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LA VIA DELLA RAGIONE

Etica per il III Millennio basata su Talmud, Ingegneria dei Sistemi, Gestione Totale della Qualità

ROBERTO VACCA LA VIA DELLA RAGIONE LA NUOVA MORALE PER IL TERZO MILLENNIO www.printandread.com Seconda edizione 2002 Prima edizione: Bompiani, 1993 2 NOTA ALLA SECONDA EDIZIONE (ON LINE) Scrissi questo libro di morale costruttiva, moderna nel 1992. Mi illudevo che ci sarebbero stati in Italia grandi cambiamenti positivi. E' irritante vedere ora che gli eventi confermano vecchi detti proverbiali. Fra questi: plus ça change, plus c'est la même chose. E in Italia (ma anche altrove) le cose non sono cambiate molto. Onestà e correttezza sono presenti, ma rare. Si insegna poco, si impara poco, si studia poco, si ricerca poco, si inventa poco. Quando pubblicai il mio romanzo UNA SORTA DI TRADITORI (1997) un giornalista mi intervistò per telefono. Chiese: "Come mai lei, che è - diciamo - di sinistra, in questo libro tratta così male la sinistra?" Risposi: "Perchè non basta non essere criminali: bisogna anche avere studiato: e la gente di sinistra in Italia studia troppo poco appena, appena più della gente di destra." Fu allora che mi venne in mente la battutaccia: "Cos'è che in Italia accomuna destra e sinistra, pubblico e privato, laico e religioso, militare e civile? L'ignoranza!" Questa affermazione è corroborata da statistiche (tristi) nel Capitolo 16. E' sconsolante che di questa orrida situazione culturale nessuno parli. Tanto meno si discutono misure correttive e piani di intervento La conclusione forzata è che la via della ragione viene percorsa da pochi, troppo pochi. Io continuo a testimoniare che sarebbe meglio imboccarla. Ho rivisto tutto il libro migliorando un po' la prosa. Ho eliminato alcune incongruenze e molte ingenuità. I due caratteri cinesi in copertina si leggono lún dào. Significano semplicemente "la via della ragione" e hanno funzione ornamentale. Li ho scritti usando il pennello di pelo di tasso, il bastoncino di inchiostro e il calamaio di lavagna, che mio padre riportò dalla Cina nel 1908. Il carattere dào è lo stesso di "taoismo". Non mi è venuto in mente altro simbolo per rappresentare la ragione. La Dea Ragione nel 1789 veniva rappresentata con ragazze goffe vestite con pepli e berretto frigio. Neanche Minerva Athena andava bene: era la dea della guerra, oltre che della sapienza. 3 INDICE Prefazione 5 1 Siamo davvero liberi di decidere le nostre azioni? 2 Come distinguiamo il bene dal male? Quali sono i fini giusti? Esistono fini giusti in assoluto? 3 Le assurdità derivanti dalle regole fisse 4 Antinomie del diritto romano 5 Il cammino della ragione dalla Bibbia al Talmud Breve nota storica sul Talmud 6 La legge morale impressa nei nostri cuori: correggiamola! 7 Contraddizioni, praticità, riserve mentali da Tommaso a Ignazio 8 Pentimento. Istruzioni 'Escape' e 'Undo'. Morale sessuale. Colpa 9 L'etica protestante del lavoro e i suoi limiti 10 Inutilmente buone le intenzioni di Henry David Thoreau 11 Mentite a vostro rischio 12 Furto, peculato, corruzione, tangenti 13 Morale della complessità, Talmud e ingegneria dei sistemi 14 Una morale artificiale affidata al computer 15 Dovremmo convertirci alla morale giapponese? 16 Le azioni di portata nazionale e mondiale 17 Controllo di qualità nell'industria e nella vita personale 18 La morale nell'innovazione tecnologica 19 Altruismo e cooperazione 20 La qualità globale: un graal di perfezione irraggiungibile temperato dal buonsenso 13 19 27 33 37 41 45 49 55 63 71 77 83 87 101 105 111 119 129 137 145 APPENDICE - La teoria matematica della cooperazione e della diserzione 159 Indice dei nomi 171 4 PREFAZIONE In questo libro parlo di miglioramento. Parlo di principi e metodi per fare andare meglio gli affari del mondo e quelli nostri privati. Questo è un libro di morale. Credo che la mancanza di una morale efficace porti infelicità ai singoli e alle nazioni: in casi estremi porta al suicidio, al caos, alla guerra, al dissesto economico od ecologico. Non sappiamo bene quanto sia probabile che una di queste catastrofi ci colpisca. Certo ciascuno di noi intravede modi in cui le cose potrebbero andare molto meglio. Perchè non ci vanno? La ragione è che per governare le nostre azioni non bastano più le regole e i metodi tradizionali. Furono formulati in tempi antichi e non riflettono più la realtà del mondo di oggi. Ce ne rendiamo conto considerando le sfide dei sistemi tecnologici, finanziari, politici - sempre più grandi e complessi. Ce ne rendiamo conto nella nostra vita personale. Oggi siamo insoddisfatti pur essendo molto più ricchi dei nostri antenati. La letteratura e la tradizione ci dicono che probabilmente gli esseri umani non sono mai stati soddisfatti. Oggi, però, sappiamo più cose. Apprezziamo meglio il divario fra i livelli che abbiamo raggiunto e quelli molto più alti che potremmo raggiungere. Non siamo deprivati - nè economicamente, nè culturalmente - ma soffriamo di deprivazione relativa. Intanto abbiamo a disposizione strumenti efficaci per migliorare la nostra situazione. Alcuni furono inventati secoli fa, come la stampa, e sono stati usati solo da poca gente. Altri sono stati sviluppati in epoca recente in ambito industriale. Qui li descrivo e dico come usarli. Questo libro potrà esservi utile anche se avete pensato finora che i modi migliori di comportarsi debbano essere dettati da certe dottrine religiose, filosofiche o umanitarie. Queste dottrine cercano di suggerire regole generali fisse. Per adattarsi a tante situazioni diverse, le regole fisse devono essere semplici. Quindi non servono davvero quando vi trovate in conflitto fra due scelte. Nessuna delle due vi sembra cattiva. Tutte e due comportano rischi - e non sapete decidere. È di queste situazioni che vi parlerò. Le regole religiose o umanitarie, poi, ci aiutano poco per affrontare problemi più vasti : sociali, civili o politici. Dunque, se credete che sia importante trovare metodi per governare le azioni collettive nel modo migliore, allora questo libro vi può servire. Vi offre qualche cosa di nuovo. Perchè preferire il nuovo all'antico se abbiamo sentito ripetere tante volte che gli antichi erano saggi e che dovremmo rispettare le loro credenze? 5 Perchè ormai avremmo dovuto imparare che ogni credenza e ogni presunta saggezza va giudicata nel merito. E poi non possiamo accettare tutte le credenze antiche perchè si contraddicono le une con le altre. Certe azioni erano considerate meritorie in certe epoche e presso certi popoli e abominevoli in altre epoche e in altre regioni. Ne vedremo vari esempi. In generale le regole e i principi morali migliorano. Rispetto a qualche secolo o anche solo a qualche decennio fa, c'è oggi meno violenza, meno rigidità, più altruismo. A prima vista sembra che non sia così perchè la violenza più vicina a noi ci fa più impressione. Le stragi in Cambogia, in Somalia, in Bosnia e le violenze dei terroristi, dei fondamentalisti e dei neonazisti sono orrende. Ma fortunatamente sono meno gravi degli eccidi e dell'Olocausto della Seconda Guerra Mondiale. Sono meno orrende degli annientamenti di interi popoli avvenuti secoli fa, quando ancora non era stata coniata la parola 'genocidio'. Certo il miglioramento è lento. Vedremo insieme come possiamo accelerarlo. Qualcuno potrebbe pensare che le azioni individuali e quelle sociali e civili siano governate bene dalle leggi vigenti nei vari paesi. Non credo che sia così per ragioni esposte molto bene 200 anni fa da Cesare Beccaria nella prefazione al suo libro DEI DELITTI E DELLE PENE (mi sono preso la libertà di snellire e modernizzare un po' la sua prosa): "Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore, fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, frammischiate coi riti longobardi e involte in farraginosi volumi di privati e oscuri interpreti, formano quella tradizione di opinioni che da una gran parte di Europa ha ancora nome di leggi. È cosa funesta che a queste leggi - uno scolo dei secoli più barbari - obbediscano coloro che tremando dovrebbero reggere le vite e le fortune degli uomini." Dopo due secoli le cose non vanno molto meglio. Sono state aggiunte leggi buone, ma anche leggi contraddittorie, insulse o dannose. Non possiamo certo sperare di tirarne fuori regole di vita. E, allora, dove andremo a prendere regole di vita che ci servano davvero - nell'individuale e nel collettivo, nei casi della vita già occorsi a tutti e in quelli inaspettati che sono i più preoccupanti? Le regole di vita dovrebbero essere dettate dalla morale. La morale viene definita come una disciplina o un sistema per comportarsi bene. "Mores" è parola latina che indica i modi in cui la maggioranza della gente è abituata a comportarsi. E dovremmo continuare a comportarci come in passato? Può essere questa la nostra salvezza? No. Non può essere vero. Specialmente in un periodo in cui tutto sta cambiando. Almeno nei paesi sviluppati, sono sempre di più quelli che sanno leggere e scrivere e a scuola si imparano sempre più cose. L'elettronica e la tecnologia aerospaziale hanno cambiato il mondo oltre le più fantasiose aspettative dei narratori di favole magiche. Facciamo viaggi 6 sempre più lunghi in tempi sempre più corti. Riusciamo a fare più cose in tempi sempre più stretti. Produciamo di più faticando di meno. La gente che segue le pratiche religiose è sempre meno. I miti del comunismo sono scomparsi quasi ovunque. Il disarmo nucleare si avvia sperabilmente a diventare una realtà. La terza guerra mondiale appare sempre meno probabile anche se i terroristi continuano a uccidere a caso persone qualsiasi. (Fino al 2002 molto meno numerose di quelle che morirebbero in una guerra totale). Dunque ci vengono offerte sempre più occasioni e diventa più difficile e più impegnativo sceglierle in tempi brevi. Succedono più cose e tocca a noi fare in modo che vadano bene - far succedere quelle giuste. A questo scopo dobbiamo decidere quali siano le cose giuste. E chi ce lo insegnerà? Se non ce lo insegnano le religioni in misura adeguata, potremmo rivolgerci ai filosofi. Ce ne sono stati di seri e ne citerò alcuni. Qui, però, bisogna stare attenti. Certi filosofi sono del tutto inaffidabili. Hanno accettato le scervellatezze peggiori tirate fuori in tutta la storia del pensiero umano. Le hanno mischiate insieme, prendendole tutte per buone. Fanno orrendi pasticci di arte, religione, mitologia e sedicente filosofia. Poi cercano di propinarceli come esempi di cultura superiore. Non abbiamo tempo di controbattere questa gente. Ma non dobbiamo nemmeno lasciare che esercitino su di noi il loro meschino terrorismo culturale. Guardiamoci, dunque, da filosofi e scrittori che si esprimono in certi loro gerghi incomprensibili. Guardiamoci da quelli che si esprimono solo per astratti perchè sono staccati dalla realtà che non hanno mai guardato e sulla quale non hanno mai lavorato. Guardiamoci da quelli che mettono troppe parole fra virgolette nell'intento di modificarne il significato in modo indefinito e furbesco. Non hanno niente di importante da insegnarci - anche se si occupano di questioni vitali. È sicuramente vitale il problema del libero arbitrio, di cui parlerò nel primo e nel sesto capitolo. Cercherò di dimostrare che siamo davvero liberi di decidere che cosa fare o che è come se lo fossimo. Possiamo imparare a fare cose che prima non sapevamo fare. Questo ci richiede di fare scelte informate. Quindi possiamo farle in tanti campi diversi e poiché agire significa imparare ad agire, è come se avessimo il libero arbitrio. E ora cercherò di illustrare brevemente le ragioni per cui è sensato fare quello che sto cercando di fare: provare a dettare regole generali di comportamento - se non una teoria della morale - ispirandomi ai più vari modelli di ragionamento tratti dalla storia del pensiero antico e da esempi moderni di gestione illuminata dell'industria e della ricerca. Il primo a formulare una teoria della morale fu Aristotele. Distinse le verità speculative (come quelle della geometria) dalle verità pratiche (relative ai modi in cui dovremmo comportarci). Sostenne che le scelte morali buone equivalgono a verità pratiche. Molte definizioni e ragionamenti di Aristotele sono entrati ormai nel linguaggio corrente e nei costumi usuali di molte società. Vanno esaminati, anche se non ci bastano a 7 risolvere i nostri problemi di comportamento. Il nostro problema essenziale di comportamento è: "Come possiamo fare a stare bene - a stare meglio?" La Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti nel 1776 suggeriva che la ricerca della felicità è un diritto inalienabile. Però ugualmente non raggiungiamo la felicità se non facciamo le cose giuste. E quali sono? Che azioni dobbiamo compiere? Le morali religiose antiche imponevano liste di azioni proibite (come 'non uccidere', 'non rubare') e di azioni obbligatorie (come: 'onora il padre e la madre'). E andavano bene per gente che viveva in un mondo semplice - per pastori di qualche migliaio di anni fa. Però queste liste di azioni imposte o vietate non funzionavano. Le eccezioni erano frequenti - a seconda delle circostanze. Quindi per spiegarle, per farle funzionare, come vedremo, dal III al V secolo ricorsero a criteri e ragionamenti complessi gli autori del Talmud - la grande opera di commento e interpretazione della legge ebraica biblica scritta e orale. Alcuni, invece, hanno cercato di evitare gli elenchi suggerendo criteri generali per distinguere le azioni buone da quelle cattive. Le due regole più note sono : 'Ama il prossimo tuo come te stesso (Hillel e Gesù Cristo) e 'Agisci come se la massima della tua azione dovesse diventare per tua volontà norma universale' (Kant). Ma che cosa obiettare a chi rispondesse: "E perchè dovrei obbedire a queste regole? Non sono gratuite?" La risposta buona è che in certo senso aveva ragione Kant quando parlava della legge morale stampata nel suo cuore. Quella di Kant, però, è solo una similitudine. Sembra più ragionevole darne una interpretazione darwiniana. I nostri antenati che hanno sviluppato un concetto (certo impreciso e multiforme) di quello che è bene e di quello che è male, sono stati capaci di sopravvivere meglio degli altri. Questo concetto, poi, non è proprio stampato nei nostri cuori o nel nostro DNA, ma è trasmesso culturalmente. In ogni caso: come possiamo esprimere in modo generale l'idea che certi fini e certi modi di comportarsi sono giusti e altri sbagliati? È vero che viviamo meglio - come società e come individui - se ci comportiamo in modo altruista. Esiste anche una teoria matematica dell'altruismo che ho riportato in appendice. Però sarebbe meglio poter affermare qualche cosa di generale su cosa sia bene e cosa sia male dal punto di vista morale. Ho provato a farlo nel Capitolo 2 in cui propongo alcuni assiomi che dovrebbero essere evidenti a tutti. Ma, per tornare alle regole di Hillel (o Gesù Cristo) e di Kant, notoriamente queste non sono state molto seguite. Hanno avuto qualche effetto positivo, ma oggi si rivelano sempre più inadeguate. Perché ? Perché, come ho già accennato, il mondo diventa sempre più complesso e le conseguenze delle nostre azioni sono sempre più difficili da prevedere. Non basta, quindi, avere buone intenzioni e prefiggersi fini buoni. Siamo responsabili delle conseguenze ultime. Perciò dobbiamo diventare più bravi a prevedere l'avvenire - il che è difficile quando troppe 8 situazioni cambiano continuamente. In questa situazione, come avevano capito i talmudisti, le regole fisse come quelle bibliche non bastano: sono vaghe e insufficienti. Oggi ci vogliono regole nuove, più stringenti, più complicate, che incorporano dosi maggiori di conoscenza. La nostra ricchezza - crescente - è fatta sempre meno di oggetti materiali. È fatta sempre più di idee e di conoscenza. Questi due fattori creano efficacemente ricchezza in ogni campo: dall'agricoltura all'industria e ai servizi. Se però la nostra conoscenza è distorta o mal diretta, produce sconcerti e distruzioni di ricchezza. Basta pensare ai grandi progetti che hanno richiamato enormi investimenti e poi non sono mai stati completati. Sono chiamati 'cattedrali nel deserto'. Dunque dobbiamo organizzarci diversamente - per evitare gli sprechi, le regole sociali assurde e opprimenti, le decisioni sbagliate e le mancanze di decisioni necessarie. La regola di base da adottare è semplice : SFORZATI DI PREVEDERE LE CONSEGUENZE DI QUEL CHE FAI E AGISCI IN MODO DA PRODURRE EFFETTI POSITIVI ANCHE A LUNGO TERMINE. Questa regola è meno generica di quelle di Gesù Cristo e di Kant. Soprattutto non è fissa e non invita all'obbedienza cieca. Contiene verità inespresse da rendere esplicite. Ci invita a ragionare per migliorare il nostro futuro. Ci invita a ottimizzare. Malgrado questi pregi, contiene una petizione di principio. Come decidiamo se un effetto è positivo? Per farlo, useremo gli assiomi a cui ho accennato e poi dovremo discutere. Questo libro cerca proprio di svolgere queste discussioni. E quanto può essere lungo il termine verso il quale guardiamo? Deve essere il più lungo possibile - anche se le difficoltà di previsione razionale dell'avvenire ci impongono termini corti o fanno sì che i risultati ottenuti talvolta siano diversi da quelli sperati. Sentiamo dire spesso che le nostre conoscenze non dovrebbero essere suddivise in compartimenti stagni. Anche nelle scuole si proclama almeno (anche se la pratica è diversa) che non si devono separare le materie insegnate e che si devono impartire conoscenze integrate. Le diverse discipline si cominciano a parlare fra loro. Gli sforzi diventano interdisciplinari. Nel caso della morale - paradossalmente - è l'industria che ci può dare insegnamenti validi anche nella sfera personale. È pratica industriale antica quella di collaudare le componenti prodotte, di eseguire prove sui materiali e sui prodotti finiti. Già da molto tempo l'artigiano o l'industriale che vendono un prodotto inadatto all'uso o tanto difettoso da causare danni agli utenti vengono considerati responsabili e tenuti al risarcimento. Ma negli ultimi decenni sono successe cose nuove. Molti industriali hanno assunto su di se responsabilità più pesanti ed estese. E, in conseguenza, la qualità della nostra vita è migliorata. Questo miglioramento 9 è conseguenza diretta di quelli introdotti dalle industrie nella qualità della progettazione, dei materiali, dei metodi di produzione. È un progresso non solo materiale, ma anche intellettuale. Infatti l'intelligenza umana si esplicita nei programmi dei computer che governano robot, macchine operatrici automatiche, laser, trasporti interni e telecamere per collaudi visivi. Dunque l'automazione migliora la qualità del prodotto. E, a valle, è migliorata anche la qualità della manutenzione e delle applicazioni pratiche finali. Certo sono i clienti, gli utenti finali, che in pratica utilizzano i prodotti: bene o male. Dunque l'industria deve assumere in misura crescente la responsabilità di aggiornarli e di informarli sui modi giusti di farlo. La qualità dei prodotti e dei servizi si basa anche sulla comunicazione. Cose simili si verificano nel campo della protezione ambientale. Da anni cerchiamo di limitare gli inquinamenti. Fissiamo i limiti della presenza nell'aria o nell'acqua di sostanze nocive e misuriamo cosa accade in realtà. Quando quei limiti sono superati, c'è chi grida alla catastrofe. Gli ingenui credono che la situazione stia peggiorando, ma non è così. Alcuni decenni or sono nessuno eseguiva misure dell'inquinamento dell'aria: era inquinata, ma non lo sapevamo. Ora in molti luoghi lo è meno. Non sostengo che tutto vada ovunque per il meglio. Non sostengo che i prodotti industriali siano perfetti - del tutto perfetti non lo saranno mai. Sostengo, però, che rispetto ai livelli raggiunti dalla qualità industriale, spesso chi è rimasto in ritardo sono gli utenti. Siamo noi. Sembra un'affermazione paradossale. Infatti oggi siamo più colti di trenta o quaranta anni fa. Il numero degli studenti che si laureano ogni anno è quadruplicato, facciamo lavori più interessanti e sofisticati, usiamo più computer, sprechiamo meno tempo nei viaggi (gli aerei hanno quadruplicato la loro velocità e le velocità medie dei viaggi in auto sono raddoppiate, malgrado che i limiti di velocità siano stati abbassati). Però non abbiamo imparato a comportarci meglio, nè a impiegare meglio le risorse umane. Molti di noi si limitano a mugugnare per gli inconvenienti che incontriamo nell'uso della tecnologia o dei sistemi tecnologici. E non apprezziamo che molti di questi inconvenienti dipendono dalla nostra propria inadeguatezza come operatori dei sistemi, o come utenti. Le cose andranno meglio se applicheremo una nuova moralità e se emuleremo anche a livello personale i miglioramenti qualitativi già conseguiti dall'industria. Come possiamo fare? Dobbiamo progettare sul lungo termine anche le nostre attività individuali: i modi in cui compriamo oggetti e servizi, l'impiego del tempo libero. Nel nostro lavoro dobbiamo assumerci responsabilità oltre quelle che ci vengono affidate formalmente. Dobbiamo offrire qualità migliore di quella che ci viene richiesta. Dobbiamo immaginare obiettivi nuovi e nuovi modi di raggiungere quelli tradizionali. Se ci proveremo in tanti, realizzeremo una società migliore. Nella nostra vita privata progettare sul lungo termine significa tarare i nostri rapporti con i familiari, con gli amici, con gli estranei, con gli enti in modo da ottimizzarli. Così realizzeremo per noi stessi una vita migliore. 10 Significa non solo rifuggire dal vandalismo e collaborare con la forza pubblica che lo combatte, ma anche evitare le congestioni. A questo scopo dobbiamo informarci e osservare quando un livello di servizio si deteriora perché tentiamo in troppi di sfruttare le stesse risorse energetiche, stradali od offerte dalle reti di telecomunicazione. Poi dobbiamo cercare di scaglionare la nostra domanda di servizio nel tempo. Per fare tutti insieme queste cose di che cosa abbiamo bisogno, allora? Forse di una nuova teoria della morale? Secondo Lucien LévyBruhl (l'antropologo della 'mentalità pre-logica' che scriveva agli inizi del secolo) non è possibile dettare una teoria della morale perchè avrebbe un contenuto non teorico, ma pratico. Poi Lévy-Bruhl sostiene che le teorie morali sono irrilevanti. Infatti, qualunque sia la loro origine - religiosa, umanistica, razionalistica - i dettami che se ne traggono sono spesso identici anche in diverse società. Questo libro, dunque, non è una teoria della morale. È un libro pratico. Mira a discutere metodi efficaci per far succedere le cose che considereremo giuste dopo aver raccolto informazioni adeguate e averci ragionato sopra. Suggerisce modi di comportarci meglio nel privato e nel pubblico, per costruire un avvenire migliore. Tutte le religioni pretendono di insegnare quali siano le cose giuste e come dobbiamo organizzarci per metterle in pratica. In questo libro, però, mi occuperò poco di religione. Parlerò poco della Bibbia e più dell'insegnamento talmudico (rilevante in questo contesto più come metodo che dal punto di vista religioso). Discuterò la morale protestante e quella shintoista, rilevanti per le ragioni che dirò. Citerò S.Tommaso più per le sue accurate classificazioni che per le sue opinioni dalle quali dissento spesso. Altre fonti che mi hanno ispirato sono l' ingegneria dei sistemi e la teoria del management (1). Molti autori hanno esposto teorie della gestione aziendale prive di valore e fatte solo di parole altisonanti. Qualche volta riescono anche a farsi pagare somme ingenti per esporle. Di loro non mi occupo. Cerco, invece, di trarre insegnamenti dai principi di qualità globale che stanno alla base di un importante movimento in tutti i paesi industriali. Credo che questi insegnamenti possano giovare anche nella sfera personale e nelle iniziative per migliorare la gestione della cosa pubblica. Sia in un caso, sia nell'altro è urgente pensare metodi nuovi. Appoggiandoci sulla forza della ragione e dell'esperienza possiamo migliorare la qualità della nostra vita, la nostra qualità di viventi e anche l'ambiente - naturale o artificiale - in cui viviamo. ______________________________________________________ (1) Ho trattato argomenti simili a questo in MANUALE PER UNA IMPROBABILE SALVEZZA (Mondadori, 1974) e in COME AMMINISTRARE SE STESSI E PRESENTARSI AL MONDO Mondadori, 1983 - disponibile in inglese su www.printandread.com. Il messaggio che cerco di trasmettere ora è più concreto e sfrutta idee sviluppate negli ultimi anni in ambiti industriali avanzati. 11 12 CAPITOLO 1 SIAMO DAVVERO LIBERI DI DECIDERE LE NOSTRE AZIONI ? "Chiedo l'assoluzione del mio cliente perché era incapace di intendere e di volere nel momento in cui ha commesso il fatto." Il fatto può anche essere un omicidio efferato. Però se chi l'ha commesso era incapace, può farla franca. I tribunali possono accettare la tesi che l'imputato non era in sé, non era responsabile delle sue azioni. In altre parole non era libero di decidere quale azione compiere. Agiva come un automa, come un animale, come un essere privo di ragione. Per dimostrare che una persona é - o é stata - incapace di intendere e di volere normalmente si ricorre alla perizia di uno psichiatra. Questo significa che secondo la legge e l'opinione comune tutti noi siamo normalmente liberi di decidere cosa faremo. Quindi ne siamo responsabili. Quindi - anche - vale la pena di inculcare nei giovani sani principi morali: così si comporteranno meglio, dato che sono liberi di farlo. La società se ne avvantaggerà. Se non fossimo liberi di decidere le nostre azioni, non varrebbe tanto la pena di discutere sul libero arbitrio - e questo mio libro sarebbe inutile. Il biologo francese Durand de Gros alla fine del secolo scorso negò che gli uomini abbiano il libero arbitrio e propose una sua teoria del polizoismo. La nostra mente, il nostro cervello non avrebbero una individualità stabile, ma sarebbero formati da insiemi di animaletti (colonie di neuroni) - piccole coscienze parziali che volta a volta collaborano o si combattono per far andare le cose in un modo o in un altro. Queste colonie che abbiamo nel cervello volta a volta si formerebbero, si scinderebbero e si raggrupperebbero di nuovo in modi diversi tanto da dare risultati inaspettati e sorprendere chi ci vede agire e anche noi stessi. Più moderno e autorevole di Durand de Gros, é contro il libero arbitrio anche Francis Crick - il premio Nobel scopritore del DNA. Il suo libro intitolato The Astonishing Hypothesis ("L'ipotesi sorprendente") comincia con queste parole: "L'ipotesi sorprendente é che tu, le tue gioie e i 13 tuoi dolori, le tue memorie e le tue ambizioni, il tuo senso di identità personale e di libero arbitrio in effetti non sono altro che il comportamento di una vasta struttura di cellule nervose e delle molecole associate con esse. Come avrebbe potuto dire Alice nel paese delle meraviglie, 'Non sei altro che un mucchio di neuroni'." (intervista di John Horgan nel numero di Febbraio 1992 dello Scientific American). A me questa ipotesi non sembra affatto sorprendente. Anche il nostro sistema cardio-circolatorio e il nostro stomaco si comportano in modi complicati di cui non siamo coscienti. Mi sembra ragionevole scontato - che ogni mia azione sia l'effetto di complessi fenomeni nel mio sistema nervoso. Sappiamo bene che non ci rendiamo affatto conto di questi processi interni. Questo vale sia per un'azione semplice, come guardare un oggetto sia per un'azione complessa come scegliere il metodo da usare per risolvere un problema matematico. Anche non conoscendo i meccanismi interni, c'é un modo semplice per decidere se il libero arbitrio esiste o no. Se non esistesse, le ipotesi sarebbero due. La prima é che noi agiamo in modo del tutto casuale. La seconda é che agiamo in modo deterministico, ma governato da meccanismi naturali incogniti. Per decidere la questione faremo bene a non usare l'introspezione. Non ha senso sostenere che siamo davvero liberi di decidere quali azioni compiere perché ci sembra di essere liberi. É molto probabile che sbagliamo. Se ci potessimo fidare dell'introspezione, avremmo già scoperto da millenni come funziona la psiche umana. Della prima ipotesi ci liberiamo facilmente. Per dimostrare che non agiamo sempre a caso basta considerare i numerosissimi esempi di esseri umani che annunciano un loro progetto e poi lo portano a compimento. Si può trattare di un'impresa sportiva o di un'operazione finanziaria, della costruzione di un computer o di un nuovo tipo di motore a combustione interna. Se diciamo prima quello che faremo e poi lo facciamo, non procediamo a caso. Una similitudine calzante si può trarre dal gioco di biliardo chiamato 'pool'. Si gioca con 15 palle numerate e una palla bianca. Non gioca certo a caso chi é capace di annunciare il numero della palla che manderà in buca dopo averla colpita con la bianca e di farlo correttamente per 15 volte di seguito. Potrebb'essere, però, che qualche volta agiamo a caso. Questa ipotesi la analizziamo fra qualche pagina. La seconda ipotesi é più difficile - forse impossibile - da controbattere. Ragioniamo: la fisica ci insegna due cose - fra le tante. La prima é che nel campo delle particelle elementari molti eventi sono casuali. La seconda é che a livello macroscopico nessun fenomeno obbedisce a un determinismo assoluto. In altre parole tutti i fenomeni così detti deterministici possono essere analizzati con una precisione limitata. In conseguenza, date le condizioni iniziali, possiamo prevederne l'andamento con un'approssimazione buona - ma non assoluta. Ora Francis Crick ha sicuramente ragione quando dice che la 14 nostra personalità - sita nel nostro cervello - non é che un ammasso di neuroni. Questo significa che i processi del nostro cervello potranno essere analizzati in avvenire con precisione anche notevole ma sempre limitata. Non é rilevante se i nostri processi cerebrali sono influenzati in misura significativa da eventi casuali al livello delle particelle elementari. Che lo siano o no, é ragionevole pensare che si verifichino processi evoluzionistici. Nell'evoluzione delle forme biologiche errori casuali nella trascrizione del DNA portano a piccoli cambiamenti negli organismi. Poi si verifica una selezione cumulativa che in modo veloce ed efficace perpetua i cambiamenti che danno vantaggi agli organismi che li incorporano. In modo analogo l'ammasso di neuroni che abbiamo in testa modifica le sue connessioni e la sua struttura in parte a caso e, quindi, in modo da massimizzare i vantaggi conseguiti. Questi processi di evoluzione mentale (e neuronale) sono ben noti: si tratta dell'apprendimento. É nostra esperienza quotidiana che certi esseri umani imparano a fare cose, a formulare progetti e a realizzarli con successo. Quelli di noi che padroneggiano un mestiere o un'arte, non hanno solo esperienza dei modi in cui loro stessi hanno imparato nozioni e procedure. Hanno anche capito come imparano gli altri. Hanno visto il lampo di intelligenza che folgora un apprendista quando capisce finalmente una cosa difficile. Hanno seguito i modi di comportarsi più evoluti di chi ha già imparato. Sono stati testimoni di conflitti fra la pigrizia e l'interesse. Ora possiamo dire che chi non raggiunge alcun successo é deterministicamente inadatto a evolversi. Possiamo dire che chi ha successo é fatto in modo che non avrebbe potuto mai fallire. Sappiamo bene che questi modi di dire sono imprecisi. Il caso ha la sua parte nelle cose umane. In pratica, però, le nostre scelte non sono illusorie. L'ipotesi contraria é irrilevante. Va bene che Francis Crick ci ricordi che non siamo altro che un ammasso di neuroni. Però noi sappiamo come far funzionare il nostro ammasso di neuroni in modi più efficaci per ottenere conseguenze che ci piacciono di più. É come se l'avessimo il libero arbitrio. Eppure tutto questo discorso contrasta con certe nostre esperienze personali. Si tratta delle azioni impulsive - ampiamente descritte da psicologi e romanzieri. Decidiamo di fare una cosa e poi improvvisamente ne facciamo un'altra. Retana, l'impresario di corride nel racconto di Hemingway "L'invitto", aveva pensato di offrire solo 500 pesetas a Manuel, il vecchio torero fallito che lo implorava di farlo lavorare. Però quando aprì la bocca per parlare, la sua bocca disse: "Duecentocinquanta." Alcuni di noi hanno ascoltato con impazienza e scarso interesse un amico che raccontava i propri guai. Poi improvvisamente hanno sentito la loro voce che diceva: "Non ti preoccupare. Per un paio di mesi posso prestarti due o tremila euro." Oppure: "Lascia fare a me. Ci parlo io con i tuoi parenti. Vedrai che metto tutto a posto." Alcuni di noi, dopo aver deciso di aspettare che il treno fosse 15 fermo del tutto, inaspettatamente sono saltati giù, hanno perso l'equilibrio e hanno avuto un piede maciullato sulle rotaie. Gli esempi sono tanti. C'é chi ha fatto proposte di matrimonio delle quali poi si é dovuto pentire. C'é chi si é messo a giocare d'azzardo e, in genere, ha perso dei soldi. C'é chi si é offerto volontario in missioni pericolose. Chi ha studiato a lungo l'andamento della borsa e la storia di una certa azienda per poi telefonare a un commissionario ordinandogli di comprare tremila azioni di una società di cui non sapeva niente. Quando agiamo in questo modo impulsivo, chi decide per noi? Come dicevo prima, hanno probabilmente ragione Durand de Gros e Crick. Decidono per noi certi meccanismi neuronali di cui non ci rendiamo conto. Dunque - in certa misura e certe volte - il libero arbitrio non lo abbiamo affatto. Prima o poi ne sapremo molto di più sull'argomento. Ma frattanto possiamo ragionare sulla questione a partire dalla fine - dai risultati. Qualche volta prendiamo una decisione impulsiva e ci va bene: facciamo un colpaccio. Si vantano di funzionare così certi uomini d'affari. Dicono di avere fiuto. Intuiscono un audace corso di azioni e decidono di intraprenderlo. Comprano un'altra azienda. Investono in un titolo. Danno fiducia a un inventore paradossale. Entrano pesantemente in un mercato nuovo. E gli va bene. É vero che esiste il fiuto per gli affari? Supponiamo che tutti gli uomini d'affari prendano le loro decisioni a caso. Allora le cose come andranno? La maggioranza avrà tanti successi quanti insuccessi. Pochi avranno molti più successi che insuccessi o viceversa. Pochissimi avranno successo quasi sempre o registreranno quasi sempre fallimenti. A posteriori potremo dire allora che hanno fiuto quelli che vincono molto più spesso, quasi sempre. E, invece, secondo l'ipotesi che abbiamo fatto, il fiuto non esiste: si tratta di eventi casuali. La questione é difficile e probabilmente irrisolvibile. Eppure non é assurdo pensare che alcuni di noi abbiano poteri di intuizione maggiori della media. Hanno studiato di più. Hanno osservato di più. Hanno meditato di più. Quindi sono più pronti ad afferrare indizi che sfuggono ad altri. In effetti hanno un certo fiuto e per questo potranno essere considerati più fortunati di altri che hanno faticato per affinarsi la mente. Da questa considerazione possiamo trarre un utile insegnamento: evitiamo di prendere decisioni impulsive e avventate su argomenti che non abbiamo studiato bene. Se non abbiamo faticato a lungo prima, é poco probabile che vinciamo a caso. Dovremmo essere noi stessi i giudici del profitto che abbiamo raggiunto nel capire il mondo, la gente o i mercati. Sappiamo bene, però, che spesso giudichiamo noi stessi troppo benevolmente. Allora disponiamo di un altro criterio. Prendiamo bene nota di quanto spesso accade che una nostra azione impulsiva abbia successo. Se accade molto spesso, continuiamo ad agire ogni tanto in modo impulsivo. Se ci va male quasi sempre, smettiamo. Naturalmente questo ultimo criterio può fallire. Ci indurrà a tentare 16 la fortuna se siamo stati fortunati in passato. Questo é sbagliato perché dovremmo sapere che il caso non ha memoria. Quindi chi é stato fortunato in passato può smettere di esserlo in qualunque momento. Ricordiamoci sia negli affari e nel lavoro, sia nella vita privata di non confondere la fortuna con l'abilità - poi comportiamoci a tutti gli effetti come se fossimo liberi di agire a nostro piacimento. É quasi così. É spesso così. Riprenderemo la questione nel Capitolo 6 a proposito della legge morale che, secondo alcuni, é impressa nei nostri cuori. Se fosse davvero così, non saremmo tanto liberi. Se, poi, ci fossero leggi morali diverse impresse nel cuore di diversi gruppi umani (per esempio di nazioni diverse) saremmo vincolati a comportarci come gli altri del nostro gruppo. 17 18 CAPITOLO 2 COME DISTINGUIAMO IL BENE DAL MALE? QUALI SONO I FINI GIUSTI? ESISTONO FINI GIUSTI VALIDI PER TUTTI? Ogni tanto uccidevano esseri umani per sacrificarli alle divinità: cananei, ebrei, greci, romani (1), aztechi. Pensavano di fare bene. Poi smisero. In molti paesi - alla fine del secolo XX - c'é ancora la pena di morte. Nel secolo scorso furono condannati a morte i colpevoli di delitti comuni e anche politici a Roma, sotto il governo del papa vicario di Gesù Cristo sulla terra e presumibilmente responsabile della diffusione del suo messaggio di amore universale. Per fortuna in Italia oggi non si fanno sacrifici umani e la pena di morte non viene usata dallo Stato, ma solo dalla criminalità organizzata. Quello che per uno é virtù per un altro é vergogna. Non ci può essere una soluzione semplice per mettere d'accordo quelli che credono nelle leggi divine, quelli che credono nel diritto naturale e gli utilitaristi - secondo i quali tutti cerchiamo il nostro proprio utile e ci comportiamo bene solo se ci conviene. Provo, allora, a seguire l'esempio dei geometri e a suggerire tre assiomi. Dovrebbero apparire evidenti a tutti. Una volta che li accettiamo, possiamo dedurne conseguenze e regole utili per definire i fini verso i quali tendere. Resta sempre il problema di capire i meccanismi del mondo e di prevedere le conseguenze delle nostre azioni. Se non lo risolviamo, non riusciamo a raggiungere i fini che abbiamo scelto. Questa é la tesi centrale del mio libro. __________________________________________ (1) Plinio racconta nelle Storie Naturali che il Senato di Roma proibì i sacrifici umani nel 97 a.C. 19 I tre assiomi sono: 1. Non dobbiamo causare gravi danni materiali ad altri per procurarci piccoli vantaggi, né (peggio) senza averne vantaggio alcuno 2. Non dobbiamo produrre danni spirituali a noi stessi, né ad altri neanche per produrre grossi vantaggi materiali a noi stessi o ad altri. É bene, invece, produrre vantaggi spirituali, cioé generare e diffondere conoscenza e comprensione 3. Non bisogna obbligare altri a fare cose che non vogliano. É bene, invece, aumentare le possibilità di scelta proprie e altrui. Già prima della discussione che segue bisogna citare subito la ovvia eccezione a questa regola: perché funzionino la società, le scuole, le aziende, i sistemi tecnologici, molte persone devono imparare o essere indotte a fare cose che non vorrebbero fare minimamente. Come giustifico questi assiomi? Solo notando che il mondo sarebbe un luogo migliore se tutti li accettassero e nelle pagine seguenti spiego perché in modo discorsivo. La teoria matematica della cooperazione (esposta in Appendice) fornisce - almeno per analogia - una base razionale alla convenienza di adottarli. Certo vanno specificati meglio e discussi. Questo é importante. Nessuna regola può essere accettata senza discussione. Dobbiamo discutere le regole rigide come quelle del decalogo (che analizzo criticamente nel prossimo capitolo) e quelle flessibili come i tre assiomi. Le situazioni in cui ci possiamo trovare sono troppo variate per essere decise in modo drastico in base al criterio: giusto - ingiusto. Le sfumature sono tante e continue. Vedremo che possiamo concepire altri modi logici di ragionare. Frattanto ecco alcune delle precisazioni da fare sui tre assiomi. Sul primo dovremo spiegare come si misurano danni e vantaggi e, quindi, come si confrontano. Potremo trarre ispirazione dai modi in cui si calcolano i bilanci costi/benefici nell'industria. Sul secondo dovremo spiegare meglio cosa sia materiale e cosa sia spirituale. Su tutti, dovremo specificare in quali contesti e circostanze valgano. Se proviamo ad accettarli, però, vediamo subito che se ne possono dedurre conseguenze interessanti. Dal primo assioma si deduce che non si deve esercitare violenza in favore di privilegi. Dal secondo e dal terzo si deduce che si deve assicurare la libertà di parola. Dai tre assiomi insieme si deduce che vanno evitate le persecuzioni razziali e che non bisogna obbedire a ordini infami neanche se qualcuno suggerisce che se ne avvantaggerebbe il bene della società. Incidentalmente queste deduzioni costituiscono un robusto argomento sulle ragioni di combattere le dittature (fasciste, staliniste, etc.). Se seguiamo in tanti le regole dedotte dai tre assiomi, vivremo in un mondo in cui non esiste tortura, né violenza. Per convincerci che l'osservanza dei tre assiomi conviene a tutti, riflettiamo. Ad esempio: le persecuzioni razziali hanno danneggiato i perseguitati, ma anche i 20 persecutori. Quando i tedeschi e gli italiani hanno eliminato gli ebrei dalle loro università e dai loro centri di ricerca, hanno anche bloccato gran parte dello sviluppo della scienza nel loro paese. Potremmo sostenere che Dante avesse già esposto l'essenziale di questi tre assiomi con la terzina: "Considerate la vostra semenza Fatti non foste a viver come bruti Ma per seguir virtute e conoscenza." Ma non é leale usare bei versi per spiegare o corroborare un punto di vista. Tutti, o quasi, siamo inclinati a preferire virtù e conoscenza a comportamenti bestiali - almeno a parole. Dopo aver letto quei versi, però, non ne sappiamo di più. Per saperne di più, dobbiamo ragionare ancora. Il primo assioma potrebbe essere interpretato in modo tale da proibire ogni competizione. Se lo interpretiamo letteralmente dovremmo astenerci da ogni concorrenza anche industriale e commerciale. Ma sappiamo che il libero mercato in cui la concorrenza esiste ci offre vantaggi indubbi. Se la gente non compete più, scompare l'emulazione, che ha spinto e spinge tanti a eccellere. Ragionamenti analoghi si possono fare per gli sport, gli scacchi e per altri giochi competitivi. Dunque ammettiamo che, in certe situazioni e seguendo certe regole, possiamo procurarci vantaggi anche se danneggiamo qualcun altro. Il primo assioma vale sicuramente in certi casi estremi. Un criterio per confermarlo valido può essere quello della trasparenza. Io stesso posso vergognarmi tanto di un'azione vantaggiosa per me e dannosa per altri, da non volere che nessuno ne venga a conoscenza - nemmeno il danneggiato. Un esempio appropriato é quello del chirurgo che fa un'operazione inutile, se non dannosa, a un paziente al solo scopo di incassare un lauto onorario. Mi dicono che alcuni chirurghi poco scrupolosi applicano ai loro pazienti protesi costose e inutili solo per incassare sotto banco una percentuale dal fabbricante delle arterie in plastica o delle articolazioni in acciaio inossidabile. Già Platone si era chiesto se possiamo compiere azioni ignobili, quando ci sia garantito il segreto. Nel II libro della "Repubblica" racconta la storia di Gige, pastore del re di Lidia che rubò un anello da una tomba apertasi dopo forti piogge. Poi si accorse che quando lo metteva al dito con la pietra verso il palmo della mano, diventava invisibile. Se invece la pietra era verso il dorso della mano, tutti lo vedevano normalmente. Gige sfruttò la sua invisibilità per stuprare la moglie del re. Poi se la fece amica e con lei uccise il re e quanti gli si opponevano. Così diventò lui re della Lidia. Possiamo essere d'accordo che Gige fosse ugualmente colpevole, anche se nessuno lo aveva visto compiere quei misfatti. Restano, però, le domande "Quali sono i fini giusti?" ed "Esistono fini giusti validi per tutti?" A queste possiamo rispondere essenzialmente in due modi. Il primo é già configurato nei miei tre assiomi. Potremmo chiamarlo 21 "libertario". É stato descritto bene da Guido Calogero nel suo libro La scuola dell'uomo (Sansoni, 1939). Il secondo potremmo chiamarlo "behaviorista" (o comportamentale). É stato presentato violentemente da Bhurrus F. Skinner nel suo libro Beyond Freedom and Dignity (Oltre la libertà e la dignità) (Knopf, 1971). Seguirò questi due paradigmi per presentare questi punti di vista opposti. Io preferisco il primo. Il punto di vista libertario prende le mosse dalla regola di Kant "Considera gli altri esseri umani come fini e non come mezzi per i tuoi fini". Ne deduce che la morale é essenzialmente educazione. Dà per scontato che mi comporto moralmente verso un altro o vari altri, se faccio in modo da dare a loro qualche vantaggio. Non basta. Se, in conseguenza delle mie azioni o dei miei discorsi, questi altri non imparano ad essere altruisti, la moralità della mia azione é scarsa. Infatti é inefficace a creare un mondo in cui tutti considerano i fini degli altri - invece di considerarli come mezzi per ottenere i loro fini. La considerazione essenziale é quella della reciprocità. Non posso pretendere di coartare la volontà degli altri senza che loro provino a fare lo stesso con me. Alla lunga non ci stanno. Stare alla pari é l'unica strategia che può funzionare sul lungo termine. Questa affermazione é in ovvio disaccordo con le lotte per il potere e la ricchezza che osserviamo correntemente in tutte le società. Cosa ne deduciamo? Che i potenti e i vincenti sbagliano tutto? Può suonare paradossale, ma in larga misura é proprio così. Se il vincente prevale sulla maggioranza della popolazione e non fa niente per innalzarne la qualità della vita, sta peggio. Diventa re - ma é re straccione di un popolo di straccioni. I fabbricanti di auto dei primi del Novecento le costruivano una a una. Le macchine erano costosissime e gli operai non potevano certo permettersene l'acquisto. Quei fabbricanti erano molto meno ricchi di Ford, che costruiva in massa a prezzi più bassi e vendeva le auto agli operai - più numerosi ed efficienti. Ross Perot non impiegava operai, ma programmatori e analisti di computer. Il valore aggiunto prodotto dalla sua azienda era molto maggiore - e Perot era più ricco di Ford. Si possono portare infiniti esempi. La scelta sbagliata di molti vincenti é simile a quella di Giulio Cesare "Preferisco essere primo in un villaggio, che secondo a Roma". É meglio essere quarto, quinto o centesimo in una società avanzata e civile, che primo in una cittadina barbara. Questo é vero non solo dal punto di vista strettamente economico, ma soprattutto dal punto di vista della qualità della vita. Questa é fatta non solo di beni materiali e di servizi, ma anche di rapporti umani. Se la qualità umana media del luogo in cui viviamo é più alta, siamo più sicuri, ci divertiamo di più a interagire con gli altri, siamo stimolati a concepire idee nuove. Non serve a niente discutere se l'altruismo ora descritto non sia un egoismo mascherato e ipocrita. Utilitarismo e altruismo sono la stessa cosa. Nell'Appendice lo dimostro. 22 Riprendiamo, ora, la discussione appena accennata a proposito del terzo assioma. Dicevamo che é inevitabile che molta gente sia indotta a fare cose che non vorrebbe fare. Lavorare intensamente e pagare i servizi che riceviamo, pesa quasi a tutti. Ma se nessuno lavorasse intensamente né pagasse la bolletta della luce, le cose andrebbero molto peggio. Quindi in molti casi chi prende un impegno deve proprio essere obbligato a rispettarlo. Se siamo responsabili di organizzare un cantiere, un ufficio o un' officina faremo bene a non imporre regole dure e inumane ai nostri dipendenti, né agli utenti. Però non potremo chiederci a ogni passo cosa pensino o sperino queste persone. É inevitabile, e opportuno, che nel progetto e nella gestione ne consideriamo solo le funzioni. Se no perderemmo la visione del nostro stesso compito. E questo deve includere l' educazione e l'addestramento sia degli operatori, sia del pubblico. In generale ci sono tanti modi in cui possiamo educarci o essere educati. Tanti uomini hanno proposto agli altri ideali, progetti o imprese dei tipi più disparati e contraddittori. Allora: quali scegliere? Ragioniamo di nuovo per esempi classici. Prendiamo: San Francesco d'Assisi, Pierpont Morgan, Thomas Watson, Mikhail Gorbachov, Bill Gates, Napoleone Bonaparte e Adolf Hitler. Ciascuno di questi sei ha fatto qualche cosa bene e qualche cosa male. Discutiamoli. San Francesco predicava l'amore, ma non lo studio. Ha avuto un buon impatto su pochi seguaci. Pierpont Morgan ha creato un impero industriale e finanziario. Certo ha creato posti di lavoro e ricchezza. Di questa ha incamerato una porzione forse eccessiva, ma, soprattutto, non ha fatto molto per innalzare la qualità umana dei lavoratori e della gente in generale. Thomas Watson e Bill Gates hanno creato IBM e Microsoft colossi dell'informatica mondiale. Hanno creato lavoro, ricchezza e profitti e diffuso tanta cultura avanzata. Probabilmente hanno contribuito a diffondere valori intellettuali e spirituali più di San Francesco, anche se la loro politica (specie quella di Gates) è stata dura e spietata con concorrenti e clienti. Ecco, allora, la definizione che serve per il secondo assioma. Non sono spirituali solo i sentimenti, i principi, gli ideali - ma anche la conoscenza del mondo, teorica e applicata. Passando ai capi di stato, Gorbachov ha riportato un po' di giustizia e libertà in Unione Sovietica. É stato un successo civile e morale che ha un valore maggiore dell'insuccesso economico, malgrado che questo abbia prodotto molte sofferenze e nuove ingiustizie. Gorbachov era un buon esempio di fautore della morale libertaria - con scarse capacità di pianificazione. Napoleone ha contribuito allo studio dell'Egitto antico e moderno, ha realizzato opere pubbliche e ha dimostrato efficienza nel realizzare una grossa macchina politica e militare - che per fortuna non fu abbastanza efficiente da imporre in Europa la sua dittatura tutt'altro che illuminata. In Italia abbiamo ereditato da Napoleone la nefanda istituzione dei prefetti. La dittatura nazista era peggiore di quella napoleonica. Hitler provò a 23 imporla al mondo. Causò distruzioni immani e la morte di circa 40 milioni di persone. I suoi ideali barbarici non contenevano neanche un brandello di reciprocità e di diritti umani. Si può sostenere paradossalmente che a lungo termine abbia avuto il buon effetto di generare un orrore per i suoi principi sufficiente a farli condannare e a far sorgere l'Organizzazione delle Nazioni Unite e la Comunità Europea. Certo non erano questi i suoi intenti. Questi rapidi esempi indicano come si possano scegliere ragionevolmente ideali e progetti. Attenti a chi parla di concetti astratti come gloria, onore, operosità, mentre in effetti é interessato solo a massimizzare il proprio potere e la propria ricchezza. E passiamo a Bhurrus F. Skinner, lo specialista di analisi del comportamento, abilissimo nell'addestrare topi, piccioni, cottimisti e venditori. Skinner combatte acremente quella che chiama "letteratura della libertà". Non ammette che si parli di stati mentali e di sentimenti (1). Non sono osservabili e, per lui, non esistono. Sarebbero caratteristiche di un uomo autonomo o di una persona interna inesistente. Le nostre azioni sono determinate perfettamente dalla nostra dotazione genetica cui si sovrappone il condizionamento dovuto all'ambiente. Per ora possiamo influire poco sul nostro patrimonio genetico. Quindi per ottenere comportamenti morali puntiamo sul condizionamento, su cui possiamo influire molto. Così produrremo intere generazioni condizionate a comportarsi bene, a essere costruttive e operose. Il condizionamento funziona meglio se i comportamenti positivi vengono subito rinforzati da un premio. Questa procedura é migliore di quelle in cui i comportamenti da evitare vengono puniti. Così Skinner biasima i libertari. Li accusa di preferire le punizioni (inefficaci) ai premi. Questa loro preferenza dipenderebbe dal loro sciocco amore per la libertà. Cita anche un passo di Rousseau secondo cui il bambino che impara deve essere condizionato così abilmente che possa tendere solo verso le cose che il suo insegnante approva. Dove sbaglia Skinner? Io credo nell'affermare la necessità che qualcuno impari, oltre che a condizionare gli altri, anche a decidere quali sono i loro comportamenti migliori al fine della conservazione e dello sviluppo della loro cultura. Questa cultura viene decisa dall'alto in modo dittatoriale. É probabile che venga definita in modo errato e poi perpetuata con il condizionamento. Se alla parola "cultura" sostituiamo la parola "stato", le affermazioni di Skinner sono identiche a quelle naziste. In conclusione: esistono fini giusti solo se sono validi per tutti. Non possono essere scelti in modo arbitrario e poi diffusi con la forza del condizionamento. Ricordiamo, incidentalmente, che una educazione é da considerare fallita proprio quando riesce completamente - se toglie ogni ____________________________________________ (1) Ho discusso più ampiamente le sue teorie nel mio "Manuale per una improbabile salvezza", Mondadori, 1974 (pp.38-44). 