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ATTI CONVEGNO FEDE 15-17 novembre 2013 a cura di fr. Alessandro Salucci, op Assistente ecclesiastico generale Agesci AGESCI AGESCI ATTI CONVEGNO F EDE “Ma voi, chi dite che io sia?” (Lc 9,20) 15-17 novembre 2013 a cura di fr. Alessandro Salucci, op Assistente ecclesiastico generale Agesci Incaricata del Comitato editoriale Laura Galimberti Progetto grafico e impaginazione Luigi Marchitelli In Redazione Manuela De Cave Consulenza editoriale Stefania Cesaretti Realizzato per l’Agesci da: Fiordaliso Società Cooperativa corso Vittorio Emanuele II, 337 00186 Roma Indice Introduzione: fr. Alessandro Salucci, op Assistente ecclesiastico generale Agesci 5 Lettera di invito al Convegno Fede 2013 34 Saluto iniziale: Presidenti del Comitato nazionale e Assistente generale 36 Programma e luoghi 39 In preghiera: venerdì 15 novembre (sera) 40 - CATANIA: Sulla tua parola getterò le reti... (Lc 5, 1-11) 41 - LORETO: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1, 14) 44 - TRENTO: “Ma voi, chi dite che io sia?” (Lc 9, 20) 46 La storia dell’educazione alla fede in Agesci: Sabato 16 novembre (mattino) 52 - CATANIA: Il Progetto Unitario di Catechesi (PUC) – Presentazione di Paola Dal Toso 53 Il Sentiero Fede – Presentazione di Evelina Nicotra 57 I Campi Bibbia – Presentazione di Maria Teresa Spagnoletti 60 Nella tenda di Abramo – Presentazione di Maria Teresa Spagnoletti 65 Narrare l’esperienza di fede – Sintesi del percorso 68 - LORETO: Il Progetto Unitario di Catechesi (PUC) – Presentazione di Maurizio Millo 76 Il Sentiero Fede – Presentazione di Franco Forte 81 I Campi Bibbia – Presentazione di Agnese Cini Tassinaro 88 Nella tenda di Abramo – Presentazione di Stefano Pinna 92 Narrare l’esperienza di fede – Sintesi del percorso 95 - TRENTO: Il Progetto Unitario di Catechesi (PUC) – Presentazione di Isora Mantovani 103 Il Sentiero Fede – Presentazione di don Giuseppe Coha 104 I Campi Bibbia – Presentazione di don Rinaldo Fabris 108 Nella tenda di Abramo – Presentazione di Lorenzo Marzona 111 Narrare l’esperienza di fede – Sintesi del percorso 114 Le relazioni degli esperti: Sabato 16 novembre (pomeriggio) 122 - CATANIA: prof. Giuseppe Savagnone – L’educazione alla fede di fronte agli scenari della post-modernità 123 prof. Giuseppe don Ruggieri - Educare alla fede 132 Il dibattito seguito alle due relazioni 143 - LORETO: prof. Vito don Mignozzi 149 prof. Mauro Magatti – La fede nel nostro tempo 161 Il dibattito seguito alle due relazioni 165 - TRENTO: prof. Stefano Martelli – Scautismo e videosocializzazione 2.0 171 prof. Giacomo mons. Canobbio – Educare alla fede nel tempo presente 192 Il dibattito seguito alle due relazioni 201 I gruppi di lavoro: Domenica 17 novembre (mattino) 205 Echi dai lavori di gruppo: priorità e azioni – di Giorgia Caleari 205 Interventi di chiusura - CATANIA: Matteo Spanò – Presidente del Comitato nazionale 210 - LORETO: fr. Alessandro Salucci, op – Assistente ecclesiastico generale 212 - TRENTO: Marilina Laforgia – Presidentessa del Comitato nazionale 217 Introduzione 1. Ecco io faccio nuove tutte le cose!” (Ap 21,5) Con queste parole adagiate sulla bocca di «colui che sedeva sul trono», l’autore dell’Apocalisse richiama all’uditore le dinamiche della fede terrena e il giungere ormai del loro compimento alla fine della storia. Con esse si realizza in via definitiva la promessa fatta al Patriarca Abramo di divenire il padre di una grande nazione, di essere “benedetto” da Dio e di considerare per suo tramite benedetti i suoi discendenti nella fede (Gen 12, 2-3). Parole che riverberano sulla Terra l’annuncio della novità che tutti attende al seguito del Giudizio finale. Sconfitto definitivamente Satana, gettato nello stagno di fuoco e zolfo dove lo attendono la Bestia e il falso Profeta, giunge finalmente dal cielo una voce possente, un suono mai sentito da orecchie umane, che con letizia annuncia: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno i suoi popoli ed Egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte, né lutto, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21, 3-4). San Paolo, quando è ormai incatenato ai ceppi del carcere Mamertino a Roma e sa per certo che la sentenza di morte a suo carico sta per compiersi, è il miglior testimone, in una sua lettera al caro Timoteo, della fede in questa verità. Paolo