Cesare Cremonini (1550-1631)
1. Introduzione
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Marco Forlivesi
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Cesare Cremonini non scrisse opere filosofiche dedicate alla riflessione su temi politici, né
viaggiò per l’Europa sperimentando e valutando differenti regimi e costumi. Fu semplicemente, per
oltre cinquant’anni, docente di filosofia naturale nelle università di Ferrara e di Padova, acuto
interprete e sostenitore dell’epistemologia e della fisica aristoteliche. Eppure, precisamente in
questo ruolo contribuì in modo sostanziale a difendere l’Università di Padova dalle mire
egemoniche della Curia papale e della Compagnia di Gesù e a conservare lo spirito di tolleranza
religiosa e di rigore speculativo che già gli studenti del tempo riconoscevano come caratteristico di
quell’ateneo. Di questo suo impegno civile siamo ancor oggi debitori.
2. La vita
Cremonini nacque da una famiglia di pittori di origine cremonese a Cento, un paese tra Ferrara,
Modena e Bologna a quel tempo soggetto alla signoria degli Este. Il giorno della sua nascita non è
noto; è noto, invece, che fu battezzato il 22 dicembre 1550. Dopo aver studiato lettere umane,
intraprese lo studio del diritto, che però – mosso da tempo dal desiderio, come scrisse molti anni
dopo, di «veder lunge, e d’intender a dentro la cagion de le cose» (C. Cremonino, Chlorindo e
Valliero. Poema, atto 3, scena 5, 1624, p. 92) – lasciò per gli studi filosofici. Non è noto con
certezza lo Studio ove si formò. Secondo quanto egli stesso scrisse, seguì le lezioni di Federico
Pendasio (†1603) – che fu docente di filosofia naturale a Padova dal 1565 al 1571 e a Bologna dal
1571 alla morte – e fu studente a Ferrara. È più che probabile che egli si sia addottorato nello Studio
di questa città.
In Ferrara frequentò il circolo degli intellettuali di corte e, entrato nelle grazie del duca Alfonso
II d’Este (1533-1597), nel 1578 fu nominato in quello Studio docente straordinario di secondo
luogo di filosofia naturale. Vi tenne lezione dall’anno accademico 1578-79 fino al 1589-90 incluso,
in un crescendo di incarichi e fama. Dal 1581-82 fu contemporanemente docente straordinario di
primo luogo e docente ordinario di secondo luogo di filosofia naturale. Dal 1584-85 al 1586-87 fu
solamente docente ordinario di secondo luogo di filosofia naturale, ma dal 1587-88 divenne docente
ordinario di primo luogo. Nel 1588-89 gli fu assegnata anche la cattedra di “Sfera ed Euclide”, ossia
relativa al Tractatus de sphaera di Giovanni da Sacrobosco e agli Elementi di Euclide: una cattedra
non priva d’importanza, a cavallo tra matematica, astronomia e astrologia.
Nel 1590, forse anche a seguito di contrasti con altri docenti dello Studio di Ferrara, Cremonini
si trasferì allo Studio di Padova. Il 23 novembre 1590 fu nominato docente ordinario di secondo
luogo di filosofia naturale e il 27 gennaio 1591 tenne la sua prima lezione. L’ambiente dello Studio
di Padova non era più quieto di quello di Ferrara. Nel 1599 lo stesso Cremonini ebbe a dichiarare
che «i docenti dello Studio di Padova, a causa della rivalità e di altre gravi contese, con grande
frequenza si tendono tranelli e inside, e ciò con arti e modi maligni». Questo non significa che
Cremonini avesse un carattere rissoso; al contrario, era dotato di grande affabilità e fascino ed era
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capace di intrattenere relazioni eccellenti anche con pensatori assai lontani da lui sul piano
speculativo, quali Francesco Patrizi (1529-1597) e Galileo Galilei (1564-1642).
Negli ultimi mesi del 1591 Cremonini fu tra i protagonisti della battaglia della Universitas
Artistarum – ossia dei filosofi e dei medici – dello Studio di Padova contro il concorrente
Gymnasium Patavinum della Compagnia di Gesù. Con una celebre orazione tenuta a nome dello
Studio di fronte al Senato della Repubblica Veneta il 20 dicembre 1591, egli ottenne la chiusura
pressoché immediata del Ginnasio dei gesuiti. Quell’evento, collocato all’interno del quadro del
conflitto tra il papato e il partito della nobiltà veneziana anticurialista, fu l’origine di uno scontro
politico che vide Cremonini sotto processo presso il Sant’Uffizio per il resto della sua vita.
Ciononostante, dopo alcuni anni difficili, nell’anno accademico 1601-02 fu nominato docente
ordinario di primo luogo di filosofia naturale e mantenne tale incarico fino alla fine dei suoi giorni.
Nelle successive tre decadi fu protagonista di numerose polemiche: con Galilei sulla natura dei
cieli (1605); con Giorgio Raguseo sulla natura degli elementi, sul valore della storia delle
interpretazioni di Aristotele e su questioni didattiche (1613); con Alessandro Tassoni (ma attraverso
Giuseppe degli Aromatari) sul petrarchismo (1611-13); con Pompeo Caimo sul galenismo (162627). Per molti anni fu il docente di filosofia naturale più celebre d’Europa. Morì in Padova il 18
luglio 1631, quasi certamente di peste polmonare.
3. Cremonini e la scienza
Secondo una vulgata vecchia di almeno un secolo e mezzo, Cremonini fece parte di quella
schiera di seguaci di Aristotele che non solamente respinsero le scoperte galileiane, ma si
rifiutarono persino di accostare l’occhio al telescopio costruito dallo scienziato pisano, impedendo
così a se stessi di verificare direttamente la verità di quanto Galileo andava dicendo a proposito
delle montagne della Luna, delle fasi di Venere, dei satelliti di Giove e, dunque, della vera natura
dei cieli. Si tratta di una vulgata fortunatissima, che dona a Cremonini l’unica fama pubblica di cui
egli al presente goda: la fama del cattedratico miope, del nemico del vero sapere, dell’esempio per
eccellenza dell’ottusità accademica di ogni tempo.