24 originalità all'educato. Tra i fini che dobbiamo proporci deve esserci anche quello di tirare su individui che non seguano passivamente i loro insegnanti e che siano capaci di creare innovazioni impreviste. 25 26 CAPITOLO 3 LE ASSURDITÀ DERIVANTI DALLE REGOLE FISSE "Chi compra uno schiavo ebreo lo terrà per sei anni e al settimo lo libererà. Se durante i sei anni il padrone ha dato moglie a quello schiavo e lui ne ha avuto figli, se ne potrà andare al settimo anno - ma la moglie e i figli resteranno in schiavitù. Se quello schiavo é affezionato alla sua famiglia e al padrone e non li vuole lasciare, il padrone gli praticherà un foro in un orecchio per segnalare che resterà schiavo finché campa." Da dove proviene questa citazione? Provate a mostrarla in giro e ripetete la domanda. Vi risponderanno che é di ispirazione nazista o, forse, che quelle regole vigevano nell'antico Egitto o in qualche paese dell'Europa orientale dove gli ebrei venivano perseguitati e sterminati ogni tanto con i pogrom. Invece no. Le tre leggi che aprono questo capitolo si trovano nella Bibbia. Le ho copiate dal Capitolo 21 dell'Esodo. Sono norme dettate da Dio a Mosé di seguito ai dieci comandamenti - e sono orrende. Non a caso chi onora la Bibbia stende su di esse un velo pietoso. Il Signore di Abramo e di Isacco presentava, dunque, forti analogie con Simon Legree, il crudele padrone di schiavi della Capanna dello zio Tom. Eppure molti ancora ritengono che le leggi fisse dettate nella Bibbia debbano essere seguite e tenute in onore. Sempre nel Capitolo 21 dell'Esodo si prevede che un uomo possa vendere la propria figlia come schiava. Se un padrone percuote uno schiavo e lo uccide, é un assassino. Se, invece, lo schiavo sopravvive un giorno o due, il padrone non ha colpa, perché l'ha comprato col suo denaro. Questo ragionamento non fila un gran che e suona molto barbaro e incivile. Nel Capitolo 22 dell'Esodo gli ebrei sono istruiti candidamente a non lasciar vivere colei che pratica la magia. Il precetto fu seguito ancora nel 'Seicento nei processi alle streghe di Salem negli Stati Uniti. Curioso 27 che la Bibbia non parli degli eventuali uomini che praticano la magia. Queste leggi barbare continuano a essere stampate nelle edizioni della Bibbia in tutte le lingue. Per gentilezza, però, si fa finta che non esistano e non se ne parla mai. Rispetto ad esse fanno una figura molto migliore le parole scritte da Seneca verso la metà del primo secolo. In una sua lettera loda il suo amico perché trattava familiarmente i suoi schiavi e dice: "Sono schiavi - dunque sono uomini. Sono schiavi - dunque sono commensali. Sono schiavi - dunque sono umili amici. Sono schiavi dunque sono compagni di schiavitù, se riflettiamo che la fortuna ha uguale potere su loro e su noi." Seneca conclude che dipende solo dalla sorte se uno é schiavo o é padrone. E non si limitava a scrivere queste cose. Fin quando poté influire sulla gestione del governo sotto Nerone, combatté per l'affrancamento degli schiavi e, forse per questo, fu prima esautorato e poi costretto al suicidio. Sappiamo bene che quei costumi inumani degli antichi ebrei vengono giustificati dai religiosi di oggi sostenendo che si trattava di usanze antiche che proprio la religione ha contribuito a far sparire. L'argomento non convince. Quando si accetta una rivelazione come vera, poi non ha senso sceglierne certe parti e rifiutarne altre. Le regole fisse non sono generate dalla nostra ragione. Ci vengono da fuori e dovremmo considerarle vere - accettandole - oppure false o irrilevanti - rifiutandole. Potremmo anche accettarle per convenienza - perché se tutti le accettiamo, la società funziona meglio. Un vecchio contadino della Lunigiana mi disse tanti anni fa : "Io ho sempre avuto sentimenti anarchici. Non credo in nessuna religione e odio i preti. Però la religione ci vuole per tenere a freno i giovani." Possiamo immaginare che forse in tempi antichissimi qualcuno abbia attribuito con premeditazione a una divinità certe regole fisse che riteneva utile far rispettare per il bene del gruppo umano a cui apparteneva. Questa é forse l'origine dei tabu sessuali, alimentari, topografici, stagionali, dei comandamenti diffusi da Mosé e di altre regole e leggi imposte dal Corano o da altre religioni o suggerite da eresiarchi o da guru. Non é importante sapere come siano andate davvero le cose e, in ogni caso, non abbiamo modo di saperlo - almeno fin quando non riusciremo a ricostruire con certezza segnali provenienti dal passato. É importante, invece, discutere se sia ragionevole seguire certe regole fisse per stare meglio a titolo personale o - come anticipavo - per far funzionare meglio la comunità. Ma esaminiamo in maggiore dettaglio le più note fra le regole fisse: quelle del decalogo. Il fatto stesso che comprenda dieci leggi dipende da una preferenza per i numeri tondi. Infatti nell'Esodo (Capitolo 20) i comandamenti che Mosé riportò dal Monte Sinai sono nove. L'ultimo impone di non desiderare la casa del vicino, né sua moglie, né il suo 28 schiavo, né la sua ancella, né il suo bue, né il suo asino, né altro suo possedimento. Di questo nono comandamento se ne sono fatti due, ma se ne sarebbero potuti fare anche sei portando il totale a quattordici. Poi, però, c'erano anche le altre leggi citate all'inizio del capitolo e che sarebbero state date insieme al decalogo per cui le tavole originali non avrebbero dovuto contenere dieci leggi, né quattordici ma, forse trentaquattro o cinquantaquattro. Una tesi ancora oggi sostenuta da quelli che sono a favore delle regole fisse é che il decalogo, ad esempio, concorda con la legge naturale. Abbiamo già visto, però, che ripugnano alla nostra sensibilità parecchie delle regole che risalgono alla stessa origine del decalogo. Eppure la nostra sensibilità dovrebbe coincidere almeno rozzamente con la legge naturale. Se questa legge naturale é davvero connaturata all'intelletto di tutti gli esseri umani, avrebbe dovuto essere riconosciuta anche prima di Mosé e l'autore della Bibbia avrebbe dovuto biasimare i patriarchi che la trasgredivano. Invece ne racconta azioni orrende senza una parola di critica. Nel Capitolo 19 della Genesi due angeli vanno a visitare Lot che vive a Sodoma. Lot li accoglie a casa sua. Poco dopo i Sodomiti minacciano di sfondargli la porta: vogliono che consegni i due angeli per poter abusare di loro. Lot difende gli angeli e offre, invece, ai Sodomiti le sue due figlie vergini. Dice: "Rinunciate ai miei ospiti. Prendete invece le mie figlie e fate con loro quello che vi piace." Per fortuna intervengono gli angeli che accecano i Sodomiti con una luce abbagliante, se no le figlie di Lot avrebbero incontrato "un destino peggiore della morte". Più tardi quando la famiglia di Lot abbandona Sodoma. La moglie di Lot contravviene all'ordine divino di non guardare indietro e viene trasformata in un pilastro di sale. Le figlie vanno a vivere sole col padre in una grotta. Lo ubriacano e a turno hanno rapporti sessuali con lui per generare dei figli. Nel Capitolo 34 della Genesi si racconta anche la storia di Sichem figlio di Emor, re degli Shechemiti, che aveva rapito e sedotto Dina, la figlia di Giacobbe. Poi Emor era andato da Giacobbe offrendogli buona dote, matrimonio e riparazione. I figli di Giacobbe, Simeone e Levi, risposero che erano d'accordo. Anzi offrirono a Emor di fondere i loro due popoli, purché gli Shechemiti si fossero circoncisi tutti. Gli ingenui Shechemiti accettarono. Tre giorni dopo che si erano circoncisi ed erano menomati e sofferenti, furono uccisi da Simeone e Levi, che saccheggiarono le loro case portando via come bottino le loro cose, i loro figli e le loro donne. Giacobbe biasimò i figli - ma solo perché lo avevano messo in difficoltà con altre popolazioni circostanti che, giustamente, non si sarebbero più fidate di loro. Non ebbe una parola di riprovazione per la loro falsità e la loro violenza. Ma la morale corrente non migliorò neanche dopo aver ricevuto la 29 legge di Mosé. Nel Capitolo 11 del libro dei Giudici, Iefte promette a Dio un sacrificio umano: la prima persona che incontrerà tornando, se Dio gli farà vincere gli Ammoniti. (Incidentalmente gli Ammoniti erano i discendenti di Lot e di una delle sue figlie). Dio lo fa vincere. Iefte torna e la prima persona che incontra é sua figlia, la lascia in vita ancora due mesi e poi la uccide come ha promesso. L'autore della Bibbia presenta questa storia come una tragedia. Però sembra implicare che se Iefte avesse incontrato un estraneo, invece di sua figlia, avrebbe potuto ucciderlo tranquillamente. Avrebbe mantenuto la promessa del voto fatto senza far danno a nessuno! Tanto peggio per il morto ammazzato. Poco tempo dopo i Galaaditi, capeggiati da Iefte, uccidono 42.000 Efraimiti. Si trattava di un'altra tribù semitica i cui membri parlavano un linguaggio leggermente diverso da quello dei Galaaditi. Non sapevano pronunciare il suono "shi" ("sci" in italiano). Così i Galaaditi chiedevano agli sbandati di dire "Shibbolet". Se pronunciavano "Sibbolet", venivano uccisi. Lo stesso fatto che una regola sia fissa implica che ogni azione rilevante rispetto a quella regola può essere classificata solo in una fra due classi. O rispetta la regola oppure non la rispetta. In conseguenza é classificata come buona o legale, oppure come cattiva o illegale. Lo stesso modo di classifica vale per le persone. Sono buone, se compiono azioni conformi alle regole. Sono da biasimare (e anche da punire) se compiono azioni che contravvengono alle regole. Questo modo di classificare le cose ha il vantaggio di essere il più semplice possibile. Nelle officine meccaniche viene tradizionalmente applicato un criterio simile, ad esempio agli alberi cilindrici. Se il diametro di un albero secondo il progetto deve essere di 20 + 0,01 mm, venivano accettati al collaudo quelli che passavano attraverso un foro con il diametro di 20,01 mm e che non passavano attraverso un foro con il diametro di 19,99 mm. Questo sistema PASSA/NON PASSA va bene, appunto, per casi semplici. Non va bene per casi complessi. Da questa logica binaria si deduce il concetto di peccato. Pecca chi contravviene alla legge naturale, razionale o divina. Naturalmente si deve presupporre che la legge sia definita perfettamente così che si possa decidere con sicurezza se un'azione é peccato o no. Per adattarsi un po' meglio alla realtà, che non é discontinua, si é fatta differenza fra peccati gravi e lievi (mortali e veniali, secondo i cattolici). Rubare cento milioni é peggio che rubarne uno. Dunque possiamo classificare le azioni criminose (o riprovevoli) che causano danno ad altri in base all'entità del danno. Anche i giureconsulti romani davano un giudizio in base alla misura del danno causato e un altro giudizio in merito alle intenzioni. Una colpa poteva essere grave (lata), leggera (levis) o leggerissima (levissima) a seconda della premeditazione, del desiderio di nuocere più o meno o della 30 semplice negligenza nell'evitare di danneggiare gli altri. Continuando su questa strada sarebbe ragionevole, allora, abbandonare la logica binaria e usare la logica "fuzzy" (indistinta, sfocata, sfumata) introdotta da Zadeh. Secondo la logica fuzzy ogni affermazione (o proposizione logica) che abbia un senso non si deve classificare semplicemente come vera o falsa. Queste erano le uniche due possibili alternative della logica aristotelica. Non esisteva una terza possibilità (tertium non datur). Invece nella logica fuzzy non solo esiste una terza possibilità : ne esistono infinite altre. Ammettiamo, cioé, un passaggio dal vero al falso che é continuo e procede per passi piccolissimi. Così potremmo classificare le azioni come ottime (100%), buone (90%), abbastanza buone (80%), discrete (70%), passabili (60%), neutre (50%), leggermente criticabili (40%), piuttosto cattive (30%), cattive (20%), pessime (10%), efferate (0%). Ma ovviamente non basta. Giudicheremo con un metro diverso azioni simili, se sono state compiute in circostanze diverse da persone diverse. Questo significa che le regole fisse sembrano tali, ma non lo sono mai. Occorre usare metodi più sofisticati : é proprio questa la mia tesi. Mi sembra di aver mostrato che le regole fisse non sono accettabili. Sono inadeguate per guidare i nostri comportamenti in una realtà complessa. Come abbiamo visto nelle ultime pagine, però, le regole fisse si accompagnano al concetto di colpa. I religiosi lo chiamano 'peccato'. I giuristi distinguono, ad esempio, fra omicidi premeditati, preterintenzionali e colposi. L'omicida che premedita il suo misfatto ha già deciso che vuole compierlo e pianifica le sue azioni per effettuarlo. L'omicida preterintenzionale voleva bastonare o ferire qualcuno e poi va oltre quanto si era prefisso. L'omicida colposo non aveva intenzione di fare male a nessuno, ma, per esempio, guida la sua auto troppo velocemente su strada bagnata, slitta e uccide tre persone. Le colpe possono essere considerate sempre meno gravi - ma il risultato é lo stesso: le vittime muoiono ugualmente. Questo desiderio di affibbiare la colpa a qualcuno e di fare il processo alle intenzioni non é tanto ragionevole. Non vale la pena di discutere se deriva o no dalla tradizione biblica che parla di peccato originale, di peccati contro la divinità o la legge divina. Mi pare sia meglio discuterne gli effetti pratici. In Italia negli anni del terrorismo venne introdotta la così detta legge sui pentiti. Derivava da una legge inglese secondo cui il membro di una associazione a delinquere che testimonia contro i suoi complici e fa in modo che siano presi e condannati, riceve una forte riduzione o anche l'annullamento della pena in cui incorrerebbe altrimenti. La legge inglese non si occupa affatto del pentimento di chi tradisce i complici. (In inglese si dice "turns King's evidence", cioé: "diventa una prova a favore del re", cioé della pubblica accusa). In Italia, invece, si é discusso a lungo se un terrorista che aveva fatto arrestare i suoi compagni fosse sinceramente 31 pentito oppure no. Il problema non era quello. La legge non era stata fatta per entrare nelle coscienze dei terroristi, ma per facilitare il loro arresto. Questa faccenda delle regole fisse non funziona neanche per quanto riguarda gli assassini. Il quinto comandamento é: NON UCCIDERE. Pure la Bibbia é piena di assassini che non vengono considerati peccatori. In tempi recenti le eccezioni ammesse sono ancora più numerose. Anche nella Seconda Guerra Mondiale ministri del culto, che tenevano la Bibbia in onore, benedicevano eserciti contrapposti che sterminavano milioni di persone. Le eccezioni vengono giustificate spesso per ragioni di legittima difesa. Quindi nel capitolo seguente ci occupiamo della legge romana che é essenzialmente tutta basata sul concetto di legittima difesa. 32 CAPITOLO 4 BARLUMI DI MORALE MODERNA NEL DIRITTO ROMANO E IN CICERONE Anche nei romanzi gialli americani quando si parla di tribunali troviamo frasi latine come "nolo contendere" (1) o "nolle prosequi" (2). I codici italiani sono pieni di espressioni latine come: exceptio veritatis, favor debitoris, bonus-malus, dies interpellat pro homine, e così via. Anche nel linguaggio usuale citiamo spesso massime latine come "res perit domino" (3) o "caveat emptor" (4). Malgrado l'opinione negativa di Cesare Beccaria che ho riportato a pagina 6, il diritto romano ha ancora una grande forza. Analizziamo, allora, da dove provenga e vediamo se possa aiutarci in qualche misura a decidere come comportarci. Marco Tullio Cicerone era uomo di legge e teorizzava sulla legge. Scrisse fra l'altro che "il fondamento del diritto é la propensione ad amare gli altri esseri umani". Poi scrisse che il primo dovere della giustizia é quello di non nuocere ad altri, se non siamo minacciati di un danno imminente. La prima definizione introduce un principio di altruismo. É un elemento importante e lo riprenderò nel penultimo capitolo, però mi sono ____________________________________________ (1) Significa "non voglio discutere". Questa dichiarazione viene fatta da chi accetta una sentenza di condanna (in genere per un reato minore), ma sottolinea che non per questo ammette la propria colpa.(2) Significa "non voler proseguire" : lo dichiara la parte civile o il pubblico ministero quando decide di lasciar cadere una citazione o un'accusa. (3) Significa "la cosa va in rovina per il padrone" - cioé: se un certo bene viene distrutto, il danno é a carico di chi ne é il proprietario. Se compro una casa e dopo dieci minuti la vedo distruggere da un incendio, non posso chiedere al venditore di risarcirmi: ormai il danno é mio e non suo. (4) Significa "Stia attento chi compra!" 33 fatto l'idea che rifletta più le idee personali di Cicerone che non le basi del diritto romano. Invece mi sembra che la definizione del primo dovere della giustizia sia in linea con tutta la costruzione del diritto romano. L'idea é che nessuno deve essere danneggiato senza motivi giusti. Se ciascuno di noi può difendersi dai danni o dalle minacce di danno, allora i nostri diritti sono del tutto reciproci. Io non ti danneggio e tu non danneggiarmi. Chi comincia a danneggiare l'altro ha torto e si merita reazioni tali da neutralizzarlo. Non si può lamentare delle ragionevoli rappresaglie ed é tenuto a risarcire i danni causati. Se la mia difesa é legittima, quelli da cui mi difendo sono colpevoli. In queste morali primitive troviamo sempre il concetto di colpa o di peccato. Una volta trovato il capro espiatorio, lo sacrifichiamo e poi staremo tranquilli. Invece non é tanto importante decidere o scoprire di chi sia stata la colpa di una certa situazione. É più importante organizzarsi in modo che non ci siano nemmeno colpe da cercare. É più costruttivo ricercare chi ha avuto il merito di far funzionare le cose. Poi discuteremo come ci é riuscito e ne trarremo insegnamenti in modo da avere nuovi successi in avvenire. Perché dovremmo seguire questi princìpi? La risposta romana non era: "Perché sono ragionevoli e seguendoli stiamo tutti meglio." Era invece: "Perché questi erano i costumi dei nostri antenati e perché il popolo di Roma li ha accettati e codificati." Sono dunque princìpi più generali delle regole fisse, attribuite una per una a manifestazione della divinità come nella Bibbia. Il risultato, però, é molto simile. Come abbiamo visto c'é qualcuno che viene definito colpevole - e per questo non ha più diritti o ne ha molti di meno. É quello che ha fatto male - o perché ha trasgredito la legge di Dio o perché ha trasgredito la legge del popolo. Ma chi erano i componenti del popolo romano? Erano quelli che avevano lo status. Dovevano essere in stato di libertà - cioé non essere schiavi. Dovevano essere cittadini romani, cioé non stranieri, e dovevano essere paterfamilias - padri di famiglia, cioé non avere ascendenti maschi. Qui vediamo che la legge divina ebrea e quella popolare romana sono vicine almeno nell'accettare che esista la schiavitù. Sono vicine anche nel privilegiare l'appartenenza a un popolo particolare. Questo non é strano: ogni popolo tende a considerarsi eletto - non solo gli ebrei e i romani. Anche alcune tribù amerindie chiamavano sé stesse con un nome che significava "uomini" implicando che i membri delle altre tribù o di altri popoli sono bestie, non esseri umani. Dunque il principio di Cicerone sulla propensione ad amare altri esseri umani era un suo pio desiderio. Gli altri uomini vanno amati e trattati bene solo se non sono schiavi e se appartengono alla nostra tribù - se no: niente. Dunque le regole antiche valevano per un mondo semplice in cui ancora si erano fatte poche esperienze. Si era sperimentato che possedere 34 schiavi era comodo - anzi: era probabilmente essenziale perché almeno alcuni padroni potessero osservare il mondo, riflettere su di esso e inventare la letteratura, la scienza, il diritto, la morale, le teorie. Da questo punto di vista, dunque, la schiavitù antica é stata un bene per l'umanità - anche se non per gli schiavi. In quel mondo semplice, però, nessuno aveva esperienza di una società in cui esiste una certa uguaglianza. Questa società esiste oggi nei paesi più ricchi in cui anche i più poveri sanno leggere e scrivere. Poi i loro figli fanno mestieri sempre più difficili, creano ricchezza e sono persone molto più interessanti e piacevoli di quanto lo fossero in genere gli schiavi. Ricordiamo che le società schiaviste sono state tutte molto modeste. In esse gli uomini liberi godevano di privilegi enormi rispetto agli schiavi eppure si trovavano in uno stato miserabile rispetto alle società moderne avanzate. Un modesto impiegato americano o italiano é più mobile, più ricco e più colto sia di un libero cittadino ateniese o romano antico, sia di un possidente dell'Alabama nel 1860. Le regole per vivere nel mondo complesso di oggi devono essere più complicate. Come si vede, oltre che complicate, sono anche più umanitarie. Tornando ai romani, fra i loro doveri era fondamentale la fede. Non certo fede in Dio, ma nel senso di mantenere le promesse. Di nuovo stiamo parlando di reciprocità. Conviene essere onesti e affidabili perché solo così si arriva a creare una società in cui tutti sono onesti e affidabili e in cui perciò regna la fiducia - almeno abbastanza generalmente. Trascuriamo altre considerazioni che fa Cicerone a metà fra il diritto e il suo trattato sui doveri ("De Officiis"), come ad esempio: "Comportarsi onestamente é cosa lodevole, anche se nessuno ci loda esplicitamente." "Dovremmo aiutare, proteggere e conservare la concordia e la comunità di tutto il genere umano". Cicerone stimava molto la sapienza e gli studi. Scrisse che é bene che tutti se ne occupino. Non é stato ascoltato ed é un gran peccato. Però diceva che se mettiamo a confronto due cose utili o due azioni buone, c'é il modo di vedere quale sia preferibile. Per esempio se abbiamo la scelta fra perseguire i nostri diletti studi oppure compiere azioni che salvino la repubblica o i nostri parenti, dobbiamo scegliere queste ultime. Deve prevalere la comunità sulla sapienza. Cicerone diceva inoltre che chi ne é capace deve gestire la repubblica - occuparsi del governo dello stato. Affermazione giusta ma generica. Evidenzia che le buone intenzioni (come occuparsi del governo dello stato) non bastano. Va bene onorare i vecchi, i magistrati ed i grandi uomini che hanno bene meritato della repubblica. Ma non basta. Occorre capire che cosa bisogna fare per governare bene e per far succedere le cose giuste. Spesso non si riesce per le vie normali a far funzionare bene la repubblica, né le aziende, né la società. 35 Allora ci vuole il lobbying (1) non nel senso peggiore del termine, ma nel senso di informare correttamente il pubblico e anche i deputati e i senatori su dati di fatto, meccanismi, tendenze. Dopo aver illustrato le ragioni per cui prevediamo che si stiano per verificare certi nuovi sviluppi, potremo suggerire quali interventi sarebbero necessari per far funzionare meglio la società e farla evolvere in direzioni più positive. Il lobbying fatto in questo modo é un'attività civile e necessaria per diffondere la conoscenza dei problemi e per affrettarne soluzioni positive. É un caso particolare di applicazione della nuova morale che sto cercando di definire. Nel diritto romano e in Cicerone si trovano, dunque, barlumi di preannunzio della nuova morale. Sono particolarmente importanti quelli relativi alla cooperazione e all'altruismo. Ne parleremo ancora nel capitolo 19 e nell'Appendice. ______________________________________________ (1) "Lobby" in inglese americano significa "atrio". Il lobbying é l'attività degli intermediari o rappresentanti di aziende commerciali o industriali che avvicinano gli uomini politici negli atrii del parlamento o del senato. Il loro scopo é, ad esempio, di indurli a passare leggi favorevoli ai loro rappresentati. In qualche caso la parola "lobbying" viene usata come eufemismo per parlare di corruzione. 36 CAPITOLO 5 IL CAMMINO DELLA RAGIONE DALLA BIBBIA AL TALMUD Se le cose fossero andate un po' diversamente, oggi le chiese cristiane si chiamerebbero, invece, hilleliane. Hillel era un fariseo, maestro di religione e di morale. Le date sono incerte, ma pare fosse ancora vivo quando Gesù Cristo era giovane. Secondo alcuni sarebbe stato uno dei suoi maestri. Hillel non lasciò niente di scritto, ma ci sono stati tramandati parecchi suoi pensieri e ragionamenti. Pare fosse il primo a riconoscere "che la vita nelle sue mutevoli condizioni non può subire la costrizione di un codice fisso e immutabile: nella libera interpretazione ammessa dalla legge orale, vide uno strumento di valore inestimabile capace di adattare [la Bibbia] alle varie circostanze." (A.Cohen, "Il Talmud", Laterza 1935, p.8). Alcuni consigli di Hillel non erano molto diversi da quelli di Cristo. Si narra che un pagano gli promise che si sarebbe convertito al giudaismo a condizione che gli insegnasse tutta la Torah nel tempo in cui sarebbe riuscito a star dritto su un piede solo. Hillel gli rispose: "Ciò che non desideri per te, non farlo al tuo prossimo. Questa é la legge. Tutto il resto é commento. Va e studia." Hillel consigliava di studiare, cosa che Cristo non sembra abbia fatto. Hillel era più portato al ragionamento di Gesù Cristo. Aveva dettato sette regole per dedurre dalla Bibbia ogni possibile verità o conseguenza giusta. Era arrivato, dunque, a definire un metodo - cosa che Gesù non arrivò a fare. É stato un peccato. Se avesse prevalso l'approccio hilleliano più metodico e ragionevole - invece di quello cristiano, così vago, forse il mondo sarebbe oggi un luogo migliore. Dagli insegnamenti di Hillel per vari secoli si svilupparono i commenti alla legge orale ebraica che fu scritta solo due secoli dopo. I commenti furono scritti verso il quarto secolo della nostra era. É il Talmud, che contiene regole, informazioni, superstizioni, ma soprattutto ragionamenti. (Per chi é interessato, alla fine del capitolo c'é una breve nota storica sul Talmud). 37 Non per amore di paradosso io sostengo che esiste un parallelo una stretta analogia - fra ragionamenti talmudici da una parte, ingegneria dei sistemi e concetto di qualità globale, dall'altra. Io sono gentile, nel senso di non ebreo e non cristiano. In Yiddish sarei chiamato un apikoros, cioè un miscredente, un agnostico (curioso che l'etimologia di "apikoros" proviene dal nome di Epicuro, liberamente interpretato nella letteratura rabbinica). Perciò - come ho già accennato non voglio certo dare alla mia tesi alcuna connotazione religiosa. Nel pensiero talmudico non troviamo mai regole fisse proposte senza giustificazione. Al contrario: viene discusso ogni contesto e ogni possibile interpretazione delle scritture e delle leggi antiche. Nessun talmudista sarebbe d'accordo con me quando affermo che scritture, tradizioni e leggi antiche sono irrilevanti. Però io credo che il valore universale dell'insegnamento talmudico stia nel metodo: é l'invenzione di Hillel portata alle estreme conseguenze. In questa opera monumentale si cerca, infatti, di discutere di ogni azione: il contesto, la motivazione, la conformità a insegnamenti biblici (che, come ho detto, non mi interessa ai fini delle mie tesi), l'interpretazione di quegli insegnamenti biblici (che. sempre considerata non univoca: ogni questione è passibile di 32 diverse interpretazioni) e, soprattutto, le possibili conseguenze. É questo il punto essenziale. Perchè nel trattato dei torti qualcuno venga ritenuto non responsabile di una conseguenza di una sua azione dannosa agli altri, si deve dimostrare che ha fatto tutto quanto era umanamente possibile per evitare i danni prodotti dalle sue azioni. Secondo il Talmud, bisogna fare del proprio meglio. Un caso discusso é quello del cane di Uri che entra in casa di Menachem. Il fuoco nel camino é acceso e c'é una focaccia che si sta cuocendo. Il cane la ruba e fugge fuori della casa. Sulla focaccia, però, c'era un pezzo di brace. Il cane scuote la focaccia e la brace cade nel campo di grano di Zeev, un vicino, e lo incendia. Chi deve essere condannato a risarcire Zeev del danno subìto? Si risponde: Uri perché é il proprietario del cane. Ma si obietta: il cane ha causato danno a Menachem rubandogli la focaccia. Dunque Uri deve risarcire Menachem del valore della focaccia. Ma é il fuoco che ha danneggiato Zeev. Il fuoco era di Menachem, dunque é lui che deve risarcire il grano bruciato. Si obietta ancora: Menachem sarebbe scagionato se il cane di Uri si fosse introdotto nella sua casa scavando una galleria sotto terra. Nessuno può essere tenuto a premunirsi contro una eventualità così improbabile. A Menachem, invece, andrebbe attribuita una parte di responsabilità se avesse lasciata aperta la porta della sua casa. Se non lo ha fatto, sarà responsabile in parte la persona che ha lasciato aperta quella porta. E così via. Il trattato Baba Qamma ("Prima Porta"), 6:1-3, esamina il caso di un gregge di pecore che esce dal recinto e calpesta il campo del vicino, danneggiando il raccolto. Il proprietario del gregge non . responsabile di quei danni, se aveva chiuso bene il cancello, se aveva affidato il gregge a 38 un pastore esperto, se aveva usato chiavistelli adeguati a impedire l'accesso a terzi che avrebbero potuto liberare il gregge e cos. via. Il trattato Nedarim ("Voti"), 9:1-2, esamina i casi in cui uno può dire: "Se avessi saputo come sarebbero andate le cose, mi sarei comportato meglio, oppure non avrei preso certi impegni". É, però, abbastanza severo: bisogna cercare di immaginare cosa potrà accadere, prima di impegnarsi o di fare un voto. Su questo punto tornerà fra poco. Una storiella Yiddisch racconta dell'ebreo che cercava di spiegare a un gentile come funziona il ragionamento talmudico. Gli dice: "Un uomo cammina per la strada con un amico e lo invita a casa sua. Però quando arriva alla casa, la porta é chiusa e lui non ha la chiave. Cosi decidono di entrare passando dal camino. Dopo che sono entrati aprono le finestre e si guardano in faccia. Uno dei due ha la faccia sporca e l'altro ce l'ha pulita. Quale dei due si va a lavare?" Il non ebreo risponde: "Quello con la faccia sporca." L'ebreo obietta: "Rifletti. Quello che ha la faccia sporca guarda l'altro e vede che ce l'ha pulita ..." Il gentile lo interrompe: "Ho capito! Vede che ce l'ha pulita e pensa di averla pulita anche lui. Invece quello che ha la faccia pulita pensa di averla sporca come l'altro e si va a lavare lui. É così no?" "No. Non é così. Come é possibile che uno sia sporco e uno sia pulito, se sono passati dallo stesso camino?" La storiella finisce qui, ma si potrebbe continuare a discutere. Perché non é passato dal camino solo il padrone di casa, andando poi ad aprire al suo amico? Chi é passato per primo, il padrone di casa o l'amico? Quello che é passato per primo non ha forse ripulito il camino in modo che il secondo fosse davvero più pulito di lui? E così via. L'interessante è il modo di sollevare obiezioni - di discutere cioè quale sia il punto di vista giusto su ogni questione, cercando di avvicinarsi sempre di più alla verità - a pareri più giusti. Dopo l'affermazione di un principio o di una dottrina, il testo dice: "Si solleva un'obiezione." L'obiezione viene esposta e poi discussa e controbattuta. Alla fine 'si solleva un'altra obiezione per molte e molte volte - talora per decine di pagine. Come vedremo nel capitolo 7, questa tecnica iterativa . stata adottata anche da Tommaso d'Aquino nella Summa Theologica. La struttura. è la stessa :"Sed contra est :.." - "Respondeo". Ma - cosa più interessante - la stessa procedura si usa nelle discussioni fra esperti in tutte le fasi di progetto di un grande sistema tecnologico. Perchè? Ma perchè i sistemisti si occupano di sistemi complessi mai visti, n. progettati prima. Non esistono manuali che possano fornire soluzioni prefabbricate. Spesso gli stessi esperti possono solo rifarsi a casi precedenti solo vagamente analoghi a quelli che affrontano ora. Dunque devono ricorrere alla immaginazione. Devono confrontare gli uni con gli altri i modelli del mondo - e del sistema futuro - che hanno in testa. La procedura di progetto non può essere deterministica. 39 Proprio come nelle discussioni fra talmudisti, non si può dare retta all'autorità di un sommo esperto di chiara fama. I talmudisti dicono che c'è bisogno di un compagno con cui studiare e di un maestro cui insegnare. Spesso la freschezza di mente (o di pensiero laterale) del novizio gli permette di essere più acuto del maestro. In modo analogo nell'ingegneria dei sistemi bisogna curare di farsi venire in mente tutti gli elementi necessari. Sono proprio le situazioni poco frequenti e poco probabili che possono causare il blocco totale del sistema, se vengono ignorate in sede di progetto. Per individuarle e prevederle, non c'. altro modo che discuterne sollevando obiezioni. Non ci sarebbe mai venuto in mente il parallelo col Talmud quando l'ingegneria si occupava di cose semplici. Ma ora non ci si occupa solo di singole macchine o edifici, ma di sistemi complessi quanto il mondo in cui devono funzionare. E il Talmud studia il mondo (che è complesso) non i dettagli. Scrive E. Levinas (nelle sue Quattro letture talmudiche): "Discutendo sul diritto di consumare "un uovo deposto in giorno festivo" o sull'indennità dovuta per i danni prodotti da un bue spesso violento (muad), i savi del Talmud non discutono né di uova, né di buoi, ma mettono in questione idee fondamentali". In altre parole si occupano di metodo. E progettare la complessità è possibile solo con gruppi di lavoro che usino metodi adeguati. Nessuno ha la verità - dobbiamo costruirla. E a questo punto sollevo io stesso un'obiezione ai limiti del pensiero talmudico, per connetterlo con le tendenze verso la qualità globale di cui parlo più diffusamente nell'ultimo capitolo. Se é vero che sapendo di più a priori, siamo meno responsabili di eventi avversi, allora sapere di più é un dovere che non finisce mai. Soltanto sapendone di più sul mondo e sapendo prevedere meglio cosa accadrà, possiamo esimerci da responsabilità colpose e guadagnare merito. Non arriveremo mai all'onniscienza, ma dobbiamo tendere verso di essa. I grandi sistemi tecnologici governano trasporti, comunicazioni, energia. Ad essi sono affidate milioni di vite umane. La responsabilità é enorme e dobbiamo affrontarla. Qui si può sollevare la contro-obiezione :"Non siamo tutti progettisti: perché allora l'approccio talmudico deve interessare tutti ? Chi non progetta sistemi non potrebbe accontentarsi della morale tradizionale?" Questa contro-obiezione non vale. Infatti perché i sistemi funzionino bene, ci vuole anche la collaborazione degli utenti: di tutti gli utenti. Devono evitare i vandalismi. Devono capire bene come dovrebbe funzionare il sistema in modo da accorgersi subito quando qualche cosa non va e da avvisare il personale di manutenzione. Devono evitare l'abuso delle funzioni offerte dal sistema, affollandosi tutti a richiederle nello stesso momento. Se telefoniamo tutti insieme, la rete darà occupato a tutti. Se partiamo tutti il 1 agosto, le autostrade si bloccano. Se consumiamo elettricità tutti fra le 9 e le 10 o fra le 17 e le 18, facciamo crescere il rischio di blackout. Per evitarlo dobbiamo conoscere bene il sistema e 40 saperne prevedere i comportamenti futuri. Si potrebbe obiettare ancora che questa regola riguarda le masse, non i singoli. Se io sono il solo che si comporta bene, l'effetto che ottengo è nullo. Ma i singoli che danno il buon esempio vengono seguiti dalle masse. Il Talmud dice: "Zikhronam livrakhà" (il loro ricordo sia di benedizione). In senso più operativo, dare il buon esempio può indurre altri a comportarsi in modo altruistico e, quindi, a migliorare la situazione per tutti. Questo concetto é precisato dalla trattazione matematica della teoria della cooperazione nell'Appendice. Qui ho appena accennato ai metodi dell'ingegneria dei sistemi e a quelli per ottenere qualità globale. In capitoli successivi vedremo in maggiore dettaglio i contenuti di queste discipline che sono rilevanti anche per la nostra morale personale. * * * Breve nota storica sul Talmud Dio sul Sinai non diede a Mosé solo le tavole della legge. Secondo la tradizione rabbinica aveva anche pronunciato la legge orale. Per questo Mosé era restato sul monte per vari giorni. Quando era tornato, aveva raccontato la legge orale a Giosué che, a sua volta, l'aveva trasmessa ai saggi. Questo insegnamento orale, quindi, aveva avuto origine insieme al decalogo e alla Bibbia (la Torah) e conteneva spiegazione e commenti della legge. Questa legge orale fu tramandata oralmente per millequattrocento anni: dal 1250 a.C. al secondo secolo della nostra era, quando Akiba bar Joseph ne ordinò il materiale in modo sistematico. Costruì addentellati precisi fra la legge scritta (la Torah) e le pratiche tradizionali e le decisioni legali accumulate attraverso i secoli. Qualche decennio dopo questa Torah orale fu codificata per iscritto da Giuda il Santo (Yehudah haNasi - il principe o il patriarca). Questa Torah orale si chiama Mishna, che significa "ripetizione" - cioé "studio, insegnamento appreso con un metodo orale". La Mishna é divisa in sei parti (od ordini) : Semenze (leggi agricole e diritti dei poveri), Stagioni (regole che riguardano l'osservanza del Sabato, i digiuni, le festività), Donne (regole su fidanzamenti, matrimonio e divorzio), Torti (leggi civili e criminali), Cose sante (regole sui sacrifici), Purificazioni (norme igieniche). Intanto vari maestri continuavano a produrre commenti alla Mishna. Anche questi furono tramandati oralmente per secoli. Furono scritti separatamente a Gerusalemme e in Babilonia nel quarto e quinto secolo della nostra era. Questo commento si chiama Gemara o completamento: é il Talmud. Il Talmud babilonese contiene 63 trattati ed é tre volte più lungo di quello palestinese, che ne contiene 39. Le due versioni riflettono una stessa tradizione orale. I loro autori erano in frequente comunicazione. Quindi non ci sono contraddizioni degne di nota fra i due testi. Quest'opera 41 monumentale commenta la Mishna, ma tratta anche di altre fonti esterne ancora tramandate oralmente al tempo della stesura. Il Talmud non é ordinato per argomenti - come lo é rigidamente la Mishna. Le sue parti sono aggregate con criteri esteriori. Riflettono, ad esempio, questioni di legge, ma anche di igiene, di riti e di tecnologie che erano state toccate in una discussione fra certi maestri. Il testo é pieno di digressioni. Può dare l'impressione che ogni tanto salti di palo in frasca. I contenuti del Talmud, quindi, sono di due tipi, chiamati Halakhah (letteralmente "cammino"), che é la legge commentata, e Haggadah ("narrazione"), che é costituita da storie, concezioni sociali e politiche, leggende, folklore, favole e cronache. Alcune di queste storie leggendarie sono del tutto fantastiche. Per esempio un rabbino raccontava che in un suo viaggio per mare aveva visto un pesce gigantesco che nuotava nella direzione opposta a quella della sua barca. Era così lungo che avevano navigato per tre giorni e tre notti, andando molto veloci, prima di arrivare alla coda del pesce. La Haggadah, dunque, é più pittoresca - ma qui ci interessa poco: molti la considerano di valore secondario. La Halakhah é talora molto contorta e illeggibile. Ce ne interessa il metodo - non le credenze che accetta, né i contenuti letterali. Lo studio del Talmud é basilare per la formazione dei rabbini, che non sono sacerdoti, ma interpreti della legge. Nelle comunità ebree tradizionali il rabbino aveva anche la funzione di giudice e decideva anche cause civili. Questi giudizi si chiamavano Din Torah. Da quanto detto si capisce che lo stesso Talmud richiede grossi sforzi di interpretazione per essere ben compreso. Non é un codice formato in un certo momento con una concezione unitaria. Mi sembra che il Talmud - a parte le sue origini religiose - presenti qualche analogia con la legislazione anglosassone basata essenzialmente sui precedenti legali. Per interpretarne un passo é necessario conoscere anche tutti gli altri passi che possono essere rilevanti in un certo contesto. Naturalmente il lavoro degli interpreti deve obbedire al vincolo che nessuna proposizione contenuta nel Talmud potrà mai essere contraddetta da un'altra proposizione. Quando parleremo di progettazione di sistemi tecnologici mai realizzati prima, vedremo che in questo campo non possiamo avere garanzie simili. Però ho già detto che "non si può dare retta all'autorità di un sommo esperto di chiara fama". Quindi le analogie fra i ragionamenti sistemistici e quelli talmudici sono più profonde di quanto sembra. Il trattato Baba Metzia (Porta Media) 59b racconta di una controversia fra Rabbi Yehoshua e Rabbi Eliezer. Questo stava avendo la peggio e disse: "Se la legge é conforme alla mia opinione, possa provarlo questo carrubo." E l'albero di carrubo si spostò miracolosamente di cento metri. Però gli altri maestri obiettarono: "Non si può dedurre una prova da un carrubo." Eliezer allora compì altri miracoli. Fece invertire il flusso di un 42 fiume e fece inclinare i muri della casa in cui si trovavano, preannunciando questi prodigi come prove delle sue asserzioni - ma non convinse nessuno. Allora invocò il cielo e dal cielo venne una Bath Kol (letteralmente "figlia di una voce"), cioé si sentì la voce di Dio che gli dava ragione. Ma gli altri saggi non diedero valore neanche a quella (1). Si vede così che "soltanto la ragione deve decidere la corretta interpretazione della Torah" - come dice A. Cohen nel suo libro citato sul Talmud. Nella tradizione ebrea dell'Europa orientale i metodi di interpretare il Talmud si chiamano colloquialmente pilpul, che significa "pepe". Il senso é che il ragionamento deve essere piccante come il pepe. Quando un talmudista espone ad alta voce gli argomenti concatenati di un pilpul il suo tono si fa cantilenante seguendo un modello tradizionale. Graziosi esempi di pilpul si trovano nei romanzi di Harry Kemelman, in cui un rabbino americano fa il detective e risolve ogni volta un caso criminale col ragionamento talmudico. A metà del XIII secolo l'Inquisizione condannò il Talmud e ordinò di sequestrare e bruciare tutte le copie esistenti. Nel 1242 a Parigi furono bruciati 24 carri contenenti 12.000 volumi di manoscritti ebraici. Seguirono vicende alterne di tolleranza e di rigore violento. Nei primi anni del XVI secolo papa Leone X permise che si ristampasse il Talmud a Venezia.. L'inquisizione lo condannò di nuovo al rogo nel 1553. Pochi anni dopo il Concilio di Trento ne permise la stampa a condizione che ne fossero omessi certi passi incriminati. ____________________________________________________ (1) Qui, però, mi sembra di aver trovato una contraddizione nel Talmud. Nel trattato Erubin (Amalgamazioni) 13b (che fa parte del secondo ordine "Stagioni") si racconta che la controversia fra Hillel e il suo avversario Shammai fu decisa a favore di Hillel proprio da una Bath Kol! 43 44 CAPITOLO 6 LA LEGGE MORALE IMPRESSA NEI NOSTRI CUORI - CORREGGIAMOLA Una telefonata da Helsinki ci dice che si é suicidato il nostro amico Pentti. "Perché lo ha fatto?" - chiedo a Paolo che lo conosceva bene. Me lo aveva presentato lui. Risponde: "Si é suicidato perché era finlandese." É una risposta delirante? É uno scherzo nero di Paolo che fa il cinico per consolarsi della morte dell'amico? Oppure sta alludendo a pene sofferte dalla famiglia di Pentti durante la seconda guerra mondiale quando la cittadina in cui abitavano era stata occupata dai russi dopo scontri sanguinosi. "No." - mi spiega - "Un finlandese in media ha una probabilità 5 volte maggiore di quella di un italiano di morire suicida." Paolo, in certo senso, ha ragione. La tabella seguente è relative a varie date verso la fine del secolo XX: Suicidi ogni 100.000 abitanti Finlandia Francia Austria Giappone Danimarca USA Germania Svezia Norvegia Olanda Spagna Regno Unito Portogallo Italia Grecia Maschi 41.8 30.2 33 23 22.9 21.9 21.8 20.3 18.5 12.5 11.8 11.3 9.9 8.26 5.2 45 Femmine 11.4 9.8 8.9 10.9 8.7 4.5 7.1 8.4 6.1 6.1 3.3 3 2.2 2.59 1 Se si contenessero come le francesi, non si ucciderebbero in un anno 800 italiane, ma 3.000. Già questo raffronto è abbastanza sconvolgente. Pare che in Giappone la tradizione dello harakiri (o seppuku) stia passando di moda, dato che il numero dei suicidi in quel paese é minore di quello francese e maggiore di quello tedesco occidentale. A Roma sotto gli imperatori Flavi il suicidio era comune. Seneca ne parlava bene e lo consigliava a chi avrebbe corso altrimenti il rischio di vivere male o senza onore. Diceva: "Imbecillus est et ignavus qui propter dolorem moritur, stultus qui doloris causa vivit" (É imbecille e vigliacco chi si uccide perché é afflitto da un dolore, ma é sciocco chi si ostina a vivere sebbene debba soffrire dolore.). Poi fu costretto a praticarlo. Scrisse che non é importante morire un po' prima o un po' dopo. É importante morire bene invece che male. Gran parte delle notevoli disparità fra diversi Paesi sono da attribuire alle diverse regole o propensioni delle autorità giudiziarie di classificare certi suicidi come incidenti. Non esiste alcuna correlazione fra latitudine e suicidi. Gli inglesi che stanno più al Nord si suicidano appena più degli italiani e molto meno dei tedeschi e dei francesi. Possiamo immaginare che le complesse cause dei suicidi siano: economiche, genetiche, connesse con l'alimentazione, ma soprattutto sociali e culturali. Negli Stati Uniti la notoria diffusione delle armi da fuoco é molto probabilmente una delle cause maggiori di suicidi. Il 60% dei suicidi americani usa armi da fuoco. In ciascun paese il numero di morti per cadute cambia pochissimo di anno in anno. Quello dei morti in incidenti stradali varia lentamente (in Italia si é quasi dimezzato negli ultimo 20 anni). Invece il numero dei suicidi cambia parecchio da un anno all'altro. Grosso modo subisce variazioni del 15% in più o in meno rispetto a un valore medio. Taluno ha voluto riconoscere in queste variazioni una periodicità deterministica che però non é corroborata dalle serie storiche. Hanno sostenuto che quelle variazioni erano sincronizzate con gli alti e i bassi dei cicli economici. Non trovo convincenti queste teorie. Non si riconosce nessuna semplice relazione di causa ed effetto tra il numero dei suicidi in un paese e alcun parametro economico, sociologico o culturale facilmente misurabile. L'incertezza causata da una miriade di fattori impossibili da analizzare individualmente, é molto forte. In ogni caso migliaia di persone si comportano in modi uniformi in ciascun paese e difformi tra un paese e l'altro. Non siamo affatto in grado di capire perché si comportino in questi modi. Seguono leggi morali diverse? Risentono di una compulsione ad autodistruggersi? Tendono più o meno intensamente a danneggiare gli altri? Differiscono nella capacità di funzionare in modo normale? Forse queste persone hanno in comune una cosa. Sono incapaci di progettare. Non si interessano di quello che avverrà dopo la loro morte. Probabilmente non riescono a capire quali conseguenze positive potrebbero ottenere compiendo sequenze di azioni ben congegnate. Subiscono l'effetto di fattori sociali e culturali complessi che incidono sulle loro decisioni e sulle loro depressioni. La depressione é una sindrome mal 46 definita, ma certo esistente che menoma la nostra vitalità, ci impedisce di funzionare - eventualmente ci distrugge. Secondo l'insegnamento della chiesa cattolica il suicidio é peccato mortale. Chi lo commette dispera della salvezza finale (uno dei sei peccati contro lo Spirito Santo). Fino a tempi recenti i suicidi non venivano sepolti nella terra consacrata dei cimiteri. Questi insegnamenti della chiesa cattolica in se non ci interessano molto. Però pretenderebbero di coincidere con una legge morale connaturata a tutti gli uomini. In paesi prevalentemente cattolici (Ungheria, Austria e Italia) questa esplicitazione della legge naturale dovrebbe produrre comportamenti difformi da quelli comuni negli altri paesi. Invece le nazioni così dette cattoliche si trovano sia in testa, sia in coda alla classifica dei suicidi. Dunque anche il tipo di morale che abbiamo scelto o che ci é stato impartito e in base al quale dovremmo decidere le nostre azioni é irrilevante. Un'azione così definitiva come quella di distruggere noi stessi, la decidiamo in base alla nostra nazionalità - non alle nostre credenze, né a pretese leggi universali interiori. Allora per queste ragioni dovremmo dubitare di nuovo che il libero arbitrio sia prerogativa di tutti gli esseri umani. Sembra che alcuni di noi almeno non lo abbiano e siano forzati a comportarsi in certi modi da fattori esistenti nel paese in cui vivono. Nel caso del suicidio le conseguenze sono esiziali e ovvie. C'é da sospettare che gli stessi fattori (per altro non conosciuti) condizionino a fare altre scelte importanti anche se meno clamorose, parecchie persone che non si rendono conto di agire in modo meccanico - condizionato dall'esterno. Dunque non aveva ragione Immanuel Kant quando diceva: "Due cose riempiono l' animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e a lungo il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me." La frase é tanto famosa che tendiamo a considerarla vera. Se lo fosse davvero, non avremmo nessun bisogno di ragionare sulla morale, sui modi di comportarsi, sulle idee concepite da filosofi, pensatori e giuristi. Se, guardando dentro di noi trovassimo leggi morali poco diverse le une dalle altre, non ci sarebbe bisogno di questo mio libro. Invece questa pretesa legge morale innata o ereditaria é impressa dentro di noi in modo incerto e, soprattutto, ha contenuti e implicazioni diverse per individui diversi. Abbiamo già visto che le leggi morali implicitamente accettate nel primo libro della Bibbia (Genesi) erano primitive e bestiali. Abbiamo visto che il decalogo non ha migliorato di molto le cose. Infine non solo le percentuali dei suicidi, ma anche i comportamenti considerati normali e per bene differiscono molto da una civiltà all'altra. Da alcuni popoli la schiavitù é accettata ancora oggi. In certi paesi le adultere vengono lapidate e ai ladri si tagliano le mani e anche i piedi se sono recidivi. Pare che la fedeltà coniugale fosse sconosciuta agli eskimesi. Gli amministratori pubblici si procurano spesso vantaggi personali illeciti: in certi paesi lo fanno in modi ostentati, in altri paesi cercano di farlo di nascosto. Gli stessi valori umani tenuti in considerazione più alta variano 47 molto: la bellezza, la forza fisica, la pinguedine, la soavità, la bontà, la ricchezza, il bel canto, la potenza politica, la saggezza, la cultura. Dunque la legge morale scolpita nei nostri cuori é una incrostazione derivata da tante origini diverse. Incorpora regole empiriche tradizionali riconosciute grosso modo ragionevoli. Contiene prescrizioni imposte ad arbitrio in tempi remoti e che non sono state combattute abbastanza. É fatta di regole poi modificate in modi casuali. É fatta di leggi dedotte da premesse gratuite. In generale sembra che l'evoluzione dei criteri morali e dei modi in cui vengono applicati sia positiva. In molti paesi avanzati (o forse solo più ricchi: é una coincidenza che li consideriamo più avanzati?) la pena di morte é stata abolita - e questa decisione é stata indipendente dalla accettazione di principi superiori religiosi o mistici. In Vaticano nel secolo scorso l'unico apporto della rivoluzione francese ad essere accettato fu la ghigliottina. Sostituiva forme di esecuzione capitale molto più crudeli: l'impiccagione, la decapitazione con mannaia e l'uccisione a colpi di mazza (mazzolamento). Ora che le leggi improntate al messaggio d'amore cristiano non valgono più, nel territorio della repubblica italiana, di queste barbarità non si parla nemmeno. La pena di morte, reintrodotta dal fascismo nel 1925, é stata abolita. Non sembra ragionevole dedurne che la legge morale impressa nel cuore dei legislatori in certe epoche dicesse di torturare e uccidere certe persone, mentre ora non lo dice più. É più probabile che la coscienza civile si sia evoluta in senso positivo perché si riconosceva che accettare certi princìpi conduce a creare una società in cui si vive meglio. Purtroppo i princìpi e le morali comunemente accettate non evolvono ovunque in direzioni positive. Regrediscono a livelli barbarici nei paesi in cui si riaffermano fondamentalismi religiosi. Dovremmo mandare in questi paesi missionari laici che insegnino: per vivere in modo decente é meglio usare il buon senso e riconoscere diritti uguali a tutti, che non appellarsi a principi superiori e immutabili. Organizzarsi in modo ordinato e realizzare sistemi tecnologici efficaci porta più vantaggi alla gente di quanti ne possano dare volumi (o milioni di ore di predicazione) di regole fisse, di ordini gratuiti, di fisime antiquate concernenti una pretesa perfezione descritta in prose sublimi. Solo per il fatto che sono antichi c'é da sospettare che i testi sacri siano inadeguati o dannosi. Certo il lavoro di questi missionari non sarebbe facile. I fanatici che si sono messi qualcosa in testa difficilmente ci rinunciano. E, poi, per poter mandare in giro missionari dovremmo prima creare una società in cui siano largamente diffusi e accettati i valori della razionalità e della abilità di prevedere e pianificare. Come accennavo sopra, sono proprio queste le componenti che mancano alla formazione e alla personalità di troppi cittadini dei paesi così detti avanzati. Questa mancanza motiva comportamenti individuali e collettivi casuali o negativi che portano a distruggere risorse e a degradare la qualità umana. Per evitare questi danni, abbiamo bisogno di una morale nuova - di una tecnica dei fini e delle azioni. Cerco di fornirle con questo libro. 