui quei religiosi esercitavano una benevola
dittatura. Gli indigeni Guaranì venivano indottrinati, curati e indotti a
occuparsi di agricoltura e allevamento. In effetti erano trattati come schiavi
e frustati per le loro mancanze. Anche se convertiti non erano ammessi al
sacerdozio. Ma questi dettagli storici non sono molto rilevanti.
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Ho parlato dell'insediamento dei gesuiti in Paraguay per un'altra
ragione. A quel tempo le comunicazioni erano molto lente. Il padre generale
dell'ordine da Roma non avrebbe potuto impartire ordini tempestivi
decidendo come risolvere le questioni che sorgevano nella gestione di
quella missione. Pare, allora, che avesse dato una sola regola al capo
della missione:
"Ama Dio e fai quello che vuoi.", che - mi si dice - risale a
S.Agostino.
Anche questa regola serve a poco. É basata sulla convinzione che
le buone intenzioni giustificano tutto. Ho già cercato di mostrare che
questa idea é sbagliata.
É importante capire. É importante prevedere. É importante far
succedere le cose giuste. É molto meno importante avere in testa pii
desideri che tutto vada bene per tutti, se non si é capaci di analizzare, di
prevedere, di concludere.
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CAPITOLO 8
PENTIMENTO. ISTRUZIONI 'UNDO'. MORALE
SESSUALE. COLPA.
Il medico ha una faccia triste. É imbarazzato. Poi ti dice:
"Sono arrivati i risultati dell'analisi. La Wassermann é positiva. Hai
la sifilide."
Te lo aspettavi: i sintomi erano brutti. Però in quel momento senti
un colpo alla bocca dello stomaco. Ti sembra che il cuore ti si fermi.
Invece galoppa, galoppa. Il medico aggiunge:
"É seccante lo so, ma sai bene che ora la malattia si cura
perfettamente con gli antibiotici. Certo é una cura lunga. Bisogna stare
molto attenti e controllarsi periodicamente per qualche anno. Però il
successo é assicurato."
Ti pare assurdo che parli di successo. É un fallimento. É un disastro.
Non dici una parola. L'espressione della tua faccia, però, parla per te. Il
medico continua:
"Cerca di non farne una tragedia. Sai, siamo tutti abituati a
considerare questa malattia come una maledizione terribile, incurabile e
infamante. Non dovremmo. Sono residui di tempi passati in cui davvero le
cure erano inefficaci. Ora é diverso."
Sarà diverso, però anche lui ha usato la parola sifilide una volta
sola. Poi l'ha cominciata a chiamare "la malattia".
Intanto tu pensi a quel rapporto sessuale nel quale hai contratto la
malattia. Vedi la situazione in cui ti trovavi come attraverso un velo
d'acqua. Ti sembrava così desiderabile. Non ne potevi fare a meno - e ora
vorresti tanto averne fatto a meno. É una rovina.
É improbabile che tu abbia avuto davvero un'esperienza come quella
che ho descritto. Infatti la sifilide é diventata abbastanza rara. Però negli
ultimi dieci anni brutte notizie simili sono state comunicate ad alcune
migliaia di italiani e ad alcune decine di migliaia di americani che avevano
l'AIDS. Anche loro, quando hanno saputo, si sono pentiti delle loro
imprudenze passate. Circa la metà di loro sono morti.
55
Ma non ci pentiamo solo delle nostre azioni che ci hanno condotto
a prendere malattie gravi. Alcuni di noi si accorgono di aver sposato la
persona sbagliata. Si accorgono che il marito, o la moglie, é del tutto
diverso da come lo avevano immaginato. É molto peggio e continua a
peggiorare. E vorrebbero non essersi sposati.
Alcuni di noi hanno comprato azioni in borsa, sperando che il
prezzo salisse in modo vertiginoso. E invece hanno perso il 60% dei soldi
che avevano investito. Vorrebbero non avere mai dato quell'ordine di
acquisto.
Altri escono in mare con una barca e poche ore dopo si trovano in
mezzo a una tempesta terrificante. Vorrebbero non essere usciti dal porto.
Ma non si può tornare indietro nel tempo. Un noto poeta scrisse che
non possiamo riingoiare le parole uscite dalla nostra bocca, come non
possiamo richiamare all'arco la freccia che abbiamo scoccato. Stranamente,
invece, ci sono azioni che possiamo annullare. Si tratta di certe istruzioni
che impartiamo al nostro computer. Sulla barra degli strumenti del
computer con cui sto scrivendo queste parole c'é un'icona che rappresenta
una freccia volta in senso antiorario. Quando mi accorgo di aver effettuato
tre o quattro manovre errate, se clicco su quell'icona (per tre o quattro volte)
annullo gli errori e rimetto tutto a posto com'era prima. Poi posso riflettere e
compiere la manovra giusta. In altre macchine é disponibile un'istruzione
UNDO, che significa DISFARE e serve, appunto, a distruggere
un'istruzione precedente indesiderata.
Queste funzioni fanno comodo nei computer. Per analogia vorremmo
disporne anche nella vita reale. Invece é meglio non illudersi. Non
esisteranno mai. Devono essere rimpiazzate con la previdenza e con la
riflessione prima del fatto. Dopo il fatto possiamo solo pensare ai rimedi
in modo tradizionale oppure provare ad accontentarci di come le cose sono
andate.
Questa di accontentarsi é una strada pericolosa. Per stigmatizzarla
ricordo che molti anni fa la rivista inglese New Statesman indisse un
concorso per la migliore parodia di un tipico titolo di articolo del Reader's
Digest. Il titolo che vinse era: "Guardiamo insieme i lati positivi della
peste bubbonica".
Ora é ragionevole pensare che le azioni di cui ci pentiremo di più
siano quelle impulsive e non meditate di cui parlavo nel primo capitolo. E
quando ci succede di agire nel modo più impulsivo? Ma quando siamo
emozionati. Quando i nostri sentimenti sono turbati. Questo accade
soprattutto quando siamo coinvolti in situazioni sentimentali o sessuali.
Per certe persone il punto centrale della morale sta proprio nella
morale sessuale. Per loro, dunque, una persona immorale é una persona
sessualmente promiscua oppure dedita ad attività sessuali non usuali e
disapprovate da certe religioni o in base a certi modi di vedere
tradizionali.
Anche se non siamo d'accordo nell'identificare tutti i problemi
morali con problemi di comportamento sessuale, dobbiamo riconoscere
56
che le attività sessuali sono importanti. Non lo sono solo perché
consentono la procreazione che ha messo al mondo tutti noi. Lo sono
perché molti di noi le considerano tanto piacevoli da dedicare molto
tempo e molta attenzione a pianificarle. Le spinte sessuali sono così forti
da far ritenere che non siamo noi a occuparcene, ad agire: sono i nostri
geni che vogliono perpetuarsi nella nostra progenie e quindi scelgono i
partner più adatti alla sopravvivenza e al successo della discendenza.
L'egoismo e la pulsione a perpetuarsi dei geni sono messi in
evidenza da una vecchia definizione della gallina: "É l'artificio per mezzo
del quale un uovo riesce a produrre un altro uovo."
La morale sessuale é malamente codificata nel sesto fra i dieci
comandamenti biblici, che viene reso in vari modi:
"Non commettere atti impuri" (generico)
"Non fornicare", che letteralmente significa "Non avere rapporti
sessuali con prostitute" - perché le prostitute esercitavano la loro
professione sotto certi archi, detti anche fornici.
"Non commettere adulterio" - cioé non avere rapporti sessuali fuori
dal matrimonio.
Il rapporto Kinsey e quello di Masters e Johnson hanno spiegato
che almeno negli Stati Uniti il sesto comandamento non é molto osservato.
Però le risultanze di cui disponiamo sono solo il risultato di campionature
fatte mediante interviste. Si tratta, quindi, di dati poco sicuri.
La questione dell'osservanza del sesto comandamento é stata
sollevata frequentemente in anni recenti a proposito dei candidati alla
presidenza degli Stati Uniti. Gary Hart si é giocato la candidatura nel 1988
per un adulterio che aveva commesso. Bill Clinton é stato eletto presidente
degli Stati Uniti malgrado accuse di promiscuità che gli furono mosse nel
1992. Da presidente ha avuto una brutta storia di giochetti sessuali con
indagini, menzogne e polemiche interminabili.
La saggezza tradizionale e i costumi più diffusi nelle nostre società
alla fine del XX secolo non condannano più severamente i rapporti
sessuali fra adulti consenzienti. Invece sia la legge, sia la morale corrente
condannano nettamente i rapporti con minorenni e fra minorenni. Molti
condannano i rapporti omosessuali. Qui non ne discuto: lascio che se ne
occupino gli interessati.
Una regola abbastanza stringente che ho sentito proporre é:
"Non avere rapporti sessuali con un partner con cui non vorresti fare
figli."
Sembra una regola ragionevole, anche se si prendono precauzioni
anticoncezionali, perché queste non sempre funzionano. Sembra che i
nostri geni siano capaci di ispirare le nostre cellule sessuali ad avere la
meglio sui contraccettivi. Ma quando si parla di figli, la questione é più
seria. La tesi fondamentale di questo libro é che dobbiamo cercare di
prevedere le conseguenze più remote delle nostre azioni.
Allora non si tratta di considerare il nostro partner sessuale solo dal
punto di vista del voler fare figli oppure no. Generare i figli é solo il primo
57
passo. L'importante viene dopo - quando li alleviamo, quando ci occupiamo
di spiegargli come é fatto il mondo, quando cerchiamo (come dovremmo)
di farne persone buone, dotate di comprensione, di insight, di abilità
intellettuali e manuali. Dovremmo cercare di farne persone capaci di
rendere il mondo un luogo migliore - secondo la nostra concezione di
migliore naturalmente.
Allora quella regola deve essere precisata:
"Abbi rapporti sessuali solo con un partner con cui vorresti allevare i
tuoi figli."
Questo già implica parecchie condizioni ovvie, la prima delle quali é
quella di essere disponibili a questo allevamento.
Se, però, ci occupiamo di questo argomento, il problema di generare
figli e di avere rapporti sessuali vanno in seconda linea. Se uno vuole
allevare un essere umano, può benissimo adottarlo - almeno se crede,
come credo io, che nella costituzione di una personalità umana l'ambiente
abbia un effetto del tutto preponderante rispetto all'eredità genetica.
Allora va benissimo separare le due cose. Allevare i figli da una
parte e avere rapporti sessuali del tutto indipendenti dalla volontà di
generare discendenza dall'altra.
So bene che molti disapprovano violentemente i punti di vista che
ho esposto perché sono in contrasto con le loro regole fisse.
Ma la questione del fare e allevare i figli la si può interpretare
anche in modo figurato. Le caratteristiche di un partner con cui vorremmo
allevare figli e quelle di un partner con cui si può avere un buon rapporto
umano, sono simili. Se si hanno rapporti sessuali con partner scelti solo
in base al loro aspetto fisico, alla loro bellezza, si possono avere esperienze
buone in un senso, ma deleterie in altri. Il piacere momentaneo può essere
notevole. Le sorprese spiacevoli di discorsi goffi, rozzezze, atteggiamenti di
cattivo gusto possono essere altrettanto notevoli.
Pare che una volta una signora chiese a Talleyrand se faceva l'amore.
Il famoso diplomatico rispose:
"No. Lo compro fatto."
Veniamo quindi a parlare dell'amore mercenario o di quello fatto
con piani a brevissima scadenza. In romanesco si chiama "una botta e via",
in inglese "one night stand". Si applica a questo tipo di rapporti sessuali
un altro detto pure attribuito a Talleyrand a proposito delle attività
sessuali:
"Posizione ridicola. Godimento troppo breve. Finanziariamente
disastrosi."
Queste battute ciniche sono tristi. Sembrano ideate da persone che
hanno avuto esperienze poco felici e che si sono strettamente limitate a
rapporti sul solo piano fisico. Non immaginano il piacere che si può avere
da rapporti fisici e, insieme, sentimentali e spirituali. Se non ci avete
provato, provateci. Ci vogliono tempo, disponibilità, immaginazione e
saggezza.
Conoscenti, libri, film ci raccontano ogni tanto di rapporti sessuali
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violenti. Anche senza arrivare allo stupro, la violenza si manifesta in tanti
modi: obbligando il partner a rapporti che non vuole o a situazioni che
lo stressano. Sono atteggiamenti e comportamenti da escludere - se si
accettano gli assiomi del Capitolo 2.
Sulle perversioni sessuali non ho molto da dire. Vengono classificati
così molti comportamenti innocui e usuali. Se due adulti consenzienti
decidono quale é il loro piacere mutuo nessuno ci si dovrebbe intromettere.
Non procedo a un'analisi delle possibili varianti dei rapporti sessuali
perché sono ben note, oppure sono trattate in libri specializzati e,
comunque, sono in numero limitato e facilmente immaginabili.
Per concludere, mi sembra che anche parlando di morale sessuale
abbia un senso parlare di valore aggiunto. Il valore aggiunto (quello che
viene tassato dall'IVA) é quello che aggiungiamo a una materia prima o a
un semilavorato. Noi lo elaboriamo, ne facciamo qualche cosa di più utile e
quindi lo rivendiamo a un prezzo maggiore di quello che l'avevamo pagato.
I servizi a valore aggiunto sono quelli che non si limitano a fornire
un'utilità tradizionale, ma la completano in qualche modo. Ad esempio
sulla rete telefonica il servizio tradizionale é quello costituito dalla
semplice comunicazione fra due utenti. Invece i servizi a valore aggiunto,
oltre alla comunicazione offrono anche l'accesso a una base dati, oppure
un servizio di interpreti, o altri servizi di segreteria e di informazione.
Per analogia possiamo dire che i rapporti sessuali godono di
valore aggiunto se, oltre al rapporto fisico, incorporano elementi umani,
spirituali, poetici, culturali, progettuali, umoristici. I rapporti sessuali
possono rappresentare anche una bellissima forma di comunicazione.
Funzionano così se sono basati sulla reciprocità e sull'equilibrio. Chi
riesce a impostarli in questo modo non deve (più) temere la frigidità né
l'impotenza.
Questo capitolo é un po' eterogeneo. Comunque, mi sembra il
momento di parlare brevemente della colpa e dei modi in cui ci sentiamo
colpevoli - spesso erroneamente.
Il senso di colpa dovrebbe segnalarci che abbiamo trasgredito la
legge morale impressa nei nostri cuori. Ma abbiamo visto nel Capitolo 6
che questa legge non é scolpita in modo chiaro. Persone diverse hanno
dentro leggi diverse. Alcuni sembrano non averne nessuna. Questo stato di
cose é confermato dal fatto che alcuni si sentono colpevoli a ogni passo
anche di crimini che non hanno commesso. Altri non si sentono colpevoli
mai.
Gli psicanalisti attribuiscono i sensi di colpa ai conflitti interni che
alcuni di noi hanno fra diverse componenti della propria personalità. Il
nostro io sarebbe suddiviso in tre livelli: il super-io, l'io e l'id. Il super-io
sarebbe formato dalla nostra educazione e consisterebbe in un riflesso più o
meno fedele di una figura autoritaria: tipicamente quella del padre. L'io é la
nostra individualità corrente, quella più o meno - conscia. L'id coincide,
grosso modo, con l'inconscio: un insieme di ricordi, tendenze, istinti,
impulsi, inclinazioni non ragionati, ma accumulati sul fondo della nostra
59
persona.
Ci sentiremmo in colpa quando il nostro io cosciente si trova in
conflitto con il super-io. Questo ci dice, o avrebbe dovuto dirci, di
comportarci in un certo modo e noi, invece, ci siamo comportati peggio.
Potremmo liberarci del senso di colpa analizzando questi processi,
capendoli bene e rendendo espliciti i rapporti fra i nostri tre livelli interni.
Io non sono affatto sicuro che esistano il super-io, l'io e l'id.
Nessuno ne ha mai trovato indizi misurabili. Questa teoria, poi, non serve
a fare previsioni sul comportamento di singoli esseri umani anche dopo che
siano stati osservati attentamente a lungo.
In certo senso non fa molta differenza che la nostra psiche sia
organizzata in questo modo o in un altro più complesso. É solo
questione di buon senso cercare di evitare i conflitti interni e di non
angosciarci troppo per azioni che abbiamo commesso con risultati
disastrosi. Cerchiamo, invece, di rimediare ai danni che abbiamo prodotto.
Soprattutto ricordiamo e analizziamo quello che abbiamo combinato per
evitare di ricascarci, ma cerchiamo di non farne una tragedia.
Il passo essenziale é l'analisi, ma é facile farla male. Va fatta
cercando di capire i meccanismi di quello che é successo. Solo così
potremo apprezzare le circostanze e i nostri tipici modi di reagire che ci
hanno condotto a fare quel che abbiamo fatto.
Dobbiamo evitare, invece, di condurre questa analisi come se fosse
un processo. Noi stessi siamo gli imputati e cerchiamo di difenderci - non
importa se davanti al super-io, a noi stessi o in generale. Succede, allora,
che alcuni di noi cerchino di individuare ogni possibile circostanza
attenuante. Meglio ancora cercano di buttare la colpa addosso a qualcun
altro o a circostanze su cui non avevano controllo. E allora concludono:
"Ho sbagliato perché non mi avevano dato le informazioni giuste."
"Ho detto o scritto quelle frasi, ma non potevo prevedere che
sarebbero state interpretate così."
"Sono stato ingannato da A o da B, che sono persone inaffidabili
o perfide."
"Avrei fatto le cose giuste, ma non ci sono riuscito perché gli
strumenti che ho usato erano difettosi o, comunque, erano diversi da
quelli a cui sono abituato." A questo proposito, ricordo il proverbio
inglese "a bad workman blames his tools" ("un artigiano incapace dà la
colpa ai suoi arnesi").
Questi tentativi di scagionarsi non toccano affatto il punto centrale: i
risultati ottenuti sono disastrosi. É ragionevole pensare che questi tentativi
di scaricare la colpa su altre persone, su oggetti o sulle circostanze siano
ispirati da esperienze infantili. Per alcuni di noi da bambini non era tanto
importante che avessimo rotto il vaso cinese. Per noi era un oggetto
qualunque e ne ignoravamo il valore. Era tragico, invece, che fossimo
biasimati per averlo rotto e che diventassimo oggetto dell'ira e della
disapprovazione di nostro padre o di nostra madre. Riuscire a dimostrare
che il vaso lo aveva rotto il gatto (magari senza dire che lo stavamo
60
inseguendo selvaggiamente) avrebbe rappresentato la salvezza.
Dobbiamo liberarci di questa tendenza compulsiva ad allontanare la
colpa da noi. Non é importante. Sono più importanti i risultati, come
continuo a ripetere. E come faremo a liberarcene?
Un primo passo può consistere semplicemente nell'esame di
coscienza che ci spieghi perché ci dispiace tanto essere considerati
colpevoli. I nostri sensi di colpa possono dipendere da un conflitto tra
quello che ci sembra giusto e quello che la società o la famiglia hanno
cercato di inculcarci come giusto.
Un bell'esempio é la storia di Huckleberry Finn, il giovane
personaggio di Mark Twain, che aiuta Jim, uno schiavo negro, a fuggire
con la sua zattera. Negli Stati del Sud a metà del secolo scorso la legge e
l'opinione pubblica erano severissime contro chi aiutava gli schiavi
fuggiaschi. Perciò Huck Finn si sentiva orrendamente colpevole, ma i suoi
buoni sentimenti gli impedivano di tradire Jim con cui aveva fatto
amicizia. I conflitti di questo tipo vanno risolti spesso ascoltando la
voce della coscienza.
Un altro fattore può essere l'abitudine a rifiutare ogni ammissione di
colpa perché, quando l'ammettiamo, talora dobbiamo pagare soldi. Questo
succede, per esempio, ogni volta che la nostra macchina entra in collisione
con un'altra. Anche in questo caso, invece, riflettiamo quanto
semplificheremmo la vita di tutti se, in caso di incidente, chi ha la colpa
se la prendesse subito.
Un secondo passo consiste nella riflessione sui risultati - che
abbiamo già illustrato più volte.
Un terzo passo può consistere nel vedere il nostro comportamento
come molto più apprezzabile, nobile e drammatico quando ammettiamo la
nostra colpa da adulti, invece di ripetere infantilmente:
"Non é colpa mia. Soprattutto non mi biasimate."
In qualche caso questi sensi di colpa si mischiano al pentimento e
al desiderio di non aver commesso certi errori. Non é una bella miscela.
Meglio liberarsene ricordando - come diceva Spinoza - che il pentimento
non é una virtù perché non proviene dalla ragione.
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CAPITOLO 9
L'ETICA PROTESTANTE DEL LAVORO E I SUOI
LIMITI
Ho lavorato per 14 anni per un gruppo americano. In quel periodo
incontrai alcune centinaia di uomini d'affari statunitensi. Alcuni vivevano
in Europa, altri non avevano mai lasciato gli Stati Uniti. Fra loro c'erano
tecnici, amministrativi ed esperti legali. Alcuni erano colti e brillantissimi.
Molti erano normalmente efficienti. Alcuni erano proprio fessi. Parlando
citavano spesso l'etica protestante del lavoro. In generale accettavano l'idea
che i princìpi di questa etica informano il modo di lavorare americano.
Sono alla base dell'alta produttività della loro industria e anche delle loro
strutture pubbliche efficienti e oneste. A questa etica protestante si
contrapporrebbe quella latina in Italia, in Francia e in Spagna: più lenta,
meno scientifica, più antiquata.
Dell'efficienza e della morale giapponesi i miei conoscenti
americani parlavano poco. Le consideravano derivate da quelle loro per
l'intermediazione di Deming, il famoso esperto di efficienza e di qualità.
Sarebbe interessante sia dal punto di vista teorico, sia da quello
pratico, se davvero si potesse dimostrare che i princìpi di una morale
religiosa hanno causato gli indubbi successi industriali ed economici
americani. Se fosse vero, quella morale andrebbe presa sul serio più di tante
altre.
Così mi sono documentato. In effetti non ha molto senso di parlare
di morale protestante: ce ne sono parecchie diverse. Quella tipica, a cui
sono stati attribuiti i maggiori meriti pratici, é la morale puritana. Ma i
puritani, che erano fra i primi coloni nel XVII secolo, avevano subìto un
forte influsso dai calvinisti. Allora conviene esaminare quali fossero le
teorie di Calvino.
Jean Calvin, nacque a Noyon, in Francia, nel 1509 e morì a
Ginevra nel 1564 - ma la sua storia potete trovarla in qualunque
enciclopedia. Aderì alla Riforma protestante e la sua dottrina si diffuse in
Francia, in Inghilterra, in Scozia, in Svizzera e in Italia. Ne racconto i tratti
63
essenziali.
Anche Calvino - come Tommaso d'Aquino - sosteneva che la
predestinazione é il fattore più importante per la salvezza della nostra
anima. L'uomo é piccolo, impotente e irrimediabilmente corrotto.
Malgrado le loro colpe, Dio può giustificare gli uomini per la loro fede e
- allora attribuisce ai credenti i meriti di Gesù Cristo. La sapienza umana
vale qualcosa se conduce alla conoscenza di Dio e di se stessi. Deve essere
completata da una fiducia assoluta in Dio - unica fonte di salvezza. Gli
uomini - per definizione - non hanno alcun merito. Il nostro libero arbitrio
si può manifestare solo scegliendo il male, ma la vera libertà é scelta del
bene. Infine ciascuno di noi dovrebbe riconoscere la propria vocazione.
Questa consiste nel fare il meglio possibile nella situazione in cui Dio ci ha
messi allo scopo di essergli bene accetti. Agendo per il meglio, intanto,
dimostriamo anche di essere predestinati alla salvezza.
Ho cercato di abbreviare al massimo e di rendere in modo
imparziale questa dottrina che mi sembra, però, piena di contraddizioni
quanto quelle di Tommaso d'Aquino.
Non si capisce perché la morale puritana, derivata da quella
calvinista con la sua fede nella predestinazione, dovrebbe spronarci a
essere attivi ed efficienti. Eppure c'é chi sostiene che fu l'auto-disciplina
puritana a sostenere i primi pioneri americani e a farli sopravvivere. La
morale calvinista, temperata dal buon senso degli scozzesi, avrebbe
lasciato solo una via aperta ai padri pellegrini: il duro lavoro. E ci voleva
proprio questo per separare i predestinati dai deboli e dai reprobi. Da qui
l'importanza della concorrenza vista come una legge della natura. Da qui
l'importanza della proprietà privata vista come un diritto naturale e un
segno di bontà.
La proprietà, dunque, era alla base della moralità. Un fuorilegge
di frontiera che acquistasse proprietà aveva bisogno della legge e del
governo per conservarla. Così l'ex-fuorilegge si faceva una buona
reputazione e la rafforzava contribuendo alla fondazione di una chiesa e di
una scuola, necessaria per i suoi figli. Alla fine diventava un buon
religioso. Questa, almeno, era la teoria.
C'é da dubitare che funzionasse sempre questo meccanismo che
garantiva il successo sulla base della morale protestante. Sir Walter
Raleigh mandò in Virginia un gruppo di coloni nel 1585, ma questi
tornarono in Inghilterra quasi subito - portando indietro tabacco e patate.
Raleigh provò di nuovo nel 1587 a mandare altri coloni in Virginia, ma
questi scomparvero del tutto. Restò soltanto il nome della loro colonia,
Croatoan, inciso nella corteccia di un albero. Avranno avuto una buona
morale puritana, però mancavano di qualche altro ingrediente essenziale.
Per altro possiamo interpretare quei successi e quegli insuccessi come
eventi in parte casuali e in parte governati dalla regola darwiniana della
sopravvivenza dei più adatti.
I miei uomini d'affari americani sapevano poco o niente di
calvinismo e di puritanesimo. Per loro i puritani erano quegli strani
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individui che portavano il cappello a tronco di cono con un fibbia davanti.
Le teorie della maggioranza dei manager americani sull'efficienza
sono ancora abbastanza semplicistiche. Si basano sul principio "A good
day's work, for a good day's pay" (Una buona giornata di lavoro, per una
buona paga giornaliera). Questo criterio afferma solo che ogni lavoratore
deve fare il meglio che può. Se fa il possibile per guadagnare onestamente
il suo salario, non gli si chiede di più. Perché? La risposta é che le azioni
che ciascuno fa nel proprio interesse, automaticamente vanno a vantaggio
dell'intera comunità. É un concetto che alla fine del 'Settecento doveva
stare nell'aria. Adamo Smith scrisse nel 1776 che le cose vanno come se
una mano invisibile guidasse agricoltori, industriali e commercianti ciascuno dei quali cerca il proprio utile - a comportarsi nel modo più
vantaggioso per tutti. Così producono i beni e i servizi più richiesti al
prezzo migliore e nella quantità dovuta. Si é scoperto in seguito che la
mano invisibile di Smith funziona solo se ci si trova in un regime di
perfetta concorrenza - il che non accade quasi mai.
Ma già non mi trovo d'accordo con il criterio che si comporta bene
chi lavoro sodo quanto può - prescindere dai risultati. I comportamenti
buoni si possono giudicare solo dai risultati. Per esempio un lavoratore
molto intelligente - operaio o direttore generale - può rendere mirabilmente
anche lavorando la metà di quanto lavora un altro, meno brillante. Ma
l'intelligenza e l'addestramento non si improvvisano. Vanno preparati per
tempo - e questo richiede capacità di pianificazione.
Altro principio accettato dalla morale puritana/conservatrice é che
i diritti dei lavoratori sono meno importanti di quelli dell'azienda. Questo
concetto ha una giustificazione pragmatica. Infatti se l'azienda fallisce, i
lavoratori restano senza posto - mentre se un lavoratore se ne va o si rovina
in qualche modo l'azienda continua a funzionare: lo sostituisce. Dunque
avversione per i sindacati e lotta contro di loro.
A questi criteri si accompagnavano regole strette, per esempio
sulla proibizione di bere alcool durante le ore di lavoro. Ho visto licenziare
un operaio che aveva bevuto una bottiglietta di vino durante l'interruzione
per il lunch. Diverso il trattamento dei dirigenti che potevano bere due o
tre cocktail durante il loro pranzo al ristorante. La maggior parte di quelli
che avevano questo tipo di idee votavano repubblicano. Questa morale,
dunque, era reazionaria - del tipo di quella che i comunisti cercavano di
rappresentare disegnando i capitalisti come parassiti col cilindro, il frac, i
pantaloni a righe e la catena d'oro sul panciotto bianco.
In America, però, c'é un'altra tradizione del tutto diversa : liberale e
piena di princìpi sociali.
É quella di Tom Paine che all'inizio della rivoluzione americana
proponeva che ogni uomo ricevesse dallo stato un patrimonio appena era
maggiorenne e che fosse assicurata a tutti un pensione per la vecchiaia. É la
tradizione di Thomas Jefferson (presidente dal 1801 al 1809) che, sebbene
possedesse schiavi nelle sue tenute della Virginia, teorizzava che la
schiavitù doveva essere abolita e proponeva che non fosse ammessa nei
65
nuovi stati da creare nei territori di Nord-Ovest.
Jefferson scriveva:
"L'uomo per sua natura é adatto alla società e la società per le
convenienze che offre é adatta all'uomo. La morale, perciò, é formata a
questo fine. L'uomo é dotato del senso del giusto e dell'ingiusto, solo a
questo fine. Questo senso é parte della sua natura quanto il senso dell'udito
ed é il vero fondamento della morale. Tutti gli esseri umani lo hanno in
misura più o meno grande ... In certa misura é sottoposto alla ragione,
ma non ce ne vuole molta a questo scopo - giusto quello che chiamiamo
senso comune. Non bisogna perdere occasione per esercitarsi a essere grati,
generosi, caritatevoli, umani, sinceri, giusti, fermi, ordinati, coraggiosi."
Su questa tradizione si inserì nei primi decenni dell'Ottocento
l'unitarianesimo. Questa dottrina negava la trinità di Dio e ne
affermava l'unità. Originata in Transilvania alla metà del XVI secolo, si era
diffusa prima in Inghilterra e poi in America a opera di William Ellery
Channing.
Oltre a credere in un Dio unico, gli unitariani credono fermamente
nel libero arbitrio. Quindi aborriscono ogni idea di predestinazione, hanno
fiducia nella volontà e nell'individualità umana. Furono sempre contro la
schiavitù e hanno combattuto per la giustizia sociale.
(Oggi gli unitari sono spesso intellettuali. Votano democratico e
sono chiamati progressivi - o liberal. I maligni dicono che secondo gli
unitari tutt'al più esiste un Dio solo -- e magari neanche quello.) Dunque la
tradizione americana non é tutta puritana. Contiene frammiste le tradizioni
più diverse. Ci sono anche correnti di pensiero e di abitudini che
vengono dall'Europa centrale e dalla Scandinavia. C'é una robusta
tradizione ebrea, soprattutto proveniente dall'Europa orientale, poco
importante numericamente, ma imponente come livello. Ci sono derivazioni
slave, latine e, sempre più, originate in Estremo Oriente. Gli Stati Uniti
vengono chiamati spesso il "crogiolo" (melting pot)
Non é realistico, quindi, associare strettamente l'etica puritana e il
successo nel lavoro e nelle imprese. Le storie di successo - saghe così
frequenti e importanti in America - sono ripartite in modo equo fra i
rappresentanti delle varie tradizioni che ho citato.
La nostra critica, però, deve essere approfondita ancora in due
direzioni. La prima concerne alcuni principi puritani che sono stati
rigettati in modo massiccio. La seconda riguarda le conseguenze a
termine molto lungo dell'approccio conservatore e di quello progressista
con particolare riguardo alla politica.
Dunque la tradizione puritana, oltre all'assennatezza, alla solerzia
e all'abnegazione, insisteva molto sul risparmio e sulla parsimonia. É vero
che se non lo avesse fatto, non si sarebbero mai conseguite negli USA le
accumulazioni di capitale, essenziali per il decollo dell'economia. Ma da
molti decenni ormai non si preme più sul pedale della parsimonia. Il
pubblico non viene esortato quasi mai a rimandare i suoi consumi. Al
contrario: viene esortato a spendere per stimolare l'economia.
66
Già nel 1957 in occasione di una modesta recessione ricordo di
aver visto in giro per New York manifesti con la scritta:
YOU AUTO BUY NOW.
Era un invito basato su di un gioco di parole. Il messaggio vero
era l'omofono : "You ought to buy now" (Dovresti comprare adesso), ma
il modo in cui era scritto suggeriva al pubblico di comprare un'auto
adesso.
Certo, se i consumatori spendono molto, il commercio e
l'industria si riprendono e si passa dalla recessione al boom. Non
pretendo certo di risolvere qui il problema di quale sia la situazione ottima
fra risparmio e spesa corrente. Negli Stati Uniti il risparmio é scarso. Il
debito pubblico (federale e degli Stati) e quello privato (compresi i crediti
bancari e le carte di credito) hanno raggiunto livelli molto alti. I valori pro
capite sono maggiori di quelli italiani. Dunque dovremmo concludere che,
forse, in America dovrebbero essere ripresi alcuni princìpi calvinisti da
tempo abbandonati.
In effetti é successo di peggio. Il desiderio di raggiungere il
successo - misurato esclusivamente in termini finanziari - ha spinto molta
gente verso i guadagni a breve termine. Così molti manager di aziende
industriali hanno trascurato l'innovazione, la buona organizzazione,
l'addestramento del personale, la ricerca e la famosa ingegnosità yankee per occuparsi solo della bottom line. Questa é l'ultima riga del conto
economico annuale in cui si registra il profitto dopo le tasse (o la perdita).
Ora va benissimo mirare al profitto. Il grave é che, se si mira al profitto
solo dell'anno in corso, si possono creare le premesse per generare perdite
in molti anni futuri.
Questo accade, appunto, quando non ci si impegna abbastanza
a pianificare la qualità di ogni fattore aziendale sul lungo termine. Ne
parleremo ancora negli ultimi capitoli.
Ancora peggiori sono le attività dei corporate raider cioé dei
razziatori aziendali. Questi si specializzano nel comprare aziende, le cui
azioni siano sottovalutate, ad esempio perché il loro valore non rispecchia
grossi possedimenti immobiliari. Poi manovrano per far salire in borsa il
valore delle azioni e, quindi, rivendono le aziende realizzando ottimi
profitti a breve. Le attività produttive non si avvantaggiano certo di
questi salassi ed, eventualmente, declinano. Abbiamo visto questa storia
in molti film di Hollywood. Qui non c'é morale. C'é solo malafede e
confusione nelle leggi e nei regolamenti. La cura contro queste deviazioni
non si può trovare certo nell'attaccamento spasmodico al lavoro. Non
basta che i grossi manager siano workaholic - cioé agganciati al lavoro,
come gli alcolizzati (alcoholics) sono agganciati ai liquori. Non basta che si
facciano venire l'ulcera a forza di preoccuparsi del lavoro. Devono imparare
a progettare l'avvenire - e qui la morale calvinista aiuta poco. Infine grossi
manager di aziende gigantesche (come Enron e Worldcom) hanno svolto
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attività pessime e criminose falsificando i bilanci e gonfiando i presunti
profitti fino a far salire molto le azioni dell'azienda. Poi hanno venduto
centinaia di migliaia di azioni che avevano comprato incassando lauti
profitti - poco prima che l'imbroglio venisse scoperto. Quindi i titoli sono
crollati mandando alla rovina tanti piccoli risparmiatori, fra cui molti
dipendenti delle stesse aziende.
Ma - a parte le azioni criminali - sia l'approccio puritano
(abnegazione e lavoro), sia quello liberale (libera iniziativa e inventiva
individuale), sono stati messi in disparte dalla società americana già da
molti decenni.
Già alla fine del secolo scorso l'insorgere delle grandissime società
industriali e commerciali aveva cambiato i costumi. I singoli cominciarono
a rendere molto di più dopo essere stati inquadrati con l'organizzazione
scientifica del lavoro di F.W. Taylor. La loro individualità diventava meno
importante rispetto ai risultati. Questa fortissima spinta verso l'efficienza
creava lavoro e benessere, quanto e più della mano invisibile di Smith (che
pure l'aveva preconizzata con i suoi scritti sulla divisione del lavoro). La
base ideologica di questa spinta non era più religiosa. Possiamo cercarla
forse nel pragmatismo.
Questo movimento - come scrisse Giovanni Papini - non era una
filosofia, ma un metodo di fare a meno della filosofia per cercare soluzioni
funzionanti. Dunque non più morale protestante, né ideologie politiche,
ma un'etica sociale secondo cui la pressione della società sull'individuo
non solo é legittima, ma vantaggiosa. La creatività del singolo si amplifica
col lavoro di gruppo. La grande azienda soddisfa i bisogni dei dipendenti, li
invita a conformarsi a comportamenti utili per raggiungere fini di
maggiore scala di quelli individuali. I singoli accettano la cultura
dell'impresa e trovano la prosperità. I problemi di lungo termine della
società in generale vengono considerati poco. Vengono considerati poco
anche quelli che se ne occupano istituzionalmente: i politici e i dipendenti
governativi. Chi ha posizioni di un certo rilievo nell'industria disprezza
"quelli di Washington". Considerano chi lavora per il governo federale
un rompiscatole che crea regole inutili e che non lavora.