Si tratta di una vulgata falsa. Riteniamo che essa sia nata da una lettura frettolosa di alcuni testi
coevi al supposto evento; testi che è opportuno riprendere in mano. Il 19 agosto 1610 Galilei, che si
trovava ancora a Padova ma che era ormai in procinto di trasferirsi a Firenze, scriveva a Johannes
Kepler (1571-1630) una lettera in cui, oltre a rispondere a una richiesta dello stesso Kepler, si
lamentava dell’ostilità e del silenzio con cui erano state accolte le sue osservazioni. In particolare, a
proposito dei docenti dello Studio di Padova così egli scriveva.
«Che dire dei più celebri filosofi di questo Studio i quali, colmi dell’ostinazione dell’aspide,
nonostante più di mille volte io abbia offerto loro la mia disponibilità, non hanno voluto
vedere né i pianeti, né la luna, né il cannocchiale? […] Questo genere di uomini ritiene infatti
che la filosofia <naturale> sia un libro come l’Eneide e l’Odissea e che le verità siano da
ricercare non nel mondo o nella natura, bensì (per usare le loro parole) nel confronto dei
testi.» (G. Galilei, epistola ad Johannem Keplerum, Paduae 19 Augusti 1610, in Id., Le opere,
sotto la direzione di A. Favaro, vol. 10°, 1934, lettera 379, p. 423)
In quel momento, Cremonini era già il filosofo più celebre dello Studio di Padova; è dunque
lecito chiedersi se Galileo si stesse riferendo anche a lui. Sta però di fatto che Galilei non fa nomi.
In una lettera del 6 maggio 1611 Paolo Gualdo, amico di Galilei, scrive allo stesso Galilei:
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«Abbiamo qui l’Ill.mo S.r Andrea Morosini, il quale non può patire che ’l Cremonino, mentre
V.S. è stata qui, non habbia procurato né voluto vedere queste sue osservationi, havendole io
detto ch’ella se gli era offerta di andare sino alla sua propria casa per fargliele vedere; onde le
pare che habbia torto contrariarle senza haverne fatto qualche esperienza.» (P. Gualdo, lettera
a G. Galilei, Padova 6 maggio 1611, in G. Galilei, Le opere, sotto la direzione di A. Favaro,
vol. 11°, 1934, lettera 526, p. 100)
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Il medesimo Gualdo ribadisce il punto in una nuova lettera a Galilei del 29 luglio 1611,
aggiungendo però un particolare interessante.
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«Fui uno di questi giorni dal detto S.r Cremonino, et entrando di ragionare di V.S. [ossia di
Galilei] io le dissi, così burlando: il S.r Galilei sta con trepidatione aspettando ch’esce l’opra
di V.S. [ossia di Cremonini; Gualdo qui si riferisce alla Disputatio de coelo, che sarà però
pubblicata solamente nel 1613]. Mi rispose: Non ha occasione di trepidare, perché io non
faccio mentione alcuna di queste sue osservationi. Io risposi: Basta ch’ella tiene tutto
l’opposito di quello che tiene esso. O, questo sì, disse, non volendo approvare cose di che io
non ho cognitione alcuna, né l’ho vedute. Questo è quello, dico, ch’ha dispiacciuto al S.r
Galilei, ch’ella non abbia voluto vederle. Rispose: Credo che altri che lui non l’habbia veduto;
e poi quel mirare per quegli occhiali m’imbalordiscon la testa: basta, non ne voglio saper
altro. Io risposi: V.S. iuravit in verba Magistri; e fa bene a seguitare la santa antichità. Doppo
egli proruppe: Oh quanto harrebbe fatto bene anco il S.r Galilei, non entrare in queste
girandole, e non lasciar la libertà Patavina!» (P. Gualdo, lettera a G. Galilei, Padova 29 luglio
1611, in G. Galilei, Le opere, vol. 11°, cit., lettera 564, p. 165)
Questo testo è usualmente portato come prova decisiva del fatto che Cremonini si rifiutò di
guardare attraverso il telescopio di Galilei: come si legge in esso, «questo è quello, dico [Paolo
Gualdo dice], ch’ha dispiacciuto al S.r Galilei, ch’ella [Cremonini] non abbia voluto vederlo».
Sennonché, come il lettore ha certo già inteso da sé, il senso di quanto Gualdo scrive è altro. Si
osservi la differenza tra “vedere” e “mirare”. Dice Cremonini a Gualdo: «quel mirare per quegli
occhiali m’imbalordiscon la testa». Come avrebbe potuto Cremonini dir questo se non avesse
effettivamente guardato attraverso il telescopio di Galilei? A rigore, non sappiamo se accettò di
guardare oggetti celesti, se accettò di farlo più volte – come sarebbe stato necessario per valutare le
affermazioni di Galilei – o se utilizzò lo strumento solamente per guardare oggetti sulla Terra;
nondimeno è chiaro che Cremonini, benché sessantenne, non si era rifiutato di guardare attraverso il
telescopio. Ciò che Cremonini si rifiutò di fare, dunque, non fu guardare; fu vedere. Egli, cioè, si
rifiutò di accogliere l’interpretazione che Galilei dava di ciò che quest’ultimo sosteneva di vedere.
Se, dunque, non di guardare si tratta, bensì di interpretare quanto Galilei sosteneva di vedere, la
posizione di Cremonini si fa più interessante e complessa. Non vi sono dubbi che egli nutrisse una
profonda ammirazione per Aristotele, che ne abbracciasse le tesi e che, come oggi sappiamo, la sua
visione del cosmo fosse errata. Tuttavia va anche detto che a quella data, la fine di luglio del 1611,
era ancora in vasta compagnia e che nel momento in cui diceva a Gualdo, «credo che altri che lui
[ossia Galilei] non l’habbia veduto» (ossia, intendo: credo che solamente Galilei interpreti in quel
modo ciò che sostiene di aver veduto), non era mal informato. Non minore importanza ha la natura
della prospettiva di fondo di Cremonini. Da un lato, egli riteneva che la matematica non potesse
essere utilizzata proficuamente in ambito fisico. Da questo punto di vista, la conoscenza scientifica
di cui era fautore era, almeno in parte, strutturalmente diversa da quella praticata da Galilei.