48 CAPITOLO 7 CONTRADDIZIONI, PRATICITÀ, RISERVE MENTALI DA TOMMASO A IGNAZIO Il frate era tanto grasso che avevano segato via dalla tavola un settore semicircolare per fare posto alla sua grande pancia. Il fratone non ascoltava il novizio che leggeva il manoscritto della vita di un santo. Masticava lentamente - e sembrava che ruminasse. I confratelli lo chiamavano "il bue paziente". Aveva lo sguardo accomodato all'infinito. Improvvisamente alzò il braccio e colpì il tavolo col suo grosso pugno, facendo tintinnare il povero vasellame della mensa. Gridò: "A questo argomento non troveranno risposta gli Averroisti!" Il frate era Tommaso d'Aquino. Dopo la sua morte la Chiesa lo chiamò "Doctor Angelicus" e lo santificò. Tommaso d'Aquino scrisse la Summa Theologica, un'opera monumentale dentro la quale c'é tutto: logica, teologia, fisica, cosmogonia, storia sacra, dogmi della fede cristiana - e morale. Da molti secoli, ormai, religiosi e teorici della religione di tanti tipi diversi si sono occupati di morale. Conviene analizzare che cosa hanno sostenuto anche a chi non é religioso o appartiene a chiese o sette diverse da quelle degli autori. Nel terzo capitolo ho sostenuto che é assurdo accettare regole fisse. Malgrado questo non possiamo escludere che sia stato pensato qualche argomento valido e rilevante anche da chi in linea di principio accetta regole fisse. Non esistono uomini che hanno ragione su tutto e sono rari quelli che hanno torto su tutto. La maggioranza di noi dice cose inutili e false su qualche argomento e dice cose vere e utili su altri argomenti. Vediamo, dunque, se anche in San Tommaso possiamo trovare qualche utile insegnamento o se ci conviene rivolgerci altrove. Tutta la Summa Theologica procede per ragionamenti e controversie simili in certo modo a quelli che si trovano nel Talmud - come anticipavo nel Capitolo 5. Lo schema seguito da Tommaso, però, é più rigido di quello talmudico, improvvisato da tanti autori diversi in epoche diverse. Ad esempio la questione XLII nel secondo volume della Seconda Parte della 49 Summa tratta della sedizione, che é opposta alla pace. É divisa in due articoli: nel primo si discute se sia o no un peccato distinto dagli altri peccati; nel secondo se sia sempre peccato mortale. Per ciascun articolo vengono prima addotti argomenti o citazioni di classici contrari all'assunto ed altri favorevoli. Poi Tommaso risponde a ciascun argomento e trae le conclusioni finali. Nel caso della sedizione ragiona che é peccato grave, se porta la discordia nel popolo. Però se la sedizione viene fatta contro un regime tirannico, che é cattivo, allora la sedizione porta discordia contro il male e può non essere peccato. C'é un'ulteriore distinguo: la sedizione contro il tiranno é peccato se causa perturbazioni così disordinate da danneggiare la maggioranza dei cittadini più di quanto non avrebbe continuato a danneggiarla il tiranno. Quest'ultimo ragionamento fila ed é uno dei modi in cui le regole fisse bibliche o cristiane sono state temperate e rese più aderenti alla realtà. Si sa che Tommaso d'Aquino si appoggia continuamente ad Aristotele. Come punto di partenza non é disprezzabile - almeno per quanto riguarda la logica. Questo implica una costanza del tipo di ragionamento molto maggiore che nel Talmud. Meno solida naturalmente é la parte che si occupa della conoscenza del mondo fisico - che però esula dal nostro discorso centrale. Tommaso si trova in gravi difficoltà perché il bagaglio dogmatico che si porta dietro é più pesante di quello biblico: comprende la Bibbia, i vangeli e gli scritti dei padri della Chiesa fra cui Agostino. I principi dogmatici sono indiscussi. Nell'Articolo Terzo della Questione CX nel Secondo volume della Seconda Parte della Summa si dimostra che non ci può essere niente di falso nella Sacra Scrittura e che, se davvero qualche cosa é falso, allora si vede che deve essere interpretato in senso figurato. Le Scritture vengono trattate, dunque, come le teorie vaccinate definite da Karl Popper come quelle che per definizione devono essere accettate come vere a prescindere da osservazioni, testimonianze o risultati di esperimenti vecchi e nuovi. Come abbiamo visto nel Capitolo 5, chi accetta teorie vaccinate e regole fisse, deve fare i salti mortali per mettere d'accordo princìpi e fatti che fatalmente si contraddicono. Tommaso si mise nei pasticci quando si mise a ragionare sulla predestinazione. Le sue idee sono in netto contrasto con quelle che ho esposto nel primo capitolo. Tommaso crede nelle profezie e nella predestinazione, che sarebbe la decisione presa da Dio ab aeterno di assicurare a qualcuno la vita eterna. La predestinazione consegue il suo effetto in modo certissimo e infallibile. Nessuno si salva senza di essa. Poi sostiene che nessuno può fidarsi della predestinazione, dandosi al peccato e astenendosi dalle opere buone. Come ci sono i predestinati, infine, ci sono anche i reprobi, ai quali Dio permette di dannarsi - certo: se ci mettono del loro e peccano abbastanza, mentre a rigore potrebbero anche non farlo. Mettere d'accordo l'onnipotenza di Dio con il libero arbitrio é 50 un'opera disperata. Tommaso d'Aquino ci é riuscito, ma ha pagato un prezzo altissimo di contorsioni logiche che avrebbero lasciato Aristotele esterrefatto. Altre contorsioni sono necessarie per giustificare le curiose regole bibliche di cui abbiamo già parlato. Perché il padrone che bastona lo schiavo non é colpevole se questo muore dopo due o tre giorni? Non lo é perché lo schiavo potrebbe essere morto anche per altre cause. Le regole sugli ebrei tenuti schiavi e sulla vendita della propria figlia come schiava, Tommaso le giustifica sostenendo che non si tratta di vera e propria schiavitù, ma di rapporto mercenario, di servizio. Allora non c'é niente di male nel trovare lavoro a qualcuno. Dunque Tommaso d'Aquino fu il primo cristiano a usare la casistica, che sarebbe un buon modo di ragionare per esempi concreti. Però questo approccio é stato esasperato da altri dopo di lui. In particolare i Gesuiti hanno accettato in blocco le teorie e il modo di ragionare di San Tommaso. Hanno sviluppato modi di ragionare sulle intenzioni e sulle motivazioni arrivando a punti di vista blandi - che furono chiamati "lassisti". Pare che i Gesuiti seguissero queste tendenze per non contrariare troppo né i fedeli, né i convertiti in terra di missione e, quindi, per dare maggiore seguito alla Chiesa e al Papa. Nel linguaggio corrente si parla di morale gesuitica per riferirsi a chi spacca i capelli in quattro per giustificarsi e, addirittura, mente pur non pronunciando frasi letteralmente false. Una volta sentii un gesuita che ragionava così: "Supponiamo che io stia per attraversare in treno una frontiera. Prima del controllo doganale, nascondo nel sedile oggetti che dovrebbero pagare dogana. Poi quando il doganiere mi chiede: "Ha niente da dichiarare?" Rispondo: "Non ho con me niente che debba pagare dogana." Dicendo "con me", intendevo "sulla mia persona" e - quindi - non ho mentito e non ho peccato. Poi, passata la frontiera riprendo gli oggetti incriminati dal sedile, li rimetto in tasca - ma in quel momento nessuno mi sta chiedendo se devo pagare dogana o no." Si racconta anche la storia del Gesuita che vede passare di corsa un criminale fuggiasco. Per qualche ragione gli rimane simpatico - o, forse, spera di convertirlo in avvenire. L'evaso scappa. Poco dopo arriva la polizia che lo insegue e chiede: "É passato di qui un uomo che correva con un vestito scuro stracciato?" Il gesuita risponde: "No. Di qui non é passato." E, di nuovo, non mente e non commette peccato se, mentre pronuncia quelle parole, infila il dito della mano destra nel polsino della sua manica sinistra. É vero: il fuggiasco non é passato per la sua manica. Questi sono casi estremi e fabbricati. Però alcuni gesuiti hanno sostenuto seriamente la teoria della "direzione di intenzione". In base a questa, un'azione per se riprovevole e peccaminosa non lo sarebbe più, se 51 commettendola pensiamo più intensamente ai risultati buoni che potrebbe avere e non a quelli cattivi. Altra teoria criticabile dedotta dalla casistica tomistica é il probabilismo. Molte azioni non sono peccato, se uno mentre le compie non é del tutto sicuro che la legge di Dio le proibisca. Tutti questi contorcimenti ci possono sembrare alieni. C'é un aspetto però che non ci é affatto alieno. É la riserva mentale. Ci cadiamo dentro quando facciamo finta che le cose siano diverse da come sappiamo bene che sono allo scopo di non dover fronteggiare compiti sgradevoli o faticosi. Fare finta che il mondo sia diverso (che certi rischi non ci siano, che certe perdite non siano state già sofferte) o che le persone intorno a noi siano diverse, é sicuramente un'azione sbagliata. Non voglio dire certo che sia peccato. Intendo dire che sul lungo termine ogni volta che facciamo finta corriamo il rischio grave di dover fronteggiare una realtà che nel frattempo é diventata peggiore di quanto era quando capimmo (senza ammetterlo) quale era il problema. Concludo che le regole fisse vanno evitate non solo quando sono barbariche e antiche, come ho detto nel Capitolo 3. Non possono essere giustificate nemmeno se vengono contornate da interminabili discussioni solo apparentemente razionali. Il difetto di base sta nel formalismo da cui si spera di trarre un metro di giudizio applicabile a ogni azione, valutandola in se a prescindere dalle conseguenze. La nuova morale di cui sto parlando, invece, considera che un'azione é buona se le sue conseguenze ci piacciono. É cattiva, se le conseguenze non ci piacciono. La decisione su cosa ci piaccia e cosa no, non é arbitraria, né casuale. Deriva da un quadro del mondo che sia il più ampio possibile e che non sia limitato al momento attuale, ma proiettato verso l'avvenire. Una volta che lo abbiamo formato nella nostra mente, non abbiamo più voglia, né tempo di perseguire obiettivi meschini. I così detti peccati non ci interessano più. In altre parole: non possiamo definire i nostri valori (le decisioni sul bene e sul male) per mezzo di enunciati o proposizioni dichiarative. Possiamo definirli solo illustrandone le conseguenze anche lontane. Un principio astratto può risultare anche neutro. Non saranno neutre, in generale, le conseguenze derivanti dal fatto che noi - o che una gran massa di persone accettiamo quel principio. Tommaso d'Aquino, dunque, si porta dietro un bagaglio dogmatico dannoso, mentre gli manca la visione dell'avvenire - necessaria per far succedere le cose giuste. Ho già anticipato qualche pensiero su questo punto e ci tornerò ancora sopra. A parte le inadeguatezze citate, Tommaso non si curava che le sue regole fossero accettate: le enunciava e basta. Si ergeva ad autorità indiscussa sulla base di Aristotele, dei padri della Chiesa e della ragione (anche se usava quest'ultima in modi strani). Ignazio di Loyola, invece, era un ex-militare. Si pose il problema di come ottenere l'obbedienza alle regole morali da parte di individui pigri e poco riflessivi. Voleva ottenere buone prestazioni anche da parte degli imboscati o dei lavativi. 52 Spronò, allora, i suoi seguaci alla virtù inducendoli a meditare sulle pene sofferte da Cristo durante la passione. L'obiettivo era quello di generare sensi di colpa tali da far comportare bene gli educandi. Questa parte dell'opera di Ignazio non é interessante. É più interessante la parte pratica, relativa alla educazione e al dovere dei gesuiti di seguire la strada lavorativa e studiatoria scelta dai superiori: questo lo hanno fatto con successo. Hanno anche suggerito modi per migliorarsi e per raggiungere certi obiettivi. Gli Esercizi Spirituali di S. Ignazio sono intitolati: EXERCICIOS ESPIRITUALES PARA VENCER A SI MISMO E ORDENAR SU VIDA, SIN DETERMINARSE POR AFFECION ALGUNA QUE DESORDENADA SEA (Esercizi spirituali per vincere se stessi e ordinare la propria vita, senza lasciarsi influenzare da alcuna affezione che sia disordinata). É importante vincere la propria lentezza o la propria pigrizia per combinare qualche cosa. Però stare in lotta continua con se stesso alla fine disturba - dovremmo imparare anche a placarci, a stare in pace con noi stessi: si chiama igiene mentale. Sebbene non avesse alcuna esperienza militare, anche Gautama Budda fu un precursore di Ignazio. Insisteva anche lui sull'importanza di vincere sé stessi. Diceva che é più importante vincere se stesso che vincere mille nemici. E a che scopo? Budda sosteneva che dobbiamo sforzarci di evitare: il peccato, il desiderio, i pensieri piacevoli, il possesso, l'ira, la speranza, il dolore e la realtà del mondo. Be': se uno desse retta ai buddisti, certo non combinerebbe mai niente né per se, né per gli altri. Lo scopo ultimo dovrebbe essere quello di arrivare al Nirvana in cui finalmente si é staccati da tutto e non si rinasce più. Questa prospettiva sembrerà attraente a chi crede che dopo ogni vita rinasciamo sotto forma di uomini o di animali - ma chi non ci crede resta freddo. Ritengo, quindi, che non possiamo sperare di trovare grandi verità in questi scritti antichi. Tutt'al più ci troveremo qualche suggerimento metodologico, ma dobbiamo stare attenti a non prenderli troppo alla lettera. Anche i testi più recenti, come quelli dei gesuiti, fanno una gran confusione fra dogmi, regole bibliche e ragionamenti pratici. Per esempio i gesuiti non condannavano la schiavitù nel Nuovo Mondo ove furono presenti molto presto - anche se in Brasile difesero gli indiani (per altro con poca efficacia) contro la caccia all'uomo cui erano soggetti dai coloni portoghesi. Nel XVII secolo le missioni dei gesuiti in Paraguay diventarono un vero e proprio regno in cui quei religiosi esercitavano una benevola dittatura. Gli indigeni Guaranì venivano indottrinati, curati e indotti a occuparsi di agricoltura e allevamento. In effetti erano trattati come schiavi e frustati per le loro mancanze. Anche se convertiti non erano ammessi al sacerdozio. Ma questi dettagli storici non sono molto rilevanti. 53 Ho parlato dell'insediamento dei gesuiti in Paraguay per un'altra ragione. A quel tempo le comunicazioni erano molto lente. Il padre generale dell'ordine da Roma non avrebbe potuto impartire ordini tempestivi decidendo come risolvere le questioni che sorgevano nella gestione di quella missione. Pare, allora, che avesse dato una sola regola al capo della missione: "Ama Dio e fai quello che vuoi.", che - mi si dice - risale a S.Agostino. Anche questa regola serve a poco. É basata sulla convinzione che le buone intenzioni giustificano tutto. Ho già cercato di mostrare che questa idea é sbagliata. É importante capire. É importante prevedere. É importante far succedere le cose giuste. É molto meno importante avere in testa pii desideri che tutto vada bene per tutti, se non si é capaci di analizzare, di prevedere, di concludere. 54 CAPITOLO 8 PENTIMENTO. ISTRUZIONI 'UNDO'. MORALE SESSUALE. COLPA. Il medico ha una faccia triste. É imbarazzato. Poi ti dice: "Sono arrivati i risultati dell'analisi. La Wassermann é positiva. Hai la sifilide." Te lo aspettavi: i sintomi erano brutti. Però in quel momento senti un colpo alla bocca dello stomaco. Ti sembra che il cuore ti si fermi. Invece galoppa, galoppa. Il medico aggiunge: "É seccante lo so, ma sai bene che ora la malattia si cura perfettamente con gli antibiotici. Certo é una cura lunga. Bisogna stare molto attenti e controllarsi periodicamente per qualche anno. Però il successo é assicurato." Ti pare assurdo che parli di successo. É un fallimento. É un disastro. Non dici una parola. L'espressione della tua faccia, però, parla per te. Il medico continua: "Cerca di non farne una tragedia. Sai, siamo tutti abituati a considerare questa malattia come una maledizione terribile, incurabile e infamante. Non dovremmo. Sono residui di tempi passati in cui davvero le cure erano inefficaci. Ora é diverso." Sarà diverso, però anche lui ha usato la parola sifilide una volta sola. Poi l'ha cominciata a chiamare "la malattia". Intanto tu pensi a quel rapporto sessuale nel quale hai contratto la malattia. Vedi la situazione in cui ti trovavi come attraverso un velo d'acqua. Ti sembrava così desiderabile. Non ne potevi fare a meno - e ora vorresti tanto averne fatto a meno. É una rovina. É improbabile che tu abbia avuto davvero un'esperienza come quella che ho descritto. Infatti la sifilide é diventata abbastanza rara. Però negli ultimi dieci anni brutte notizie simili sono state comunicate ad alcune migliaia di italiani e ad alcune decine di migliaia di americani che avevano l'AIDS. Anche loro, quando hanno saputo, si sono pentiti delle loro imprudenze passate. Circa la metà di loro sono morti. 55 Ma non ci pentiamo solo delle nostre azioni che ci hanno condotto a prendere malattie gravi. Alcuni di noi si accorgono di aver sposato la persona sbagliata. Si accorgono che il marito, o la moglie, é del tutto diverso da come lo avevano immaginato. É molto peggio e continua a peggiorare. E vorrebbero non essersi sposati. Alcuni di noi hanno comprato azioni in borsa, sperando che il prezzo salisse in modo vertiginoso. E invece hanno perso il 60% dei soldi che avevano investito. Vorrebbero non avere mai dato quell'ordine di acquisto. Altri escono in mare con una barca e poche ore dopo si trovano in mezzo a una tempesta terrificante. Vorrebbero non essere usciti dal porto. Ma non si può tornare indietro nel tempo. Un noto poeta scrisse che non possiamo riingoiare le parole uscite dalla nostra bocca, come non possiamo richiamare all'arco la freccia che abbiamo scoccato. Stranamente, invece, ci sono azioni che possiamo annullare. Si tratta di certe istruzioni che impartiamo al nostro computer. Sulla barra degli strumenti del computer con cui sto scrivendo queste parole c'é un'icona che rappresenta una freccia volta in senso antiorario. Quando mi accorgo di aver effettuato tre o quattro manovre errate, se clicco su quell'icona (per tre o quattro volte) annullo gli errori e rimetto tutto a posto com'era prima. Poi posso riflettere e compiere la manovra giusta. In altre macchine é disponibile un'istruzione UNDO, che significa DISFARE e serve, appunto, a distruggere un'istruzione precedente indesiderata. Queste funzioni fanno comodo nei computer. Per analogia vorremmo disporne anche nella vita reale. Invece é meglio non illudersi. Non esisteranno mai. Devono essere rimpiazzate con la previdenza e con la riflessione prima del fatto. Dopo il fatto possiamo solo pensare ai rimedi in modo tradizionale oppure provare ad accontentarci di come le cose sono andate. Questa di accontentarsi é una strada pericolosa. Per stigmatizzarla ricordo che molti anni fa la rivista inglese New Statesman indisse un concorso per la migliore parodia di un tipico titolo di articolo del Reader's Digest. Il titolo che vinse era: "Guardiamo insieme i lati positivi della peste bubbonica". Ora é ragionevole pensare che le azioni di cui ci pentiremo di più siano quelle impulsive e non meditate di cui parlavo nel primo capitolo. E quando ci succede di agire nel modo più impulsivo? Ma quando siamo emozionati. Quando i nostri sentimenti sono turbati. Questo accade soprattutto quando siamo coinvolti in situazioni sentimentali o sessuali. Per certe persone il punto centrale della morale sta proprio nella morale sessuale. Per loro, dunque, una persona immorale é una persona sessualmente promiscua oppure dedita ad attività sessuali non usuali e disapprovate da certe religioni o in base a certi modi di vedere tradizionali. Anche se non siamo d'accordo nell'identificare tutti i problemi morali con problemi di comportamento sessuale, dobbiamo riconoscere 56 che le attività sessuali sono importanti. Non lo sono solo perché consentono la procreazione che ha messo al mondo tutti noi. Lo sono perché molti di noi le considerano tanto piacevoli da dedicare molto tempo e molta attenzione a pianificarle. Le spinte sessuali sono così forti da far ritenere che non siamo noi a occuparcene, ad agire: sono i nostri geni che vogliono perpetuarsi nella nostra progenie e quindi scelgono i partner più adatti alla sopravvivenza e al successo della discendenza. L'egoismo e la pulsione a perpetuarsi dei geni sono messi in evidenza da una vecchia definizione della gallina: "É l'artificio per mezzo del quale un uovo riesce a produrre un altro uovo." La morale sessuale é malamente codificata nel sesto fra i dieci comandamenti biblici, che viene reso in vari modi: "Non commettere atti impuri" (generico) "Non fornicare", che letteralmente significa "Non avere rapporti sessuali con prostitute" - perché le prostitute esercitavano la loro professione sotto certi archi, detti anche fornici. "Non commettere adulterio" - cioé non avere rapporti sessuali fuori dal matrimonio. Il rapporto Kinsey e quello di Masters e Johnson hanno spiegato che almeno negli Stati Uniti il sesto comandamento non é molto osservato. Però le risultanze di cui disponiamo sono solo il risultato di campionature fatte mediante interviste. Si tratta, quindi, di dati poco sicuri. La questione dell'osservanza del sesto comandamento é stata sollevata frequentemente in anni recenti a proposito dei candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Gary Hart si é giocato la candidatura nel 1988 per un adulterio che aveva commesso. Bill Clinton é stato eletto presidente degli Stati Uniti malgrado accuse di promiscuità che gli furono mosse nel 1992. Da presidente ha avuto una brutta storia di giochetti sessuali con indagini, menzogne e polemiche interminabili. La saggezza tradizionale e i costumi più diffusi nelle nostre società alla fine del XX secolo non condannano più severamente i rapporti sessuali fra adulti consenzienti. Invece sia la legge, sia la morale corrente condannano nettamente i rapporti con minorenni e fra minorenni. Molti condannano i rapporti omosessuali. Qui non ne discuto: lascio che se ne occupino gli interessati. Una regola abbastanza stringente che ho sentito proporre é: "Non avere rapporti sessuali con un partner con cui non vorresti fare figli." Sembra una regola ragionevole, anche se si prendono precauzioni anticoncezionali, perché queste non sempre funzionano. Sembra che i nostri geni siano capaci di ispirare le nostre cellule sessuali ad avere la meglio sui contraccettivi. Ma quando si parla di figli, la questione é più seria. La tesi fondamentale di questo libro é che dobbiamo cercare di prevedere le conseguenze più remote delle nostre azioni. Allora non si tratta di considerare il nostro partner sessuale solo dal punto di vista del voler fare figli oppure no. Generare i figli é solo il primo 57 passo. L'importante viene dopo - quando li alleviamo, quando ci occupiamo di spiegargli come é fatto il mondo, quando cerchiamo (come dovremmo) di farne persone buone, dotate di comprensione, di insight, di abilità intellettuali e manuali. Dovremmo cercare di farne persone capaci di rendere il mondo un luogo migliore - secondo la nostra concezione di migliore naturalmente. Allora quella regola deve essere precisata: "Abbi rapporti sessuali solo con un partner con cui vorresti allevare i tuoi figli." Questo già implica parecchie condizioni ovvie, la prima delle quali é quella di essere disponibili a questo allevamento. Se, però, ci occupiamo di questo argomento, il problema di generare figli e di avere rapporti sessuali vanno in seconda linea. Se uno vuole allevare un essere umano, può benissimo adottarlo - almeno se crede, come credo io, che nella costituzione di una personalità umana l'ambiente abbia un effetto del tutto preponderante rispetto all'eredità genetica. Allora va benissimo separare le due cose. Allevare i figli da una parte e avere rapporti sessuali del tutto indipendenti dalla volontà di generare discendenza dall'altra. So bene che molti disapprovano violentemente i punti di vista che ho esposto perché sono in contrasto con le loro regole fisse. Ma la questione del fare e allevare i figli la si può interpretare anche in modo figurato. Le caratteristiche di un partner con cui vorremmo allevare figli e quelle di un partner con cui si può avere un buon rapporto umano, sono simili. Se si hanno rapporti sessuali con partner scelti solo in base al loro aspetto fisico, alla loro bellezza, si possono avere esperienze buone in un senso, ma deleterie in altri. Il piacere momentaneo può essere notevole. Le sorprese spiacevoli di discorsi goffi, rozzezze, atteggiamenti di cattivo gusto possono essere altrettanto notevoli. Pare che una volta una signora chiese a Talleyrand se faceva l'amore. Il famoso diplomatico rispose: "No. Lo compro fatto." Veniamo quindi a parlare dell'amore mercenario o di quello fatto con piani a brevissima scadenza. In romanesco si chiama "una botta e via", in inglese "one night stand". Si applica a questo tipo di rapporti sessuali un altro detto pure attribuito a Talleyrand a proposito delle attività sessuali: "Posizione ridicola. Godimento troppo breve. Finanziariamente disastrosi." Queste battute ciniche sono tristi. Sembrano ideate da persone che hanno avuto esperienze poco felici e che si sono strettamente limitate a rapporti sul solo piano fisico. Non immaginano il piacere che si può avere da rapporti fisici e, insieme, sentimentali e spirituali. Se non ci avete provato, provateci. Ci vogliono tempo, disponibilità, immaginazione e saggezza. Conoscenti, libri, film ci raccontano ogni tanto di rapporti sessuali 58 violenti. Anche senza arrivare allo stupro, la violenza si manifesta in tanti modi: obbligando il partner a rapporti che non vuole o a situazioni che lo stressano. Sono atteggiamenti e comportamenti da escludere - se si accettano gli assiomi del Capitolo 2. Sulle perversioni sessuali non ho molto da dire. Vengono classificati così molti comportamenti innocui e usuali. Se due adulti consenzienti decidono quale é il loro piacere mutuo nessuno ci si dovrebbe intromettere. Non procedo a un'analisi delle possibili varianti dei rapporti sessuali perché sono ben note, oppure sono trattate in libri specializzati e, comunque, sono in numero limitato e facilmente immaginabili. Per concludere, mi sembra che anche parlando di morale sessuale abbia un senso parlare di valore aggiunto. Il valore aggiunto (quello che viene tassato dall'IVA) é quello che aggiungiamo a una materia prima o a un semilavorato. Noi lo elaboriamo, ne facciamo qualche cosa di più utile e quindi lo rivendiamo a un prezzo maggiore di quello che l'avevamo pagato. I servizi a valore aggiunto sono quelli che non si limitano a fornire un'utilità tradizionale, ma la completano in qualche modo. Ad esempio sulla rete telefonica il servizio tradizionale é quello costituito dalla semplice comunicazione fra due utenti. Invece i servizi a valore aggiunto, oltre alla comunicazione offrono anche l'accesso a una base dati, oppure un servizio di interpreti, o altri servizi di segreteria e di informazione. Per analogia possiamo dire che i rapporti sessuali godono di valore aggiunto se, oltre al rapporto fisico, incorporano elementi umani, spirituali, poetici, culturali, progettuali, umoristici. I rapporti sessuali possono rappresentare anche una bellissima forma di comunicazione. Funzionano così se sono basati sulla reciprocità e sull'equilibrio. Chi riesce a impostarli in questo modo non deve (più) temere la frigidità né l'impotenza. Questo capitolo é un po' eterogeneo. Comunque, mi sembra il momento di parlare brevemente della colpa e dei modi in cui ci sentiamo colpevoli - spesso erroneamente. Il senso di colpa dovrebbe segnalarci che abbiamo trasgredito la legge morale impressa nei nostri cuori. Ma abbiamo visto nel Capitolo 6 che questa legge non é scolpita in modo chiaro. Persone diverse hanno dentro leggi diverse. Alcuni sembrano non averne nessuna. Questo stato di cose é confermato dal fatto che alcuni si sentono colpevoli a ogni passo anche di crimini che non hanno commesso. Altri non si sentono colpevoli mai. Gli psicanalisti attribuiscono i sensi di colpa ai conflitti interni che alcuni di noi hanno fra diverse componenti della propria personalità. Il nostro io sarebbe suddiviso in tre livelli: il super-io, l'io e l'id. Il super-io sarebbe formato dalla nostra educazione e consisterebbe in un riflesso più o meno fedele di una figura autoritaria: tipicamente quella del padre. L'io é la nostra individualità corrente, quella più o meno - conscia. L'id coincide, grosso modo, con l'inconscio: un insieme di ricordi, tendenze, istinti, impulsi, inclinazioni non ragionati, ma accumulati sul fondo della nostra 59 persona. Ci sentiremmo in colpa quando il nostro io cosciente si trova in conflitto con il super-io. Questo ci dice, o avrebbe dovuto dirci, di comportarci in un certo modo e noi, invece, ci siamo comportati peggio. Potremmo liberarci del senso di colpa analizzando questi processi, capendoli bene e rendendo espliciti i rapporti fra i nostri tre livelli interni. Io non sono affatto sicuro che esistano il super-io, l'io e l'id. Nessuno ne ha mai trovato indizi misurabili. Questa teoria, poi, non serve a fare previsioni sul comportamento di singoli esseri umani anche dopo che siano stati osservati attentamente a lungo. In certo senso non fa molta differenza che la nostra psiche sia organizzata in questo modo o in un altro più complesso. É solo questione di buon senso cercare di evitare i conflitti interni e di non angosciarci troppo per azioni che abbiamo commesso con risultati disastrosi. Cerchiamo, invece, di rimediare ai danni che abbiamo prodotto. Soprattutto ricordiamo e analizziamo quello che abbiamo combinato per evitare di ricascarci, ma cerchiamo di non farne una tragedia. Il passo essenziale é l'analisi, ma é facile farla male. Va fatta cercando di capire i meccanismi di quello che é successo. Solo così potremo apprezzare le circostanze e i nostri tipici modi di reagire che ci hanno condotto a fare quel che abbiamo fatto. Dobbiamo evitare, invece, di condurre questa analisi come se fosse un processo. Noi stessi siamo gli imputati e cerchiamo di difenderci - non importa se davanti al super-io, a noi stessi o in generale. Succede, allora, che alcuni di noi cerchino di individuare ogni possibile circostanza attenuante. Meglio ancora cercano di buttare la colpa addosso a qualcun altro o a circostanze su cui non avevano controllo. E allora concludono: "Ho sbagliato perché non mi avevano dato le informazioni giuste." "Ho detto o scritto quelle frasi, ma non potevo prevedere che sarebbero state interpretate così." "Sono stato ingannato da A o da B, che sono persone inaffidabili o perfide." "Avrei fatto le cose giuste, ma non ci sono riuscito perché gli strumenti che ho usato erano difettosi o, comunque, erano diversi da quelli a cui sono abituato." A questo proposito, ricordo il proverbio inglese "a bad workman blames his tools" ("un artigiano incapace dà la colpa ai suoi arnesi"). Questi tentativi di scagionarsi non toccano affatto il punto centrale: i risultati ottenuti sono disastrosi. É ragionevole pensare che questi tentativi di scaricare la colpa su altre persone, su oggetti o sulle circostanze siano ispirati da esperienze infantili. Per alcuni di noi da bambini non era tanto importante che avessimo rotto il vaso cinese. Per noi era un oggetto qualunque e ne ignoravamo il valore. Era tragico, invece, che fossimo biasimati per averlo rotto e che diventassimo oggetto dell'ira e della disapprovazione di nostro padre o di nostra madre. Riuscire a dimostrare che il vaso lo aveva rotto il gatto (magari senza dire che lo stavamo 60 inseguendo selvaggiamente) avrebbe rappresentato la salvezza. Dobbiamo liberarci di questa tendenza compulsiva ad allontanare la colpa da noi. Non é importante. Sono più importanti i risultati, come continuo a ripetere. E come faremo a liberarcene? Un primo passo può consistere semplicemente nell'esame di coscienza che ci spieghi perché ci dispiace tanto essere considerati colpevoli. I nostri sensi di colpa possono dipendere da un conflitto tra quello che ci sembra giusto e quello che la società o la famiglia hanno cercato di inculcarci come giusto. Un bell'esempio é la storia di Huckleberry Finn, il giovane personaggio di Mark Twain, che aiuta Jim, uno schiavo negro, a fuggire con la sua zattera. Negli Stati del Sud a metà del secolo scorso la legge e l'opinione pubblica erano severissime contro chi aiutava gli schiavi fuggiaschi. Perciò Huck Finn si sentiva orrendamente colpevole, ma i suoi buoni sentimenti gli impedivano di tradire Jim con cui aveva fatto amicizia. I conflitti di questo tipo vanno risolti spesso ascoltando la voce della coscienza. Un altro fattore può essere l'abitudine a rifiutare ogni ammissione di colpa perché, quando l'ammettiamo, talora dobbiamo pagare soldi. Questo succede, per esempio, ogni volta che la nostra macchina entra in collisione con un'altra. Anche in questo caso, invece, riflettiamo quanto semplificheremmo la vita di tutti se, in caso di incidente, chi ha la colpa se la prendesse subito. Un secondo passo consiste nella riflessione sui risultati - che abbiamo già illustrato più volte. Un terzo passo può consistere nel vedere il nostro comportamento come molto più apprezzabile, nobile e drammatico quando ammettiamo la nostra colpa da adulti, invece di ripetere infantilmente: "Non é colpa mia. Soprattutto non mi biasimate." In qualche caso questi sensi di colpa si mischiano al pentimento e al desiderio di non aver commesso certi errori. Non é una bella miscela. Meglio liberarsene ricordando - come diceva Spinoza - che il pentimento non é una virtù perché non proviene dalla ragione. 61 62 CAPITOLO 9 L'ETICA PROTESTANTE DEL LAVORO E I SUOI LIMITI Ho lavorato per 14 anni per un gruppo americano. In quel periodo incontrai alcune centinaia di uomini d'affari statunitensi. Alcuni vivevano in Europa, altri non avevano mai lasciato gli Stati Uniti. Fra loro c'erano tecnici, amministrativi ed esperti legali. Alcuni erano colti e brillantissimi. Molti erano normalmente efficienti. Alcuni erano proprio fessi. Parlando citavano spesso l'etica protestante del lavoro. In generale accettavano l'idea che i princìpi di questa etica informano il modo di lavorare americano. Sono alla base dell'alta produttività della loro industria e anche delle loro strutture pubbliche efficienti e oneste. A questa etica protestante si contrapporrebbe quella latina in Italia, in Francia e in Spagna: più lenta, meno scientifica, più antiquata. Dell'efficienza e della morale giapponesi i miei conoscenti americani parlavano poco. Le consideravano derivate da quelle loro per l'intermediazione di Deming, il famoso esperto di efficienza e di qualità. Sarebbe interessante sia dal punto di vista teorico, sia da quello pratico, se davvero si potesse dimostrare che i princìpi di una morale religiosa hanno causato gli indubbi successi industriali ed economici americani. Se fosse vero, quella morale andrebbe presa sul serio più di tante altre. Così mi sono documentato. In effetti non ha molto senso di parlare di morale protestante: ce ne sono parecchie diverse. Quella tipica, a cui sono stati attribuiti i maggiori meriti pratici, é la morale puritana. Ma i puritani, che erano fra i primi coloni nel XVII secolo, avevano subìto un forte influsso dai calvinisti. Allora conviene esaminare quali fossero le teorie di Calvino. Jean Calvin, nacque a Noyon, in Francia, nel 1509 e morì a Ginevra nel 1564 - ma la sua storia potete trovarla in qualunque enciclopedia. Aderì alla Riforma protestante e la sua dottrina si diffuse in Francia, in Inghilterra, in Scozia, in Svizzera e in Italia. Ne racconto i tratti 63 essenziali. Anche Calvino - come Tommaso d'Aquino - sosteneva che la predestinazione é il fattore più importante per la salvezza della nostra anima. L'uomo é piccolo, impotente e irrimediabilmente corrotto. Malgrado le loro colpe, Dio può giustificare gli uomini per la loro fede e - allora attribuisce ai credenti i meriti di Gesù Cristo. La sapienza umana vale qualcosa se conduce alla conoscenza di Dio e di se stessi. Deve essere completata da una fiducia assoluta in Dio - unica fonte di salvezza. Gli uomini - per definizione - non hanno alcun merito. Il nostro libero arbitrio si può manifestare solo scegliendo il male, ma la vera libertà é scelta del bene. Infine ciascuno di noi dovrebbe riconoscere la propria vocazione. Questa consiste nel fare il meglio possibile nella situazione in cui Dio ci ha messi allo scopo di essergli bene accetti. Agendo per il meglio, intanto, dimostriamo anche di essere predestinati alla salvezza. Ho cercato di abbreviare al massimo e di rendere in modo imparziale questa dottrina che mi sembra, però, piena di contraddizioni quanto quelle di Tommaso d'Aquino. Non si capisce perché la morale puritana, derivata da quella calvinista con la sua fede nella predestinazione, dovrebbe spronarci a essere attivi ed efficienti. Eppure c'é chi sostiene che fu l'auto-disciplina puritana a sostenere i primi pioneri americani e a farli sopravvivere. La morale calvinista, temperata dal buon senso degli scozzesi, avrebbe lasciato solo una via aperta ai padri pellegrini: il duro lavoro. E ci voleva proprio questo per separare i predestinati dai deboli e dai reprobi. Da qui l'importanza della concorrenza vista come una legge della natura. Da qui l'importanza della proprietà privata vista come un diritto naturale e un segno di bontà. La proprietà, dunque, era alla base della moralità. Un fuorilegge di frontiera che acquistasse proprietà aveva bisogno della legge e del governo per conservarla. Così l'ex-fuorilegge si faceva una buona reputazione e la rafforzava contribuendo alla fondazione di una chiesa e di una scuola, necessaria per i suoi figli. Alla fine diventava un buon religioso. Questa, almeno, era la teoria. C'é da dubitare che funzionasse sempre questo meccanismo che garantiva il successo sulla base della morale protestante. Sir Walter Raleigh mandò in Virginia un gruppo di coloni nel 1585, ma questi tornarono in Inghilterra quasi subito - portando indietro tabacco e patate. Raleigh provò di nuovo nel 1587 a mandare altri coloni in Virginia, ma questi scomparvero del tutto. Restò soltanto il nome della loro colonia, Croatoan, inciso nella corteccia di un albero. Avranno avuto una buona morale puritana, però mancavano di qualche altro ingrediente essenziale. Per altro possiamo interpretare quei successi e quegli insuccessi come eventi in parte casuali e in parte governati dalla regola darwiniana della sopravvivenza dei più adatti. I miei uomini d'affari americani sapevano poco o niente di calvinismo e di puritanesimo. Per loro i puritani erano quegli strani 64 individui che portavano il cappello a tronco di cono con un fibbia davanti. Le teorie della maggioranza dei manager americani sull'efficienza sono ancora abbastanza semplicistiche. Si basano sul principio "A good day's work, for a good day's pay" (Una buona giornata di lavoro, per una buona paga giornaliera). Questo criterio afferma solo che ogni lavoratore deve fare il meglio che può. Se fa il possibile per guadagnare onestamente il suo salario, non gli si chiede di più. Perché? La risposta é che le azioni che ciascuno fa nel proprio interesse, automaticamente vanno a vantaggio dell'intera comunità. É un concetto che alla fine del 'Settecento doveva stare nell'aria. Adamo Smith scrisse nel 1776 che le cose vanno come se una mano invisibile guidasse agricoltori, industriali e commercianti ciascuno dei quali cerca il proprio utile - a comportarsi nel modo più vantaggioso per tutti. Così producono i beni e i servizi più richiesti al prezzo migliore e nella quantità dovuta. Si é scoperto in seguito che la mano invisibile di Smith funziona solo se ci si trova in un regime di perfetta concorrenza - il che non accade quasi mai. Ma già non mi trovo d'accordo con il criterio che si comporta bene chi lavoro sodo quanto può - prescindere dai risultati. I comportamenti buoni si possono giudicare solo dai risultati. Per esempio un lavoratore molto intelligente - operaio o direttore generale - può rendere mirabilmente anche lavorando la metà di quanto lavora un altro, meno brillante. Ma l'intelligenza e l'addestramento non si improvvisano. Vanno preparati per tempo - e questo richiede capacità di pianificazione. Altro principio accettato dalla morale puritana/conservatrice é che i diritti dei lavoratori sono meno importanti di quelli dell'azienda. Questo concetto ha una giustificazione pragmatica. Infatti se l'azienda fallisce, i lavoratori restano senza posto - mentre se un lavoratore se ne va o si rovina in qualche modo l'azienda continua a funzionare: lo sostituisce. Dunque avversione per i sindacati e lotta contro di loro. A questi criteri si accompagnavano regole strette, per esempio sulla proibizione di bere alcool durante le ore di lavoro. Ho visto licenziare un operaio che aveva bevuto una bottiglietta di vino durante l'interruzione per il lunch. Diverso il trattamento dei dirigenti che potevano bere due o tre cocktail durante il loro pranzo al ristorante. La maggior parte di quelli che avevano questo tipo di idee votavano repubblicano. Questa morale, dunque, era reazionaria - del tipo di quella che i comunisti cercavano di rappresentare disegnando i capitalisti come parassiti col cilindro, il frac, i pantaloni a righe e la catena d'oro sul panciotto bianco. In America, però, c'é un'altra tradizione del tutto diversa : liberale e piena di princìpi sociali. É quella di Tom Paine che all'inizio della rivoluzione americana proponeva che ogni uomo ricevesse dallo stato un patrimonio appena era maggiorenne e che fosse assicurata a tutti un pensione per la vecchiaia. É la tradizione di Thomas Jefferson (presidente dal 1801 al 1809) che, sebbene possedesse schiavi nelle sue tenute della Virginia, teorizzava che la schiavitù doveva essere abolita e proponeva che non fosse ammessa nei 65 nuovi stati da creare nei territori di Nord-Ovest. Jefferson scriveva: "L'uomo per sua natura é adatto alla società e la società per le convenienze che offre é adatta all'uomo. La morale, perciò, é formata a questo fine. L'uomo é dotato del senso del giusto e dell'ingiusto, solo a questo fine. Questo senso é parte della sua natura quanto il senso dell'udito ed é il vero fondamento della morale. Tutti gli esseri umani lo hanno in misura più o meno grande ... In certa misura é sottoposto alla ragione, ma non ce ne vuole molta a questo scopo - giusto quello che chiamiamo senso comune. Non bisogna perdere occasione per esercitarsi a essere grati, generosi, caritatevoli, umani, sinceri, giusti, fermi, ordinati, coraggiosi." Su questa tradizione si inserì nei primi decenni dell'Ottocento l'unitarianesimo. Questa dottrina negava la trinità di Dio e ne affermava l'unità. Originata in Transilvania alla metà del XVI secolo, si era diffusa prima in Inghilterra e poi in America a opera di William Ellery Channing. Oltre a credere in un Dio unico, gli unitariani credono fermamente nel libero arbitrio. Quindi aborriscono ogni idea di predestinazione, hanno fiducia nella volontà e nell'individualità umana. Furono sempre contro la schiavitù e hanno combattuto per la giustizia sociale. (Oggi gli unitari sono spesso intellettuali. Votano democratico e sono chiamati progressivi - o liberal. I maligni dicono che secondo gli unitari tutt'al più esiste un Dio solo -- e magari neanche quello.) Dunque la tradizione americana non é tutta puritana. Contiene frammiste le tradizioni più diverse. Ci sono anche correnti di pensiero e di abitudini che vengono dall'Europa centrale e dalla Scandinavia. C'é una robusta tradizione ebrea, soprattutto proveniente dall'Europa orientale, poco importante numericamente, ma imponente come livello. Ci sono derivazioni slave, latine e, sempre più, originate in Estremo Oriente. Gli Stati Uniti vengono chiamati spesso il "crogiolo" (melting pot) Non é realistico, quindi, associare strettamente l'etica puritana e il successo nel lavoro e nelle imprese. Le storie di successo - saghe così frequenti e importanti in America - sono ripartite in modo equo fra i rappresentanti delle varie tradizioni che ho citato. La nostra critica, però, deve essere approfondita ancora in due direzioni. La prima concerne alcuni principi puritani che sono stati rigettati in modo massiccio. La seconda riguarda le conseguenze a termine molto lungo dell'approccio conservatore e di quello progressista con particolare riguardo alla politica. Dunque la tradizione puritana, oltre all'assennatezza, alla solerzia e all'abnegazione, insisteva molto sul risparmio e sulla parsimonia. É vero che se non lo avesse fatto, non si sarebbero mai conseguite negli USA le accumulazioni di capitale, essenziali per il decollo dell'economia. Ma da molti decenni ormai non si preme più sul pedale della parsimonia. Il pubblico non viene esortato quasi mai a rimandare i suoi consumi. Al contrario: viene esortato a spendere per stimolare l'economia. 