Nel 1992 questa posizione é stata rappresentata da Ross Perot nel
suo tentativo di arrivare alla Casa Bianca. (La posizione é simile a quella
presa verso il governo di Roma e i suoi impiegati dalla Lega Nord e da
ForzaItalia, prima che andassero al governo e che eliminassero leggi e
regole in favore di interessi privati e non del bene pubblico).
Questa etica sociale, dunque, é di nuovo conservativa quanto
quella puritana. Ha in comune con essa una carenza progettuale anche
nell'approccio alla politica internazionale statunitense. Questo approccio
conservatore é competitivo. Era quello preferito dai falchi al tempo della
guerra fredda. Chi lo propugnava pensava ai risultati immediati: apertura
di mercati, posizioni strategiche, preponderanza delle posizioni USA su
quelle sovietiche. In conseguenza chi governava la politica estera americana
ha cercato amici a ogni costo. In questo modo gli Stati Uniti hanno
68
appoggiato dittatori corrotti e assetati di sangue come Batista, Marcos,
Stroessner, Somoza, Chiang Kai Shek, Pinochet, Mobutu, per non parlare
del Vietnam. Tutte queste scelte si sono dimostrate infelici.
I repubblicani (notoriamente conservatori) non hanno nemmeno
provato a esportare la democrazia progressista jeffersoniana. É curioso
che i democratici si siano comportati nello stesso modo. Il presidente
Roosevelt dopo lo sbarco in Africa del Nord concluse subito un accordo
col Generale Darlan, ampiamente compromesso con i nazisti. Tollerò
perfino che nei territori occupati continuassero a essere perseguitati
repubblicani spagnoli e aderenti alla France Libre di De Gaulle. A lungo
termine questi errori sono costati cari agli Stati Uniti, che venivano odiati
e invitati a GO HOME.
Non basta il calvinismo. Non basta la motivazione. Non bastano
la cultura d'azienda e la fede nell'iniziativa privata. Non basta l'abnegazione.
Per fare andare bene le cose bisogna guardare lontano e bisogna
organizzare bene i propri pensieri. Non c'era riuscito un pensatore molto
simpatico e indipendente. Era Henri David Toreau, di cui mi occupo nel
prossimo capitolo.
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C A P I T O L O 10
INTENZIONI BUONE E INUTILI DI HENRI DAVID
THOREAU E PROBLEMI GLOBALI
Perché un uomo di trent'anni decise a metà del secolo scorso di
costruirsi una casetta di 3 metri per 5 in mezzo ai boschi del Massachusetts
e di andarci a vivere - alla distanza di due kilometri dall'abitazione più
vicina?
Quell'uomo era Henry David Thoreau e il suo scopo era quello
di dimostrare che poteva costruirsi una casa adeguata con 30 dollari e che
ci poteva vivere con 36 dollari all'anno. Thoreau campò così per oltre due
anni. Guadagnò il necessario per vivere vendendo i suoi prodotti agricoli
per 24 dollari e facendo lavoretti occasionali, pagati altri 12 dollari. La
svalutazione in America dal 1850 a oggi é stata di circa 60 volte. Quindi
Thoreau aveva entrate di circa 100 Euro al mese. Era sotto la soglia della
povertà, ma sopravviveva e la sua dimostrazione fu più convincente di
parecchi grossi volumi scritti contro il consumismo - anche se il suo
esempio non é stato seguito.
Ma qui non ci interessa tanto la tendenza di Thoreau
all'eremitaggio. Ci interessano i suoi punti di vista sulla disobbedienza
civile - su cui scrisse un libretto di una ventina di pagine.
Thoreau era un dissidente totale. Era contro la schiavitù.
Quindi pensava e scriveva che lo Stato del Massachusetts - dove la
schiavitù non era ammessa - avrebbe dovuto combattere il governo
federale che a sua volta non obbligava gli Stati del Sud ad abolirla.
Nessuno lo ascoltava: così dichiarò che non voleva finanziare con i suoi
soldi uno Stato ingiusto e smise di pagare le tasse. Lo misero in prigione ed
era proprio quello che voleva. Nel suo libretto scrisse:
"Sotto un governo che imprigiona la gente ingiustamente, il solo
luogo adatto per un uomo giusto é la prigione ... Gli spiriti più liberi e
meno accomodanti devono stare in prigione, messi in disparte e tenuti
sotto chiave dallo Stato, come già si sono messi in disparte da soli per i
loro principi".
All'inizio del suo libello Thoreau afferma che "il solo obbligo che
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io abbia il diritto di assumere é di fare in ogni momento quello che penso
sia giusto".
In sè sembra un principio ragionevole. Da solo potrebbe già essere
la base per un sistema morale. É una regola più semplice e casareccia di
quelle di Gesù Cristo e Kant. Dunque discutiamola perché mette a fuoco
non solo il nostro modo di agire a fini personali, ma anche ogni questione
che possiamo avere con i poteri pubblici. In certo senso tacitamente o no col voto o con le tasse che paghiamo o semplicemente per il fatto che non
protestiamo, siamo complici o responsabili delle decisioni prese dal
governo centrale o locale del luogo che abitiamo.
Un caso tipico é quello dell'obiezione di coscienza fatta da chi
ritiene che portare armi sia immorale, anche se poi non vengono davvero
usate per uccidere, minacciare od opprimere nessuno. La prima questione
da decidere é se sia efficace oppure no rifiutare l'obbedienza e andare in
prigione.
In Italia pochi decenni fa l'obiezione di coscienza non era
ammessa. Parecchi poveri giovanotti generosi hanno rifiutato di indossare
l'uniforme. In conseguenza hanno dovuto passare anni e anni nelle prigioni
militari a fare niente, invece di prestare un servizio militare (certo
inoffensivo) solo per un anno o un anno e mezzo. Però i loro sacrifici sono
serviti a cambiare le leggi. Oggi i giovani obiettori di coscienza italiani
possono fare il servizio civile.
É servito che Thoreau sia andato in prigione per liberare gli
schiavi dell'Alabama o della Carolina del Sud ?
Thoreau sosteneva di si. Diceva che manifestando in modo così
clamoroso il proprio dissenso già si comincia a costituire una maggioranza
fatta di una sola persona. Questa manifestazione paradossale richiama
molta più attenzione del voto elettorale. La scheda con cui votiamo non
ha grande effetto. Invece, se, insieme agli obiettori disposti a farsi
imprigionare, anche qualche pubblico impiegato dà le dimissioni
motivando il suo gesto con le ragioni del suo dissenso, la rivoluzione é
fatta.
La cosa é ragionevole. Non c'é da discutere se davvero le azioni
di Thoreau abbiano contribuito in modo decisivo a far scoppiare la guerra
di secessione e ad abolire la schiavitù negli Stati Uniti. Il ricorso alla
comunicazione - oggi più facile coi mass media - é sicuramente efficace.
Parecchi decenni dopo Thoreau, il Mahatma Gandhi contribuì
alla liberazione dell'India con i suoi digiuni. Meno efficaci, ma generosi e
ben visibili, sono stati i digiuni di Marco Pannella in Italia.
Il ricorso ai gesti paradossali sarà più o meno efficace a seconda
delle circostanze. Allora:: quando dobbiamo ricorrere a questo strumento e
quando no? Quante e quali sono le cause per le quali combattere
pubblicamente usando gli strumenti più adatti? Fra le cose da combattere,
oltre la schiavitù, possiamo citare: le leggi fiscali ingiuste, l'inefficienza
dello stato che non scopre gli evasori fiscali, gestisce in modo disastroso la
propria amministrazione, non diffonde cultura fra i cittadini. E ancora: la
72
corruzione dei politici (di cui parleremo ancora nel capitolo 12); la
diffusione e il predominio della criminalità.
Scioperare o fare manifestazioni pubbliche contro la mafia
probabilmente non serve tanto. ma che cosa fare contro i poteri pubblici
che non la combattono abbastanza efficientemente?
Che cosa può fare il privato cittadino che apprende dai giornali
come un giudice di un'alta corte stia annullando tutte le sentenze di
condanna all'ergastolo di capi mafiosi? Se opta per la non violenza,
potrebbe scrivere lettere ai giornali o ai deputati o al ministro della
giustizia. E se non avessero effetto? Dovrebbe uccidere quel giudice che gli
sembra in collusione coi mafiosi ? Ma é sicuro che le cose stiano davvero
così? O forse quel giudice ha ragione per intricate questioni legali che i
giornalisti non hanno capito non essendo esperti nel campo? Allora fare uno
splash pubblicitario va bene. Va meno bene passare alla lotta armata.
É quello che fecero le brigate Rosse. Purtroppo non avevano
capito niente della situazione politica ed economica italiana e mondiale.
Volevano distruggere lo Stato Imperialista delle Multinazionali - che non
esisteva affatto nei termini in cui lo descrivevano. Non avevano nemmeno
un'idea in testa per organizzare meglio le cose. Avevano un concetto
vago e sbagliato della giustizia. In genere sparavano alle persone sbagliate
- e non hanno concluso niente di buono.
La lotta armata andava bene contro i nazisti - oppressori, dittatori,
invasori, sterminatori di minoranze etniche e religiose. Lì non c'era
dubbio. Ma lasciamo da parte la lotta armata. Sono opportune le
manifestazioni di dissenso - come i sit in e i cortei - che richiamino
l'attenzione del pubblico anche a costo di bloccare certi servizi e certi
funzionamenti della società?
La risposta é che prima di iniziare queste azioni dobbiamo capire
bene i meccanismi implicati. Dobbiamo essere sicuri che la nostra
battaglia sia giusta e che abbiamo già individuato proposte tanto sensate
da migliorare davvero la situazione.
Perciò il principio di Thoreau "ho solo il dovere di fare quello che
in ciascun momento mi sembra giusto", quanto meno é incompleto.
Non possiamo prendere le nostre decisioni momento per momento.
Dobbiamo meditarle prima. Solo dopo aver meditato avremo il diritto al
dissenso e potremo discutere se debba essere violento o no. La questione
non si può decidere in generale. Il ricorso alla violenza può anche essere
giusto. Però dobbiamo attenderci la reazione dei poteri pubblici,
delegittimati o no.
Una rivoluzione che si rispetti deve avere un seguito adeguato.
Certo non si fanno le frittate senza rompere le uova. Prima di rompere le
uova, é opportuno meditare sulla fine che hanno fatto le rivoluzioni del
passato. Quella francese per due volte ha condotto a imperi disastrosi.
Quella russa ha condotto a una dittatura inumana. L'unica che ha funzionato
discretamente é quella americana. Ma le questioni di questo tipo vengono
sempre decise a posteriori.
73
Torniamo allora agli atti di dissenso non troppo violenti. Come
accennavo, uno sciopero o un sit in possono bloccare un servizio o una via
di transito essenziali per salvare vite umane o per evitare che gravi danni
colpiscano terze persone del tutto estranee alle nostre vertenze. Dovremo
valutare, allora, quanto gravi siano i guasti che introduciamo rispetto a
quelli che evitiamo o aboliamo. In conclusione questo argomento é molto
simile a quello di Tommaso d'Aquino sulla sedizione (v. Capitolo 7).
Ci troveremo facilmente tutti d'accordo nel ritenere che un
tiranno ingiusto e sanguinario vada eliminato con la forza.
Thoreau, invece, all'inizio del suo libretto dice che la costituzione
si identifica con il male. Dichiara che "il miglior governo é quello che
governa di meno" o addirittura che "il miglior governo é quello che non
governa affatto".
Questo andrebbe bene in un mondo semplice in cui tutti abitano
in casuccie di legno di tre metri per cinque. Però, se vivessimo così,
occuperemmo estensioni di territorio notevoli e chi si occuperebbe di
fogne e strade - le cui reti avrebbero estensioni enormi data la bassa densità
abitativa? Chi organizzerebbe i lavori pubblici e le manutenzioni? Chi si
occuperebbe della giustizia e delle finanze della cosa pubblica?
L'argomento di Thoreau (e di tanti anarchici in ottima fede)
somiglia un po' troppo a quello dei mistici assassini che vorrebbero tornare
a condizioni di vita semplice e pura come era prima che esistesse la
tecnologia. Non si rendono conto che perciò stesso condannerebbero a
morte tutte le persone in più che vengono tenute in vita dalla
tecnologia e che non avrebbero potuto esistere quando la tecnologia non
c'era. Ormai sono miliardi. Dunque nessuno ha il solo dovere di fare quello
che gli sembra giusto in ogni momento. Invece abbiamo il dovere di capire
la complessità - una componente ineliminabile del nostro mondo. La
complessità può darci noia - come danno spesso noia i governi e i difetti
della tecnologia. Ma, allora, non dobbiamo combatterla o rifiutarla
totalmente. Dobbiamo capirla meglio.
Farebbero bene a meditare queste parole i no-global, invece di
usare (con buone intenzioni) argomenti sbagliati e vaghi contro le posizioni,
non ineccepibili, né concordi degli 8 paesi più industriali e prosperosi. E'
vero: gli accordi internazionali (specie se non si realizzano) sono inadeguati
a pianificare programmi globali costruttivi. Questi dovrebbero evitare crisi
economiche, favorire lo sviluppo delle economie industriali e di quelle
emergenti e salvare dal disastro i meno sviluppati fra i paesi in via di
sviluppo (la sigla usata è LLDC che sta per Least Developed Countries - i
paesi meno sviluppati di tutti).
Ritengo che il successo sia improbabile se i piani intesi a stimolare
l'economia di Europa, USA e Giappone creando posti di lavoro, non
specificano in quali settori e di quale livello professionale. I piani di
sviluppo per i paesi più poveri, poi, non devono essere concepiti come aiuti
di emergenza mirati a rimediare a carestie ed epidemie. Tutti questi piani
dovrebbero essere integrati, incorporando il concetto che la prosperità è
74
costituita sempre meno da materie prime e prodotti tangibili e sempre più
da conoscenza. E' questa che permette di ottimizzare strumenti e risorse e
"di fare con un dollaro quello che qualunque cretino sa fare con due
dollari". Questo non significa che non hanno valore le risorse naturali energetiche, agricole, minerali - del così detto terzo mondo. Significa che
per farle fruttare occorre più cultura - occorrono più variate scelte di
crescita intellettuale nei paesi avanzati e in quelli emergenti. Nessun noglobal dovrebbe ragionevolmente dissentire da questa affermazione.
Ma cominciamo dalle risorse naturali: sarebbe vitale farne un censimento.
Non è compito facile, ma i dati sono disponibili. Un esempio: stimiamo
anche rozzamente il valore di una sola risorsa energetica: quella
idroelettrica. Il potenziale non utilizzato in questo campo nel terzo mondo
equivale a quello di oltre 2.000 centrali nucleari da 1 Gigawatt ciascuna.
Funzionando 5.000 ore all'anno produrrebbero 10.000 miliardi di
kilowattora. Col kilowattora a 200 lire il valore prodotto sarebbe più del
doppio del prodotto nazionale lordo italiano. Poi dovremmo censire le
risorse energetiche rinnovabili (le biomasse), quelle agricole (con milioni di
ettari da rendere coltivabili), quelle minerarie ancora non toccate su tutto il
pianeta. Queste ricchezze sono molte volte più importanti degli investimenti
destinati finora agli aiuti internazionali.
Non si tratta di cogliere senza fatica frutti maturi. Per progettare e realizzare
questi grandi progetti internazionali occorrono grandi risorse di tecnica e
scienza e investimenti notevoli, ma le speranze di successo sono notevoli.
Occorre innalzare i livelli professionali e progettuali nei paesi avanzati.
Occorre offrire cultura di base, conoscenza e tecnologie a miliardi di
diseredati affamati che vedono salvezza solo nell'emigrazione.
Occorre studiare e insegnare: non basta ripetere luoghi comuni e
giaculatorie. La cultura va inventata, criticata, finanziata e diffusa,
utilizzando gli strumenti della tecnologia della comunicazione e
dell'informazione. Le reti telematiche sono un potente strumento per far
partecipare ogni abitante del pianeta all'attuale rivoluzione della
conoscenza. [Evitiamo l'uso dell'inefficace astratto "globalizzazione"]
Sarebbe opportuno allora che i prossimi incontri al vertice fra i governanti
degli 8 Paesi più avanzati fossero meno generici e controversi dei
precedenti. Dovrebbero valutare l'impatto di grandi intraprese internazionali
(culturali, sociali, industriali) sulla creazione di ricchezza nel primo e nel
terzo mondo, stimare e raccogliere gli investimenti necessari. Dovrebbero
formulare piani da realizzare in cooperazione fra governi, aziende e
organizzazioni non governative per disseminare cultura adeguata. Chi si
opponesse a piani integrati concepiti, per mettere al primo posto lo sviluppo
umano, intellettuale, professionale, si qualificherebbe come barbaro
oscurantista. Ma sono barbari e oscurantisti anche i potenti che non li
formulano questi piani.
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C A P I T O L O 11
MENTITE A VOSTRO RISCHIO
Il vecchio lord inglese era magro e aveva i capelli candidi e
ricci. Camminava per la campagna immerso in certi suoi pensieri filosofici.
Però apprezzava la natura intorno a lui. All'improvviso sentì un animale
che ansimava. Era una volpe che correva lenta allo stremo delle forze.
Lontano si sentivano nitriti di cavalli e cani che abbaiavano. La volpe si
fermò alla vista dell'uomo. Poi riprese la corsa giù per una valletta.
Il vecchio lord si mise a sedere su di un tronco secco e continuò
a pensare ai suoi quesiti logici. Dopo qualche minuto fu raggiunto dalla
caccia. I cani precedevano una quindicina di uomini a cavallo con le
giacche rosse. Uno di loro gli chiese:
"Ha visto per caso la nostra volpe?"
Il vecchio lord rispose con voce alta e chiara:
"Si. Certo. Correva su per quella collinetta." - e indicò la direzione
opposta a quella presa dall'animale.
Il vecchio lord era Bertrand Russell, che racconta la storia nel
suo libretto "La ricerca della felicità". Commenta che in quell'occasione
disse una menzogna, ma che non se ne vergognava affatto. Riteneva di
aver fatto bene a mentire e non cercava scuse formali come i gesuiti.
Aveva più simpatia per la volpe che per i cacciatori intenti a ucciderla
solo per il gusto di vederla sbranare dai cani.
Sono d'accordo con Russell che le regole fisse - come quella che
ci imporrebbe di non mentire mai - servono a poco. Detto questo, possiamo
dire qualche cosa di generale sulla menzogna?
Sono andato a leggere le classificazioni del "mendacium" nella
Theologica di Tommaso d'Aquino. Nella Parte II del II Volume (Questione
110) Tommaso ammette di ispirarsi ad Aristotele e a S. Agostino. Aristotele
suddivideva le menzogne in tre tipi. Quelle 'officiose', dette per procurarsi
qualche vantaggio. Quelle 'perniciose', dette allo scopo di danneggiare
qualcuno. Quelle 'giocose', dette per divertimento. S.Agostino, invece,
elencava otto categorie :
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I. le menzogne contro la dottrina religiosa e, quindi, contro Dio
II. quelle che nuocciono a qualcuno e non giovano a nessuno
III. quelle che nuocciono a qualcuno per giovare a qualcun altro
IV. quelle dette per il gusto di mentire
V. quelle dette allo scopo di piacere a qualcuno
VI. quelle che giovano a qualcuno per conservare i suoi soldi
VII.quelle che servono a impedire la morte di qualcuno
VIII. quelle che non nuocciono a nessuno e giovano a qualcuno per
evitare impurità corporali.
Secondo Tommaso le prime tre categorie considerano i peccati più
gravi - in ordine decrescente di gravità. Sarebbero da identificare con le
menzogne perniciose di Aristotele. Gli altri cinque tipi rappresentano
colpe tanto più veniali, quanto migliori sono le intenzioni di chi le compie.
Per completezza dovremmo considerare anche una nona categoria
delle eventuali menzogne che nuocciono a tutti (e quindi non giovano
a nessuno) e una decima di quelle che giovano a tutti (e quindi non
nuocciono a nessuno). É discutibile, però, se queste due categorie esistano
davvero. É meglio esaminare casi concreti. Consideriamo per prime le
falsità di cui qualcuno provi a convincere la gente proprio per il loro bene.
Un buon esempio é offerto da Robert Jungk, autore di un libro del
1977 Lo stato atomico. La tesi del libro é che "il ricatto energetico può
tradursi in ricatto politico totalitario". In altre parole: i paesi che decidono
di produrre energia nucleare in modo massiccio devono organizzarsi in
modo così totalitario da diventare dittature politiche. Oggi a 25 anni di
distanza questa tesi é stata dimostrata falsa. Infatti la Francia produce
circa l'80% della sua energia elettrica con centrali nucleari, eppure é sempre
una democrazia - e non la peggiore. Ma vediamo la menzogna di Jungk.
Per dimostrare la pericolosità dell'impianto di ritrattamento
nucleare di La Hague in Francia, Jungk riporta due argomenti. Il primo é
che nelle vicinanze dell'impianto il livello delle radiazioni supera da 10 a 20
volte il limite ammesso per legge. Poi, per dimostrare le conseguenze letali
di questo fatto, riporta il contenuto di un manifesto affisso per le strade
della cittadina durante una dimostrazione antinucleare :
♦
♦
♦
♦
STATISTICHE UFFICIALI PER TRE ANNI (1972-75)
Canton de Beaumont (vicino all'impianto di trattamento): 203
morti di cancro su 1000 morti
Arrondissement de Cherbourg: 185 morti di cancro su 1000 morti
Arrondissement di St-Lo: 163 morti di cancro su 1000 morti
Arrondissement di Coutances: 155 morti di cancro su 1000 morti
PERCHÉ?
L'implicazione é ovvia: dove ci sono le radiazioni la gente muore
molto più frequentemente di cancro. Chi legge é indotto a credere alla tesi
dell'autore. I numeri la dimostrano vera. Se, però, andiamo a leggere le
78
statistiche relative a tutta la Francia, troviamo che nel triennio 1972-75 la
media dei morti per cancro era di 216 ogni 1000 morti.
Questo significa che anche vicino alla centrale di ritrattamento
di scorie nucleari la media dei morti per cancro era del 6% inferiore alla
media nazionale. Quei dimostranti non citavano gli Arrondissement in cui il
numero dei morti di cancro stava ai livelli massimi, che ovviamente ci
devono essere perché la media sia più alta dei livelli citati. I dati presentati
così sono fuorvianti. Magari possono essere usati per dimostrare che livelli
di radiazione 20 volte superiori a quelli ammessi per legge non fanno
crescere le morti per cancro.
Incontrai Jungk un paio d'anni dopo aver letto il libro e gli
contestai le mie obiezioni. Rispose con una candida faccia tosta:
"Lo so bene. Però i dati presentati in questo modo fanno più
impressione. Così saranno di più quelli che combattono l'energia nucleare."
Oggi, poi, abbiamo a disposizione le statistiche francesi fino al
1996. Ci dicono che la media dei morti per cancro é salita a 268 ogni 1000.
Dipende dal fatto che in Francia ci sono tante centrali nucleari? No. La
media é praticamente identica a quella italiana (che nel 1996 era di 265 per
1000) - e nel nostro paese le centrali nucleari non ci sono. Le cause del
continuo incremento delle morti per cancro sono complesse e vanno cercate
altrove. Ma se la gente crede alle notizie false, come quelle pubblicate da
Jungk, non riterrà opportuno investire di più nella ricerca sul cancro. A
che serve? Sanno già che é causato dalle centrali nucleari! Quindi, se
possono influire in qualche misura sulle decisioni nazionali, lo faranno in
modo errato e danneggeranno tutta la popolazione. Credo che le intenzioni
di Jungk fossero buone. Però a causa della sua ignoranza, diffondeva
menzogne che Tommaso d'Aquino avrebbe chiamato perniciose. Io
classifico queste bugie nella nona categoria (nuocciono a tutti, non giovano
a nessuno).
La questione essenziale, allora, non é se uno mente o no. La
questione vera riguarda la validità del ragionamento completo. Le persone
che credono alle tue menzogne:
• si comporteranno in modo tale da stare meglio dopo?
• si comporteranno in modo da far stare meglio qualcun altro?
• se sapessero che gli hai mentito come reagirebbero?
Quest'ultima domanda é importante. La gente che scopre di essere
stata ingannata in genere non é contenta. In conseguenza può reagire male
e, quindi, chi mente ottiene risultati opposti a quelli che voleva. Se le
reazioni del pubblico fanno abbastanza rumore la sua credibilità può essere
distrutta. Piuttosto che citare proverbi troppo noti, possiamo ricordare a
questo proposito la frase di Abraham Lincoln:
"Si può ingannare tutto il pubblico per un certo tempo. Si può
ingannare una parte del pubblico per tutto il tempo. Però non si può
ingannare tutto il pubblico tutto il tempo."
79
La probabilità che le nostre bugie siano scoperte può essere più o
meno alta. Dobbiamo valutarla. La regola é sempre la stessa. Dobbiamo
immaginare tutte le possibili conseguenze delle nostre azioni. Dobbiamo
valutare le probabilità di ciascuna. Poi dobbiamo scegliere cosa fare. Infine
la nostra azione sarà buona o cattiva a seconda di quello che succede.
Non si può uscire da questo dilemma decidendo di dire sempre la
verità. In certi casi speciali dire la verità serve solo a causare disastri e a
far stare male la gente. A seconda dell'argomento, della situazione e delle
persone coinvolte, talvolta va detta la verità, talaltra bisogna mentire
spudoratamente - ed efficacemente.
Un caso a parte é costituito dalle bugie sociali e da quelle dette per
ragioni di lavoro. Già la menzogna sociale può essere una forma di
gentilezza. Se riceviamo due inviti contemporaneamente, non serve a niente
dire al nostro amico A :"No, non vengo da te. Preferisco andare da B."
Anche se B ci ha invitato dopo A, diremo: "Mi dispiace tanto ma ho un
impegno precedente."
Dire sempre la verità in modo compulsivo può condurci a
trasgredire un'altra regola. Non é un elevato principio morale. É solo un
dettato del buon senso. Dice:
"Non farti nemici a casaccio. Fatteli per tua scelta."
Le bugie sul lavoro vanno giudicate diversamente a seconda dei
mestieri. Una battuta inglese definisce il diplomatico come 'un uomo
onesto mandato all'estero a mentire per il proprio paese'. Certi diplomatici
hanno fatto anche di peggio. Il discorso sui pubblici ufficiali e sugli uomini
politici é più vasto e lo analizzeremo nel prossimo capitolo. Un
professionista - un avvocato o un ingegnere - possono mentire su altri
loro impegni unicamente allo scopo di facilitare la gestione del proprio
tempo. Però non devono mentire mai ai propri clienti su questioni
sostantive. Se lo fanno, sono pessimi professionisti. Se vengono scoperti, é
giusto che vengano fustigati e rifuggiti.
Sono sicuramente da denunciare e condannare i medici che
prestano cure costosissime non necessarie al paziente, ma utili ad
aumentare i loro guadagni.
Un caso grave e frequente - che riguarda medici e familiari - é
quello della persona che si ammala gravemente. I medici predicono la sua
morte a distanza di un mese o di un anno. Bisogna informarla o no?
Molti medici dicono di no. Sostengono che lo stress di sapere che moriremo
a breve scadenza peggiora le nostre capacità di resistenza.
Io e mia moglie Stefania avevamo affrontato questo problema
apertamente. Avevamo deciso che ciascuno di noi avrebbe detto all'altro
tutta la verità - subito e in qualsiasi frangente. Stefania aveva molta paura
del cancro, perché quella malattia aveva ucciso sua madre e sua nonna.
Malgrado questo continuava a fumare parecchio.
Nel 1978 si ammalò. Fu curata male. Poi parlai con un medico
bravo che aveva ricevuto i risultati delle biopsie e che mi disse:
"É un cancro grave. Deve essere operato subito."
80
Dissi subito la verità a Stefania - e dopo le fui accanto ogni giorno
per i venti mesi che rimase in vita. Quando si seppe che la prima operazione
non era andata bene quanto si era sperato e che la prognosi era
pessimistica, glielo dissi subito di nuovo. Lei era una donna straordinaria.
Dimostrò un coraggio incredibile. Continuò a parlare e, quando non poteva
più parlare, a scrivere cose intelligenti, drammatiche, luminose e perfino
spiritose e umoristiche.
Un mio amico, pure di intelligenza superiore, in condizioni simili
mi disse:
"Non so se mi fa bene sapere quali siano davvero le mie
condizioni. Lascio che decida il medico quello che devo sapere e quello
che devo ignorare."
Lui morì senza capire quello che gli succedeva e senza lasciare
dietro di se nessun messaggio degno di nota, tranne quelli generati durante
una vita intellettualmente produttiva. Lasciò anche i suoi affari personali in
uno stato di confusione che causò varie grane agli eredi.
Dunque a chi diremo tutta la verità, a chi presenteremo verità
parziali e a chi mentiremo francamente? Possiamo deciderlo solo
considerando il carattere di ciascuno e, insieme, le notizie o le conoscenze
da palesare o da nascondere. Riusciremo meglio in questo compito se
saremo giudici migliori dell'animo umano, se avremo più immaginazione,
se sapremo prevedere meglio gli eventi futuri - incluse le reazioni delle
persone con cui abbiamo a che fare.
Queste sono le regole generali. Sono molto simili a quelle che
abbiamo dedotto in settori molto diversi. Sono regole imprecise che
vanno rivalutate nel contesto di ogni situazione in cui ci troviamo. Il fatto
che siano così imprecise induce a tentare una similitudine. Le regole che
riguardano menzogna e verità sono imprecise proprio come le conoscenze
scientifiche. Infatti anche nei campi della fisica più classici e tradizionali
tutte le nostre conoscenze sono approssimative. Misuriamo tante grandezze
con precisione sempre limitata. É raro che le nostre misure siano più
accurate oltre una parte su mille o su diecimila. Anche la velocità della
luce la conosciamo con una imprecisione di circa un miliardesimo del suo
valore. Non sappiamo essere più precisi di così. Non c'é da meravigliarsi
che siano imprecise le nostre conclusioni nel campo della morale. É molto
più complicato di quello della fisica. Le misure sono difficili e spesso
impossibili. Spesso non sapremmo neanche come misurare il successo o
l'insuccesso delle nostre azioni.
81
82
C A P I T O L O 12
FURTO, PECULATO, CORRUZIONE, TANGENTI
Questo capitolo comincia con un test. Leggete le due notizie di
cronaca che seguono e poi provate a indovinarne la data e la provenienza.
Dov'é la città di ***?
IL COMUNE STRAPAGA LE CASSAFORTI: NON HA PIÙ
SOLDI DA METTERCI DENTRO Una fornitura di cassaforti del valore di
un milione é stata fatturata al Comune per 140 milioni ! L'incremento di
prezzo di ben 140 volte non é finito tutto nelle tasche del fornitore.
Un funzionario comunale che gli inquirenti non hanno ancora individuato,
avrebbe intascato una tangente di un milione. Pare che il funzionario
sostenga di avere versato l'intera somma nelle mani di un senatore.
TANGENTI ANCHE SULLA COSTRUZIONE DEL PALAZZO
DEL TRIBUNALE - (Dal nostro inviato) - L'edificio del tribunale di ***
doveva costare 180 miliardi. La costruzione non é ancora completata, ma
gli stati di avanzamento già pagati dall'amministrazione ammontano a
660 miliardi. Naturalmente c'é sotto una storia di tangenti. Più
sensazionale l'indicazione che le persone coinvolte in questo giro di
corruzione sono legate al boss che ha organizzato estorsioni su vasta scala
su tutto il territorio di ***. Il pizzo viene imposto a tutti: alle gioiellerie
eleganti del centro e ai tenutari delle case di prostituzione. Il boss in
questione godrebbe anche dell'appoggio di note personalità politiche e
sarebbe stato favorito in vari modi anche da alcuni giudici.
Allora: avete deciso? Quale città si nasconde sotto il nome di
***? Roma? Milano? Palermo? Reggio Calabria? No. Nessuna di queste.
Le cronache che ho riportato riguardano New York. Queste cose
accadevano oltre un secolo fa, poco dopo la fine della Guerra di Secessione.
Il boss di cui si parlava era W. Tweed: maneggione, camorrista, corruttore,
che aveva in mano sia lo Stato che la città di New York. I giudici assoldati
da Tweed "vendevano giustizia come un droghiere vende lo zucchero".
Samuel Tilden (gentiluomo, milionario, avvocato) iniziò una
83
campagna popolare contro Tweed. Nel 1871 riuscì a mandarlo al
penitenziario, ma la corruzione non finì. L'entourage del Presidente Grant
era tutto implicato in giri di corruzione. Grant restò presidente fino al 1877.
Perché racconto queste vicende? Per dimostrare che la corruzione
dei pubblici ufficiali e dei politici non é cosa nuova. Lo dimostrano la storia
greca e latina. Probabilmente anche quella egiziana, quella assira e quella
Maya. Gli esempi più vicini a noi sono senza fine. Dal 1902 al 1909 una
campagna di moralizzazione fu organizzata da S.S. McClure editore della
rivista McClure's Magazine, che mandò il giornalista Lincoln Steffens a
indagare nella provincia del Middle West. Steffens scoprì a St. Louis,
Missouri una catena di collusioni fra politici, uomini d'affari, organizzatori
sindacali e racketeers (camorristi). Il tema fu ripreso da una dozzina di
riviste fra cui Collier's, The American Magazine, The Independent.
Rivelarono ogni sorta di abusi e di peculati organizzati in Minnesota, in
Arkansas, a New York. La campagna ebbe effetti positivi, ma dopo il
1909 fu soffocata dall'indifferenza pubblica e da azioni di banche e
aziende, che dirottando opportunamente le loro inserzioni pubblicitarie,
fecero tacere la libera voce delle riviste. Ci sono altri esempi, sia negli
USA, sia in altri paesi, di campagne moralizzatrici che hanno avuto
successi alterni. Raramente la corruzione fu sconfitta in modo definitivo.
Però per qualche anno o qualche decennio le cose sono migliorate.
Nel 1889 il governo italiano si trovò in gravi difficoltà per lo
scandalo della Banca Romana, che aveva stampato moneta falsa usata per
dare tangenti a politici. Poi gradatamente si tornò alla normalità. Che cosa
vogliamo dedurre da tutti i fatti citati per quanto riguarda la situazione
italiana? Negli anni Novanta sembrava che ci stessimo affacciando a un
periodo positivo come a New York nel 1871, ma poi le reazioni contro i
giudici sono state violente..
Che in Italia ci fosse un grosso giro di tangenti era noto da anni.
Lessi nei primi anni Sessanta il rapporto scritto dall'amministratore delegato
di un'azienda italiana appartenente a un gruppo americano che diceva:
"Attualmente in Italia la tangentomania ("bribemania" nell'originale) si é
diffusa in misura incredibile."
Gli affari di quell'azienda andavano male. Nessuno sapeva bene
quali fossero i costi. Quell'amministratore delegato credeva di gestirla nel
modo migliore gonfiando i prezzi e facendoli accettare dai clienti pubblici
- sborsando mazzette e tangenti. Ma quei prezzi spuntati a fatica erano solo
apparentemente troppo alti. In effetti remuneravano appena prodotti più
innovativi di quelli allora disponibili sul mercato. Così ogni tangente
pagata assorbiva una porzione eccessiva di margini già esigui.
Quell'amministratore corrompeva politici e li induceva a fare ottimi affari
per le loro amministrazioni, mentre faceva lui affari pessimi per l'azienda.
Questa continuò ad andare sempre peggio fin quando cambiò management.
Il nuovo amministratore alzò i prezzi, rendendoli remunerativi, e smise di
versare tangenti. Solo allora l'azienda cominciò a prosperare.
Per alimentare i loro peculati, i politici hanno bisogno della
84
collaborazione degli imprenditori. Joseph Folk, il puritano riformatore che
era Procuratore Distrettuale a St.Louis nel 1902, scrisse: "Sono i buoni
uomini d'affari che corrompono i nostri cattivi politici ... Sono i leader
della nostra cittadinanza che fanno a pezzi la nostra città ". Dall'esame di
queste situazioni deduciamo una serie di verità generali:
• Il peculato e la corruzione possono dare vantaggi a breve termine - ma
non li danno sempre
• A lungo termine queste pratiche rovinano la società e la rendono
invivibile per il pubblico in generale e anche per corrotti e corruttori
• Piuttosto che cercare illusori vantaggi a breve termine, chi subisce
tentativi di estorsione fa bene a denunciare i funzionari che richiedono
tangenti. C'è il rischio di essere messi fuori dal gioco. Ma va corso.