Dall’altro lato, Cremonini riteneva che far scienza consistesse nell’individuare le cause dei
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fenomeni. In quest’ottica, posto un dato fenomeno, fin quando non venga fornito un quadro
interpretativo, coerente in sé e con quanto già noto, che permetta di comprendere le cause – formale
ed efficiente – di tale fenomeno, non si possono fare correttamente affermazioni circa la natura di
quest’ultimo. Posta dunque, ad es., la comparsa di una luce puntiforme fissa nel cielo e priva di
parallasse (la stella nova del 1604), non si può affermare sulla base di questi soli dati che vi sia stato
un mutamento nei cieli al di sopra del cielo della Luna; occorre piuttosto fornire una descrizione
della natura dei cieli, coerente in sé e con le conoscenze già acquisite, capace di dar ragione della
possibilità di un mutamento siffatto. Di fronte a questa richiesta e a questo problema lo stesso
Galilei si mostrò ondeggiante, talvolta rifugiandosi nel suo compito di semplice “matematico”, non
tenuto pertanto a fornire spiegazioni circa la natura “fisica” dei fenomeni, talvolta arrischiandosi a
proporre ipotesi circa tale natura non meno problematiche di quelle proposte dagli “aristotelici”.
L’impostazione ora veduta, peraltro, fu tenuta fermamente da Cremonini in occasione di ogni
controversia di cui fu protagonista; in particolare egli la fece valere contro i medici galenisti, i quali
ritenevano di poter utilizzare i dati osservativi senza aver l’onere di collocarli nel contesto di una
dottrina filosofico-naturale complessiva.
4. Cremonini e la filosofia
Il falso storico di cui ora ci siamo occupati non costituisce l’unico ostacolo a una corretta
ricostruzione del profilo intellettuale del nostro autore. Come osservarono già i suoi contemporanei,
Cremonini pubblicò un numero limitato di testi filosofici. I suoi sforzi in ambito speculativo furono
consegnati principalmente all’oralità delle lezioni, delle quali circolarono numerose trascrizioni
manoscritte. Le trascrizioni giunte fino a noi, tuttavia, presentano problemi interpretativi non
marginali. Su alcune questioni cruciali, quale quella relativa alla natura dell’anima umana, esse
offrono tesi in parte difformi. Il fatto non deve soprendere: queste trascrizioni furono realizzate in
momenti diversi della vita di Cremonini e testimoniano il contenuto di lezioni dettate a tipi diversi
di pubblico. Cremonini teneva regolarmente lezione non solamente nel contesto dello Studio di
Padova, ma anche privatamente; in particolare, tenne per molti anni lezioni ai monaci dell’Abbazia
di Santa Giustina di Padova. Tutto questo, unito al fatto che non molte energie sono state dedicate
in tempi recenti allo studio di questo autore, ha impedito alla critica storiografica di giungere a un
quadro di sintesi solido e condiviso del suo pensiero. A ciò va aggiunto che Cremonini scrisse e
pubblicò anche opere letterarie non disprezzabili, le quali in alcuni luoghi presentano contenuti di
natura filosofica, e tuttavia appare difficile stabilire se e in quale modo questi lavori siano
utilizzabili per ricostruire il pensiero del nostro autore.
Disponiamo tuttavia di un testo prezioso: il Lecturae exordium, pronunciato da Cremonini in
occasione della sua prima lezione in Padova. Con esso, avvalendosi anche delle sue capacità
letterarie, il nostro pensatore rivolse al pubblico dei potenziali studenti – e, indirettamente, ai
maggiorenti che lo avevano voluto docente in Padova – una suggestiva exhortatio ad philosophiam
nella quale presentava sinteticamente la propria visione del mondo e della filosofia.
La sezione propriamente filosofica del testo in questione può essere vista come suddivisa in due
grandi parti. Nella prima Cremonini pone in luce il perpetuo divenire del mondo e il problema
antropologico di cui, grazie a tale divenire, l’uomo diviene consapevole. Il succedersi delle stagioni,
scrive il nostro autore, già rende evidente il perpetuo nascere e morire di ogni cosa e, in definitiva,
del mondo stesso. Tale avvicendarsi di volti della natura dovrebbe suscitare in noi stupore e
venerazione, tuttavia così non accade: l’abitudine rende insensibili agli eventi quotidiani, anche
quando sono mirabili. Il corrompersi di ogni cosa, però, non può essere ignorato altrettanto
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facilmente. Esso coinvolge terre e civiltà e suscita sgomento. Con abile mossa retorica, e con
commozione probabilmente sincera, Cremonini scrive che si può a stento riflettere senza lacrime
sulla rovina dell’antica Atene.
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«Proprio al centro del mondo un tempo fiorì la rinomatissima città di Atene, da cui naquero
un Focione, un Platone e un Alcibiade, crebbero un Aristotele, un Demetrio e un Alessandro e
infiniti altri, nei confronti dei quali siamo debitori, per giudizio unanime di tutte le epoche
successive, di tutto quanto di elevato ed eccellente vi è nella nostra vita. Chi non conosce
Atene non conosce il Sole. Ritorniamo a quei teatri, stupendi certo per il loro splendore
architettonico, ma ancor più dotati di straordinario valore per chi, o amando il riso li
osservasse riempirsi del sale della comicità, o desiderando soggetti commoventi contemplasse
i medesimi trasformarsi in luoghi di dolore in virtù dei versi della tragedia. Richiamiamo alla
memoria i templi, i palazzi, le piazze […]. La stessa Roma ha fatto proprie le leggi greche.
Ma ora siete crollate, o alte mura. Il celebre Liceo e la raffinata Accademia sono diventati
spelonche e caverne. I colli che furono abitazioni degli dei sono diventati dirupi […]. Il paese
che divinamente infondeva negli animi un sentimento di grandezza, ora ispira sconforto.» (C.
Cremoninus, Lecturae exordium, 1591; trad. it Cremonini 1998, pp. 17 e 19)
Questa parte dell’orazione, contrassegnata dalla ripetizione dell’aforisma «il mondo non è mai:
nasce e muore continuamente», si conclude con l’affermazione del dovere dell’uomo di conoscere
se stesso. L’uomo, scrive Cremonini, si scopre in mezzo alle tribolazioni dell’incostanza; ebbene, la
conoscenza di sé è l’unico strumento capace di dare all’uomo serenità.