66 Già nel 1957 in occasione di una modesta recessione ricordo di aver visto in giro per New York manifesti con la scritta: YOU AUTO BUY NOW. Era un invito basato su di un gioco di parole. Il messaggio vero era l'omofono : "You ought to buy now" (Dovresti comprare adesso), ma il modo in cui era scritto suggeriva al pubblico di comprare un'auto adesso. Certo, se i consumatori spendono molto, il commercio e l'industria si riprendono e si passa dalla recessione al boom. Non pretendo certo di risolvere qui il problema di quale sia la situazione ottima fra risparmio e spesa corrente. Negli Stati Uniti il risparmio é scarso. Il debito pubblico (federale e degli Stati) e quello privato (compresi i crediti bancari e le carte di credito) hanno raggiunto livelli molto alti. I valori pro capite sono maggiori di quelli italiani. Dunque dovremmo concludere che, forse, in America dovrebbero essere ripresi alcuni princìpi calvinisti da tempo abbandonati. In effetti é successo di peggio. Il desiderio di raggiungere il successo - misurato esclusivamente in termini finanziari - ha spinto molta gente verso i guadagni a breve termine. Così molti manager di aziende industriali hanno trascurato l'innovazione, la buona organizzazione, l'addestramento del personale, la ricerca e la famosa ingegnosità yankee per occuparsi solo della bottom line. Questa é l'ultima riga del conto economico annuale in cui si registra il profitto dopo le tasse (o la perdita). Ora va benissimo mirare al profitto. Il grave é che, se si mira al profitto solo dell'anno in corso, si possono creare le premesse per generare perdite in molti anni futuri. Questo accade, appunto, quando non ci si impegna abbastanza a pianificare la qualità di ogni fattore aziendale sul lungo termine. Ne parleremo ancora negli ultimi capitoli. Ancora peggiori sono le attività dei corporate raider cioé dei razziatori aziendali. Questi si specializzano nel comprare aziende, le cui azioni siano sottovalutate, ad esempio perché il loro valore non rispecchia grossi possedimenti immobiliari. Poi manovrano per far salire in borsa il valore delle azioni e, quindi, rivendono le aziende realizzando ottimi profitti a breve. Le attività produttive non si avvantaggiano certo di questi salassi ed, eventualmente, declinano. Abbiamo visto questa storia in molti film di Hollywood. Qui non c'é morale. C'é solo malafede e confusione nelle leggi e nei regolamenti. La cura contro queste deviazioni non si può trovare certo nell'attaccamento spasmodico al lavoro. Non basta che i grossi manager siano workaholic - cioé agganciati al lavoro, come gli alcolizzati (alcoholics) sono agganciati ai liquori. Non basta che si facciano venire l'ulcera a forza di preoccuparsi del lavoro. Devono imparare a progettare l'avvenire - e qui la morale calvinista aiuta poco. Infine grossi manager di aziende gigantesche (come Enron e Worldcom) hanno svolto 67 attività pessime e criminose falsificando i bilanci e gonfiando i presunti profitti fino a far salire molto le azioni dell'azienda. Poi hanno venduto centinaia di migliaia di azioni che avevano comprato incassando lauti profitti - poco prima che l'imbroglio venisse scoperto. Quindi i titoli sono crollati mandando alla rovina tanti piccoli risparmiatori, fra cui molti dipendenti delle stesse aziende. Ma - a parte le azioni criminali - sia l'approccio puritano (abnegazione e lavoro), sia quello liberale (libera iniziativa e inventiva individuale), sono stati messi in disparte dalla società americana già da molti decenni. Già alla fine del secolo scorso l'insorgere delle grandissime società industriali e commerciali aveva cambiato i costumi. I singoli cominciarono a rendere molto di più dopo essere stati inquadrati con l'organizzazione scientifica del lavoro di F.W. Taylor. La loro individualità diventava meno importante rispetto ai risultati. Questa fortissima spinta verso l'efficienza creava lavoro e benessere, quanto e più della mano invisibile di Smith (che pure l'aveva preconizzata con i suoi scritti sulla divisione del lavoro). La base ideologica di questa spinta non era più religiosa. Possiamo cercarla forse nel pragmatismo. Questo movimento - come scrisse Giovanni Papini - non era una filosofia, ma un metodo di fare a meno della filosofia per cercare soluzioni funzionanti. Dunque non più morale protestante, né ideologie politiche, ma un'etica sociale secondo cui la pressione della società sull'individuo non solo é legittima, ma vantaggiosa. La creatività del singolo si amplifica col lavoro di gruppo. La grande azienda soddisfa i bisogni dei dipendenti, li invita a conformarsi a comportamenti utili per raggiungere fini di maggiore scala di quelli individuali. I singoli accettano la cultura dell'impresa e trovano la prosperità. I problemi di lungo termine della società in generale vengono considerati poco. Vengono considerati poco anche quelli che se ne occupano istituzionalmente: i politici e i dipendenti governativi. Chi ha posizioni di un certo rilievo nell'industria disprezza "quelli di Washington". Considerano chi lavora per il governo federale un rompiscatole che crea regole inutili e che non lavora. Nel 1992 questa posizione é stata rappresentata da Ross Perot nel suo tentativo di arrivare alla Casa Bianca. (La posizione é simile a quella presa verso il governo di Roma e i suoi impiegati dalla Lega Nord e da ForzaItalia, prima che andassero al governo e che eliminassero leggi e regole in favore di interessi privati e non del bene pubblico). Questa etica sociale, dunque, é di nuovo conservativa quanto quella puritana. Ha in comune con essa una carenza progettuale anche nell'approccio alla politica internazionale statunitense. Questo approccio conservatore é competitivo. Era quello preferito dai falchi al tempo della guerra fredda. Chi lo propugnava pensava ai risultati immediati: apertura di mercati, posizioni strategiche, preponderanza delle posizioni USA su quelle sovietiche. In conseguenza chi governava la politica estera americana ha cercato amici a ogni costo. In questo modo gli Stati Uniti hanno 68 appoggiato dittatori corrotti e assetati di sangue come Batista, Marcos, Stroessner, Somoza, Chiang Kai Shek, Pinochet, Mobutu, per non parlare del Vietnam. Tutte queste scelte si sono dimostrate infelici. I repubblicani (notoriamente conservatori) non hanno nemmeno provato a esportare la democrazia progressista jeffersoniana. É curioso che i democratici si siano comportati nello stesso modo. Il presidente Roosevelt dopo lo sbarco in Africa del Nord concluse subito un accordo col Generale Darlan, ampiamente compromesso con i nazisti. Tollerò perfino che nei territori occupati continuassero a essere perseguitati repubblicani spagnoli e aderenti alla France Libre di De Gaulle. A lungo termine questi errori sono costati cari agli Stati Uniti, che venivano odiati e invitati a GO HOME. Non basta il calvinismo. Non basta la motivazione. Non bastano la cultura d'azienda e la fede nell'iniziativa privata. Non basta l'abnegazione. Per fare andare bene le cose bisogna guardare lontano e bisogna organizzare bene i propri pensieri. Non c'era riuscito un pensatore molto simpatico e indipendente. Era Henri David Toreau, di cui mi occupo nel prossimo capitolo. 69 70 C A P I T O L O 10 INTENZIONI BUONE E INUTILI DI HENRI DAVID THOREAU E PROBLEMI GLOBALI Perché un uomo di trent'anni decise a metà del secolo scorso di costruirsi una casetta di 3 metri per 5 in mezzo ai boschi del Massachusetts e di andarci a vivere - alla distanza di due kilometri dall'abitazione più vicina? Quell'uomo era Henry David Thoreau e il suo scopo era quello di dimostrare che poteva costruirsi una casa adeguata con 30 dollari e che ci poteva vivere con 36 dollari all'anno. Thoreau campò così per oltre due anni. Guadagnò il necessario per vivere vendendo i suoi prodotti agricoli per 24 dollari e facendo lavoretti occasionali, pagati altri 12 dollari. La svalutazione in America dal 1850 a oggi é stata di circa 60 volte. Quindi Thoreau aveva entrate di circa 100 Euro al mese. Era sotto la soglia della povertà, ma sopravviveva e la sua dimostrazione fu più convincente di parecchi grossi volumi scritti contro il consumismo - anche se il suo esempio non é stato seguito. Ma qui non ci interessa tanto la tendenza di Thoreau all'eremitaggio. Ci interessano i suoi punti di vista sulla disobbedienza civile - su cui scrisse un libretto di una ventina di pagine. Thoreau era un dissidente totale. Era contro la schiavitù. Quindi pensava e scriveva che lo Stato del Massachusetts - dove la schiavitù non era ammessa - avrebbe dovuto combattere il governo federale che a sua volta non obbligava gli Stati del Sud ad abolirla. Nessuno lo ascoltava: così dichiarò che non voleva finanziare con i suoi soldi uno Stato ingiusto e smise di pagare le tasse. Lo misero in prigione ed era proprio quello che voleva. Nel suo libretto scrisse: "Sotto un governo che imprigiona la gente ingiustamente, il solo luogo adatto per un uomo giusto é la prigione ... Gli spiriti più liberi e meno accomodanti devono stare in prigione, messi in disparte e tenuti sotto chiave dallo Stato, come già si sono messi in disparte da soli per i loro principi". All'inizio del suo libello Thoreau afferma che "il solo obbligo che 71 io abbia il diritto di assumere é di fare in ogni momento quello che penso sia giusto". In sè sembra un principio ragionevole. Da solo potrebbe già essere la base per un sistema morale. É una regola più semplice e casareccia di quelle di Gesù Cristo e Kant. Dunque discutiamola perché mette a fuoco non solo il nostro modo di agire a fini personali, ma anche ogni questione che possiamo avere con i poteri pubblici. In certo senso tacitamente o no col voto o con le tasse che paghiamo o semplicemente per il fatto che non protestiamo, siamo complici o responsabili delle decisioni prese dal governo centrale o locale del luogo che abitiamo. Un caso tipico é quello dell'obiezione di coscienza fatta da chi ritiene che portare armi sia immorale, anche se poi non vengono davvero usate per uccidere, minacciare od opprimere nessuno. La prima questione da decidere é se sia efficace oppure no rifiutare l'obbedienza e andare in prigione. In Italia pochi decenni fa l'obiezione di coscienza non era ammessa. Parecchi poveri giovanotti generosi hanno rifiutato di indossare l'uniforme. In conseguenza hanno dovuto passare anni e anni nelle prigioni militari a fare niente, invece di prestare un servizio militare (certo inoffensivo) solo per un anno o un anno e mezzo. Però i loro sacrifici sono serviti a cambiare le leggi. Oggi i giovani obiettori di coscienza italiani possono fare il servizio civile. É servito che Thoreau sia andato in prigione per liberare gli schiavi dell'Alabama o della Carolina del Sud ? Thoreau sosteneva di si. Diceva che manifestando in modo così clamoroso il proprio dissenso già si comincia a costituire una maggioranza fatta di una sola persona. Questa manifestazione paradossale richiama molta più attenzione del voto elettorale. La scheda con cui votiamo non ha grande effetto. Invece, se, insieme agli obiettori disposti a farsi imprigionare, anche qualche pubblico impiegato dà le dimissioni motivando il suo gesto con le ragioni del suo dissenso, la rivoluzione é fatta. La cosa é ragionevole. Non c'é da discutere se davvero le azioni di Thoreau abbiano contribuito in modo decisivo a far scoppiare la guerra di secessione e ad abolire la schiavitù negli Stati Uniti. Il ricorso alla comunicazione - oggi più facile coi mass media - é sicuramente efficace. Parecchi decenni dopo Thoreau, il Mahatma Gandhi contribuì alla liberazione dell'India con i suoi digiuni. Meno efficaci, ma generosi e ben visibili, sono stati i digiuni di Marco Pannella in Italia. Il ricorso ai gesti paradossali sarà più o meno efficace a seconda delle circostanze. Allora:: quando dobbiamo ricorrere a questo strumento e quando no? Quante e quali sono le cause per le quali combattere pubblicamente usando gli strumenti più adatti? Fra le cose da combattere, oltre la schiavitù, possiamo citare: le leggi fiscali ingiuste, l'inefficienza dello stato che non scopre gli evasori fiscali, gestisce in modo disastroso la propria amministrazione, non diffonde cultura fra i cittadini. E ancora: la 72 corruzione dei politici (di cui parleremo ancora nel capitolo 12); la diffusione e il predominio della criminalità. Scioperare o fare manifestazioni pubbliche contro la mafia probabilmente non serve tanto. ma che cosa fare contro i poteri pubblici che non la combattono abbastanza efficientemente? Che cosa può fare il privato cittadino che apprende dai giornali come un giudice di un'alta corte stia annullando tutte le sentenze di condanna all'ergastolo di capi mafiosi? Se opta per la non violenza, potrebbe scrivere lettere ai giornali o ai deputati o al ministro della giustizia. E se non avessero effetto? Dovrebbe uccidere quel giudice che gli sembra in collusione coi mafiosi ? Ma é sicuro che le cose stiano davvero così? O forse quel giudice ha ragione per intricate questioni legali che i giornalisti non hanno capito non essendo esperti nel campo? Allora fare uno splash pubblicitario va bene. Va meno bene passare alla lotta armata. É quello che fecero le brigate Rosse. Purtroppo non avevano capito niente della situazione politica ed economica italiana e mondiale. Volevano distruggere lo Stato Imperialista delle Multinazionali - che non esisteva affatto nei termini in cui lo descrivevano. Non avevano nemmeno un'idea in testa per organizzare meglio le cose. Avevano un concetto vago e sbagliato della giustizia. In genere sparavano alle persone sbagliate - e non hanno concluso niente di buono. La lotta armata andava bene contro i nazisti - oppressori, dittatori, invasori, sterminatori di minoranze etniche e religiose. Lì non c'era dubbio. Ma lasciamo da parte la lotta armata. Sono opportune le manifestazioni di dissenso - come i sit in e i cortei - che richiamino l'attenzione del pubblico anche a costo di bloccare certi servizi e certi funzionamenti della società? La risposta é che prima di iniziare queste azioni dobbiamo capire bene i meccanismi implicati. Dobbiamo essere sicuri che la nostra battaglia sia giusta e che abbiamo già individuato proposte tanto sensate da migliorare davvero la situazione. Perciò il principio di Thoreau "ho solo il dovere di fare quello che in ciascun momento mi sembra giusto", quanto meno é incompleto. Non possiamo prendere le nostre decisioni momento per momento. Dobbiamo meditarle prima. Solo dopo aver meditato avremo il diritto al dissenso e potremo discutere se debba essere violento o no. La questione non si può decidere in generale. Il ricorso alla violenza può anche essere giusto. Però dobbiamo attenderci la reazione dei poteri pubblici, delegittimati o no. Una rivoluzione che si rispetti deve avere un seguito adeguato. Certo non si fanno le frittate senza rompere le uova. Prima di rompere le uova, é opportuno meditare sulla fine che hanno fatto le rivoluzioni del passato. Quella francese per due volte ha condotto a imperi disastrosi. Quella russa ha condotto a una dittatura inumana. L'unica che ha funzionato discretamente é quella americana. Ma le questioni di questo tipo vengono sempre decise a posteriori. 73 Torniamo allora agli atti di dissenso non troppo violenti. Come accennavo, uno sciopero o un sit in possono bloccare un servizio o una via di transito essenziali per salvare vite umane o per evitare che gravi danni colpiscano terze persone del tutto estranee alle nostre vertenze. Dovremo valutare, allora, quanto gravi siano i guasti che introduciamo rispetto a quelli che evitiamo o aboliamo. In conclusione questo argomento é molto simile a quello di Tommaso d'Aquino sulla sedizione (v. Capitolo 7). Ci troveremo facilmente tutti d'accordo nel ritenere che un tiranno ingiusto e sanguinario vada eliminato con la forza. Thoreau, invece, all'inizio del suo libretto dice che la costituzione si identifica con il male. Dichiara che "il miglior governo é quello che governa di meno" o addirittura che "il miglior governo é quello che non governa affatto". Questo andrebbe bene in un mondo semplice in cui tutti abitano in casuccie di legno di tre metri per cinque. Però, se vivessimo così, occuperemmo estensioni di territorio notevoli e chi si occuperebbe di fogne e strade - le cui reti avrebbero estensioni enormi data la bassa densità abitativa? Chi organizzerebbe i lavori pubblici e le manutenzioni? Chi si occuperebbe della giustizia e delle finanze della cosa pubblica? L'argomento di Thoreau (e di tanti anarchici in ottima fede) somiglia un po' troppo a quello dei mistici assassini che vorrebbero tornare a condizioni di vita semplice e pura come era prima che esistesse la tecnologia. Non si rendono conto che perciò stesso condannerebbero a morte tutte le persone in più che vengono tenute in vita dalla tecnologia e che non avrebbero potuto esistere quando la tecnologia non c'era. Ormai sono miliardi. Dunque nessuno ha il solo dovere di fare quello che gli sembra giusto in ogni momento. Invece abbiamo il dovere di capire la complessità - una componente ineliminabile del nostro mondo. La complessità può darci noia - come danno spesso noia i governi e i difetti della tecnologia. Ma, allora, non dobbiamo combatterla o rifiutarla totalmente. Dobbiamo capirla meglio. Farebbero bene a meditare queste parole i no-global, invece di usare (con buone intenzioni) argomenti sbagliati e vaghi contro le posizioni, non ineccepibili, né concordi degli 8 paesi più industriali e prosperosi. E' vero: gli accordi internazionali (specie se non si realizzano) sono inadeguati a pianificare programmi globali costruttivi. Questi dovrebbero evitare crisi economiche, favorire lo sviluppo delle economie industriali e di quelle emergenti e salvare dal disastro i meno sviluppati fra i paesi in via di sviluppo (la sigla usata è LLDC che sta per Least Developed Countries - i paesi meno sviluppati di tutti). Ritengo che il successo sia improbabile se i piani intesi a stimolare l'economia di Europa, USA e Giappone creando posti di lavoro, non specificano in quali settori e di quale livello professionale. I piani di sviluppo per i paesi più poveri, poi, non devono essere concepiti come aiuti di emergenza mirati a rimediare a carestie ed epidemie. Tutti questi piani dovrebbero essere integrati, incorporando il concetto che la prosperità è 74 costituita sempre meno da materie prime e prodotti tangibili e sempre più da conoscenza. E' questa che permette di ottimizzare strumenti e risorse e "di fare con un dollaro quello che qualunque cretino sa fare con due dollari". Questo non significa che non hanno valore le risorse naturali energetiche, agricole, minerali - del così detto terzo mondo. Significa che per farle fruttare occorre più cultura - occorrono più variate scelte di crescita intellettuale nei paesi avanzati e in quelli emergenti. Nessun noglobal dovrebbe ragionevolmente dissentire da questa affermazione. Ma cominciamo dalle risorse naturali: sarebbe vitale farne un censimento. Non è compito facile, ma i dati sono disponibili. Un esempio: stimiamo anche rozzamente il valore di una sola risorsa energetica: quella idroelettrica. Il potenziale non utilizzato in questo campo nel terzo mondo equivale a quello di oltre 2.000 centrali nucleari da 1 Gigawatt ciascuna. Funzionando 5.000 ore all'anno produrrebbero 10.000 miliardi di kilowattora. Col kilowattora a 200 lire il valore prodotto sarebbe più del doppio del prodotto nazionale lordo italiano. Poi dovremmo censire le risorse energetiche rinnovabili (le biomasse), quelle agricole (con milioni di ettari da rendere coltivabili), quelle minerarie ancora non toccate su tutto il pianeta. Queste ricchezze sono molte volte più importanti degli investimenti destinati finora agli aiuti internazionali. Non si tratta di cogliere senza fatica frutti maturi. Per progettare e realizzare questi grandi progetti internazionali occorrono grandi risorse di tecnica e scienza e investimenti notevoli, ma le speranze di successo sono notevoli. Occorre innalzare i livelli professionali e progettuali nei paesi avanzati. Occorre offrire cultura di base, conoscenza e tecnologie a miliardi di diseredati affamati che vedono salvezza solo nell'emigrazione. Occorre studiare e insegnare: non basta ripetere luoghi comuni e giaculatorie. La cultura va inventata, criticata, finanziata e diffusa, utilizzando gli strumenti della tecnologia della comunicazione e dell'informazione. Le reti telematiche sono un potente strumento per far partecipare ogni abitante del pianeta all'attuale rivoluzione della conoscenza. [Evitiamo l'uso dell'inefficace astratto "globalizzazione"] Sarebbe opportuno allora che i prossimi incontri al vertice fra i governanti degli 8 Paesi più avanzati fossero meno generici e controversi dei precedenti. Dovrebbero valutare l'impatto di grandi intraprese internazionali (culturali, sociali, industriali) sulla creazione di ricchezza nel primo e nel terzo mondo, stimare e raccogliere gli investimenti necessari. Dovrebbero formulare piani da realizzare in cooperazione fra governi, aziende e organizzazioni non governative per disseminare cultura adeguata. Chi si opponesse a piani integrati concepiti, per mettere al primo posto lo sviluppo umano, intellettuale, professionale, si qualificherebbe come barbaro oscurantista. Ma sono barbari e oscurantisti anche i potenti che non li formulano questi piani. 75 76 C A P I T O L O 11 MENTITE A VOSTRO RISCHIO Il vecchio lord inglese era magro e aveva i capelli candidi e ricci. Camminava per la campagna immerso in certi suoi pensieri filosofici. Però apprezzava la natura intorno a lui. All'improvviso sentì un animale che ansimava. Era una volpe che correva lenta allo stremo delle forze. Lontano si sentivano nitriti di cavalli e cani che abbaiavano. La volpe si fermò alla vista dell'uomo. Poi riprese la corsa giù per una valletta. Il vecchio lord si mise a sedere su di un tronco secco e continuò a pensare ai suoi quesiti logici. Dopo qualche minuto fu raggiunto dalla caccia. I cani precedevano una quindicina di uomini a cavallo con le giacche rosse. Uno di loro gli chiese: "Ha visto per caso la nostra volpe?" Il vecchio lord rispose con voce alta e chiara: "Si. Certo. Correva su per quella collinetta." - e indicò la direzione opposta a quella presa dall'animale. Il vecchio lord era Bertrand Russell, che racconta la storia nel suo libretto "La ricerca della felicità". Commenta che in quell'occasione disse una menzogna, ma che non se ne vergognava affatto. Riteneva di aver fatto bene a mentire e non cercava scuse formali come i gesuiti. Aveva più simpatia per la volpe che per i cacciatori intenti a ucciderla solo per il gusto di vederla sbranare dai cani. Sono d'accordo con Russell che le regole fisse - come quella che ci imporrebbe di non mentire mai - servono a poco. Detto questo, possiamo dire qualche cosa di generale sulla menzogna? Sono andato a leggere le classificazioni del "mendacium" nella Theologica di Tommaso d'Aquino. Nella Parte II del II Volume (Questione 110) Tommaso ammette di ispirarsi ad Aristotele e a S. Agostino. Aristotele suddivideva le menzogne in tre tipi. Quelle 'officiose', dette per procurarsi qualche vantaggio. Quelle 'perniciose', dette allo scopo di danneggiare qualcuno. Quelle 'giocose', dette per divertimento. S.Agostino, invece, elencava otto categorie : 77 I. le menzogne contro la dottrina religiosa e, quindi, contro Dio II. quelle che nuocciono a qualcuno e non giovano a nessuno III. quelle che nuocciono a qualcuno per giovare a qualcun altro IV. quelle dette per il gusto di mentire V. quelle dette allo scopo di piacere a qualcuno VI. quelle che giovano a qualcuno per conservare i suoi soldi VII.quelle che servono a impedire la morte di qualcuno VIII. quelle che non nuocciono a nessuno e giovano a qualcuno per evitare impurità corporali. Secondo Tommaso le prime tre categorie considerano i peccati più gravi - in ordine decrescente di gravità. Sarebbero da identificare con le menzogne perniciose di Aristotele. Gli altri cinque tipi rappresentano colpe tanto più veniali, quanto migliori sono le intenzioni di chi le compie. Per completezza dovremmo considerare anche una nona categoria delle eventuali menzogne che nuocciono a tutti (e quindi non giovano a nessuno) e una decima di quelle che giovano a tutti (e quindi non nuocciono a nessuno). É discutibile, però, se queste due categorie esistano davvero. É meglio esaminare casi concreti. Consideriamo per prime le falsità di cui qualcuno provi a convincere la gente proprio per il loro bene. Un buon esempio é offerto da Robert Jungk, autore di un libro del 1977 Lo stato atomico. La tesi del libro é che "il ricatto energetico può tradursi in ricatto politico totalitario". In altre parole: i paesi che decidono di produrre energia nucleare in modo massiccio devono organizzarsi in modo così totalitario da diventare dittature politiche. Oggi a 25 anni di distanza questa tesi é stata dimostrata falsa. Infatti la Francia produce circa l'80% della sua energia elettrica con centrali nucleari, eppure é sempre una democrazia - e non la peggiore. Ma vediamo la menzogna di Jungk. Per dimostrare la pericolosità dell'impianto di ritrattamento nucleare di La Hague in Francia, Jungk riporta due argomenti. Il primo é che nelle vicinanze dell'impianto il livello delle radiazioni supera da 10 a 20 volte il limite ammesso per legge. Poi, per dimostrare le conseguenze letali di questo fatto, riporta il contenuto di un manifesto affisso per le strade della cittadina durante una dimostrazione antinucleare : ♦ ♦ ♦ ♦ STATISTICHE UFFICIALI PER TRE ANNI (1972-75) Canton de Beaumont (vicino all'impianto di trattamento): 203 morti di cancro su 1000 morti Arrondissement de Cherbourg: 185 morti di cancro su 1000 morti Arrondissement di St-Lo: 163 morti di cancro su 1000 morti Arrondissement di Coutances: 155 morti di cancro su 1000 morti PERCHÉ? L'implicazione é ovvia: dove ci sono le radiazioni la gente muore molto più frequentemente di cancro. Chi legge é indotto a credere alla tesi dell'autore. I numeri la dimostrano vera. Se, però, andiamo a leggere le 78 statistiche relative a tutta la Francia, troviamo che nel triennio 1972-75 la media dei morti per cancro era di 216 ogni 1000 morti. Questo significa che anche vicino alla centrale di ritrattamento di scorie nucleari la media dei morti per cancro era del 6% inferiore alla media nazionale. Quei dimostranti non citavano gli Arrondissement in cui il numero dei morti di cancro stava ai livelli massimi, che ovviamente ci devono essere perché la media sia più alta dei livelli citati. I dati presentati così sono fuorvianti. Magari possono essere usati per dimostrare che livelli di radiazione 20 volte superiori a quelli ammessi per legge non fanno crescere le morti per cancro. Incontrai Jungk un paio d'anni dopo aver letto il libro e gli contestai le mie obiezioni. Rispose con una candida faccia tosta: "Lo so bene. Però i dati presentati in questo modo fanno più impressione. Così saranno di più quelli che combattono l'energia nucleare." Oggi, poi, abbiamo a disposizione le statistiche francesi fino al 1996. Ci dicono che la media dei morti per cancro é salita a 268 ogni 1000. Dipende dal fatto che in Francia ci sono tante centrali nucleari? No. La media é praticamente identica a quella italiana (che nel 1996 era di 265 per 1000) - e nel nostro paese le centrali nucleari non ci sono. Le cause del continuo incremento delle morti per cancro sono complesse e vanno cercate altrove. Ma se la gente crede alle notizie false, come quelle pubblicate da Jungk, non riterrà opportuno investire di più nella ricerca sul cancro. A che serve? Sanno già che é causato dalle centrali nucleari! Quindi, se possono influire in qualche misura sulle decisioni nazionali, lo faranno in modo errato e danneggeranno tutta la popolazione. Credo che le intenzioni di Jungk fossero buone. Però a causa della sua ignoranza, diffondeva menzogne che Tommaso d'Aquino avrebbe chiamato perniciose. Io classifico queste bugie nella nona categoria (nuocciono a tutti, non giovano a nessuno). La questione essenziale, allora, non é se uno mente o no. La questione vera riguarda la validità del ragionamento completo. Le persone che credono alle tue menzogne: • si comporteranno in modo tale da stare meglio dopo? • si comporteranno in modo da far stare meglio qualcun altro? • se sapessero che gli hai mentito come reagirebbero? Quest'ultima domanda é importante. La gente che scopre di essere stata ingannata in genere non é contenta. In conseguenza può reagire male e, quindi, chi mente ottiene risultati opposti a quelli che voleva. Se le reazioni del pubblico fanno abbastanza rumore la sua credibilità può essere distrutta. Piuttosto che citare proverbi troppo noti, possiamo ricordare a questo proposito la frase di Abraham Lincoln: "Si può ingannare tutto il pubblico per un certo tempo. Si può ingannare una parte del pubblico per tutto il tempo. Però non si può ingannare tutto il pubblico tutto il tempo." 79 La probabilità che le nostre bugie siano scoperte può essere più o meno alta. Dobbiamo valutarla. La regola é sempre la stessa. Dobbiamo immaginare tutte le possibili conseguenze delle nostre azioni. Dobbiamo valutare le probabilità di ciascuna. Poi dobbiamo scegliere cosa fare. Infine la nostra azione sarà buona o cattiva a seconda di quello che succede. Non si può uscire da questo dilemma decidendo di dire sempre la verità. In certi casi speciali dire la verità serve solo a causare disastri e a far stare male la gente. A seconda dell'argomento, della situazione e delle persone coinvolte, talvolta va detta la verità, talaltra bisogna mentire spudoratamente - ed efficacemente. Un caso a parte é costituito dalle bugie sociali e da quelle dette per ragioni di lavoro. Già la menzogna sociale può essere una forma di gentilezza. Se riceviamo due inviti contemporaneamente, non serve a niente dire al nostro amico A :"No, non vengo da te. Preferisco andare da B." Anche se B ci ha invitato dopo A, diremo: "Mi dispiace tanto ma ho un impegno precedente." Dire sempre la verità in modo compulsivo può condurci a trasgredire un'altra regola. Non é un elevato principio morale. É solo un dettato del buon senso. Dice: "Non farti nemici a casaccio. Fatteli per tua scelta." Le bugie sul lavoro vanno giudicate diversamente a seconda dei mestieri. Una battuta inglese definisce il diplomatico come 'un uomo onesto mandato all'estero a mentire per il proprio paese'. Certi diplomatici hanno fatto anche di peggio. Il discorso sui pubblici ufficiali e sugli uomini politici é più vasto e lo analizzeremo nel prossimo capitolo. Un professionista - un avvocato o un ingegnere - possono mentire su altri loro impegni unicamente allo scopo di facilitare la gestione del proprio tempo. Però non devono mentire mai ai propri clienti su questioni sostantive. Se lo fanno, sono pessimi professionisti. Se vengono scoperti, é giusto che vengano fustigati e rifuggiti. Sono sicuramente da denunciare e condannare i medici che prestano cure costosissime non necessarie al paziente, ma utili ad aumentare i loro guadagni. Un caso grave e frequente - che riguarda medici e familiari - é quello della persona che si ammala gravemente. I medici predicono la sua morte a distanza di un mese o di un anno. Bisogna informarla o no? Molti medici dicono di no. Sostengono che lo stress di sapere che moriremo a breve scadenza peggiora le nostre capacità di resistenza. Io e mia moglie Stefania avevamo affrontato questo problema apertamente. Avevamo deciso che ciascuno di noi avrebbe detto all'altro tutta la verità - subito e in qualsiasi frangente. Stefania aveva molta paura del cancro, perché quella malattia aveva ucciso sua madre e sua nonna. Malgrado questo continuava a fumare parecchio. Nel 1978 si ammalò. Fu curata male. Poi parlai con un medico bravo che aveva ricevuto i risultati delle biopsie e che mi disse: "É un cancro grave. Deve essere operato subito." 80 Dissi subito la verità a Stefania - e dopo le fui accanto ogni giorno per i venti mesi che rimase in vita. Quando si seppe che la prima operazione non era andata bene quanto si era sperato e che la prognosi era pessimistica, glielo dissi subito di nuovo. Lei era una donna straordinaria. Dimostrò un coraggio incredibile. Continuò a parlare e, quando non poteva più parlare, a scrivere cose intelligenti, drammatiche, luminose e perfino spiritose e umoristiche. Un mio amico, pure di intelligenza superiore, in condizioni simili mi disse: "Non so se mi fa bene sapere quali siano davvero le mie condizioni. Lascio che decida il medico quello che devo sapere e quello che devo ignorare." Lui morì senza capire quello che gli succedeva e senza lasciare dietro di se nessun messaggio degno di nota, tranne quelli generati durante una vita intellettualmente produttiva. Lasciò anche i suoi affari personali in uno stato di confusione che causò varie grane agli eredi. Dunque a chi diremo tutta la verità, a chi presenteremo verità parziali e a chi mentiremo francamente? Possiamo deciderlo solo considerando il carattere di ciascuno e, insieme, le notizie o le conoscenze da palesare o da nascondere. Riusciremo meglio in questo compito se saremo giudici migliori dell'animo umano, se avremo più immaginazione, se sapremo prevedere meglio gli eventi futuri - incluse le reazioni delle persone con cui abbiamo a che fare. Queste sono le regole generali. Sono molto simili a quelle che abbiamo dedotto in settori molto diversi. Sono regole imprecise che vanno rivalutate nel contesto di ogni situazione in cui ci troviamo. Il fatto che siano così imprecise induce a tentare una similitudine. Le regole che riguardano menzogna e verità sono imprecise proprio come le conoscenze scientifiche. Infatti anche nei campi della fisica più classici e tradizionali tutte le nostre conoscenze sono approssimative. Misuriamo tante grandezze con precisione sempre limitata. É raro che le nostre misure siano più accurate oltre una parte su mille o su diecimila. Anche la velocità della luce la conosciamo con una imprecisione di circa un miliardesimo del suo valore. Non sappiamo essere più precisi di così. Non c'é da meravigliarsi che siano imprecise le nostre conclusioni nel campo della morale. É molto più complicato di quello della fisica. Le misure sono difficili e spesso impossibili. Spesso non sapremmo neanche come misurare il successo o l'insuccesso delle nostre azioni. 81 82 C A P I T O L O 12 FURTO, PECULATO, CORRUZIONE, TANGENTI Questo capitolo comincia con un test. Leggete le due notizie di cronaca che seguono e poi provate a indovinarne la data e la provenienza. Dov'é la città di ***? IL COMUNE STRAPAGA LE CASSAFORTI: NON HA PIÙ SOLDI DA METTERCI DENTRO Una fornitura di cassaforti del valore di un milione é stata fatturata al Comune per 140 milioni ! L'incremento di prezzo di ben 140 volte non é finito tutto nelle tasche del fornitore. Un funzionario comunale che gli inquirenti non hanno ancora individuato, avrebbe intascato una tangente di un milione. Pare che il funzionario sostenga di avere versato l'intera somma nelle mani di un senatore. TANGENTI ANCHE SULLA COSTRUZIONE DEL PALAZZO DEL TRIBUNALE - (Dal nostro inviato) - L'edificio del tribunale di *** doveva costare 180 miliardi. La costruzione non é ancora completata, ma gli stati di avanzamento già pagati dall'amministrazione ammontano a 660 miliardi. Naturalmente c'é sotto una storia di tangenti. Più sensazionale l'indicazione che le persone coinvolte in questo giro di corruzione sono legate al boss che ha organizzato estorsioni su vasta scala su tutto il territorio di ***. Il pizzo viene imposto a tutti: alle gioiellerie eleganti del centro e ai tenutari delle case di prostituzione. Il boss in questione godrebbe anche dell'appoggio di note personalità politiche e sarebbe stato favorito in vari modi anche da alcuni giudici. Allora: avete deciso? Quale città si nasconde sotto il nome di ***? Roma? Milano? Palermo? Reggio Calabria? No. Nessuna di queste. Le cronache che ho riportato riguardano New York. Queste cose accadevano oltre un secolo fa, poco dopo la fine della Guerra di Secessione. Il boss di cui si parlava era W. Tweed: maneggione, camorrista, corruttore, che aveva in mano sia lo Stato che la città di New York. I giudici assoldati da Tweed "vendevano giustizia come un droghiere vende lo zucchero". Samuel Tilden (gentiluomo, milionario, avvocato) iniziò una 83 campagna popolare contro Tweed. Nel 1871 riuscì a mandarlo al penitenziario, ma la corruzione non finì. L'entourage del Presidente Grant era tutto implicato in giri di corruzione. Grant restò presidente fino al 1877. Perché racconto queste vicende? Per dimostrare che la corruzione dei pubblici ufficiali e dei politici non é cosa nuova. Lo dimostrano la storia greca e latina. Probabilmente anche quella egiziana, quella assira e quella Maya. Gli esempi più vicini a noi sono senza fine. Dal 1902 al 1909 una campagna di moralizzazione fu organizzata da S.S. McClure editore della rivista McClure's Magazine, che mandò il giornalista Lincoln Steffens a indagare nella provincia del Middle West. Steffens scoprì a St. Louis, Missouri una catena di collusioni fra politici, uomini d'affari, organizzatori sindacali e racketeers (camorristi). Il tema fu ripreso da una dozzina di riviste fra cui Collier's, The American Magazine, The Independent. Rivelarono ogni sorta di abusi e di peculati organizzati in Minnesota, in Arkansas, a New York. La campagna ebbe effetti positivi, ma dopo il 1909 fu soffocata dall'indifferenza pubblica e da azioni di banche e aziende, che dirottando opportunamente le loro inserzioni pubblicitarie, fecero tacere la libera voce delle riviste. Ci sono altri esempi, sia negli USA, sia in altri paesi, di campagne moralizzatrici che hanno avuto successi alterni. Raramente la corruzione fu sconfitta in modo definitivo. Però per qualche anno o qualche decennio le cose sono migliorate. Nel 1889 il governo italiano si trovò in gravi difficoltà per lo scandalo della Banca Romana, che aveva stampato moneta falsa usata per dare tangenti a politici. Poi gradatamente si tornò alla normalità. Che cosa vogliamo dedurre da tutti i fatti citati per quanto riguarda la situazione italiana? Negli anni Novanta sembrava che ci stessimo affacciando a un periodo positivo come a New York nel 1871, ma poi le reazioni contro i giudici sono state violente.. Che in Italia ci fosse un grosso giro di tangenti era noto da anni. Lessi nei primi anni Sessanta il rapporto scritto dall'amministratore delegato di un'azienda italiana appartenente a un gruppo americano che diceva: "Attualmente in Italia la tangentomania ("bribemania" nell'originale) si é diffusa in misura incredibile." Gli affari di quell'azienda andavano male. Nessuno sapeva bene quali fossero i costi. Quell'amministratore delegato credeva di gestirla nel modo migliore gonfiando i prezzi e facendoli accettare dai clienti pubblici - sborsando mazzette e tangenti. Ma quei prezzi spuntati a fatica erano solo apparentemente troppo alti. In effetti remuneravano appena prodotti più innovativi di quelli allora disponibili sul mercato. Così ogni tangente pagata assorbiva una porzione eccessiva di margini già esigui. Quell'amministratore corrompeva politici e li induceva a fare ottimi affari per le loro amministrazioni, mentre faceva lui affari pessimi per l'azienda. Questa continuò ad andare sempre peggio fin quando cambiò management. Il nuovo amministratore alzò i prezzi, rendendoli remunerativi, e smise di versare tangenti. Solo allora l'azienda cominciò a prosperare. Per alimentare i loro peculati, i politici hanno bisogno della 84 collaborazione degli imprenditori. Joseph Folk, il puritano riformatore che era Procuratore Distrettuale a St.Louis nel 1902, scrisse: "Sono i buoni uomini d'affari che corrompono i nostri cattivi politici ... Sono i leader della nostra cittadinanza che fanno a pezzi la nostra città ". Dall'esame di queste situazioni deduciamo una serie di verità generali: • Il peculato e la corruzione possono dare vantaggi a breve termine - ma non li danno sempre • A lungo termine queste pratiche rovinano la società e la rendono invivibile per il pubblico in generale e anche per corrotti e corruttori • Piuttosto che cercare illusori vantaggi a breve termine, chi subisce tentativi di estorsione fa bene a denunciare i funzionari che richiedono tangenti. C'è il rischio di essere messi fuori dal gioco. Ma va corso. • Il movimento "mani pulite" affermatosi in Italia nel 1992 ha perso impeto ed è stato bloccato. Le conseguenze sono tristi per tutti. Invece converrebbe a tutti seguire regole rigide, fare i rompiscatole ma contribuire a una svolta nella tradizione della società per renderla più efficace - più normale - e per evitare che venga distrutta ricchezza a favore di un piccolo numero di individui immondi. Molti italiani si sono scandalizzati per la gravità e la frequenza dei casi di corruzione denunciati nel 1992. Dicevano: "É disgustoso che nel giro delle tangenti siano implicati ministri, segretari di partiti, assessori, funzionari pubblici, direttori generali di aziende grosse e piccole. Per spartirsi i soldi dello Stato si sono accordati anche gli avversari politici più accesi. All'estero non succede. Come é caduto in basso il nostro Paese!" Però non era mai successo in Italia che una campagna moralizzatrice crescesse così velocemente. Lo scandalo Lockheed aveva sfiorato le vette del potere, ma si concluse con poche condanne timide. Questa volta ci si aspettava di vedere in prigione pezzi grossi ritenuti intoccabili e di vedere questa innovazione italiana valicare le frontiere - ma non è andata così. A parte gli esempi antichi, alla fine degli anni Ottanta ci fu lo scandalo delle Savings And Loans Institutions statunitensi. Questi istituti di credito erano proliferati negli anni Trenta. Sono una specie di Casse di Risparmio o di banche popolari dedicate ai meno abbienti. Davano interessi del 3% ai risparmiatori e prestavano soldi ai piccoli imprenditori al tasso del 6% . Sono favorite dalla legge in vari modi. Possono avere riserve basse: anche del 3% invece del 6% imposto alle banche normali. Negli anni Ottanta una lobby di affaristi entrati nelle S&L (come vengono chiamate le Savings And Loans) cominciò a lavorare per ottenere favori ancora maggiori per queste istituzioni. Si distinsero in questa campagna Fernand St.Germain, deputato democratico di Rhode Island, e Jake Garn, senatore repubblicano dell'Utah. Poi St.Germain fu trombato, forse perché i suoi elettori non erano contenti della sua opera a favore dei faccendieri, ma la sua opera fu continuata da Jim Wright, l'ex speaker del Congresso. Intanto in quegli anni alcuni affaristi si appropriavano di grosse 85 fette delle risorse delle S&L. Alcuni presidenti di S&L caricavano alla banca le loro spese personali più folli. Altri vendevano a caro prezzo all' azienda da loro diretta oggetti privi di valore - come quadri naif. Altri ancora prestavano milioni di dollari ai loro compari che li garantivano con appezzamenti di terra che non valevano niente. Con questi sistemi i faccendieri succhiarono via dalle casse delle S&L miliardi di dollari. Quei soldi erano rubati ai risparmiatori. Sarebbe stato spiacevole per i ladri che i derubati si costituissero parte civile. Così i faccendieri fecero rinforzare dai loro amici politici le garanzie prestate dal governo federale alle S&L. Già esisteva un ente federale - chiamato colloquialmente FIZZ-LICK - la Federal Savings And Loans Insurance Corporation (FSLIC), creato per assicurare i depositi delle F&L. Nell'agosto del 1989 il Congresso degli Stati Uniti approvò una legge che permette al FIZZ-LICK di chiudere e incorporare e, comunque, salvare tutte le S&L insolventi. Solo a quel punto si valutarono le risorse sottratte a quegli istituti di credito. Il conto finale era di 166 miliardi di dollari. Questi saranno restituiti gradatamente in 30 o 40 anni. Tenendo conto degli interessi da pagarci sopra, il governo americano sborserà circa 500 miliardi di dollari. Questa somma é poco meno della metà di quello che tutti gli italiani guadagnano in un anno. Così chi aveva depositato i suoi risparmi alle S&L é stato protetto - a spese di tutti gli altri cittadini americani che non avevano niente a che fare con quelle organizzazioni. Oltre a proporre legislazioni di favore, alcuni senatori intervennero pesantemente con le autorità federali perché non indagassero troppo sulle attività di C.H. Keating, che stava succhiando 2 miliardi di dollari dalla S&L di Lincoln in California. Fra questi senatori c'erano Alan Cranston, che aveva cercato di candidarsi anni fa alla presidenza degli USA, e John Glenn, che nel 1962 - primo americano nello spazio orbitò tre volte la terra. Pare che anche il figlio del presidente Bush fosse implicato in una di queste storie - ma pochi anni dopo è diventato Presidente a sua volta. All'inizio del millennio si sono verificati scandali ben più grossi (Enron, Worldcom). I presidenti di queste enormi aziende falsificavano i bilanci registrando utili enormi (inventati) e intanto compravano grosse quantità di azioni dell'azienda che salivano molto. Loro guadagnavano miliardi rivendendole prima che venissero fuori i loro imbrogli. Di nuovo sono attesi processi clamorosi, ma c'è da aspettarsi che anche qui tutto finisca a coda di topo. Forse gli USA imiteranno l'Italia nell'abolire il reato di falso in bilancio. La legge stabilirà ovunque che se rubi qualche chilo di mele vai dentro e se rubi miliardi ricevi onorificenze. I discorsi su peculato e corruzione valgono anche per i furti, che arricchiscono chi li compie, ma creano una società in cui i ricchi vivono in continuo timore e spendono molto per difendersi. Certo ha poche scelte chi sta in condizioni di povertà abietta. Però la sua strategia migliore é inventare metodi innocui per fare soldi - non rubare. La questione é un caso particolare di quelli che vedremo nel Capitolo 19 e nell'Appendice. 86 C A P I T O L O 13 MORALE DELLA COMPLESSITÀ, TALMUD E INGEGNERIA DEI SISTEMI (1) "Il futuro è già cominciato." "Subiamo lo shock del futuro." "Il progresso tecnico-scientifico continua ad accelerare." "La società telematica diventa infinitamente più complessa di quella industriale e tutti noi subiamo in conseguenza fortissimi stress." Abbiamo sentito e letto frasi come queste tante volte che ormai non ci fanno più effetto. Sono consumate. Non richiamano alla nostra mente alcuna immagine. Eppure è vero: il mondo sta diventando sempre più complesso. Non ce ne accorgiamo perchè intanto la nostra vita viene facilitata in tanti modi. La teleselezione ci permette di parlare subito con persone che sono a Roma, a Milano, a Singapore o a New York. Con il fax trasmettiamo lettere e disegni in un paio di minuti a un costo minimo. Svolgiamo pratiche amministrative via telefono. Paghiamo ogni sorta di servizi con le nostre schede magnetiche. Possiamo andare dalla mattina alla sera a lavorare in una città distante oltre mille kilometri dalla nostra. Però questi servizi che semplificano le faccende vengono assicurati da grandi sistemi tecnologici sempre più complessi. Fra questi: i sistemi di controllo del traffico aereo, che permettono a centinaia di aviogetti al giorno di atterrare e decollare in un solo aeroporto. E poi: i computer, i sistemi di trasmissione dei dati e così via. __________________________________________________ (1) Ho già scritto testi divulgativi sui grandi sistemi tecnologici nel III capitolo del mio Il medioevo prossimo venturo (Mondadori 1971, edizione aggiornata su www.printandread.com) e nel IX capitolo del mio Come imparare più cose e vivere meglio (Mondadori 1981, edizione aggiornata (in inglese) su www.printandread.com). Qui parlo del modo in cui si progettano i grandi sistemi, più che di come sono fatti e come funzionano. 87 E che c'entra la morale con i grandi sistemi tecnologici? C'entra perchè a questi sistemi sono affidati la vita e il benessere di milioni di persone. Dunque errori e disattenzioni nei progetti e nell'esercizio dei sistemi danneggiano gravemente tanta gente e sono da considerare peccati gravi. I progettisti dei sistemi hanno inventato procedure e artifici per evitare questi errori. Il loro mestiere è proprio quello di inventare strutture complesse che funzionino. Dunque possono insegnarci a sbrigarcela nel nostro ambiente che sembra meno complesso di un grande sistema tecnologico, ma, in effetti, è sempre più influenzato dai sistemi e sempre più simile ad essi. Nel capitolo 5 abbiamo visto come i principi del ragionamento talmudico siano simili a quelli usati nell'analisi dei grandi sistemi. Qui entrerò in maggiore dettaglio sui criteri di progettazione dei sistemi e cercherò di evidenziare come si applichino ai nostri problemi personali - alla nostra morale. Per progettare un sistema tecnologico (o anche qualunque altra cosa) bisogna anzitutto dettarne le specifiche. Si tratta di documenti che definiscono funzioni e caratteristiche dell'oggetto da progettare. Sono spesso accompagnati da disegni e prescrivono i materiali da usare. Scrivere le specifiche di un martello o di una pala non è difficile, ma implica la conoscenza degli scopi per cui l'attrezzo sarà usato e delle caratteristiche di chi lo userà. Le specifiche di una bicicletta, di un'automobile, di un aereo sono gradatamente più complesse. Di un sistema occorre specificare: gli obiettivi (multipli) che deve raggiungere, la costituzione, i componenti, le tecnologie da usare nelle varie parti, i costi di realizzazione e di esercizio, l'affidabilità di funzionamento, l'accettazione da parte del pubblico, degli operatori, dei decisori. Si tratta di procedure complesse e sarà necessario che collaborino a quest'opera parecchie persone specializzate in campi diversi. Da qui possiamo trarre già due insegnamenti morali: 1. Ogni nostra azione non ha un solo effetto: ne ha parecchi. Dovremmo cercare di prevederli tutti, non solo quelli che ci motivano immediatamente. Se qualche conseguenza prevedibile non ci piace (danneggia noi stessi o altri), potremo decidere di rinunciare all'azione. 