vi certifica, come recita il titolo di un bel libro del regista Ermanno Olmi che un’amica che mi è cara ha voluto regalarmi, che L’Apocalisse è un lieto fine (Rizzoli, 2013). Dice, infatti, l’Apostolo delle genti: «Sto per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione (2 Tm 4, 6-8). È l’ultimo grido di un giusto che dopo essersi fatto «tutto a tutti» in nome di Cristo, è ormai sicuro che all’accadere della Parusia sarà Cristo stesso che si farà tutto a lui. È in questo senso che l’Apocalisse suona come l’ultimo e definitivo annuncio di speranza che la Sacra Scrittura proclama a tutte le I NTRODUZIONE - 5 genti. Essa è la conferma definitiva e sigillata che alla fine del nostro viaggio terreno, dopo che avremo combattuto la buona battaglia della vita e ci saremo conservati fedeli nell’amore di Dio, ci attende l’incontro intimo con Colui che tutto può. È la certezza che alla fine dei tempi ci sarà ad attenderci un Dio che non ha mai desiderato essere onorato da olocausti e altre forme di sacrifici (Ger 6, 20; Am 5,22), ma che ci ricorderà di essere il Dio che si è si inchinato su di noi per tergere le nostre lacrime. Di un Dio che è restato fedele alle sue promesse realizzando spazi nuovi e tempi nuovi (Ap 21,1), dove l’armonia sarà sovrana e niente che abbia l’aspetto del male turberà il cuore dell’uomo. Questo e non altro deve essere il fine dell’annuncio del vangelo, la proclamazione della buona notizia. Neanche cinquanta anni fa, la Chiesa riunita in Concilio ha sentito il bisogno di ribadire all’umanità ancora una volta un tale afflato di salvezza. Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes si recita infatti che la Chiesa: «ha ricevuto la missione di manifestare il mistero di Dio» (n. 41) e che questa missione si attuerà ogni volta che essa saprà farsi carico delle «gioie e [del]le speranze, [del]le tristezze e [del]le angosce degli uomini, soprattutto dei poveri e di tutti coloro che soffrono» (Proemio, n. 1). Questo puntuale richiamo ai poveri non va minimizzato né idealizzato, considerato che costituisce una delle chiavi portanti di tutta l’assise conciliare, anche se è quella che è stata meno valorizzata. Ricordiamo piuttosto che san Francesco di Sales commentando la prima beatitudine di Matteo annotava che egli avrebbe tradotto volentieri il passo: «poveri in spirito», con quello più attinente di «mendicanti di Dio» (in Teotimo). Quanta arguzia spirituale in questa ardita iniziativa di colui che fu vescovo di Ginevra. Anche fossimo il ricco Epulone di cui parla il vangelo, dovremo sempre essere dei poveri, dei continui cercatori di Dio, che, non dimentichiamolo, è un Dio nascosto (il Deus absconditus di cui parla Pascal nei Pensieri (366 o 242). Quando ormai più di cento anni fa, in Belgio, il padre Jacques Sevin ebbe l’intuizione di coniugare la metodologia scout di Robert Baden-Powell, che proprio allora stava compiendo con successo i suoi primi passi, con i dettami della proposta evangelica, anch’egli aveva ben presente una categoria privilegiata di “poveri” nel senso di Francesco di Sales: le giovani generazioni. In effetti chi con questi ragazzi/e vive quotidianamente, chi si sforza di ascoltarli e ne condivide da fratello maggiore i fardelli, chi ha il coraggio di confrontarsi con loro in tutta onestà senza le maschere dell’ipocrisia, mantenendo ben saldi nelle mani i valori di cui è testimone, sa bene che essi sono veramente degli assetati di Dio. Che sono degli infaticabili cercatori di Dio e che anche il più ateo fra di loro è evi6 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” dente che non vuole affatto esprimere un teorico rifiuto a priori dell’Altissimo, ma semmai marcare la distanza da una certa idea falsata di Dio, ridotto troppo spesso a un ricettario di morale da applicare acriticamente. Dal canto suo lo scautismo cattolico, là dove è andato a impiantarsi, Italia compresa, ha iniziato a servire la Chiesa contribuendo con questa sua originalità, che oggi è più profetica di ieri. Perché oggi viviamo in un contesto sociale in cui l’adulto ha abdicato alla sua funzione educativa, vittima tragica della sindrome di Peter Pan, mentre lo scautismo cattolico continua a formare degli educatori che danno attuazione e senso alla verticalità educativa adulto-ragazzo, che vogliono vivere il loro essere adulti sia come testimoni del vivere civile che come