Questa riflessione segna il passaggio alla seconda parte del discorso di Cremonini. Essa offre
un’analisi della natura dell’uomo e un tentativo di individuare la via per vivere felicemente. Anche
questa seconda parte è caratterizzata dalla ripetizione di un aforisma: «tanto si conosce se stessi,
quanto si è filosofi». Il nostro autore argomenta innanzi tutto a favore dell’utilità e necessità della
filosofia come scienza capace di stabilire il tipo di vita da condursi al fine di ottenere serenità e,
correlativamente, come scienza capace di rendere possibile tale tipo di vita. L’uomo nasce con la
capacità di vivere molteplici tipi di vita; specificamente, nasce con facoltà disponibili a ogni uso,
capaci di proiettarsi ovunque le attragga e le respinga la realtà esterna. In particolare, l’uomo nasce
con una ragione priva di ogni conoscenza, di qualsiasi tipo essa sia, e tale da essere capace di
acquisire conoscenze solamente attraverso i sensi. Questa condizione, prosegue Cremonini, è di
estremo pericolo: è infatti possibile che il senso ci rappresenti un’immagine tale che, se ci si
lasciasse attrarre da essa, si cadrebbe in un abisso di infelice miseria. Ecco perché occorre
esaminare la natura dell’anima, dei sensi – intesi anche come fonti di passioni – e della ragione, e
perché occorre determinare e conservare il loro corretto ordine. Questa consapevolezza permetterà
alla ragione di conservare il proprio ruolo di sovrana dell’anima. Come si vede, conclude Cremonini,
per fondare una vita felice occorre conoscere se stessi, e per conoscere se stessi occorre la filosofia,
la quale modella la condotta morale.
Ciò non implica che la filosofia esaurisca qui il proprio compito; al contrario, essa è utile e
necessaria anche come scienza teoretica, capace di stabilire la natura di se stessi e del mondo e di
dare, al termine di questo percorso conoscitivo, serenità. La realtà, scrive Cremonini, è costituita sia
da forme invisibili e immortali, che abitano la regione sovraceleste e che non sono soggette ad alcun
mutamento, sia da realtà mutabili, in perenne avvicendamento. L’uomo è un microcosmo: a
somiglianza del sommo Dio è costituito da una mente che permane in se stessa senza oscillazioni e
mutamenti; a somiglianza del ruotare dei cieli passa discorsivamente da un termine all’altro; a
somiglianza degli animali e delle piante sente e vegeta: a somiglianza delle sostanze composite è
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corpo e membra; a somiglianza delle sostanze elementari ha temperamento e qualità. L’uomo,
desiderando conoscere se stesso e vedendosi microcosmo, sviluppa il desiderio di conoscere anche
il cosmo, così come comprende di avere il potere di sviluppare questa conoscenza.
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«Allorché comprenderà di aver ricevuto in dono un intelletto onnipotente, che mediante una
meditazione audace – ma felicemente audace – è in grado di abbracciare l’intera articolazione
della realtà – di poter solcare mari e terre, procedere sicuro fra fulmini e tempeste, salire in
cielo, stare insieme agli dei, rifugiarsi nel seno di Dio –, nulla gli risulterà irraggiungibile,
nulla arduo, nulla inaccessibile.» (C. Cremoninus, Lecturae exordium, cit., p. 37)
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L’itinerario speculativo di Cremoni prende le mosse dalla conoscenza di sé, prosegue nella
comprensione della capacità della natura di vestirsi e spogliarsi di forme («come il mitico
camaleonte, per il quale non v’è nessun colore che esso non sappia assumere». C. Cremoninus,
Lecturae exordium, cit., p. 37), passa attraverso la comprensione del darsi di un’ininterrotta scala di
perfezioni nelle specie delle cose, e giunge infine al congiungimento pacificante e gioioso con Dio.
«Lui che non è pervenuto all’esistenza da alcun inizio temporale, che non è stato bambino né
giovane e non sarà vecchio, ma sussiste perpetuamente nella sua identità con sé, nella sua
compiutezza ed ineffabilità, vivendo una vita felicissima consistente nella contemplazione
intellettiva di se stesso, quale ci è possibile vagamente immaginare ma in nessun modo
comprendere. Qui infine, postosi sopra il proprio stato di uomo mediante quella conoscenza
alla quale avrà potuto dare avvio cominciando da se stesso, elevatosi fino a Dio e a Dio
congiuntosi mediante quella mente che di Dio è l’immagine, si acquieterà, si allieterà, gioirà.»
(C. Cremoninus, Lecturae exordium, cit., p. 39)
Il comando delfico di conoscere se stessi, conclude Cremonini, costituiva dunque un invito sia
alla retta formazione dei costumi, sia alla teoresi. Ebbene, la filosofia si occupa precisamente tanto
della vita morale che della vita teoretica; dunque, tanto si conosce se stessi quanto si è filosofi.
Colui che avrà seguito quel comando, ossia il filosofo, sarà stabile nelle tempeste della condizione
mortale.
L’orazione di Cremonini presenta numerosi aspetti degni di nota. Tra questi la scarsità di
menzioni esplicite di Aristotele, il ricorso frequente a Platone, la presenza di citazioni di Petrarca e
di Dante, e, soprattutto, la rigorosa mancanza di ogni accenno a una visione del mondo, dell’uomo o
di Dio di tipo cristiano. A proposito di quest’ultimo punto, l’orazione di Cremonini si sviluppa con
mirabile sottigliezza, evitando sia di sollevare qualsivoglia elemento di contrasto con dottrine
religiose cristiane, sia di menzionare qualsivoglia elemento di contatto. Tutto ciò che il nostro
autore dice di Dio può trovarsi anche in opere di autori pagani. Parla di Dio e di mondo senza né
affermare né negare una dipendenza del secondo dal primo. Non fornisce alcun chiarimento circa la
natura dell’operare di Dio, se non un adiaforo «illud idem est quod operatur». Allorché sostiene che
la ragione corre il grave pericolo di essere serva dei sensi, nulla dice circa le ragioni di tale pericolo,
né addita altro rimedio che la presa di coscienza della propria natura. Illustrando l’ascesa della
mente a Dio, non accenna in alcun modo alla questione del ruolo di una mediazione di natura
religiosa nel compiersi di una siffatta ascesa. Né la respinge né l’invoca; semplicemente la ignora.