2. Spesso non siamo in grado da soli di analizzare tutte le conseguenze delle nostre azioni, nè di decidere quali scelte abbiamo davvero. In questi casi ci conviene chiedere consiglio ingaggiando l'aiuto di persone più esperte di noi. È inutile o dannoso chiedere consiglio al primo venuto. Meglio riflettere bene su chi possa davvero darci consigli di qualche valore. Per valutare i risultati è bene prendere nota dei consigli avuti, di quanto si è fatto in conseguenza e dei risultati raggiunti. Quando lavoriamo alle specifiche di un sistema, cercheremo di 88 produrre il migliore sistema possibile. Trattandosi di strutture complesse, spesso gli stessi obiettivi si potranno raggiungere in modi diversi. Sorge, allora, l'idea di analizzare tutte le possibili soluzioni proponibili, di calcolarne i costi e i benefici sperati e, infine, di scegliere quella ottima (caratterizzata dal costo più basso e dai benefici più alti). Questa strada è spesso improponibile. Infatti i numeri di sottosistemi, di componenti, di soluzioni organizzative e di scelte tecnologiche sono grandi. Combinandoli in tutti i modi possibili, potremmo definire migliaia (e talora milioni o miliardi) di soluzioni diverse. Analizzare i costi e i benefici di ciascuna richiederebbe troppi soldi e troppo tempo. Perciò scarteremo molte soluzioni già all'inizio senza analizzarle in dettaglio. Ne valuteremo rozzamente alcune caratteristiche e decideremo in base a queste. Un criterio utile a questo scopo si basa sulla disponibilità di tecnologia adeguata. Se i tempi stringono, sceglieremo la soluzione più immediata, con meno incognite. Luigi Stringa, però, ha osservato che questo modo di fare non è giusto: la tecnologia dovrebbe seguire il progetto sistemistico e non viceversa. Solo così possiamo sperare di realizzare sistemi sempre migliori, se non ottimi. Da quanto detto emerge un terzo insegnamento utile nella nostra vita personale: 3. Quanto più si complica l'ambiente in cui viviamo, tanto meno possiamo sperare di individuare le scelte ottime. Sono tante che non avremo nemmeno il tempo di esaminarle. Quindi faremo bene a individuare criteri semplificativi per escludere subito molte eventualità. Non bisogna rimandare indefinitamente le decisioni nella speranza di ottimizzarle. È meglio una soluzione di mezza tacca presa subito che una soluzione migliore scelta troppo tardi. Un esempio, nella nostra vita personale, è dato dal modo di investire i nostri risparmi. Possiamo scegliere fra decine di emissioni di BOT e di CCT, fra certificati di deposito con scadenze da 4 a 20 mesi, fra migliaia di azioni italiane e straniere, fra migliaia di investimenti immobiliari. Per non perdere mesi di lavoro a scegliere l'investimento ottimo, è normale che chiediamo consiglio a un esperto e scegliamo fra le tre o quattro proposte che ci fa. Nel progetto dei sistemi si usa sia l'analisi unifilare, sia quella in condizioni di congestione. La prima considera sequenzialmente quello che deve o può succedere a un elemento tipico in ciascuna delle situazioni in cui si trova durante il suo passaggio spaziale o temporale attraverso il processo sistemistico. Così descriveremo a ogni passo cosa accade a ciascun messaggio telefonico che attraversa una rete di comunicazione o a ogni treno che viene dirottato a destinazione su di una rete ferroviaria. In questo modo si evidenziano e si analizzano le funzioni del sistema e i modi in cui sono coordinate e si susseguono nel tempo e nello spazio. Conviene spesso rappresentare queste sequenze di funzioni per mezzo di diagrammi a blocchi che danno un'idea rozza ma immediata di quello che 89 si sta progettando. Ma spesso il numero di elementi (oggetti, comunicazioni, utenti) presenti a un certo istante in un sistema può essere tanto grande da creare situazioni di congestione. Allora i servizi resi dal sistema non possono essere disponibili simultaneamente per tutte le richieste. Si formeranno file o code di attesa. Il progettista dovrà analizzare le situazioni congestive e curare che nel sistema ci sia spazio sufficiente per contenere le code. Dovrà calcolare i tempi di attesa che conseguono alla congestione e controllare che siano accettabili. Queste analisi, però, sono solo probabilistiche. Anche se si calcola che per 300 giorni all'anno le code di attesa non supereranno certi livelli, non si potrà escludere che raramente una coda raggiunga una lunghezza enorme che implichi attese lunghissime. Eppure - raramente queste attese enormi vanno accettate. Se non volessimo accettarle, dovremmo far crescere molto la capacità del sistema di offrire servizi e, in conseguenza, il sistema diventerebbe troppo costoso. Il quarto insegnamento che deduciamo da questi discorsi è: 4. Non basta immaginare uno dei modi in cui una nostra azione potrà generare conseguenze. Dobbiamo immaginare che, insieme alla nostra azione, si verificheranno molti altri eventi che interferiranno con la nostra linea di condotta. Proviamo allora a prevedere le più importanti influenze mutue tra la azioni nostre e quelle di altri. Nella nostra vita privata questi tentativi di previsione non devono essere limitati ad evitare le ore di punta sulle autostrade, nel traffico cittadino, sui treni o nell'uso del telefono. Stiamo attenti anche alle mini-congestioni sul lavoro, nella nostra vita familiare, fra le idee che si affollano nella nostra testa. Quando un profano sente parlare di ingegneria dei sistemi, pensa a tecnici in camice bianco che seguono procedure complesse e dettagliate sullo schermo di un computer. Ritiene che ogni passo del progetto sia perfettamente definito, che il lavoro di progettazione si svolga seguendo linee direttrici rigide, immutabili - e noiose. Ho già indicato che le cose non stanno così nella fase iniziale del progetto. Ho detto che in quella fase intere classi di soluzioni possibili vanno scartate in base a criteri rozzi unicamente allo scopo di rendere il problema abbordabile. Ma l'immaginazione è fondamentale in tutte le fasi del progetto di un sistema. Non si tratta di immaginare solo nuove soluzioni tecniche, nè di inventare nuove tecnologie. Si tratta di intuire le conseguenze di interi insiemi di premesse. Si tratta di afferrare al volo lampi di genio che conducano a usare una tecnologia esistente in modi nuovi, a concepire funzioni operative nuove o a eliminare un intero sottosistema le cui funzioni possono essere fornite da un uso diverso di altri sottosistemi. Questo tipo di immaginazione è simile a quello ritenuto esclusiva degli artisti. Da queste osservazioni deduciamo un quinto principio morale: 90 5. Non ci dobbiamo attendere che ogni nostro dilemma, o conflitto fra doveri, abbia una soluzione chiara, deterministica, convincente, che qualcun altro ci può indicare. Spesso le soluzioni migliori sono quelle inaspettate e paradossali che riusciamo a individuare proprio con un ardito volo dell'immaginazione. È difficile dare esempi di immaginazione efficace. Viene in mente il motto della protesta del 1968: "L'immaginazione al potere!" Però proprio quelli che lo ripetevano avevano immaginazione tanto scarsa che il potere non lo presero affatto. Provo, comunque, a darne uno. Supponete che il vostro compagno o il vostro coniuge sia depresso. Non riuscite a consolarlo con il vostro affetto, nè venendo incontro ai suoi desideri. Supponete di accorgervi che una grossa parte di quella depressione sia causata da insoddisfazione professionale. Questa persona che sta con voi fa un brutto lavoro. Se ne annoia. È frustrata. Ci si danna. Allora le consolazioni servono a poco. Il male va curato alla radice. L'immaginazione può consistere, allora, nell'inventare un lavoro nuovo adatto alla formazione e alle inclinazioni della persona, che conoscete bene. L'immaginazione deve aiutarvi anche a definire un lavoro nuovo che possa essere accettato dal vostro compagno. Deve essere un lavoro richiesto sul mercato, divertente, ben remunerato - e non deve richiedere al vostro compagno un addestramento che duri sei o sette anni. Be': una volta che riuscite a inventare un lavoro per qualcun altro, potrete riuscire a inventare un lavoro nuovo anche per voi stessi. Ma torniamo alla progettazione dei sistemi. Si presenta un problema serio quando si progetta un sistema che veramente nessuno ha mai progettato, nè realizzato prima. Come organizzeremo lo stesso lavoro di progetto e poi quello di realizzazione? Non troveremo suggerimenti utili in nessun manuale. Non c'è ancora nessuno che sappia scrivere il manuale che ci servirebbe. Il problema è stato risolto per mezzo di una procedura chiamata PERT (Program Evaluation and Review Technique, cioè: Tecnica di Valutazione e Revisione dei Programmi). Il PERT è stato ideato nell'ambito dei programmi missilistici e spaziali americani e poi è stato usato largamente nell'industria. Per raggiungere l'obiettivo finale di programma, è necessario raggiungere prima altri obiettivi (o stati di avanzamento) intermedi. Questi possono essere costituiti dal completamento di sottosistemi, necessari per comporre il sistema totale. Il tempo necessario per completare ciascuno stadio intermedio non è noto, quindi in una prima fase deve essere stimato a intuito. Supponiamo che in base alle stime eseguite si possa disegnare il diagramma riportato alla pagina seguente. Lo stadio 1 è quello iniziale. Corrisponde alla decisione di iniziare il programma e di raccogliere le risorse necessarie. Poi occorre lavorare simultaneamente per conseguire l' obiettivo 2 (e stimiamo che ci vogliano 5 mesi) e l' obiettivo 3 (per il quale bastano 2 mesi). Rappresentiamo questo stato di cose 91 scrivendo il numero dei mesi necessari per raggiungere un obiettivo seguente, sulla freccia che collega il cerchietto relativo ad esso con quello relativo a un obiettivo precedente. 4 3 2 6 2 5 4 1 8 6 5 2 4 3 3 7 6 5 2 (ATTENTI : guardando bene il diagramma, dovrebbe risultarvi tutto molto ovvio. Se è così come suppongo, potete saltare subito alle conclusioni alla fine della pagina. Se no, leggete la spiegazione che segue.) Quindi si lavora in parallelo per raggiungere gli scopi 4, 5 e 6. Una volta raggiunto lo scopo 2, servono 3 mesi per raggiungere il 4 e 4 mesi per raggiungere il 6. Però il 6 si raggiunge solo 2 mesi dopo che è stato completato l'obiettivo 4. Questo, ad esempio, dipende dal fatto che il 4 consiste nella produzione di semilavorati su cui occorre lavorare 2 mesi per ottenere gli oggetti che costituiscono lo scopo 6. Inoltre lo scopo 6 può essere raggiunto solo tre mesi dopo raggiunto il 5 che raggiungeremo 6 mesi dopo il 3. Il 7 viene raggiunto 2 mesi dopo il 5 e lo scopo finale 8 si raggiunge 5 mesi dopo completato il 6, 6 mesi dopo completato il 4 e 4 mesi dopo il 7. Il programma è completo solo dopo che sono stati raggiunti tutti gli stadi intermedi. Bisogna percorrere, cioè, i 4 cammini indicati sul diagramma. Il tempo totale è quello relativo al cammino che prende più tempo, che chiamiamo cammino critico. I tempi totali relativi ai quattro cammini possibili sono CAMMINO 1-2-4-6-8 1-2-4-8 1-2-6-8 1-3-5-6-8 1-3-5-7-8 TEMPO TOTALE (mesi) 15 14 14 16 14 Il cammino critico è il terzo : 1-3-5-6-8 - cioè: i tempi per andare da 1 a 3, da 3 a 5, da 5 a 6 e da 6 a 8 sono tutti critici. Se per una ragione qualsiasi uno di essi si allunga (di un mese, di una settimana o di un giorno) 92 anche il tempo totale per completare il programma si allunga di un mese, di una settimana o di un giorno. Se, invece, insorgono difficoltà impreviste e per raggiungere lo scopo 2 ci mettiamo sei mesi invece di cinque, il programma nel suo complesso non subisce ritardi. Perchè? Ma perchè arriveremo allo scopo 6 seguendo il cammino 1-2-4-6 in 11 mesi, proprio come accade seguendo il cammino 1-3-5-6. La procedura PERT permette, quindi, di giudicare l'urgenza relativa di tutte le operazioni che vanno compiute simultaneamente. Le risorse disponibili di uomini e di mezzi andranno concentrate sulle operazioni che fanno parte del cammino critico. Come dice il nome, il programma va revisionato periodicamente in base all'esperienza fatta e ai risultati conseguiti. Bisognerà prestare attenzione ai ritardi che implichino un cambiamento del cammino critico. Per esempio, se accade che ci vogliano otto mesi per passare da 1 a 2, il cammino critico non è più 1-3-5-6-8, ma diventa 1-2-4-6-8. Per mezzo delle revisioni periodiche, riusciamo a rendere più realistiche e significative le valutazioni successive dell'avanzamento dei lavori. I diagrammi che tracceremo per sostituire quello iniziale registreranno tempi diversi da quelli inizialmente stimati ed eventualmente conterranno gli obiettivi intermedi ordinati secondo sequenze diverse da quelle originarie. Che insegnamento ci può dare questo tipo di approccio per gli scopi della nostra morale personale? Non solo quello ovvio che alle cose più importanti va attribuita maggiore importanza (in inglese si dice first things first),ma anche: 6. Non è importante solo quello che facciamo. È importante in che ordine compiamo le nostre azioni. (1) Secondo il terzo insegnamento che abbiamo visto, è meglio prendere subito una decisione non troppo felice che attendere troppo per quella ottima. Ora aggiungiamo che ogni decisione rimandata può avere conseguenze spiacevoli anche su questioni non direttamente connesse a quella originale. Dunque è bene capire quali siano le connessioni fra le varie parti del mondo che abbiamo attorno e fra le varie cose che facciamo. Spesso queste connessioni possono solo essere stimate rozzamente. Provare a formulare stime rozze e, poi, revisionarle ripetutamente può essere molto vantaggioso. Funziona con il PERT nell'industria: può funzionare anche nella nostra vita personale. A questo punto è bene che io chiarisca: non vi sto suggerendo di disegnare diagrammini per rappresentare i vostri problemi correnti in un _________________________________________________________ (1) Alla fine degli anni Quaranta il bidello dell'Istituto di Macchine della Facoltà di Ingegneria a Roma si chiamava Procario. Biasimava gli studenti che chiedevano l'iscrizione a un esame o un attestato di frequenza quando i termini erano già scaduti, dicendo: "Ecco gli studenti! Sempre così! Prima càcheno e poi cèrcheno la carta!" 93 modo più o meno efficace - o più o meno maniacale. Per svolgere compiti complessi, coordinando il lavoro di molte altre persone, i diagrammi tipo PERT possono essere utili. Non ha senso usarli per programmare un lavoro lineare (preparare un esame, tradurre un libro, zappare un campicello o verniciare le finestre di un appartamento). Non ha senso usarli per problemi troppo indefiniti o con troppe incognite. Ma l' importante è il concetto. Ha senso pensare ai nostri problemi in termini di cammini critici. Ha senso coordinare le varie cose che facciamo. Nel mondo complesso di oggi le incognite sono sempre più numerose. Alcune sono relative a rischi che corriamo. Dunque è interessante vedere che specie di approcci abbiano escogitato gli ingegneri sistemisti per valutare i rischi e per evitarli. L'ingegneria della sicurezza ha fatto enormi passi avanti - e si può dire che sia nata con l'industria nucleare. I rischi di una catastrofe in una centrale elettronucleare sarebbero tanto gravi da spingere i progettisti ad analizzare ogni possibile causa di guasto molto più profondamente che per ogni altra struttura progettata prima. Non potrò esporre compiutamente in queste pagine nemmeno una breve sinossi dell'ingegneria della sicurezza. Citerò solo una tecnica ampiamente usata: quella degli alberi di guasto. Per analizzare tutte le possibili cause di guasti in una struttura tecnologica complessa, si procede così: I. si prende in considerazione separatamente ogni componente della struttura II. si esamina quanti tipi di guasto potrebbe sviluppare III. si deduce quali altri guasti o conseguenze negative si potrebbero produrre in conseguenza di ciascuno tipo di guasto esaminato al punto II IV. si deduce quali altri guasti o conseguenze negative si potrebbero produrre in conseguenza di ciascuno guasto secondario esaminato al punto III. Questo processo continua fino a considerare guasti di ordini successivi concatenati in sequenze anche molto lunghe. V. si cerca di calcolare la gravità e la probabilità di ciascuna catena di guasti definita dai passi precedenti. Le probabilità si possono determinare in base alle serie storiche delle frequenze di guasti. Le gravità si stimano in funzione del tipo e numero degli oggetti messi a rischio dalla catena di guasti. VI. in funzione di tali probabilità e gravità, si decidono i provvedimenti adeguati per aumentare la sicurezza o per cambiare il progetto in modo da eliminare certi componenti critici e, quindi, rendere certi guasti del tutto impossibili. Non vale la pena di illustrare qui con una figura come sono fatti questi diagrammi ad albero. Da un certo numero di punti (i guasti primari) si diramano segmenti a raggiera che connettono i primi ai punti 94 rappresentativi dei guasti secondari. Da ciascuno di questi di nuovo si diramano segmenti a raggiera che li connettono ai punti rappresentativi dei guasti terziari e così via. Il sistema ovviamente ci evita di dimenticare qualche possibile guasto o catena di guasti. L'applicazione alla morale personale è abbastanza ovvia: 7. Non basta che cerchiamo di valutare le conseguenze delle nostre azioni. Dobbiamo cercare di valutare anche le conseguenze possibili di quelle conseguenze e le conseguenze delle conseguenze delle conseguenze. Man mano che queste catene si allungano, crescono le incertezze: la cosa è fatale. Però già avere l'idea che sia possibile fare queste previsioni contribuisce a mostrarci a quali rischi possiamo andare incontro e a suggerirci come evitarli. Anche se abbiamo esaminato qualche diagramma, in generale abbiamo seguito un approccio qualitativo o discorsivo a tutte le questioni che abbiamo trattato. I progettisti di sistemi non disprezzano certo questi approcci. Quando sia possibile, però, sfruttano ogni strumento matematico e scientifico di cui possano disporre. Una delle discipline sfruttata nel progetto dei sistemi è la ricerca operativa. Secondo Stafford Beer la ricerca operativa si definisce come "l'uso della scienza moderna per attaccare problemi affetti da incertezza che sorgono nella gestione e nel controllo di uomini, macchine, materiali e soldi. È tipico della ricerca operativa inventare strategie di controllo misurando, confrontando e predicendo eventi probabili mediante modelli scientifici." Questa definizione suonerà astratta a chi non ha letto qualche libro o articolo sulla ricerca operativa. Ricordo solo che la ricerca operativa si sviluppò durante la seconda guerra mondiale per risolvere problemi militari. Ad esempio: "Quale è la migliore strategia di difesa aerea e navale e di costituzione dei convogli per minimizzare il tonnellaggio affondato dagli U-Boot in Atlantico?" Non entro qui in ulteriori dettagli. Mi limito a dedurre il seguente suggerimento: 8. Non possiamo prevedere quando potremo avere estremo bisogno di qualche strumento teorico nella nostra vita personale. Volta a volta ci potrà servire di sapere qualche cosa di biologia, di epidemiologia, di scienza delle finanze e - perchè no? - di matematica e fisica (1). Dunque conviene imparare quanto più possiamo in tutti questi campi - anche se l'utilità sembra marginale a chi ragioni superficialmente. _______________________________________________________ (1) Ho illustrato la convenienza di imparare la matematica in un mio libretto del 1989: Anche tu matematico (Garzanti). 95 Nel progetto dei sistemi tecnologici si usano in generale le macchine e i componenti più avanzati resi disponibili dalla tecnologia. Quando una certa funzione non può essere assicurata dai prodotti tecnologici disponibili sul mercato, si dovranno progettare prodotti nuovi. Quest'ultima prescrizione - è vero - interessa letteralmente pochi fra noi. Sono rari quelli che si mettono a progettare una macchina nuova per risolvere un problema personale. Però un insegnamento almeno può essere citato: 9. Ci conviene utilizzare i prodotti nuovi della tecnologia valutandone accuratamente costi e benefici. Fra i costi va annoverato certamente lo sforzo necessario per imparare a usare le nuove macchine. Fra i benefici, invece, è bene non annoverare il semplice gusto di usare una oggetto nuovo ancora poco diffuso. Avere un fax serve di sicuro a chi scambia con altri numerosi documenti scritti. Avere un computer dieci o cento volte più veloce di quello che stiamo usando adesso può essere del tutto inutile per chi non usi programmi matematici grossi e sofisticati. Abbiamo già visto che i grandi sistemi tecnologici spesso producono risultati multipli. Oltre ai risultati che il sistema è progettato per conseguire, ce ne sono altri negativi - che il sistema dovrebbe essere progettato per minimizzare. Fra questi - gli impatti ambientali negativi. Ormai in tutti i paesi industrializzati vigono leggi che impongono di valutare metodicamente l'impatto ambientale prevedibile in conseguenza della realizzazione di qualunque grande opera. Sono provvedimenti opportuni - almeno fin quando non si chieda ai progettisti di prevedere ogni possibile evento futuro, cosa che nessuno di noi è equipaggiato per fare. A un livello molto più modesto, ogni nostra azione può avere impatti ambientali negativi. Normalmente questi impatti hanno effetto minimo. Ciascuno di noi è molto piccolo rispetto all'ambiente. Qui, però, viene bene citare di nuovo l'insegnamento talmudico: zikhronam livrakhà il loro esempio sia benedetto. Da cui il decimo suggerimento morale: 10. Limitiamo gli impatti ambientali negativi di ogni nostra azione. Ricicliamo i materiali che abbiamo usato e non li spargiamo in giro per la natura. Anche se la nostra azione individuale avrà effetto scarso, il nostro esempio potrà amplificarla. Una parte importante del progetto dei sistemi tecnologici, infine, non riguarda questioni strettamente tecniche, nè procedure meccanicistiche. Si tratta dell'ingegneria umana o dei così detti rapporti uomo-macchina. Costruire e inserire in un sistema tecnologico le macchine più perfezionate non serve a niente se queste non sono adatte a essere usate dagli operatori cui verranno affidate. Analogamente i messaggi diretti a un pubblico vasto (ad esempio su quadri luminosi a messaggio variabile) saranno inefficaci 96 o fuorvianti, se non sono progettati in modo da essere capiti facilmente. Le soluzioni di software e quelle sull'organizzazione umana e sull'uso degli esseri umani sono altrettanto importanti delle macchine e delle soluzioni di hardware. Da qui l'undicesimo insegnamento: 11. Nessuno dei nostri problemi potrà mai avere una soluzione semplicemente tecnica o meccanicistica o finanziaria. Dovremo sempre chiederci quali saranno le reazioni delle persone implicate e - prima di tutto! - le nostre reazioni personali. È sbagliato credere che una soluzione razionale a un certo problema venga accettata dagli interessati solo perchè è razionale. Noi stessi possiamo individuare soluzioni razionali e possiamo decidere di adottarle - ma poi potremo accorgerci che in pratica le rifiutiamo. Non riusciamo a vivere con esse. Dunque conviene pensarci prima e cercare di prevedere - sulla base della nostra esperienza passata quali soluzioni siano davvero accettabili a noi e agli altri. Abbiamo concluso questa rapida rassegna delle applicazioni sistemistiche che possono aiutarci a definire una nostra morale personale più efficace di quelle usuali. Sono venuti fuori undici suggerimenti. Li riassumo qui di seguito. Scorrendoli, non avrete certo l'impressione di leggere parole sacre che vi salveranno, ma se cercate di applicarli, vivrete meglio e farete vivere meglio tanta altra gente. 1. 2. 3. 4. Cercate di prevedere tutti gli effetti di ogni vostra azione Nei casi difficili chiedete consiglio a esperti Decidete rapidamente: l'ottimo è spesso troppo difficile da individuare Cercate di prevedere i più importanti effetti esterni (ma non tutti) sulla realtà che state cercando di modificare 5. Immaginate soluzioni nuove e paradossali: quelle standard sono spesso inadeguate 6. Assegnate priorità corrette alle vostre azioni; programmatele e revisionate spesso i programmi 7. Valutate le conseguenze delle conseguenze delle vostre azioni e cercate di capire quali rischi ci si possano annidare 8. Cercate di acquisire tutti gli strumenti teorici che potete (matematica, scienza, cultura): prima o poi potranno esservi utilissimi 9. Utilizzate i nuovi prodotti della tecnologia che vi possano essere davvero utili 10. Non danneggiate l'ambiente inutilmente 11. In ogni problema tenete nel debito conto i fattori umani - a cominciare dalle vostre reazioni personali. Molti problemi hanno soluzioni umane più efficaci di quelle legali o tecniche. Questi non sono comandamenti. Sono descrizioni di modi di procedere razionali. Dalle stesse premesse - o da premesse più vaste (è 97 sempre bene cercare maggiori input) - si potrebbero dedurre suggerimenti morali in numero diverso e con contenuti un pò diversi. Le basi, però, ci sono. La morale nuova deve essere fatta così - anche se certo rifiuteremo gli Undici Suggerimenti come regole fisse. Qualcuno potrebbe obiettare che questi undici suggerimenti sono essenzialmente dettati dal buon senso. Avrebbero potuto venire in mente a chiunque: perchè scomodare l'ingegneria dei sistemi per introdurli? Rispondo che certo il buon senso è un ingrediente essenziale dell'ingegneria dei sistemi. Ammesso questo, non è forse ragionevole andare a cercare suggerimenti di buon senso proprio in una disciplina che li raccoglie metodicamente e li organizza per raggiungere obiettivi ben definiti? Se poi qualcuno arrivasse a conclusioni simili partendo da premesse diverse, non avremmo niente da obiettare. Vediamo, anzi, se possiamo derivare altri insegnamenti di buon senso da fonti antiche, cui magari si sono già ispirati testi di morale ben noti. Uno di questi principi sostiene che non bisogna essere estremisti: "in medio stat virtus" (la virtù sta nel mezzo); la via di mezzo è aurea e così via. È un principio che si trova in Aristotele, in Cicerone, in Seneca, in Epitteto e in tanti altri. Nell'ingegneria dei sistemi, invece, non se ne parla. Probabilmente la ragione è che non vale la pena riaffermare che dovremmo evitare gli eccessi. Appena li definiamo eccessi, già abbiamo asserito che implicano troppo di qualche cosa - cioè non il giusto - e l'ingegneria dei sistemi si propone proprio di realizzare cose giuste senza sprechi, né inadeguatezze. Ma accade a molti di noi di eccedere in qualche nostra abitudine tanto da danneggiare noi stessi. Quindi è bene esaminare la questione, anche se l'ingegneria dei sistemi non ci aiuta. Gli eccessi che ci danneggiano più spesso riguardano sostanze che immettiamo nel nostro corpo: le mangiamo, le beviamo, le inaliamo, le fiutiamo. Le conseguenze sono note. Possiamo diventare troppo grassi il che ci rende brutti, ci affatica, danneggia il nostro cuore e altre nostre frattaglie. Possiamo inebriarci - e fare cose inopportune che in condizioni normali non avremmo fatto mai. Possiamo danneggiare i neuroni del nostro cervello (come accade con certe droghe) o i nostri polmoni (come accade fumando tabacco). Vale la pena di ricordare una norma del Corano (dopo tutto nessuno ci impone di trarre gli insegnamenti solo dal Talmud o dall'ingegneria dei sistemi): "Ciò che il suo molto inebria, anche il suo poco è proibito." È in base a questa regola che i mussulmani osservanti non bevono alcolici e, dove comandano, li proibiscono anche ai non mussulmani. Tommaso d'Aquino era più permissivo. Riteneva che non peccasse affatto chi si inebriava perchè non conosceva gli effetti del vino. Commette peccato veniale chi si ubriaca in modo preterintenzionale, per esempio perchè confida di sapersi fermare in tempo. Commette peccato mortale chi si ubriaca con premeditazione - sapendo che lo farà. Non sono 98 d'accordo: al solito non credo che siano tanto importanti le intenzioni. Sono più importanti gli effetti finali. Molte persone possono bere alcolici in misura moderata in contesti sociali aggraziati, traendone talora ispirazione per idee o discorsi divertenti. Chi appartiene a questa categoria potrà continuare a bere senza timori. Chi, invece, non riesce a smettere una volta che comincia e si rende odioso a sè e agli altri, è bene che smetta del tutto. A lungo termine non gli verranno la cirrosi epatica o il delirium tremens e anche a breve termine conseguirà vantaggi notevoli. Lo stesso discorso vale per il fumo. Ne ho esperienza diretta. Parecchi anni fa provai a ridurre il numero di sigarette che fumavo ogni giorno, ma senza successo. Tornavo in breve a superare le trenta al giorno. Così nel 1976 smisi del tutto. Cominciai abbastanza presto ad avere più fiato e ora corro rischio minore di contrarre enfisema o cancro: fumare è disastroso. Dato che il fumo dà una forte assuefazione, vi consiglio di smettere cogliendo l'occasione di una influenza o di una bronchite. Durante la malattia non si riesce affatto a fumare: così la prima settimana o due di astinenza si passano senza sforzo - gratis. Il discorso è più grave e più complicato per quanto riguarda le droghe. Alcuni citano l'esempio di notissimi uomini d'affari che sniffano cocaina da decenni con tanta saggezza e parsimonia da ritrarne notevole piacere e nessun danno. I pareri sono divisi. Secondo alcuni i danni (anche cerebrali) sono sempre sensibili e conviene evitare ogni droga pesante e leggera. Da quanto ho letto ritengo che le droghe pesanti siano sicuramente assuefacenti (nel senso che non si riesce più a farne a mano) e dannose. Quelle leggere forse meno. Però anche se accettiamo il punto di vista che siano poco dannose e che si possano prendere e lasciare a nostro piacimento - resta il fatto che modificano il nostro stato di coscienza. Questo è pericoloso. Capire il mondo non è facile. Per riuscirci abbiamo bisogno di tutte le nostre facoltà - e spesso non bastano nemmeno. Ridurre le nostre probabilità di successo non conviene affatto: prima o poi ci danneggia sicuramente. Per la stessa ragione disapprovo anche l'uso dei tranquillanti. Se viviamo una condizione stressante - di rischio, di incertezza, di iperattività forzata - non abbiamo nessuna ragione di stare tranquilli. Procurarci una tranquillità artificiale potrà renderci meno attenti, più vulnerabili e meno aggressivi proprio quando ci converrebbe di essere svegli e capaci di difenderci e di reagire. Ci sono momenti in cui è bene essere aggressivi (anche se non temerari) - almeno se non vogliamo abbandonarci in balia degli eventi esterni e della volontà altrui. Ad alcuni succede di scivolare negli eccessi - di fumare, di mangiare e di bere - per sola distrazione. Sono attività momentaneamente piacevoli e i danni futuri sembrano lontani. È facile dire che non bisogna distrarsi, ma in molti casi non serve a niente ripeterlo. Eppure è così ovvio: prendiamo già tante fregature indipendenti dalla nostra volontà che è sciocco procurarcene altre gravi (come il cancro al polmone o il collasso cardiocircolatorio dovuto all'obesità) solo per distrazione. 99 100 101 C A P I T O L O 14 UNA MORALE ARTIFICIALE AFFIDATA AL COMPUTER (VEDI NOTA) Ho già detto che - per fare ragionamenti morali - dovremmo conoscere il mondo ed essere capaci di prevedere le conseguenze di quel che facciamo. Poi dovremmo poter scegliere i nostri obiettivi e agire di conseguenza. Ora questi compiti somigliano molto a quelli che vengono svolti dai manager quando gestiscono una società industriale o commerciale. Chi gestisce un'azienda, uno stabilimento o un sistema tecnologico usa libri, manuali e prontuari. Oggi ha a disposizione anche programmi di computer che lo aiutano a organizzare meglio la sua attività, a controllare le prestazioni dei suoi collaboratori, a prevedere tempi e costi finali di un'impresa, a valutare tendenze generali dell'economia e così via. Alcuni di questi programmi si chiamano sistemi esperti. Vengono costruiti da specialisti in management, progettazione o gestione di impianti che ci mettono dentro tutta la loro scienza. Poi altri manager (meno esperti degli originatori del programma) raccontano al sistema computerizzato quale è la situazione e quale è il problema che devono risolvere e gli chiedono consiglio. Il sistema esperto domanda a sua volta altre informazioni. Quando ne ha abbastanza, stampa il suo consiglio e, in genere, spiega le ragioni per cui lo ha dato. Perchè non si potrebbe, allora, costruire un sistema esperto che dia consigli a chiunque su come comportarsi, su come giudicare la moralità e l'opportunità di un'azione, su come risolvere un conflitto fra doveri o fra preferenze? _________________________________________________ NOTA: SE AVETE L'IMPRESSIONE CHE IO PROPONGA QUI SERIAMENTE UNA MORALE AFFIDATA AL COMPUTER, LEGGETE SUBITO LE CONCLUSIONI (IN TUTTE MAIUSCOLE) IN FONDO AL CAPITOLO - E VEDRETE CHE NON E' COSI'. 102 Un consigliere morale computerizzato potrebbe essere congegnato in modo da essere universale. Verrebbe presentato come adatto a tutti - dando per scontato che la morale è unica. L'imprenditore che lo realizzasse e ne vendesse i servizi potrebbe pubblicizzarlo dicendo: IL CONSIGLIERE MORALE AUTOMATICO RISOLVE I VOSTRI PROBLEMI QUALI CHE SIANO LE VOSTRE CONVINZIONI O IDEOLOGIE. LA MORALE NATURALE È LA STESSA PER TUTTI! APPREZZERETE E SEGUIRETE CON SUCCESSO I GIUDIZI, LE VALUTAZIONI, I CONSIGLI DATI DAL SISTEMA SIA CHE SIATE CRISTIANI, MUSULMANI, EBREI, BUDDISTI, SHINTOISTI, ANIMISTI O POSITIVISTI. IL SISTEMA ESPERTO È STATO COSTRUITO CON L'AUSILIO E LA CONSULENZA DI: PRETI, PASTORI, RABBINI, GIUDICI, POLIZIOTTI, AVVOCATI, GURU, MEDICI, PSICOLOGI, PSICANALISTI, PSICOTERAPEUTI, PSICHIATRI, FILANTROPI, FILOSOFI E PENSATORI. Questo sistema consentirebbe di mettere in pratica il secondo suggerimento fornito nel capitolo precedente, ma verrebbe avversato dai ministri del culto di tutte le religioni e da tutte le scuole di psicologia o di psicoanalisi, perchè minaccerebbe i loro monopoli. Sarebbe più accettabile un sistema flessibile. Potrebbe essere dotato di un commutatore per scegliere il tipo di morale o di approccio. Oppure all'inizio della seduta sullo schermo potrebbero apparire le scritte: CHE MORALE PREFERITE? CRISTIANA EBREA MUSULMANA POSITIVISTA MATERIALISTA-STORICA BUDDISTA (TOCCATE COL DITO LA SCRITTA CORRISPONDENTE ALLA VOSTRA SCELTA) Se avete scelto la morale cristiana, la macchina vi chiederà quale sia la setta o la denominazione preferita: SCEGLIETE: CATTOLICA GRECO-ORTODOSSA LUTERANA ANGLICANA QUACCHERA EPISCOPALE BATTISTA METODISTA CALVINISTA MORMONE AVVENTISTA e così via. A questo punto voi ponete il quesito e il sistema vi chiede delucidazioni. Quando avete illustrato bene i precedenti, le implicazioni e ogni altro elemento, il sistema vi potrà chiedere se conoscete quale sia la dottrina generale del vostro gruppo religioso in merito alla questione che 103 avete posto. Vi proporrà quesiti a scelte multiple per controllare che davvero conosciate quella dottrina. Se si accorge che la vostra conoscenza è difettosa, ve la rinfrescherà facendovi leggere testi scritti e proponendovi filmati o animazioni. Poi proverà a suggerire il corso di azioni più morale e consigliabile. Quindi vi chiederà se lo trovate convincente e se lo metterete in pratica. Riceverà le vostre eventuali obiezioni e le controbatterà con altri esempi e altre considerazioni. Se non riesce a convincervi, potrà suggerire che vi rivolgiate a un consigliere umano e vi fornirà una lista di nomi e di indirizzi. Queste macchine potranno essere installate in centri specializzati oppure saranno accessibili in rete dallo stesso terminale su cui lavorate o che avete a casa. Il sistema esperto potrebbe anche insegnare la morale ai bambini partendo da zero. Così non sarebbero più i genitori a inculcarci i loro princ.pi e a mostrarci esempi da seguire. Assorbiremmo regole e nozioni da una macchina equipaggiata con un Compact Disk Interattivo (CDI). Sullo schermo di un televisore leggeremmo regole generali, comandamenti di situazioni tipiche: violenza e legittima difesa; flirt e innamoramenti; rapporti sessuali consigliati e no; giri di interesse e azioni fatte a scopo di lucro. Ogni sequenza verrebbe commentata da una voce fuori campo, da scritte e simboli sullo schermo, da un attore con aspetto credibilmente autorevole. Poi la macchina mostrerebbe all'utente filmati o animazioni che pongono un problema e gli chiederebbe: "Che faresti al posto del signor X?" Se la risposta è esatta l'utente continuerebbe a leggere altri testi e a vedere altri filmati. Se no, si tornerebbe indietro a rivedere il materiale già mostrato - con l'aggiunta di altre spiegazioni oppure presentato in modo più semplice. Un sistema di questo tipo è perfettamente realizzabile oggi. Le tecniche usate sono le stesse impiegate nella costruzione dei sistemi esperti per risolvere problemi di diagnostica medica o di manutenzione e gestione di grossi complessi industriali. Il sistema dovrà incorporare moduli per l'analisi del linguaggio umano naturale. Questi comprenderanno non solo grammatica e sintassi, ma anche la semantica. Potranno identificare, quindi, chi agisce e chi subisce, quali siano gli eventi naturali e quali quelli prodotti dall'uomo, quali eventi possano causarne altri, quali devono avvenire prima e quali dopo. Infine confronteranno le situazioni proposte con paradigmi di comportamento originariamente immessi nella base dati e, infine, potranno emettere un giudizio. A questo punto sorge spontanea l'idea di meccanizzare per i cattolici anche il sacramento della confessione. Perchè farlo? La ragione più immediata è che i preti non bastano. Le vocazioni sacerdotali sono in crisi e pare sia difficile trovare parroci per le parrocchie esistenti. I confessori automatici allevierebbero il lavoro dei pochi preti rimasti. 104 Dovrebbero avere successo. Lo dimostra la popolarità di LIZA - un preteso psicoterapeuta realizzato su computer da Joe Weizenbaum. Parecchi pazienti sostenevano che LIZA comprendeva i loro problemi meglio di uno psicoterapeuta umano. In effetti il programma di Weizenbaum non era dotato di nessuna intelligenza. Si limitava a ripetere le frasi del paziente, chiedendo blandamente: "Perchè pensi questo? Perchè le cose vanno così?" Il programma capace di simulare un confessore dovrebbe essere molto più sofisticato. Oltre alle liste dei comandamenti, dei peccati e delle virtù, dovrebbe contenere un'ampia casistica e una base dati desunta dagli scritti dei Padri della Chiesa. Si dovrebbe superare la difficoltà che il sacramento della confessione può essere amministrato solo da un sacerdote regolarmente ordinato. Però varie sette protestanti ordinano anche le donne come ministri del culto e anche come vescovi. In un avvenire non lontano, perciò, è pensabile che la chiesa cattolica attribuisca gli ordini sacri a un computer. Più difficile è il problema del segreto. I confessori, infatti, non devono rivelare a nessuno il contenuto delle confessioni che ricevono neanche se vengono minacciati di morte. Il computer-confessore potrebbe essere protetto dalle intrusioni con codici crittografici oppure potrebbe cancellare tutte le informazioni ricevute subito dopo data l' assoluzione. Però non si potrebbe escludere che un operatore umano durante certe operazioni di manutenzione possa apprendere il contenuto di una confessione. Infine, perchè la confessione sia efficace, il peccatore deve pentirsi sinceramente delle brutte cose che ha fatto. Qui l'onere è tutto suo: neanche i confessori umani sono capaci di giudicare della sincerità del penitente, nè sono tenuti a farlo. Quest'ultima proposta è paradossale - ma non è detto che non sarà adottata davvero. Tornando alla questione più generale dei sistemi esperti specializzati nel dare consigli morali, chiarisco che NON STO PROPONENDO CHE SI REALIZZINO (anche se realizzarli bene potrebbe portare a una diffusione di conoscenze troppo spesso trascurate). AL CONTRARIO, PRIMA CHE QUALCUNO LI PROPONGA SERIAMENTE, DICHIARO CHE POSSONO ESSERE PERICOLOSI. CHI CREDE IN QUESTE MACCHINE IPERSEMPLIFICA I PROBLEMI - E NON CONVIENE. Questo stesso mio libro, in effetti, si presenta come un sistema esperto specializzato in questioni morali. Non mi è parso sensato, però, meccanizzare l'accesso ai miei argomenti con un package di software. Il punto chiave non è la facilità di accesso (che un computer potrebbe incrementare) - è la comprensione fatta di conoscenza, sensibilità, intuizione (in inglese si chiama insight). Queste doti non si acquistano in modo meccanico, ma con processi lenti che non si accelerano ricorrendo a un computer. 105 CAPITOLO 15 DOVREMMO CONVERTIRCI ALLA MORALE GIAPPONESE? Ogni tanto invidiamo i giapponesi. Leggiamo sul giornale che in media guadagnano il 61 per cento più degli italiani. Le loro automobili sono garantite per tre anni - le nostre per un anno. Preferiamo spesso i televisori, i videoregistratori, i computer, le macchine fotografiche, i fax e i telefoni cellulari fabbricati da loro. Sono di qualità migliore di quelli fabbricati nel nostro paese. I giapponesi non sono disturbati quasi mai dagli scioperi dei mezzi pubblici, dei controllori del traffico aereo o degli assistenti di volo. Vivono più addensati di noi (323 abitanti/km2 contro i nostri 191). Malgrado l'affollamento, i loro sistemi funzionano meglio dei nostri. Quasi sempre: quando, nel 1992, il loro treno superveloce ha lasciato cadere sui binari uno dei suoi motori, per loro è stata una vergogna nazionale. Agli altri è sembrato un paradosso. I giapponesi sono ricchi, operosi e imperturbabili. Magari non li capiamo. Non abbiamo mai letto un libro scritto da un giapponese. Però vorremmo essere almeno un po' più come loro. Oppure vorremmo che loro fossero un po' meno così. Allora forse dovrebbe sorgerci un dubbio. I successi giapponesi, oltre che da una buona organizzazione e da studi accurati, non dipendono forse dal fatto che si comportano meglio, che la loro morale è migliore della nostra? Vale la pena di esaminare la questione. A questo scopo vediamo un po' la storia della morale corrente giapponese che è fatta di princìpi religiosi shintoisti strettamente collegati a princìpi di morale civica e di fedeltà allo stato e all'imperatore. Non mi propongo di andare troppo indietro nel tempo. Ho l'impressione che la storia antica del Giappone sia stata ricostruita a posteriori. Dopo tutto non avevano nemmeno inventato la scrittura, che copiarono dai Cinesi verso il quinto secolo della nostra era. Ma anche questo è inessenziale. Hanno copiato tante cose e poi hanno imparato a 106 farle meglio di quelli che le avevano introdotte per primi. Tutti sanno che l'era moderna del Giappone inizia con la restaurazione Meiji del 1868. Due anni dopo l'imperatore Mutsuhito emanava un proclama annunciando che veniva ripresa la Strada derivante dalla dea del sole (Amaterasu), che aveva mantenuto in auge la discendenza imperiale e aveva permesso al Giappone di avere buon governo e cerimonie religiose approvate da tutti. Il proclama diceva fra l'altro: "In alto il governo e l'educazione erano chiari, in basso il popolo aveva ottime maniere." Non era una pura formalità che l'imperatore si dichiarasse a favore dell'educazione. Negli anni seguenti l'industria e le scuole giapponesi si rinnovarono profondamente importando tecnici e professori occidentali. L'inglese Ayrton fondò il Collegio Tecnico di Yedo. Il Prof. John Perry visse in Giappone dal 1875 al 1879 e creò un'ottima scuola di ingegneria. Questa nuova tradizione industriale e tecnologica dimostrò la sua efficacia con la vittoria giapponese sui russi nel 1902. Ma torniamo alla morale. Insieme al rinnovamento dello stato, delle industrie e delle scuole, si riorganizzò e si liberò dalla tradizione confuciana anche la religione dello Shinto. Nel 1880 Sano Tsunehiko fondò la Dottrina della Ragione Divina (Shinri Kyo). Nello statuto di questa specie di chiesa si professa la fede - oltre che in certi dei "nella indivisibilità dei mondi fisico e spirituale, nelle leggi della natura e nel raggiungimento della tranquillità interiore ... abolendo i formalismi per impegnarsi in attività pratiche". Lo statuto parla anche di amor di patria, fedeltà e obbedienza all'imperatore, musica, danza, talismani, arrangiamento dei fiori e della cerimonia del tè. Contiene, però, anche un decalogo : 1. 2. 3. 4. Non opporsi alla volontà degli dei Non dimenticare gli obblighi verso gli antenati Non trasgredire le leggi dello stato Non dimenticare la bontà degli dei che vince la sfortuna e guarisce le malattie 5. Non dimenticare che il mondo è una grande famiglia 6. Non dimenticare i limiti della propria persona 7. Non arrabbiarsi anche se gli altri si arrabbiano 8. Non essere sciatti nel proprio lavoro 9. Non disonorare l'insegnamento 10. Non dare retta agli insegnamenti stranieri. Sono curiose le differenze fra il decalogo biblico e questo giapponese. Il decimo comandamento fu applicato per quanto riguarda le religioni straniere - non la scienza e la tecnica. L'ottavo e il nono comandamento - in accordo col proclama imperiale citato - anticipano i criteri di perfezione industriale di oggi. Un'altra chiesa shintoista, la Dottrina della Grande Perfezione 107 (Taisei Kyo), fondata nel 1879, aveva un codice di sette comandamenti. Il sesto imponeva di studiare scienza e tecnica e di incoraggiare le imprese industriali e commerciali. Anche la Dottrina della Purificazione (Misogi Kyo) nel 1894 cominciò a predicare che non bisogna essere sciatti negli affari perchè così si dimostra gratitudine alla patria. Questi germi antichi sono fioriti nei quattro valori basilari dalla società giapponese di oggi: • amae : la dipendenza - dai genitori, dai capi, dai padroni, dai lavoratori più anziani ed esperti • on : il dovere • giri : gli obblighi sociali - caratteristici del proprio status specialmente in ambiente di lavoro • ninjo : i sentimenti umani che legano ogni individuo alle persone vicine nella famiglia e nel lavoro. Questi valori si ritrovano nelle componenti operative del sistema giapponese di management industriale e commerciale. Gli ingredienti di questo sistema sono: la presa di decisioni basata sul consenso, che deriva da antichi princ.pi di armonia generale e dai quattro valori appena citati. Cercare il consenso a tutti i livelli rallenta le decisioni. Una volta ottenutolo, però, tutto marcia molto più veloce. un sistema di comunicazioni interne all'azienda altamente ritualizzato l'importante ruolo affidato ai quadri intermedi per assicurare un flusso adeguato di informazioni verso l'alto e per far conoscere gli intenti dell'alta direzione a tutto il personale la garanzia dell'impiego a vita un sistema di promozioni e remunerazioni fondato sull'anzianità l'addestramento del personale entro l'azienda basato sulla rotazione dei compiti (si ottiene così un'ottima flessibilità degli addetti) i sindacati formati entro l'ambito di ciascuna azienda, che evitano conflitti duri e sono orientati a massimizzare l'efficienza aziendale. lo sforzo generale per realizzare qualità totale nel funzionamento dell'azienda. Qui, come vedremo, principi e metodi sono di origine americana. In Giappone, però, sono stati applicati prima e in misura più massiccia. Hanno condotto a formare i famosi circoli di qualità fra lavoratori perchè ciascuno possa contribuire a innalzare continuamente la qualità dei prodotti o dei servizi. Hanno condotto alla tecnica del just in time (eliminare i magazzini obbligando i fornitori a consegnare i materiali esattamente quando e dove sono richiesti per la produzione - evitando così immobilizzi di capitale). Hanno condotto alla così detta produzione snella in cui si minimizza ogni onere (spese generali, personale non direttamente produttivo), ogni ritardo, ogni inefficienza Queste componenti del sistema giapponese sembrano ragionevole, 108 soprattutto, funzionano. Allora che dobbiamo concludere? Che anche per noi sarebbe meglio vivere come i giapponesi? Questo significa dedicare la propria vita, le proprie energie e la propria intelligenza a un' azienda o a un ministero. Significa lavorare molto intensamente per assicurare il successo del proprio capo o dell'ente che ci impiega - nella speranza che questo successo si rifletta anche su di noi prima o poi. Significa anche rinunciare alle proprie facoltà critiche. Per esempio, una parte del successo dell'industria giapponese è dovuta ai rischi inammissibili che le aziende industriali fanno correre ai dipendenti e al pubblico. È tristemente famoso il caso della malattia della baia di Minamata che menomò e uccise 750 persone negli anni '50. Era causata da composti di mercurio velenosi scaricati in mare dalla Chisso, un'azienda chimica, che negò ogni sua responsabilità e oppose ogni tipo di ostruzionismo alle indagini. I poteri pubblici e gli stessi dipendenti della Chisso minimizzarono gli incidenti. Solo vent'anni dopo un tribunale diede ragione ai danneggiati, assegnandogli risarcimenti di entità minima. Altro inconveniente strettamente connesso con gli alti livelli di efficienza e di produttività, è l'enorme sperequazione nei salari e nel tenore di vita. Meno di metà della forza lavoro gode l'impiego a vita. Gli altri hanno paghe molto basse. In ogni caso a un'età compresa fra 55 e 58 anni anche i dipendenti che hanno l'impiego a vita vanno in pensione. Il trattamento che ricevono è inadeguato per vivere. Così i pensionati devono continuare a lavorare con contratti temporanei con un salario molto basso. Le donne ottengono raramente lavori a vita e, a parità di mansioni, sono pagate meno degli uomini. Gli alti dirigenti, invece, possono continuare a lavorare fino a 65 anni e godono di trattamenti molto più grassi. I sindacati aziendali ovviamente influiscono in modo marginale su questo stato di cose. Già da qualche anno vado dicendo che il Giappone va incontro a una grossa crisi. Il modo di vivere occidentale non è perfetto, ma i lavoratori sono trattati molto meglio. Quando i lavoratori giapponesi se ne accorgeranno, sia pure con i loro sistemi diversi dai nostri, cominceranno a lottare per affermare i loro diritti. Allora questa situazione che è solo apparentemente felice, si incrinerà brutalmente. In conseguenza non sostengo certo che sia male essere produttivi, o fornire prestazioni di alto livello, o preoccuparsi del successo dell'azienda o dell'ente per cui lavoriamo. È bene fare queste cose. Non è bene, invece, attaccarsi a un insieme di criteri troppo ristretto come quelli che ho descritto. L'efficienza aziendale, la produttività industriale, la scarsità di conflitti sociali, la bassa disoccupazione, una bilancia positiva dei pagamenti internazionali sono tutti obiettivi legittimi e desiderabili. Però non possono essere perseguiti a qualunque costo. Certi costi sono inaccettabili. Fra questi: la dittatura, l'ingiustizia sociale ed economica e anche una struttura gerarchica troppo in ritardo rispetto a quelle che si sono affermate in larga parte dei paesi avanzati. 