credenti in Gesù Cristo, e che sanno inginocchiarsi con umile rispetto di fronte alle nuove generazioni. Nei suoi quasi quaranta anni di vita l’Agesci non ha mai smesso di sentirsi parte viva di questo mandato. E lo ha fatto con umiltà e creatività, nella piena coscienza che la sua proposta educativa, compreso il suo modo di educare alla fede, fosse di volta in volta da aggiornare affinché meglio rispondesse nei suoi fini al continuo evolversi delle condizioni sociologiche e di sensibilità religiosa ed ecclesiale. E ci è riuscita valorizzando al massimo i talenti dei suoi adulti formatori (i cosiddetti “capi”) e armonizzando all’unisono le competenze spettanti al laico e al presbitero, che ha permesso di forgiare una sinergia perfettamente funzionante tra educazione alla persone e continua tensione all’annuncio della salvezza in Gesù Cristo. Camminando col passo della Chiesa e mettendosi in ascolto dei rumour che provenivano dal mondo, l’Agesci è in effetti riuscita a comporre percorsi che dal Progetto Unitario di Catechesi al sussidio Narrare l’esperienza di fede hanno saputo impegnarla e confermarla nella doppia fedeltà al vangelo di Gesù Cristo e alle intuizioni educative e pedagogiche di Lord Robert Baden-Powell of Gilwell. Ora, è sulla spinta di questo continuo bisogno di aggiornamento che il Comitato nazionale ha voluto a trent’anni dalla pubblicazione del Progetto Unitario di Catechesi e a vent’anni dai Convegni Giona, esortare i capi e gli assistenti ecclesiastici a essere presenti all’appuntamento del Convegno Fede 2013: “Ma voi, chi dite che io sia? (Lc 9, 20)”. Di invitarli a quel con-venire di cuori e di menti che era desiderio di tutti noi fosse l’occasione per porsi ancora sugli orizzonti della storia civile ed ecclesiale e da queste altezze scrutare con l’efficacia della sentinella i “segni dei tempi” (Is 21,11). Un modo per sfuggire alla tentazione di accontentarsi di uno sguardo nello specchio dell’auto-referenzialità e trovare invece il coraggio di affacciarsi alla finestra della contemporaneità per udire i rumori che I NTRODUZIONE - 7 giungono dal mondo e contemplare gli sguardi espressi nei volti dei nostri contemporanei. Noi non costruiamo la Storia lo sappiamo bene, perché essa è nelle mani dello Spirito santo, ma neanche ne siamo trascinati come un tronco dalla piena di un fiume. Noi viviamo la storia nello Spirito santo e per questo dobbiamo stare come sentinelle sulle frontiere del mondo. 2. Oneri e onori L’impegno di curare gli Atti del Convegno Fede 2013 è portatore di significati che rendono il compito niente affatto gravoso, ma gratificante. Rileggere a distanza di tempo la mole di materiale che è stato prodotto nei due giorni di lavoro, sciolti dal coinvolgimento emotivo che stringe come una morsa l’anima di chi un tale evento l’ha visto generarsi, è tonificante. Permette di immergersi con sobria lucidità e adeguato distacco in un mare di stimoli creativi oltre ogni dire, come quando decantata l’emozione rimane l’acqua cristallina dell’analisi e dell’elaborazione. Ma, prima di gettarsi nella mischia del pensiero ragionante e farsi travolgere dalle mille stimolazioni che i differenti relatori sono riusciti ad offrire con raffinata competenza agli oltre 2.500 partecipanti frazionati tra le città di Catania, Loreto e Trento, mi si permetta di motivare ciò che ha spinto il Comitato nazionale all’ardito compito di convocare a Convegno i capi e gli assistenti ecclesiastici dell’Agesci. Non ritengo infatti pensabile un proseguo operativo a questo Convegno, che pur dovrà esserci, se non partendo da quello che potremmo definire il “campo base”. Vista da occhi esterni, ma purtroppo a volte anche da spezzoni dello stesso mondo ecclesiale l’Agesci può apparire aliena ad ogni coinvolgimento nella storia reale, tutta presa com’è a vivere nei boschi, esercitandosi in azioni che ad oggi non hanno più riscontro nella vita pratica, come il saper fare degli impeccabili nodi. In realtà, essa ha un cuore che pulsa al ritmo dei bisogni del mondo e della Chiesa. Ha un’anima che partecipa con sofferenza alle inammissibili disarmonie che travagliano una contemporaneità che sembra essersi dimenticata di somministrare la quotidiana dose di felicità spettante a ogni uomo e donna che camminano in questa storia. Ecco allora che essa si fa carico di molte delle fatiche presenti nell’oggi, rispondendo