Se si pone mente a quante attenzioni, dalla metà del 13° secolo in avanti, i teologi cattolici avevano
dedicato al tema “utrum praeter physicas disciplinas alia doctrina sit homini necessaria” (ovvero –
per usare le più esplicite parole di Giovanni Duns Scoto – «se sia necessario <per la salvezza
dell’uomo> che, nello stato presente, gli sia infusa soprannaturalmente una qualche dottrina
speciale, ossia una dottrina tale che egli non la possa ottenere con il lume naturale del suo intelletto».
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Ioannes Duns Scotus, Ordinatio, Prologus, pars 1, q. unica, n. 1, in Id., Opera omnia, studio et cura
Commissionis Scotisticae, 1950, p. 1), non si potrà non pensare che il silenzio del nostro autore sia
eloquente. Infine, la beatitudine di cui Cremonini parla è quella teorizzata dagli aristotelici
universitari fin dalla seconda metà del 13° secolo: il congiungimento, tramite un’ascesi speculativa,
con un Dio che è pensiero pensante se stesso.
La centralità che, nell’orazione ora considerata, il nostro autore assegna al tema dell’uomo, di ciò
che muove l’uomo a interrogarsi su di sé e di ciò che esso scopre di sé, e l’uso che egli fa di testi e
prospettive non aristotelici sollecitano una domanda. Cremonini fu ed è universalmente considerato
come uno dei grandi – e tetragoni – esponenti dell’aristotelismo sviluppatosi in ambito universitario
tra il tardo medioevo e la prima età moderna; quale significato hanno dunque, in un quadro siffatto,
questi elementi?
Si potrebbe rispondere, con Giovanni Gentile, che Cremonini si colloca in una tradizione
speculativa attenta alla questione del valore dell’uomo; una tradizione che, nata nella Firenze del
Quattrocento, giunta ad alte cime in Ficino e in Giovanni Pico, passa attraverso Bruno e giunge fino
alla prima delle orationes inaugurales di Giambattista Vico (G. Gentile, Il pensiero italiano del
Rinascimento, in Id., Opere, vol. 14°, 1968, p. 84). Oppure si potrebbe osservare, con Eugenio
Garin, che Cremonini «fu pensatore non volgare», dai vasti interessi, in cui si manifesta l’influenza
del Pico (E. Garin, Storia della filosofia italiana, 1966, pp. 558-560), e vedere in questo una vena
che fa del nostro autore, in qualche misura, un figlio del Rinascimento. Oppure si potrebbe dire,
come ha scritto Luigi Olivieri, che il testo del nostro aristotelico costituisce un’occasione «per
comprendere i modi autentici di manifestarsi della tradizione aristotelica, della filosofia delle
Università fra Cinquecento e Seicento, aldilà delle contrapposizioni astratte e meramente ripetitive
di “Umanesimo” e “Scolastica”, “Aristotelismo” e “Platonismo”». «Ciò a partire dalle fonti»,
prosegue Olivieri, «che Cremonini qui mostra, esplicitamente o implicitamente, di saper utilizzare,
e che caratterizzano subito l’aristotelismo e lo scolasticismo cremoniniani – qualora se ne voglia
parlare – come incapaci di tollerare le suddette contrapposizioni» (L. Olivieri, Introduzione a C.
Cremonini, Orazione per l’inizio dell’insegnamento padovano, in Cremonini 1998, p. 6).
Ferma restando l’acutezza di queste osservazioni, si può però aggiungere che Cremonini si rivela
autore inequivocabilmente rinascimentale innanzi tutto nella decisione di rigettare la validità degli
impieghi e delle interpretazioni medievali dei testi di Aristotele. Su questo punto sono illuminanti
alcune pagine della sua commedia satirica Le nubi, nella quale il nostro pensatore sbeffeggia
Giorgio Raguseo (professore ordinario di filosofia naturale di secondo luogo in Padova dal 1601 al
1621, e dunque diretto concorrente di Cremonini), seguace e fautore dell’uso medievale di costruire
quaestiones sui testi di Aristotele e di prescindere poi da tali testi nel dare soluzione a esse.
«Probo [un fittizio allievo di Raguseo]: […] Aristotele è un huomo ch’ha inteso molto, e dopo
di lui son huomeni da molto i suoi espositori [cioè gli interpreti antichi]. Questi han formato
una filosofia ch’è buona, e ferma, e bella. Ma sopra tutto quel che questi han detto son rimasti
gran dubbi, non saputi da essi, benché sorgan da’ lor detti; di questi i successori han fatto
scielta e fatte questioni, separate dal testo, ne le quali oltre la vera e sana intelligenza che s’ha
del testo, s’han mill’altre cose, gratiose a saper per lor medesime. Carino [cioè Cremonini]:
Vedi, povero me, ch’io mi credevo che il più di queste tanto da te magnificate questioni non
foss’altro che invogli, e fosser morte dal non haver in fronte le materie vedute, o se vedute,
non vedute se non così a barlume, e havea udito dire che ’l testo d’Aristotele è la scusa, e chi
l’intende ben tronca e recide la multiplicità di queste ciance. Probo: Ciancie? Che ciancie? Vi
sono argomenti che, mi dice il Maestro [cioè Raguseo], se venisse Aristotele non saprebbe
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disciorli.» (C. Cremonini, Le nubi, atto 2°, scena 4ª, in U. Montanari, L’opera letteraria di
Cesare Cremonini, in Cesare Cremonini, 1990, pp. 171-172)
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«Filomene [ossia il buon insegnante, in opposizione a Raguseo e ai suoi allievi]: […] Chi sa
di queste dispute che sia? Io per me vuò più tosto silentio pitagorico che disputa scholastica,
ove è posto per meta il convincer altrui; ma può ben esser che due di parole insieme
contendenti, un vinto un vincitor, sian entrambi parimente delle cose ignoranti.» (C.
Cremonini, Le nubi, atto 5°, scena 8ª, cit., p. 221)
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Nel sostenere la tesi secondo la quale i testi di Aristotele vanno interpretati tramite il confronto
con altri testi di Aristotele, Cremonini incarnò una forma mentis schiettamente rinascimentale. Per
la medesima ragione tuttavia, sebbene non per quest’unica ragione, si trovò – con ogni probabilità –
a esser tra coloro che Galilei accusò di ritenere «che le verità siano da ricercare non nel mondo o
nella natura, bensì […] nel confronto dei testi» (G. Galilei, epistola ad Johannem Keplerum, cit., p.