109 Dunque non dovremmo convertirci alla morale giapponese. Saranno loro che adotteranno almeno alcuni dei nostri valori. Certo noi dovremmo adottare alcuni dei loro valori e delle loro abitudini. Non si tratta di trovare un giusto mezzo. La risposta è: qualità totale delle regole, delle prestazioni, della cultura, della capacità previsionale. Cerco di illustrarla nell'ultimo capitolo. 110 111 C A P I T O L O 16 LE AZIONI DI PORTATA NAZIONALE O MONDIALE Negli Stati Uniti quando ci sono le elezioni spesso si presenta a votare meno del 60% degli aventi diritto. Poi si accorgono di aver mandato al potere presidenti che mentono spudoratamente alla nazione, che commettono azioni illegali, che fanno imbrogli per vendere armi a paesi nemici o per finanziare movimenti rivoluzionari che il Congresso degli Stati Uniti aveva deciso di non appoggiare. In Italia i votanti sono di più in percentuale (ma vanno calando). Però ci accorgiamo ugualmente di non aver votato in modo oculato. Mandiamo al parlamento e al senato uomini e donne di qualità insufficiente. Nella migliore delle ipotesi amministrano male la cosa pubblica e omettono di studiare e promulgare leggi necessarie - altrove già adottate da decenni o da secoli. Nella peggiore delle ipotesi fanno la cresta sulla spesa, intascano tangenti e mazzette e modificano le leggi per trarne vantaggi personali e per evitare condanne penali. Indaffarati in queste attività dannose e immorali, non hanno tempo per decidere le cose giuste. Fra queste ci sarebbero: • migliorare le scuole, controllando qualità dell'insegnamento ed efficienza • istituire molte scuole avanzate per formare scienziati e tecnici a livello internazionale • raddoppiare gli investimenti nella ricerca scientifica (di cui va migliorata e controllata la qualità) e nello sviluppo tecnologico • controllare i rendimenti della pubblica amministrazione, evitando gli sprechi e la promulgazione di leggi inutili, dannose, sciocche o inique che distruggono ricchezza nazionale • controllare conflitti di interesse e reati degli eletti - incriminarli e punirli quando lo meritano • individuare grandi imprese internazionali alle quali associare altri paesi industrializzati allo scopo di favorire lo sviluppo politico, economico e tecnologico di paesi del Terzo Mondo • diffondere cultura per mezzo della televisione di Stato. In alcuni paesi le cose vanno meglio che in Italia. Però accade ugualmente che miliardi di persone deleghino personaggi inadeguati a 112 prendere in vece loro decisioni importanti, che, quindi, sono sbagliate. Non è questo il modo di far cambiare il mondo perchè ci piaccia di più. Non ci piace molto - ma ce lo strozziamo come è. Le tristi conseguenze di questo stato di cose ci colpiscono personalmente, ma facciamo finta di niente. Non è giusto comportarsi così. E come dovremmo comportarci allora? Sono problemi grossi e non potremo certo dare una risposta semplice a questa domanda. Molti di noi si sentono impotenti. Dicono: "Saremo sempre oppressi. Non c'è modo di vincere. Chi detiene il potere non lo molla. Chi arriva al potere diventa cattivo. Il singolo cittadino non può fare niente. Non ha energia sufficiente. Sembra una coda che volesse agitare un gatto. Non ci può riuscire. È sempre il gatto che agita la coda e non viceversa! (1)" Invece si può. Lo dimostrano tanti successi di buona amministrazione dalla antichità classica ai cantoni svizzeri, dalla tradizione dell'amministrazione pubblica francese alla rinascita democratica della Spagna. Nessuno di questi successi è totale, nè eterno. Anche nei paesi meglio gestiti si annidano in qualche piega incompetenza, interesse privato in atti d'ufficio, corruzione, nepotismo. Ho già parlato nel Capitolo 12 di peculato, corruzione e tangenti. Dicevo che questi vizi subiscono sorti alterne. Allignano in certi luoghi e in certi tempi e poi perdono forza e sono combattuti con successo da gruppi e movimenti che sorgono, hanno il sopravvento per un certo tempo e poi lo perdono di nuovo. Qui parlo di come combattere i vizi pubblici e diffondere principi e progetti positivi. Potremmo raggiungere questi obiettivi, se capissimo quali siano i meccanismi adatti. Questi dovrebbe consentire di: 1. far conoscere quali siano i fatti (casi di corruzione o situazioni socioeconomiche e conseguenti opportunità di iniziare imprese nuove) 2. convincere i decisori pubblici che è opportuno un loro intervento per correggere i difetti o per iniziare le imprese di cui sopra 3. se i decisori pubblici non agiscono come desiderato, dare pubblicità al fatto e sostituirli mediante meccanismi elettorali o con una rivoluzione (ma, dopo, accade spesso che "più si cambia e più è la stessa cosa") 4. una volta cambiati i decisori pubblici con altri che mirino a raggiungere gli obiettivi prescelti, controllare che le loro azioni siano quelle giuste. Se no, bisogna correggere la rotta con una campagna di informazione - o ricominciare la sequenza appena descritta dal punto 1. ____________________________________________________ (1) Non è vero: la similitudine è sbagliata. Se lasci cadere un gatto da una certa altezza, arriva a terra sempre sulle zampe e non si fa male. Come fa? Nei brevi istanti in cui cade ruota rapidamente la coda in senso orario. Quindi (per la conservazione del momento angolare) il gatto stesso ruota in senso antiorario fin quando ha le zampe dirette verso il basso. Dunque in questo caso è proprio il movimento della coda che produce quello desiderato del gatto. (I gatti dell'isola di Man, che non hanno coda, ottengono lo stesso risultato ruotando una zampa posteriore.) 113 Quando l'obiettivo da raggiungere sia quello di evitare che siano perpetrati certi reati, dovrebbe bastare la creazione di una rete informativa che raccolga dati incriminanti. Se questi dati vengono messi a disposizione dell'autorità giudiziaria, questa dovrebbe agire e risolvere il problema. Sappiamo bene che molto spesso non è così. Fra gli anni '50 e gli anni '80 accadeva che le inchieste cominciate venissero insabbiate. Questo succedeva in particolare se le persone da incriminare erano importanti e coperte da immunità parlamentare. I giudici chiedevano decine di volte al parlamento autorizzazioni a procedere - senza ottenerle mai. Molti uomini politici non sono mai stati condannati - perchè non sono mai stati giudicati. Si presentavano candidi come ermellini e non lo erano affatto. Un esempio noto era quello di Salvo Lima, deplorevole amico di Giulio Andreotti, che fu ucciso da mafiosi per questioni interne. In anni recenti, invece, imprenditori, affaristi e professionisti sono entrati in politica e i loro abili avvocati sono riusciti a far rinviare le cause fin quando sono decorsi i termini. Hanno accettato di non essere giudicati invocando la decorrenza dei termini. Nessun innocente sceglierebbe questa opzione. Quelli che ripetutamente fanno di tutto per approfittarne e non essere giudicati, confermano la certezza della loro colpa - agli occhi degli onesti. Intanto l'immunità parlamentare è stata abolita. Mentre scrivo nel 2002 si discute un progetto di legge per ristabilirla - ma già alcuni reati (come il falso in bilancio) di cui era accusato Berlusconi sono stati eliminati dal Codice per voto del Parlamento. Gli avvocati che difendevano Berlusconi in cause penali sono diventati ministri, sottosegretari o deputati presidenti di commissioni giustizia incaricate di modificare le leggi a protezione del loro cliente. Nell'ultimo decennio del secolo scorso sembrava che in Italia tutto stesse per cambiare in meglio. Non è stato così. Le idee sensate e i programmi illuminati di singoli pensatori non hanno avuto seguito. Quello che ci vuole - oltre alle idee buone e tempestive - è l'organizzazione. Dopo la seconda guerra mondiale in Italia sono sorti parecchi movimenti nuovi. Alla fine degli anni Quaranta l'Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini ebbe fortuna iniziale notevole, ma vita breve In Francia ebbe fortuna perfino il partito della bistecca di un certo Poujade. In Italia ci sono stati i radicali, i verdi e poi le leghe. La Lega Lombarda ebbe una grossa affermazione nelle elezioni del 1992. Poi è declinata e si è aggregata a Forzitalia, Alleanza Nazionale, CCD, contribuendo nel 2001 al successo di una destra disuniforme, autoritaria, disinformata e che non promuove (e neanche menziona) gli obiettivi elencati nella prima pagina di questo capitolo. La fortuna maggiore è stata registrata da Forza Italia che è riuscita a diventare partito di maggioranza relativa. Gli ingredienti usati erano diversi da quelli che suggerivo sopra. Hanno usato ottimi pubblicitari. Hanno speso molti soldi. Hanno fatto promesse mirabolanti e irreali. Hanno dato speranza a molti di ristabilire in altra forma strutture clientelari come quelle craxiane. Soprattutto hanno trovato avversari privi di idee, di 114 programmi seri e di cultura. La speranza è scarsa. Troppi italiani disinformati accettano per buone affermazioni e programmi insussistenti o fatti per avvantaggiare interessi privati. Per risalire questa triste china c'è da fare opera di cultura. Non mi pare che ci siano gruppi intenzionati a fare qualcosa per conseguire gli obiettivi elencati all'inizio del capitolo. Restano quasi solo le azioni individuali. Per farle proliferare potremmo prendere esempio dai russi che sotto la dittatura, e a livelli di reddito molto basso, hanno ottenuto qualche risultato con i loro ciclostilati prodotti privatamente - i samizhdat. Oggi mandare messaggi a centinaia o migliaia di persone è molto più facile e molto meno dispendioso, usando Internet. Ma non tutti i messaggi ricevuti vengono letti, nè hanno l'effetto desiderato dal mittente. I canali diversi che possiamo usare sono tanti. Però oltre a scegliere un canale, dobbiamo scegliere il formato dei messaggi e il loro contenuto. La cosa più semplice è scrivere lettere ai giornali. Se sono brevi, leggibili e interessanti, non è difficile che siano pubblicate, ma l'impatto è scarso. La brevità impedisce di presentare argomenti complessi, completi e convincenti. È raro che altri lettori o che gli opinionisti dei giornali ne riprendano il contenuto e ne facciano un caso. Sono più efficaci gli accessi regolari ai mezzi di comunicazione di massa: articoli di giornale, discorsi alla radio e alla televisione e libri (almeno fin quando la stampa non sia stata del tutto monopolizzata da imprenditori autocratici). Ma non tutti hanno accesso a queste tribune. Converrà, allora, cercarsi alleati che questo accesso lo abbiano già. E anche questo non risolve il problema. Su questo punto posso portare un modesto contributo personale. Da oltre 25 anni scrivo su quotidiani e settimanali, parlo occasionalmente alla radio e alla televisione. Divulgo argomenti scientifici, tecnici ed economici (è uno degli obiettivi elencati all'inizio del Capitolo). Da alcune volte l'anno a parecchie volte al mese cerco di propagandare proprio quelle cose giuste che ho elencato all'inizio del capitolo. Be': non ho avuto un impatto degno di nota sull'opinione pubblica. Incontro spesso persone che mi hanno letto o ascoltato e che mi dicono di approvarmi. Ma non ho provato a creare un movimento, nè questo movimento si è creato da solo. Ci vuole altro. Che dovrebbe fare l'opposizione? Non è solo questione di leadership. La sinistra ha mancanze più profonde. Deve comunicare meglio, ma per comunicare bene bisogna aver studiato cose importanti da dire. A sinistra non si parla quasi mai degli obiettivi vitali che ho indicato. Certo a destra se ne parla anche meno. Il centro-destra ha imparato bene a raccontare favole. Non propone temi economici, ma solo mercantili. Parla di occupazione, e non dice se vadano creati posti di lavoro da terrazziere, da usciere o altro. Parla di libertà, intesa come licenza per i soliti noti. Non menziona scienza, ricerca, alta tecnologia: propone solo vagamente "inglese e informatica", intesa 115 questa come l'abilità di cliccare su qualche icona. Non ama la cultura e perpetua una televisione fatta di spettacolo, sport o peggio. Non serve controbattere con virtuosismi verbali, né infilando collane di astratti. Parliamo di fatti, progetti, concetti, intraprese. Miriamo alla qualità dei viventi, non a una indefinita qualità della vita. Gli italiani saranno più liberi quando sapranno di più. Allora avranno più scelte, che capiscono bene. Si occuperanno di capire il mondo complesso di oggi invece di ripetere giaculatorie. Sapranno fare cose più difficili e utili e quindi creeranno più ricchezza e guadagneranno di più. Cominciamo dall'economia. Confrontiamoci: mettiamoci sul banco di prova. Sull'altro banco mettiamo i finlandesi. Dopo la crisi del 1990-92 (dovuta a varie cause fra cui la caduta dell'URSS) la crescita del prodotto interno lordo finlandese dal 1993 al 2000 è stata del 40% (in media del 5% all'anno dal 1995 al 2000). Dal minimo del 1994 al 2001, l'occupazione è cresciuta del 15%. La ricetta? Innovazione e istruzione di alta qualità. Lo sanno tutti: la Finlandia esporta telefoni cellulari e alta tecnologia telematica in tutto il mondo. Come hanno fatto? La Nokia fino a gli anni '60 produceva carta, cavi e stivali di gomma. Iniziò a produrre telefoni cellulari alla fine degli anni '80. Allo stesso tempo in Finlandia sono stati creati 32 politecnici privati di alta qualità - e c'erano già 20 università. Oggi in Finlandia ce n'è una ogni 100.000 abitanti. In USA c'è una università ogni 80.000 abitanti in Italia una ogni 870.000 abitanti e non c'è nemmeno un politecnico privato creato dall'industria. Che fare? Offrire incentivi alle industre che li creino e istituirne di statali nuovi e migliori. Gli uomini e le donne ci sono: mancano cultura e imprese concrete. Si discute se modificare il numero di anni che si sta a scuola. Non serve, se in quegli anni l'insegnamento è sciatto e antiquato. Occorre creare università avanzate e assicurare la qualità dell'insegnamento. Solo così i nuovi posti lavoro saranno di alto livello e giustamente strapagati, produrranno alto valore aggiunto. Oggi in Italia sono vacanti 100.000 posti di lavoro per esperti telematici perché mancano le persone addestrate a livello adeguato. Le scuole di qualità in tecnologie moderne prosperano solo se ricerca e sviluppo sono innovativi e finanziati. Il centrodestra ha ridotto gli investimenti in ricerca. Il centro sinistra non li incrementò quando era al governo: ora appare latitante se il suo programma non ha ai primi posti azioni forti per controllare la qualità della ricerca e triplicare gli investimenti. Che dire sui drammi internazionali: povertà, ingiustizie e conseguenti migrazioni verso l'Occidente e verso il Nord? Molti paesi poveri hanno risorse naturali enormi (giacimenti, energia, agricoltura), bloccate perchè mancano investimenti e cultura moderna. Non servono aiuti di continua emergenza, ma grandi imprese internazionali per effettuare interventi tecnici. Gli impatti socio-economici sono positivi, se con la tecnologia, si esporta anche cultura. Ma per esportare cultura bisogna prima averla. Il centro-destra non brilla: i tre canali TV della loro azienda contengono cultura sotto forma di tracce (come dicono i chimici se la 116 percentuale è minima e non misurabile). Per contrasto la sinistra dovrebbe mettere in programma un uso preminente di media e TV per innalzare la cultura. Astrologi e maghi non vanno incriminati solo se rubano soldi ai gonzi. Va rifiutato chi diffonde discorsi esoterici e scervellati di ogni tipo. Alle vergognose azioni della destra sulla giustizia, non si risponde solo stracciandosi le vesti. Vanno definiti interventi informatici per aumentare l'efficienza e l'equità, ridurre i tempi e incastrare i colpevoli. Infine bisogna tornare a programmi, servizi e assistenza sociale finanziati, controllati e di buona qualità. E' vitale che questi contenuti, obiettivi, azioni di cui nessuno parla costituiscano la punta dei programmi del centro-sinistra. Se no, si distingue troppo poco dalla destra. Avevo provato nel 1995 a esporre questi temi nel mio libretto LA POLITICA E' UN'ALTRA COSA: QUESTA. Uscì da Bompiani e rimase clandestino. E' più facile parlare di calcio, ma oltre certi limiti l'irrilevanza conduce al declino e alla rovina. In Italia non si innova Possono essere ben vestiti. Possono mangiare bene. Possono guidare belle auto. Ma non sono da invidiare i cittadini di una società in cui questi agi siano diffusi e in cui, invece, siano rare le invenzioni, scarsa la cultura, disprezzata la scienza. Per una società come questa appaiono imminenti il declino e la perdita della prosperità. Convinto di questa verità, Philippe Busquin, Commissario per la Ricerca dell’Unione Europea, ha lanciato uno studio comparato su innovazione e ricerca nei 15 Paesi dell'Unione Europea, in USA e in Giappone. Sapevamo già che USA e Giappone sono avanti a noi. Eppure c'è da turbarsi gravemente, più che da interessarsi soltanto, a leggere il testo e i dati pubblicati nel documento "Verso un'area europea di ricerca - Cifre Chiave 2001" (disponibile su www.cordis.lu/indicators ). Con l'aiuto degli istituti di statistica nazionali, lo studio ha raccolto dati su 21 indicatori, misurandone sia i valori, sia i tassi di variazione annuali. Perchè questi confronti sono conturbanti per un italiano? Ma perchè dimostrano che siamo nettamente alla retroguardia: quindi incombono su di noi regressi e peggioramenti ulteriori. In breve: le variabili che misurano successo, capacità, potenziale di innovazione e di ricerca, hanno valori che sono circa la metà della media europea e un terzo di quelli statunitensi. E' bene riportare la dolorosa lista che riassumo nella tabella a pagina seguente. Per ogni 1000 lavoratori in Europa ci sono 5,3 ricercatori - in Italia solo 3,3 e questa proporzione cresce in Europa del 2,9% all'anno e in Italia dello 0,3%. Ogni 100.000 giovani fra i 25 e i 34 anni, conseguono un dottorato in scienza o tecnica 55 europei, e solo 17 italiani. Il nostro Paese investe ogni anno in ricerca e sviluppo l'1% del PIL (livello che cresce del 2,6% all'anno) - contro una media europea dell'1,9% (che cresce del 3% all'anno). Gli investimenti in ricerca e sviluppo dell'industria europea rappresentano l'1,4% della produzione industriale totale (e la percentuale 117 cresce del 4,9% all'anno)- in Italia siamo allo 0,6% all'anno (e la percentuale cresce solo del 3,8% all'anno). I governi europei dedicano alla ricerca in media il 2% delle loro spese - e in Italia siamo all'1,36%. La finanza europea investe in nuove imprese innovative solo lo 0,38% del PIL (un terzo degli USA) - e la finanza italiana sta allo 0,13% del PIL (9 volte meno degli USA!). Situazione italiana nel 2001 N° ricercatori ogni 1000 lavoratori Crescita annua % del numero precedente Nuovi laureati in scienza e tecnica ogni 1000 cittadini fra 24 e 25 anni di età Investimenti in ricerca e sviluppo /PIL Crescita annua % del numero precedente Investimenti in ricerca e sviluppo dell' industria risp. a produzione industriale totale Crescita annua % del numero precedente Budget governativo di ricerca risp.al totale Investimenti in nuove imprese innovative/PIL Brevetti europei/ogni milione di popolazione Brevetti USA/ogni milione di popolazione N°lavori scientifici molto citati/ogni milione di popolazione rispetto alla media europea 0,62 0,1 rispetto agli USA 0,4 0,048 0,3 0,52 0,86 0.34 0,38 0,46 0,42 0,77 0,68 0,34 0,48 0,4 0,28 0,46 0,32 0,08 0,5 0,09 0,58 0,36 Mi rendo ben conto che questa esposizione di cifre non è di amena lettura, ma il mio intento non è fornire un testo brillante. Miro a suonare un allarme che dovrebbe preoccupare tutti. Invece i politici, i giornalisti, i saggisti, gli intellettuali italiani ignorano del tutto questi temi. Non è solo questione di investimenti. E' vitale che la ricerca sia di alta qualità. Quando lo è, produce innovazioni e queste vengono brevettate nei diversi paesi, per accedere ai mercati. In media per ogni milione di europei, i Paesi della Comunità ottengono ogni anno 125 brevetti in Europa e 69 in USA. Per ogni milione di italiani noi otteniamo ogni anno 61 brevetti europei e 28 americani. Infine il valore delle pubblicazioni scientifiche si valuta misurando quanto spesso vengono citate nei periodici più qualificati. Quelli molto citati sono 31 all'anno e per milione di abitanti in Europa e solo 18 in Italia. Nessuno avanza piani per riguadagnare l'enorme ritardo che abbiamo. E' una situazione che non implica solo minore prestigio. Peggiora in prospettiva la bilancia dei pagamenti e la nostra prosperità, perché saremo sempre più destinati ad importare prodotti ad alto contenuto tecnologico e valore aggiunto, in cambio di esportazioni di prodotti a basso valore aggiunto (anche se ben fatti, in nome del “made in Italy”). Su tecnologia, sicurezza, salute, scienza e cultura assoggetta il nostro Paese a decisioni vitali prese altrove. Impedisce ai nostri giovani l'accesso a 118 professionalità avanzate e a remunerazioni vantaggiose. Questa situazione si migliora solo con tante scuole in cui la qualità dell'insegnamento sia alta e controllata e inventando nuove imprese. Invece continuiamo a deteriorare se non smettiamo di parlare in astratto di democrazia, mercato, efficienza, imprenditorialità. Intanto possiamo trovare modesta consolazione nel fatto che non sfiguriamo davanti al Portogallo. Però anche questo raffronto sta cambiando. Gli investimenti industriali in ricerca crescono in Portogallo del 12.2% all'anno (i nostri del 3,8%). Quelli nazionali in ricerca e sviluppo crescono in Portogallo del 10% all'anno (i nostri del 2,6%). Il numero dei ricercatori cresce in Portogallo del 7.6% all'anno (da noi dello 0,3%). * * * Ho prospettato quadri tristi per il nostro Paese. Sembrano indicare un imminente scivolata verso il terzo mondo. Se ne potrebbe dedurre che i piani positivi delineati all'inizio del capitolo siano irreali e impossibili da mettere in pratica. Forse è così. Certo la maggioranza degli italiani ignora le situazioni che ho descritto o non se ne interessa affatto. Dove ci può condurre la via della ragione? Riflettiamo che al tempo del fascismo le piazze erano piene di applausi per il dittatore, mezzo colto, istrionico, roboante, divorziato dalla realtà, affetto da mania di grandezza. L'opposizione non veniva capita dalla maggioranza, anche quando era illuminata e generosa. A quel tempo operarono bene molti italiani che produssero cultura matematica, fisica, letteraria, filosofica. Trasmisero conoscenza e principi costruttivi ai giovani che poi ricostruirono l'Italia dopo le distruzioni causate dalla guerra fascista. Concludo: ciascuno di noi impari almeno una cosa al giorno - si cambierà la vita. Induca altri a fare lo stesso: potremo cambiare il mondo lentamente. 119 C A P I T O L O 17 IL CONTROLLO DI QUALITÀ NELL'INDUSTRIA E NELLA VITA PERSONALE La qualità era la terza delle categorie elencate da Aristotele nell'Organon (1). Era la seconda delle quattro categorie secondo Kant (2). Era anche la caratteristica distintiva del barbiere di Siviglia. Già allora, però, non si chiariva bene in che cosa consistesse la qualità del barbiere se fosse stato giudicato e premiato da una giuria, se fosse risultato il preferito in un sondaggio d'opinione o se fosse solo una sua vanteria. Oggi si parla molto di qualità, spesso in occasione di discorsi sull'industria giapponese (come abbiamo visto nel Capitolo 15), ma troppo spesso non si specifica a che cosa ci si voglia riferire. I discorsi relativi sono spesso solo manifestazioni di desideri oppure sbrasate pubblicitarie - quando a farli sono imprese poco serie. Invece le aziende più serie già provvedono da decenni a controllare la qualità dei loro prodotti. Esiste anche un Istituto Italiano del Marchio di Qualità che controlla le procedure con cui le aziende garantiscono la qualità dei loro prodotti. Dovremmo prestare attenzione al marchio di qualità riportato sui prodotti approvati da quell'Istituto. Vediamo, dunque, in che cosa consista il controllo di qualità nell'industria. La qualità di un prodotto non è certo costituita dal suo aspetto elegante. Non è certo confermata dal suo prezzo elevato. La qualità è la caratteristica di un prodotto o di un servizio che li rende adatti a ottenere il risultato voluto dall'utente finale. Un'automobile non è di _________________________________________________ (1) Le categorie di Aristotele erano: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, situazione, possesso, azione, sofferenza. (2) Le quattro categorie di Kant erano: quantità, qualità, relazione e modalità. 120 buona qualità solo se la carrozzeria ha una bella linea e se i sedili sono comodi (anche se queste caratteristiche sono desiderabili). Lo è se frena senza sbandare, se accelera adeguatamente, se consuma poco, se i comandi sono efficaci e mantengono la loro taratura, se le parti metalliche sono trattate in modo da non arrugginirsi e non subire corrosioni, se nel caso di uno scontro, protegge i passeggeri dall'impatto. Per controllare la qualità di un'auto, dobbiamo fare due cose: leggere le caratteristiche tecniche sul libretto di istruzioni valutando se rispondono ai requisiti che richiediamo, e, quindi, controllare che queste specifiche del prodotto corrispondano effettivamente a quelle effettive dell'auto. In pratica le persone normali non eseguono questi controlli sui prodotti che comprano. Pochi fra noi misurano che la potenza assorbita da uno scaldabagno o da una stufa sia davvero di 1.200 Watt o che un computer faccia davvero un miliardo di operazioni al secondo. Questi controlli vengono fatti, però, dai clienti finali che abbiano notevoli capacità tecniche - come è il caso di un'altra azienda industriale. In previsione di questi controlli (e anche per evitare reclami e per farsi una buona fama) le aziende produttrici eseguono loro stesse controlli accurati sui prodotti. Il primo requisito di questi controlli è che devono essere fattuali, cioè non basati su impressioni vaghe anche se vengono esternate da esperti. Un primo controllo da fare su tutti i pezzi è quello dimensionale. Se le dimensioni dei pezzi non rispettano le tolleranze di progetto, non è possibile montarli correttamente o, anche se si montano, poi funzioneranno male. La qualità, dunque, viene giudicata in base a misure - non solo dimensionali, ma di molte altre caratteristiche. Per esempio, se produciamo funi, una specifica importante riguarda il carico massimo che la fune sostiene prima di rompersi. Se il valore di questo carico deve essere al minimo di 500 kg, potremo misurare cinque campioni e li riterremo accettabili se danno carichi di rottura di 512, 520, 525, 515 e 518 kg. Avremmo ritenuto accettabile la partita di funi anche se i cinque campioni avessero avuto carichi di rottura di 505, 530, 630, 570 e 600 kg. Però la maggiore dispersione dei risultati può farci sorgere il dubbio che qualche esemplare non raggiunga i 500 kg (1). Se una misura indica che una caratteristica è fuori della tolleranza ammessa, la cosa più semplice è scartare il prodotto che non risponde alle norme. Talora, invece, lo si può modificare per riportarlo entro i limiti ammessi. Cosa ancora più importante: si cerca di individuare il difetto nel processo di fabbricazione responsabile della discrepanza rispetto alle specifiche e si trova il modo di eliminarlo. Infine si controlla che questo intervento abbia successo e che gli esemplari successivi non presentino più il difetto riscontrato. Se il processo di produzione è automatico, questo ciclo di feedback avviene senza intervento umano. ________________________________________________________ (1) Per chi sa di statistica, nel primo caso la media dei valori è 518 kg e la deviazione standard è 4,4 kg , nel secondo caso la media è 567 kg e la deviazione standard è 45.3 kg. 121 La discrepanza fra le misure effettuate e i valori di specifica produce un segnale che ha effetto diretto sulle macchine di produzione in modo da ridurre adeguatamente quella discrepanza. La mancanza di qualità - cioè un'eccessiva diversità fra valori misurati e valori di specifica - ha un costo. Se la qualità viene recuperata semplicemente scartando gli esemplari non rispondenti alle norme, il costo è dato dal numero di pezzi scartati moltiplicato per il costo di produzione di ciascuno di essi. Se gli esemplari difettosi vengono modificati per riportarli a norma, il costo è dato dal numero di pezzi rilavorati moltiplicato per il costo unitario della modifica. Se il processo è automatico, non ci devono essere pezzi scartati, nè modificati. Allora il costo è quello di ammortamento delle apparecchiature di controllo e di correzione automatica oltre al loro costo di esercizio. Già da questa breve introduzione possiamo trarre qualche utile insegnamento. La qualità che ci interessa controllare nella nostra vita personale è quella delle nostre azioni - tenendo sempre d' occhio i risultati effettivamente raggiunti. Cominciamo dalle azioni che compiamo per il nostro lavoro. Se lavoriamo per un'azienda, ci attenderemmo che le nostre prestazioni lavorative fossero controllate dai nostri capi. Purtroppo talora questo non avviene affatto. I nostri capi ci lodano o ci biasimano senza sapere quello che facciamo o che non facciamo. Fanno male. Però ci conviene lostesso controllarci da soli. Anzitutto perchè lavoreremo con maggiore soddisfazione e poi perchè prima o poi qualcuno si accorgerà del fatto che lavoriamo bene e questo potrà farci salire un gradino della scala aziendale. Inoltre se in un'azienda si diffonde la tradizione all'autocontrollo e la qualità del lavoro migliora, le sorti dell'azienda saranno migliori e questo, in certa misura, giova anche ai dipendenti. Se lavoriamo in proprio, è ovvio che ci conviene lavorare meglio per non sprecare le nostre risorse personali e per fornire prodotti o servizi migliori ai nostri clienti. Ma non è solo sul lavoro che ci conviene controllare la qualità delle nostre azioni. Ci conviene sempre: nei rapporti personali e familiari, nei modi in cui mangiamo, dormiamo, facciamo ginnastica, facciamo l' amore, impariamo cose nuove, organizziamo il nostro tempo libero, scegliamo le nostre letture, nei rapporti con gli enti e col fisco - in una parola: in ogni nostra attività. Mi limiterò qui a pochi esempi di applicazione dei concetti industriali di qualità a queste attività personali che ho citato. È facile immaginarne altri. Dicevamo nel Capitolo 13 che fa male mangiare troppo. Per evitarlo, mangiando solo cose giuste in misura ragionevole, potremmo chiedere consiglio a un dietologo. È più semplice pesarsi e confrontare il nostro peso con quello standard. Qualche decennio fa la regola comunemente accettata era che gli uomini dovessero pesare tanti kilogrammi quanti sono i centimetri di cui la loro altezza supera il metro. Le donne , invece, dovrebbero pesare tanti kilogrammi quanti sono i centimetri di cui la loro altezza supera un metro e dieci. Non è una regola 122 sacra e immutabile, ma grosso modo funziona. Se, dunque, pesiamo più del nostro standard, cominciamo a mangiare meno fino a quando dimagriamo abbastanza. Se, poi, scendiamo di peso sotto lo standard, aggiustiamo il tiro e mangiamo un po' di più. Per quanto riguarda la ginnastica, dovremmo farne abbastanza da ottenere un buon tono muscolare in ogni parte del corpo. Non dovremmo farla troppo violenta per evitare di affaticare (e magari danneggiare) il cuore. Non dovremmo farne troppa, tanto da perderci troppo tempo. Sui modi in cui imparare cose nuove - controllando di impararle in modo corretto ed efficace - ho scritto un libretto intero (COME IMPARARE PIÙ COSE E VIVERE MEGLIO, Manuali Oscar Mondadori). Per quanto riguarda i nostri rapporti con altri (anche con enti) c'è da fare un'osservazione generale. Dobbiamo renderci conto del fatto che come tutti - probabilmente tendiamo a resistere al cambiamento. Questa tendenza si riscontra anche nell'industria. Non è affatto vero che i dirigenti industriali sanno cercare il profitto con astuzia infinita. Purtroppo l' astuzia è disponibile in dosi limitate. Invece sembra che siano illimitate la cocciutaggine e la resistenza al cambiamento della gente. Ci convinciamo difficilmente dei nostri difetti (la cosa è proverbiale). Così diciamo spesso: "Io continuo a fare il meglio che posso, secondo i miei criteri. Me li sono formati in tanti anni di esperienza e, quindi, è molto probabile che siano buoni. Se poi le cose non vanno bene, dipenderà dalla cattiva volontà degli altri oppure da fattori casuali e imponderabili. Non c'è rimedio." Questi punti di vista sono miopi. Usando il linguaggio del controllo industriale di qualità, diciamo che non sono fattuali. Per esempio, ci succede che i nostri rapporti con altre persone non diano i risultati che speravamo. Ce ne accorgiamo perchè perdiamo molto tempo in discussioni ripetute e inefficaci. Oppure ci accade di essere scontenti del contributo delle persone con cui collaboriamo - mentre loro sono scontente del nostro. Oppure - più in generale - vediamo le cose in modi opposti e non riusciamo a trovare punti di vista comuni nemmeno dopo lunghi scambi di vedute. Be': in tutti questi casi dobbiamo chiederci se il difetto non stia proprio nei nostri modi di comportarci. Per decidere se le cose stanno così, dobbiamo fare esperimenti. Proviamo a comportarci in modi diversi e vediamo se le cose vanno meglio. Mettiamo in pratica, cioè, un ciclo di feedback simile a quello descritto a proposito del controllo di qualità industriale. Può essere che anche questo non serva. Allora proprio come avviene nella produzione industriale - può essere che le nostre misure non siano affidabili. In un'officina meccanica non c'è speranza di produrre pezzi le cui misure siano entro gli intervalli di tolleranza ammessi, se i calibri con cui li misuriamo sono sballati. Per misurare il nostro comportamento, purtroppo, non possiamo adoperare strumenti di misura certificati da un apposito ufficio. I nostri comportamenti sono processi così complessi che non possono essere misurati affatto. Però, se il nostro giudizio globale (espresso in parole) è 123 inadeguato, faremo bene a chiedere il giudizio di qualcun altro. Nei casi più semplici ci rivolgeremo a un amico o a un' amica che ci sembrino sensibili e ragionevoli. Nei casi più complicati sarà meglio rivolgersi a esperti - psicologi o psicoterapeuti. Qui bisogna stare attenti. Come nel caso dei medici, ci sono parecchi psicologi e psicoterapeuti incompetenti che, con le migliori intenzioni, ci faranno pagare alcune decine di euro all'ora per darci consigli che poi si riveleranno insulsi o dannosi. Non c'è una soluzione semplice a questo problema. Possiamo chiedere referenze ad amici che consideriamo simili a noi. Possiamo sperimentare se i primi consigli o le prime sedute con l' esperto ci aiutano almeno un po'. Naturalmente possiamo analizzare le cose che ci dice l' esperto e vedere se ci sembrano sensate. In generale è bene diffidare degli esperti che parlano troppo in gergo - e non solo in campo psicologico. C'è da dubitare che usino tanti termini tecnici dell'arte loro per impressionarci e farsi accettare come oracoli o santoni. I veri esperti, normalmente, riescono a parlare semplice. In ogni caso non dobbiamo vergognarci se abbiamo bisogno dell'aiuto o del consiglio di uno psicoterapeuta. Ne hanno avuto bisogno persone migliori di noi. Però attenti a sceglierlo bravo - e attenti a non pretendere che risolva i nostri problemi come per magia senza alcuna nostra collaborazione e senza alcuno nostro sforzo per capire veramente come stanno le cose. L'arte del controllo di qualità ci può fornire altri suggerimenti e altri principi utili. Vediamoli. Un importante insegnamento concerne il numero di fattori (o di elementi) da analizzare. Abbiamo ripetuto tante volte che la realtà intorno a noi sta diventando continuamente sempre più complessa. Saremmo tentati di dedurne che sono numerosi e tendono a diventare sempre più numerosi i fattori che possono influire sulla qualità. Dunque ci attenderemmo di doverne analizzare moltissimi - lavoro lungo e stressante. Invece l'esperienza insegna che non è così. I fattori rilevanti possono anche essere molti. Però basta considerarne pochissimi. Quelli vitali - che hanno un grosso effetto sulla qualità - sono pochi. Poi ce ne sono moltissimi che, tutti insieme, hanno un effetto molto minore del più importante. Questo, ovviamente, lo considereremo per primo e con maggiore attenzione. Senza attardarci a fare esempi tratti da tipi diversi di produzione industriale, possiamo dire in generale che fra tutti i fattori che possono influire negativamente sulla qualità in genere, ce ne sono cinque o sei da cui dipendono fra il settanta e l'ottanta per cento di tutti i difetti riscontrati. Poi ce ne saranno altri venti o trenta da cui dipende il resto. Spesso il singolo fattore più influente è responsabile quasi della metà dei difetti riscontrati. La conclusione è ovvia. Conviene individuare i fattori più importanti - quelli vitali - e concentrare gli sforzi su di essi. Il lavoro viene semplificato e i benefici ottenuti sono massimi con il minimo costo (o sforzo). 124 Come si applica questa considerazione alla nostra vita personale? Bisogna agire al contrario di quanto ci viene suggerito dalla così detta saggezza tradizionale. Un vecchio detto inglese propone: Take care of the pennies and the pounds will take care of themselves. ("State attenti agli euro e i milioni staranno attenti a se stessi"). Vuol dire, in generale, che, se ci occupiamo dei piccoli dettagli, le cose grosse andranno sicuramente bene. Be': è falso. Se perdiamo tempo a occuparci di minuzie, ciascuna delle quali ha influenza minima sul nostro successo, perderemo di vista il primo e il secondo fattore che, invece, per quel successo sono vitali. Ne incontriamo esempi ogni giorno: il paranoide che non sopporta di vedere un quadro appeso un po' storto e tiene la scrivania in ordine perfetto con tutti i fogli paralleli ai bordi del tavolo, poi procrastina le decisioni importanti e finisce i lavori fuori tempo massimo. È meglio trascurare i dettagli come le matite ben temperate e la qualità della carta, ma tenere d'occhio i cammini critici e rivedere i programmi in modo da assicurarci che stiamo facendo le cose giuste al momento giusto. Un discorso analogo vale per quanto riguarda i rapporti personali. Le formule di cortesia con cui ci rivolgiamo a familiari, amici, collaboratori o estranei hanno importanza non trascurabile. Però chi rispetta le forme e poi non sa fare discorsi chiari col cuore in mano o non affronta apertamente problemi spinosi, certo avrà rapporti personali insoddisfacenti. I problemi di qualità che si incontrano nell'industria possono essere sporadici oppure cronici. I primi si presentano in modo drammatico quando ci si accorge all'improvviso di una situazione insoddisfacente. Si può trattare di una caratteristica del prodotto che non aveva mai dato noie prima e che (in mancanza di controlli che nessuno aveva pensato a istituire) diventa insoddisfacente. Il rimedio al problema sporadico è quello indicato all'inizio di questo capitolo: il ciclo di feedback che serve a eliminare le discrepanze dopo averle constatate e misurate. Tipicamente la soluzione consiste nell'istituire un nuovo tipo di controllo. I problemi cronici, invece, sono striscianti. Per lungo tempo nessuno si rende conto della loro esistenza. Solo un'analisi attenta, spesso fatta da personale nuovo, rileva che un problema cronico esiste e suggerisce quale innovazione del processo produttivo possa portare a eliminarlo. Nella nostra vita personale le cose vanno in modo simile. Ci accorgiamo subito della crisi sporadica e spesso riusciamo a superarla. Invece non vediamo affatto i nostri problemi cronici. Ci siamo costruiti una regola di vita, in lunghi anni o decenni, e continuiamo ad applicarla. Nel controllo di problemi cronici relativi alla qualità di prodotti industriali, un fattore vitale consiste nel convincere un certo numero di persone del fatto che il problema cronico esiste davvero. Va convinto il decisore dal quale dipende se l'innovazione che si profila come necessaria sarà analizzata adeguatamente e poi sarà introdotta in pratica. Invece, quando parliamo dei nostri problemi cronici personali, i decisori siamo noi stessi. Dobbiamo usare l'introspezione - cioè guardare dentro noi stessi (fare un esame di coscienza) per capire come stiamo funzionando davvero 125 e per progettare come potremmo funzionare invece. Abbiamo già detto che, come tutti, tendiamo a resistere al cambiamento e a rifiutare le critiche di qualsiasi provenienza. E questi atteggiamenti ci fanno stare male. Ci impediscono di far succedere le cose che vorremmo far succedere. Se proviamo ad analizzare perchè resistiamo al cambiamento, ci accorgiamo spesso che la causa vera è la mancanza di immaginazione. Non immaginiamo nemmeno che le cose potrebbero essere diverse. Non immaginiamo nemmeno che potremmo avere certi successi - solo perchè non li abbiamo mai avuti in passato. Così non abbiamo fiducia in noi stessi e procediamo su vecchi binari che non ci portano in nessun posto. Ora la probabilità di successo può essere più o meno alta a seconda dell'obiettivo che ci poniamo. Certo è nulla se non proviamo a cercare alcun successo. Dunque il primo rimedio per i nostri difetti cronici è immaginare cose nuove da fare; persone da contattare, mentre non lo abbiamo fatto finora; abilità che potremmo imparare; proposte che potremmo avanzare in ambienti in cui non abbiamo mai circolato; piaceri che potremmo derivare da attività che non abbiamo mai perseguito. Fra queste attività possono essercene di lavorative che ci siamo abituati a considerare pesanti e spiacevoli, mentre forse non lo sono affatto. Gli atteggiamenti umani sono un fattore importante per assicurare la qualità di prodotti e servizi (1). Chi è contento del proprio lavoro è più adatto e pronto ad assicurare una qualità elevata. Douglas McGregor definì nel 1960 due teorie contrapposte sui modi di far crescere produttività e qualità del lavoro. Secondo la teoria X, i lavoratori sono pigri e odiano il lavoro. Non c'è speranza che lo facciano meglio per motivazioni di ordine superiore. L'unico modo per motivarli e far crescere produttività e qualità delle loro prestazioni è premiarli se fanno bene e punirli se fanno male. Secondo la teoria Y, invece, chi lavora è spinto in gran parte dal desiderio di realizzare cose fatte bene e prova un gran gusto a estrinsecare le proprie capacità e la propria inventiva. Lavora male se viene frustrato e sottoposto a regole sbagliate. Dunque per ottenere prestazioni di alta qualità bisogna organizzare bene il lavoro, eliminare le assurdità e permettere ai singoli di essere creativi riconoscendo il loro apporto, sfruttando le loro doti migliori e favorendo lo sviluppo di queste doti. I manager industriali che credono nella teoria X sono quelli antiquati, fiscali, burocratici, privi di immaginazione. È raro che abbiano successi di lunga durata. Noi, che preferiamo la teoria Y nel lavoro ______________________________________________________ (1) In effetti le considerazioni più rilevanti per quanto riguarda la qualità delle nostre azioni personali derivano più direttamente dalla pratica relativa alla qualità dei servizi, piuttosto che dei prodotti. Però i criteri che valgono per quest'ultimo fattore valgono anche per il primo. Quando ci occupiamo di servizi naturalmente balzano in primo piano i tempi di attesa, i contatti umani e altri fattori di soddisfazione collaterali e difficili da definire. 126 industriale, faremo bene - naturalmente - ad applicarla anche a noi stessi. Ecco che siamo arrivati per altra via alle stesse conclusioni raggiunte nelle pagine precedenti. Un fattore importante per assicurare la qualità dei prodotti e dei servizi è la motivazione: il personale addetto deve avere ottime ragioni per voler tenere alta la qualità. Sulla motivazione sono stati scritti volumi e volumi. Oltre ai premi di produzione in denaro per chi lavora meglio, i fattori della motivazione alla qualità sono: il riconoscimento pubblico a chi ha ideato innovazioni che portano a ottenere qualità migliore la creazione di gruppi di lavoro affiatati ed efficaci i cui sforzi vengono valutati ed, eventualmente, adottati rapidamente. Vedi quanto già detto sui 'circoli di qualità ' giapponesi la diffusione del concetto che una migliore qualità di prodotti e servizi assicura all'azienda successo economico e una maggiore quota di mercato. Lavorare per un'azienda prospera conviene ai dipendenti: saranno pagati di più e il loro posto di lavoro sarà più sicuro convincere i lavoratori che hanno convenienza a impegnarsi attivamente nell'addestramento professionale e nella riqualificazione. Questi processi sono una premessa necessaria all'ottenimento della qualità. D'altra parte i lavoratori che li seguono trovano più facilmente altri lavori presso altre aziende o in aree geografiche più gradevoli. Questi fattori, dunque, vanno presentati ai dipendenti di un'azienda perchè contribuiscano a migliorare le prestazioni dell'azienda stessa. Quando consideriamo la nostra vita personale, non dovremmo avere bisogno di incentivi, nè di convincimenti per migliorare le nostre prestazioni. La motivazione personale a stare meglio - a essere meglio sembrerebbe dover essere forte per tutti. Però non è così. Molta gente non aspira affatto a svolgere un lavoro più interessante e remunerativo. Non aspira ad avere una vita più variata e stimolante. Vuole semplicemente evitare grane e seccature - quindi cerca di evitare le responsabilità. Desidera di fare il meno possibile - di stare in riposo. Non è tanto strana questa tendenza. La maggioranza degli animali, dopo che si è procurata da mangiare, che ha evitato i rischi più immediati, che ha qualche rapporto sessuale, non fa quasi mai niente. Giocherella un po' o sonnecchia. Dunque è difficile trovare argomenti convincenti per indurre esseri umani atavicamente tendenti all'ozio a cambiare le loro preferenze. C'è l'esortazione di Dante che ho riportato nel Capitolo 2 - ma anche questa piace solo a chi è già convinto della sua giustezza. Si tratta di tradizioni culturali che non si improvvisano. Quelli di noi che preferiscono la teoria Y possono solo provare a diffondere le loro idee. Si tratta, di nuovo, di offrire scelte alla gente. Gli abitanti delle cittadine turche che vediamo seduti in lunghe file a fumare il narghilè, a bere il raki e a non fare niente tutto il giorno, forse non hanno avuto scelta. Non immaginano che si 127 possa vivere diversamente. Qualcuno dovrebbe provare a dirgli che si può. Naturalmente nei testi e nei manuali sul controllo della qualità industriale troverete molti altri principi, ragionamenti e procedure, basate sulla statistica e sulla ricerca operativa, per ottenere buoni risultati in ambiti in cui gli obiettivi sono chiari (o facilmente chiaribili) e in cui ci sono molte grandezze da misurare. Nella nostra vita personale gli obiettivi sono spesso molteplici e complicati - e non possiamo misurare affatto i fattori più rilevanti delle nostre azioni e dei loro risultati. Per questo non tento di sforzare le analogie e di descrivere in maggiore dettaglio le analisi della qualità industriale. Negli ultimi anni si sta passando dal controllo della qualità al concetto di qualità globale. Ce ne occupiamo nell'ultimo capitolo. 128 129 C A P I T O L O 18 LA MORALE NELL'INNOVAZIONE TECNOLOGICA Il 28 gennaio 1986 lo shuttle Discovery esplose in volo. Fra i sette astronauti morti nell'incidente c'era l'insegnante Christa McAuliffe. Non era una specialista, ma una persona ordinaria. Era stata scelta per simboleggiare l'impegno americano verso l'insegnamento e la sicurezza dello shuttle. Quel giorno il presidente Reagan doveva pronunciare il suo messaggio annuale sullo Stato dell'Unione. Secondo alcune voci, Reagan aveva programmato uno scambio di battute via radio con Christa McAuliffe. Per questa ragione il volo dello shuttle non avrebbe potuto essere rimandato per nessun motivo (1). Un motivo di rimandarlo, però, c'era: la temperatura a Cape Kennedy era sotto zero. Quel freddo toglieva elasticità agli O-rings, i due grandi anelli di gomma di tenuta che dovevano impedire la fuoriuscita dei gas caldi prodotti dal combustibile solido dei due razzi propulsori ausiliari. Questo grave problema era ben noto. Però il management della società Morton Thiokol, costruttrice di quella parte dello shuttle, decise di non opporsi al lancio. Dopo il disastro fu nominata una Commissione Presidenziale d'Inchiesta. Ai manager della Thiokol, chiamati a testimoniare, il premio Nobel Richard Feynman (che già sospettava la causa dell'incidente) chiese: "Chi è il vostro migliore esperto sui sistemi di tenuta?" Gli indicarono Roger Boisjoly, ingegnere meccanico, che sedeva fra gli altri testimoni. Feynman gli chiese: "Mr. Boisjoly, lei era d'accordo che il 28 gennaio fosse OK procedere con il lancio?" Boisjoly è un omone calvo dall'aspetto imponente. Rispose senza esitare: "Non ero affatto d'accordo. Dissi chiaramente che avevamo avuto gravi problemi con gli O-rings anche a temperature di qualche grado sopra lo zero. Il rischio era enorme." _______________________________________________________ (1) Il 10 settembre 1992 il Presidente Bush ha nominato Stephen J. McAuliffe, vedovo dell'insegnante-astronauta, al posto di Giudice Distrettuale degli Stati Uniti nel New Hampshire. 