• Il movimento "mani pulite" affermatosi in Italia nel 1992 ha perso
impeto ed è stato bloccato. Le conseguenze sono tristi per tutti.
Invece converrebbe a tutti seguire regole rigide, fare i rompiscatole ma contribuire a una svolta nella tradizione della società per renderla
più efficace - più normale - e per evitare che venga distrutta ricchezza
a favore di un piccolo numero di individui immondi.
Molti italiani si sono scandalizzati per la gravità e la frequenza dei
casi di corruzione denunciati nel 1992. Dicevano: "É disgustoso che nel
giro delle tangenti siano implicati ministri, segretari di partiti, assessori,
funzionari pubblici, direttori generali di aziende grosse e piccole. Per
spartirsi i soldi dello Stato si sono accordati anche gli avversari politici più
accesi. All'estero non succede. Come é caduto in basso il nostro Paese!"
Però non era mai successo in Italia che una campagna moralizzatrice
crescesse così velocemente. Lo scandalo Lockheed aveva sfiorato le vette
del potere, ma si concluse con poche condanne timide. Questa volta ci si
aspettava di vedere in prigione pezzi grossi ritenuti intoccabili e di vedere
questa innovazione italiana valicare le frontiere - ma non è andata così.
A parte gli esempi antichi, alla fine degli anni Ottanta ci fu lo
scandalo delle Savings And Loans Institutions statunitensi. Questi istituti di
credito erano proliferati negli anni Trenta. Sono una specie di Casse di
Risparmio o di banche popolari dedicate ai meno abbienti. Davano interessi
del 3% ai risparmiatori e prestavano soldi ai piccoli imprenditori al tasso
del 6% . Sono favorite dalla legge in vari modi. Possono avere riserve
basse: anche del 3% invece del 6% imposto alle banche normali. Negli
anni Ottanta una lobby di affaristi entrati nelle S&L (come vengono
chiamate le Savings And Loans) cominciò a lavorare per ottenere favori
ancora maggiori per queste istituzioni. Si distinsero in questa campagna
Fernand St.Germain, deputato democratico di Rhode Island, e Jake Garn,
senatore repubblicano dell'Utah. Poi St.Germain fu trombato, forse perché i
suoi elettori non erano contenti della sua opera a favore dei faccendieri, ma
la sua opera fu continuata da Jim Wright, l'ex speaker del Congresso.
Intanto in quegli anni alcuni affaristi si appropriavano di grosse
85
fette delle risorse delle S&L. Alcuni presidenti di S&L caricavano alla
banca le loro spese personali più folli. Altri vendevano a caro prezzo all'
azienda da loro diretta oggetti privi di valore - come quadri naif. Altri
ancora prestavano milioni di dollari ai loro compari che li garantivano
con appezzamenti di terra che non valevano niente. Con questi sistemi i
faccendieri succhiarono via dalle casse delle S&L miliardi di dollari.
Quei soldi erano rubati ai risparmiatori. Sarebbe stato spiacevole
per i ladri che i derubati si costituissero parte civile. Così i faccendieri
fecero rinforzare dai loro amici politici le garanzie prestate dal governo
federale alle S&L. Già esisteva un ente federale - chiamato colloquialmente
FIZZ-LICK - la Federal Savings And Loans Insurance Corporation
(FSLIC), creato per assicurare i depositi delle F&L. Nell'agosto del 1989 il
Congresso degli Stati Uniti approvò una legge che permette al FIZZ-LICK
di chiudere e incorporare e, comunque, salvare tutte le S&L insolventi.
Solo a quel punto si valutarono le risorse sottratte a quegli istituti di
credito. Il conto finale era di 166 miliardi di dollari. Questi saranno
restituiti gradatamente in 30 o 40 anni. Tenendo conto degli interessi da
pagarci sopra, il governo americano sborserà circa 500 miliardi di dollari.
Questa somma é poco meno della metà di quello che tutti gli italiani
guadagnano in un anno. Così chi aveva depositato i suoi risparmi alle
S&L é stato protetto - a spese di tutti gli altri cittadini americani che non
avevano niente a che fare con quelle organizzazioni.
Oltre a proporre legislazioni di favore, alcuni senatori
intervennero pesantemente con le autorità federali perché non indagassero
troppo sulle attività di C.H. Keating, che stava succhiando 2 miliardi di
dollari dalla S&L di Lincoln in California. Fra questi senatori c'erano Alan
Cranston, che aveva cercato di candidarsi anni fa alla presidenza degli
USA, e John Glenn, che nel 1962 - primo americano nello spazio orbitò tre
volte la terra. Pare che anche il figlio del presidente Bush fosse implicato in
una di queste storie - ma pochi anni dopo è diventato Presidente a sua volta.
All'inizio del millennio si sono verificati scandali ben più grossi
(Enron, Worldcom). I presidenti di queste enormi aziende falsificavano i
bilanci registrando utili enormi (inventati) e intanto compravano grosse
quantità di azioni dell'azienda che salivano molto. Loro guadagnavano
miliardi rivendendole prima che venissero fuori i loro imbrogli. Di nuovo
sono attesi processi clamorosi, ma c'è da aspettarsi che anche qui tutto
finisca a coda di topo. Forse gli USA imiteranno l'Italia nell'abolire il reato
di falso in bilancio. La legge stabilirà ovunque che se rubi qualche chilo di
mele vai dentro e se rubi miliardi ricevi onorificenze. I discorsi su peculato
e corruzione valgono anche per i furti, che arricchiscono chi li compie, ma
creano una società in cui i ricchi vivono in continuo timore e spendono
molto per difendersi. Certo ha poche scelte chi sta in condizioni di povertà
abietta. Però la sua strategia migliore é inventare metodi innocui per fare
soldi - non rubare. La questione é un caso particolare di quelli che vedremo
nel Capitolo 19 e nell'Appendice.
86
C A P I T O L O 13
MORALE DELLA COMPLESSITÀ, TALMUD E
INGEGNERIA DEI SISTEMI (1)
"Il futuro è già cominciato."
"Subiamo lo shock del futuro."
"Il progresso tecnico-scientifico continua ad accelerare."
"La società telematica diventa infinitamente più complessa di
quella industriale e tutti noi subiamo in conseguenza fortissimi stress."
Abbiamo sentito e letto frasi come queste tante volte che ormai
non ci fanno più effetto. Sono consumate. Non richiamano alla nostra
mente alcuna immagine.
Eppure è vero: il mondo sta diventando sempre più complesso.
Non ce ne accorgiamo perchè intanto la nostra vita viene facilitata in tanti
modi. La teleselezione ci permette di parlare subito con persone che sono
a Roma, a Milano, a Singapore o a New York. Con il fax trasmettiamo
lettere e disegni in un paio di minuti a un costo minimo. Svolgiamo
pratiche amministrative via telefono. Paghiamo ogni sorta di servizi con le
nostre schede magnetiche. Possiamo andare dalla mattina alla sera a
lavorare in una città distante oltre mille kilometri dalla nostra. Però questi
servizi che semplificano le faccende vengono assicurati da grandi sistemi
tecnologici sempre più complessi. Fra questi: i sistemi di controllo del
traffico aereo, che permettono a centinaia di aviogetti al giorno di
atterrare e decollare in un solo aeroporto. E poi: i computer, i sistemi di
trasmissione dei dati e così via.
__________________________________________________
(1) Ho già scritto testi divulgativi sui grandi sistemi tecnologici nel III
capitolo del mio Il medioevo prossimo venturo (Mondadori 1971, edizione
aggiornata su www.printandread.com) e nel IX capitolo del mio Come
imparare più cose e vivere meglio (Mondadori 1981, edizione aggiornata
(in inglese) su www.printandread.com). Qui parlo del modo in cui si
progettano i grandi sistemi, più che di come sono fatti e come funzionano.
87
E che c'entra la morale con i grandi sistemi tecnologici?
C'entra perchè a questi sistemi sono affidati la vita e il benessere di
milioni di persone. Dunque errori
e disattenzioni nei progetti e
nell'esercizio dei sistemi danneggiano gravemente tanta gente e sono da
considerare peccati gravi. I progettisti dei sistemi hanno inventato
procedure e artifici per evitare questi errori. Il loro mestiere è proprio
quello di inventare strutture complesse che funzionino. Dunque possono
insegnarci a sbrigarcela nel nostro ambiente che sembra meno complesso
di un grande sistema tecnologico, ma, in effetti, è sempre più influenzato
dai sistemi e sempre più simile ad essi.
Nel capitolo 5 abbiamo visto come i principi del ragionamento
talmudico siano simili a quelli usati nell'analisi dei grandi sistemi. Qui
entrerò in maggiore dettaglio sui criteri di progettazione dei sistemi e
cercherò di evidenziare come si applichino ai nostri problemi personali
- alla nostra morale.
Per progettare un sistema tecnologico (o anche qualunque altra
cosa) bisogna anzitutto dettarne le specifiche. Si tratta di documenti che
definiscono funzioni e caratteristiche dell'oggetto da progettare. Sono
spesso accompagnati da disegni e prescrivono i materiali da usare. Scrivere
le specifiche di un martello o di una pala non è difficile, ma implica la
conoscenza degli scopi per cui l'attrezzo sarà usato e delle caratteristiche
di chi lo userà. Le specifiche di una bicicletta, di un'automobile, di un aereo
sono gradatamente più complesse.
Di un sistema occorre specificare: gli obiettivi (multipli) che deve
raggiungere, la costituzione, i componenti, le tecnologie da usare nelle varie
parti, i costi di realizzazione e di esercizio, l'affidabilità di funzionamento,
l'accettazione da parte del pubblico, degli operatori, dei decisori. Si tratta di
procedure complesse e sarà necessario che collaborino a quest'opera
parecchie persone specializzate in campi diversi.
Da qui possiamo trarre già due insegnamenti morali:
1. Ogni nostra azione non ha un solo effetto: ne ha parecchi. Dovremmo
cercare di prevederli tutti, non solo quelli che ci motivano
immediatamente. Se qualche conseguenza prevedibile non ci piace
(danneggia noi stessi o altri), potremo decidere di rinunciare all'azione.
2. Spesso non siamo in grado da soli di analizzare tutte le conseguenze
delle nostre azioni, nè di decidere quali scelte abbiamo davvero. In
questi casi ci conviene chiedere consiglio ingaggiando l'aiuto di
persone più esperte di noi. È inutile o dannoso chiedere consiglio al
primo venuto. Meglio riflettere bene su chi possa davvero darci
consigli di qualche valore. Per valutare i risultati è bene prendere nota
dei consigli avuti, di quanto si è fatto in conseguenza e dei risultati
raggiunti.
Quando lavoriamo alle specifiche di un sistema, cercheremo di
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produrre il migliore sistema possibile. Trattandosi di strutture complesse,
spesso gli stessi obiettivi si potranno raggiungere in modi diversi. Sorge,
allora, l'idea di analizzare tutte le possibili soluzioni proponibili, di
calcolarne i costi e i benefici sperati e, infine, di scegliere quella ottima
(caratterizzata dal costo più basso e dai benefici più alti). Questa strada
è spesso improponibile. Infatti i numeri di sottosistemi, di componenti, di
soluzioni organizzative e di scelte tecnologiche sono grandi. Combinandoli
in tutti i modi possibili, potremmo definire migliaia (e talora milioni o
miliardi) di soluzioni diverse. Analizzare i costi e i benefici di ciascuna
richiederebbe troppi soldi e troppo tempo. Perciò scarteremo molte
soluzioni già all'inizio senza analizzarle in dettaglio. Ne valuteremo
rozzamente alcune caratteristiche e decideremo in base a queste. Un criterio
utile a questo scopo si basa sulla disponibilità di tecnologia adeguata. Se i
tempi stringono, sceglieremo la soluzione più immediata, con meno
incognite. Luigi Stringa, però, ha osservato che questo modo di fare non è
giusto: la tecnologia dovrebbe seguire il progetto sistemistico e non
viceversa. Solo così possiamo sperare di realizzare sistemi sempre migliori,
se non ottimi. Da quanto detto emerge un terzo insegnamento utile nella
nostra vita personale:
3. Quanto più si complica l'ambiente in cui viviamo, tanto meno
possiamo sperare di individuare le scelte ottime. Sono tante che non
avremo nemmeno il tempo di esaminarle. Quindi faremo bene a
individuare criteri semplificativi per escludere subito molte
eventualità. Non bisogna rimandare indefinitamente le decisioni nella
speranza di ottimizzarle. È meglio una soluzione di mezza tacca
presa subito che una soluzione migliore scelta troppo tardi.
Un esempio, nella nostra vita personale, è dato dal modo di
investire i nostri risparmi. Possiamo scegliere fra decine di emissioni di
BOT e di CCT, fra certificati di deposito con scadenze da 4 a 20 mesi,
fra migliaia di azioni italiane e straniere, fra migliaia di investimenti
immobiliari. Per non perdere mesi di lavoro a scegliere l'investimento
ottimo, è normale che chiediamo consiglio a un esperto e scegliamo fra le
tre o quattro proposte che ci fa.
Nel progetto dei sistemi si usa sia l'analisi unifilare, sia quella in
condizioni di congestione. La prima considera sequenzialmente quello che
deve o può succedere a un elemento tipico in ciascuna delle situazioni in
cui si trova durante il suo passaggio spaziale o temporale attraverso il
processo sistemistico. Così descriveremo a ogni passo cosa accade a
ciascun messaggio telefonico che attraversa una rete di comunicazione o a
ogni treno che viene dirottato a destinazione su di una rete ferroviaria.
In questo modo si evidenziano e si analizzano le funzioni del sistema e i
modi in cui sono coordinate e si susseguono nel tempo e nello spazio.
Conviene spesso rappresentare queste sequenze di funzioni per mezzo di
diagrammi a blocchi che danno un'idea rozza ma immediata di quello che
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si sta progettando.
Ma spesso il numero di elementi (oggetti, comunicazioni, utenti)
presenti a un certo istante in un sistema può essere tanto grande da creare
situazioni di congestione. Allora i servizi resi dal sistema non possono
essere disponibili simultaneamente per tutte le richieste. Si formeranno file
o code di attesa. Il progettista dovrà analizzare le situazioni congestive e
curare che nel sistema ci sia spazio sufficiente per contenere le code. Dovrà
calcolare i tempi di attesa che conseguono alla congestione e controllare
che siano accettabili. Queste analisi, però, sono solo probabilistiche. Anche
se si calcola che per 300 giorni all'anno le code di attesa non supereranno
certi livelli, non si potrà escludere che raramente una coda raggiunga una
lunghezza enorme che implichi attese lunghissime. Eppure - raramente queste attese enormi vanno accettate. Se non volessimo accettarle,
dovremmo far crescere molto la capacità del sistema di offrire servizi e,
in conseguenza, il sistema diventerebbe troppo costoso.
Il quarto insegnamento che deduciamo da questi discorsi è:
4. Non basta immaginare uno dei modi in cui una nostra azione potrà
generare conseguenze. Dobbiamo immaginare che, insieme alla nostra
azione, si verificheranno molti altri eventi che interferiranno con la
nostra linea di condotta. Proviamo allora a prevedere le più
importanti influenze mutue tra la azioni nostre e quelle di altri.
Nella nostra vita privata questi tentativi di previsione non
devono essere limitati ad evitare le ore di punta sulle autostrade, nel
traffico cittadino, sui treni o nell'uso del telefono. Stiamo attenti anche alle
mini-congestioni sul lavoro, nella nostra vita familiare, fra le idee che si
affollano nella nostra testa.
Quando un profano sente parlare di ingegneria dei sistemi, pensa
a tecnici in camice bianco che seguono procedure complesse e dettagliate
sullo schermo di un computer. Ritiene che ogni passo del progetto sia
perfettamente definito, che il lavoro di progettazione si svolga seguendo
linee direttrici rigide, immutabili - e noiose. Ho già indicato che le cose
non stanno così nella fase iniziale del progetto. Ho detto che in quella fase
intere classi di soluzioni possibili vanno scartate in base a criteri rozzi unicamente allo scopo di rendere il problema abbordabile. Ma
l'immaginazione è fondamentale in tutte le fasi del progetto di un sistema.
Non si tratta di immaginare solo nuove soluzioni tecniche, nè di
inventare nuove tecnologie. Si tratta di intuire le conseguenze di interi
insiemi di premesse. Si tratta di afferrare al volo lampi di genio che
conducano a usare una tecnologia esistente in modi nuovi, a concepire
funzioni operative nuove o a eliminare un intero sottosistema le cui
funzioni possono essere fornite da un uso diverso di altri sottosistemi.
Questo tipo di immaginazione è simile a quello ritenuto esclusiva degli
artisti. Da queste osservazioni deduciamo un quinto principio morale:
90
5. Non ci dobbiamo attendere che ogni nostro dilemma, o conflitto fra
doveri, abbia una soluzione chiara, deterministica, convincente, che
qualcun altro ci può indicare. Spesso le soluzioni migliori sono quelle
inaspettate e paradossali che riusciamo a individuare proprio con un
ardito volo dell'immaginazione.
È difficile dare esempi di immaginazione efficace. Viene in
mente il motto della protesta del 1968: "L'immaginazione al potere!" Però
proprio quelli che lo ripetevano avevano immaginazione tanto scarsa che il
potere non lo presero affatto. Provo, comunque, a darne uno. Supponete che
il vostro compagno o il vostro coniuge sia depresso. Non riuscite a
consolarlo con il vostro affetto, nè venendo incontro ai suoi desideri.
Supponete di accorgervi che una grossa parte di quella depressione sia
causata da insoddisfazione professionale. Questa persona che sta con voi fa
un brutto lavoro. Se ne annoia. È frustrata. Ci si danna. Allora le
consolazioni servono a poco. Il male va curato alla radice. L'immaginazione
può consistere, allora, nell'inventare un lavoro nuovo adatto alla formazione
e alle inclinazioni della persona, che conoscete bene. L'immaginazione
deve aiutarvi anche a definire un lavoro nuovo che possa essere accettato
dal vostro compagno. Deve essere un lavoro richiesto sul mercato,
divertente, ben remunerato - e non deve richiedere al vostro compagno un
addestramento che duri sei o sette anni. Be': una volta che riuscite a
inventare un lavoro per qualcun altro, potrete riuscire a inventare un
lavoro nuovo anche per voi stessi.
Ma torniamo alla progettazione dei sistemi. Si presenta un
problema serio quando si progetta un sistema che veramente nessuno
ha mai progettato, nè realizzato prima. Come organizzeremo lo stesso
lavoro di progetto e poi quello di realizzazione? Non troveremo
suggerimenti utili in nessun manuale. Non c'è ancora nessuno che sappia
scrivere il manuale che ci servirebbe.
Il problema è stato risolto per mezzo di una procedura chiamata
PERT (Program Evaluation and Review Technique, cioè: Tecnica di
Valutazione e Revisione dei Programmi). Il PERT è stato ideato
nell'ambito dei programmi missilistici e spaziali americani e poi è stato
usato largamente nell'industria. Per raggiungere l'obiettivo finale di
programma, è necessario raggiungere prima altri obiettivi (o stati di
avanzamento) intermedi. Questi possono essere costituiti dal
completamento di sottosistemi, necessari per comporre il sistema totale. Il
tempo necessario per completare ciascuno stadio intermedio non è noto,
quindi in una prima fase deve essere stimato a intuito.
Supponiamo che in base alle stime eseguite si possa disegnare
il diagramma riportato alla pagina seguente. Lo stadio 1 è quello
iniziale. Corrisponde alla decisione di iniziare il programma e di
raccogliere le risorse necessarie. Poi occorre lavorare simultaneamente per
conseguire l' obiettivo 2 (e stimiamo che ci vogliano 5 mesi) e l' obiettivo
3 (per il quale bastano 2 mesi). Rappresentiamo questo stato di cose
91
scrivendo il numero dei mesi necessari per raggiungere un obiettivo
seguente, sulla freccia che collega il cerchietto relativo ad esso con quello
relativo a un obiettivo precedente.
4
3
2
6
2
5
4
1
8
6
5
2
4
3
3
7
6
5
2
(ATTENTI : guardando bene il diagramma, dovrebbe risultarvi
tutto molto ovvio. Se è così come suppongo, potete saltare subito alle
conclusioni alla fine della pagina. Se no, leggete la spiegazione che segue.)
Quindi si lavora in parallelo per raggiungere gli scopi 4, 5 e 6.
Una volta raggiunto lo scopo 2, servono 3 mesi per raggiungere il 4 e 4
mesi per raggiungere il 6. Però il 6 si raggiunge solo 2 mesi dopo che è
stato completato l'obiettivo 4. Questo, ad esempio, dipende dal fatto che il
4 consiste nella produzione di semilavorati su cui occorre lavorare 2
mesi per ottenere gli oggetti che costituiscono lo scopo 6. Inoltre lo scopo 6
può essere raggiunto solo tre mesi dopo raggiunto il 5 che raggiungeremo 6
mesi dopo il 3. Il 7 viene raggiunto 2 mesi dopo il 5 e lo scopo finale 8 si
raggiunge 5 mesi dopo completato il 6, 6 mesi dopo completato il 4 e 4
mesi dopo il 7. Il programma è completo solo dopo che sono stati
raggiunti tutti gli stadi intermedi. Bisogna percorrere, cioè, i 4 cammini
indicati sul diagramma. Il tempo totale è quello relativo al cammino che
prende più tempo, che chiamiamo cammino critico.
I tempi totali relativi ai quattro cammini possibili sono
CAMMINO
1-2-4-6-8
1-2-4-8
1-2-6-8
1-3-5-6-8
1-3-5-7-8
TEMPO TOTALE (mesi)
15
14
14
16
14
Il cammino critico è il terzo : 1-3-5-6-8 - cioè: i tempi per andare
da 1 a 3, da 3 a 5, da 5 a 6 e da 6 a 8 sono tutti critici. Se per una ragione
qualsiasi uno di essi si allunga (di un mese, di una settimana o di un giorno)
92
anche il tempo totale per completare il programma si allunga di un mese, di
una settimana o di un giorno. Se, invece, insorgono difficoltà impreviste e
per raggiungere lo scopo 2 ci mettiamo sei mesi invece di cinque, il
programma nel suo complesso non subisce ritardi. Perchè? Ma perchè
arriveremo allo scopo 6 seguendo il cammino 1-2-4-6 in 11 mesi, proprio
come accade seguendo il cammino 1-3-5-6.
La procedura PERT permette, quindi, di giudicare l'urgenza
relativa di tutte le operazioni che vanno compiute simultaneamente. Le
risorse disponibili di uomini e di mezzi andranno concentrate sulle
operazioni che fanno parte del cammino critico. Come dice il nome, il
programma va revisionato periodicamente in base all'esperienza fatta e ai
risultati conseguiti. Bisognerà prestare attenzione ai ritardi che implichino
un cambiamento del cammino critico. Per esempio, se accade che ci
vogliano otto mesi per passare da 1 a 2, il cammino critico non è più
1-3-5-6-8, ma diventa 1-2-4-6-8.
Per mezzo delle revisioni periodiche, riusciamo a rendere più
realistiche e significative le valutazioni successive dell'avanzamento dei
lavori. I diagrammi che tracceremo per sostituire quello iniziale
registreranno tempi diversi da quelli inizialmente stimati ed eventualmente
conterranno gli obiettivi intermedi ordinati secondo sequenze diverse da
quelle originarie. Che insegnamento ci può dare questo tipo di approccio
per gli scopi della nostra morale personale? Non solo quello ovvio che alle
cose più importanti va attribuita maggiore importanza (in inglese si dice
first things first),ma anche:
6. Non è importante solo quello che facciamo. È importante in che
ordine compiamo le nostre azioni. (1)
Secondo il terzo insegnamento che abbiamo visto, è meglio
prendere subito una decisione non troppo felice che attendere troppo per
quella ottima. Ora aggiungiamo che ogni decisione rimandata può avere
conseguenze spiacevoli anche su questioni non direttamente connesse a
quella originale. Dunque è bene capire quali siano le connessioni fra le
varie parti del mondo che abbiamo attorno e fra le varie cose che
facciamo. Spesso
queste connessioni possono solo essere stimate
rozzamente. Provare a formulare stime rozze e, poi, revisionarle
ripetutamente può essere molto vantaggioso. Funziona con il PERT
nell'industria: può funzionare anche nella nostra vita personale.
A questo punto è bene che io chiarisca: non vi sto suggerendo
di disegnare diagrammini per rappresentare i vostri problemi correnti in un
_________________________________________________________
(1) Alla fine degli anni Quaranta il bidello dell'Istituto di Macchine della
Facoltà di Ingegneria a Roma si chiamava Procario. Biasimava gli
studenti che chiedevano l'iscrizione a un esame o un attestato di
frequenza quando i termini erano già scaduti, dicendo: "Ecco gli
studenti! Sempre così! Prima càcheno e poi cèrcheno la carta!"
93
modo più o meno efficace - o più o meno maniacale. Per svolgere
compiti complessi, coordinando il lavoro di molte altre persone, i
diagrammi tipo PERT possono essere utili. Non ha senso usarli per
programmare un lavoro lineare (preparare un esame, tradurre un libro,
zappare un campicello o verniciare le finestre di un appartamento). Non ha
senso usarli per problemi troppo indefiniti o con troppe incognite. Ma l'
importante è il concetto. Ha senso pensare ai nostri problemi in termini di
cammini critici. Ha senso coordinare le varie cose che facciamo. Nel
mondo complesso di oggi le incognite sono sempre più numerose.
Alcune sono relative a rischi che corriamo. Dunque è interessante
vedere che specie di approcci abbiano escogitato gli ingegneri
sistemisti per valutare i rischi e per evitarli.
L'ingegneria della sicurezza ha fatto enormi passi avanti - e si
può dire che sia nata con l'industria nucleare. I rischi di una catastrofe in
una centrale elettronucleare sarebbero tanto gravi da spingere i progettisti
ad analizzare ogni possibile causa di guasto molto più profondamente che
per ogni altra struttura progettata prima.
Non potrò esporre compiutamente in queste pagine nemmeno
una breve sinossi dell'ingegneria della sicurezza. Citerò solo una
tecnica ampiamente usata: quella degli alberi di guasto. Per analizzare tutte
le possibili cause di guasti in una struttura tecnologica complessa, si
procede così:
I.
si prende in considerazione separatamente ogni componente della
struttura
II.
si esamina quanti tipi di guasto potrebbe sviluppare
III.
si deduce quali altri guasti o conseguenze negative si potrebbero
produrre in conseguenza di ciascuno tipo di guasto esaminato al
punto II
IV. si deduce quali altri guasti o conseguenze negative si potrebbero
produrre in conseguenza di ciascuno guasto secondario esaminato al
punto III. Questo processo continua fino a considerare guasti di
ordini successivi concatenati in sequenze anche molto lunghe.
V.
si cerca di calcolare la gravità e la probabilità di ciascuna catena di
guasti definita dai passi precedenti. Le probabilità si possono
determinare in base alle serie storiche delle frequenze di guasti. Le
gravità si stimano in funzione del tipo e numero degli oggetti messi a
rischio dalla catena di guasti.
VI. in funzione di tali probabilità e gravità, si decidono i provvedimenti
adeguati per aumentare la sicurezza o per cambiare il progetto in
modo da eliminare certi componenti critici e, quindi, rendere certi
guasti del tutto impossibili.
Non vale la pena di illustrare qui con una figura come sono fatti
questi diagrammi ad albero. Da un certo numero di punti (i guasti primari)
si diramano segmenti a raggiera che connettono i primi ai punti
94
rappresentativi dei guasti secondari. Da ciascuno di questi di nuovo si
diramano segmenti a raggiera che li connettono ai punti rappresentativi
dei guasti terziari e così via. Il sistema ovviamente ci evita di dimenticare
qualche possibile guasto o catena di guasti. L'applicazione alla morale
personale è abbastanza ovvia:
7. Non basta che cerchiamo di valutare le conseguenze delle nostre
azioni. Dobbiamo cercare di valutare anche le conseguenze possibili di
quelle conseguenze e le conseguenze delle conseguenze delle
conseguenze. Man mano che queste catene si allungano, crescono le
incertezze: la cosa è fatale. Però già avere l'idea che sia possibile
fare queste previsioni contribuisce a mostrarci a quali rischi possiamo
andare incontro e a suggerirci come evitarli.
Anche se abbiamo esaminato qualche diagramma, in generale
abbiamo seguito un approccio qualitativo o discorsivo a tutte le questioni
che abbiamo trattato. I progettisti di sistemi non disprezzano certo questi
approcci. Quando sia possibile, però, sfruttano ogni strumento matematico
e scientifico di cui possano disporre. Una delle discipline sfruttata nel
progetto dei sistemi è la ricerca operativa.
Secondo Stafford Beer la ricerca operativa si definisce come
"l'uso della scienza moderna per attaccare problemi affetti da incertezza
che sorgono nella gestione e nel controllo di uomini, macchine, materiali e
soldi. È tipico della ricerca operativa inventare strategie di controllo
misurando, confrontando e predicendo eventi probabili mediante modelli
scientifici."
Questa definizione suonerà astratta a chi non ha letto qualche libro
o articolo sulla ricerca operativa. Ricordo solo che la ricerca operativa si
sviluppò durante la seconda guerra mondiale per risolvere problemi
militari. Ad esempio: "Quale è la migliore strategia di difesa aerea e navale
e di costituzione dei convogli per minimizzare il tonnellaggio affondato
dagli U-Boot in Atlantico?"
Non entro qui in ulteriori dettagli. Mi limito a dedurre il seguente
suggerimento:
8. Non possiamo prevedere quando potremo avere estremo bisogno di
qualche strumento teorico nella nostra vita personale. Volta a volta ci
potrà servire di sapere qualche cosa di biologia, di epidemiologia, di
scienza delle finanze e - perchè no? - di matematica e fisica (1).
Dunque conviene imparare quanto più possiamo in tutti questi campi
- anche se l'utilità sembra marginale a chi ragioni superficialmente.
_______________________________________________________
(1) Ho illustrato la convenienza di imparare la matematica in un
mio libretto del 1989: Anche tu matematico (Garzanti).
95
Nel progetto dei sistemi tecnologici si usano in generale le
macchine e i componenti più avanzati resi disponibili dalla tecnologia.
Quando una certa funzione non può essere assicurata dai prodotti
tecnologici disponibili sul mercato, si dovranno progettare prodotti nuovi.
Quest'ultima prescrizione - è vero - interessa letteralmente pochi fra noi.
Sono rari quelli che si mettono a progettare una macchina nuova per
risolvere un problema personale. Però un insegnamento almeno può
essere citato:
9. Ci conviene utilizzare i prodotti nuovi della tecnologia valutandone
accuratamente costi e benefici. Fra i costi va annoverato certamente lo
sforzo necessario per imparare a usare le nuove macchine. Fra i
benefici, invece, è bene non annoverare il semplice gusto di usare una
oggetto nuovo ancora poco diffuso. Avere un fax serve di sicuro a chi
scambia con altri numerosi documenti scritti. Avere un computer dieci
o cento volte più veloce di quello che stiamo usando adesso può essere
del tutto inutile per chi non usi programmi matematici grossi e
sofisticati.
Abbiamo già visto che i grandi sistemi tecnologici spesso
producono risultati multipli. Oltre ai risultati che il sistema è progettato per
conseguire, ce ne sono altri negativi - che il sistema dovrebbe essere
progettato per minimizzare. Fra questi - gli impatti ambientali negativi.
Ormai in tutti i paesi industrializzati vigono leggi che impongono di
valutare metodicamente l'impatto ambientale prevedibile in conseguenza
della realizzazione di qualunque grande opera. Sono provvedimenti
opportuni - almeno fin quando non si chieda ai progettisti di prevedere ogni
possibile evento futuro, cosa che nessuno di noi è equipaggiato per fare.
A un livello molto più modesto, ogni nostra azione può avere
impatti ambientali negativi. Normalmente questi impatti hanno effetto
minimo. Ciascuno di noi è molto piccolo rispetto all'ambiente. Qui, però,
viene bene citare di nuovo l'insegnamento talmudico: zikhronam livrakhà il loro esempio sia benedetto. Da cui il decimo suggerimento morale:
10. Limitiamo gli impatti ambientali negativi di ogni nostra azione.
Ricicliamo i materiali che abbiamo usato e non li spargiamo in giro per
la natura. Anche se la nostra azione individuale avrà effetto scarso, il
nostro esempio potrà amplificarla.
Una parte importante del progetto dei sistemi tecnologici, infine,
non riguarda questioni strettamente tecniche, nè procedure meccanicistiche.
Si tratta dell'ingegneria umana o dei così detti rapporti uomo-macchina.
Costruire e inserire in un sistema tecnologico le macchine più perfezionate
non serve a niente se queste non sono adatte a essere usate dagli operatori
cui verranno affidate. Analogamente i messaggi diretti a un pubblico vasto
(ad esempio su quadri luminosi a messaggio variabile) saranno inefficaci
96
o fuorvianti, se non sono progettati in modo da essere capiti facilmente.
Le soluzioni di software e quelle sull'organizzazione umana e sull'uso degli
esseri umani sono altrettanto importanti delle macchine e delle soluzioni di
hardware. Da qui l'undicesimo insegnamento:
11. Nessuno dei nostri problemi potrà mai avere una soluzione
semplicemente tecnica o meccanicistica o finanziaria. Dovremo sempre
chiederci quali saranno le reazioni delle persone implicate e - prima
di tutto! - le nostre reazioni personali. È sbagliato credere che una
soluzione razionale a un certo problema venga accettata dagli
interessati solo perchè è razionale. Noi stessi possiamo individuare
soluzioni razionali e possiamo decidere di adottarle - ma poi potremo
accorgerci che in pratica le rifiutiamo. Non riusciamo a vivere con
esse. Dunque conviene pensarci prima e cercare di prevedere - sulla
base della nostra esperienza passata quali soluzioni siano davvero
accettabili a noi e agli altri.
Abbiamo concluso questa rapida rassegna delle applicazioni
sistemistiche che possono aiutarci a definire una nostra morale personale
più efficace di quelle usuali. Sono venuti fuori undici suggerimenti. Li
riassumo qui di seguito. Scorrendoli, non avrete certo l'impressione di
leggere parole sacre che vi salveranno, ma se cercate di applicarli, vivrete
meglio e farete vivere meglio tanta altra gente.
1.
2.
3.
4.
Cercate di prevedere tutti gli effetti di ogni vostra azione
Nei casi difficili chiedete consiglio a esperti
Decidete rapidamente: l'ottimo è spesso troppo difficile da individuare
Cercate di prevedere i più importanti effetti esterni (ma non tutti) sulla
realtà che state cercando di modificare
5. Immaginate soluzioni nuove e paradossali: quelle standard sono spesso
inadeguate
6. Assegnate priorità corrette alle vostre azioni; programmatele e
revisionate spesso i programmi
7. Valutate le conseguenze delle conseguenze delle vostre azioni e
cercate di capire quali rischi ci si possano annidare
8. Cercate di acquisire tutti gli strumenti teorici che potete (matematica,
scienza, cultura): prima o poi potranno esservi utilissimi
9. Utilizzate i nuovi prodotti della tecnologia che vi possano essere
davvero utili
10. Non danneggiate l'ambiente inutilmente
11. In ogni problema tenete nel debito conto i fattori umani - a cominciare
dalle vostre reazioni personali. Molti problemi hanno soluzioni umane
più efficaci di quelle legali o tecniche.
Questi non sono comandamenti. Sono descrizioni di modi di
procedere razionali. Dalle stesse premesse - o da premesse più vaste (è
97
sempre bene cercare maggiori input) - si potrebbero dedurre suggerimenti
morali in numero diverso e con contenuti un pò diversi. Le basi, però, ci
sono. La morale nuova deve essere fatta così - anche se certo rifiuteremo
gli Undici Suggerimenti come regole fisse.
Qualcuno potrebbe obiettare che questi undici suggerimenti sono
essenzialmente dettati dal buon senso. Avrebbero potuto venire in mente a
chiunque: perchè scomodare l'ingegneria dei sistemi per introdurli?
Rispondo che certo il buon senso è un ingrediente essenziale dell'ingegneria
dei sistemi. Ammesso questo, non è forse ragionevole andare a cercare
suggerimenti di buon senso proprio in una disciplina che li raccoglie
metodicamente e li organizza per raggiungere obiettivi ben definiti? Se
poi qualcuno arrivasse a conclusioni simili partendo da premesse diverse,
non avremmo niente da obiettare.
Vediamo, anzi, se possiamo derivare altri insegnamenti di buon
senso da fonti antiche, cui magari si sono già ispirati testi di morale ben
noti. Uno di questi principi sostiene che non bisogna essere estremisti: "in
medio stat virtus" (la virtù sta nel mezzo); la via di mezzo è aurea e così
via. È un principio che si trova in Aristotele, in Cicerone, in Seneca, in
Epitteto e in tanti altri.