423).
5. Cremonini maestro e artefice di libertà civile
Molto altro, in verità, dovrebbe essere detto a proposito della logica, dell’epistemologia e della
fisica cremoniniane; è però necessario esaminare ora gli aspetti propriamente civili del pensiero e
dell’azione del nostro autore. La questione più celebre nella quale fu coinvolto, e della quale fu
importante protagonista, è quella relativa alla chiusura del Gymnasium Patavinum della Compagnia
di Gesù. Negli ultimi decenni del Cinquecento la Curia papale e i gesuiti svilupparono un preciso
progetto politico-culturale di “riconquista” del controllo della società e degli stati europei. Questo
progetto era basato sulla messa in opera di un insieme di elementi concatenati: tra essi, in
particolare, l’intervento diretto della Curia romana in ambito politico (sia sul piano esterno,
attraverso la creazione di un sistema di alleanze, in particolare con la monarchia spagnola, sia sul
piano interno, attraverso l’affermazione di diritti giurisdizionali) e l’acquisizione del controllo delle
istituzioni educative e della formazione delle classi dirigenti. Di questo disegno faceva parte anche
la fondazione e lo sviluppo – per quanto dettati da vicende in parte casuali – del Ginnasio di Padova
della Compagnia di Gesù. Grazie all’effetto trainante delle scuole gesuitiche di grammatica e
retorica, e alla struttura a collegio di tale istituzione, nella seconda metà degli anni Ottanta del
Cinquecento i corsi di filosofia tenuti dai gesuiti in questa sede vennero seguiti da un numero
crescente di studenti laici, tra i quali molti rampolli di famiglie nobili veneziane e padovane di
primo rango. Lo scopo dei gesuiti era ben definito: fornire ai giovani nobili veneziani, e quindi alla
futura classe dirigente della Repubblica, una formazione dottrinalmente conforme ai dettami del
cattolicesimo contro-riformista e operativamente finalizzata a creare soggetti obbedienti alle
direttive della Curia romana. Il fatto che il Collegio avesse sede nella medesima città in cui aveva
sede un celebre Studio pubblico era considerato un elemento tatticamente vantaggioso, tuttavia
nelle intenzioni dei gesuiti lo Studio pubblico avrebbe dovuto, nel lungo periodo, essere svuotato di
importanza e trasformato in una costellazione di collegi controllati dai diversi ordini religiosi.
Conseguentemente, la presenza di studenti protestanti – che ancora caratterizzava Padova nella
seconda metà del Cinquecento – avrebbe dovuto cessare e Padova avrebbe dovuto divenire un polo
di attrazione per la nobiltà cattolica contro-riformistica transalpina.
In questo processo, la Compagnia di Gesù commise un errore tattico: tentò di conferire la laurea
agli studenti del proprio collegio e di farlo sulla base di privilegi pontifici. Precisamente a causa di
tale fatto la Universitas Artistarum patavina ruppe ogni indugio, incaricando infine Cremonini di
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presentare una supplica al Senato della Repubblica; precisamente su tale fatto il neo-docente di
filosofia naturale richiamò diplomaticamente l’attenzione nell’orazione che tenne di fronte al
Senato il 20 dicembre 1591: i gesuiti, rilevò Cremonini, tenevano senza alcun permesso lezioni
pubbliche su materie insegnate nello Studio di Padova e conferivano lauree sulla base di privilegi
non concessi dalla Repubblica Veneta. Il nostro autore ripeté più volte questa considerazione nel
corso dell’orazione ma da essa, con acutezza, non trasse motivo per alcuna richiesta. Piuttosto, egli
sostenne che il Ginnasio dei gesuiti danneggiava lo Studio pubblico diffamandolo, sottraendo a esso
allievi e creando occasione di scontri tra gli studenti e specificamente sulla base di questi rilievi
chiese al Senato di proibire ai gesuiti di tenere in quella sede lezioni aperte al pubblico. L’orazione
ottenne l’effetto sperato: il 23 dicembre, dopo un’accesa discussione e un voto a stretta
maggioranza, il Senato ingiunse ai gesuiti di cessare le lezioni.
Si possono nutrire pochi dubbi sul fatto che l’operato di Cremonini in occasione dello affaire del
Ginnasio gesuitico di Padova costituisca la ragione principale della successiva e più che trentennale
messa in stato di accusa del nostro autore da parte del Sant’Uffizio. Fin dai giorni immediatamente
seguenti il voto del Senato veneto, negli scritti dei gesuiti egli divenne il «mercenario filosofo, tolto
dal fango e dalle cannuccie del pantano ferrarese, ingeritosi Iddio sa come, anzi rendutosi per pochi
fiorini a servire barbari concetti e piggior lingua il Bò di Padoa» (G.D. Bonaccursi, Risposta al
Cremonino per li Padri Gesuiti, in Sangalli 2000, p. 121), che ha meritato che «da tutto il cristiano
mondo debba esser esterminato» (P. Comitoli, Risposta apologetica all’invettiva del Cremonino
contra i Padri Reverendi del Giesù per occasione del loro Studio in Padova, in Sangalli 2000, p.
110). Da almeno il 1598 in avanti Cremonini fu oggetto di costanti “attenzioni”, e persino di una
condanna – nella forma della messa all’Indice della sua Disputatio de coelo –, da parte
dell’Inquisizione romana. Le accuse più gravi rivolte contro Cremonini furono quelle di sostenere la
mortalità dell’anima umana e l’eternità dei cieli. Queste accuse, unitamente ad alcune importanti
testimonianze coeve, hanno generato una lunga discussione circa il reale pensiero di Cremonini su
quei temi. Gli studi condotti negli ultimi tre decenni hanno mostrato che è probabile che egli
ritenesse che la filosofia non abbia la capacità di dimostrare apoditticamente l’immortalità
dell’anima e l’esser creato del mondo; nondimeno, non meno degna di nota è la natura politica
dell’attacco portato dal Sant’Uffizio contro Cremonini e della difesa di quest’ultimo. A partire
almeno dal 1601, il nostro autore appare aver legato le proprie sorti a quelle del partito dei senatori
veneti anticurialisti. La Curia romana – e i gesuiti – intendevano colpirlo non semplicemente come
pensatore, ma soprattutto come esponente, sul piano culturale, dei circoli anticurialisti: riuscire a
infliggergli una condanna, in effetti, avrebbe avuto un effetto dirompente sulla tenuta di quel fronte.