130 La testimonianza di Boisjoly contribuì a chiarire le cause del disastro. Però ebbe conseguenze disastrose per la sua carriera professionale. Dapprima fu messo da parte e nel gennaio del 1987 fu licenziato. Citò in giudizio la sua azienda, ma perse. I 'whistle-blowers' - quelli che figurativamente suonano il fischietto per denunciare azioni od omissioni rischiose dei propri datori di lavoro - hanno vita difficile e pochi diritti. Dal 1989 negli Stati Uniti esiste una legge che protegge solo gli impiegati statali che suonino il fischietto. I tecnici che lavorano per l'industria privata non sono protetti dal sistema legale. Se la loro testimonianza permette al Governo Federale di recuperare addebiti eccessivi caricati da un'azienda fornitrice su una fornitura, possono avere un premio fino al 25% di quelle somme. Se, però, il recupero non avviene, l'impiegato privato che ha suonato il fischietto non riceve premi e, in genere, viene licenziato in tronco per scarso rendimento. Questo problema è stato al centro di accesi dibattiti nell'ambito delle società professionali statunitensi e internazionali, come l'Institute of Electrical and Electronics Engineers. In Italia se ne parla poco. Sarà bene affrontare l'argomento evitando sia le congiure del silenzio, sia le cacce alle streghe. La questione è vitale. Le innovazioni tecnologiche cambiano i modi in cui viaggiamo, comunichiamo, lavoriamo, usiamo il tempo libero. Hanno effetti enormi, anche se meno ovvi, sull'uso delle risorse naturali, sui grandi sistemi, sulla distribuzione della ricchezza, sugli investimenti, sui rischi che corriamo e sulle scelte che possiamo o non possiamo compiere. Le realtà umane e le grandezze economiche così messe in gioco sono spesso molto maggiori di quelle dei prodotti o dei servizi oggetto delle decisioni iniziali. Quindi chi introduce innovazioni ha responsabilità vaste e ramificate. Per fronteggiarle, i decisori devono saper riconoscere le grandi tendenze socio-economiche e tecnologiche in atto e saperne prevedere gli ulteriori sviluppi. Solo così potranno evitare scelte in controtendenza votate all'insuccesso e implicanti distruzioni di ricchezza e di risorse naturali ed umane. È tipico il caso dei piani di costruzione di nuove acciaierie. Furono propugnati e mantenuti anche di fronte a una ovvia crisi di sovraproduzione dell'acciaio. Così sono andate distrutte o sprecate ricchezze notevoli. Per assolvere queste responsabilità, occorre ridefinire le procedure per il calcolo dei bilanci costi/benefici. Questi, infatti, non possono essere più redatti solo raffrontando i costi di costruzione e di esercizio di nuove opere ai benefici degli utenti inizialmente previsti. È ben noto ormai che si deve tenere conto anche dei costi e dei benefici indiretti e di quelli sociali. Questi fattori vengono anche chiamati 'esternalità'. Fra i benefici e i costi sociali vanno considerati gli impatti ambientali. Questi, di nuovo, non riguardano solo gli abitanti del territorio in cui sorgono le nuove opere o vengono offerti i nuovi servizi. Basta pensare al disastro di Chernobyl che ha causato danni sensibili a migliaia di kilometri da quella centrale. 131 Le responsabilità relative a impatti ambientali negativi non si fronteggiano con buone intenzioni. Occorre una conoscenza approfondita dei fatti e dei meccanismi complessi attraverso i quali interagiscono attività umane e ambiente naturale. È noto che negli USA le leggi per la protezione dell'aria e dell'acqua (Clean Air e Clean Water Acts) hanno sortito successi notevoli. In alcuni luoghi, però, le sostanze inquinanti eliminate dall'aria e dall'acqua sono state concentrate e raccolte in depositi mal realizzati. Così hanno inquinato i terreni su cui insistevano fino a profondità notevoli e mal note. Alcuni anni fa il Surgeon General degli Stati Uniti (carica grosso modo corrispondente a quella di Direttore Generale del Ministero della Sanità) dichiarò che il rischio ambientale più grave di quel paese era quello dell'inquinamento dei suoli. Le conseguenze potrebbero essere disastrose e inovviabili, se vengono degradate le falde acquifere profonde caratterizzate da cicli di ricambio di molti anni. La responsabilità morale dei pianificatori e dei progettisti non si deve limitare ad evitare impatti ambientali negativi, ma si deve estendere a progettarne di positivi. Ad esempio, è verosimile che l'inquinamento dell'aria urbana dipenda in certa misura da disboscamenti effettuati anche a decine di kilometri dalle città. Per migliorare la situazione, non basta cercare di limitare le emissioni urbane di gas nocivi (automobili, impianti di riscaldamento, industrie). È opportuno anche realizzare riforestazioni sperimentali, che, poi, sono vantaggiose per molti altri motivi. L'annullamento di ogni rischio è fine illusorio e improponibile, anche perchè non possiamo investire nella prevenzione dei rischi somme superiori a certi massimi. Per discutere i problemi della tecnologia e della società, dobbiamo valutare i rapporti fra rischi corsi e benefici sperati. In generale si sottovalutano i grandi rischi - sovrastimando quelli piccoli. Quanto minore è un rischio, tanto più difficile è apprezzarlo per intuito specie se conduce a eventi avversi che colpiscono ogni anno meno di una persona ogni 100.000. I decisori pubblici e i legislatori seguono spesso mode o criteri volatili. Pochi sanno, ad esempio, a che livelli si trovino i rischi industriali e quanto continuino a ridursi. La tabella seguente mostra di quanto sono calate, a parità di prodotto, le probabilità di morte per incidenti sul lavoro in vari settori industriali negli USA. Rischio diminuito Settore Probabilità di morte nel 1950 nel 1970 dal 1950 al 1970 di Miniere carbone 1,2 0,2/milione di tonn 6 volte Cementifici 130 10/miliardo di tonn 13 Cave calcare, dolomite 240 50/miliardo di tonn 4,8 Cave di granito 800 50/miliardo di tonn 16 Miniere di ferro 450 75/miliardo di tonn 6 Miniere di rame 40 10/milione di tonn 4 " di piombo e zinco 35 17/milione di tonn 2 [Fonte: Crouch.E, Wilson,R. Risk/Benefit Analysis, Ballinger 1982] 132 I non esperti (il pubblico in generale) non apprezzano correttamente i rischi e i modi di prevenirli (1). Spesso la percezione soggettiva dei rischi rispecchia la realtà in modo distorto. Lo dimostra la gamma delle somme unitarie investite negli USA per evitare ciascuna morte dovuta ai seguenti tipi di rischio: cancro da 10.000 a 80.000 dollari incidenti stradali da 20.000 a 400.000 dollari radiazioni da 3.600 a 200 milioni di dollari Queste cifre indicano che si investono cifre enormi per ridurre ancora rischi già bassi, come quello delle radiazioni nucleari nelle centrali e nei centri di ricerca. Rispetto a queste sembrano inadeguati i finanziamenti alla ricerca sul cancro, che uccide in USA 500.000 e in Italia 165.000 persone all'anno, con un andamento in crescita rispettivamente verso asintoti di 1.400.000 e di 200.000. Più recentemente sembrano squilibrati gli investimenti nella ricerca e nelle cure ai malati di AIDS. Infatti le morti annue per AIDS sono attualmente diminuite a livelli di circa 15.000 in USA e meno di 1.000 in Italia. La prevenzione dei rischi implica attenzione a ogni sorta di aspetti anche non tecnici. Sembra, ad esempio, che il disastro nella fabbrica della Union Carbide in Bhopal, in cui per un rilascio di isocianato di metile, sono state uccise 3000 persone e menomate 200.000, sia stato scatenato dal sabotaggio di un dipendente cui non era stata data una promozione sperata. Questa causa iniziale, poi, non venne neutralizzata dagli impianti di sicurezza progettati o manutenuti in modo inadeguato. Sulle responsabilità civili e penali si sono pronunciati o si pronunceranno i tribunali, ma esiste una responsabilità morale almeno per la cattiva gestione della manutenzione e dei rapporti con il personale. Ogni impresa tecnologica, quindi, implica l'assunzione di responsabilità globali. Non solo quelle relative al progetto, ai materiali, alla produzione, all'informazione - ma anche a: gestione del personale e suo addestramento, gestione economico-finanziaria (tale da assicurare risorse adeguate ai programmi di controllo e pianificazione), istruzione e addestramento degli utenti finali e del pubblico in genere, progettazione della transizione a generazioni seguenti di prodotti e servizi, pianificazione della vita del prodotto. Tutte queste prescrizioni - e altre ancora - fanno parte dei programmi per il conseguimento della qualità globale. Come vedremo meglio nell'ultimo capitolo, questi programmi, però, hanno aspetti più vasti. Implicano aumenti di efficienza disseminati in ogni area e in ogni ________________________________________________________ (1) Chi teme ugualmente i rischi di incidenti stradali, di incendio, di avvelenamento non sa che ogni anno su 100.000 italiani 17 muoiono per cadute, 11 in incidenti di traffico e meno di uno per incendio o avvelenamento. 133 momento dell'attività aziendale (impiego efficiente del tempo, chiarezza delle comunicazioni e dei messaggi interni ed esterni, eliminazione degli sprechi, riqualificazione periodica del personale, etc.) Questi aspetti non devono essere curati per indulgere a una moda. Sono elementi essenziali della cultura dell'azienda. Questa deve porsi il fine primario di assicurare la propria continuata esistenza in condizioni ottimali. Queste condizioni implicano l' ottimizzazione dei sistemi esterni all' azienda. Da questa, infatti, deriva un più alto rendimento dell' azienda stessa. A più lungo termine, però, si implica l'ottimizzazione della società in generale. L'obiettivo è arduo da definire in modo univoco. Però gli sforzi per definirlo e per raggiungerlo sono la sostanza stessa di ogni etica volta a considerare l'innovazione tecnologica come uno strumento per conseguire fini più complessi, se non più alti. Queste visioni integrate più civili si potranno realizzare solo se saranno disponibili profitti adeguati. Non per questo la cultura dell'azienda va identificata con la così detta (e troppo spesso deprecata) 'logica del profitto'. Però la tendenza a realizzare prodotti e servizi di alta qualità globale, sebbene implichi costi sensibili, sul medio e lungo termine produce vantaggi economici notevoli. La non qualità ha costi maggiori di quelli della qualità globale. Secondo Adamo Smith, una mano invisibile regola i mercati obbedendo ai meccanismi della domanda e dell'offerta. Le scelte tecnologiche, dunque, sarebbero dettate dal mercato. È il mercato che rende manifeste le preferenze degli individui per certi prodotti e servizi piuttosto che per altri. Questa visione, però, è riduttiva. Il pubblico non può scegliere prodotti e servizi che non siano ancora in vendita o che siano troppo sofisticati tanto che la maggioranza della gente non li capisce e non li sfrutta appieno. È il caso di prodotti ad alta tecnologia sia nel settore del mercato di consumo (uso individuale), sia nel settore dei grandi sistemi (uso collettivo). Se non si innalzano i livelli culturali medi, mancherà la domanda di alta tecnologia. Nel caso di prodotti individuali, ad esempio informatici, la maggioranza della popolazione non richiede prodotti e servizi che non servono per le loro attività correnti. Nel caso dei sistemi - energetici, informativi, di trasporto - accade che le soluzioni più avanzate non vengano prescelte perchè i decisori non le capiscono o perchè vengono rifiutate dalla pubblica opinione soggetta a disinformazione. Nella storia della produzione di energia elettronucleare ne troviamo casi paradigmatici. In Italia è stato fatto un referendum su questioni marginali di siti e di ricerca. La prima domanda era se si dovessero compensare con soldi i comuni che accettavano di ospitare centrali nucleari sul loro territorio. La seconda era se dovesse essere il Parlamento, invece del CIPE a decidere i siti per le nuove centrali nucleari. La terza era se l'Italia dovesse continuare a contribuire a finanziare i programmi europei di ricerca sui reattori veloci autofertilizzanti. Il risultato negativo del referendum viene ancora interpretato falsamente come un rifiuto totale dell'energia da fissione. 134 In Austria un referendum sulla centrale di Zentendorf - già costruita - decise di non farla mai funzionare. Negli Stati Uniti la centrale nucleare di Shoreham a Long Island è un altro caso tipico. È costata oltre 7.000 miliardi di lire. Però lo Stato di New York ha rifiutato improvvisamente e inappellabilmente di approvare il piano di evacuazione della regione in caso di grave incidente. Dunque la centrale, che potrebbe generare in condizioni di estrema sicurezza una potenza elettrica di 820 Megawatt - non ha mai prodotto un solo kWh utile e non funzionerà mai. Lo Stato di New York l'ha ricomprata per 1 dollaro allo scopo di smantellarla. In se sarebbe stato un fine buono quello di investire risorse per produrre energia elettrica utile a tanta gente. Ma non è stata una conseguenza buona quella di investire risorse per 7.000 miliardi per poi smantellare l'enorme oggetto prodotto. È stata una distruzione di ricchezza - un peccato. Ne sono responsabili i progettisti, che non hanno valutato abbastanza attentamente i processi decisionali contorti dello Stato di New York. Ne è responsabile anche il Governatore dello Stato di New York con i suoi consiglieri che sono stati disattenti nei quindici anni in cui la centrale veniva progettata e costruita e riceveva tutte le autorizzazioni ufficiali. E così con la loro decisione di non permettere l'entrata in funzione della centrale hanno accollato allo Stato il grosso onere di smantellarla. Rispetto al caso delle centrali di Zentendorf e di Shoreham, rifulge l'abilità dei pianificatori italiani che non hanno mai completato la centrale nucleare di Montalto di Castro. Almeno abbiamo speso un po' meno. Il nucleare sicuro, invece, non è una leggenda. La strada tecnica per conseguirlo è disponibile. Naturalmente deve essere sicuro ovunque: un primo passo essenziale è decommissionare le vecchie centrali russe inerentemente pericolose. Intanto i mezzi di comunicazione di massa ospitano spesso opinioni superficiali avverse all'idroelettrico - basate su certi ben noti inconvenienti della diga di Asswan in Egitto. Poi si continuano a diffondere timori infondati di cancri e leucemie causati dall'energia elettrica a bassa frequenza (quella che porta l'energia nelle nostre case), visioni catastrofiche dell'avvenire climatologico e una generale, gratuita avversione verso ogni tecnologia. Diffondere, invece, informazione corretta nella società è un imperativo ineliminabile per gli innovatori tecnologici. È la via per riportare ogni dibattito sulla innovazione tecnologica su temi reali e concreti. Occorre anche propugnare livelli di decenza, di correttezza umana e di cooperazione. Questa esigenza è particolarmente importante trattando con paesi in via di sviluppo. La pretesa di proteggere le tradizioni e le culture locali, spesso maschera un immobilismo colpevole e un mantenimento dello status quo per cui in effetti si nega ogni scelta a popolazioni arretrate che vengono obbligate a sopportare la ferocia, l'avidità o l'arretratezza di dittatori pessimi. 135 A lungo termine non conviene accettare che si perpetuino tristi situazioni di questo tipo. Comportarsi moralmente significa avere scelte più vaste e differenziate e dare scelte più ampie e differenziate ai partner e ai clienti nazionali e stranieri. Chi progetta o gestisce tecnologia avanzata ha, dunque, doveri più stringenti di quelli delle persone comuni. Se li dimentica, bisogna ricordarglieli. Magari bisogna ricordarglieli suonando il fischietto. Questi punti di vista sono ragionevoli. Non era ragionevole, invece, la proposta del premio Nobel britannico Martin Ryle, radioastronomo. Temeva tanto le applicazioni militari della scienza da indurlo a lanciare lo slogan: "Stop Science Now" ("Fermiamo la scienza ora"). A me sembra bestiale la risoluzione di fermare la ricerca scientifica. Non ha prodotto solo distruzioni. Ha allungato la vita di tanta gente e l'ha fatta svolgere in condizioni più gradevoli. Soprattutto ha reso la vita meritevole di essere vissuta a quelli di noi che - a livelli diversi hanno capito almeno qualcosa dei meccanismi dell'universo. Eppure è inevitabile che la scienza - come ogni oggetto, come ogni ritrovato umano - si possa usare in modi perversi. Per ridurre i rischi relativi, Primo Levi scrisse queste parole di consiglio il 21 settembre 1986 (1) : "Mi piacerebbe (e non mi pare impossibile nè assurdo) che in tutte le facoltà scientifiche si insistesse a oltranza su un punto: ciò che farai quando eserciterai la professione può essere utile per il genere umano, o neutro, o nocivo. Non innamorarti di problemi sospetti. Nei limiti che ti saranno concessi, cerca di conoscere il fine a cui il tuo lavoro è diretto. Lo sappiamo, il mondo non è fatto solo di bianco e nero e la tua decisione può essere probabilistica e difficile: ma accetterai di studiare un nuovo medicamento, rifiuterai di formulare un gas nervino. Che tu sia o no un credente, che tu sia o no un "patriota", se ti è concessa una scelta non lasciarti sedurre dall'interesse materiale o intellettuale, ma scegli entro il campo che può rendere meno doloroso e meno pericoloso l'itinerario dei tuoi coetanei e dei tuoi posteri. Non nasconderti dietro l'ipocrisia della scienza neutrale: sei abbastanza dotto da saper valutare se dall'uovo che stai covando sguscerà una colomba o un cobra o una chimera o magari nulla. Quanto alla ricerca di base, essa può e deve proseguire: se l'abbandonassimo, tradiremmo la nostra natura e la nostra nobiltà di fuscelli pensanti, e la specie umana non avrebbe più motivo di esistere." Questi ammonimenti di Primo Levi si rivolgono alla coscienza di un singolo ricercatore. Va bene: c'è bisogno di questi messaggi. Però dobbiamo aspettarci che qualche ricercatore abbia la coscienza distorta e si impegni in ricerche mal concepite e dannose, a termine breve o lungo. _________________________________ (1) "Terza Pagina", racconti e saggi di Primo Levi, ed. La Stampa, Torino, 1986 136 In particolare sono in corso accesi dibattiti sulla bioetica, che si occupa di problemi come: è opportuno o lecito modificare il DNA di piante e animali e produrre varietà che in natura non esistevano? (Negli Stati Uniti è già legalmente possibile brevettare nuove forme di vita) è lecito fecondare in provetta ovuli umani con spermatozoi umani? Di chi devono o possono essere queste cellule? Una volta avvenuta la fecondazione, quale può essere la sorte degli embrioni: possono essere usati per esperimenti - possono essere impiantati nell' utero di chicchessia? l'eutanasia può essere ammessa in qualche caso e con quali controlli e garanzie? Dove sono situati i confini tra eutanasia e interruzione nell'impiego di ausili tecnologici che tenevano in vita un essere umano? È lecito usare macchine per tenere in vita un essere umano che ha l'elettroencefalogramma piatto, che, cioè, somiglia più a un vegetale che a un animale? Possiamo immaginare facilmente che in questo settore qualcuno riesca a produrre mostruosità e misfatti disumani. Suggerivo, qualche pagina indietro, che bisogna suonare il fischietto per ricordare i suoi doveri a chi gestisce tecnologia avanzata. Bisogna suonarlo anche per ricordare agli scienziati insegnamenti simili a quelli citati di Primo Levi. La comunità scientifica è già equipaggiata a questo scopo. I finanziamenti dei programmi di ricerca vengono decisi da comitati scientifici in genere competenti. Poi individuare e denunciare i colleghi che sbagliano o imbrogliano è uno dei compiti degli scienziati. I loro tempi di reazione, però, sono lenti. Prima di pubblicare un parere gli scienziati vogliono essere sicuri che sia giusto e accertarsene prende tempo. Nel caso della bioetica i rischi possono essere grandi e i tempi per i rimedi possono essere minimi. Basta pensare all'eventuale produzione di virus pericolosi per i quali non esistano cure. Per comportarsi moralmente, gli scienziati dovranno reagire con prontezza sempre maggiore alle notizie di rischi provocati da loro stessi o dai loro colleghi. 137 C A P I T O L O 19 ALTRUISMO E COOPERAZIONE "Guidavo da ore per strade semideserte attraverso la campagna. Mia moglie Karyn era addormentata accanto a me. Così un'auto ferma attirò subito la mia attenzione. Accanto alla macchina c'era un uomo che mi faceva cenni frenetici di fermarmi. Accostai a destra. Karyn si svegliò e lanciò fuori uno sguardo incerto. L'uomo disse: "Sono senza benzina. Mi può aiutare?" Risposi: "Non so. Ha un tubo di gomma?" Prima che l'uomo potesse rispondere, Karyn mi sussurrò: "Ma non hai quella tanca mezza piena nel bagagliaio? Dagliela. Serve più a lui che a noi." Aveva ragione. Ce la portavamo dietro da qualche mese. L'avevamo comprata per la falciatrice che tenevamo nella casa di campagna - ma, poi, avevamo sempre rimandato la nostra vacanza. Scesi dall'auto, presi la tanca e la porsi all'uomo. Mi ringraziò calorosamente. Voleva pagarmela e chiese: "Quanti litri sono?" Risposi: "Lasci perdere. Sono pochi. Li metta nel serbatoio e poi riempia di nuovo la tanca. Se la porti dietro e la dia a qualcun altro che resta a secco." Lui accettò e ripartimmo subito. Parecchi mesi dopo successe a noi di restare senza benzina. Il terzo automobilista che cercavo di fermare ci offrì subito una tanca mezza piena. Ci disse che non voleva soldi. L'aveva avuta in regalo da uno sconosciuto una volta che era rimasto a secco anche lui. Karyn esclamò: "Guarda! È la nostra vecchia tanca. La riconosco da quell'ammaccatura!" Lessi questa storia una trentina di anni fa fra le scenette di vita americana su Selezione del Reader's Digest. L'aneddoto, con tutto il suo ottimismo, non ci convince che il nostro altruismo verrà premiato così prontamente. Anzi: la storia è diseducativa. Il bene che possiamo fare a qualche automobilista imprevidente è troppo piccolo rispetto al grave rischio che la tanca di benzina che ci portiamo dietro si incendi quando 138 veniamo tamponati. È giusta la legge che vieta di portarsi dietro carburante in recipienti di fortuna. Dunque l'altruismo non è sempre consigliabile. Nell'Appendice illustro con un formalismo matematico rigoroso i casi in cui l'altruismo è conveniente per tutti, i casi in cui è indifferente e quelli in cui deve essere abbandonato a favore di strategie casuali, ma sapienti. Vediamo, intanto, di classificare i comportamenti altruistici - a prescindere dai consigli di amare il nostro prossimo, ai quali ho già accennato nella prefazione. Abbiamo già visto che le regole fisse conducono a conseguenza assurde. Dunque non è sempre male uccidere un essere umano. Analogamente non è sempre opportuno beneficare altri esseri umani, come abbiamo visto nel caso della tanca di benzina portata nel bagagliaio che implica pericoli maggiori dei benefici sperati. Per valutare in modo ragionevole le nostre scelte, vediamo quale sia la situazione generale che si viene a creare in conseguenza di un'azione altruistica. Un esempio di notevole attualità è quello degli aiuti internazionali che vengono dati a paesi poverissimi del terzo mondo. Provengono da programmi governativi ufficiali oppure da organizzazioni private. A prima vista saremmo tentati di sostenere che gli aiuti ai paesi poveri sono sempre opportuni. Perchè non dare una parte delle risorse per noi superflue, a loro che muoiono di fame? Sarebbe ragionevole e umano dare questi aiuti, se davvero servissero ad alleviare carestie. Però accade spesso che le derrate alimentari destinate a popolazioni stremate dalla fame, vengano intercettate da predoni militari e barattate con armi. Queste, alla fine, servono a uccidere proprio le popolazioni che dovevano essere salvate. Anche se tutto questo non accade, l'invio di aiuti alimentari pianificati male può far scendere i prezzi agricoli. Quindi vanno a zero i guadagni degli agricoltori e la produzione locale di alimenti si annulla. Il paese aiutato è ora incapace di sopravvivere senza gli aiuti che avrebbero dovuto solo rimediare a una situazione d'emergenza. Una volta capito bene il problema degli aiuti internazionali, parlarne o raccogliere fondi per incrementarli non ci scarica più nemmeno la coscienza. Come accennavo nel Capitolo 16, dobbiamo concentrarci sull'organizzazione se vogliamo sortire risultati concreti. Le azioni altruistiche, dunque, vanno bene se risolvono qualche situazione - sono inutili se lasciano tutto come prima. Chi dà poche lire in elemosina o lavora con gruppi di soccorso dei poveri, non fa niente di buono se dà per scontato che i poveri resteranno sempre poveri. Circa un miliardo di persone è alla fame nei paesi più poveri. Questo problema ha dimensioni enormi e non si risolve con piccoli aiuti dati senza un piano. Questi sono sintomi di un altruismo finto - inutile. L'altruismo vero deve raggiungere risultati concreti e importanti. Un esempio di un vero progetto altruistico è il sistema TRANSAQUA. Era un'idea di BONIFICA, una società di ingegneria italiana (che subì gravi traversie e che è stata dissolta). Si trattava di un 139 canale navigabile lungo 2.400 km, che dai pressi del lago Tanganika, avrebbe dovuto procedere verso Nord, tagliare gli affluenti di destra del fiume Zaire, e giungere fino allo spartiacque con il bacino del Chari-Ciad. Il canale, largo 100 metri e profondo 25, avrebbe dovuto portare nel fiume Chari e quindi nel lago Ciad 100 miliardi di metri cubi d'acqua all'anno, rinverdendo il Sahel. Occorre una grande impresa come questa per rimediare all'esplosione della popolazione (che oggi in Africa raddoppia ogni 23 anni), alla metereologia avversa e alla conseguente carestia. Grandi estensioni di terreno in Africa centrale non si possono coltivare, perchè poi non si possono trasportare i prodotti fino ai centri di consumo. Il canale Transaqua avrebbe potuto risolvere questo problema, creando una via di trasporto Est Ovest e permettendo di coltivare 6 milioni di ettari nello Zaire, nella Repubblica Centro Africana, in Ciad, Niger, Camerun e Nigeria. Ora nessuno ne parla più. Non basta che le grandi imprese tecniche siano fattibili, nè che gli impatti ambientali futuri vengano valutati accuratamente, nè che alcuni paesi industrializzati siano interessati al progetto. Le imprese di queste dimensioni devono esser decise e realizzate con lo sforzo comune almeno di tutti paesi europei e con accordi fra i paesi africani relativi alla ripartizione di oneri e benefici. Poi esse vanno analizzate in un quadro sistemico globale che tenga conto dei contributi scientifici di naturalisti, etologi, idrologi, climatologi, geotecnici. Dovrà essere istituito un bilancio dei benefici e dei rischi. Sono entrato in tutti questi dettagli solo per dare un'idea di quanto siano grandi e complicati i problemi da affrontare, se vogliamo essere altruisti verso gli esseri umani più poveri del mondo. Per non fermarci a velleitarie buone intenzioni, dobbiamo studiare tutti i fattori della situazione e poi decidere come fare a sortire effetti concreti. Questo ormai significa necessariamente occuparsi di politica o, quanto meno, prendere parte attiva alle iniziative di associazioni professionali o culturali. Vediamo come si giunga a conclusioni simili partendo da un diverso concetto di altruismo - inteso come una regola di vita diretta a beneficare i nostri concittadini in generale. Mettiamo in pratica questa regola di vita se facciamo il nostro lavoro in modo da soddisfare a dismisura le clausole (magari tacite) del contratto che ci lega al nostro datore di lavoro o al nostro cliente o al pubblico (se lavoriamo per un ente o per un ministero). In questi casi non ci aspettiamo gratitudine - non ci aspettiamo niente dalle persone a cui diamo più di quanto si aspettano. Forse gli diamo anche più di quanto sarebbe giusto: ma chi stabilisce cosa sia giusto - quale debba essere il tasso di scambio fra opera e remunerazione - se non la tradizione che stiamo cercando di stabilire? Agendo secondo questa regola di altruismo, tendiamo a raggiungere una situazione in cui tutti danno di più, tutti sono altruisti. Dunque si vive meglio. L'ambiente sociale è fatto di qualità umana più 140 alta. Si perde poco tempo. Si distrugge poca ricchezza. A parità di ogni altra condizione, la società è più sicura, più stabile, più prospera. In una situazione come quella descritta, l' altruismo si esplica anche pagando correttamente le tasse. Se tutti le pagano, sono disponibili maggiori risorse alla comunità per organizzare e gestire: istruzione, cultura, lavori pubblici, salute, ambiente, giustizia, difesa, sicurezza, trasporti. Però devono essere soddisfatte due condizioni perchè queste cose accadano davvero. La prima è che i soldi delle tasse siano usati effettivamente per pagare servizi pubblici. Se, invece, quelli che dovrebbero spenderli o investirli oculatamente ne rubano troppi, chi paga le tasse avvantaggia solo questi amministratori infedeli e non la comunità. La seconda condizione è che le tasse siano pagate dalla grande maggioranza dei contribuenti. Se non è così, la cosa pubblica dispone di risorse che stanno sotto una soglia minima. La situazione è disastrosa per tutti, ma è peggio per chi paga le tasse scrupolosamente. A questo punto, di nuovo, dobbiamo chiederci come fare a organizzare le cose in modo che funzionino bene in generale e sul lungo periodo. Come facciamo a essere sicuri di non essere fra i pochissimi che pagano le tasse? Un primo provvedimento è quello di esigere i documenti fiscali giusti dai nostri fornitori e di denunciare chi non li rilascia. Insisteremo per avere la ricevuta fiscale nei ristoranti e nei negozi. Insisteremo per avere la ricevuta dai medici: non ci costa niente e possiamo detrarre la spesa relativa dal nostro reddito prima di assoggettarlo a imposta. Alcuni luminari della scienza medica (per fortuna rari nella mia esperienza) rifiutano di rilasciare ricevuta oppure propongono di redigerla per un quarto oppure un quinto dell'importo vero. Molti pazienti non protestano, temendo di essere curati peggio. Invece questi tali vanno denunciati alla Finanza - magari alla fine della cura. La cosa è meno semplice con altri professionisti a cui ci rivolgiamo: avvocati, fiscalisti, geometri, ingegneri. Infatti, se questi ci rilasciano fattura, paghiamo il 20 % in più per l' IVA che è a nostro carico. Ci converrebbe aiutarli a evadere la tassa. Ma ci conviene davvero o solo a breve termine? Ci conviene solo a breve termine. Infatti, se troppi professionisti non pagano le imposte, lo Stato ha entrate troppo basse e alla fine il governo aumenterà le imposte sul nostro reddito - ma non su quello dei professionisti evasori, che continuano a evadere. Allora sono i poteri pubblici che devono vigilare sui professionisti e sui loro clienti. Non è difficile, purchè non si cerchi di inventare sistemi di controllo sbagliati. Fra questi c' è il ricorso al reddito minimo, introdotto in Italia verso il 1992. Dovrebbe essere applicato a lavoratori autonomi e commercianti, i quali devono dichiarare un reddito superiore a un certo minimo e così ricevono la garanzia che non saranno sottoposti a indagini. Il metodo è ovviamente ingiusto per chi effettivamente ha guadagnato meno del minimo, magari a causa di una malattia. Chi guadagna più del minimo, invece, è indotto in tentazione: ha la licenza di evadere. 141 Invece di ricorrere a questi espedienti peregrini, è meglio copiare gli inglesi. In Inghilterra tutti i professionisti e tutti i commercianti devono far controllare i loro libri contabili al fisco una volta l'anno. È un controllo vero, non si tratta solo di far bollare le pagine del registro. Inoltre un revisore contabile autorizzato deve certificare che i registri sono tenuti correttamente e che rispecchiano la realtà. Se, poi, il fisco scopre che non è così, il revisore contabile perde la licenza e non può più lavorare. (Incidentalmente in Inghilterra il fisco può controllare anche i movimenti sui conti bancari dei contribuenti. Ed è un reato avere un conto in banca senza averne comunicato il numero al fisco). Torniamo così alle azioni di portata nazionale. Non basta e non serve che manifestiamo il nostro altruismo col pagare le tasse, se non facciamo quanto è necessario per far pagare le tasse a tutti. Questo implica che dobbiamo occuparci di politica e fare in modo che al governo locale (Comuni, Province, Regioni) e al governo centrale (attraverso il Parlamento e il Senato) vadano persone oneste, sensate, competenti ed energiche. Possiamo estendere questi concetti generali che riguardano grandi numeri di persone, anche all'altruismo verso singoli individui. Se ci siamo convinti che la cosa più importante sono i risultati, faremo bene ad aiutare qualcuno se il nostro aiuto serve a fargli passare il guado. Se, invece, serve solo a farlo stare un po' meno peggio mentre rimane a mollo nel guado, l'aiuto non serve. Il nostro beneficato verrà portato via nei gorghi della prossima piena improvvisa del fiume. Non potremo stare dietro a tutti quelli che potranno avere bisogno d'aiuto. Dunque l'aiuto migliore che possiamo dare è quello di insegnare a sbrogliarsela. Per cavarsela la gente non ha bisogno solo di regole di comportamento: gli serve anche una conoscenza del mondo che sia la più vasta possibile. Per poter aiutare gli altri ad acquistarla, prima dobbiamo averla acquistata noi. Ma questo è un concetto che ho illustrato già varie volte in queste pagine. E che cosa dobbiamo fare quando le risorse sono tanto scarse che alcuni dovranno farne a meno del tutto affinchè almeno qualcuno ne possa godere in modo significativo? Bisogna ricorrere al razionamento - e a un razionamento ingiusto: non poco per tutti, ma poco -- e solo per alcuni. Un esempio è quello delle opere d'arte. Se tutti vanno a visitarle le possono distruggere poco a poco con il loro passaggio o con la loro sola presenza. Affreschi e pitture rupestri che si trovano in luoghi chiusi, possono essere danneggiati per il solo fatto che ogni giorno ci respirano accanto grandi masse di persone, emettendo vapore d'acqua e anidride carbonica. Stanno sparendo dai muri della basilica sotterranea di San Clemente a Roma gli affreschi che contengono, fra l'altro, la più antica frase scritta in italiano (1). Sono in grave pericolo le pitture rupestri di Altamira in Spagna e di Lascaux in Francia, che sono fra le più antiche opere d'arte del ___________________________________________ (1) C' è scritto: FACITE DERETO CO LO PALO - TRAITE CARVONCELLE - TRAITE, FILI DE LE PUTE - ALBERTEL TRAI. 142 mondo. È ovvio che cosa si debba fare. Queste opere d'arte in pericolo devono essere protette, se possibile. Altrimenti potranno essere visitate solo da pochi eletti: gli archeologi e gli storici dell'arte che, vedendole da vicino, le apprezzeranno meglio di quanto possa fare la gente comune. In conseguenza potranno concepire idee e concetti sull'arte e sulla sua evoluzione che, sperabilmente, ci illumineranno tutti. Intanto i non specialisti potranno visitare copie degli originali - e non si accorgeranno nemmeno della differenza. Lo stesso problema si ripresenta quando si tratti di bellezze naturali. Mi piacerebbe essere il solo a godere di una vasta spiaggia deserta per kilometri o di una foresta in cui nessun essere umano ha mai messo piede. Ad alcuni di noi piacerebbe essere i primi, o fra i pochissmi, a entrare in contatto con rappresentanti di civiltà primitive. Poi succede, invece, che quelli che ci entrano in contatto provano a farli fuori - come succede con le tribù che abitano foresta amazzonica e come è successo tante altre volte nella storia del mondo. Se anche non si verificano questi stermini, il turismo di massa cambia il carattere delle bellezze naturali incontaminate. È bene proteggerle ragionevolmente. Nel 1992 una nuova iniziativa a questi fini è stata presa dal Touring Club Italiano e approvata dalla Alliance Internationale de Tourisme. È stato formato un Comitato Etico Internazionale Turismo e Ambiente, che è stato incaricato di redigere una Carta sull' etica del turismo e dell'ambiente. La Carta riconosce il diritto alla mobilità della gente, desiderosa di distendersi, di comunicare, di acquisire nuove conoscenze. Stabilisce, però, che il turismo deve rispettare l'ambiente, la società e l' economia delle aree visitate. Per controllare che questo avvenga, dovrà essere fatto un inventario delle risorse naturali, culturali e monumentali di ogni area, stabilendo regole e limiti da imporre al turismo. Solo così potremo assicurarci che i beni culturali e naturali potranno essere goduti anche dalle generazioni future. L'altruismo, dunque, non si deve limitare agli esseri umani viventi oggi. L'idea della carta etica del turismo è buona. Potrà essere avversata solo da chi la veda come un attentato di burocrati alla libertà individuale. Parecchi anni fa chiunque poteva calcare le grandi pietre bianche che formano il pavimento del Partenone. Oggi non è più permesso: il grande tempio ad Atena si può guardare solo dall'esterno fino a quando, forse, saranno installate all'interno passerelle di protezione. Certo se ne ottengono visioni meno suggestive. Però l'alternativa sarebbe quella di vederlo consumare lentamente dalle scarpe di milioni di turisti. Questo capitolo è piuttosto disordinato. Ho parlato di tante cose diverse sotto il titolo dell'altruismo: dai piaceri che è bene fare o non fare agli altri, ai modi di organizzare la società e di aiutare esseri umani poverissimi, lontani da noi che non abbiamo mai visto, dal pagamento delle tasse alla protezione di bellezze naturali e monumenti. In effetti non è disordine. È un modo di corroborare le norme, di spiegare perchè servono. 143 A me sembra un passo avanti notevole rispetto al consiglio di amare il nostro prossimo come noi stessi. Marco Aurelio Antonino nei suoi ricordi suggerisce più e più volte di comportarsi in modo altruistico. Dice ad esempio: "Non concepire le cose come le giudica o come vorrebbe che tu le concepissi chi ti offende, ma riguardale quali sono effettivamente". "Non comportarti verso chi è disumano, come lui si comporta verso gli altri." "È proprio dell'uomo beneficare i propri simili, disprezzare gli impulsi dei propri sensi e contemplare la natura universale." "La natura universale ha creato gli esseri ragionevoli perchè possano aiutarsi gli uni con gli altri secondo i rispettivi meriti e non recarsi mai danno." "Se ho fatto qualcosa di utile per la società, ho giovato a me stesso." Sono belle espressioni, ma come la norma sull'amare il prossimo, sono gratuite e non reggono all'obiezione: "E perchè dovrei comportarmi così?" Dopo averle lette uno riflette, però, che quando i confini dell'Impero erano minacciati dai Parti, dagli Armeni, dai Marcomanni, dagli Alani, dai Quadi, dai Daci, dai Sarmati, Marco Aurelio non perdeva tempo. Partiva con il suo esercito e, in genere, li batteva sanguinosamente. Vuol dire che non credeva proprio che dovessimo tutti beneficare sempre i nostri simili. Credeva che la difesa dell'Impero fosse più importante, che i Romani fossero uomini da curare e i barbari no. Possiamo non essere d'accordo col razzismo dell'imperatore filosofo. Però il confronto fra le sue parole e le sue azioni ci ricorda che le priorità dobbiamo fissarcele da soli magari dopo avere riletto il capitolo 2. 144 145 C A P I T O L O 20 LA QUALITÀ GLOBALE: UN GRAAL DI PERFEZIONE IRRAGGIUNGIBILE, TEMPERATO DAL BUON SENSO Abbiamo discusso finora vari motivi per comportarci meglio e parecchi modi per definire che cosa sia meglio e per capire come raggiungere questo fine. Ma perchè dovremmo tendere solo a comportarci un po' meglio? Perchè non tendere all'ottimo - alla perfezione?" Per rispondere a queste domande, oltre che nel ragionamento potremmo cercare ispirazione, come già abbiamo fatto, nel Talmud oppure nella teoria o nella pratica dell'ingegneria e del management industriale. Il Talmud parla di perfezione, ma, prevedibilmente, la considera propria di Dio e la identifica con la santità. Il Talmud ci esorta a cercare di imitare Dio. Però ci avvisa subito che la perfezione di Dio non è raggiungibile da nessun essere umano. Purtroppo non possiamo utilizzare questi insegnamenti. Il nostro intento è pragmatico, ma, come ho già detto varie volte, non è certo religioso e tanto meno confessionale. Dall'industria, invece, possiamo di nuovo trarre qualche insegnamento. Negli ultimi anni si sta affermando nelle industrie e nelle aziende di servizi di tutti i paesi avanzati un movimento verso la qualità globale o totale. Ne ho già accennato a proposito della moralità nella innovazione tecnologica. Qui cerco di precisare la questione e di dedurre dalla pratica industriale conseguenze utili per governare le nostre azioni personali. La qualità globale è un concetto complesso - come l'intelligenza umana, vano sperare di misurarli con un solo numero (come alcuni hanno cercato di fare con il quoziente di intelligenza). Esperti di management e operatori provenienti dal settore amministrativo hanno suggerito che i libri contabili dovrebbero rispecchiare la qualità globale - se questa informa davvero l'attività di un'azienda. Se sono di alta qualità: i prodotti, i servizi, la pianificazione, la gestione, le relazioni esterne, l'assistenza ai clienti e così via, questo fatto dovrebbe influire favorevolmente sui risultati economici. Potremmo, allora esaminare tutta una serie di indicatori aziendali. 146 Fra questi: il profitto netto dopo le tasse (la 'bottom line', di cui abbiamo già parlato), il flusso di cassa ('cash flow'), il credito verso i clienti (valutando anche quanto rapidamente tendono a pagare), il valore degli immobili in proprietà, il conto in banca, le vendite. Oltre a questi fattori che sono registrati nei libri contabili, occorrerà analizzare anche le tendenze: della fetta di mercato che l'azienda si è assicurata, della velocità con cui i dipendenti ruotano (cioè lasciano l'azienda o cercano impiego presso di essa), delle innovazioni tecnologiche introdotte. Tutti questi sono elementi interessanti, ma non bastano. Perchè? Una prima ragione è che molti di questi indicatori possono essere positivi per cause che hanno poco a che fare con la qualità dell'attività aziendale. Possono essere influenzati da colpi di fortuna. Per esempio, può accadere che si affermi una nuova moda proprio per qualche prodotto che l'azienda aveva accumulato in magazzino in grande quantità e che non vendeva da anni. Oppure il più agguerrito concorrente commette errori gravissimi o fallisce o ha la fabbrica distrutta da un incendio. Ma anche quando quegli indicatori sono resi positivi proprio dalla qualità aziendale essi non ci suggeriscono gli interventi da attuare per migliorare la situazione. Servono, dunque, analisi più accurate. La qualità globale può essere definita solo con criteri sistemici mediante misure di efficacia e analisi comparative e - certo - effettuando controlli di qualità come quelli di cui abbiamo parlato nel Capitolo 17. Nell'ambito di un'azienda, dunque, la qualità dovrà essere ottenuta cercando di ottimizzare: 1. la pianificazione - per generare servizi e prodotti del tipo richiesto e nelle quantità richieste 2. i progetti - per definire prodotti che soddisfino gli utenti finali 3. la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie 4. la scelta dei materiali 5. i metodi di produzione per realizzare i prodotti al minimo costo e seguendo fedelmente il progetto 6. l'informazione ai clienti su prodotti e servizi in modo che li scelgano e, infine, li usino nel modo migliore 7. il servizio ai prodotti (manutenzione, rete di ricambi, consulenza ai clienti) 8. la transizione dai prodotti attuali ai successivi per evitare interruzioni del servizio, incompatibilità, guai dovuti a malintesi o difficoltà nell'uso dei nuovi prodotti sia pur conseguenti a loro migliorate prestazioni 9. i modi di disporre dei prodotti vecchi quando sono giunti al termine della loro vita utile (riciclaggio che eviti danni all' ambiente) 10. addestramento del personale affinchè raggiunga i fini sopra citati, suggerendo ulteriori migliorie ed eliminando difficoltà ai clienti 11. buona organizzazione del lavoro (secondo la teoria Y), curando anche i rapporti gerarchici e sindacali per evitare inconvenienti agli utenti finali. 147 Questa lista è abbastanza imponente. Ci piacerebbe che tutte le aziende pubbliche e private con cui abbiamo a che fare, si proponessero tutti questi fini. La lista ci sembra completa. Però, se ci chiediamo: "Abbiamo considerato tutti i fattori che possono incidere sulla qualità dei nostri prodotti o dei nostri servizi?" La risposta deve essere: no. Può rispondere 'si' solo chi sia dotato di sapienza e capacità di previsione infinite, ma nessuno ha queste doti. E vediamo subito che cosa possiamo aggiungere a questa lista. (il compito non finisce mai). Un fattore importante è l'impatto ambientale. Ne ho parlato nei Capitoli 13 e 18 e nel punto 9 precedente, ma deve essere esaminata da questo punto di vista ogni fase dell'attività di un'azienda: produzione, manutenzione, impiego finale dei prodotti, realizzazione di fabbricati, dislocazione di luoghi di lavoro e di nuovi insediamenti. Un secondo fattore importante è costituito dai rischi sistemici. Questi vengono corsi quando la stessa complessità di un grande sistema tecnologico rende difficile prevedere concatenazioni di eventi avversi che possono giungere a bloccare gran parte delle funzioni del sistema (1). Tali eventi si verificano - in un complicato quadro di probabilità - quando guasti, sovraccarichi o funzionamenti degeneri di un sistema tecnologico influiscono negativamente sul funzionamento di un altro sistema adiacente. È raro che si possa attribuire con sicurezza a un individuo o a un'azienda la responsabilità di una crisi sistemica. Però ugualmente gli esperti e i decisori devono cercare soluzioni a questo problema. Ogni azienda può conseguire qualità globale solo in un ambiente sistemico resiliente e in una società in cui la tendenza all'ottimizzazione sia generale. Un altro elemento importante è la cultura d'azienda. Questa espressione, da sola, non dice niente. Molti autori di libri sul management e molti manager le attribuiscono significati diversi gli uni dagli altri. Qui fornisco una mia interpretazione della cultura d'azienda che, per quanto so, non è molto condivisa. Sostengo, dunque, che si possa parlare di cultura d'azienda solo se esistono programmi concreti per migliorare la qualità, la cultura e i modi di comportarsi (la morale) di quelli che lavorano nell'azienda - a tutti i livelli. Uno dei concetti da incorporare in questi programmi dovrebbe essere quello della responsabilità totale. E' nota la storia del bambino olandese che passa vicino a una diga e vede uno zampillo d'acqua che esce da un buchino. L'acqua erode la diga. Il buco si allargherà e la diga andrà distrutta, se nessuno se ne cura. Così non corre a chiamare aiuto, lo chiude col ditino finchè, ore dopo, vengono gli adulti e riparano il guasto. Nessuno aveva incaricato il ragazzino di controllare la diga. Lui, però, si riteneva totalmente responsabile. Alla responsabilità totale alludevo già a proposito dei rischi sistemici. _____________________________________________________________ (1) Ho discusso le situazioni di questo tipo nel mio "Il Medioevo Prossimo Venturo", Mondadori 1971. 