Nell'ingegneria dei sistemi, invece, non se ne parla. Probabilmente
la ragione è che non vale la pena riaffermare che dovremmo evitare gli
eccessi. Appena li definiamo eccessi, già abbiamo asserito che implicano
troppo di qualche cosa - cioè non il giusto - e l'ingegneria dei sistemi si
propone proprio di realizzare cose giuste senza sprechi, né inadeguatezze.
Ma accade a molti di noi di eccedere in qualche nostra abitudine
tanto da danneggiare noi stessi. Quindi è bene esaminare la questione,
anche se l'ingegneria dei sistemi non ci aiuta.
Gli eccessi che ci danneggiano più spesso riguardano sostanze
che immettiamo nel nostro corpo: le mangiamo, le beviamo, le inaliamo,
le fiutiamo. Le conseguenze sono note. Possiamo diventare troppo grassi il
che ci rende brutti, ci affatica, danneggia il nostro cuore e altre nostre
frattaglie. Possiamo inebriarci - e fare cose inopportune che in condizioni
normali non avremmo fatto mai. Possiamo danneggiare i neuroni del nostro
cervello (come accade con certe droghe) o i nostri polmoni (come accade
fumando tabacco).
Vale la pena di ricordare una norma del Corano (dopo tutto
nessuno ci impone di trarre gli insegnamenti solo dal Talmud o
dall'ingegneria dei sistemi): "Ciò che il suo molto inebria, anche il suo
poco è proibito." È in base a questa regola che i mussulmani osservanti
non bevono alcolici e, dove comandano, li proibiscono anche ai non
mussulmani. Tommaso d'Aquino era più permissivo. Riteneva che non
peccasse affatto chi si inebriava perchè non conosceva gli effetti del vino.
Commette peccato veniale chi si ubriaca in modo preterintenzionale, per
esempio perchè confida di sapersi fermare in tempo. Commette peccato
mortale chi si ubriaca con premeditazione - sapendo che lo farà. Non sono
98
d'accordo: al solito non credo che siano tanto importanti le intenzioni.
Sono più importanti gli effetti finali.
Molte persone possono bere alcolici in misura moderata in contesti
sociali aggraziati, traendone talora ispirazione per idee o discorsi
divertenti. Chi appartiene a questa categoria potrà continuare a bere senza
timori. Chi, invece, non riesce a smettere una volta che comincia e si rende
odioso a sè e agli altri, è bene che smetta del tutto. A lungo termine non
gli verranno la cirrosi epatica o il delirium tremens e anche a breve termine
conseguirà vantaggi notevoli.
Lo stesso discorso vale per il fumo. Ne ho esperienza diretta.
Parecchi anni fa provai a ridurre il numero di sigarette che fumavo ogni
giorno, ma senza successo. Tornavo in breve a superare le trenta al giorno.
Così nel 1976 smisi del tutto. Cominciai abbastanza presto ad avere più
fiato e ora corro rischio minore di contrarre enfisema o cancro: fumare è
disastroso. Dato che il fumo dà una forte assuefazione, vi consiglio di
smettere cogliendo l'occasione di una influenza o di una bronchite. Durante
la malattia non si riesce affatto a fumare: così la prima settimana o due di
astinenza si passano senza sforzo - gratis.
Il discorso è più grave e più complicato per quanto riguarda le
droghe. Alcuni citano l'esempio di notissimi uomini d'affari che sniffano
cocaina da decenni con tanta saggezza e parsimonia da ritrarne notevole
piacere e nessun danno. I pareri sono divisi. Secondo alcuni i danni (anche
cerebrali) sono sempre sensibili e conviene evitare ogni droga pesante e
leggera. Da quanto ho letto ritengo che le droghe pesanti siano sicuramente
assuefacenti (nel senso che non si riesce più a farne a mano) e dannose.
Quelle leggere forse meno. Però anche se accettiamo il punto di vista che
siano poco dannose e che si possano prendere e lasciare a nostro piacimento
- resta il fatto che modificano il nostro stato di coscienza. Questo è
pericoloso. Capire il mondo non è facile. Per riuscirci abbiamo bisogno di
tutte le nostre facoltà - e spesso non bastano nemmeno. Ridurre le nostre
probabilità di successo non conviene affatto: prima o poi ci danneggia
sicuramente. Per la stessa ragione disapprovo anche l'uso dei tranquillanti.
Se viviamo una condizione stressante - di rischio, di incertezza, di
iperattività forzata - non abbiamo nessuna ragione di stare tranquilli.
Procurarci una tranquillità artificiale potrà renderci meno attenti,
più vulnerabili e meno aggressivi proprio quando ci converrebbe di essere
svegli e capaci di difenderci e di reagire. Ci sono momenti in cui è bene
essere aggressivi (anche se non temerari) - almeno se non vogliamo
abbandonarci in balia degli eventi esterni e della volontà altrui.
Ad alcuni succede di scivolare negli eccessi - di fumare, di
mangiare e di bere - per sola distrazione. Sono attività momentaneamente
piacevoli e i danni futuri sembrano lontani. È facile dire che non bisogna
distrarsi, ma in molti casi non serve a niente ripeterlo. Eppure è così ovvio:
prendiamo già tante fregature indipendenti dalla nostra volontà che è
sciocco procurarcene altre gravi (come il cancro al polmone o il collasso
cardiocircolatorio dovuto all'obesità) solo per distrazione.
99
100
101
C A P I T O L O 14
UNA MORALE ARTIFICIALE AFFIDATA AL
COMPUTER (VEDI NOTA)
Ho già detto che - per fare ragionamenti morali - dovremmo
conoscere il mondo ed essere capaci di prevedere le conseguenze di quel
che facciamo. Poi dovremmo poter scegliere i nostri obiettivi e agire di
conseguenza. Ora questi compiti somigliano molto a quelli che vengono
svolti dai manager quando gestiscono una società industriale o
commerciale.
Chi gestisce un'azienda, uno stabilimento o un sistema tecnologico
usa libri, manuali e prontuari. Oggi ha a disposizione anche programmi di
computer che lo aiutano a organizzare meglio la sua attività, a controllare
le prestazioni dei suoi collaboratori, a prevedere tempi e costi finali di
un'impresa, a valutare tendenze generali dell'economia e così via.
Alcuni di questi programmi si chiamano sistemi esperti. Vengono
costruiti da specialisti in management, progettazione o gestione di impianti
che ci mettono dentro tutta la loro scienza. Poi altri manager (meno esperti
degli originatori del programma) raccontano al sistema computerizzato
quale è la situazione e quale è il problema che devono risolvere e gli
chiedono consiglio. Il sistema esperto domanda a sua volta altre
informazioni. Quando ne ha abbastanza, stampa il suo consiglio e, in
genere, spiega le ragioni per cui lo ha dato.
Perchè non si potrebbe, allora, costruire un sistema esperto che dia
consigli a chiunque su come comportarsi, su come giudicare la moralità e
l'opportunità di un'azione, su come risolvere un conflitto fra doveri o fra
preferenze?
_________________________________________________
NOTA: SE AVETE L'IMPRESSIONE CHE IO PROPONGA QUI
SERIAMENTE UNA MORALE AFFIDATA AL COMPUTER,
LEGGETE SUBITO LE CONCLUSIONI (IN TUTTE MAIUSCOLE)
IN FONDO AL CAPITOLO - E VEDRETE CHE NON E' COSI'.
102
Un consigliere morale computerizzato potrebbe essere congegnato in modo
da essere universale. Verrebbe presentato come adatto a tutti - dando per
scontato che la morale è unica. L'imprenditore che lo realizzasse e ne
vendesse i servizi potrebbe pubblicizzarlo dicendo:
IL CONSIGLIERE MORALE AUTOMATICO RISOLVE I
VOSTRI PROBLEMI QUALI CHE SIANO LE VOSTRE CONVINZIONI
O IDEOLOGIE. LA MORALE NATURALE È LA STESSA PER TUTTI!
APPREZZERETE E SEGUIRETE CON SUCCESSO I GIUDIZI, LE
VALUTAZIONI, I CONSIGLI DATI DAL SISTEMA SIA CHE SIATE
CRISTIANI, MUSULMANI, EBREI, BUDDISTI, SHINTOISTI,
ANIMISTI O POSITIVISTI.
IL SISTEMA ESPERTO È STATO COSTRUITO CON
L'AUSILIO E LA CONSULENZA DI: PRETI, PASTORI, RABBINI,
GIUDICI, POLIZIOTTI, AVVOCATI, GURU, MEDICI, PSICOLOGI,
PSICANALISTI, PSICOTERAPEUTI, PSICHIATRI, FILANTROPI,
FILOSOFI E PENSATORI.
Questo sistema consentirebbe di mettere in pratica il secondo
suggerimento fornito nel capitolo precedente, ma verrebbe avversato dai
ministri del culto di tutte le religioni e da tutte le scuole di psicologia o di
psicoanalisi, perchè minaccerebbe i loro monopoli. Sarebbe più accettabile
un sistema flessibile. Potrebbe essere dotato di un commutatore per
scegliere il tipo di morale o di approccio. Oppure all'inizio della seduta
sullo schermo potrebbero apparire le scritte:
CHE MORALE PREFERITE?
CRISTIANA
EBREA
MUSULMANA
POSITIVISTA
MATERIALISTA-STORICA
BUDDISTA
(TOCCATE COL DITO LA SCRITTA CORRISPONDENTE ALLA
VOSTRA SCELTA)
Se avete scelto la morale cristiana, la macchina vi chiederà quale
sia la setta o la denominazione preferita:
SCEGLIETE:
CATTOLICA
GRECO-ORTODOSSA
LUTERANA
ANGLICANA
QUACCHERA
EPISCOPALE
BATTISTA
METODISTA
CALVINISTA
MORMONE
AVVENTISTA
e così via. A questo punto voi ponete il quesito e il sistema vi chiede
delucidazioni. Quando avete illustrato bene i precedenti, le implicazioni e
ogni altro elemento, il sistema vi potrà chiedere se conoscete quale sia la
dottrina generale del vostro gruppo religioso in merito alla questione che
103
avete posto. Vi proporrà quesiti a scelte multiple per controllare che
davvero conosciate quella dottrina.
Se si accorge che la vostra conoscenza è difettosa, ve la
rinfrescherà facendovi leggere testi scritti e proponendovi filmati o
animazioni. Poi proverà a suggerire il corso di azioni più morale e
consigliabile. Quindi vi chiederà se lo trovate convincente e se lo metterete
in pratica. Riceverà le vostre eventuali obiezioni e le controbatterà con altri
esempi e altre considerazioni. Se non riesce a convincervi, potrà suggerire
che vi rivolgiate a un consigliere umano e vi fornirà una lista di nomi e di
indirizzi.
Queste macchine potranno essere installate in centri specializzati
oppure saranno accessibili in rete dallo stesso terminale su cui lavorate
o che avete a casa.
Il sistema esperto potrebbe anche insegnare la morale ai bambini
partendo da zero. Così non sarebbero più i genitori a inculcarci i loro
princ.pi e a mostrarci esempi da seguire. Assorbiremmo regole e nozioni
da una macchina equipaggiata con un Compact Disk Interattivo (CDI).
Sullo schermo di un televisore leggeremmo regole generali,
comandamenti di situazioni tipiche: violenza e legittima difesa; flirt e
innamoramenti; rapporti sessuali consigliati e no; giri di interesse e azioni
fatte a scopo di lucro. Ogni sequenza verrebbe commentata da una voce
fuori campo, da scritte e simboli sullo schermo, da un attore con aspetto
credibilmente autorevole. Poi la macchina mostrerebbe all'utente filmati o
animazioni che pongono un problema e gli chiederebbe:
"Che faresti al posto del signor X?"
Se la risposta è esatta l'utente continuerebbe a leggere altri testi e a
vedere altri filmati. Se no, si tornerebbe indietro a rivedere il materiale
già mostrato - con l'aggiunta di altre spiegazioni oppure presentato in
modo più semplice.
Un sistema di questo tipo è perfettamente realizzabile oggi. Le
tecniche usate sono le stesse impiegate nella costruzione dei sistemi
esperti per risolvere problemi di diagnostica medica o di manutenzione e
gestione di grossi complessi industriali.
Il sistema dovrà incorporare moduli per l'analisi del linguaggio
umano naturale. Questi comprenderanno non solo grammatica e sintassi, ma
anche la semantica. Potranno identificare, quindi, chi agisce e chi subisce,
quali siano gli eventi naturali e quali quelli prodotti dall'uomo, quali eventi
possano causarne altri, quali devono avvenire prima e quali dopo. Infine
confronteranno le situazioni proposte con paradigmi di comportamento
originariamente immessi nella base dati e, infine, potranno emettere un
giudizio.
A questo punto sorge spontanea l'idea di meccanizzare per i
cattolici anche il sacramento della confessione. Perchè farlo? La ragione
più immediata è che i preti non bastano. Le vocazioni sacerdotali sono in
crisi e pare sia difficile trovare parroci per le parrocchie esistenti. I
confessori automatici allevierebbero il lavoro dei pochi preti rimasti.
104
Dovrebbero avere successo. Lo dimostra la popolarità di LIZA - un preteso
psicoterapeuta realizzato su computer da Joe Weizenbaum. Parecchi
pazienti sostenevano che LIZA comprendeva i loro problemi meglio di
uno psicoterapeuta umano. In effetti il programma di Weizenbaum non
era dotato di nessuna intelligenza. Si limitava a ripetere le frasi del
paziente, chiedendo blandamente:
"Perchè pensi questo? Perchè le cose vanno così?"
Il programma capace di simulare un confessore dovrebbe essere
molto più sofisticato. Oltre alle liste dei comandamenti, dei peccati e
delle virtù, dovrebbe contenere un'ampia casistica e una base dati desunta
dagli scritti dei Padri della Chiesa.
Si dovrebbe superare la difficoltà che il sacramento della
confessione può essere amministrato solo da un sacerdote regolarmente
ordinato. Però varie sette protestanti ordinano anche le donne come ministri
del culto e anche come vescovi. In un avvenire non lontano, perciò, è
pensabile che la chiesa cattolica attribuisca gli ordini sacri a un computer.
Più difficile è il problema del segreto. I confessori, infatti, non
devono rivelare a nessuno il contenuto delle confessioni che ricevono
neanche se vengono minacciati di morte. Il computer-confessore potrebbe
essere protetto dalle intrusioni con codici crittografici oppure potrebbe
cancellare tutte le informazioni ricevute subito dopo data l' assoluzione.
Però non si potrebbe escludere che un operatore umano durante certe
operazioni di manutenzione possa apprendere il contenuto di una
confessione. Infine, perchè la confessione sia efficace, il peccatore deve
pentirsi sinceramente delle brutte cose che ha fatto. Qui l'onere è tutto suo:
neanche i confessori umani sono capaci di giudicare della sincerità del
penitente, nè sono tenuti a farlo.
Quest'ultima proposta è paradossale - ma non è detto che non sarà
adottata davvero. Tornando alla questione più generale dei sistemi esperti
specializzati nel dare consigli morali, chiarisco che NON STO
PROPONENDO CHE SI REALIZZINO (anche se realizzarli bene potrebbe
portare a una diffusione di conoscenze troppo spesso trascurate). AL
CONTRARIO, PRIMA CHE QUALCUNO LI PROPONGA
SERIAMENTE, DICHIARO CHE POSSONO ESSERE PERICOLOSI.
CHI CREDE IN QUESTE MACCHINE IPERSEMPLIFICA I PROBLEMI
- E NON CONVIENE.
Questo stesso mio libro, in effetti, si presenta come un sistema
esperto specializzato in questioni morali. Non mi è parso sensato, però,
meccanizzare l'accesso ai miei argomenti con un package di software. Il
punto chiave non è la facilità di accesso (che un computer potrebbe
incrementare) - è la comprensione fatta di conoscenza, sensibilità,
intuizione (in inglese si chiama insight). Queste doti non si acquistano in
modo meccanico, ma con processi lenti che non si accelerano ricorrendo a
un computer.
105
CAPITOLO
15
DOVREMMO CONVERTIRCI ALLA MORALE
GIAPPONESE?
Ogni tanto invidiamo i giapponesi. Leggiamo sul giornale che in
media guadagnano il 61 per cento più degli italiani. Le loro automobili
sono garantite per tre anni - le nostre per un anno. Preferiamo spesso i
televisori, i videoregistratori, i computer, le macchine fotografiche, i fax e i
telefoni cellulari fabbricati da loro. Sono di qualità migliore di quelli
fabbricati nel nostro paese.
I giapponesi non sono disturbati quasi mai dagli scioperi dei mezzi
pubblici, dei controllori del traffico aereo o degli assistenti di volo. Vivono
più addensati di noi (323 abitanti/km2 contro i nostri 191). Malgrado
l'affollamento, i loro sistemi funzionano meglio dei nostri. Quasi sempre:
quando, nel 1992, il loro treno superveloce ha lasciato cadere sui binari uno
dei suoi motori, per loro è stata una vergogna nazionale. Agli altri è
sembrato un paradosso.
I giapponesi sono ricchi, operosi e imperturbabili. Magari non
li capiamo. Non abbiamo mai letto un libro scritto da un giapponese. Però
vorremmo essere almeno un po' più come loro. Oppure vorremmo che loro
fossero un po' meno così.
Allora forse dovrebbe sorgerci un dubbio. I successi giapponesi,
oltre che da una buona organizzazione e da studi accurati, non dipendono
forse dal fatto che si comportano meglio, che la loro morale è migliore della
nostra?
Vale la pena di esaminare la questione. A questo scopo vediamo un
po' la storia della morale corrente giapponese che è fatta di princìpi
religiosi shintoisti strettamente collegati a princìpi di morale civica e di
fedeltà allo stato e all'imperatore.
Non mi propongo di andare troppo indietro nel tempo. Ho
l'impressione che la storia antica del Giappone sia stata ricostruita a
posteriori. Dopo tutto non avevano nemmeno inventato la scrittura, che
copiarono dai Cinesi verso il quinto secolo della nostra era. Ma anche
questo è inessenziale. Hanno copiato tante cose e poi hanno imparato a
106
farle meglio di quelli che le avevano introdotte per primi.
Tutti sanno che l'era moderna del Giappone inizia con la
restaurazione Meiji del 1868. Due anni dopo l'imperatore Mutsuhito
emanava un proclama annunciando che veniva ripresa la Strada derivante
dalla dea del sole (Amaterasu), che aveva mantenuto in auge la discendenza
imperiale e aveva permesso al Giappone di avere buon governo e
cerimonie religiose approvate da tutti. Il proclama diceva fra l'altro:
"In alto il governo e l'educazione erano chiari, in basso il
popolo aveva ottime maniere."
Non era una pura formalità che l'imperatore si dichiarasse a
favore dell'educazione. Negli anni seguenti l'industria e le scuole
giapponesi si rinnovarono profondamente importando tecnici e professori
occidentali. L'inglese Ayrton fondò il Collegio Tecnico di Yedo. Il Prof.
John Perry visse in Giappone dal 1875 al 1879 e creò un'ottima scuola di
ingegneria. Questa nuova tradizione industriale e tecnologica dimostrò la
sua efficacia con la vittoria giapponese sui russi nel 1902.
Ma torniamo alla morale. Insieme al rinnovamento dello stato,
delle industrie e delle scuole, si riorganizzò e si liberò dalla tradizione
confuciana anche la religione dello Shinto. Nel 1880 Sano Tsunehiko
fondò la Dottrina della Ragione Divina (Shinri Kyo). Nello statuto di
questa specie di chiesa si professa la fede - oltre che in certi dei "nella
indivisibilità dei mondi fisico e spirituale, nelle leggi della natura e nel
raggiungimento della tranquillità interiore ... abolendo i formalismi per
impegnarsi in attività pratiche". Lo statuto parla anche di amor di patria,
fedeltà e obbedienza all'imperatore, musica, danza, talismani,
arrangiamento dei fiori e della cerimonia del tè. Contiene, però, anche un
decalogo :
1.
2.
3.
4.
Non opporsi alla volontà degli dei
Non dimenticare gli obblighi verso gli antenati
Non trasgredire le leggi dello stato
Non dimenticare la bontà degli dei che vince la sfortuna e guarisce le
malattie
5. Non dimenticare che il mondo è una grande famiglia
6. Non dimenticare i limiti della propria persona
7. Non arrabbiarsi anche se gli altri si arrabbiano
8. Non essere sciatti nel proprio lavoro
9. Non disonorare l'insegnamento
10. Non dare retta agli insegnamenti stranieri.
Sono curiose le differenze fra il decalogo biblico e questo
giapponese. Il decimo comandamento fu applicato per quanto riguarda le
religioni straniere - non la scienza e la tecnica. L'ottavo e il nono
comandamento - in accordo col proclama imperiale citato - anticipano i
criteri di perfezione industriale di oggi.
Un'altra chiesa shintoista, la Dottrina della Grande Perfezione
107
(Taisei Kyo), fondata nel 1879, aveva un codice di sette comandamenti. Il
sesto imponeva di studiare scienza e tecnica e di incoraggiare le imprese
industriali e commerciali. Anche la Dottrina della Purificazione (Misogi
Kyo) nel 1894 cominciò a predicare che non bisogna essere sciatti negli
affari perchè così si dimostra gratitudine alla patria.
Questi germi antichi sono fioriti nei quattro valori basilari dalla
società giapponese di oggi:
• amae : la dipendenza - dai genitori, dai capi, dai padroni, dai lavoratori
più anziani ed esperti
• on : il dovere
• giri : gli obblighi sociali - caratteristici del proprio status
specialmente in ambiente di lavoro
• ninjo : i sentimenti umani che legano ogni individuo alle persone
vicine nella famiglia e nel lavoro.
Questi valori si ritrovano nelle componenti operative del sistema
giapponese di management industriale e commerciale. Gli ingredienti di
questo sistema sono:
la presa di decisioni basata sul consenso, che deriva da antichi princ.pi
di armonia generale e dai quattro valori appena citati. Cercare il
consenso a tutti i livelli rallenta le decisioni. Una volta ottenutolo,
però, tutto marcia molto più veloce.
un sistema di comunicazioni interne all'azienda altamente ritualizzato
l'importante ruolo affidato ai quadri intermedi per assicurare un flusso
adeguato di informazioni verso l'alto e per far conoscere gli intenti
dell'alta direzione a tutto il personale
la garanzia dell'impiego a vita
un sistema di promozioni e remunerazioni fondato sull'anzianità
l'addestramento del personale entro l'azienda basato sulla rotazione
dei compiti (si ottiene così un'ottima flessibilità degli addetti)
i sindacati formati entro l'ambito di ciascuna azienda, che evitano
conflitti duri e sono orientati a massimizzare l'efficienza aziendale.
lo sforzo generale per realizzare qualità totale nel funzionamento
dell'azienda. Qui, come vedremo, principi e metodi sono di origine
americana. In Giappone, però, sono stati applicati prima e in misura
più massiccia. Hanno condotto a formare i famosi circoli di qualità fra
lavoratori perchè ciascuno possa contribuire a innalzare continuamente
la qualità dei prodotti o dei servizi. Hanno condotto alla tecnica del just
in time (eliminare i magazzini obbligando i fornitori a consegnare i
materiali esattamente quando e dove sono richiesti per la produzione
- evitando così immobilizzi di capitale). Hanno condotto alla così detta
produzione snella in cui si minimizza ogni onere (spese generali,
personale non direttamente produttivo), ogni ritardo, ogni inefficienza
Queste componenti del sistema giapponese sembrano ragionevole,
108
soprattutto, funzionano. Allora che dobbiamo concludere? Che anche per
noi sarebbe meglio vivere come i giapponesi? Questo significa dedicare la
propria vita, le proprie energie e la propria intelligenza a un' azienda o a
un ministero. Significa lavorare molto intensamente per assicurare il
successo del proprio capo o dell'ente che ci impiega - nella speranza che
questo successo si rifletta anche su di noi prima o poi. Significa anche
rinunciare alle proprie facoltà critiche.
Per esempio, una parte del successo dell'industria giapponese è
dovuta ai rischi inammissibili che le aziende industriali fanno correre ai
dipendenti e al pubblico. È tristemente famoso il caso della malattia della
baia di Minamata che menomò e uccise 750 persone negli anni '50. Era
causata da composti di mercurio velenosi scaricati in mare dalla Chisso,
un'azienda chimica, che negò ogni sua responsabilità e oppose ogni tipo di
ostruzionismo alle indagini. I poteri pubblici e gli stessi dipendenti della
Chisso minimizzarono gli incidenti. Solo vent'anni dopo un tribunale diede
ragione ai danneggiati, assegnandogli risarcimenti di entità minima.
Altro inconveniente strettamente connesso con gli alti livelli di
efficienza e di produttività, è l'enorme sperequazione nei salari e nel
tenore di vita. Meno di metà della forza lavoro gode l'impiego a vita. Gli
altri hanno paghe molto basse. In ogni caso a un'età compresa fra 55 e 58
anni anche i dipendenti che hanno l'impiego a vita vanno in pensione. Il
trattamento che ricevono è inadeguato per vivere. Così i pensionati devono
continuare a lavorare con contratti temporanei con un salario molto basso.
Le donne ottengono raramente lavori a vita e, a parità di mansioni, sono
pagate meno degli uomini. Gli alti dirigenti, invece, possono continuare a
lavorare fino a 65 anni e godono di trattamenti molto più grassi.
I sindacati aziendali ovviamente influiscono in modo marginale su
questo stato di cose.
Già da qualche anno vado dicendo che il Giappone va incontro a
una grossa crisi. Il modo di vivere occidentale non è perfetto, ma i
lavoratori sono trattati molto meglio. Quando i lavoratori giapponesi se ne
accorgeranno, sia pure con i loro sistemi diversi dai nostri, cominceranno
a lottare per affermare i loro diritti. Allora questa situazione che è solo
apparentemente felice, si incrinerà brutalmente. In conseguenza non
sostengo certo che sia male essere produttivi, o fornire prestazioni di alto
livello, o preoccuparsi del successo dell'azienda o dell'ente per cui
lavoriamo.
È bene fare queste cose. Non è bene, invece, attaccarsi a un
insieme di criteri troppo ristretto come quelli che ho descritto. L'efficienza
aziendale, la produttività industriale, la scarsità di conflitti sociali, la
bassa disoccupazione, una bilancia positiva dei pagamenti internazionali sono tutti obiettivi legittimi e desiderabili. Però non possono essere
perseguiti a qualunque costo. Certi costi sono inaccettabili. Fra questi:
la dittatura, l'ingiustizia sociale ed economica e anche una struttura
gerarchica troppo in ritardo rispetto a quelle che si sono affermate in larga
parte dei paesi avanzati.
109
Dunque non dovremmo convertirci alla morale giapponese.
Saranno loro che adotteranno almeno alcuni dei nostri valori. Certo noi
dovremmo adottare alcuni dei loro valori e delle loro abitudini.
Non si tratta di trovare un giusto mezzo. La risposta è: qualità
totale delle regole, delle prestazioni, della cultura, della capacità
previsionale. Cerco di illustrarla nell'ultimo capitolo.
110
111
C A P I T O L O 16
LE AZIONI DI PORTATA NAZIONALE O
MONDIALE
Negli Stati Uniti quando ci sono le elezioni spesso si presenta a
votare meno del 60% degli aventi diritto. Poi si accorgono di aver mandato
al potere presidenti che mentono spudoratamente alla nazione, che
commettono azioni illegali, che fanno imbrogli per vendere armi a paesi
nemici o per finanziare movimenti rivoluzionari che il Congresso degli
Stati Uniti aveva deciso di non appoggiare.
In Italia i votanti sono di più in percentuale (ma vanno calando).
Però ci accorgiamo ugualmente di non aver votato in modo oculato.
Mandiamo al parlamento e al senato uomini e donne di qualità insufficiente.
Nella migliore delle ipotesi amministrano male la cosa pubblica e omettono
di studiare e promulgare leggi necessarie - altrove già adottate da decenni o
da secoli. Nella peggiore delle ipotesi fanno la cresta sulla spesa, intascano
tangenti e mazzette e modificano le leggi per trarne vantaggi personali e per
evitare condanne penali. Indaffarati in queste attività dannose e immorali,
non hanno tempo per decidere le cose giuste. Fra queste ci sarebbero:
• migliorare le scuole, controllando qualità dell'insegnamento ed efficienza
• istituire molte scuole avanzate per formare scienziati e tecnici a livello
internazionale
• raddoppiare gli investimenti nella ricerca scientifica (di cui va migliorata
e controllata la qualità) e nello sviluppo tecnologico
• controllare i rendimenti della pubblica amministrazione, evitando gli
sprechi e la promulgazione di leggi inutili, dannose, sciocche o inique
che distruggono ricchezza nazionale
• controllare conflitti di interesse e reati degli eletti - incriminarli e punirli
quando lo meritano
• individuare grandi imprese internazionali alle quali associare altri paesi
industrializzati allo scopo di favorire lo sviluppo politico, economico e
tecnologico di paesi del Terzo Mondo
• diffondere cultura per mezzo della televisione di Stato.
In alcuni paesi le cose vanno meglio che in Italia. Però accade
ugualmente che miliardi di persone deleghino personaggi inadeguati a
112
prendere in vece loro decisioni importanti, che, quindi, sono sbagliate. Non
è questo il modo di far cambiare il mondo perchè ci piaccia di più. Non ci
piace molto - ma ce lo strozziamo come è. Le tristi conseguenze di questo
stato di cose ci colpiscono personalmente, ma facciamo finta di niente. Non
è giusto comportarsi così. E come dovremmo comportarci allora? Sono
problemi grossi e non potremo certo dare una risposta semplice a questa
domanda. Molti di noi si sentono impotenti. Dicono: "Saremo sempre
oppressi. Non c'è modo di vincere. Chi detiene il potere non lo molla. Chi
arriva al potere diventa cattivo. Il singolo cittadino non può fare niente. Non
ha energia sufficiente. Sembra una coda che volesse agitare un gatto. Non
ci può riuscire. È sempre il gatto che agita la coda e non viceversa! (1)"
Invece si può. Lo dimostrano tanti successi di buona
amministrazione dalla antichità classica ai cantoni svizzeri, dalla tradizione
dell'amministrazione pubblica francese alla rinascita democratica della
Spagna. Nessuno di questi successi è totale, nè eterno. Anche nei paesi
meglio gestiti si annidano in qualche piega incompetenza, interesse privato
in atti d'ufficio, corruzione, nepotismo. Ho già parlato nel Capitolo 12 di
peculato, corruzione e tangenti. Dicevo che questi vizi subiscono sorti
alterne. Allignano in certi luoghi e in certi tempi e poi perdono forza e sono
combattuti con successo da gruppi e movimenti che sorgono, hanno il
sopravvento per un certo tempo e poi lo perdono di nuovo. Qui parlo di
come combattere i vizi pubblici e diffondere principi e progetti positivi.
Potremmo raggiungere questi obiettivi, se capissimo quali siano i
meccanismi adatti. Questi dovrebbe consentire di:
1. far conoscere quali siano i fatti (casi di corruzione o situazioni socioeconomiche e conseguenti opportunità di iniziare imprese nuove)
2. convincere i decisori pubblici che è opportuno un loro intervento per
correggere i difetti o per iniziare le imprese di cui sopra
3. se i decisori pubblici non agiscono come desiderato, dare pubblicità al
fatto e sostituirli mediante meccanismi elettorali o con una rivoluzione
(ma, dopo, accade spesso che "più si cambia e più è la stessa cosa")
4. una volta cambiati i decisori pubblici con altri che mirino a raggiungere
gli obiettivi prescelti, controllare che le loro azioni siano quelle giuste.
Se no, bisogna correggere la rotta con una campagna di informazione - o
ricominciare la sequenza appena descritta dal punto 1.
____________________________________________________
(1) Non è vero: la similitudine è sbagliata. Se lasci cadere un gatto da una
certa altezza, arriva a terra sempre sulle zampe e non si fa male. Come
fa? Nei brevi istanti in cui cade ruota rapidamente la coda in senso
orario. Quindi (per la conservazione del momento angolare) il gatto
stesso ruota in senso antiorario fin quando ha le zampe dirette verso il
basso. Dunque in questo caso è proprio il movimento della coda che
produce quello desiderato del gatto. (I gatti dell'isola di Man, che non
hanno coda, ottengono lo stesso risultato ruotando una zampa
posteriore.)
113
Quando l'obiettivo da raggiungere sia quello di evitare che siano
perpetrati certi reati, dovrebbe bastare la creazione di una rete informativa
che raccolga dati incriminanti. Se questi dati vengono messi a disposizione
dell'autorità giudiziaria, questa dovrebbe agire e risolvere il problema.
Sappiamo bene che molto spesso non è così.
Fra gli anni '50 e gli anni '80 accadeva che le inchieste cominciate
venissero insabbiate. Questo succedeva in particolare se le persone da
incriminare erano importanti e coperte da immunità parlamentare. I giudici
chiedevano decine di volte al parlamento autorizzazioni a procedere - senza
ottenerle mai. Molti uomini politici non sono mai stati condannati - perchè
non sono mai stati giudicati. Si presentavano candidi come ermellini e non
lo erano affatto. Un esempio noto era quello di Salvo Lima, deplorevole
amico di Giulio Andreotti, che fu ucciso da mafiosi per questioni interne.
In anni recenti, invece, imprenditori, affaristi e professionisti sono
entrati in politica e i loro abili avvocati sono riusciti a far rinviare le cause
fin quando sono decorsi i termini. Hanno accettato di non essere giudicati
invocando la decorrenza dei termini. Nessun innocente sceglierebbe questa
opzione. Quelli che ripetutamente fanno di tutto per approfittarne e non
essere giudicati, confermano la certezza della loro colpa - agli occhi degli
onesti.
Intanto l'immunità parlamentare è stata abolita. Mentre scrivo nel
2002 si discute un progetto di legge per ristabilirla - ma già alcuni reati
(come il falso in bilancio) di cui era accusato Berlusconi sono stati eliminati
dal Codice per voto del Parlamento. Gli avvocati che difendevano
Berlusconi in cause penali sono diventati ministri, sottosegretari o deputati
presidenti di commissioni giustizia incaricate di modificare le leggi a
protezione del loro cliente.
Nell'ultimo decennio del secolo scorso sembrava che in Italia tutto
stesse per cambiare in meglio. Non è stato così. Le idee sensate e i
programmi illuminati di singoli pensatori non hanno avuto seguito. Quello
che ci vuole - oltre alle idee buone e tempestive - è l'organizzazione. Dopo
la seconda guerra mondiale in Italia sono sorti parecchi movimenti nuovi.
Alla fine degli anni Quaranta l'Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini
ebbe fortuna iniziale notevole, ma vita breve In Francia ebbe fortuna
perfino il partito della bistecca di un certo Poujade. In Italia ci sono stati i
radicali, i verdi e poi le leghe. La Lega Lombarda ebbe una grossa
affermazione nelle elezioni del 1992. Poi è declinata e si è aggregata a
Forzitalia, Alleanza Nazionale, CCD, contribuendo nel 2001 al successo di
una destra disuniforme, autoritaria, disinformata e che non promuove (e
neanche menziona) gli obiettivi elencati nella prima pagina di questo
capitolo. La fortuna maggiore è stata registrata da Forza Italia che è riuscita
a diventare partito di maggioranza relativa. Gli ingredienti usati erano
diversi da quelli che suggerivo sopra. Hanno usato ottimi pubblicitari.
Hanno speso molti soldi. Hanno fatto promesse mirabolanti e irreali. Hanno
dato speranza a molti di ristabilire in altra forma strutture clientelari come
quelle craxiane. Soprattutto hanno trovato avversari privi di idee, di
114
programmi seri e di cultura.
La speranza è scarsa. Troppi italiani disinformati accettano per
buone affermazioni e programmi insussistenti o fatti per avvantaggiare
interessi privati. Per risalire questa triste china c'è da fare opera di cultura.
Non mi pare che ci siano gruppi intenzionati a fare qualcosa per
conseguire gli obiettivi elencati all'inizio del capitolo. Restano quasi solo le
azioni individuali. Per farle proliferare potremmo prendere esempio dai
russi che sotto la dittatura, e a livelli di reddito molto basso, hanno ottenuto
qualche risultato con i loro ciclostilati prodotti privatamente - i samizhdat.
Oggi mandare messaggi a centinaia o migliaia di persone è molto
più facile e molto meno dispendioso, usando Internet. Ma non tutti i
messaggi ricevuti vengono letti, nè hanno l'effetto desiderato dal mittente. I
canali diversi che possiamo usare sono tanti. Però oltre a scegliere un
canale, dobbiamo scegliere il formato dei messaggi e il loro contenuto.
La cosa più semplice è scrivere lettere ai giornali. Se sono brevi,
leggibili e interessanti, non è difficile che siano pubblicate, ma l'impatto è
scarso. La brevità impedisce di presentare argomenti complessi, completi e
convincenti. È raro che altri lettori o che gli opinionisti dei giornali ne
riprendano il contenuto e ne facciano un caso. Sono più efficaci gli accessi
regolari ai mezzi di comunicazione di massa: articoli di giornale, discorsi
alla radio e alla televisione e libri (almeno fin quando la stampa non sia
stata del tutto monopolizzata da imprenditori autocratici). Ma non tutti
hanno accesso a queste tribune. Converrà, allora, cercarsi alleati che questo
accesso lo abbiano già. E anche questo non risolve il problema.