Questo spiega perché il Sant’Uffizio respinse alcuni dei tentativi di compromesso offerti dallo
stesso Cremonini e spiega anche perché Cremonini si rifiutò tenacemente di accettare di
“emendare” l’opera, la Disputatio de coelo, su cui si erano infine concentrate le attenzioni e le
richieste dell’Inquisizione romana. I documenti superstiti – ad esempio le dichiarazioni che egli rese
nel 1619 all’inquisitore di Padova – sono inequivocabili.
«Quanto al mutar il mio modo di dire, non so come poter io promettere di trasformar me
stesso. Chi ha un modo, chi un’altro. Non posso ne anco retrattare espositioni d’Aristotele,
poiché l’intendo così, e son pagato per dichiararlo come l’intendo, e nol facendo sarei
obligato alla restituzione della mercede; così anco non posso retrattare considerationi haute
circa li interpreti, e refutationi ch’habia fatte delle loro esplicationi: ci va l’honor mio,
l’interesse della cathedra, e per tanto del Prencipe.» (C. Cremonini, Risposta all’Inquisitor di
Padova, [1619], in Poppi 1993, p. 105)
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Si noti l’ultima riga della dichiarazione: la posta politica in gioco è chiara a tutti; le questioni
relative alla natura dell’anima e dei cieli sono ormai divenute piccola parte di un quadro più vasto.
Tutto questo non implica che le tematiche dottrinali non svolgano un ruolo nelle vicende ora in
esame. Tutt’al contrario, sono di grande rilevanza; esse, però, non sono ristrette all’ambito della
filosofia naturale e ci conducono direttamente al cuore dell’impegno civile di Cremonini. Egli fu
per decenni patrono della Natio Germanica artistarum dello Studio di Padova, ossia il primo
referente per ogni questione disciplinare e politica dell’organizzazione degli studenti ultramontani
in filosofia e medicina; una natio, si noti, nella quale erano presenti molti studenti protestanti. Egli
promosse attivamente l’istituzione, avvenuta nel 1616, del Collegio Veneto artista, ossia di un
organo che permettesse agli studenti protestanti di addottorarsi in Padova senza essere soggetti
all’obbligo della professione di fede cattolica. Non stupisce vedere i senatori veneti filopapali
accomunare nei loro attacchi Cremonini e la Natio Germanica. Caso esemplare è quello relativo
alla fortuna in Padova di Pompeo Caimo (1568-1631), già medico in Roma del card. Alessandro
Peretti e docente, per interessamento di quest’ultimo, alla Sapienza. In tale circostanza, tra il 1626 e
il 1629, i senatori veneti filopapali, allo scopo di infliggere una sconfitta a Cremonini e alla Natio
Germanica, dapprima accolsero la venale richiesta dello stesso Caimo, che nulla sapeva di anatomia,
di essere nominato docente anche di tale materia, e a seguito delle crescenti proteste degli studenti,
in particolare ultramontani, nominarono Caimo – il filopapale Caimo – addirittura alla carica di
presidente del Collegio Veneto. Per due anni accademici gli studenti che vollero seguire lezioni di
anatomia di buona qualità furono costretti a lasciare Padova. Quando, nel 1629, fra il tripudio degli
studenti transalpini Cremonini fu finalmente nominato presidente del Collegio Veneto ed ebbe
luogo la prima laurea sotto la sua presidenza, la Natio Germanica artista offrì al suo patrono un
ritratto inciso, che distribuì insieme a carmi gratulatori.
Questi eventi portano alla luce il nucleo più stabile e storiograficamente certo del pensiero e
dell’impegno civile di Cremonini. Se in trent’anni d’indagini il Sant’Uffizio non riuscì a provare
che Cremonini non era un “buon cristiano”, ben difficilmente vi potranno riuscire gli storici,
ammesso e non concesso che abbia senso dedicarsi a un tema siffatto. È invece certo e storicamente
significativo che Cremonini non fu un cristiano filopapale. Fin dal 1591 egli aveva ben compreso
quale fosse l’obiettivo dei gesuiti, della Curia papale e dei circoli curialisti in genere: il
dispiegamento di un progetto di egemonia culturale, l’instaurazione di un regime religioso dispotico
e intollerante.
«Vennero questi Padri poveri in umilissima sembianza, incominciarono ad insegnare la
grammatica a’ fanciulli e così a poco a poco, così pian piano, io non so come accumulando
ricchezze, di mano in mano insinuandosi, sono pervenuti ad insegnar tutte le scienze, con
intenzione, cred’io, di farsi in Padova i monarchi di sapere, purché anco si contentino di così
poco, e trionfare dello Studio della Repubblica venetiana, distruggendolo» (C. Cremonini,
Orazione contro i gesuiti a favore dello studio di Padova, in Cremonini 1998, p. 68).
Contro questo progetto di dispotismo politico-religioso Cremonini si battè per quarant’anni. È
questo, a ben vedere, il “gioco dissimulato” di cui parlò Gabriel Naudé (1600-1653): «Cremonini
cachoit finement son jeu en Italie : nihil habebat pietatis et tamen pius haberi volebat. Une de ses
maximes étoit : intus ut libet, foris ut moris est» (Naudaeana et Patiniana. Ou singularitez
remarquables, prises des conversations de mess. Naudé et Patin, 17032, pp. 56-57). Naudé, tuttavia,
deformò il significato dell’operato di Cremonini, piegandolo ai propri intenti e alle proprie
prospettive esplicitamente libertine. A prescindere da ciò che Cremonini pensava circa i dogmi della
religione cattolica e la loro dimostrabilità filosofica, e su cui ben difficilmente gli storici potranno
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dire qualcosa con sicurezza, ciò che è certo è che egli non intese essere maestro e fautore di
irreligiosità; intese essere maestro e fautore di tolleranza. Ancora nel 1637 la Natio Germanica
artista ottenne che uno stemma in pietra recante le armi araldiche di Cremonini fosse collocato, non
a caso, sopra la porta d’ingresso del Collegio Veneto. Possiamo a buon diritto vedere in esso un
simbolo di quel motto, «melius habere lentem religionem quam ferventem», che tanti studenti
appresero in quei decenni del Seicento a Padova. È di questa tolleranza, che è libertà civile, che
Cremonini parla nell’esclamazione, quasi profetica, che chiude la già ricordata lettera del 1611 di
Gualdo a Galilei: «Oh quanto harrebbe fatto bene anco il S.r Galilei, non entrare in queste girandole,
e non lasciar la libertà Patavina!». Una libertà di cui il nostro autore scrive numerose volte, anche
con trasporto poetico (e qualche enfasi retorica).