148 In generale ciascuno deve rendersi conto di avere responsabilità che vanno oltre quella di svolgere il lavoro assegnatogli nei modi ed entro i limiti che gli hanno indicato. Sentiamo dire talora: "Questa non è cosa che mi compete. Io mi occupo di tutte le cose comprese fra F ed L. Quel che succede da A fino ad E e da M fino a Z non mi riguarda. Non me ne parlate nemmeno." Chi dice così non si cura se il gruppo di cui fa parte va in rovina, anzi: contribuisce a mandarlo in rovina. Se lavoriamo troppo lentamente, le conseguenze sono ugualmente tristi. Invece conviene a tutti che ogni lavoro sia svolto nel tempo minimo compatibile con la qualità del risultato. I tempi morti possono essere eliminati d'autorità per azione degli esperti aziendali di tempi e metodi. Vengono eliminati in modo più efficace se ciascuno se li controlla da solo - e li elimina anche quando nessuno se ne accorge. In alcune aziende è stato stabilito che tutti devono rispondere al telefono non oltre il secondo squillo. Non è una fisima. Tutti noi abbiamo imprecato contro gli impiegati che alzano il microtelefono dopo dieci o quindici volte che squilla. Poi, invece di rivolgersi a noi, continuano a parlare con qualcun altro e solo dopo un paio di frasi che non ci riguardano, dicono pigramente: "Pronto? Chi è?" Le risposte al secondo squillo ci ridanno fiducia negli uomini - ci sembrano benedizioni. La cultura d'azienda è fatta di miglioramento di se stessi. L' azienda dovrebbe occuparsi di quello professionale (purtroppo spesso non lo fa). Ogni dipendente dovrebbe occuparsi di quello professionale e di quello umano: del carattere, della capacità di comunicare, dell'arte di non danneggiare gli altri e di non dargli noia per semplice incuria. La cultura d'azienda viene anche considerata da alcuni come il fattore nascosto che ispira certe preferenze stabilmente presenti un un'azienda. Per esempio, certe aziende mirano più di altre a conseguire profitti. Altre mirano a realizzare innovazioni tecnologiche continue. Altre curano soprattutto il benessere dei dipendenti. Altre ancora insistono nel volere una struttura rigida, autoritaria e deterministica. Naturalmente ciascuna di queste tendenze non implica che le altre vengano trascurate. Però chiamare cultura queste tendenze è fuorviante. Alla parola cultura si dovrebbe associare un carattere positivo. Dunque ogni preferenza per l'autorità, il profitto, l'innovazione o altro, deve essere valutata alla luce degli effetti complessivi ottenuti sul lungo termine. * * * Ho preso l'industria come un paradigma, ma non è il solo utilizzabile. Concetti analoghi a quelli visti nel caso dell'industria (ai quali poi torneremo) valgono, ad esempio, nel caso dell'insegnamento. In Italia esistono differenze sostanziali fra industria e scuola. La 149 scuola è sfavorita dalla sua struttura statale centralizzata che blocca le innovazioni e le eventuali brillanti iniziative dei docenti migliori. Però, potrebbe ugualmente eccellere se riuscissimo a farle acquistare alcuni requisiti essenziali. La prima esigenza . che ai docenti si insegni come insegnare - a tutti i livelli, dalle elementari all'università. Esistono tecniche per scrivere in modo leggibile, per farsi capire parlando, per motivare i discenti, per usare ausili audiovisivi e mezzi multimediali e ipermediali. Queste tecniche non vengono insegnate a nessuno. Solo alcuni insegnanti più solerti o più dotati le imparano da soli. Bisogna, invece, diffonderle e applicarle in modo sistematico. La seconda esigenza è: controllare la qualità dell'apprendimento e dell'insegnamento. Non basta controllare quanto gli studenti abbiano appreso per mezzo di esami di fine anno. Il controllo va fatto ogni mese od ogni settimana e il risultato del controllo deve essere disponibile in tempo reale, cioè con un ritardo fra prova e valutazione che sia di ore o al massimo di un giorno. Solo così chi cerca di imparare si accorge dei suoi errori di percorso o di metodo e può cambiare rotta o sistema, correggendosi. Poi le prestazioni dei docenti sono controllate male mediante i concorsi e la valutazione dei loro scritti pubblicati. Dovremmo, invece, analizzare i piani di insegnamento, analizzare come sono messi in pratica e anche valutare registrazioni audio e video delle lezioni. In qualche caso già dare una videocassetta a un docente dicendogli: "Tu insegni così." può essere sufficiente a farlo ravvedere. In altri casi il docente sarà consigliato da un tutor specializzato in comunicazione. Se ne deduce che bisognerà formare questi tutor o consiglieri all'insegnamento: è una specializzazione che oggi nessuno insegna e solo qualcuno impara per iniziativa personale. Oltre a insegnare ad insegnare agli insegnanti, bisogna anche aumentarne il numero. Nelle migliori università americane il numero di studenti per insegnante varia fra 5 e 10. La media nelle università italiane è di 22 - e solo nelle facoltà di scienze si scende a 13. Perchè il controllo di qualità sia globale, poi, bisogna estenderlo ai fabbricati, alle biblioteche, ai laboratori, all'orientamento prima di entrare all'università e a quello professionale al momento della laurea. Infine è essenziale che il controllo di qualità sia effettuato sulle scuole elementari, medie e superiori. La terza esigenza è quella di rendere flessibili i piani di studio. Questo già accade nelle università, ma sarebbe bene che accadesse anche nelle scuole medie e superiori. Dovremmo, quindi, abbandonare il sistema scolastico centralizzato di tipo napoleonico e adottare quello anglosassone - rifiutando, però, il lassismo delle peggiori high school americane. Seguire un curriculum flessibile, scegliendo materie diverse, è più divertente e motivante sia per gli insegnanti, sia per gli studenti. Naturalmente la scelta va fatta secondo schemi ragionevoli tenendo conto delle inclinazioni di 150 ciascuno e mirando ai successivi traguardi intermedi e finali. Il controllo di qualità, poi, non deve essere fatto in modi fiscali e punitivi. Deve servire anche per riconoscere i casi in cui uno studente sia più dotato della media e possa risparmiare tempo o essere avviato verso specializzazioni più avanzate e a lui più adatte. Dovrà essere possibile, quindi, diminuire il numero di anni che si passa a scuola, se il livello di conoscenze, di prestazioni e di maturità raggiunto è già adeguato al passaggio a livelli superiori. Il controllo di qualità dell'insegnamento dovrà anche servire a valutare i modi in cui si può far crescere il rendimento della scuola. Oggi è basso. Quello delle scuole superiori non è misurato in modo significativo dalla percentuale dei diplomati. Infatti questa percentuale è alta, ma il livello di cultura e di preparazione - tranne eccezioni - è mediocre. Il rendimento delle università, misurato in termini di percentuale dei laureati sul numero degli iscritti al primo anno, in Italia . solo del 30%. Secondo alcuni questa bassa percentuale di laureati non dipende tanto da cattiva organizzazione o da scarsa abilità nell'insegnamento, ma dal fatto che arrivano all'università studenti la cui formazione precedente è stata tanto inadeguata da annullare ogni speranza di recupero e di successo. Il numero degli studenti dovrebbe essere ridotto per mezzo di severi esami di ammissione. Non credo che sia così. Infatti in Italia la popolazione degli studenti universitari è di circa un milione - cioè l'1,7 % della popolazione totale. Negli Stati Uniti, invece, con una popolazione di 250 milioni di abitanti, il numero di studenti universitari è di circa 12 milioni - cioè del 4,8 %: una proporzione quasi tre volte maggiore. Malgrado questo negli Stati Uniti si laurea quasi il 60% degli studenti che si iscrivono al primo anno. L'esame di ammissione, allora, non è la soluzione, ma è. solo una parte della soluzione. Severi esami di ammissione potranno costituire parte integrante del controllo di qualità del processo di insegnamento nel suo complesso. Serviranno a spronare chi vuole entrare all'università a prepararsi meglio. Ma sarebbe bene che il numero di studenti crescesse ancora. Potrebbe almeno raddoppiare, purchè il numero dei docenti venisse almeno triplicato o meglio quadruplicato. In una fase iniziale sarebbe difficile trovare tanti professori e assistenti. Questo, però, dipende proprio dal fatto che le università sono poco efficienti e sono poche. In Italia abbiamo 66 università per 57 milioni di abitanti, cioè una università ogni 870.000 abitanti, mentre in USA ce ne sono 3.300 per 260.000.000 di abitanti cioè una ogni 75.000 abitanti. Il rapporto . di uno a dodici. Certo alcune università americane sono di basso livello. Però, dato che sono tante, vale la legge dei grandi numeri. Abbiamo, quindi, una distribuzione a campana con moltissime università medie, poche buone e poche cattive. Ma le 200 migliori sono veramente ottime. Le buone scuole sorgono nelle società che tengono in alto conto i 151 valori della cultura. Questo non è il caso dell'Italia, ove, a parte le notevoli spese statali per una scuola di qualità poco controllata e quindi di efficacia scarsa, lo stato investe somme ingenti nella televisione che viene usata per diffondere programmini di varietà e di attualità, ma raramente programmi culturali. Basti pensare che fra le tre reti statali ogni settimana solo poche decine di minuti sono dedicate ai libri. È meno dell'1 % del totale. [E le 3 reti Mediaset sono ancora peggio]. Una televisione a forte contenuto culturale darebbe alla scuola un supporto vitale. E neanche questo basta. Per conseguire qualità globale, bisogna anche analizzare e modificare altri processi in apparenza del tutto alieni ai fini proposti. * * * E quanto di questi concetti di qualità globale presi dall'industria o dalla scuola, possiamo trasferire alla nostra vita personale? Una prima domanda che ci dobbiamo fare è: "Quanto guadagno?" E' del tutto analoga all'analisi dei documenti contabili di un'azienda. La risposta non chiarirà tutti i tuoi problemi, ma ti dirà qualche cosa. Se guadagni troppo poco forse vuol dire che non sei abbastanza bravo: non ti sei addestrato abbastanza. Forse vuol dire che non hai saputo vendere bene le tue risorse. Forse anche vuol dire che la società valuta poco quello che puoi offrire e valuta di più quello che offre gente diversa da te. Se la situazione non ti piace, fai qualcosa per cambiarla a livello personale o a livello collettivo. Se, invece, guadagni molto di più di tuoi colleghi che più o meno hanno le tue stesse capacità, non ti gloriare. Può dipendere da fattori incidentali. Cerca, allora, di individuarli onestamente e chiediti: "Se venissero a mancare, come mi troverei? Come mi devo preparare a questa eventualità?" In secondo luogo ci conviene improntare la nostra vita personale al concetto di responsabilità totale. Non ripetiamo a noi stessi che non vogliamo accollarci certe rotture di scatole che dovrebbero toccare istituzionalmente ad altri. Se ci accorgiamo che, in pratica, nessuno se ne occupa, faremo bene a darci da fare noi. Poi dovremmo controllare la qualità di tutto quello che facciamo, non solo quella di alcune attività. Dobbiamo controllare come lavoriamo, come impieghiamo il tempo libero, come trattiamo i familiari, gli estranei, gli amici e i nemici. Dobbiamo riflettere su quanto spendiamo (e come), quanto risparmiamo, quanto investiamo (e come), sui rischi contro cui ci assicuriamo. Non dobbiamo eccedere, nè essere troppo scarsi in nessuna di queste cose. Faremo bene ad analizzare tutte le nostre abitudini: fra di esse si può annidare un problema critico cronico che non abbiamo individuato e che ci danneggia giorno dopo giorno. * * 152 * Ma torniamo al paradigma industriale. Qualità globale è sinonimo di ricerca di eccellenza. Su questo argomento sono stati scritti molti libri e migliaia di articoli. Danno suggerimenti dettati dall'esperienza a manager professionisti e a consulenti nel campo. Molte di queste idee, quando le andremo a leggere, ci sembreranno ovvie: dettate dal buon senso più elementare. Non ce ne dobbiamo sorprendere, nè dobbiamo rifiutarle per questo. Infatti sia nella pratica industriale, sia nella nostra vita privata, i guai vengono prodotti proprio quando dimentichiamo il buon senso e seguiamo nostri fuggevoli intuiti sbagliati. Esaminiamo, dunque, almeno alcuni di questi suggerimenti e discutiamo perchè ci interessano. Un primo suggerimento per raggiungere l'eccellenza è quello di concentrarsi sul settore, sulle capacità e sulle specializzazioni in cui l' azienda ha più esperienza. Questa si forma in conseguenza di investimenti oculati e prolungati in risorse: uomini e strumenti. Le aziende e gli individui tendono a eccellere in qualche cosa e non in tutto. È sconsigliabile, quindi, diversificare in modo improvvisato o casuale. Sentiamo il desiderio di diversificare ogni volta che vediamo qualcun altro - un'azienda o una persona - che lucra ottimi profitti facendo un mestiere che ci sembra facile - e che è diverso dal nostro. L'idea è ragionevole. Infatti chi ha un cliente solo o lavora in un solo settore molto specialistico, scarseggia di lavoro se quel cliente riduce l'attività o se quel settore va in crisi. Se, invece, abbiamo molti clienti e lavoriamo in vari settori diversi, è poco probabile che le loro difficoltà siano contemporanee. Per un'azienda improvvisare l'entrata in un settore nuovo e sconosciuto è azzardato come per un dilettante lo è iniziare un'attività nuova da professionista. La Texas Instruments produceva con successo apparecchi di misura e piccoli calcolatori elettronici tascabili. Ha provato a fabbricare personal computer - con risultati disastrosi, tanto che ha dovuto abbandonare il settore. La Hewlett Packard, invece, è riuscita perfettamente nello stesso intento, ma ha fallito nel settore dei calcolatorini e degli orologi digitali. Ci sono numerosi esempi di successi e di insuccessi nei tentativi di passare da un'attività a un'altra del tutto diversa. È ben noto che l'Italia è piena di impiegati, ragionieri, avvocati e ingegneri che producono centinaia di migliaia di romanzi e di poesie e non riescono a stamparle altro che a proprie spese - con successo nullo. Ma ogni tanto c'è un chimico specialista in vernici, come Primo Levi, che scrive libri meravigliosi e ci sono ingegneri (come Carlo Emilio Gadda o come me) che scrivono professionalmente con un certo successo. Allora chi ha ragione? Bisogna provarci o no a diversificare le proprie attività? La risposta è che ci si può provare, ma che bisogna pagare il biglietto d' entrata. In altre parole, l'azienda che produce autobus o vagoni ferroviari e vuole cominciare a produrre carlinghe di aeroplani, deve attrezzarsi, ingaggiare tecnici qualificati che conoscano le tecnologie giuste e deve capire bene come funziona quel mercato. Chi vuole fare il 153 romanziere deve imparare a scrivere, deve addestrarsi e sottoporre i suoi scritti al giudizio di critici e di editori. Chi vuole darsi al commercio deve fare pratica, deve conoscere i prodotti che vuole vendere, deve individuare i produttori migliori, deve diventare un buon venditore e deve imparare a tenere i conti. Dunque non dobbiamo diversificare, se non siamo pronti a investire tempo, soldi e intelligenza nel prepararci alla nuova attività. È poco probabile che il successo ci arrida per puro caso. Un secondo suggerimento importante è quello di tenere al minimo il personale non produttivo - lo staff. Si tratta dei funzionari che si occupano di studi e consulenze interne, di organizzazione e di compiti di assistenza al direttore generale, ma che non hanno responsabilità gestionali dirette di una unità operativa piccola o grande. Questi ultimi, i responsabili delle decisioni, dell'andamento e del profitto di un reparto, di una divisione o di un'intera azienda, si chiamano uomini di linea. Ci sono grandi aziende industriali che impiegano qualche migliaio di persone negli uffici di presidenza o di direzione generale. Altre aziende ugualmente grandi (un caso tipico è la ABB, la Asea-Brown Boveri la società svizzera-svedese leader mondiale nel campo delle macchine elettriche per altissime tensioni e grandi potenze) impiegano, invece, solo una ventina di funzionari negli stessi uffici. Ci riescono, funzionano bene - e risparmiano somme enormi. Come trasferire questo insegnamento alla nostra vita personale? La modestia negli investimenti e nelle spese serve a noi come individui quanto a una grossa azienda. Noi, però, impieghiamo solo noi stessi: non possiamo ridurre le nostre dimensioni di cento volte come una grande azienda. Possiamo, però, riflettere ai costi e ai benefici di avere: una o più segretarie (meglio nessuna?) e un computer più o meno elaborato. Un computer connesso a Internet ci rende più produttivi, ci fa comunicare col mondo con tempi e costi minimi. Ci mette a disposizione dati e informazioni gratuite offerte in rete - ma queste sono utili solo se ci occupiamo di cose abbastanza complicate Più in generale non dobbiamo entusiasmarci troppo facilmente. Se un cliente ci affida un grossissimo contratto la cosa ci fa piacere. Però la nostra euforia non ci deve indurre a permetterci ogni lusso o stranezza. Non dobbiamo darci a spese pazze, nè investimenti azzardati. Facciamo preventivi realistici, confrontiamoli man mano con le spese effettive e ricordiamoci che il risparmio sulle spese è la prima fonte di profitto. Un terzo interessante principio è quello che viene indicato con l' espressione piuttosto banale "orientamento verso l'azione". Significa che le azioni, una volta decise, devono essere intraprese in tempi brevi Questo suggerimento è tanto ovvio che non ci dovrebbe essere nemmeno bisogno di citarlo. Invece parecchi consulenti si fanno pagare bene per ripeterlo a chi dovrebbe metterlo in pratica come una cosa di routine. Naturalmente le azioni urgenti sono più necessarie per risolvere i problemi sporadici (urgenti) di cui ho parlato nel Capitolo 17. Talora i problemi urgenti sono così grossi che non possono essere risolti da una o due persone. 154 Quando c'è bisogno di una squadra, a questa viene dato il nome di 'task forcè, espressione presa a prestito dal gergo militare americano (1). Originariamente indicava una forza di spedizione grossa o piccola - da una divisione a un plotone - incaricata di compiere una certa missione ben definita. Nell'industria si parla di una task force di progettisti che deve completare il progetto di una macchina o di un prodotto da immettere rapidamente sul mercato. Questo può diventare improvvisamente necessario per controbattere prodotti innovativi consimili che un concorrente ha tirato fuori in modo inaspettato. Una task force può essere incaricata di riorganizzare un reparto o una divisione che ha degradato le sue prestazioni. Una task force può essere incaricata anche di un compito di ricerca, come analizzare un nuovo settore di attività per decidere se sia opportuno entrarci. Le task force si occupano di questioni urgenti, di programmi d'urto. Un'azienda che funziona bene, organizza task force solo raramente: di norma le azioni necessarie vengono decise tempestivamente e messe in atto senza ritardo. Nella nostra attività personale possiamo organizzare noi stessi come una task force. Quando lo facciamo, molliamo tutto e ci concentriamo interamente su un problema nuovo che sorge. È giusto non mettere in fila dietro alle faccende di routine una opportunità nuova che si presenti all'improvviso. Lo stesso fatto che reagiamo entro ore o minuti, invece che in giorni o settimane, ci può dare un margine competitivo di vantaggio su altri o metterci comunque in una posizione migliore. Ma, come nell'industria, faremo meglio ad agire sempre senza ritardo evitando così la necessità di interventi di emergenza che disturbano la nostra attività corrente, sperabilmente ordinata. Oggi che il progresso tecnologico è incessante, è curioso che si debba ripetere un quarto principio: "È vantaggioso adottare rapidamente e sfruttare le innovazioni tecnologiche che riguardino nuovi prodotti o servizi o che riguardino nuovi processi o modi di produrre." È necessario ripeterlo perchè parecchie aziende portano ritardi notevoli nell'introdurre tecnologie nuove. Basta che ci guardiamo intorno. In Francia esistono già dal 1981 i treni ad alta velocità - in Inghilterra no: anzi la rete ferroviaria tradizionale si degrada malamente. In Italia avremo in esercizio circa 2000 km di alta velocità, ma -forse - nel 2015. E come ci riguardano personalmente le innovazioni? È difficile dare una risposta generale. Dipende da quello che facciamo come lavoro o come hobby. Dipende dai nostri interessi. Rendiamoci conto, però che anche noi probabilmente stiamo portando ritardo senza accorgercene. Quasi tutti cominciamo a capire che quello che ci hanno insegnato a scuola è insufficiente. Solo da pochi anni cominciano a insegnare nelle scuole qualche rudimento di informatica. Non basta. Anche chi è laureato in ingegneria corre continuamente il rischio di essere sorpassato dal progresso ________________________________________________ (1) "Task" significa "compito", "missione". Dunque la task force è una forza (o un gruppo) dedicata a una singola missione. 155 tecnologico. Di continuo si rendono disponibili sul mercato strumenti nuovi. Fra questi: scanner, pacchetti di software grafico che ci permettono di tracciare diagrammi o di fare disegni di ogni tipo, connessioni di computer in rete che ci consentono di sfruttare la potenza di calcolo di macchine molto più grosse di quelle che ci possiamo permettere normalmente, strumenti avanzati per impieghi speciali (ad esempio: per lavorare materiali più efficacemente che con i sistemi antichi), servizi di consulenza nei campi più disparati. Stiamo attenti a non innamorarci del nuovo per il nuovo e a non credere a tutte le promesse dei fornitori. Però, se non sappiamo nemmeno che esistono, non ce ne serviremo e rinunceremo ad avere la vita facilitata in mille modi. Non è bene continuare a fare per noi stessi servizi semplici e poco divertenti che altri fanno meglio di noi disponendo delle attrezzature giuste. Servendoci di immaginazione innovativa, possiamo trovare cose migliori da fare. Per quanto sia metodica la ricerca di innovazioni significative nell'industria, è normale che proceda per tentativi. Alcuni di questi hanno successo, molti non lo hanno. Situazioni del tutto analoghe si verificano nella gestione aziendale e nella ricerca applicata. I buoni manager, allora, fanno bene a tollerare errori e fallimenti. Se li criticano troppo duramente o manifestano in modo eccessivo le loro delusioni, possono impressionare troppo i loro collaboratori che stavano tentando di innovare. In conseguenza questi diventeranno timidi e conservatori. Non tenteranno esperimenti audaci e si limiteranno a piccoli passi dai quali non ci si potranno attendere grossi fallimenti, ma neanche grandi vittorie. In modo analogo anche noi faremo bene a manifestare indulgenza verso i nostri propri errori. Questo consiglio equivale all'altro: non ti abbattere troppo quando sei in difficoltà, neanche se le difficoltà te le sei create da solo. A questo punto vi sarete probabilmente convinti che la ricerca della qualità globale debba basarsi su lunghe serie di considerazioni del tutto banali, come già dicevo: in larga misura questo è vero. C'è da osservare, però, che queste considerazioni sembrano banali quando vengono enunciate di seguito in modo astratto, come ho fatto qui. Purtroppo vengono dimenticate in pratica proprio quando servirebbero. Le conseguenze sono negative e - dopo - tutti sono capaci di fustigare chi le ha trascurate e ha sbagliato. Per realizzare qualità globale, dunque, bisogna essere pignoli e puntigliosi. Bisogna seguire certe procedure di controllo come un credente fanatico segue i suoi riti religiosi. Lo fanno i buoni piloti prima di decollare. Recitano a voce alta la lista dei controlli da fare leggendola su fogli plastificati. E sgranano gli occhi in due per assicurarsi che ogni singolo punto sia rispettato. I piloti che non lo fanno, occasionalmente hanno brutti incidenti. Chi si avvicina alla qualità globale è stato descritto da qualcuno come un monomaniaco con una missione. Descriverlo in questi termini non 156 è lusinghiero. A nessuno piace essere considerato maniaco. Dunque rifiutiamo questi modi di esprimersi e non li ripetiamo. Solo per averli ripetuti, potremmo scoraggiare qualcuno dal perseguire la qualità globale. È più corretto descrivere il buon analista di qualità globale come un benefattore. La sua puntigliosità non è squilibrio. Manifesta solo un livello superiore di comprensione di quali siano i problemi veri. Perchè un'azienda possa garantire la qualità globale dei suoi prodotti o servizi, deve continuare a esistere. Da questa ennesima osservazione banale si deduce che il responsabile dell'azienda deve anche preoccuparsi di evitare guerre e guerre civili. Il direttore generale di un'impresa industriale a Serajevo o a Tel Aviv non ha garantito qualità globale, anche se nell'ambito dell'azienda faceva investimenti adeguati ed era un manager perfetto. Avrebbe dovuto esercitare azioni - insieme a tutti i suoi colleghi - per evitare la guerra civile, che, invece, ha distrutto il suo stabilimento e ucciso molti suoi dipendenti e clienti. Ne traiamo l'insegnamento che anche noi per avere qualche effetto sul mondo, sugli altri, sugli oggetti, su noi stessi, dobbiamo continuare a esistere. Dovrebbero rifletterci i finlandesi, francesi e austriaci che sono in testa alla tabella all'inizio del Capitolo 6. È folle la frenesia di quelli che corrono in auto a 200 all'ora per non tardare a un appuntamento importante. Aumentano molto la loro probabilità di morire in un incidente e, poi, non mancheranno solo quell'appuntamento importante: li mancheranno tutti. I morti non fanno più niente - importante o no. Oggi dobbiamo preoccuparci meno di una guerra nucleare totale. Però ancora esiste il rischio che sia scatenata per errore o guasto meccanico anche dagli USA o che poche bombe atomiche cadano in mano a gruppetti o nazioni irresponsabili e scatenino una guerra magari locale ma con distruzioni immani. Dobbiamo ricordarlo e guardarcene. Come? Questi eventi non dipendono da noi direttamente, ma indirettamente si. Dobbiamo lavorare attivamente per evitare le guerre civili. Dobbiamo lavorare anche per evitare che mezzi di distruzione di massa siano posseduti da paesi impazziti guidati da fondamentalisti o da dittatori. Per prima cosa non dobbiamo pensare, nè ripetere che sarebbe inutile lavorare attivamente con questi obiettivi e che non c'è niente da fare. Se non facciamo niente, sicuramente non avremo nessun impatto. Se pensiamo a lungo e facciamo qualcosa forse otterremo qualche buon risultato. Ma di questo ho già parlato nel Capitolo 16. La qualità globale, infine, non è una noiosa incombenza che ci tocca perseguire vivendo in mezzo a moduli, controlli, statistiche, strumenti di misura e ripetizione di giaculatorie perbenistiche. È una missione seria. Implica attenzione ai fattori umani. Nell'industria e nella vita dobbiamo essere orientati positivamente verso la gente. La gente è essenziale. Sono gli utenti finali dei nostri prodotti e dei nostri servizi. Sono i nostri collaboratori, i nostri capi, i nostri amici, i nostri parenti. Se 157 tutte queste persone non capiscono come stanno le cose, non ci ascoltano o non ci danno retta, staremo lontanissimi da livelli accettabili di qualità. Questa non sarà nemmeno parziale. (Vedi a questo proposito anche il punto 11 del Capitolo 13 e la parte finale del Capitolo 17). Quindi arriviamo ancora una volta alla conclusione già raggiunta più volte : qualunque sia il campo in cui vogliamo raggiungere la qualità globale, dovremo occuparci di campi più vasti. In ultima analisi dovremo occuparci di diffondere conoscenza ad un raggio che sia il più largo possibile. Potrà non essere evidente perchè questo sarà utile ai nostri scopi. Probabilisticamente, però, lo sarà. * * * Abbiamo visto parecchi esempi di come si applica il concetto di qualità globale alla nostra vita personale e alle nostre decisioni. Ma, più in generale, che significa tutto questo? Che specie di vita possiamo sperare di costruirci seguendo questi principi? Ho detto che dobbiamo stare sempre all'erta: con gli occhi aperti. Dobbiamo imparare di più e capire di più i meccanismi del mondo, le teorie che li descrivono e i fatti correnti. Dobbiamo impicciarci degli affari degli altri - non per pettegolezzo, non per curiosità immotivata. Dobbiamo farlo perchè siamo responsabili - anche se nessuno ci ha affidato alcun incarico. Dobbiamo immaginare quali opportunità e quali rischi si annidino nelle pieghe dell'avvenire ed essere pronti a sfruttare le prime evitando i secondi. Dobbiamo evitare più accuratamente i rischi più gravi. Il ragionamento è semplice, eppure non lo fa chi per ignoranza trascura rischi anche banali e muore. Dobbiamo innovare: cioè essere pronti ad apprezzare e usare le cose nuove che il mondo ci offre. Dobbiamo essere capaci di cambiare noi stessi. Dobbiamo insegnare agli altri, anche con l'esempio, le cose che abbiamo imparato. Fra queste sono vitali i concetti che investono le questioni generali: il mondo, la società, l'ambiente. Le conseguenze di azioni concertate a questi livelli superiori possono essere più importanti per noi personalmente di quanto non lo siano le cose che facciamo per il nostro tornaconto più diretto. Dobbiamo risparmiare tempo in ogni azione, perchè sono così numerose le cose di cui ci dobbiamo occupare. Non dobbiamo lasciare che il tempo scorra via senza che facciamo effettivamente le cose che abbiamo deciso di fare. In conclusione dovremmo comportarci come un misto di Sir Galahad (1), di una squadra di boy-scout, del Dr. Schweitzer e dei migliori _____________________________________________________________ (1) Era il migliore fra i cavalieri della Tavola Rotonda: così bravo che per definizione ogni sua azione era giusta e rappresentava un modello da imitare. Secondo certe leggende Galahad, e non Lancillotto, era predestinato a ritrovare il Graal, il vaso in cui Giuseppe d'Arimatea aveva raccolto il sangue di Cristo. 158 pianificatori ed economisti del mondo. Purtroppo alcuni di questi modelli, come Galahad e i pianificatori di successo sono in buona parte figure leggendarie. In ogni caso provare a raggiungere livelli di perfezione così elevati può sembrare un compito sovrumano, tale da indurci a una continua attività frenetica. Al confronto l'etica protestante del lavoro ci appare come una ricetta di tutto riposo! Inoltre abbiamo già visto che, per definizione, la qualità globale vera è irraggiungibile sia nell'industria, sia nella nostra vita privata. E, allora, perchè affannarci a cercare di raggiungere l'irraggiungibile? In questo modo non ci procureremo solo l' ulcera o l'infarto? Non correremo starnazzando da una all'altra delle regole che abbiamo citato senza riuscire a concentrarci? Non falliremo proprio perchè ci siamo imposti uno stile di vita troppo gravoso? Non credo che esistano questi rischi. La cosa più importante da considerare non è lo sforzo necessario per tendere alla qualità globale. Come nell'industria, i programmi per raggiungere la qualità globale sono costosi. Ma quale è l'alternativa? Non cercare di tendere verso il fine irraggiungibile della qualità globale ha un costo ancora più alto. Lo paghiamo con l'insicurezza, con le brutte sorprese, con i problemi cronici che ci accompagnano per anni, con i danni che ci causano i rischi che non avremmo dovuto correre. Lo paghiamo con l'inefficienza e con l'incapacità a competere con chi, invece, fa le cose giuste. È più affannata la vita di chi lascia andare, di chi procrastina, di chi rimanda a domani quello che potrebbe fare oggi. Poi arrivano le scadenze inevitabili e non risolvibili con rimedi tardivi. Più rilassato ed equanime è chi ha pensato in anticipo ai problemi che si possono presentare, chi si prepara avanti, chi fa più di quanto ci si attendeva da lui: più di quanto lui stesso pensava di saper fare. Solo la tendenza verso la qualità globale ci può assicurare una buona qualità della vita - nostra e altrui. 159 APPENDICE LA TEORIA MATEMATICA DELLA COOPERAZIONE Ogni azione, eseguita da un essere umano, può beneficare o danneggiare altre persone. È arduo valutare le conseguenze di un'azione. Secondo i buddisti è impossibile. Teshoo, il lama rosso di Kim, diceva: "Un'azione è come un sasso gettato in uno stagno. Non puoi prevedere dove finiranno i cerchi sull'acqua. Non puoi prevedere gli effetti ultimi di un'azione. Perciò è meglio non compiere azioni." E' un punto di vista troppo pessimista. Infatti possiamo misurare forma e dimensioni dello stagno, peso, densità e forma del sasso e velocità con cui lo lanciamo. Ora, conoscendo la fisica, possiamo sapere dove arriveranno i cerchi e che ampiezza avranno le onde che li compongono. Esprimiamo formalmente il problema delle conseguenze, buone o cattive, delle nostre azioni. Imponiamo a certe n persone una scelta fra azioni diverse e ben definite. Le conseguenze di ogni azione saranno buone, cattive o neutre per gli N membri del gruppo, incluso quello che compie l'azione. La teoria che espongo, si chiama teoria della cooperazione. Chiamiamo cooperative le azioni che hanno conseguenze buone per tutti. Invece le azioni che hanno effetto buono per chi le compie e cattivo per gli altri, le chiameremo "da disertore". Sia ora Pij la conseguenza sul membro j dell'azione compiuta dal membro i. Pii è la conseguenza dell'azione di i su se stesso. Ora scriviamo una matrice n per n, i cui elementi sono i premi (positivi o negativi) goduti (o patiti) dal membro del gruppo cui è relativa la colonna della matrice in conseguenza dell'azione compiuta dal membro cui è relativa la riga. 1 2 ... i ... j ... n 1 2 ... i ... P11 P21 .... Pi1 .... Pj1 .... Pn1 P12 P22 .... Pi2 .... Pj2 .... Pn2 ... ... .... ... .... ... .... ... P1i P2i .... Pii .... Pji .... Pni 160 .... .... .... j P1j P2j .... Pij .... Pjj .... Pnj ... .... .... .... n P1n P2n .... Pin .... Pjn .... Pnn In questo modo non abbiamo fatto un gran passo avanti. Infatti, in generale, non sappiamo che valore attribuire ai premi Pij, anche se le n azioni diverse degli n membri del gruppo sono ben definite. Proviamo, allora a semplificare il problema. Imponiamo a ogni membro del gruppo di scegliere una fra due sole alternative. Così il gruppo sarà suddiviso in due sottogruppi: D (Disertori) e C (Cooperatori). Imponiamo, poi, che tutti i membri di un sottogruppo ricevano lo stesso premio, misurato da un numero che rappresenta eventualmente una somma di denaro. Invece non imponiamo la condizione che la somma dei premi positivi sia uguale e contraria alla somma dei premi negativi. In altre parole, questo non è un gioco a somma zero. Quindi supponiamo che ci sia una banca che paga la differenza fra la somma dei premi positivi e la somma dei premi negativi (o la incassa, se la somma dei negativi supera quella dei positivi). Ogni individuo riceve un premio la cui entità dipende da quale sottogruppo ha scelto e dal numero di altri individui che hanno scelto ciascuno dei due sottogruppi. Supponiamo, infine, che ogni persona scelga il gruppo a cui vuole appartenere senza conoscere le scelte fatte dalle altre n-1 persone, ma conoscendo solo la matrice dei premi. Escludiamo, dunque, ogni collusione e ogni pagamento tra membri del gruppo dopo che il gioco è concluso. Escludiamo anche il fattore tempo: i premi vengono calcolati e pagati appena l'ultimo partecipante ha fatto la sua scelta. Poi il gioco potrà essere ripetuto - con gli stessi premi o con premi diversi. I partecipanti faranno le loro scelte che saranno libere e ispirate dalla loro esperienza precedente. Naturalmente faranno bene a meditare sulla teoria di questo tipo di situazione, che espongo qui. I due sottogruppi, dunque, sono caratterizzati semplicemente dai 4 premi elencati in questa matrice: D D w C y C x z Gli n partecipanti sono suddivisi nei due sottogruppi D (con d membri) e C (con c membri), così che n = c + d . Ogni membro del sottogruppo D riceve la somma w moltiplicata per il numero degli altri che hanno scelto il sottogruppo D, più la somma x moltiplicata per il numero dei membri del sottogruppo C. Cioè ognuno dei d membri di D riceve il premio: Pd = w (d-1) + x c (1) Ogni membro del sottogruppo C riceve la somma z moltiplicata per il numero degli altri che hanno scelto il sottogruppo C, più la somma y moltiplicata per il numero dei membri del sottogruppo D. Cioè ognuno dei c membri di C riceve il premio: 161 Pc = y d + z (c-1) (2) Un gioco in cui N = 20 e w = 1 dollaro, x = 5 dollari, y = 0 e z = 3 dollari, fu proposto da Douglas Hofstadter (l'autore di "Gödel, Escher, Bach") a 20 suoi amici scienziati. Quello che successe è riportato nel numero di maggio 1983 dello SCIENTIFIC AMERICAN. Hofstadter chiamò D il gruppo dei disertori e C il gruppo dei cooperatori. Infatti: scegliendo di appartenere al gruppo C, un partecipante faceva sì che fossero pagati 5 dollari invece di 1 ai membri di D, e 3 dollari, invece di 0, agli altri membri di C. Dunque i membri di C sono dei benefattori - e vengono chiamati "cooperatori" secondo la nomenclatura già anticipata. Invece, scegliendo di appartenere al gruppo D, un partecipante faceva sì che fosse pagato 1 dollaro invece di 5 ai membri del suo stesso gruppo e zero invece di 3 dollari ai membri di C. Dunque i membri di D danneggiano tutti gli altri partecipanti e vengono chiamati "disertori". Comunque siano ripartiti gli N partecipanti, ogni disertore riceve un premio maggiore di quello vinto da ciascun cooperatore. Dunque avvantaggia se stesso: se lui solo cambiasse gruppo, starebbe peggio. Nel gioco di Hofstadter, i disertori fanno scendere il premio medio agli n partecipanti. I cooperatori, invece, lo fanno salire. Nel gioco di Hofstadter era la rivista SCIENTIFIC AMERICAN che faceva da banca. Se i 20 scienziati avessero disertato tutti, ciascuno avrebbe ricevuto dalla banca 19 dollari (e la banca avrebbe pagato in tutto 380 dollari). Se ci fosse stato un cooperatore solo, non avrebbe avuto alcun premio (e la banca avrebbe pagato 437 dollari: 23 a ognuno dei 19 disertori). Se tutti e venti gli scienziati avessero cooperato, ognuno avrebbe ricevuto 57 dollari (e la banca avrebbe sborsato 1.140 dollari). Se ci fosse stato un solo disertore, avrebbe ricevuto 95 dollari (5 per ciascuno dei 19 cooperatori) e la banca avrebbe pagato 1.121 dollari. Hofstadter scrisse giustamente che la migliore strategia per massimizzare il premio medio dei 20 partecipanti sarebbe stata la cooperazione. Però 13 dei 20 scienziati furono di diverso avviso e disertarono. Hofstadter rimase stupito per la scarsa razionalità dei 13 disertori che incassarono solo 47 dollari a testa invece di 57 e che fecero incassare ai 7 cooperatori soltanto 18 dollari a testa. È vero che nel caso del gioco di Hofstadter la migliore strategia era la cooperazione. Come vedremo più oltre, però, questo non è sempre vero. Quando i premi : w, x, y e z assumono certi valori, la strategia da preferire è più complicata. Per discutere queste strategie, analizziamo in formule come vanno le cose. Se il gruppo di N partecipanti considera il proprio interesse collettivo contrapposto a quello della banca, vediamo di valutare l'esborso della banca. Dalle formule (1) ed (2) vediamo che questo esborso vale: 162 P = d Pd + c Pc = d (w (d-1) + x c) + c (y d + z (c-1)) (3) Se P>0 la banca esborsa denaro. Se P<0 la banca riceve denaro. La Figura 1 rappresenta la situazione del gioco di Hofstadter. Figura 1 In ascisse il diagramma riporta il numero dei cooperatori c (da 0 a N). La retta superiore è il diagramma del premio che riceve ogni disertore in funzione di c. Questa retta si interrompe prima di toccare la retta verticale corrispondente al valore c=n (in questo caso c=20), perchè se tutti cooperano, ovviamente non ci sono più disertori. Il punto estremo di questo segmento rappresenta il premio assegnato all'unico disertore, che vale 5 unità per ciascuno dei 19 cooperatori - cioè 95. La retta inferiore è il diagramma del premio che riceve ogni cooperatore in funzione di c. Taglia la retta verticale corrispondente a c=20 in un punto la cui distanza dall'asse delle ascisse rappresenta il premio di ciascuno dei 20 cooperatori, che vale 3 per 19 = 57. La scala del diagramma è fissata, quindi, dalle ordinate di uno o dell'altro dei due punti citati. Nella stessa scala la curva che unisce l'intersezione della retta dei disertori con l'asse verticale per c=0 con l'intersezione della retta dei cooperatori con l'asse verticale per c=N, è il diagramma del premio medio calcolato su tutti i membri del gruppo. È ovvio che il premio medio coincide con quello dei disertori quando tutti disertano (estremo sinistro) e coincide con quello dei cooperatori quando tutti cooperano (estremo destro). I calcoli fatti e illustrati in Figura 1 confermano che la cooperazione è la strategia migliore nel gioco di Hofstadter. Ma proviamo a cambiare di poco il premio che prendono i disertori per ogni cooperatore. Portiamolo da 5 a 6. Vediamo in Figura 2 cosa ne consegue. 163 Figura 2 Ora la cooperazione non è più la sola strategia che assicura l'esborso massimo della banca. Infatti la banca paga 1.140 sia nel caso che tutti cooperino prendendo 57 a testa (57 x 20 = 1.140), sia nel caso che cooperino 19 (prendendo 54 a testa), mentre uno solo diserta vincendo 114 (54 x 19 + 6 x 19 = 1.140). Il tornaconto del singolo disertore sarebbe maggiore che non nel caso precedente. Ma vediamo, più in generale, come possiamo calcolare vantaggi, svantaggi e strategie quando cambiano i premi che appaiono nella matrice di cooperazione. Dato che d = N-c, l'esborso della banca (equazione (3)) si può scrivere: (4) P = (w+z-x-y) c2 + (N (x+y-2 w) +w-z) c + N w (N-1) Se w = z = 0 e x = -y, allora P è zero per ogni c - e il gioco è a somma zero. Cioè: d Pd = - c Pc. In altre parole i disertori vincono esattamente quanto perdono i cooperatori. In questo caso mi conviene disertare: alla peggio la vincita è zero (se disertiamo tutti) e, se qualcuno coopera, vinco una parte della sua perdita. Il caso, però, è banale. Nel caso di Figura 2 avevamo visto che il massimo esborso della banca non si ottiene necessariamente quando tutti cooperano. Vediamo in generale come si possa determinare dal solo valore dei 4 premi w, x, y e z se l'esborso della banca ha un massimo (o un minimo) - e con quanti cooperatori. Derivando l'equazione (4) otteniamo [1]: dP/dc = P' = 2 c (w+z-x-y) + N (x+y-2 w) + w - z ______________________________________________________ [1] Chi non ricordi, o non abbia mai saputo, che cosa sono e come si calcolano le derivate, può impararlo facilmente nel mio libro ANCHE TU MATEMATICO, Garzanti, 1989. 164 L'esborso ha un massimo o un minimo quando dP/dc = 0, cioè quando: c = (z-w-N (x+y-2 w))/2(w+z-x-y) (5) Per vedere se si tratta di un massimo o di un minimo, calcoliamo la derivata seconda: P" = dP'/dc = d2P/dc2 = 2 (w+z-x-y) Se w+z < x+y , allora P" < 0 e la curva dell'esborso della banca presenta un massimo in corrispondenza del valore di c espresso dalla (5). Se w+z > x+y , allora P" > 0 e la curva dell'esborso della banca presenta un minimo in corrispondenza del valore di c espresso dalla (5). La Figura 3 rappresenta il primo caso : w+z < x+y, per : N = 20, w = 0, x = 14 , y = -4 , z = 2. Figura 3 Qui, se tutti cooperano, ciascuno vince 38 , mentre, se tutti disertano ciascuno vince 0. Se c'è un solo disertore, guadagna 266, mentre i 19 cooperatori rimasti non guadagnano più 38, ma solo 32. Se cresce ancora il numero di disertori, si passa gradatamente a premi sempre più bassi sia per i cooperatori, sia per i disertori. Però i premi per i disertori sono più alti di quelli per i cooperatori, perciò in media il gruppo ci guadagna - e l'esborso della banca aumenta, fin quando il numero disertori è basso. In questo caso l'esborso della banca è massimo quando i cooperatori sono 12. la tabella seguente riporta la situazione per numeri di cooperatori che vanno da 12 a 19. 165 No.di cooperatori Premio ai cooperat. Premio ai disertori Premio medio Esborso banca 12 10 168 61,2 1224 13 -4 182 61,1 1222 14 2 196 60,2 1204 15 8 210 58,5 1170 16 14 224 56 1120 17 18 19 20 26 32 238 252 266 52,7 48,6 43,7 1054 972 874 In questo caso, dato che x > w e z > y , è ancora vero che i cooperatori con la loro scelta causano un vantaggio agli altri membri del gruppo - sia cooperatori, sia disertori. Ad esempio nella situazione in cui ci sono 5 disertori ciascuno di loro riceve un premio di 210. Se uno di loro avesse deciso di cooperare, gli altri 4 disertori avrebbero visto crescere il loro premio a 224 e i 15 cooperatori avrebbero visto crescere il loro da 8 a 14. Per ottenere questo risultato, però, il disertore che diventa cooperatore è penalizzato così pesantemente (guadagna 14 invece di 210) che il premio medio individuale si abbassa. Questo premio (e l'esborso della banca) sono massimi quando i cooperatori sono 12 e i disertori sono 8. Qui ovviamente la strategia migliore non è la cooperazione. È quella di decidere a caso se cooperare o no, gettando un icosaedro regolare, 12 delle cui 20 facce sono marcate C, mentre 8 sono marcate D. Poi scegliamo C oppure D in accordo con quanto scritto sulla faccia su cui l'icosaedro si poggia quando si ferma. Oppure possiamo scegliere a caso un foglietto fra 20, su 12 dei quali è scritto C, mentre sugli altri 8 è scritto D. La Figura 4 rappresenta il secondo caso in cui : w+z > x+y, per: N = 20, w = - 1, x = 7 , y = - 14 , z = 2. Figura 4 Qui se tutti cooperano, ognuno ha un premio di 38, mentre se tutti disertano, ognuno ha un premio negativo (-19). Rispetto alla situazione in cui tutti disertano, se alcuni partecipanti cominciano a cooperare, sono puniti così duramente che fanno diminuire il premio medio del gruppo, anche se cominciano abbastanza presto (al disopra di 2 166 cooperatori) a produrre un beneficio per i disertori. Se il numero di cooperatori continua a crescere, la loro punizione è sempre più leggera. Al massimo la banca incassa 710 quando i cooperatori sono 6. L'esborso della banca è zero quando i cooperatori passano da 16 a 17 (è negativo con 16 e positivo con 17). In certo senso il caso che abbiamo appena visto è banale, perchè è facile convincersi che conviene cooperare. Se tutti facessero i furbi e disertassero, non vincerebbero poco, ma sarebbero penalizzati. C'è sempre, però, una motivazione a disertare: se uno solo diserta, ha un premio di 7 per ciascuno dei 19 cooperatori, cioè di 133 - mentre i cooperatori incassano 2 per 18 meno 14, cioè 22. Non vale la pena di esaminare tutti i casi possibili di strutture della matrice dei premi di cooperazione. Infatti molti di essi sono banali - a parte quelli che si identificano con casi già visti semplicemente cambiando nome ai cooperatori e ai disertori. È più interessante analizzare i casi in cui le rette relative ai premi di cooperatori e disertori hanno pendenze opposte. Un caso è rappresentato in Figura 5. Figura 5 La situazione è simmetrica: ogni cooperatore fa vincere zero agli altri cooperatori e ogni disertore fa vincere zero agli altri disertori. Invece ciascun membro di un gruppo fa vincere 6 a ciascun membro dell'altro gruppo. Senza fare calcoli, è ovvio che la strategia più conveniente è quella di suddividersi in due gruppi di uguale entità: con 10 cooperatori e 10 disertori, l'esborso della banca è massimo (1.200) e ciascuno dei 20 partecipanti vince 60. Se non possono comunicare fra loro, la strategia migliore per ciascuno è quella di buttare una moneta per aria per decidere a caso se cooperare o disertare. Così in media i due gruppi avranno appunto uguale consistenza. La situazione appena descritta rappresenta un caso reale. È quello che si presenta agli automobilisti che possano scegliere fra due strade 167 identiche, che congiungono in parallelo la città A con la città B. Conviene a tutti distribuirsi nella stessa misura fra le due strade. A partire da questa situazione, se uno - o più - automobilisti passassero dalla prima strada alla seconda, offrirebbero un beneficio agli altri che continuano a percorrere la prima, danneggiando, invece, se stessi e quelli che già percorrevano la seconda. Le cose si complicano se la capacità della prima strada improvvisamente diminuisce, per esempio a causa di un incidente. Supponiamo che su di essa sia bloccata così una corsia su tre. A questo punto converrebbe che il traffico si ripartisse per tre quinti sulla seconda strada e per due quinti sulla prima. Che dovrebbero fare gli automobilisti che si accingono a fare la loro scelta se potessero sapere istantaneamente come stanno le cose? Dovrebbero procurarsi 5 bigliettini, scrivere 1 su due di essi e 2 sugli altri tre. Poi dovrebbero scegliere un bigliettino a caso e procedere sulla prima strada se c'è scritto 1, sulla seconda se c'è scritto 2. Ma attualmente gli automobilisti non ricevono informazioni tempestive. Anche se le ricevessero, poi, non sono ancora addestrati a ragionare nei modi che abbiamo discusso. Una buona soluzione, allora, sarebbe quella di installare un cartello a messaggio variabile prima della biforcazione fra le due strade. Per 2 minuti su 5, il cartello consiglierebbe la prima strada e per i restanti 3 su 5 consiglierebbe la seconda. Le cose vanno nello stesso modo se ci occupiamo di due gruppi di pastori che possono scegliere fra due pascoli pubblici (o in proprietà comune) che siano del tutto identici. Anche qui converrebbe equiripartire fra i due campi il numero delle pecore. Se, invece, le due strade hanno capacità diverse o i due pascoli hanno dimensioni diverse, la situazione è asimmetrica. È rappresentata dalla Figura 6. Figura 6 168 L'esborso della banca è massimo quando il numero di chi fa la prima scelta è minore di quello di chi fa la seconda. La strategia ottima si calcola facilmente usando le formule e i criteri già visti. * * * In pratica succede spesso che ci troviamo in tanti a dover decidere quale sia la strategia migliore. Poi, come dicevo all'inizio di questa appendice, non conosciamo affatto i valori dei premi delle matrici di cooperazione. Anche quando il problema è semplice - come quello delle due strade o dei due pascoli - sono poche le persone capaci di seguire questi ragionamenti e, quindi, di scegliere la strategia ottima. Può essere più realistico, perciò, supporre che i partecipanti a questi giochi di cooperazione e di diserzione scelgano a caso le loro strategie. Se le cose vanno così, ha interesse determinare quali sono i valori aspettati (in certo senso i più probabili) dei premi per i cooperatori e per i disertori e dell'esborso della banca. Il valore aspettato del gioco per i disertori è dato dalla somma di tutti i prodotti fra ogni possibile numero di disertori e il loro premio, diviso per la somma di tutti i possibili numeri di disertori. Il valore aspettato del gioco per i cooperatori si calcola in modo strettamente analogo. Il valore aspettato del gioco per la banca è uguale alla somma di tutti gli N+1 (da c=0 a c=N) esborsi della banca, divisa per N+1. I valori aspettati del gioco per i cooperatori, per i disertori e per la banca sono riportati in basso a sinistra su ciascuna delle figure relative agli esempi visti. Se i partecipanti ritengono di non poter prevedere in nessun modo le decisioni degli altri giocatori, la loro strategia migliore è quella di scegliere di appartenere al gruppo per il quale il valore aspettato è maggiore. Ma, se supponiamo che gli altri partecipanti terranno conto di questo tipo di ragionamento, allora anche noi terremo conto di questo elemento nelle nostre decisioni. I ragionamenti e i calcoli che precedono possono essere automatizzati scrivendo un semplice programma di computer. Ne ho usato uno per tracciare i diagrammi delle Figure precedenti. Ne invierò copia a chi me lo chieda. * * * La teoria della cooperazione, però, è solo una esercitazione accademica se non serve ad analizzare comportamenti umani plausibilmente realistici. Potremo indagare, allora, quali situazioni (negli affari, nel commercio, nella politica, in borsa, in assemblee e comitati, nei negoziati sindacali, commerciali e internazionali) possano essere studiate col formalismo presentato qui. Potremo anche, proporre a vari gruppi di persone situazioni competitive o cooperative definite con matrici, dopo aver illustrato sia le 169 regole del gioco, sia le loro implicazioni. I loro comportamenti ci diranno qualcosa sui meccanismi interni degli esseri umani e dei gruppi. Infine sarebbe importante che questa teoria venisse insegnata nelle scuole. La parte matematica può essere semplificata in modo da renderla adatta anche agli studenti delle scuole medie. 170 171 INDICE DEI NOMI Abramo, patriarca Agostino, Santo Akiba bar Joseph Alighieri, D. Andreotti, G. Aristotele Ayrton 26 50, 54, 77 41 21 113 7, 100, 119, 131 106 Batista, F. Beccaria, C. Beer, S. Berlusconi, S. Bibbia Bonaparte, N. Boisjoly, R. Budda Bush, G. 68 6, 32 95 113 11, 26, 31, 37, 47 23 129 53 129 Calogero, G. Calvino, J. Channing, W.E. Chiang Kai Shek Cicerone, M.T. Clinton, W. Cohen, A. Cranston, A. Crick, F. 22 63 66 68 98 57 37 86 13 e segg. Darlan De Gaulle, C. Deming, W.E. Dio Durand de Gros, J.P. 69 69 63 49, 145 13 e segg. Eliezer Emor Enron Epitteto 42 28 86 98 Feynman, R. Folk, J. Ford, H. 129 84 22 172 ForzaItalia Francesco d'Assisi 68, 113 23 Gadda, C.E. Galahad, Sir Gandhi Garn, J. Gates, B. Gesù Cristo Giacobbe Giannini, G. Giosuè Giulio Cesare, C. Giuseppe d'Arimatea Gorbachov, M. 152 157 72 85 28 8, 19, 37 28 113 41 22 157 28 Hart, G. Hemingway, E. Hillel Hitler, A. Hofstadter, D Horgan, J. 57 15 8, 37 23 161 14 Iefte Ignazio di Loyola Isacco 29 52 26 Jefferson, T. Johnson Jungk, R. 66 57 79 e segg. Kant, I. Keating, C.H. Kemelman, H. Kinsey 8, 22, 47, 72, 119 86 43 57 Legree, S. Levi, P. Levinas, E. Levy Bruhl, L. Lima, S. Lincoln, A. Lot Loyola, I. 26 135, 152 40 11 113 79 28 52 Marco Aurelio Antonino 143 173 Masters McAuliffe, C. McAuliffe, S.J. McClure, S.S. McGregor, D. Mobutu, S.S. Morgan, P. Mosè Mutsuhito Nerone, imperatore 57 129 129 83 125 68 23 26 e segg., 51 106 27 Paine, T. Pannella, M. Papini, G. Perot, R. Perry, J. Pinochet, A. Platone Plinio Poujade 65 72 68 22 106 68 21 19 113 Raleigh, W. Sir Reagan, R. Roosevelt, F.D. Russell, B. Ryle, M. 64 129 69 77 135 Schweitzer, A. Seneca Shammai Sichem Skinner, B.F. Smith, A. Somoza Spinoza, B. Steffens, L. St.Germain, F. Stringa, L. Stroessner 157 27, 46, 98 43 28 24, 27 68, 133 68 6, 61 83 85 89 68 Talleyrand Talmud Taylor, F.W Teshoo Thoreau, H.D. Tilden, S. 58 8, 37 e segg., 49, 145 68 159 71 e segg. 83 174 Tommaso, d'Aquino Tsunehiko, S. Twain. M. Tweed, W. 11, 49 e segg., 98 106 61 83 Watson, T. WorldCom Wright, J. Yehoshua Yehudah ha-Nasi 28 68 85 53 41 Zadeh, L.A. 30 175