Su questo punto posso portare un modesto contributo personale.
Da oltre 25 anni scrivo su quotidiani e settimanali, parlo occasionalmente
alla radio e alla televisione. Divulgo argomenti scientifici, tecnici ed
economici (è uno degli obiettivi elencati all'inizio del Capitolo). Da alcune
volte l'anno a parecchie volte al mese cerco di propagandare proprio quelle
cose giuste che ho elencato all'inizio del capitolo. Be': non ho avuto un
impatto degno di nota sull'opinione pubblica. Incontro spesso persone che
mi hanno letto o ascoltato e che mi dicono di approvarmi. Ma non ho
provato a creare un movimento, nè questo movimento si è creato da solo.
Ci vuole altro.
Che dovrebbe fare l'opposizione?
Non è solo questione di leadership. La sinistra ha mancanze più
profonde. Deve comunicare meglio, ma per comunicare bene bisogna aver
studiato cose importanti da dire. A sinistra non si parla quasi mai degli
obiettivi vitali che ho indicato. Certo a destra se ne parla anche meno.
Il centro-destra ha imparato bene a raccontare favole. Non propone
temi economici, ma solo mercantili. Parla di occupazione, e non dice se
vadano creati posti di lavoro da terrazziere, da usciere o altro. Parla di
libertà, intesa come licenza per i soliti noti. Non menziona scienza, ricerca,
alta tecnologia: propone solo vagamente "inglese e informatica", intesa
115
questa come l'abilità di cliccare su qualche icona. Non ama la cultura e
perpetua una televisione fatta di spettacolo, sport o peggio.
Non serve controbattere con virtuosismi verbali, né infilando
collane di astratti. Parliamo di fatti, progetti, concetti, intraprese. Miriamo
alla qualità dei viventi, non a una indefinita qualità della vita. Gli italiani
saranno più liberi quando sapranno di più. Allora avranno più scelte, che
capiscono bene. Si occuperanno di capire il mondo complesso di oggi invece di ripetere giaculatorie. Sapranno fare cose più difficili e utili e
quindi creeranno più ricchezza e guadagneranno di più. Cominciamo
dall'economia. Confrontiamoci: mettiamoci sul banco di prova. Sull'altro
banco mettiamo i finlandesi. Dopo la crisi del 1990-92 (dovuta a varie
cause fra cui la caduta dell'URSS) la crescita del prodotto interno lordo
finlandese dal 1993 al 2000 è stata del 40% (in media del 5% all'anno dal
1995 al 2000). Dal minimo del 1994 al 2001, l'occupazione è cresciuta del
15%. La ricetta? Innovazione e istruzione di alta qualità. Lo sanno tutti: la
Finlandia esporta telefoni cellulari e alta tecnologia telematica in tutto il
mondo. Come hanno fatto? La Nokia fino a gli anni '60 produceva carta,
cavi e stivali di gomma. Iniziò a produrre telefoni cellulari alla fine degli
anni '80. Allo stesso tempo in Finlandia sono stati creati 32 politecnici
privati di alta qualità - e c'erano già 20 università. Oggi in Finlandia ce n'è
una ogni 100.000 abitanti. In USA c'è una università ogni 80.000 abitanti in Italia una ogni 870.000 abitanti e non c'è nemmeno un politecnico
privato creato dall'industria.
Che fare? Offrire incentivi alle industre che li creino e istituirne di
statali nuovi e migliori. Gli uomini e le donne ci sono: mancano cultura e
imprese concrete. Si discute se modificare il numero di anni che si sta a
scuola. Non serve, se in quegli anni l'insegnamento è sciatto e antiquato.
Occorre creare università avanzate e assicurare la qualità dell'insegnamento.
Solo così i nuovi posti lavoro saranno di alto livello e giustamente
strapagati, produrranno alto valore aggiunto. Oggi in Italia sono vacanti
100.000 posti di lavoro per esperti telematici perché mancano le persone
addestrate a livello adeguato. Le scuole di qualità in tecnologie moderne
prosperano solo se ricerca e sviluppo sono innovativi e finanziati. Il centrodestra ha ridotto gli investimenti in ricerca. Il centro sinistra non li
incrementò quando era al governo: ora appare latitante se il suo programma
non ha ai primi posti azioni forti per controllare la qualità della ricerca e
triplicare gli investimenti.
Che dire sui drammi internazionali: povertà, ingiustizie e
conseguenti migrazioni verso l'Occidente e verso il Nord? Molti paesi
poveri hanno risorse naturali enormi (giacimenti, energia, agricoltura),
bloccate perchè mancano investimenti e cultura moderna. Non servono aiuti
di continua emergenza, ma grandi imprese internazionali per effettuare
interventi tecnici. Gli impatti socio-economici sono positivi, se con la
tecnologia, si esporta anche cultura. Ma per esportare cultura bisogna prima
averla. Il centro-destra non brilla: i tre canali TV della loro azienda
contengono cultura sotto forma di tracce (come dicono i chimici se la
116
percentuale è minima e non misurabile). Per contrasto la sinistra dovrebbe
mettere in programma un uso preminente di media e TV per innalzare la
cultura. Astrologi e maghi non vanno incriminati solo se rubano soldi ai
gonzi. Va rifiutato chi diffonde discorsi esoterici e scervellati di ogni tipo.
Alle vergognose azioni della destra sulla giustizia, non si risponde
solo stracciandosi le vesti. Vanno definiti interventi informatici per
aumentare l'efficienza e l'equità, ridurre i tempi e incastrare i colpevoli.
Infine bisogna tornare a programmi, servizi e assistenza sociale finanziati,
controllati e di buona qualità.
E' vitale che questi contenuti, obiettivi, azioni di cui nessuno parla
costituiscano la punta dei programmi del centro-sinistra. Se no, si distingue
troppo poco dalla destra. Avevo provato nel 1995 a esporre questi temi nel
mio libretto LA POLITICA E' UN'ALTRA COSA: QUESTA. Uscì da
Bompiani e rimase clandestino. E' più facile parlare di calcio, ma oltre certi
limiti l'irrilevanza conduce al declino e alla rovina.
In Italia non si innova
Possono essere ben vestiti. Possono mangiare bene. Possono
guidare belle auto. Ma non sono da invidiare i cittadini di una società in cui
questi agi siano diffusi e in cui, invece, siano rare le invenzioni, scarsa la
cultura, disprezzata la scienza. Per una società come questa appaiono
imminenti il declino e la perdita della prosperità. Convinto di questa verità,
Philippe Busquin, Commissario per la Ricerca dell’Unione Europea, ha
lanciato uno studio comparato su innovazione e ricerca nei 15 Paesi
dell'Unione Europea, in USA e in Giappone. Sapevamo già che USA e
Giappone sono avanti a noi. Eppure c'è da turbarsi gravemente, più che da
interessarsi soltanto, a leggere il testo e i dati pubblicati nel documento
"Verso un'area europea di ricerca - Cifre Chiave 2001" (disponibile su
www.cordis.lu/indicators ). Con l'aiuto degli istituti di statistica nazionali,
lo studio ha raccolto dati su 21 indicatori, misurandone sia i valori, sia i
tassi di variazione annuali.
Perchè questi confronti sono conturbanti per un italiano? Ma
perchè dimostrano che siamo nettamente alla retroguardia: quindi
incombono su di noi regressi e peggioramenti ulteriori. In breve: le variabili
che misurano successo, capacità, potenziale di innovazione e di ricerca,
hanno valori che sono circa la metà della media europea e un terzo di quelli
statunitensi. E' bene riportare la dolorosa lista che riassumo nella tabella a
pagina seguente.
Per ogni 1000 lavoratori in Europa ci sono 5,3 ricercatori - in Italia
solo 3,3 e questa proporzione cresce in Europa del 2,9% all'anno e in Italia
dello 0,3%. Ogni 100.000 giovani fra i 25 e i 34 anni, conseguono un
dottorato in scienza o tecnica 55 europei, e solo 17 italiani. Il nostro Paese
investe ogni anno in ricerca e sviluppo l'1% del PIL (livello che cresce del
2,6% all'anno) - contro una media europea dell'1,9% (che cresce del 3%
all'anno). Gli investimenti in ricerca e sviluppo dell'industria europea
rappresentano l'1,4% della produzione industriale totale (e la percentuale
117
cresce del 4,9% all'anno)- in Italia siamo allo 0,6% all'anno (e la
percentuale cresce solo del 3,8% all'anno). I governi europei dedicano alla
ricerca in media il 2% delle loro spese - e in Italia siamo all'1,36%. La
finanza europea investe in nuove imprese innovative solo lo 0,38% del PIL
(un terzo degli USA) - e la finanza italiana sta allo 0,13% del PIL (9 volte
meno degli USA!).
Situazione italiana nel 2001
N° ricercatori ogni 1000 lavoratori
Crescita annua % del numero precedente
Nuovi laureati in scienza e tecnica ogni 1000
cittadini fra 24 e 25 anni di età
Investimenti in ricerca e sviluppo /PIL
Crescita annua % del numero precedente
Investimenti in ricerca e sviluppo dell'
industria risp. a produzione industriale totale
Crescita annua % del numero precedente
Budget governativo di ricerca risp.al totale
Investimenti in nuove imprese innovative/PIL
Brevetti europei/ogni milione di popolazione
Brevetti USA/ogni milione di popolazione
N°lavori scientifici molto citati/ogni milione
di popolazione
rispetto
alla
media europea
0,62
0,1
rispetto
agli USA
0,4
0,048
0,3
0,52
0,86
0.34
0,38
0,46
0,42
0,77
0,68
0,34
0,48
0,4
0,28
0,46
0,32
0,08
0,5
0,09
0,58
0,36
Mi rendo ben conto che questa esposizione di cifre non è di amena
lettura, ma il mio intento non è fornire un testo brillante. Miro a suonare un
allarme che dovrebbe preoccupare tutti. Invece i politici, i giornalisti, i
saggisti, gli intellettuali italiani ignorano del tutto questi temi.
Non è solo questione di investimenti. E' vitale che la ricerca sia di
alta qualità. Quando lo è, produce innovazioni e queste vengono brevettate
nei diversi paesi, per accedere ai mercati. In media per ogni milione di
europei, i Paesi della Comunità ottengono ogni anno 125 brevetti in Europa
e 69 in USA. Per ogni milione di italiani noi otteniamo ogni anno 61
brevetti europei e 28 americani. Infine il valore delle pubblicazioni
scientifiche si valuta misurando quanto spesso vengono citate nei periodici
più qualificati. Quelli molto citati sono 31 all'anno e per milione di abitanti
in Europa e solo 18 in Italia.
Nessuno avanza piani per riguadagnare l'enorme ritardo che
abbiamo. E' una situazione che non implica solo minore prestigio. Peggiora
in prospettiva la bilancia dei pagamenti e la nostra prosperità, perché
saremo sempre più destinati ad importare prodotti ad alto contenuto
tecnologico e valore aggiunto, in cambio di esportazioni di prodotti a basso
valore aggiunto (anche se ben fatti, in nome del “made in Italy”). Su
tecnologia, sicurezza, salute, scienza e cultura assoggetta il nostro Paese a
decisioni vitali prese altrove. Impedisce ai nostri giovani l'accesso a
118
professionalità avanzate e a remunerazioni vantaggiose. Questa situazione
si migliora solo con tante scuole in cui la qualità dell'insegnamento sia alta
e controllata e inventando nuove imprese. Invece continuiamo a deteriorare
se non smettiamo di parlare in astratto di democrazia, mercato, efficienza,
imprenditorialità.
Intanto possiamo trovare modesta consolazione nel fatto che non
sfiguriamo davanti al Portogallo. Però anche questo raffronto sta
cambiando. Gli investimenti industriali in ricerca crescono in Portogallo del
12.2% all'anno (i nostri del 3,8%). Quelli nazionali in ricerca e sviluppo
crescono in Portogallo del 10% all'anno (i nostri del 2,6%). Il numero dei
ricercatori cresce in Portogallo del 7.6% all'anno (da noi dello 0,3%).
*
*
*
Ho prospettato quadri tristi per il nostro Paese. Sembrano indicare
un imminente scivolata verso il terzo mondo. Se ne potrebbe dedurre che i
piani positivi delineati all'inizio del capitolo siano irreali e impossibili da
mettere in pratica. Forse è così. Certo la maggioranza degli italiani ignora le
situazioni che ho descritto o non se ne interessa affatto.
Dove ci può condurre la via della ragione? Riflettiamo che al
tempo del fascismo le piazze erano piene di applausi per il dittatore, mezzo
colto, istrionico, roboante, divorziato dalla realtà, affetto da mania di
grandezza. L'opposizione non veniva capita dalla maggioranza, anche
quando era illuminata e generosa. A quel tempo operarono bene molti
italiani che produssero cultura matematica, fisica, letteraria, filosofica.
Trasmisero conoscenza e principi costruttivi ai giovani che poi ricostruirono
l'Italia dopo le distruzioni causate dalla guerra fascista.
Concludo: ciascuno di noi impari almeno una cosa al giorno - si
cambierà la vita. Induca altri a fare lo stesso: potremo cambiare il mondo lentamente.
119
C A P I T O L O 17
IL CONTROLLO DI QUALITÀ NELL'INDUSTRIA E
NELLA VITA PERSONALE
La qualità era la terza delle categorie elencate da Aristotele
nell'Organon (1). Era la seconda delle quattro categorie secondo Kant (2).
Era anche la caratteristica distintiva del barbiere di Siviglia. Già allora,
però, non si chiariva bene in che cosa consistesse la qualità del barbiere se fosse stato giudicato e premiato da una giuria, se fosse risultato il
preferito in un sondaggio d'opinione o se fosse solo una sua vanteria.
Oggi si parla molto di qualità, spesso in occasione di discorsi
sull'industria giapponese (come abbiamo visto nel Capitolo 15), ma troppo
spesso non si specifica a che cosa ci si voglia riferire.
I discorsi relativi sono spesso solo manifestazioni di desideri
oppure sbrasate pubblicitarie - quando a farli sono imprese poco serie.
Invece le aziende più serie già provvedono da decenni a controllare la
qualità dei loro prodotti. Esiste anche un Istituto Italiano del Marchio di
Qualità che controlla le procedure con cui le aziende garantiscono la qualità
dei loro prodotti. Dovremmo prestare attenzione al marchio di qualità
riportato sui prodotti approvati da quell'Istituto.
Vediamo, dunque, in che cosa consista il controllo di qualità
nell'industria. La qualità di un prodotto non è certo costituita dal suo
aspetto elegante. Non è certo confermata dal suo prezzo elevato. La qualità
è la caratteristica di un prodotto o di un servizio che li rende adatti a
ottenere il risultato voluto dall'utente finale. Un'automobile non è di
_________________________________________________
(1) Le categorie di Aristotele erano: sostanza, quantità, qualità, relazione,
luogo, tempo, situazione, possesso, azione, sofferenza.
(2) Le quattro categorie di Kant erano: quantità, qualità, relazione e
modalità.
120
buona qualità solo se la carrozzeria ha una bella linea e se i sedili sono
comodi (anche se queste caratteristiche sono desiderabili). Lo è se frena
senza sbandare, se accelera adeguatamente, se consuma poco, se i
comandi sono efficaci e mantengono la loro taratura, se le parti metalliche
sono trattate in modo da non arrugginirsi e non subire corrosioni, se nel
caso di uno scontro, protegge i passeggeri dall'impatto. Per controllare la
qualità di un'auto, dobbiamo fare due cose: leggere le caratteristiche
tecniche sul libretto di istruzioni valutando se rispondono ai requisiti
che richiediamo, e, quindi, controllare che queste specifiche del prodotto
corrispondano effettivamente a quelle effettive dell'auto.
In pratica le persone normali non eseguono questi controlli sui
prodotti che comprano. Pochi fra noi misurano che la potenza assorbita da
uno scaldabagno o da una stufa sia davvero di 1.200 Watt o che un
computer faccia davvero un miliardo di operazioni al secondo. Questi
controlli vengono fatti, però, dai clienti finali che abbiano notevoli capacità
tecniche - come è il caso di un'altra azienda industriale. In previsione
di questi controlli (e anche per evitare reclami e per farsi una buona fama)
le aziende produttrici eseguono loro stesse controlli accurati sui prodotti.
Il primo requisito di questi controlli è che devono essere fattuali,
cioè non basati su impressioni vaghe anche se vengono esternate da esperti.
Un primo controllo da fare su tutti i pezzi è quello dimensionale. Se le
dimensioni dei pezzi non rispettano le tolleranze di progetto, non è possibile
montarli correttamente o, anche se si montano, poi funzioneranno male.
La qualità, dunque, viene giudicata in base a misure - non solo
dimensionali, ma di molte altre caratteristiche. Per esempio, se
produciamo funi, una specifica importante riguarda il carico massimo che la
fune sostiene prima di rompersi. Se il valore di questo carico deve essere
al minimo di 500 kg, potremo misurare cinque campioni e li riterremo
accettabili se danno carichi di rottura di 512, 520, 525, 515 e 518 kg.
Avremmo ritenuto accettabile la partita di funi anche se i cinque
campioni avessero avuto carichi di rottura di 505, 530, 630, 570 e 600 kg.
Però la maggiore dispersione dei risultati può farci sorgere il dubbio che
qualche esemplare non raggiunga i 500 kg (1).
Se una misura indica che una caratteristica è fuori della
tolleranza ammessa, la cosa più semplice è scartare il prodotto che non
risponde alle norme. Talora, invece, lo si può modificare per riportarlo
entro i limiti ammessi. Cosa ancora più importante: si cerca di individuare
il difetto nel processo di fabbricazione responsabile della discrepanza
rispetto alle specifiche e si trova il modo di eliminarlo. Infine si controlla
che questo intervento abbia successo e che gli esemplari successivi non
presentino più il difetto riscontrato. Se il processo di produzione è
automatico, questo ciclo di feedback avviene senza intervento umano.
________________________________________________________
(1) Per chi sa di statistica, nel primo caso la media dei valori è 518 kg e la
deviazione standard è 4,4 kg , nel secondo caso la media è 567 kg e la
deviazione standard è 45.3 kg.
121
La discrepanza fra le misure effettuate e i valori di specifica produce un
segnale che ha effetto diretto sulle macchine di produzione in modo da
ridurre adeguatamente quella discrepanza.
La mancanza di qualità - cioè un'eccessiva diversità fra valori
misurati e valori di specifica - ha un costo. Se la qualità viene
recuperata semplicemente scartando gli esemplari non rispondenti alle
norme, il costo è dato dal numero di pezzi scartati moltiplicato per il costo
di produzione di ciascuno di essi. Se gli esemplari difettosi vengono
modificati per riportarli a norma, il costo è dato dal numero di pezzi
rilavorati moltiplicato per il costo unitario della modifica. Se il processo è
automatico, non ci devono essere pezzi scartati, nè modificati. Allora il
costo è quello di ammortamento delle apparecchiature di controllo e di
correzione automatica oltre al loro costo di esercizio.
Già da questa breve introduzione possiamo trarre qualche utile
insegnamento. La qualità che ci interessa controllare nella nostra vita
personale è quella delle nostre azioni - tenendo sempre d' occhio i risultati
effettivamente raggiunti.
Cominciamo dalle azioni che compiamo per il nostro lavoro. Se
lavoriamo per un'azienda, ci attenderemmo che le nostre prestazioni
lavorative fossero controllate dai nostri capi. Purtroppo talora questo non
avviene affatto. I nostri capi ci lodano o ci biasimano senza sapere quello
che facciamo o che non facciamo. Fanno male. Però ci conviene lostesso
controllarci da soli. Anzitutto perchè lavoreremo con maggiore
soddisfazione e poi perchè prima o poi qualcuno si accorgerà del fatto che
lavoriamo bene e questo potrà farci salire un gradino della scala aziendale.
Inoltre se in un'azienda si diffonde la tradizione all'autocontrollo e la
qualità del lavoro migliora, le sorti dell'azienda saranno migliori e questo,
in certa misura, giova anche ai dipendenti. Se lavoriamo in proprio, è ovvio
che ci conviene lavorare meglio per non sprecare le nostre risorse
personali e per fornire prodotti o servizi migliori ai nostri clienti.
Ma non è solo sul lavoro che ci conviene controllare la qualità
delle nostre azioni. Ci conviene sempre: nei rapporti personali e familiari,
nei modi in cui mangiamo, dormiamo, facciamo ginnastica, facciamo l'
amore, impariamo cose nuove, organizziamo il nostro tempo libero,
scegliamo le nostre letture, nei rapporti con gli enti e col fisco - in una
parola: in ogni nostra attività.
Mi limiterò qui a pochi esempi di applicazione dei concetti
industriali di qualità a queste attività personali che ho citato. È facile
immaginarne altri. Dicevamo nel Capitolo 13 che fa male mangiare troppo.
Per evitarlo, mangiando solo cose giuste in misura ragionevole, potremmo
chiedere consiglio a un dietologo. È più semplice pesarsi e confrontare
il nostro peso con quello standard. Qualche decennio fa la regola
comunemente accettata era che gli uomini dovessero pesare tanti
kilogrammi quanti sono i centimetri di cui la loro altezza supera il metro.
Le donne , invece, dovrebbero pesare tanti kilogrammi quanti sono i
centimetri di cui la loro altezza supera un metro e dieci. Non è una regola
122
sacra e immutabile, ma grosso modo funziona. Se, dunque, pesiamo più del
nostro standard, cominciamo a mangiare meno fino a quando dimagriamo
abbastanza. Se, poi, scendiamo di peso sotto lo standard, aggiustiamo il tiro
e mangiamo un po' di più.
Per quanto riguarda la ginnastica, dovremmo farne abbastanza da
ottenere un buon tono muscolare in ogni parte del corpo. Non dovremmo
farla troppo violenta per evitare di affaticare (e magari danneggiare) il
cuore. Non dovremmo farne troppa, tanto da perderci troppo tempo.
Sui modi in cui imparare cose nuove - controllando di impararle in
modo corretto ed efficace - ho scritto un libretto intero (COME
IMPARARE PIÙ COSE E VIVERE MEGLIO, Manuali Oscar Mondadori).
Per quanto riguarda i nostri rapporti con altri (anche con enti) c'è
da fare un'osservazione generale. Dobbiamo renderci conto del fatto che come tutti - probabilmente tendiamo a resistere al cambiamento. Questa
tendenza si riscontra anche nell'industria. Non è affatto vero che i dirigenti
industriali sanno cercare il profitto con astuzia infinita. Purtroppo l'
astuzia è disponibile in dosi limitate. Invece sembra che siano illimitate la
cocciutaggine e la resistenza al cambiamento della gente. Ci convinciamo
difficilmente dei nostri difetti (la cosa è proverbiale). Così diciamo spesso:
"Io continuo a fare il meglio che posso, secondo i miei criteri. Me li sono
formati in tanti anni di esperienza e, quindi, è molto probabile che siano
buoni. Se poi le cose non vanno bene, dipenderà dalla cattiva volontà degli
altri oppure da fattori casuali e imponderabili. Non c'è rimedio."
Questi punti di vista sono miopi. Usando il linguaggio del
controllo industriale di qualità, diciamo che non sono fattuali. Per esempio,
ci succede che i nostri rapporti con altre persone non diano i risultati che
speravamo. Ce ne accorgiamo perchè perdiamo molto tempo in discussioni
ripetute e inefficaci. Oppure ci accade di essere scontenti del contributo
delle persone con cui collaboriamo - mentre loro sono scontente del
nostro. Oppure - più in generale - vediamo le cose in modi opposti e non
riusciamo a trovare punti di vista comuni nemmeno dopo lunghi scambi
di vedute.
Be': in tutti questi casi dobbiamo chiederci se il difetto non stia
proprio nei nostri modi di comportarci. Per decidere se le cose stanno così,
dobbiamo fare esperimenti. Proviamo a comportarci in modi diversi e
vediamo se le cose vanno meglio. Mettiamo in pratica, cioè, un ciclo di
feedback simile a quello descritto a proposito del controllo di qualità
industriale. Può essere che anche questo non serva. Allora proprio come
avviene nella produzione industriale - può essere che le nostre misure non
siano affidabili. In un'officina meccanica non c'è speranza di produrre
pezzi le cui misure siano entro gli intervalli di tolleranza ammessi, se i
calibri con cui li misuriamo sono sballati.
Per misurare il nostro comportamento, purtroppo, non possiamo
adoperare strumenti di misura certificati da un apposito ufficio. I nostri
comportamenti sono processi così complessi che non possono essere
misurati affatto. Però, se il nostro giudizio globale (espresso in parole) è
123
inadeguato, faremo bene a chiedere il giudizio di qualcun altro. Nei casi
più semplici ci rivolgeremo a un amico o a un' amica che ci sembrino
sensibili e ragionevoli. Nei casi più complicati sarà meglio rivolgersi a
esperti - psicologi o psicoterapeuti. Qui bisogna stare attenti. Come nel
caso dei medici, ci sono parecchi psicologi e psicoterapeuti incompetenti
che, con le migliori intenzioni, ci faranno pagare alcune decine di euro
all'ora per darci consigli che poi si riveleranno insulsi o dannosi.
Non c'è una soluzione semplice a questo problema. Possiamo
chiedere referenze ad amici che consideriamo simili a noi. Possiamo
sperimentare se i primi consigli o le prime sedute con l' esperto ci aiutano
almeno un po'. Naturalmente possiamo analizzare le cose che ci dice l'
esperto e vedere se ci sembrano sensate. In generale è bene diffidare
degli esperti che parlano troppo in gergo - e non solo in campo
psicologico. C'è da dubitare che usino tanti termini tecnici dell'arte loro
per impressionarci e farsi accettare come oracoli o santoni. I veri esperti,
normalmente, riescono a parlare semplice.
In ogni caso non dobbiamo vergognarci se abbiamo bisogno
dell'aiuto o del consiglio di uno psicoterapeuta. Ne hanno avuto bisogno
persone migliori di noi. Però attenti a sceglierlo bravo - e attenti a non
pretendere che risolva i nostri problemi come per magia senza alcuna
nostra collaborazione e senza alcuno nostro sforzo per capire veramente
come stanno le cose.
L'arte del controllo di qualità ci può fornire altri suggerimenti e
altri principi utili. Vediamoli.
Un importante insegnamento concerne il numero di fattori (o di
elementi) da analizzare. Abbiamo ripetuto tante volte che la realtà intorno a
noi sta diventando continuamente sempre più complessa. Saremmo tentati
di dedurne che sono numerosi e tendono a diventare sempre più numerosi i
fattori che possono influire sulla qualità. Dunque ci attenderemmo di
doverne analizzare moltissimi - lavoro lungo e stressante. Invece
l'esperienza insegna che non è così. I fattori rilevanti possono anche essere
molti. Però basta considerarne pochissimi. Quelli vitali - che hanno un
grosso effetto sulla qualità - sono pochi. Poi ce ne sono moltissimi che,
tutti insieme, hanno un effetto molto minore del più importante. Questo,
ovviamente, lo considereremo per primo e con maggiore attenzione.
Senza attardarci a fare esempi tratti da tipi diversi di produzione
industriale, possiamo dire in generale che fra tutti i fattori che possono
influire negativamente sulla qualità in genere, ce ne sono cinque o sei da
cui dipendono fra il settanta e l'ottanta per cento di tutti i difetti
riscontrati. Poi ce ne saranno altri venti o trenta da cui dipende il resto.
Spesso il singolo fattore più influente è responsabile quasi della metà
dei difetti riscontrati.
La conclusione è ovvia. Conviene individuare i fattori più
importanti - quelli vitali - e concentrare gli sforzi su di essi. Il lavoro viene
semplificato e i benefici ottenuti sono massimi con il minimo costo (o
sforzo).
124
Come si applica questa considerazione alla nostra vita personale?
Bisogna agire al contrario di quanto ci viene suggerito dalla così detta
saggezza tradizionale. Un vecchio detto inglese propone: Take care of the
pennies and the pounds will take care of themselves. ("State attenti agli
euro e i milioni staranno attenti a se stessi"). Vuol dire, in generale, che,
se ci occupiamo dei piccoli dettagli, le cose grosse andranno sicuramente
bene. Be': è falso. Se perdiamo tempo a occuparci di minuzie, ciascuna
delle quali ha influenza minima sul nostro successo, perderemo di vista il
primo e il secondo fattore che, invece, per quel successo sono vitali. Ne
incontriamo esempi ogni giorno: il paranoide che non sopporta di vedere un
quadro appeso un po' storto e tiene la scrivania in ordine perfetto con tutti i
fogli paralleli ai bordi del tavolo, poi procrastina le decisioni importanti e
finisce i lavori fuori tempo massimo. È meglio trascurare i dettagli come
le matite ben temperate e la qualità della carta, ma tenere d'occhio i
cammini critici e rivedere i programmi in modo da assicurarci che stiamo
facendo le cose giuste al momento giusto.
Un discorso analogo vale per quanto riguarda i rapporti personali.
Le formule di cortesia con cui ci rivolgiamo a familiari, amici, collaboratori
o estranei hanno importanza non trascurabile. Però chi rispetta le forme e
poi non sa fare discorsi chiari col cuore in mano o non affronta apertamente
problemi spinosi, certo avrà rapporti personali insoddisfacenti.
I problemi di qualità che si incontrano nell'industria possono essere
sporadici oppure cronici. I primi si presentano in modo drammatico quando
ci si accorge all'improvviso di una situazione insoddisfacente. Si può
trattare di una caratteristica del prodotto che non aveva mai dato noie
prima e che (in mancanza di controlli che nessuno aveva pensato a
istituire) diventa insoddisfacente. Il rimedio al problema sporadico è
quello indicato all'inizio di questo capitolo: il ciclo di feedback che serve a
eliminare le discrepanze dopo averle constatate e misurate. Tipicamente la
soluzione consiste nell'istituire un nuovo tipo di controllo. I problemi
cronici, invece, sono striscianti. Per lungo tempo nessuno si rende conto
della loro esistenza. Solo un'analisi attenta, spesso fatta da personale nuovo,
rileva che un problema cronico esiste e suggerisce quale innovazione del
processo produttivo possa portare a eliminarlo.
Nella nostra vita personale le cose vanno in modo simile. Ci
accorgiamo subito della crisi sporadica e spesso riusciamo a superarla.
Invece non vediamo affatto i nostri problemi cronici. Ci siamo costruiti una
regola di vita, in lunghi anni o decenni, e continuiamo ad applicarla.
Nel controllo di problemi cronici relativi alla qualità di prodotti
industriali, un fattore vitale consiste nel convincere un certo numero di
persone del fatto che il problema cronico esiste davvero. Va convinto il
decisore dal quale dipende se l'innovazione che si profila come necessaria
sarà analizzata adeguatamente e poi sarà introdotta in pratica. Invece,
quando parliamo dei nostri problemi cronici personali, i decisori siamo noi
stessi. Dobbiamo usare l'introspezione - cioè guardare dentro noi stessi
(fare un esame di coscienza) per capire come stiamo funzionando davvero
125
e per progettare come potremmo funzionare invece. Abbiamo già detto
che, come tutti, tendiamo a resistere al cambiamento e a rifiutare le
critiche di qualsiasi provenienza. E questi atteggiamenti ci fanno stare male.
Ci impediscono di far succedere le cose che vorremmo far succedere.
Se proviamo ad analizzare perchè resistiamo al cambiamento, ci
accorgiamo spesso che la causa vera è la mancanza di immaginazione. Non
immaginiamo nemmeno che le cose potrebbero essere diverse. Non
immaginiamo nemmeno che potremmo avere certi successi - solo perchè
non li abbiamo mai avuti in passato. Così non abbiamo fiducia in noi stessi
e procediamo su vecchi binari che non ci portano in nessun posto.
Ora la probabilità di successo può essere più o meno alta a
seconda dell'obiettivo che ci poniamo. Certo è nulla se non proviamo a
cercare alcun successo. Dunque il primo rimedio per i nostri difetti cronici è
immaginare cose nuove da fare; persone da contattare, mentre non lo
abbiamo fatto finora; abilità che potremmo imparare; proposte che
potremmo avanzare in ambienti in cui non abbiamo mai circolato; piaceri
che potremmo derivare da attività che non abbiamo mai perseguito. Fra
queste attività possono essercene di lavorative che ci siamo abituati a
considerare pesanti e spiacevoli, mentre forse non lo sono affatto.
Gli atteggiamenti umani sono un fattore importante per assicurare
la qualità di prodotti e servizi (1). Chi è contento del proprio lavoro è più
adatto e pronto ad assicurare una qualità elevata. Douglas McGregor definì
nel 1960 due teorie contrapposte sui modi di far crescere produttività e
qualità del lavoro. Secondo la teoria X, i lavoratori sono pigri e odiano il
lavoro. Non c'è speranza che lo facciano meglio per motivazioni di ordine
superiore. L'unico modo per motivarli e far crescere produttività e qualità
delle loro prestazioni è premiarli se fanno bene e punirli se fanno male.
Secondo la teoria Y, invece, chi lavora è spinto in gran parte dal
desiderio di realizzare cose fatte bene e prova un gran gusto a estrinsecare
le proprie capacità e la propria inventiva. Lavora male se viene frustrato e
sottoposto a regole sbagliate. Dunque per ottenere prestazioni di alta
qualità bisogna organizzare bene il lavoro, eliminare le assurdità e
permettere ai singoli di essere creativi riconoscendo il loro apporto,
sfruttando le loro doti migliori e favorendo lo sviluppo di queste doti.
I manager industriali che credono nella teoria X sono quelli
antiquati, fiscali, burocratici, privi di immaginazione. È raro che abbiano
successi di lunga durata. Noi, che preferiamo la teoria Y nel lavoro
______________________________________________________
(1) In effetti le considerazioni più rilevanti per quanto riguarda la qualità
delle nostre azioni personali derivano più direttamente dalla pratica
relativa alla qualità dei servizi, piuttosto che dei prodotti. Però i criteri
che valgono per quest'ultimo fattore valgono anche per il primo.
Quando ci occupiamo di servizi naturalmente balzano in primo piano i
tempi di attesa, i contatti umani e altri fattori di soddisfazione collaterali
e difficili da definire.
126
industriale, faremo bene - naturalmente - ad applicarla anche a noi stessi.
Ecco che siamo arrivati per altra via alle stesse conclusioni raggiunte
nelle pagine precedenti.
Un fattore importante per assicurare la qualità dei prodotti e dei
servizi è la motivazione: il personale addetto deve avere ottime ragioni
per voler tenere alta la qualità. Sulla motivazione sono stati scritti volumi e
volumi. Oltre ai premi di produzione in denaro per chi lavora meglio, i
fattori della motivazione alla qualità sono:
il riconoscimento pubblico a chi ha ideato innovazioni che portano a
ottenere qualità migliore
la creazione di gruppi di lavoro affiatati ed efficaci i cui sforzi vengono
valutati ed, eventualmente, adottati rapidamente. Vedi quanto già detto
sui 'circoli di qualità ' giapponesi
la diffusione del concetto che una migliore qualità di prodotti e servizi
assicura all'azienda successo economico e una maggiore quota di
mercato. Lavorare per un'azienda prospera conviene ai dipendenti:
saranno pagati di più e il loro posto di lavoro sarà più sicuro
convincere i lavoratori che hanno convenienza a impegnarsi attivamente
nell'addestramento professionale e nella riqualificazione. Questi processi
sono una premessa necessaria all'ottenimento della qualità. D'altra parte
i lavoratori che li seguono trovano più facilmente altri lavori presso
altre aziende o in aree geografiche più gradevoli.
Questi fattori, dunque, vanno presentati ai dipendenti di un'azienda
perchè contribuiscano a migliorare le prestazioni dell'azienda stessa.
Quando consideriamo la nostra vita personale, non dovremmo avere
bisogno di incentivi, nè di convincimenti per migliorare le nostre
prestazioni. La motivazione personale a stare meglio - a essere meglio sembrerebbe dover essere forte per tutti. Però non è così. Molta gente non
aspira affatto a svolgere un lavoro più interessante e remunerativo. Non
aspira ad avere una vita più variata e stimolante. Vuole semplicemente
evitare grane e seccature - quindi cerca di evitare le responsabilità. Desidera
di fare il meno possibile - di stare in riposo.