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«O bella libertà più pretiosa de l’oro, amabil sola più del cumulo intero dei beni che dispensa
fortuna, e sola degna d’esser posta in bilancia con l’aure onde si vive. Così Bruto e Catone
disdegnar, te perduta, d’esser romani; l’errar teco nei boschi e per le rupi appresso l’alme
grandi è di più pregio che lo star senza te ne gran palagi. Felicissime adunque si reputin le
genti a cui è dato, longe da quell’asprezza ch’ha seco il nudo cielo del silvestre deserto, gentil
soggiorno in libera cittade; e questa, che qui regge veneta libertà, la scorga il fato lieta, che
ben lo merta, a par co’ Sole. Qui, purché non presuma disordinatamente, quanto ti piace,
altrettanto ti lice. Qui, a chiunque è nato partecipe d’humana società, vien permesso il ricetto,
e n’è ciascun ugualmente protetto d’incorrotta giustitia. Io ci venni d’altronde, e n’ho fatto
canuto il capo e ’l mento; m’è stato dolce albergo e soave ricetto.» (C. Cremonini, Le nubi,
atto 3°, scena 5ª, cit., pp. 184-185).
Per uno di quegli scherzi che fa la storia, tra i primi fautori della nuova scienza galileiana vi
furono intellettuali di estrazione nobiliare filopapale, come il Sagredo, o addirittura filogesuitici,
come il Gualdo. Fu questa, tra nuova scienza e Curia romana, un’alleanza di breve durata, tuttavia
essa fece in tempo a proiettare su Cremonini non solamente l’ombra dell’eresia, ma anche quella
della stupidità. L’indagine storica ha invece messo in luce che egli – benché meno geniale del suo
collega, amico e (sul piano “scientifico”) avversario Galilei – fu un pensatore acuto e di profonda
umanità. Una figura singolarmente prossima, per alcuni importanti aspetti, a quella del suo
contemporaneo Paolo Sarpi e che per questo necessiterebbe, per essere correttamente intesa, di
strumenti interpretativi raffinati e di studi approfonditi quali quelli messi in campo per la
comprensione del pensiero del servita veneziano. Diremo dunque, per il momento, semplicemente
che Cremonini fu un intelligente docente universitario, che si servì del proprio ruolo per difendere e
procurare spazi di libertà civile oltre che per sé, anche per i propri studenti e – a ben vedere – per
tutti.
6. Opere
Numerosi testi manoscritti, testimonianza dell’insegnamento di Cremonini, sono tutt’ora
conservati in varie biblioteche europee. Per un elenco e una descrizione di questi testi, cfr. Cesare
Cremonini, 2000, 2° vol., pp. 33-452. Alcuni testi manoscritti sono stati pubblicati all’interno di
studi recenti. Se ne può leggere l’elenco, nella forma di note di edizione, in M. MAGLIANI, Le opere
a stampa di Cesare Cremonini, in Cesare Cremonini, 2000, 2° vol., pp. 9-30.
C. CREMONINUS, Lecturae exordium habitum Patavii VI. Kalend. Februar. M.D.XCI. quo is
primum tempore philosophiae interpres ordinarius eo est profectus, Ferrariae 1591 (ristampa più
recente e trad. it. in Cremonini 1998, pp. 3-51).
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C. CREMONINO, Oratione in nome della Università di Padova, in Decret de la Seigneurie de
Venise contre les Jesuites, Paris 1595 (ristampa più recente in Cremonini 1998, pp. 59-69).
C. CREMONINUS, Explanatio prooemii librorum Aristotelis De physico auditu. Cum
introductione ad naturalem Arist. philosophiam, continente Tractatum de paedia, descriptionemque
universae Aristoteliae philosophiae. Quibus adiuncta est praefatio in libros De physico auditu,
Patavii 1596 (trad. it. del solo Tractatus de paedia in Fiorentino 1997).
C. CREMONINUS, De formis quatuor corporum simplicium, quae vocantur elementa, disputatio,
Venetiis 1605.
C. CREMONINUS, Disputatio de coelo in tres partes divisa, de natura coeli, de motu coeli, de
motoribus coeli abstractis. Adiecta est apologia dictorum Aristotelis de Via Lactea <et> de facie in
orbe Lunae, Venetiis 1613.
C. CREMONINUS, Apologia dictorum Aristotelis de quinta caeli substantia adversus Xenarcum,
Ioannem Grammaticum, et alios, Venetiis 1616.
C. CREMONINUS, Apologia dictorum Aristotelis de calido innato. Adversus Galenum, Venetiis
1626.
C. CREMONINUS, Apologia dictorum Aristotelis de origine, et principatu membrorum adversus
Galenum, Venetiis 1627.
C. CREMONINUS, De calido innato, et semine, pro Aristotele adversus Galenum, Lugduni
Batavorum 1634.
C. CREMONINUS, Tractatus tres. Primus est de sensibus externis. Secundus de sensibus internis.
Tertius de facultate appetitiva, revidit T. Lancetta, Venetiis 1644.
C. CREMONINO, Nel primo delle sue Meteori a difesa per Aristotile contro li astrologhi
giudiciarij, in Raccolta medica, et astrologica. Divisa poi in discorsi, [a cura di T. Lancetta],
Venetia 1645.
C. CREMONINUS, Dialectica, [ed.] T. Lancetta, Venetiis 1663.
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versione Graeca anonyma Theophilo Corydalleo fortasse adiudicanda, ed. A. Antonioni,
«Miscellanea Marciana», 1992-1994, 7-9, pp. 9-101.
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