Non è tanto strana questa tendenza. La maggioranza degli animali,
dopo che si è procurata da mangiare, che ha evitato i rischi più immediati,
che ha qualche rapporto sessuale, non fa quasi mai niente. Giocherella un
po' o sonnecchia. Dunque è difficile trovare argomenti convincenti per
indurre esseri umani atavicamente tendenti all'ozio a cambiare le loro
preferenze. C'è l'esortazione di Dante che ho riportato nel Capitolo 2 - ma
anche questa piace solo a chi è già convinto della sua giustezza. Si tratta di
tradizioni culturali che non si improvvisano. Quelli di noi che preferiscono
la teoria Y possono solo provare a diffondere le loro idee. Si tratta, di
nuovo, di offrire scelte alla gente. Gli abitanti delle cittadine turche che
vediamo seduti in lunghe file a fumare il narghilè, a bere il raki e a non fare
niente tutto il giorno, forse non hanno avuto scelta. Non immaginano che si
127
possa vivere diversamente. Qualcuno dovrebbe provare a dirgli che si può.
Naturalmente nei testi e nei manuali sul controllo della qualità industriale
troverete molti altri principi, ragionamenti e procedure, basate sulla
statistica e sulla ricerca operativa, per ottenere buoni risultati in ambiti in
cui gli obiettivi sono chiari (o facilmente chiaribili) e in cui ci sono
molte grandezze da misurare. Nella nostra vita personale gli obiettivi sono
spesso molteplici e complicati - e non possiamo misurare affatto i fattori più
rilevanti delle nostre azioni e dei loro risultati. Per questo non tento di
sforzare le analogie e di descrivere in maggiore dettaglio le analisi della
qualità industriale.
Negli ultimi anni si sta passando dal controllo della qualità al
concetto di qualità globale. Ce ne occupiamo nell'ultimo capitolo.
128
129
C A P I T O L O 18
LA MORALE NELL'INNOVAZIONE TECNOLOGICA
Il 28 gennaio 1986 lo shuttle Discovery esplose in volo. Fra i sette
astronauti morti nell'incidente c'era l'insegnante Christa McAuliffe. Non
era una specialista, ma una persona ordinaria. Era stata scelta per
simboleggiare l'impegno americano verso l'insegnamento e la sicurezza
dello shuttle. Quel giorno il presidente Reagan doveva pronunciare il suo
messaggio annuale sullo Stato dell'Unione. Secondo alcune voci, Reagan
aveva programmato uno scambio di battute via radio con Christa
McAuliffe. Per questa ragione il volo dello shuttle non avrebbe potuto
essere rimandato per nessun motivo (1). Un motivo di rimandarlo, però,
c'era: la temperatura a Cape Kennedy era sotto zero. Quel freddo toglieva
elasticità agli O-rings, i due grandi anelli di gomma di tenuta che dovevano
impedire la fuoriuscita dei gas caldi prodotti dal combustibile solido dei
due razzi propulsori ausiliari. Questo grave problema era ben noto. Però il
management della società Morton Thiokol, costruttrice di quella parte dello
shuttle, decise di non opporsi al lancio. Dopo il disastro fu nominata una
Commissione Presidenziale d'Inchiesta. Ai manager della Thiokol, chiamati
a testimoniare, il premio Nobel Richard Feynman (che già sospettava la
causa dell'incidente) chiese:
"Chi è il vostro migliore esperto sui sistemi di tenuta?"
Gli indicarono Roger Boisjoly, ingegnere meccanico, che sedeva
fra gli altri testimoni. Feynman gli chiese:
"Mr. Boisjoly, lei era d'accordo che il 28 gennaio fosse OK
procedere con il lancio?"
Boisjoly è un omone calvo dall'aspetto imponente. Rispose senza
esitare:
"Non ero affatto d'accordo. Dissi chiaramente che avevamo avuto
gravi problemi con gli O-rings anche a temperature di qualche grado sopra
lo zero. Il rischio era enorme."
_______________________________________________________
(1) Il 10 settembre 1992 il Presidente Bush ha nominato Stephen J.
McAuliffe, vedovo dell'insegnante-astronauta, al posto di Giudice
Distrettuale degli Stati Uniti nel New Hampshire.
130
La testimonianza di Boisjoly contribuì a chiarire le cause del
disastro. Però ebbe conseguenze disastrose per la sua carriera professionale.
Dapprima fu messo da parte e nel gennaio del 1987 fu licenziato. Citò in
giudizio la sua azienda, ma perse. I 'whistle-blowers' - quelli che
figurativamente suonano il fischietto per denunciare azioni od omissioni
rischiose dei propri datori di lavoro - hanno vita difficile e pochi diritti. Dal
1989 negli Stati Uniti esiste una legge che protegge solo gli impiegati
statali che suonino il fischietto. I tecnici che lavorano per l'industria
privata non sono protetti dal sistema legale. Se la loro testimonianza
permette al Governo Federale di recuperare addebiti eccessivi caricati da
un'azienda fornitrice su una fornitura, possono avere un premio fino al 25%
di quelle somme. Se, però, il recupero non avviene, l'impiegato privato che
ha suonato il fischietto non riceve premi e, in genere, viene licenziato in
tronco per scarso rendimento.
Questo problema è stato al centro di accesi dibattiti nell'ambito
delle società professionali statunitensi e internazionali, come l'Institute of
Electrical and Electronics Engineers. In Italia se ne parla poco. Sarà bene
affrontare l'argomento evitando sia le congiure del silenzio, sia le cacce
alle streghe. La questione è vitale. Le innovazioni tecnologiche cambiano i
modi in cui viaggiamo, comunichiamo, lavoriamo, usiamo il tempo libero.
Hanno effetti enormi, anche se meno ovvi, sull'uso delle risorse naturali,
sui grandi sistemi, sulla distribuzione della ricchezza, sugli investimenti,
sui rischi che corriamo e sulle scelte che possiamo o non possiamo
compiere. Le realtà umane e le grandezze economiche così messe in
gioco sono spesso molto maggiori di quelle dei prodotti o dei servizi
oggetto delle decisioni iniziali.
Quindi chi introduce innovazioni ha responsabilità vaste e
ramificate. Per fronteggiarle, i decisori devono saper riconoscere le grandi
tendenze socio-economiche e tecnologiche in atto e saperne prevedere gli
ulteriori sviluppi. Solo così potranno evitare scelte in controtendenza
votate all'insuccesso e implicanti distruzioni di ricchezza e di risorse
naturali ed umane. È tipico il caso dei piani di costruzione di nuove
acciaierie. Furono propugnati e mantenuti anche di fronte a una ovvia crisi
di sovraproduzione dell'acciaio. Così sono andate distrutte o sprecate
ricchezze notevoli. Per assolvere queste responsabilità, occorre ridefinire le
procedure per il calcolo dei bilanci costi/benefici. Questi, infatti, non
possono essere più redatti solo raffrontando i costi di costruzione e di
esercizio di nuove opere ai benefici degli utenti inizialmente previsti. È ben
noto ormai che si deve tenere conto anche dei costi e dei benefici indiretti
e di quelli sociali. Questi fattori vengono anche chiamati 'esternalità'.
Fra i benefici e i costi sociali vanno considerati gli impatti
ambientali. Questi, di nuovo, non riguardano solo gli abitanti del territorio
in cui sorgono le nuove opere o vengono offerti i nuovi servizi. Basta
pensare al disastro di Chernobyl che ha causato danni sensibili a migliaia
di kilometri da quella centrale.
131
Le responsabilità relative a impatti ambientali negativi non si
fronteggiano con buone intenzioni. Occorre una conoscenza approfondita
dei fatti e dei meccanismi complessi attraverso i quali interagiscono attività
umane e ambiente naturale. È noto che negli USA le leggi per la protezione
dell'aria e dell'acqua (Clean Air e Clean Water Acts) hanno sortito successi
notevoli. In alcuni luoghi, però, le sostanze inquinanti eliminate dall'aria e
dall'acqua sono state concentrate e raccolte in depositi mal realizzati. Così
hanno inquinato i terreni su cui insistevano fino a profondità notevoli e
mal note. Alcuni anni fa il Surgeon General degli Stati Uniti (carica grosso
modo corrispondente a quella di Direttore Generale del Ministero della
Sanità) dichiarò che il rischio ambientale più grave di quel paese era quello
dell'inquinamento dei suoli. Le conseguenze potrebbero essere disastrose e
inovviabili, se vengono degradate le falde acquifere profonde caratterizzate
da cicli di ricambio di molti anni.
La responsabilità morale dei pianificatori e dei progettisti non si
deve limitare ad evitare impatti ambientali negativi, ma si deve estendere
a progettarne di positivi. Ad esempio, è verosimile che l'inquinamento
dell'aria urbana dipenda in certa misura da disboscamenti effettuati anche
a decine di kilometri dalle città. Per migliorare la situazione, non basta
cercare di limitare le emissioni urbane di gas nocivi (automobili, impianti
di riscaldamento, industrie). È opportuno anche realizzare riforestazioni
sperimentali, che, poi, sono vantaggiose per molti altri motivi.
L'annullamento di ogni rischio è fine illusorio e improponibile,
anche perchè non possiamo investire nella prevenzione dei rischi somme
superiori a certi massimi. Per discutere i problemi della tecnologia e della
società, dobbiamo valutare i rapporti fra rischi corsi e benefici sperati. In
generale si sottovalutano i grandi rischi - sovrastimando quelli piccoli.
Quanto minore è un rischio, tanto più difficile è apprezzarlo per intuito
specie se conduce a eventi avversi che colpiscono ogni anno meno di una
persona ogni 100.000. I decisori pubblici e i legislatori seguono spesso
mode o criteri volatili. Pochi sanno, ad esempio, a che livelli si trovino i
rischi industriali e quanto continuino a ridursi. La tabella seguente mostra di
quanto sono calate, a parità di prodotto, le probabilità di morte per
incidenti sul lavoro in vari settori industriali negli USA.
Rischio diminuito
Settore
Probabilità di morte
nel 1950
nel 1970
dal 1950 al 1970 di
Miniere carbone
1,2
0,2/milione di tonn
6 volte
Cementifici
130
10/miliardo di tonn 13
Cave calcare, dolomite 240
50/miliardo di tonn 4,8
Cave di granito
800
50/miliardo di tonn 16
Miniere di ferro
450
75/miliardo di tonn 6
Miniere di rame
40
10/milione di tonn
4
" di piombo e zinco 35
17/milione di tonn
2
[Fonte: Crouch.E, Wilson,R. Risk/Benefit Analysis, Ballinger 1982]
132
I non esperti (il pubblico in generale) non apprezzano
correttamente i rischi e i modi di prevenirli (1). Spesso la percezione
soggettiva dei rischi rispecchia la realtà in modo distorto. Lo dimostra la
gamma delle somme unitarie investite negli USA per evitare ciascuna
morte dovuta ai seguenti tipi di rischio:
cancro
da 10.000 a 80.000 dollari
incidenti stradali da 20.000 a 400.000 dollari
radiazioni
da 3.600 a 200 milioni di dollari
Queste cifre indicano che si investono cifre enormi per ridurre
ancora rischi già bassi, come quello delle radiazioni nucleari nelle centrali
e nei centri di ricerca. Rispetto a queste sembrano inadeguati i
finanziamenti alla ricerca sul cancro, che uccide in USA 500.000 e in Italia
165.000 persone all'anno, con un andamento in crescita rispettivamente
verso asintoti di 1.400.000 e di 200.000. Più recentemente sembrano
squilibrati gli investimenti nella ricerca e nelle cure ai malati di AIDS.
Infatti le morti annue per AIDS sono attualmente diminuite a livelli di
circa 15.000 in USA e meno di 1.000 in Italia.
La prevenzione dei rischi implica attenzione a ogni sorta di aspetti
anche non tecnici. Sembra, ad esempio, che il disastro nella fabbrica della
Union Carbide in Bhopal, in cui per un rilascio di isocianato di metile, sono
state uccise 3000 persone e menomate 200.000, sia stato scatenato dal
sabotaggio di un dipendente cui non era stata data una promozione
sperata. Questa causa iniziale, poi, non venne neutralizzata dagli impianti
di sicurezza progettati o manutenuti in modo inadeguato.
Sulle responsabilità civili e penali si sono pronunciati o si
pronunceranno i tribunali, ma esiste una responsabilità morale almeno per
la cattiva gestione della manutenzione e dei rapporti con il personale.
Ogni impresa tecnologica, quindi, implica l'assunzione di responsabilità
globali. Non solo quelle relative al progetto, ai materiali, alla produzione,
all'informazione - ma anche a: gestione del personale e suo addestramento,
gestione economico-finanziaria (tale da assicurare risorse adeguate ai
programmi di controllo e pianificazione), istruzione e addestramento degli
utenti finali e del pubblico in genere, progettazione della transizione a
generazioni seguenti di prodotti e servizi, pianificazione della vita del
prodotto. Tutte queste prescrizioni - e altre ancora - fanno parte dei
programmi per il conseguimento della qualità globale. Come vedremo
meglio nell'ultimo capitolo, questi programmi, però, hanno aspetti più vasti.
Implicano aumenti di efficienza disseminati in ogni area e in ogni
________________________________________________________
(1) Chi teme ugualmente i rischi di incidenti stradali, di incendio, di
avvelenamento non sa che ogni anno su 100.000 italiani 17 muoiono per
cadute, 11 in incidenti di traffico e meno di uno per incendio o
avvelenamento.
133
momento dell'attività aziendale (impiego efficiente del tempo, chiarezza
delle comunicazioni e dei messaggi interni ed esterni, eliminazione degli
sprechi, riqualificazione periodica del personale, etc.)
Questi aspetti non devono essere curati per indulgere a una moda.
Sono elementi essenziali della cultura dell'azienda. Questa deve porsi il
fine primario di assicurare la propria continuata esistenza in condizioni
ottimali. Queste condizioni implicano l' ottimizzazione dei sistemi esterni
all' azienda. Da questa, infatti, deriva un più alto rendimento dell' azienda
stessa. A più lungo termine, però, si implica l'ottimizzazione della società
in generale. L'obiettivo è arduo da definire in modo univoco. Però gli sforzi
per definirlo e per raggiungerlo sono la sostanza stessa di ogni etica volta
a considerare l'innovazione tecnologica come uno strumento per conseguire
fini più complessi, se non più alti. Queste visioni integrate più civili si
potranno realizzare solo se saranno disponibili profitti adeguati. Non per
questo la cultura dell'azienda va identificata con la così detta (e troppo
spesso deprecata) 'logica del profitto'. Però la tendenza a realizzare prodotti
e servizi di alta qualità globale, sebbene implichi costi sensibili, sul medio
e lungo termine produce vantaggi economici notevoli. La non qualità ha
costi maggiori di quelli della qualità globale.
Secondo Adamo Smith, una mano invisibile regola i mercati
obbedendo ai meccanismi della domanda e dell'offerta. Le scelte
tecnologiche, dunque, sarebbero dettate dal mercato. È il mercato che rende
manifeste le preferenze degli individui per certi prodotti e servizi piuttosto
che per altri.
Questa visione, però, è riduttiva. Il pubblico non può scegliere
prodotti e servizi che non siano ancora in vendita o che siano troppo
sofisticati tanto che la maggioranza della gente non li capisce e non li
sfrutta appieno. È il caso di prodotti ad alta tecnologia sia nel settore del
mercato di consumo (uso individuale), sia nel settore dei grandi sistemi
(uso collettivo).
Se non si innalzano i livelli culturali medi, mancherà la domanda
di alta tecnologia. Nel caso di prodotti individuali, ad esempio informatici,
la maggioranza della popolazione non richiede prodotti e servizi che non
servono per le loro attività correnti. Nel caso dei sistemi - energetici,
informativi, di trasporto - accade che le soluzioni più avanzate non vengano
prescelte perchè i decisori non le capiscono o perchè vengono rifiutate
dalla pubblica opinione soggetta a disinformazione. Nella storia della
produzione di energia elettronucleare ne troviamo casi paradigmatici. In
Italia è stato fatto un referendum su questioni marginali di siti e di ricerca.
La prima domanda era se si dovessero compensare con soldi i comuni che
accettavano di ospitare centrali nucleari sul loro territorio. La seconda era
se dovesse essere il Parlamento, invece del CIPE a decidere i siti per le
nuove centrali nucleari. La terza era se l'Italia dovesse continuare a
contribuire a finanziare i programmi europei di ricerca sui reattori veloci
autofertilizzanti. Il risultato negativo del referendum viene ancora
interpretato falsamente come un rifiuto totale dell'energia da fissione.
134
In Austria un referendum sulla centrale di Zentendorf - già
costruita - decise di non farla mai funzionare. Negli Stati Uniti la
centrale nucleare di Shoreham a Long Island è un altro caso tipico. È
costata oltre 7.000 miliardi di lire. Però lo Stato di New York ha rifiutato
improvvisamente e inappellabilmente di approvare il piano di evacuazione
della regione in caso di grave incidente. Dunque la centrale, che
potrebbe generare in condizioni di estrema sicurezza una potenza elettrica
di 820 Megawatt - non ha mai prodotto un solo kWh utile e non funzionerà
mai. Lo Stato di New York l'ha ricomprata per 1 dollaro allo scopo di
smantellarla.
In se sarebbe stato un fine buono quello di investire risorse per
produrre energia elettrica utile a tanta gente. Ma non è stata una
conseguenza buona quella di investire risorse per 7.000 miliardi per poi
smantellare l'enorme oggetto prodotto. È stata una distruzione di ricchezza
- un peccato. Ne sono responsabili i progettisti, che non hanno valutato
abbastanza attentamente i processi decisionali contorti dello Stato di New
York. Ne è responsabile anche il Governatore dello Stato di New York
con i suoi consiglieri che sono stati disattenti nei quindici anni in cui la
centrale veniva progettata e costruita e riceveva tutte le autorizzazioni
ufficiali. E così con la loro decisione di non permettere l'entrata in funzione
della centrale hanno accollato allo Stato il grosso onere di smantellarla.
Rispetto al caso delle centrali di Zentendorf e di Shoreham, rifulge
l'abilità dei pianificatori italiani che non hanno mai completato la centrale
nucleare di Montalto di Castro. Almeno abbiamo speso un po' meno.
Il nucleare sicuro, invece, non è una leggenda. La strada tecnica
per conseguirlo è disponibile. Naturalmente deve essere sicuro ovunque: un
primo passo essenziale è decommissionare le vecchie centrali russe
inerentemente pericolose.
Intanto i mezzi di comunicazione di massa ospitano spesso
opinioni superficiali avverse all'idroelettrico - basate su certi ben noti
inconvenienti della diga di Asswan in Egitto. Poi si continuano a diffondere
timori infondati di cancri e leucemie causati dall'energia elettrica a bassa
frequenza (quella che porta l'energia nelle nostre case), visioni
catastrofiche dell'avvenire climatologico e una generale, gratuita avversione
verso ogni tecnologia.
Diffondere, invece, informazione corretta nella società è un
imperativo ineliminabile per gli innovatori tecnologici. È la via per
riportare ogni dibattito sulla innovazione tecnologica su temi reali e
concreti. Occorre anche propugnare livelli di decenza, di correttezza umana
e di cooperazione. Questa esigenza è particolarmente importante trattando
con paesi in via di sviluppo. La pretesa di proteggere le tradizioni e le
culture locali, spesso maschera un immobilismo colpevole e un
mantenimento dello status quo per cui in effetti si nega ogni scelta a
popolazioni arretrate che vengono obbligate a sopportare la ferocia,
l'avidità o l'arretratezza di dittatori pessimi.
135
A lungo termine non conviene accettare che si perpetuino tristi
situazioni di questo tipo. Comportarsi moralmente significa avere scelte più
vaste e differenziate e dare scelte più ampie e differenziate ai partner e ai
clienti nazionali e stranieri.
Chi progetta o gestisce tecnologia avanzata ha, dunque, doveri
più stringenti di quelli delle persone comuni. Se li dimentica, bisogna
ricordarglieli. Magari bisogna ricordarglieli suonando il fischietto.
Questi punti di vista sono ragionevoli. Non era ragionevole,
invece, la proposta del premio Nobel britannico Martin Ryle,
radioastronomo. Temeva tanto le applicazioni militari della scienza da
indurlo a lanciare lo slogan: "Stop Science Now" ("Fermiamo la scienza ora").
A me sembra bestiale la risoluzione di fermare la ricerca
scientifica. Non ha prodotto solo distruzioni. Ha allungato la vita di tanta
gente e l'ha fatta svolgere in condizioni più gradevoli. Soprattutto ha reso la
vita meritevole di essere vissuta a quelli di noi che - a livelli diversi hanno capito almeno qualcosa dei meccanismi dell'universo. Eppure è
inevitabile che la scienza - come ogni oggetto, come ogni ritrovato
umano - si possa usare in modi perversi. Per ridurre i rischi relativi, Primo
Levi scrisse queste parole di consiglio il 21 settembre 1986 (1) :
"Mi piacerebbe (e non mi pare impossibile nè assurdo) che in
tutte le facoltà scientifiche si insistesse a oltranza su un punto: ciò che
farai quando eserciterai la professione può essere utile per il genere
umano, o neutro, o nocivo. Non innamorarti di problemi sospetti. Nei
limiti che ti saranno concessi, cerca di conoscere il fine a cui il tuo
lavoro è diretto. Lo sappiamo, il mondo non è fatto solo di bianco e nero
e la tua decisione può essere probabilistica e difficile: ma accetterai di
studiare un nuovo medicamento, rifiuterai di formulare un gas nervino.
Che tu sia o no un credente, che tu sia o no un "patriota", se ti è concessa
una scelta non lasciarti sedurre dall'interesse materiale o intellettuale,
ma scegli entro il campo che può rendere meno doloroso e meno
pericoloso l'itinerario dei tuoi coetanei e dei tuoi posteri. Non nasconderti
dietro l'ipocrisia della scienza neutrale: sei abbastanza dotto da saper
valutare se dall'uovo che stai covando sguscerà una colomba o un cobra o
una chimera o magari nulla. Quanto alla ricerca di base, essa può e deve
proseguire: se l'abbandonassimo, tradiremmo la nostra natura e la nostra
nobiltà di fuscelli pensanti, e la specie umana non avrebbe più motivo di
esistere."
Questi ammonimenti di Primo Levi si rivolgono alla coscienza
di un singolo ricercatore. Va bene: c'è bisogno di questi messaggi. Però
dobbiamo aspettarci che qualche ricercatore abbia la coscienza distorta e si
impegni in ricerche mal concepite e dannose, a termine breve o lungo.
_________________________________
(1) "Terza Pagina", racconti e saggi di Primo Levi, ed. La Stampa, Torino,
1986
136
In particolare sono in corso accesi dibattiti sulla bioetica, che si
occupa di problemi come:
è opportuno o lecito modificare il DNA di piante e animali e
produrre varietà che in natura non esistevano? (Negli Stati Uniti è già
legalmente possibile brevettare nuove forme di vita)
è lecito fecondare in provetta ovuli umani con spermatozoi umani? Di
chi devono o possono essere queste cellule? Una volta avvenuta la
fecondazione, quale può essere la sorte degli embrioni: possono
essere usati per esperimenti - possono essere impiantati nell' utero di
chicchessia?
l'eutanasia può essere ammessa in qualche caso e con quali controlli
e garanzie? Dove sono situati i confini tra eutanasia e interruzione
nell'impiego di ausili tecnologici che tenevano in vita un essere
umano? È lecito usare macchine per tenere in vita un essere umano che
ha l'elettroencefalogramma piatto, che, cioè, somiglia più a un vegetale
che a un animale?
Possiamo immaginare facilmente che in questo settore qualcuno
riesca a produrre mostruosità e misfatti disumani. Suggerivo, qualche
pagina indietro, che bisogna suonare il fischietto per ricordare i suoi doveri
a chi gestisce tecnologia avanzata. Bisogna suonarlo anche per ricordare
agli scienziati insegnamenti simili a quelli citati di Primo Levi. La comunità
scientifica è già equipaggiata a questo scopo. I finanziamenti dei
programmi di ricerca vengono decisi da comitati scientifici in genere
competenti. Poi individuare e denunciare i colleghi che sbagliano o
imbrogliano è uno dei compiti degli scienziati. I loro tempi di reazione,
però, sono lenti. Prima di pubblicare un parere gli scienziati vogliono
essere sicuri che sia giusto e accertarsene prende tempo. Nel caso della
bioetica i rischi possono essere grandi e i tempi per i rimedi possono
essere minimi. Basta pensare all'eventuale produzione di virus pericolosi
per i quali non esistano cure. Per comportarsi moralmente, gli scienziati
dovranno reagire con prontezza sempre maggiore alle notizie di rischi
provocati da loro stessi o dai loro colleghi.
137
C A P I T O L O 19
ALTRUISMO E COOPERAZIONE
"Guidavo da ore per strade semideserte attraverso la campagna.
Mia moglie Karyn era addormentata accanto a me. Così un'auto ferma attirò
subito la mia attenzione. Accanto alla macchina c'era un uomo che mi
faceva cenni frenetici di fermarmi. Accostai a destra. Karyn si svegliò e
lanciò fuori uno sguardo incerto. L'uomo disse:
"Sono senza benzina. Mi può aiutare?"
Risposi:
"Non so. Ha un tubo di gomma?" Prima che l'uomo potesse
rispondere, Karyn mi sussurrò: "Ma non hai quella tanca mezza piena nel
bagagliaio? Dagliela. Serve più a lui che a noi."
Aveva ragione. Ce la portavamo dietro da qualche mese.
L'avevamo comprata per la falciatrice che tenevamo nella casa di
campagna - ma, poi, avevamo sempre rimandato la nostra vacanza. Scesi
dall'auto, presi la tanca e la porsi all'uomo. Mi ringraziò calorosamente.
Voleva pagarmela e chiese: "Quanti litri sono?" Risposi:
"Lasci perdere. Sono pochi. Li metta nel serbatoio e poi riempia
di nuovo la tanca. Se la porti dietro e la dia a qualcun altro che resta a
secco."
Lui accettò e ripartimmo subito. Parecchi mesi dopo successe a
noi di restare senza benzina. Il terzo automobilista che cercavo di fermare
ci offrì subito una tanca mezza piena. Ci disse che non voleva soldi.
L'aveva avuta in regalo da uno sconosciuto una volta che era rimasto a
secco anche lui. Karyn esclamò:
"Guarda! È la nostra vecchia tanca. La riconosco da
quell'ammaccatura!"
Lessi questa storia una trentina di anni fa fra le scenette di vita
americana su Selezione del Reader's Digest. L'aneddoto, con tutto il suo
ottimismo, non ci convince che il nostro altruismo verrà premiato così
prontamente. Anzi: la storia è diseducativa. Il bene che possiamo fare a
qualche automobilista imprevidente è troppo piccolo rispetto al grave
rischio che la tanca di benzina che ci portiamo dietro si incendi quando
138
veniamo tamponati. È giusta la legge che vieta di portarsi dietro carburante
in recipienti di fortuna.
Dunque l'altruismo non è sempre consigliabile. Nell'Appendice
illustro con un formalismo matematico rigoroso i casi in cui l'altruismo è
conveniente per tutti, i casi in cui è indifferente e quelli in cui deve essere
abbandonato a favore di strategie casuali, ma sapienti.
Vediamo, intanto, di classificare i comportamenti altruistici - a
prescindere dai consigli di amare il nostro prossimo, ai quali ho già
accennato nella prefazione. Abbiamo già visto che le regole fisse
conducono a conseguenza assurde. Dunque non è sempre male uccidere un
essere umano. Analogamente non è sempre opportuno beneficare altri
esseri umani, come abbiamo visto nel caso della tanca di benzina portata
nel bagagliaio che implica pericoli maggiori dei benefici sperati. Per
valutare in modo ragionevole le nostre scelte, vediamo quale sia la
situazione generale che si viene a creare in conseguenza di un'azione
altruistica. Un esempio di notevole attualità è quello degli aiuti
internazionali che vengono dati a paesi poverissimi del terzo mondo.
Provengono da programmi governativi ufficiali oppure da organizzazioni
private. A prima vista saremmo tentati di sostenere che gli aiuti ai paesi
poveri sono sempre opportuni. Perchè non dare una parte delle risorse per
noi superflue, a loro che muoiono di fame?
Sarebbe ragionevole e umano dare questi aiuti, se davvero
servissero ad alleviare carestie. Però accade spesso che le derrate
alimentari destinate a popolazioni stremate dalla fame, vengano
intercettate da predoni militari e barattate con armi. Queste, alla fine,
servono a uccidere proprio le popolazioni che dovevano essere salvate.
Anche se tutto questo non accade, l'invio di aiuti alimentari pianificati
male può far scendere i prezzi agricoli. Quindi vanno a zero i guadagni
degli agricoltori e la produzione locale di alimenti si annulla. Il paese
aiutato è ora incapace di sopravvivere senza gli aiuti che avrebbero
dovuto solo rimediare a una situazione d'emergenza.
Una volta capito bene il problema degli aiuti internazionali,
parlarne o raccogliere fondi per incrementarli non ci scarica più nemmeno
la coscienza. Come accennavo nel Capitolo 16, dobbiamo concentrarci
sull'organizzazione se vogliamo sortire risultati concreti. Le azioni
altruistiche, dunque, vanno bene se risolvono qualche situazione - sono
inutili se lasciano tutto come prima. Chi dà poche lire in elemosina o lavora
con gruppi di soccorso dei poveri, non fa niente di buono se dà per
scontato che i poveri resteranno sempre poveri.
Circa un miliardo di persone è alla fame nei paesi più poveri.
Questo problema ha dimensioni enormi e non si risolve con piccoli aiuti
dati senza un piano. Questi sono sintomi di un altruismo finto - inutile.
L'altruismo vero deve raggiungere risultati concreti e importanti.
Un esempio di un vero progetto altruistico è il sistema
TRANSAQUA. Era un'idea di BONIFICA, una società di ingegneria
italiana (che subì gravi traversie e che è stata dissolta). Si trattava di un
139
canale navigabile lungo 2.400 km, che dai pressi del lago Tanganika,
avrebbe dovuto procedere verso Nord, tagliare gli affluenti di destra del
fiume Zaire, e giungere fino allo spartiacque con il bacino del Chari-Ciad.
Il canale, largo 100 metri e profondo 25, avrebbe dovuto portare nel fiume
Chari e quindi nel lago Ciad 100 miliardi di metri cubi d'acqua all'anno,
rinverdendo il Sahel.
Occorre una grande impresa come questa per rimediare
all'esplosione della popolazione (che oggi in Africa raddoppia ogni 23
anni), alla metereologia avversa e alla conseguente carestia. Grandi
estensioni di terreno in Africa centrale non si possono coltivare, perchè poi
non si possono trasportare i prodotti fino ai centri di consumo. Il canale
Transaqua avrebbe potuto risolvere questo problema, creando una via di
trasporto Est Ovest e permettendo di coltivare 6 milioni di ettari nello
Zaire, nella Repubblica Centro Africana, in Ciad, Niger, Camerun e
Nigeria. Ora nessuno ne parla più.
Non basta che le grandi imprese tecniche siano fattibili, nè che gli
impatti ambientali futuri vengano valutati accuratamente, nè che alcuni
paesi industrializzati siano interessati al progetto. Le imprese di queste
dimensioni devono esser decise e realizzate con lo sforzo comune almeno
di tutti paesi europei e con accordi fra i paesi africani relativi alla
ripartizione di oneri e benefici. Poi esse vanno analizzate in un quadro
sistemico globale che tenga conto dei contributi scientifici di naturalisti,
etologi, idrologi, climatologi, geotecnici. Dovrà essere istituito un bilancio
dei benefici e dei rischi.
Sono entrato in tutti questi dettagli solo per dare un'idea di quanto
siano grandi e complicati i problemi da affrontare, se vogliamo essere
altruisti verso gli esseri umani più poveri del mondo. Per non fermarci a
velleitarie buone intenzioni, dobbiamo studiare tutti i fattori della situazione
e poi decidere come fare a sortire effetti concreti. Questo ormai significa
necessariamente occuparsi di politica o, quanto meno, prendere parte
attiva alle iniziative di associazioni professionali o culturali.
Vediamo come si giunga a conclusioni simili partendo da un
diverso concetto di altruismo - inteso come una regola di vita diretta a
beneficare i nostri concittadini in generale. Mettiamo in pratica questa
regola di vita se facciamo il nostro lavoro in modo da soddisfare a
dismisura le clausole (magari tacite) del contratto che ci lega al nostro
datore di lavoro o al nostro cliente o al pubblico (se lavoriamo per un ente
o per un ministero). In questi casi non ci aspettiamo gratitudine - non ci
aspettiamo niente dalle persone a cui diamo più di quanto si aspettano.
Forse gli diamo anche più di quanto sarebbe giusto: ma chi stabilisce cosa
sia giusto - quale debba essere il tasso di scambio fra opera e remunerazione
- se non la tradizione che stiamo cercando di stabilire?
Agendo secondo questa regola di altruismo, tendiamo a
raggiungere una situazione in cui tutti danno di più, tutti sono altruisti.
Dunque si vive meglio. L'ambiente sociale è fatto di qualità umana più
140
alta. Si perde poco tempo. Si distrugge poca ricchezza. A parità di ogni
altra condizione, la società è più sicura, più stabile, più prospera.
In una situazione come quella descritta, l' altruismo si esplica
anche pagando correttamente le tasse. Se tutti le pagano, sono disponibili
maggiori risorse alla comunità per organizzare e gestire: istruzione,
cultura, lavori pubblici, salute, ambiente, giustizia, difesa, sicurezza,
trasporti. Però devono essere soddisfatte due condizioni perchè queste
cose accadano davvero. La prima è che i soldi delle tasse siano usati
effettivamente per pagare servizi pubblici. Se, invece, quelli che dovrebbero
spenderli o investirli oculatamente ne rubano troppi, chi paga le tasse
avvantaggia solo questi amministratori infedeli e non la comunità. La
seconda condizione è che le tasse siano pagate dalla grande maggioranza
dei contribuenti. Se non è così, la cosa pubblica dispone di risorse che
stanno sotto una soglia minima. La situazione è disastrosa per tutti, ma è
peggio per chi paga le tasse scrupolosamente.
A questo punto, di nuovo, dobbiamo chiederci come fare a
organizzare le cose in modo che funzionino bene in generale e sul lungo
periodo. Come facciamo a essere sicuri di non essere fra i pochissimi che
pagano le tasse? Un primo provvedimento è quello di esigere i documenti
fiscali giusti dai nostri fornitori e di denunciare chi non li rilascia.
Insisteremo per avere la ricevuta fiscale nei ristoranti e nei negozi.
Insisteremo per avere la ricevuta dai medici: non ci costa niente e possiamo
detrarre la spesa relativa dal nostro reddito prima di assoggettarlo a
imposta. Alcuni luminari della scienza medica (per fortuna rari nella mia
esperienza) rifiutano di rilasciare ricevuta oppure propongono di redigerla
per un quarto oppure un quinto dell'importo vero. Molti pazienti non
protestano, temendo di essere curati peggio. Invece questi tali vanno
denunciati alla Finanza - magari alla fine della cura.
La cosa è meno semplice con altri professionisti a cui ci
rivolgiamo: avvocati, fiscalisti, geometri, ingegneri. Infatti, se questi ci
rilasciano fattura, paghiamo il 20 % in più per l' IVA che è a nostro carico.
Ci converrebbe aiutarli a evadere la tassa. Ma ci conviene davvero o
solo a breve termine? Ci conviene solo a breve termine. Infatti, se troppi
professionisti non pagano le imposte, lo Stato ha entrate troppo basse e
alla fine il governo aumenterà le imposte sul nostro reddito - ma non su
quello dei professionisti evasori, che continuano a evadere. Allora sono i
poteri pubblici che devono vigilare sui professionisti e sui loro clienti. Non
è difficile, purchè non si cerchi di inventare sistemi di controllo sbagliati.
Fra questi c' è il ricorso al reddito minimo, introdotto in Italia verso il
1992. Dovrebbe essere applicato a lavoratori autonomi e commercianti, i
quali devono dichiarare un reddito superiore a un certo minimo e così
ricevono la garanzia che non saranno sottoposti a indagini. Il metodo è
ovviamente ingiusto per chi effettivamente ha guadagnato meno del
minimo, magari a causa di una malattia. Chi guadagna più del minimo,
invece, è indotto in tentazione: ha la licenza di evadere.
141
Invece di ricorrere a questi espedienti peregrini, è meglio copiare
gli inglesi. In Inghilterra tutti i professionisti e tutti i commercianti devono
far controllare i loro libri contabili al fisco una volta l'anno. È un controllo
vero, non si tratta solo di far bollare le pagine del registro. Inoltre un
revisore contabile autorizzato deve certificare che i registri sono tenuti
correttamente e che rispecchiano la realtà. Se, poi, il fisco scopre che non
è così, il revisore contabile perde la licenza e non può più lavorare.
(Incidentalmente in Inghilterra il fisco può controllare anche i movimenti
sui conti bancari dei contribuenti. Ed è un reato avere un conto in banca
senza averne comunicato il numero al fisco). Torniamo così alle azioni di
portata nazionale. Non basta e non serve che manifestiamo il nostro
altruismo col pagare le tasse, se non facciamo quanto è necessario per far
pagare le tasse a tutti. Questo implica che dobbiamo occuparci di politica
e fare in modo che al governo locale (Comuni, Province, Regioni) e al
governo centrale (attraverso il Parlamento e il Senato) vadano persone
oneste, sensate, competenti ed energiche.
Possiamo estendere questi concetti generali che riguardano grandi
numeri di persone, anche all'altruismo verso singoli individui. Se ci siamo
convinti che la cosa più importante sono i risultati, faremo bene ad aiutare
qualcuno se il nostro aiuto serve a fargli passare il guado. Se, invece, serve
solo a farlo stare un po' meno peggio mentre rimane a mollo nel guado,
l'aiuto non serve. Il nostro beneficato verrà portato via nei gorghi della
prossima piena improvvisa del fiume. Non potremo stare dietro a tutti
quelli che potranno avere bisogno d'aiuto. Dunque l'aiuto migliore che
possiamo dare è quello di insegnare a sbrogliarsela. Per cavarsela la gente
non ha bisogno solo di regole di comportamento: gli serve anche una
conoscenza del mondo che sia la più vasta possibile. Per poter aiutare gli
altri ad acquistarla, prima dobbiamo averla acquistata noi. Ma questo è
un concetto che ho illustrato già varie volte in queste pagine.
E che cosa dobbiamo fare quando le risorse sono tanto scarse che
alcuni dovranno farne a meno del tutto affinchè almeno qualcuno ne possa
godere in modo significativo? Bisogna ricorrere al razionamento - e a un
razionamento ingiusto: non poco per tutti, ma poco -- e solo per alcuni.
Un esempio è quello delle opere d'arte. Se tutti vanno a visitarle le possono
distruggere poco a poco con il loro passaggio o con la loro sola presenza.
Affreschi e pitture rupestri che si trovano in luoghi chiusi, possono essere
danneggiati per il solo fatto che ogni giorno ci respirano accanto grandi
masse di persone, emettendo vapore d'acqua e anidride carbonica. Stanno
sparendo dai muri della basilica sotterranea di San Clemente a Roma gli
affreschi che contengono, fra l'altro, la più antica frase scritta in italiano
(1). Sono in grave pericolo le pitture rupestri di Altamira in Spagna e di
Lascaux in Francia, che sono fra le più antiche opere d'arte del
___________________________________________
(1) C' è scritto: FACITE DERETO CO LO PALO - TRAITE
CARVONCELLE - TRAITE, FILI DE LE PUTE - ALBERTEL TRAI.
142
mondo. È ovvio che cosa si debba fare. Queste opere d'arte in pericolo
devono essere protette, se possibile. Altrimenti potranno essere visitate
solo da pochi eletti: gli archeologi e gli storici dell'arte che, vedendole da
vicino, le apprezzeranno meglio di quanto possa fare la gente comune. In
conseguenza potranno concepire idee e concetti sull'arte e sulla sua
evoluzione che, sperabilmente, ci illumineranno tutti. Intanto i non
specialisti potranno visitare copie degli originali - e non si accorgeranno
nemmeno della differenza.
Lo stesso problema si ripresenta quando si tratti di bellezze
naturali. Mi piacerebbe essere il solo a godere di una vasta spiaggia deserta
per kilometri o di una foresta in cui nessun essere umano ha mai
messo piede. Ad alcuni di noi piacerebbe essere i primi, o fra i
pochissmi, a entrare in contatto con rappresentanti di civiltà primitive.
Poi succede, invece, che quelli che ci entrano in contatto provano a farli
fuori - come succede con le tribù che abitano foresta amazzonica e come
è successo tante altre volte nella storia del mondo. Se anche non si
verificano questi stermini, il turismo di massa cambia il carattere delle
bellezze naturali incontaminate. È bene proteggerle ragionevolmente.
Nel 1992 una nuova iniziativa a questi fini è stata presa dal
Touring Club Italiano e approvata dalla Alliance Internationale de
Tourisme. È stato formato un Comitato Etico Internazionale Turismo e
Ambiente, che è stato incaricato di redigere una Carta sull' etica del
turismo e dell'ambiente. La Carta riconosce il diritto alla mobilità della
gente, desiderosa di distendersi, di comunicare, di acquisire nuove
conoscenze. Stabilisce, però, che il turismo deve rispettare l'ambiente,
la società e l' economia delle aree visitate. Per controllare che questo
avvenga, dovrà essere fatto un inventario delle risorse naturali, culturali
e monumentali di ogni area, stabilendo regole e limiti da imporre al
turismo. Solo così potremo assicurarci che i beni culturali e naturali
potranno essere goduti anche dalle generazioni future. L'altruismo,
dunque, non si deve limitare agli esseri umani viventi oggi. L'idea della
carta etica del turismo è buona. Potrà essere avversata solo da chi la veda
come un attentato di burocrati alla libertà individuale. Parecchi anni fa
chiunque poteva calcare le grandi pietre bianche che formano il pavimento
del Partenone. Oggi non è più permesso: il grande tempio ad Atena si può
guardare solo dall'esterno fino a quando, forse, saranno installate all'interno
passerelle di protezione. Certo se ne ottengono visioni meno suggestive.
Però l'alternativa sarebbe quella di vederlo consumare lentamente dalle
scarpe di milioni di turisti.
Questo capitolo è piuttosto disordinato. Ho parlato di tante cose
diverse sotto il titolo dell'altruismo: dai piaceri che è bene fare o non fare
agli altri, ai modi di organizzare la società e di aiutare esseri umani
poverissimi, lontani da noi che non abbiamo mai visto, dal pagamento delle
tasse alla protezione di bellezze naturali e monumenti. In effetti non è
disordine. È un modo di corroborare le norme, di spiegare perchè servono.
143
A me sembra un passo avanti notevole rispetto al consiglio di amare il
nostro prossimo come noi stessi.
Marco Aurelio Antonino nei suoi ricordi suggerisce più e più volte
di comportarsi in modo altruistico. Dice ad esempio:
"Non concepire le cose come le giudica o come vorrebbe che tu
le concepissi chi ti offende, ma riguardale quali sono effettivamente".
"Non comportarti verso chi è disumano, come lui si comporta
verso gli altri."
"È proprio dell'uomo beneficare i propri simili, disprezzare gli
impulsi dei propri sensi e contemplare la natura universale."
"La natura universale ha creato gli esseri ragionevoli perchè
possano aiutarsi gli uni con gli altri secondo i rispettivi meriti e non recarsi
mai danno."
"Se ho fatto qualcosa di utile per la società, ho giovato a me
stesso."
Sono belle espressioni, ma come la norma sull'amare il prossimo,
sono gratuite e non reggono all'obiezione:
"E perchè dovrei comportarmi così?"
Dopo averle lette uno riflette, però, che quando i confini
dell'Impero erano minacciati dai Parti, dagli Armeni, dai Marcomanni, dagli
Alani, dai Quadi, dai Daci, dai Sarmati, Marco Aurelio non perdeva tempo.
Partiva con il suo esercito e, in genere, li batteva sanguinosamente. Vuol
dire che non credeva proprio che dovessimo tutti beneficare sempre i
nostri simili. Credeva che la difesa dell'Impero fosse più importante, che i
Romani fossero uomini da curare e i barbari no.
Possiamo non essere d'accordo col razzismo dell'imperatore
filosofo. Però il confronto fra le sue parole e le sue azioni ci ricorda che le
priorità dobbiamo fissarcele da soli magari dopo avere riletto il capitolo 2.
144
145
C A P I T O L O 20
LA QUALITÀ GLOBALE: UN GRAAL DI
PERFEZIONE IRRAGGIUNGIBILE, TEMPERATO
DAL BUON SENSO
Abbiamo discusso finora vari motivi per comportarci meglio e
parecchi modi per definire che cosa sia meglio e per capire come
raggiungere questo fine. Ma perchè dovremmo tendere solo a comportarci
un po' meglio? Perchè non tendere all'ottimo - alla perfezione?"
Per rispondere a queste domande, oltre che nel ragionamento
potremmo cercare ispirazione, come già abbiamo fatto, nel Talmud oppure
nella teoria o nella pratica dell'ingegneria e del management industriale.
Il Talmud parla di perfezione, ma, prevedibilmente, la considera
propria di Dio e la identifica con la santità. Il Talmud ci esorta a cercare di
imitare Dio. Però ci avvisa subito che la perfezione di Dio non è
raggiungibile da nessun essere umano. Purtroppo non possiamo utilizzare
questi insegnamenti. Il nostro intento è pragmatico, ma, come ho già detto
varie volte, non è certo religioso e tanto meno confessionale. Dall'industria,
invece, possiamo di nuovo trarre qualche insegnamento. Negli ultimi anni
si sta affermando nelle industrie e nelle aziende di servizi di tutti i paesi
avanzati un movimento verso la qualità globale o totale. Ne ho già
accennato a proposito della moralità nella innovazione tecnologica. Qui
cerco di precisare la questione e di dedurre dalla pratica industriale
conseguenze utili per governare le nostre azioni personali.
La qualità globale è un concetto complesso - come l'intelligenza
umana, vano sperare di misurarli con un solo numero (come alcuni hanno
cercato di fare con il quoziente di intelligenza).
Esperti di management e operatori provenienti dal settore
amministrativo hanno suggerito che i libri contabili dovrebbero rispecchiare
la qualità globale - se questa informa davvero l'attività di un'azienda. Se
sono di alta qualità: i prodotti, i servizi, la pianificazione, la gestione, le
relazioni esterne, l'assistenza ai clienti e così via, questo fatto dovrebbe
influire favorevolmente sui risultati economici.
Potremmo, allora esaminare tutta una serie di indicatori aziendali.
146
Fra questi: il profitto netto dopo le tasse (la 'bottom line', di cui abbiamo
già parlato), il flusso di cassa ('cash flow'), il credito verso i clienti
(valutando anche quanto rapidamente tendono a pagare), il valore degli
immobili in proprietà, il conto in banca, le vendite. Oltre a questi fattori
che sono registrati nei libri contabili, occorrerà analizzare anche le
tendenze: della fetta di mercato che l'azienda si è assicurata, della velocità
con cui i dipendenti ruotano (cioè lasciano l'azienda o cercano impiego
presso di essa), delle innovazioni tecnologiche introdotte. Tutti questi sono
elementi interessanti, ma non bastano. Perchè?
Una prima ragione è che molti di questi indicatori possono essere
positivi per cause che hanno poco a che fare con la qualità dell'attività
aziendale. Possono essere influenzati da colpi di fortuna. Per esempio, può
accadere che si affermi una nuova moda proprio per qualche prodotto che
l'azienda aveva accumulato in magazzino in grande quantità e che non
vendeva da anni. Oppure il più agguerrito concorrente commette errori
gravissimi o fallisce o ha la fabbrica distrutta da un incendio.
Ma anche quando quegli indicatori sono resi positivi proprio dalla
qualità aziendale essi non ci suggeriscono gli interventi da attuare per
migliorare la situazione. Servono, dunque, analisi più accurate. La qualità
globale può essere definita solo con criteri sistemici mediante misure di
efficacia e analisi comparative e - certo - effettuando controlli di qualità
come quelli di cui abbiamo parlato nel Capitolo 17.
Nell'ambito di un'azienda, dunque, la qualità dovrà essere ottenuta
cercando di ottimizzare:
1. la pianificazione - per generare servizi e prodotti del tipo richiesto e
nelle quantità richieste
2. i progetti - per definire prodotti che soddisfino gli utenti finali
3. la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie
4. la scelta dei materiali
5. i metodi di produzione per realizzare i prodotti al minimo costo e
seguendo fedelmente il progetto
6. l'informazione ai clienti su prodotti e servizi in modo che li scelgano e,
infine, li usino nel modo migliore
7. il servizio ai prodotti (manutenzione, rete di ricambi, consulenza ai
clienti)
8. la transizione dai prodotti attuali ai successivi per evitare interruzioni
del servizio, incompatibilità, guai dovuti a malintesi o difficoltà nell'uso
dei nuovi prodotti sia pur conseguenti a loro migliorate prestazioni
9. i modi di disporre dei prodotti vecchi quando sono giunti al termine
della loro vita utile (riciclaggio che eviti danni all' ambiente)
10. addestramento del personale affinchè raggiunga i fini sopra citati,
suggerendo ulteriori migliorie ed eliminando difficoltà ai clienti
11. buona organizzazione del lavoro (secondo la teoria Y), curando anche i
rapporti gerarchici e sindacali per evitare inconvenienti agli utenti finali.
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Questa lista è abbastanza imponente. Ci piacerebbe che tutte le
aziende pubbliche e private con cui abbiamo a che fare, si proponessero
tutti questi fini. La lista ci sembra completa. Però, se ci chiediamo:
"Abbiamo considerato tutti i fattori che possono incidere sulla
qualità dei nostri prodotti o dei nostri servizi?"
La risposta deve essere: no. Può rispondere 'si' solo chi sia dotato
di sapienza e capacità di previsione infinite, ma nessuno ha queste doti. E
vediamo subito che cosa possiamo aggiungere a questa lista. (il compito
non finisce mai).
Un fattore importante è l'impatto ambientale. Ne ho parlato nei
Capitoli 13 e 18 e nel punto 9 precedente, ma deve essere esaminata da
questo punto di vista ogni fase dell'attività di un'azienda: produzione,
manutenzione, impiego finale dei prodotti, realizzazione di fabbricati,
dislocazione di luoghi di lavoro e di nuovi insediamenti.
Un secondo fattore importante è costituito dai rischi sistemici.
Questi vengono corsi quando la stessa complessità di un grande sistema
tecnologico rende difficile prevedere concatenazioni di eventi avversi che
possono giungere a bloccare gran parte delle funzioni del sistema (1). Tali
eventi si verificano - in un complicato quadro di probabilità - quando guasti,
sovraccarichi o funzionamenti degeneri di un sistema tecnologico
influiscono negativamente sul funzionamento di un altro sistema adiacente.
È raro che si possa attribuire con sicurezza a un individuo o a un'azienda
la responsabilità di una crisi sistemica. Però ugualmente gli esperti e i
decisori devono cercare soluzioni a questo problema. Ogni azienda può
conseguire qualità globale solo in un ambiente sistemico resiliente e in una
società in cui la tendenza all'ottimizzazione sia generale.
Un altro elemento importante è la cultura d'azienda. Questa
espressione, da sola, non dice niente. Molti autori di libri sul management
e molti manager le attribuiscono significati diversi gli uni dagli altri. Qui
fornisco una mia interpretazione della cultura d'azienda che, per quanto
so, non è molto condivisa. Sostengo, dunque, che si possa parlare di
cultura d'azienda solo se esistono programmi concreti per migliorare la
qualità, la cultura e i modi di comportarsi (la morale) di quelli che lavorano
nell'azienda - a tutti i livelli. Uno dei concetti da incorporare in questi
programmi dovrebbe essere quello della responsabilità totale.
E' nota la storia del bambino olandese che passa vicino a una diga
e vede uno zampillo d'acqua che esce da un buchino. L'acqua erode la diga.
Il buco si allargherà e la diga andrà distrutta, se nessuno se ne cura. Così
non corre a chiamare aiuto, lo chiude col ditino finchè, ore dopo, vengono
gli adulti e riparano il guasto. Nessuno aveva incaricato il ragazzino di
controllare la diga. Lui, però, si riteneva totalmente responsabile. Alla
responsabilità totale alludevo già a proposito dei rischi sistemici.
_____________________________________________________________
(1) Ho discusso le situazioni di questo tipo nel mio "Il Medioevo Prossimo
Venturo", Mondadori 1971.
148
In generale ciascuno deve rendersi conto di avere responsabilità
che vanno oltre quella di svolgere il lavoro assegnatogli nei modi ed entro i
limiti che gli hanno indicato. Sentiamo dire talora: "Questa non è cosa che
mi compete. Io mi occupo di tutte le cose comprese fra F ed L. Quel che
succede da A fino ad E e da M fino a Z non mi riguarda. Non me ne parlate
nemmeno." Chi dice così non si cura se il gruppo di cui fa parte va in
rovina, anzi: contribuisce a mandarlo in rovina.
Se lavoriamo troppo lentamente, le conseguenze sono ugualmente
tristi. Invece conviene a tutti che ogni lavoro sia svolto nel tempo
minimo compatibile con la qualità del risultato. I tempi morti possono
essere eliminati d'autorità per azione degli esperti aziendali di tempi e
metodi. Vengono eliminati in modo più efficace se ciascuno se li controlla
da solo - e li elimina anche quando nessuno se ne accorge.
In alcune aziende è stato stabilito che tutti devono rispondere al
telefono non oltre il secondo squillo. Non è una fisima. Tutti noi abbiamo
imprecato contro gli impiegati che alzano il microtelefono dopo dieci o
quindici volte che squilla. Poi, invece di rivolgersi a noi, continuano a
parlare con qualcun altro e solo dopo un paio di frasi che non ci riguardano,
dicono pigramente:
"Pronto? Chi è?"
Le risposte al secondo squillo ci ridanno fiducia negli uomini - ci
sembrano benedizioni.
La cultura d'azienda è fatta di miglioramento di se stessi. L'
azienda dovrebbe occuparsi di quello professionale (purtroppo spesso non
lo fa). Ogni dipendente dovrebbe occuparsi di quello professionale e di
quello umano: del carattere, della capacità di comunicare, dell'arte di non
danneggiare gli altri e di non dargli noia per semplice incuria.
La cultura d'azienda viene anche considerata da alcuni come il
fattore nascosto che ispira certe preferenze stabilmente presenti un
un'azienda. Per esempio, certe aziende mirano più di altre a conseguire
profitti. Altre mirano a realizzare innovazioni tecnologiche continue. Altre
curano soprattutto il benessere dei dipendenti. Altre ancora insistono nel
volere una struttura rigida, autoritaria e deterministica.
Naturalmente ciascuna di queste tendenze non implica che le
altre vengano trascurate. Però chiamare cultura queste tendenze è
fuorviante. Alla parola cultura si dovrebbe associare un carattere positivo.
Dunque ogni preferenza per l'autorità, il profitto, l'innovazione o altro,
deve essere valutata alla luce degli effetti complessivi ottenuti sul lungo
termine.
*
*
*
Ho preso l'industria come un paradigma, ma non è il solo
utilizzabile. Concetti analoghi a quelli visti nel caso dell'industria (ai quali
poi torneremo) valgono, ad esempio, nel caso dell'insegnamento.
In Italia esistono differenze sostanziali fra industria e scuola. La
149
scuola è sfavorita dalla sua struttura statale centralizzata che blocca le
innovazioni e le eventuali brillanti iniziative dei docenti migliori. Però,
potrebbe ugualmente eccellere se riuscissimo a farle acquistare alcuni
requisiti essenziali.
La prima esigenza . che ai docenti si insegni come insegnare - a
tutti i livelli, dalle elementari all'università. Esistono tecniche per scrivere
in modo leggibile, per farsi capire parlando, per motivare i discenti, per
usare ausili audiovisivi e mezzi multimediali e ipermediali. Queste
tecniche non vengono insegnate a nessuno. Solo alcuni insegnanti più
solerti o più dotati le imparano da soli. Bisogna, invece, diffonderle e
applicarle in modo sistematico.
La seconda esigenza è: controllare la qualità dell'apprendimento e
dell'insegnamento. Non basta controllare quanto gli studenti abbiano
appreso per mezzo di esami di fine anno. Il controllo va fatto ogni mese od
ogni settimana e il risultato del controllo deve essere disponibile in tempo
reale, cioè con un ritardo fra prova e valutazione che sia di ore o al
massimo di un giorno. Solo così chi cerca di imparare si accorge dei suoi
errori di percorso o di metodo e può cambiare rotta o sistema,
correggendosi.
Poi le prestazioni dei docenti sono controllate male mediante i
concorsi e la valutazione dei loro scritti pubblicati. Dovremmo, invece,
analizzare i piani di insegnamento, analizzare come sono messi in pratica e
anche valutare registrazioni audio e video delle lezioni. In qualche caso
già dare una videocassetta a un docente dicendogli: "Tu insegni così." può essere sufficiente a farlo ravvedere. In altri casi il docente sarà
consigliato da un tutor specializzato in comunicazione. Se ne deduce che
bisognerà formare questi tutor o consiglieri all'insegnamento: è una
specializzazione che oggi nessuno insegna e solo qualcuno impara per
iniziativa personale.
Oltre a insegnare ad insegnare agli insegnanti, bisogna anche
aumentarne il numero. Nelle migliori università americane il numero di
studenti per insegnante varia fra 5 e 10. La media nelle università italiane è
di 22 - e solo nelle facoltà di scienze si scende a 13.
Perchè il controllo di qualità sia globale, poi, bisogna estenderlo ai
fabbricati, alle biblioteche, ai laboratori, all'orientamento prima di entrare
all'università e a quello professionale al momento della laurea. Infine è
essenziale che il controllo di qualità sia effettuato sulle scuole elementari,
medie e superiori.
La terza esigenza è quella di rendere flessibili i piani di studio.
Questo già accade nelle università, ma sarebbe bene che accadesse anche
nelle scuole medie e superiori. Dovremmo, quindi, abbandonare il sistema
scolastico centralizzato di tipo napoleonico e adottare quello anglosassone
- rifiutando, però, il lassismo delle peggiori high school americane. Seguire
un curriculum flessibile, scegliendo materie diverse, è più divertente e
motivante sia per gli insegnanti, sia per gli studenti. Naturalmente la scelta
va fatta secondo schemi ragionevoli tenendo conto delle inclinazioni di
150
ciascuno e mirando ai successivi traguardi intermedi e finali.
Il controllo di qualità, poi, non deve essere fatto in modi fiscali e
punitivi. Deve servire anche per riconoscere i casi in cui uno studente sia
più dotato della media e possa risparmiare tempo o essere avviato verso
specializzazioni più avanzate e a lui più adatte. Dovrà essere possibile,
quindi, diminuire il numero di anni che si passa a scuola, se il livello di
conoscenze, di prestazioni e di maturità raggiunto è già adeguato al
passaggio a livelli superiori.
Il controllo di qualità dell'insegnamento dovrà anche servire a
valutare i modi in cui si può far crescere il rendimento della scuola. Oggi è
basso. Quello delle scuole superiori non è misurato in modo significativo
dalla percentuale dei diplomati. Infatti questa percentuale è alta, ma il
livello di cultura e di preparazione - tranne eccezioni - è mediocre. Il
rendimento delle università, misurato in termini di percentuale dei laureati
sul numero degli iscritti al primo anno, in Italia . solo del 30%.
Secondo alcuni questa bassa percentuale di laureati non dipende
tanto da cattiva organizzazione o da scarsa abilità nell'insegnamento, ma dal
fatto che arrivano all'università studenti la cui formazione precedente è
stata tanto inadeguata da annullare ogni speranza di recupero e di successo.
Il numero degli studenti dovrebbe essere ridotto per mezzo di severi esami
di ammissione.
Non credo che sia così. Infatti in Italia la popolazione degli
studenti universitari è di circa un milione - cioè l'1,7 % della popolazione
totale. Negli Stati Uniti, invece, con una popolazione di 250 milioni di
abitanti, il numero di studenti universitari è di circa 12 milioni - cioè del
4,8 %: una proporzione quasi tre volte maggiore. Malgrado questo negli
Stati Uniti si laurea quasi il 60% degli studenti che si iscrivono al primo
anno.
L'esame di ammissione, allora, non è la soluzione, ma è. solo una
parte della soluzione. Severi esami di ammissione potranno costituire parte
integrante del controllo di qualità del processo di insegnamento nel suo
complesso. Serviranno a spronare chi vuole entrare all'università a
prepararsi meglio. Ma sarebbe bene che il numero di studenti crescesse
ancora. Potrebbe almeno raddoppiare, purchè il numero dei docenti venisse
almeno triplicato o meglio quadruplicato.
In una fase iniziale sarebbe difficile trovare tanti professori e
assistenti. Questo, però, dipende proprio dal fatto che le università sono
poco efficienti e sono poche. In Italia abbiamo 66 università per 57 milioni
di abitanti, cioè una università ogni 870.000 abitanti, mentre in USA ce
ne sono 3.300 per 260.000.000 di abitanti cioè una ogni 75.000 abitanti.
Il rapporto . di uno a dodici.
Certo alcune università americane sono di basso livello. Però, dato
che sono tante, vale la legge dei grandi numeri. Abbiamo, quindi, una
distribuzione a campana con moltissime università medie, poche buone e
poche cattive. Ma le 200 migliori sono veramente ottime.
Le buone scuole sorgono nelle società che tengono in alto conto i
151
valori della cultura. Questo non è il caso dell'Italia, ove, a parte le notevoli
spese statali per una scuola di qualità poco controllata e quindi di
efficacia scarsa, lo stato investe somme ingenti nella televisione che viene
usata per diffondere programmini di varietà e di attualità, ma raramente
programmi culturali. Basti pensare che fra le tre reti statali ogni settimana
solo poche decine di minuti sono dedicate ai libri. È meno dell'1 % del
totale. [E le 3 reti Mediaset sono ancora peggio].
Una televisione a forte contenuto culturale darebbe alla scuola un
supporto vitale. E neanche questo basta. Per conseguire qualità globale,
bisogna anche analizzare e modificare altri processi in apparenza del tutto
alieni ai fini proposti.
*
*
*
E quanto di questi concetti di qualità globale presi dall'industria o
dalla scuola, possiamo trasferire alla nostra vita personale? Una prima
domanda che ci dobbiamo fare è: "Quanto guadagno?"
E' del tutto analoga all'analisi dei documenti contabili di
un'azienda. La risposta non chiarirà tutti i tuoi problemi, ma ti dirà qualche
cosa. Se guadagni troppo poco forse vuol dire che non sei abbastanza
bravo: non ti sei addestrato abbastanza. Forse vuol dire che non hai saputo
vendere bene le tue risorse. Forse anche vuol dire che la società valuta
poco quello che puoi offrire e valuta di più quello che offre gente diversa
da te. Se la situazione non ti piace, fai qualcosa per cambiarla a livello
personale o a livello collettivo. Se, invece, guadagni molto di più di tuoi
colleghi che più o meno hanno le tue stesse capacità, non ti gloriare. Può
dipendere da fattori incidentali. Cerca, allora, di individuarli onestamente
e chiediti: "Se venissero a mancare, come mi troverei? Come mi devo
preparare a questa eventualità?"
In secondo luogo ci conviene improntare la nostra vita personale
al concetto di responsabilità totale. Non ripetiamo a noi stessi che non
vogliamo accollarci certe rotture di scatole che dovrebbero toccare
istituzionalmente ad altri. Se ci accorgiamo che, in pratica, nessuno se ne
occupa, faremo bene a darci da fare noi.
Poi dovremmo controllare la qualità di tutto quello che facciamo,
non solo quella di alcune attività. Dobbiamo controllare come lavoriamo,
come impieghiamo il tempo libero, come trattiamo i familiari, gli estranei,
gli amici e i nemici. Dobbiamo riflettere su quanto spendiamo (e come),
quanto risparmiamo, quanto investiamo (e come), sui rischi contro cui ci
assicuriamo. Non dobbiamo eccedere, nè essere troppo scarsi in nessuna di
queste cose.
Faremo bene ad analizzare tutte le nostre abitudini: fra di esse si
può annidare un problema critico cronico che non abbiamo individuato e
che ci danneggia giorno dopo giorno.
*
*
152
*
Ma torniamo al paradigma industriale. Qualità globale è sinonimo
di ricerca di eccellenza. Su questo argomento sono stati scritti molti libri e
migliaia di articoli. Danno suggerimenti dettati dall'esperienza a manager
professionisti e a consulenti nel campo. Molte di queste idee, quando le
andremo a leggere, ci sembreranno ovvie: dettate dal buon senso più
elementare. Non ce ne dobbiamo sorprendere, nè dobbiamo rifiutarle per
questo. Infatti sia nella pratica industriale, sia nella nostra vita privata, i
guai vengono prodotti proprio quando dimentichiamo il buon senso e
seguiamo nostri fuggevoli intuiti sbagliati. Esaminiamo, dunque, almeno
alcuni di questi suggerimenti e discutiamo perchè ci interessano.
Un primo suggerimento per raggiungere l'eccellenza è quello
di concentrarsi sul settore, sulle capacità e sulle specializzazioni in cui l'
azienda ha più esperienza. Questa si forma in conseguenza di investimenti
oculati e prolungati in risorse: uomini e strumenti. Le aziende e gli
individui tendono a eccellere in qualche cosa e non in tutto.
È sconsigliabile, quindi, diversificare in modo improvvisato o
casuale. Sentiamo il desiderio di diversificare ogni volta che vediamo
qualcun altro - un'azienda o una persona - che lucra ottimi profitti facendo
un mestiere che ci sembra facile - e che è diverso dal nostro. L'idea è
ragionevole. Infatti chi ha un cliente solo o lavora in un solo settore molto
specialistico, scarseggia di lavoro se quel cliente riduce l'attività o se
quel settore va in crisi. Se, invece, abbiamo molti clienti e lavoriamo in
vari settori diversi, è poco probabile che le loro difficoltà siano
contemporanee.
Per un'azienda improvvisare l'entrata in un settore nuovo e
sconosciuto è azzardato come per un dilettante lo è iniziare un'attività
nuova da professionista. La Texas Instruments produceva con successo
apparecchi di misura e piccoli calcolatori elettronici tascabili. Ha provato
a fabbricare personal computer - con risultati disastrosi, tanto che ha dovuto
abbandonare il settore. La Hewlett Packard, invece, è riuscita perfettamente
nello stesso intento, ma ha fallito nel settore dei calcolatorini e degli
orologi digitali.
Ci sono numerosi esempi di successi e di insuccessi nei tentativi
di passare da un'attività a un'altra del tutto diversa. È ben noto che l'Italia è
piena di impiegati, ragionieri, avvocati e ingegneri che producono centinaia
di migliaia di romanzi e di poesie e non riescono a stamparle altro che a
proprie spese - con successo nullo. Ma ogni tanto c'è un chimico
specialista in vernici, come Primo Levi, che scrive libri meravigliosi e ci
sono ingegneri (come Carlo Emilio Gadda o come me) che scrivono
professionalmente con un certo successo.
Allora chi ha ragione? Bisogna provarci o no a diversificare le
proprie attività? La risposta è che ci si può provare, ma che bisogna pagare
il biglietto d' entrata. In altre parole, l'azienda che produce autobus o
vagoni ferroviari e vuole cominciare a produrre carlinghe di aeroplani,
deve attrezzarsi, ingaggiare tecnici qualificati che conoscano le tecnologie
giuste e deve capire bene come funziona quel mercato. Chi vuole fare il
153
romanziere deve imparare a scrivere, deve addestrarsi e sottoporre i suoi
scritti al giudizio di critici e di editori. Chi vuole darsi al commercio deve
fare pratica, deve conoscere i prodotti che vuole vendere, deve individuare
i produttori migliori, deve diventare un buon venditore e deve imparare a
tenere i conti. Dunque non dobbiamo diversificare, se non siamo pronti a
investire tempo, soldi e intelligenza nel prepararci alla nuova attività. È
poco probabile che il successo ci arrida per puro caso.
Un secondo suggerimento importante è quello di tenere al
minimo il personale non produttivo - lo staff. Si tratta dei funzionari che
si occupano di studi e consulenze interne, di organizzazione e di compiti di
assistenza al direttore generale, ma che non hanno responsabilità gestionali
dirette di una unità operativa piccola o grande. Questi ultimi, i responsabili
delle decisioni, dell'andamento e del profitto di un reparto, di una divisione
o di un'intera azienda, si chiamano uomini di linea.
Ci sono grandi aziende industriali che impiegano qualche migliaio
di persone negli uffici di presidenza o di direzione generale. Altre
aziende ugualmente grandi (un caso tipico è la ABB, la Asea-Brown
Boveri la società svizzera-svedese leader mondiale nel campo delle
macchine elettriche per altissime tensioni e grandi potenze) impiegano,
invece, solo una ventina di funzionari negli stessi uffici. Ci riescono,
funzionano bene - e risparmiano somme enormi.
Come trasferire questo insegnamento alla nostra vita personale?
La modestia negli investimenti e nelle spese serve a noi come individui
quanto a una grossa azienda. Noi, però, impieghiamo solo noi stessi: non
possiamo ridurre le nostre dimensioni di cento volte come una grande
azienda. Possiamo, però, riflettere ai costi e ai benefici di avere: una o
più segretarie (meglio nessuna?) e un computer più o meno elaborato.
Un computer connesso a Internet ci rende più produttivi, ci fa comunicare
col mondo con tempi e costi minimi. Ci mette a disposizione dati e
informazioni gratuite offerte in rete - ma queste sono utili solo se ci
occupiamo di cose abbastanza complicate
Più in generale non dobbiamo entusiasmarci troppo facilmente.
Se un cliente ci affida un grossissimo contratto la cosa ci fa piacere. Però
la nostra euforia non ci deve indurre a permetterci ogni lusso o stranezza.
Non dobbiamo darci a spese pazze, nè investimenti azzardati. Facciamo
preventivi realistici, confrontiamoli man mano con le spese effettive e
ricordiamoci che il risparmio sulle spese è la prima fonte di profitto.
Un terzo interessante principio è quello che viene indicato con l'
espressione piuttosto banale "orientamento verso l'azione". Significa che le
azioni, una volta decise, devono essere intraprese in tempi brevi Questo
suggerimento è tanto ovvio che non ci dovrebbe essere nemmeno bisogno
di citarlo. Invece parecchi consulenti si fanno pagare bene per ripeterlo a
chi dovrebbe metterlo in pratica come una cosa di routine. Naturalmente le
azioni urgenti sono più necessarie per risolvere i problemi sporadici
(urgenti) di cui ho parlato nel Capitolo 17. Talora i problemi urgenti
sono così grossi che non possono essere risolti da una o due persone.
154
Quando c'è bisogno di una squadra, a questa viene dato il nome di 'task
forcè, espressione presa a prestito dal gergo militare americano (1).
Originariamente indicava una forza di spedizione grossa o piccola - da una
divisione a un plotone - incaricata di compiere una certa missione ben
definita. Nell'industria si parla di una task force di progettisti che deve
completare il progetto di una macchina o di un prodotto da immettere
rapidamente sul mercato. Questo può diventare improvvisamente
necessario
per controbattere prodotti innovativi consimili che un
concorrente ha tirato fuori in modo inaspettato. Una task force può essere
incaricata di riorganizzare un reparto o una divisione che ha degradato
le sue prestazioni. Una task force può essere incaricata anche di un compito
di ricerca, come analizzare un nuovo settore di attività per decidere se sia
opportuno entrarci. Le task force si occupano di questioni urgenti, di
programmi d'urto. Un'azienda che funziona bene, organizza task force solo
raramente: di norma le azioni necessarie vengono decise tempestivamente e
messe in atto senza ritardo.
Nella nostra attività personale possiamo organizzare noi stessi
come una task force. Quando lo facciamo, molliamo tutto e ci
concentriamo interamente su un problema nuovo che sorge. È giusto non
mettere in fila dietro alle faccende di routine una opportunità nuova che
si presenti all'improvviso. Lo stesso fatto che reagiamo entro ore o minuti,
invece che in giorni o settimane, ci può dare un margine competitivo di
vantaggio su altri o metterci comunque in una posizione migliore. Ma,
come nell'industria, faremo meglio ad agire sempre senza ritardo evitando
così la necessità di interventi di emergenza che disturbano la nostra attività
corrente, sperabilmente ordinata.
Oggi che il progresso tecnologico è incessante, è curioso che si
debba ripetere un quarto principio: "È vantaggioso adottare rapidamente
e sfruttare le innovazioni tecnologiche che riguardino nuovi prodotti o
servizi o che riguardino nuovi processi o modi di produrre."
È necessario ripeterlo perchè parecchie aziende portano ritardi
notevoli nell'introdurre tecnologie nuove. Basta che ci guardiamo intorno.
In Francia esistono già dal 1981 i treni ad alta velocità - in Inghilterra no:
anzi la rete ferroviaria tradizionale si degrada malamente. In Italia avremo
in esercizio circa 2000 km di alta velocità, ma -forse - nel 2015.
E come ci riguardano personalmente le innovazioni? È difficile dare una
risposta generale. Dipende da quello che facciamo come lavoro o
come hobby. Dipende dai nostri interessi. Rendiamoci conto, però
che anche noi probabilmente stiamo portando ritardo senza accorgercene.
Quasi tutti cominciamo a capire che quello che ci hanno insegnato a scuola
è insufficiente. Solo da pochi anni cominciano a insegnare nelle scuole
qualche rudimento di informatica. Non basta. Anche chi è laureato in
ingegneria corre continuamente il rischio di essere sorpassato dal progresso
________________________________________________
(1) "Task" significa "compito", "missione". Dunque la task force è una
forza (o un gruppo) dedicata a una singola missione.
155
tecnologico. Di continuo si rendono disponibili sul mercato strumenti
nuovi. Fra questi: scanner, pacchetti di software grafico che ci permettono
di tracciare diagrammi o di fare disegni di ogni tipo, connessioni di
computer in rete che ci consentono di sfruttare la potenza di calcolo di
macchine molto più grosse di quelle che ci possiamo permettere
normalmente, strumenti avanzati per impieghi speciali (ad esempio: per
lavorare materiali più efficacemente che con i sistemi antichi), servizi di
consulenza nei campi più disparati.
Stiamo attenti a non innamorarci del nuovo per il nuovo e a non
credere a tutte le promesse dei fornitori. Però, se non sappiamo nemmeno
che esistono, non ce ne serviremo e rinunceremo ad avere la vita facilitata
in mille modi. Non è bene continuare a fare per noi stessi servizi semplici e
poco divertenti che altri fanno meglio di noi disponendo delle attrezzature
giuste. Servendoci di immaginazione innovativa, possiamo trovare cose
migliori da fare.
Per quanto sia metodica la ricerca di innovazioni significative
nell'industria, è normale che proceda per tentativi. Alcuni di questi hanno
successo, molti non lo hanno. Situazioni del tutto analoghe si verificano
nella gestione aziendale e nella ricerca applicata. I buoni manager, allora,
fanno bene a tollerare errori e fallimenti. Se li criticano troppo duramente
o manifestano in modo eccessivo le loro delusioni, possono impressionare
troppo i loro collaboratori che stavano tentando di innovare. In conseguenza
questi diventeranno timidi e conservatori. Non tenteranno esperimenti
audaci e si limiteranno a piccoli passi dai quali non ci si potranno attendere
grossi fallimenti, ma neanche grandi vittorie.
In modo analogo anche noi faremo bene a manifestare indulgenza
verso i nostri propri errori. Questo consiglio equivale all'altro: non ti
abbattere troppo quando sei in difficoltà, neanche se le difficoltà te le sei
create da solo.
A questo punto vi sarete probabilmente convinti che la ricerca
della qualità globale debba basarsi su lunghe serie di considerazioni del
tutto banali, come già dicevo: in larga misura questo è vero. C'è da
osservare, però, che queste considerazioni sembrano banali quando
vengono enunciate di seguito in modo astratto, come ho fatto qui.
Purtroppo vengono dimenticate in pratica proprio quando servirebbero.
Le conseguenze sono negative e - dopo - tutti sono capaci di fustigare chi le
ha trascurate e ha sbagliato.
Per realizzare qualità globale, dunque, bisogna essere pignoli e
puntigliosi. Bisogna seguire certe procedure di controllo come un credente
fanatico segue i suoi riti religiosi. Lo fanno i buoni piloti prima di
decollare. Recitano a voce alta la lista dei controlli da fare leggendola su
fogli plastificati. E sgranano gli occhi in due per assicurarsi che ogni
singolo punto sia rispettato. I piloti che non lo fanno, occasionalmente
hanno brutti incidenti.
Chi si avvicina alla qualità globale è stato descritto da qualcuno
come un monomaniaco con una missione. Descriverlo in questi termini non
156
è lusinghiero. A nessuno piace essere considerato maniaco. Dunque
rifiutiamo questi modi di esprimersi e non li ripetiamo. Solo per averli
ripetuti, potremmo scoraggiare qualcuno dal perseguire la qualità globale.
È più corretto descrivere il buon analista di qualità globale come un
benefattore. La sua puntigliosità non è squilibrio. Manifesta solo un livello
superiore di comprensione di quali siano i problemi veri.
Perchè un'azienda possa garantire la qualità globale dei suoi
prodotti o servizi, deve continuare a esistere. Da questa ennesima
osservazione banale si deduce che il responsabile dell'azienda deve anche
preoccuparsi di evitare guerre e guerre civili.
Il direttore generale di un'impresa industriale a Serajevo o a Tel
Aviv non ha garantito qualità globale, anche se nell'ambito dell'azienda
faceva investimenti adeguati ed era un manager perfetto. Avrebbe dovuto
esercitare azioni - insieme a tutti i suoi colleghi - per evitare la guerra
civile, che, invece, ha distrutto il suo stabilimento e ucciso molti suoi
dipendenti e clienti.
Ne traiamo l'insegnamento che anche noi per avere qualche effetto
sul mondo, sugli altri, sugli oggetti, su noi stessi, dobbiamo continuare a
esistere. Dovrebbero rifletterci i finlandesi, francesi e austriaci che sono in
testa alla tabella all'inizio del Capitolo 6.
È folle la frenesia di quelli che corrono in auto a 200 all'ora per
non tardare a un appuntamento importante. Aumentano molto la loro
probabilità di morire in un incidente e, poi, non mancheranno solo
quell'appuntamento importante: li mancheranno tutti. I morti non fanno più
niente - importante o no.
Oggi dobbiamo preoccuparci meno di una guerra nucleare totale.
Però ancora esiste il rischio che sia scatenata per errore o guasto meccanico
anche dagli USA o che poche bombe atomiche cadano in mano a gruppetti
o nazioni irresponsabili e scatenino una guerra magari locale ma con
distruzioni immani. Dobbiamo ricordarlo e guardarcene. Come? Questi
eventi non dipendono da noi direttamente, ma indirettamente si. Dobbiamo
lavorare attivamente per evitare le guerre civili. Dobbiamo lavorare anche
per evitare che mezzi di distruzione di massa siano posseduti da paesi
impazziti guidati da fondamentalisti o da dittatori. Per prima cosa non
dobbiamo pensare, nè ripetere che sarebbe inutile lavorare attivamente con
questi obiettivi e che non c'è niente da fare. Se non facciamo niente,
sicuramente non avremo nessun impatto. Se pensiamo a lungo e facciamo
qualcosa forse otterremo qualche buon risultato. Ma di questo ho già
parlato nel Capitolo 16.
La qualità globale, infine, non è una noiosa incombenza che ci
tocca perseguire vivendo in mezzo a moduli, controlli, statistiche,
strumenti di misura e ripetizione di giaculatorie perbenistiche. È una
missione seria. Implica attenzione ai fattori umani. Nell'industria e nella
vita dobbiamo essere orientati positivamente verso la gente. La gente è
essenziale. Sono gli utenti finali dei nostri prodotti e dei nostri servizi.
Sono i nostri collaboratori, i nostri capi, i nostri amici, i nostri parenti. Se
157
tutte queste persone non capiscono come stanno le cose, non ci ascoltano o
non ci danno retta, staremo lontanissimi da livelli accettabili di qualità.
Questa non sarà nemmeno parziale. (Vedi a questo proposito anche il
punto 11 del Capitolo 13 e la parte finale del Capitolo 17).
Quindi arriviamo ancora una volta alla conclusione già raggiunta
più volte : qualunque sia il campo in cui vogliamo raggiungere la qualità
globale, dovremo occuparci di campi più vasti. In ultima analisi dovremo
occuparci di diffondere conoscenza ad un raggio che sia il più largo
possibile. Potrà non essere evidente perchè questo sarà utile ai nostri scopi.
Probabilisticamente, però, lo sarà.
*
*
*
Abbiamo visto parecchi esempi di come si applica il concetto di
qualità globale alla nostra vita personale e alle nostre decisioni. Ma, più in
generale, che significa tutto questo? Che specie di vita possiamo sperare
di costruirci seguendo questi principi?
Ho detto che dobbiamo stare sempre all'erta: con gli occhi aperti.
Dobbiamo imparare di più e capire di più i meccanismi del mondo, le teorie
che li descrivono e i fatti correnti. Dobbiamo impicciarci degli affari degli
altri - non per pettegolezzo, non per curiosità immotivata. Dobbiamo farlo
perchè siamo responsabili - anche se nessuno ci ha affidato alcun incarico.
Dobbiamo immaginare quali opportunità e quali rischi si annidino nelle
pieghe dell'avvenire ed essere pronti a sfruttare le prime evitando i secondi.
Dobbiamo evitare più accuratamente i rischi più gravi. Il
ragionamento è semplice, eppure non lo fa chi per ignoranza trascura
rischi anche banali e muore. Dobbiamo innovare: cioè essere pronti ad
apprezzare e usare le cose nuove che il mondo ci offre. Dobbiamo essere
capaci di cambiare noi stessi. Dobbiamo insegnare agli altri, anche con
l'esempio, le cose che abbiamo imparato. Fra queste sono vitali i concetti
che investono le questioni generali: il mondo, la società, l'ambiente. Le
conseguenze di azioni concertate a questi livelli superiori possono essere
più importanti per noi personalmente di quanto non lo siano le cose che
facciamo per il nostro tornaconto più diretto.
Dobbiamo risparmiare tempo in ogni azione, perchè sono così
numerose le cose di cui ci dobbiamo occupare. Non dobbiamo lasciare che
il tempo scorra via senza che facciamo effettivamente le cose che abbiamo
deciso di fare.
In conclusione dovremmo comportarci come un misto di Sir
Galahad (1), di una squadra di boy-scout, del Dr. Schweitzer e dei migliori
_____________________________________________________________
(1) Era il migliore fra i cavalieri della Tavola Rotonda: così bravo che per
definizione ogni sua azione era giusta e rappresentava un modello da
imitare. Secondo certe leggende Galahad, e non Lancillotto, era
predestinato a ritrovare il Graal, il vaso in cui Giuseppe d'Arimatea aveva
raccolto il sangue di Cristo.
158
pianificatori ed economisti del mondo. Purtroppo alcuni di questi
modelli, come Galahad e i pianificatori di successo sono in buona parte
figure leggendarie. In ogni caso provare a raggiungere livelli di perfezione
così elevati può sembrare un compito sovrumano, tale da indurci a una
continua attività frenetica. Al confronto l'etica protestante del lavoro ci
appare come una ricetta di tutto riposo! Inoltre abbiamo già visto che, per
definizione, la qualità globale vera è irraggiungibile sia nell'industria, sia
nella nostra vita privata. E, allora, perchè affannarci a cercare di
raggiungere l'irraggiungibile? In questo modo non ci procureremo solo l'
ulcera o l'infarto? Non correremo starnazzando da una all'altra delle regole
che abbiamo citato senza riuscire a concentrarci? Non falliremo proprio
perchè ci siamo imposti uno stile di vita troppo gravoso?
Non credo che esistano questi rischi. La cosa più importante da
considerare non è lo sforzo necessario per tendere alla qualità globale.
Come nell'industria, i programmi per raggiungere la qualità globale sono
costosi. Ma quale è l'alternativa? Non cercare di tendere verso il fine
irraggiungibile della qualità globale ha un costo ancora più alto. Lo
paghiamo con l'insicurezza, con le brutte sorprese, con i problemi cronici
che ci accompagnano per anni, con i danni che ci causano i rischi che non
avremmo dovuto correre. Lo paghiamo con l'inefficienza e con l'incapacità
a competere con chi, invece, fa le cose giuste.
È più affannata la vita di chi lascia andare, di chi procrastina, di chi
rimanda a domani quello che potrebbe fare oggi. Poi arrivano le scadenze
inevitabili e non risolvibili con rimedi tardivi.
Più rilassato ed equanime è chi ha pensato in anticipo ai problemi
che si possono presentare, chi si prepara avanti, chi fa più di quanto ci si
attendeva da lui: più di quanto lui stesso pensava di saper fare. Solo la
tendenza verso la qualità globale ci può assicurare una buona qualità della
vita - nostra e altrui.
159
APPENDICE
LA TEORIA MATEMATICA DELLA
COOPERAZIONE
Ogni azione, eseguita da un essere umano, può beneficare o
danneggiare altre persone. È arduo valutare le conseguenze di un'azione.
Secondo i buddisti è impossibile. Teshoo, il lama rosso di Kim, diceva:
"Un'azione è come un sasso gettato in uno stagno. Non puoi
prevedere dove finiranno i cerchi sull'acqua. Non puoi prevedere gli effetti
ultimi di un'azione. Perciò è meglio non compiere azioni."
E' un punto di vista troppo pessimista. Infatti possiamo misurare forma e
dimensioni dello stagno, peso, densità e forma del sasso e velocità con cui
lo lanciamo. Ora, conoscendo la fisica, possiamo sapere dove arriveranno i
cerchi e che ampiezza avranno le onde che li compongono.
Esprimiamo formalmente il problema delle conseguenze, buone o
cattive, delle nostre azioni. Imponiamo a certe n persone una scelta fra
azioni diverse e ben definite. Le conseguenze di ogni azione saranno buone,
cattive o neutre per gli N membri del gruppo, incluso quello che compie
l'azione. La teoria che espongo, si chiama teoria della cooperazione.
Chiamiamo cooperative le azioni che hanno conseguenze buone per tutti.
Invece le azioni che hanno effetto buono per chi le compie e cattivo per
gli altri, le chiameremo "da disertore". Sia ora Pij la conseguenza sul
membro j dell'azione compiuta dal membro i. Pii è la conseguenza
dell'azione di i su se stesso. Ora scriviamo una matrice n per n, i cui
elementi sono i premi (positivi o negativi) goduti (o patiti) dal membro del
gruppo cui è relativa la colonna della matrice in conseguenza dell'azione
compiuta dal membro cui è relativa la riga.
1
2
...
i
...
j
...
n
1
2
...
i
...
P11
P21
....
Pi1
....
Pj1
....
Pn1
P12
P22
....
Pi2
....
Pj2
....
Pn2
...
...
....
...
....
...
....
...
P1i
P2i
....
Pii
....
Pji
....
Pni
160
....
....
....
j
P1j
P2j
....
Pij
....
Pjj
....
Pnj
...
....
....
....
n
P1n
P2n
....
Pin
....
Pjn
....
Pnn
In questo modo non abbiamo fatto un gran passo avanti. Infatti,
in generale, non sappiamo che valore attribuire ai premi Pij, anche se le n
azioni diverse degli n membri del gruppo sono ben definite. Proviamo,
allora a semplificare il problema. Imponiamo a ogni membro del gruppo
di scegliere una fra due sole alternative. Così il gruppo sarà suddiviso in
due sottogruppi: D (Disertori) e C (Cooperatori). Imponiamo, poi, che tutti
i membri di un sottogruppo ricevano lo stesso premio, misurato da un
numero che rappresenta eventualmente una somma di denaro. Invece non
imponiamo la condizione che la somma dei premi positivi sia uguale e
contraria alla somma dei premi negativi. In altre parole, questo non è un
gioco a somma zero.
Quindi supponiamo che ci sia una banca che paga la differenza
fra la somma dei premi positivi e la somma dei premi negativi (o la
incassa, se la somma dei negativi supera quella dei positivi).
Ogni individuo riceve un premio la cui entità dipende da quale
sottogruppo ha scelto e dal numero di altri individui che hanno scelto
ciascuno dei due sottogruppi. Supponiamo, infine, che ogni persona scelga
il gruppo a cui vuole appartenere senza conoscere le scelte fatte dalle altre
n-1 persone, ma conoscendo solo la matrice dei premi. Escludiamo, dunque,
ogni collusione e ogni pagamento tra membri del gruppo dopo che il
gioco è concluso. Escludiamo anche il fattore tempo: i premi vengono
calcolati e pagati appena l'ultimo partecipante ha fatto la sua scelta. Poi
il gioco potrà essere ripetuto - con gli stessi premi o con premi diversi. I
partecipanti faranno le loro scelte che saranno libere e ispirate dalla
loro esperienza precedente. Naturalmente faranno bene a meditare sulla
teoria di questo tipo di situazione, che espongo qui.
I due sottogruppi, dunque, sono caratterizzati semplicemente dai 4
premi elencati in questa matrice:
D
D w
C y
C
x
z
Gli n partecipanti sono suddivisi nei due sottogruppi D (con d
membri) e C (con c membri), così che n = c + d . Ogni membro del
sottogruppo D riceve la somma w moltiplicata per il numero degli altri
che hanno scelto il sottogruppo D, più la somma x moltiplicata per il
numero dei membri del sottogruppo C. Cioè ognuno dei d membri di D
riceve il premio:
Pd = w (d-1) + x c
(1)
Ogni membro del sottogruppo C riceve la somma z moltiplicata per il
numero degli altri che hanno scelto il sottogruppo C, più la somma y
moltiplicata per il numero dei membri del sottogruppo D. Cioè ognuno
dei c membri di C riceve il premio:
161
Pc = y d + z (c-1)
(2)
Un gioco in cui N = 20 e w = 1 dollaro, x = 5 dollari, y = 0 e z = 3
dollari, fu proposto da Douglas Hofstadter (l'autore di "Gödel, Escher,
Bach") a 20 suoi amici scienziati. Quello che successe è riportato nel
numero di maggio 1983 dello SCIENTIFIC AMERICAN.
Hofstadter chiamò D il gruppo dei disertori e C il gruppo dei
cooperatori. Infatti: scegliendo di appartenere al gruppo C, un partecipante
faceva sì che fossero pagati 5 dollari invece di 1 ai membri di D, e 3
dollari, invece di 0, agli altri membri di C. Dunque i membri di C sono dei
benefattori - e vengono chiamati "cooperatori" secondo la nomenclatura
già anticipata.
Invece, scegliendo di appartenere al gruppo D, un partecipante
faceva sì che fosse pagato 1 dollaro invece di 5 ai membri del suo stesso
gruppo e zero invece di 3 dollari ai membri di C. Dunque i membri di D
danneggiano tutti gli altri partecipanti e vengono chiamati "disertori".
Comunque siano ripartiti gli N partecipanti, ogni disertore riceve
un premio maggiore di quello vinto da ciascun cooperatore. Dunque
avvantaggia se stesso: se lui solo cambiasse gruppo, starebbe peggio. Nel
gioco di Hofstadter, i disertori fanno scendere il premio medio agli n
partecipanti. I cooperatori, invece, lo fanno salire.
Nel gioco di Hofstadter era la rivista SCIENTIFIC AMERICAN
che faceva da banca. Se i 20 scienziati avessero disertato tutti, ciascuno
avrebbe ricevuto dalla banca 19 dollari (e la banca avrebbe pagato in tutto
380 dollari). Se ci fosse stato un cooperatore solo, non avrebbe avuto alcun
premio (e la banca avrebbe pagato 437 dollari: 23 a ognuno dei 19
disertori). Se tutti e venti gli scienziati avessero cooperato, ognuno avrebbe
ricevuto 57 dollari (e la banca avrebbe sborsato 1.140 dollari).
Se ci fosse stato un solo disertore, avrebbe ricevuto 95 dollari (5
per ciascuno dei 19 cooperatori) e la banca avrebbe pagato 1.121 dollari.
Hofstadter scrisse giustamente che la migliore strategia per massimizzare
il premio medio dei 20 partecipanti sarebbe stata la cooperazione. Però
13 dei 20 scienziati furono di diverso avviso e disertarono. Hofstadter
rimase stupito per la scarsa razionalità dei 13 disertori che incassarono solo
47 dollari a testa invece di 57 e che fecero incassare ai 7 cooperatori
soltanto 18 dollari a testa.
È vero che nel caso del gioco di Hofstadter la migliore strategia
era la cooperazione. Come vedremo più oltre, però, questo non è sempre
vero. Quando i premi : w, x, y e z assumono certi valori, la strategia da
preferire è più complicata.
Per discutere queste strategie, analizziamo in formule come vanno
le cose. Se il gruppo di N partecipanti considera il proprio interesse
collettivo contrapposto a quello della banca, vediamo di valutare l'esborso
della banca. Dalle formule (1) ed (2) vediamo che questo esborso vale:
162
P = d Pd + c Pc = d (w (d-1) + x c) + c (y d + z (c-1))
(3)
Se P>0 la banca esborsa denaro. Se P<0 la banca riceve denaro.
La Figura 1 rappresenta la situazione del gioco di Hofstadter.
Figura 1
In ascisse il diagramma riporta il numero dei cooperatori c (da 0
a N). La retta superiore è il diagramma del premio che riceve ogni disertore
in funzione di c. Questa retta si interrompe prima di toccare la retta
verticale corrispondente al valore c=n (in questo caso c=20), perchè se tutti
cooperano, ovviamente non ci sono più disertori. Il punto estremo di questo
segmento rappresenta il premio assegnato all'unico disertore, che vale 5
unità per ciascuno dei 19 cooperatori - cioè 95.
La retta inferiore è il diagramma del premio che riceve ogni
cooperatore in funzione di c. Taglia la retta verticale corrispondente a c=20
in un punto la cui distanza dall'asse delle ascisse rappresenta il premio di
ciascuno dei 20 cooperatori, che vale 3 per 19 = 57. La scala del
diagramma è fissata, quindi, dalle ordinate di uno o dell'altro dei due punti
citati.
Nella stessa scala la curva che unisce l'intersezione della retta dei
disertori con l'asse verticale per c=0 con l'intersezione della retta dei
cooperatori con l'asse verticale per c=N, è il diagramma del premio medio
calcolato su tutti i membri del gruppo. È ovvio che il premio medio
coincide con quello dei disertori quando tutti disertano (estremo sinistro) e
coincide con quello dei cooperatori quando tutti cooperano (estremo
destro).
I calcoli fatti e illustrati in Figura 1 confermano che la
cooperazione è la strategia migliore nel gioco di Hofstadter. Ma proviamo a
cambiare di poco il premio che prendono i disertori per ogni cooperatore.
Portiamolo da 5 a 6. Vediamo in Figura 2 cosa ne consegue.
163
Figura 2
Ora la cooperazione non è più la sola strategia che assicura
l'esborso massimo della banca. Infatti la banca paga 1.140 sia nel caso che
tutti cooperino prendendo 57 a testa (57 x 20 = 1.140), sia nel caso che
cooperino 19 (prendendo 54 a testa), mentre uno solo diserta vincendo 114
(54 x 19 + 6 x 19 = 1.140). Il tornaconto del singolo disertore sarebbe
maggiore che non nel caso precedente.
Ma vediamo, più in generale, come possiamo calcolare vantaggi,
svantaggi e strategie quando cambiano i premi che appaiono nella matrice
di cooperazione. Dato che d = N-c, l'esborso della banca (equazione (3))
si può scrivere:
(4)
P = (w+z-x-y) c2 + (N (x+y-2 w) +w-z) c + N w (N-1)
Se w = z = 0 e x = -y, allora P è zero per ogni c - e il gioco è a
somma zero. Cioè: d Pd = - c Pc. In altre parole i disertori vincono
esattamente quanto perdono i cooperatori. In questo caso mi conviene
disertare: alla peggio la vincita è zero (se disertiamo tutti) e, se qualcuno
coopera, vinco una parte della sua perdita. Il caso, però, è banale.
Nel caso di Figura 2 avevamo visto che il massimo esborso della
banca non si ottiene necessariamente quando tutti cooperano. Vediamo
in generale come si possa determinare dal solo valore dei 4 premi w, x, y e
z se l'esborso della banca ha un massimo (o un minimo) - e con quanti
cooperatori.
Derivando l'equazione (4) otteniamo [1]:
dP/dc = P' = 2 c (w+z-x-y) + N (x+y-2 w) + w - z
______________________________________________________
[1] Chi non ricordi, o non abbia mai saputo, che cosa sono e come si
calcolano le derivate, può impararlo facilmente nel mio libro ANCHE TU
MATEMATICO, Garzanti, 1989.
164
L'esborso ha un massimo o un minimo quando dP/dc = 0, cioè
quando:
c = (z-w-N (x+y-2 w))/2(w+z-x-y)
(5)
Per vedere se si tratta di un massimo o di un minimo, calcoliamo
la derivata seconda:
P" = dP'/dc = d2P/dc2 = 2 (w+z-x-y)
Se w+z < x+y , allora
P" < 0 e la curva dell'esborso della
banca presenta un massimo in corrispondenza del valore di c espresso
dalla (5). Se w+z > x+y , allora P" > 0 e la curva dell'esborso della
banca presenta un minimo in corrispondenza del valore di c espresso dalla
(5).
La Figura 3 rappresenta il primo caso : w+z < x+y, per : N = 20,
w = 0, x = 14 , y = -4 , z = 2.
Figura 3
Qui, se tutti cooperano, ciascuno vince 38 , mentre, se tutti
disertano ciascuno vince 0. Se c'è un solo disertore, guadagna 266, mentre i
19 cooperatori rimasti non guadagnano più 38, ma solo 32. Se cresce
ancora il numero di disertori, si passa gradatamente a premi sempre più
bassi sia per i cooperatori, sia per i disertori. Però i premi per i disertori
sono più alti di quelli per i cooperatori, perciò in media il gruppo ci
guadagna - e l'esborso della banca aumenta, fin quando il numero disertori
è basso. In questo caso l'esborso della banca è massimo quando i
cooperatori sono 12. la tabella seguente riporta la situazione per numeri di
cooperatori che vanno da 12 a 19.
165
No.di cooperatori
Premio ai cooperat.
Premio ai disertori
Premio medio
Esborso banca
12
10
168
61,2
1224
13
-4
182
61,1
1222
14
2
196
60,2
1204
15
8
210
58,5
1170
16
14
224
56
1120
17
18
19
20
26
32
238 252 266
52,7 48,6 43,7
1054 972 874
In questo caso, dato che x > w e z > y , è ancora vero che i
cooperatori con la loro scelta causano un vantaggio agli altri membri del
gruppo - sia cooperatori, sia disertori. Ad esempio nella situazione in cui ci
sono 5 disertori ciascuno di loro riceve un premio di 210. Se uno di loro
avesse deciso di cooperare, gli altri 4 disertori avrebbero visto crescere il
loro premio a 224 e i 15 cooperatori avrebbero visto crescere il loro da
8 a 14. Per ottenere questo risultato, però, il disertore che diventa
cooperatore è penalizzato così pesantemente (guadagna 14 invece di 210)
che il premio medio individuale si abbassa. Questo premio (e l'esborso
della banca) sono massimi quando i cooperatori sono 12 e i disertori sono 8.
Qui ovviamente la strategia migliore non è la cooperazione. È quella di
decidere a caso se cooperare o no, gettando un icosaedro regolare, 12 delle
cui 20 facce sono marcate C, mentre 8 sono marcate D. Poi scegliamo C
oppure D in accordo con quanto scritto sulla faccia su cui l'icosaedro si
poggia quando si ferma. Oppure possiamo scegliere a caso un foglietto
fra 20, su 12 dei quali è scritto C, mentre sugli altri 8 è scritto D.
La Figura 4 rappresenta il secondo caso in cui : w+z > x+y, per:
N = 20, w = - 1, x = 7 , y = - 14 , z = 2.
Figura 4
Qui se tutti cooperano, ognuno ha un premio di 38, mentre se
tutti disertano, ognuno ha un premio negativo (-19). Rispetto alla
situazione in cui tutti disertano, se alcuni partecipanti cominciano a
cooperare, sono puniti così duramente che fanno diminuire il premio medio
del gruppo, anche se cominciano abbastanza presto (al disopra di 2
166
cooperatori) a produrre un beneficio per i disertori. Se il numero di
cooperatori continua a crescere, la loro punizione è sempre più leggera.
Al massimo la banca incassa 710 quando i cooperatori sono 6.
L'esborso della banca è zero quando i cooperatori passano da 16 a
17 (è negativo con 16 e positivo con 17). In certo senso il caso che
abbiamo appena visto è banale, perchè è facile convincersi che conviene
cooperare. Se tutti facessero i furbi e disertassero, non vincerebbero poco,
ma sarebbero penalizzati. C'è sempre, però, una motivazione a disertare:
se uno solo diserta, ha un premio di 7 per ciascuno dei 19 cooperatori,
cioè di 133 - mentre i cooperatori incassano 2 per 18 meno 14, cioè 22.
Non vale la pena di esaminare tutti i casi possibili di strutture della
matrice dei premi di cooperazione. Infatti molti di essi sono banali - a parte
quelli che si identificano con casi già visti semplicemente cambiando
nome ai cooperatori e ai disertori. È più interessante analizzare i casi in cui
le rette relative ai premi di cooperatori e disertori hanno pendenze opposte.
Un caso è rappresentato in Figura 5.
Figura 5
La situazione è simmetrica: ogni cooperatore fa vincere zero agli
altri cooperatori e ogni disertore fa vincere zero agli altri disertori. Invece
ciascun membro di un gruppo fa vincere 6 a ciascun membro dell'altro
gruppo. Senza fare calcoli, è ovvio che la strategia più conveniente è quella
di suddividersi in due gruppi di uguale entità: con 10 cooperatori e 10
disertori, l'esborso della banca è massimo (1.200) e ciascuno dei 20
partecipanti vince 60.
Se non possono comunicare fra loro, la strategia migliore per
ciascuno è quella di buttare una moneta per aria per decidere a caso se
cooperare o disertare. Così in media i due gruppi avranno appunto uguale
consistenza.
La situazione appena descritta rappresenta un caso reale. È quello
che si presenta agli automobilisti che possano scegliere fra due strade
167
identiche, che congiungono in parallelo la città A con la città B. Conviene
a tutti distribuirsi nella stessa misura fra le due strade. A partire da questa
situazione, se uno - o più - automobilisti passassero dalla prima strada alla
seconda, offrirebbero un beneficio agli altri che continuano a percorrere la
prima, danneggiando, invece, se stessi e quelli che già percorrevano la
seconda.
Le cose si complicano se la capacità della prima strada
improvvisamente diminuisce, per esempio a causa di un incidente.
Supponiamo che su di essa sia bloccata così una corsia su tre. A questo
punto converrebbe che il traffico si ripartisse per tre quinti sulla seconda
strada e per due quinti sulla prima. Che dovrebbero fare gli automobilisti
che si accingono a fare la loro scelta se potessero sapere istantaneamente
come stanno le cose? Dovrebbero procurarsi 5 bigliettini, scrivere 1 su
due di essi e 2 sugli altri tre. Poi dovrebbero scegliere un bigliettino a
caso e procedere sulla prima strada se c'è scritto 1, sulla seconda se c'è
scritto 2.
Ma attualmente gli automobilisti non ricevono informazioni
tempestive. Anche se le ricevessero, poi, non sono ancora addestrati a
ragionare nei modi che abbiamo discusso. Una buona soluzione, allora,
sarebbe quella di installare un cartello a messaggio variabile prima della
biforcazione fra le due strade. Per 2 minuti su 5, il cartello consiglierebbe
la prima strada e per i restanti 3 su 5 consiglierebbe la seconda.
Le cose vanno nello stesso modo se ci occupiamo di due gruppi di
pastori che possono scegliere fra due pascoli pubblici (o in proprietà
comune) che siano del tutto identici. Anche qui converrebbe equiripartire
fra i due campi il numero delle pecore. Se, invece, le due strade hanno
capacità diverse o i due pascoli hanno dimensioni diverse, la situazione è
asimmetrica. È rappresentata dalla Figura 6.
Figura 6
168
L'esborso della banca è massimo quando il numero di chi fa la
prima scelta è minore di quello di chi fa la seconda. La strategia ottima
si calcola facilmente usando le formule e i criteri già visti.
*
*
*
In pratica succede spesso che ci troviamo in tanti a dover decidere
quale sia la strategia migliore. Poi, come dicevo all'inizio di questa
appendice, non conosciamo affatto i valori dei premi delle matrici di
cooperazione. Anche quando il problema è semplice - come quello delle
due strade o dei due pascoli - sono poche le persone capaci di seguire
questi ragionamenti e, quindi, di scegliere la strategia ottima.
Può essere più realistico, perciò, supporre che i partecipanti a
questi giochi di cooperazione e di diserzione scelgano a caso le loro
strategie. Se le cose vanno così, ha interesse determinare quali sono i valori
aspettati (in certo senso i più probabili) dei premi per i cooperatori e per i
disertori e dell'esborso della banca.
Il valore aspettato del gioco per i disertori è dato dalla somma di
tutti i prodotti fra ogni possibile numero di disertori e il loro premio,
diviso per la somma di tutti i possibili numeri di disertori. Il valore aspettato
del gioco per i cooperatori si calcola in modo strettamente analogo. Il
valore aspettato del gioco per la banca è uguale alla somma di tutti gli
N+1 (da c=0 a c=N) esborsi della banca, divisa per N+1. I valori aspettati
del gioco per i cooperatori, per i disertori e per la banca sono riportati in
basso a sinistra su ciascuna delle figure relative agli esempi visti. Se i
partecipanti ritengono di non poter prevedere in nessun modo le decisioni
degli altri giocatori, la loro strategia migliore è quella di scegliere di
appartenere al gruppo per il quale il valore aspettato è maggiore. Ma, se
supponiamo che gli altri partecipanti terranno conto di questo tipo di
ragionamento, allora anche noi terremo conto di questo elemento nelle
nostre decisioni.
I ragionamenti e i calcoli che precedono possono essere
automatizzati scrivendo un semplice programma di computer. Ne ho usato
uno per tracciare i diagrammi delle Figure precedenti. Ne invierò copia a
chi me lo chieda.
*
*
*
La teoria della cooperazione, però, è solo una esercitazione
accademica se non serve ad analizzare comportamenti umani
plausibilmente realistici. Potremo indagare, allora, quali situazioni (negli
affari, nel commercio, nella politica, in borsa, in assemblee e comitati, nei
negoziati sindacali, commerciali e internazionali) possano essere studiate
col formalismo presentato qui.
Potremo anche, proporre a vari gruppi di persone situazioni
competitive o cooperative definite con matrici, dopo aver illustrato sia le
169
regole del gioco, sia le loro implicazioni. I loro comportamenti ci diranno
qualcosa sui meccanismi interni degli esseri umani e dei gruppi. Infine
sarebbe importante che questa teoria venisse insegnata nelle scuole. La
parte matematica può essere semplificata in modo da renderla adatta anche
agli studenti delle scuole medie.
170
171
INDICE DEI NOMI
Abramo, patriarca
Agostino, Santo
Akiba bar Joseph
Alighieri, D.
Andreotti, G.
Aristotele
Ayrton
26
50, 54, 77
41
21
113
7, 100, 119, 131
106
Batista, F.
Beccaria, C.
Beer, S.
Berlusconi, S.
Bibbia
Bonaparte, N.
Boisjoly, R.
Budda
Bush, G.
68
6, 32
95
113
11, 26, 31, 37, 47
23
129
53
129
Calogero, G.
Calvino, J.
Channing, W.E.
Chiang Kai Shek
Cicerone, M.T.
Clinton, W.
Cohen, A.
Cranston, A.
Crick, F.
22
63
66
68
98
57
37
86
13 e segg.
Darlan
De Gaulle, C.
Deming, W.E.
Dio
Durand de Gros, J.P.
69
69
63
49, 145
13 e segg.
Eliezer
Emor
Enron
Epitteto
42
28
86
98
Feynman, R.
Folk, J.
Ford, H.
129
84
22
172
ForzaItalia
Francesco d'Assisi
68, 113
23
Gadda, C.E.
Galahad, Sir
Gandhi
Garn, J.
Gates, B.
Gesù Cristo
Giacobbe
Giannini, G.
Giosuè
Giulio Cesare, C.
Giuseppe d'Arimatea
Gorbachov, M.
152
157
72
85
28
8, 19, 37
28
113
41
22
157
28
Hart, G.
Hemingway, E.
Hillel
Hitler, A.
Hofstadter, D
Horgan, J.
57
15
8, 37
23
161
14
Iefte
Ignazio di Loyola
Isacco
29
52
26
Jefferson, T.
Johnson
Jungk, R.
66
57
79 e segg.
Kant, I.
Keating, C.H.
Kemelman, H.
Kinsey
8, 22, 47, 72, 119
86
43
57
Legree, S.
Levi, P.
Levinas, E.
Levy Bruhl, L.
Lima, S.
Lincoln, A.
Lot
Loyola, I.
26
135, 152
40
11
113
79
28
52
Marco Aurelio Antonino
143
173
Masters
McAuliffe, C.
McAuliffe, S.J.
McClure, S.S.
McGregor, D.
Mobutu, S.S.
Morgan, P.
Mosè
Mutsuhito
Nerone, imperatore
57
129
129
83
125
68
23
26 e segg., 51
106
27
Paine, T.
Pannella, M.
Papini, G.
Perot, R.
Perry, J.
Pinochet, A.
Platone
Plinio
Poujade
65
72
68
22
106
68
21
19
113
Raleigh, W. Sir
Reagan, R.
Roosevelt, F.D.
Russell, B.
Ryle, M.
64
129
69
77
135
Schweitzer, A.
Seneca
Shammai
Sichem
Skinner, B.F.
Smith, A.
Somoza
Spinoza, B.
Steffens, L.
St.Germain, F.
Stringa, L.
Stroessner
157
27, 46, 98
43
28
24, 27
68, 133
68
6, 61
83
85
89
68
Talleyrand
Talmud
Taylor, F.W
Teshoo
Thoreau, H.D.
Tilden, S.
58
8, 37 e segg., 49, 145
68
159
71 e segg.
83
174
Tommaso, d'Aquino
Tsunehiko, S.
Twain. M.
Tweed, W.
11, 49 e segg., 98
106
61
83
Watson, T.
WorldCom
Wright, J.
Yehoshua
Yehudah ha-Nasi
28
68
85
53
41
Zadeh, L.A.
30
175