con la competenza che gli è propria e cioè educando dei cittadini che siano consapevoli della loro responsabilità sociale, oltre che dei cristiani che ogni giorno, faticosamente ma fedelmente, si sentano impegnati nella santificazione personale e in quella del mondo. È per questo che i 8 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” suoi capi, quella compagine variegata ed entusiasta di giovani e di meno giovani, di donne e di uomini, di disoccupati e di studenti, di aspiranti santi e di certificati peccatori, di operatori dei più difformi mestieri, si spendono ogni giorno e senza risparmio in quella meravigliosa avventura che è l’educazione umana e cristiana dei giovani. E fra questi sono compresi e anzi preferiti, quelli che sono costretti ad abitare i tuguri delle periferie sociali a cui un mondo ipocrita e perbenista li confina! Gentaglia insomma questi dell’Agesci, persone che essendo abilitati al senso critico saranno sempre malamente tacciati di dissenso dalla linea di “partito”. Persone, sia detto chiaro, a cui piace sporcarsi le mani e addirittura, scandalo degli scandali, non immaginano neanche di farsi un briciolo di pubblicità per ciò che fanno. Eppure, lo scautismo cattolico italiano è prossimo nel 2016 a compiere i suoi 100 anni di vita e in tutto questo tempo la Chiesa universale e la Chiesa italiana hanno sempre saputo trovare le parole per incoraggiarlo nel suo cammino. Da Paolo VI a Francesco I i riconoscimenti pubblici non sono mancati, come pure in tante diocesi moltissimi vescovi si sono mostrati pastori premurosi verso il nostro servizio all’uomo in nome di Cristo, facendoci immediatamente dimenticare, come fosse l’umore effimero di un momento, il comportamento non accogliente di altri. Il merito di questo prezioso, e neanche tanto raro riconoscimento, va alla genialità del metodo scout, ma anche al modo con cui l’Agesci è riuscita ad affinarlo in un efficace strumento di educazione alla fede. Una riuscita arditezza che è stata il frutto congiunto di uno studio impegnativo e prolungato, che ha comportato un continuo aggiornamento, e di una assidua preghiera per impegnare lo Spirito santo ad essere presente al tavolo dei lavori. È così che l’Associazione è riuscita a tenere dritta la barra della nave di questi “folli educatori” che, ostinandosi a dare fiducia all’antropologia biblica, da loro tradotta in fedeltà al Concilio Vaticano II in un linguaggio personalista, gli ha permesso di continuare indisturbata la navigazione nelle crisi della storia. Se ci pensiamo bene cent’anni di vita, e di vita attiva e gravida di risultati com’è stata quella dello scautismo cattolico, non sono pochi. Se ci voltiamo indietro e rileggiamo anche solo la storia recente è facile infatti accorgersi che questi due lustri sono stati più che sufficienti a sbaragliare i fortilizi di ideologie come il comunismo o come il sistema dei partiti a matrice unicamente cattolica, ossia di strutture ben più organizzate di quelle messe in piedi da noi poveri diavoli arruolati nell’armata del volontariato. Cent’anni e non li sentiamo, anzi sembra di essere ogni giorno più forti. PersoI NTRODUZIONE - 9 nalmente suppongo che il nostro elisir di giovinezza stia nell’aver capito che chi lavora con consapevolezza e creativa fedeltà nella vigna del Signore non invecchia mai, essendo chiamato ad una missione che dura quanto il mondo: annunciare la buona novella dell’arrivo del Regno di Dio ad ogni uomo e ad ogni donna di buona volontà. Ma noi gente dello scautismo cattolico italiano, all’impegno di questo primo annuncio, che sapevamo spettarci come semplici cristiani, abbiamo voluto aggiungere quello altrettanto periglioso dell’educere (= educare), dell’aiutare l’uomo e la donna di ogni contemporaneità a tirare fuori il meglio di sé: il suo essere “immagine e somiglianza di Dio”. Ora, io credo che finché lo scautismo cattolico rimarrà cosciente che educare l’uomo e la donna significa presentare al mondo il Cristo come il modello, conserverà il dono raro della giovinezza del cuore. Solo Cristo infatti è l’unico datore di senso della totalità dell’essere e dell’esistere. Il compito non è facile perché il “mistero dell’iniquità” a cui accenna san Paolo è sempre in azione (2 Tess 2,7), ma non è della sfida che abbiamo paura. Si ricordi però a futura memoria, che questa specie di assunto primordiale che guida da sempre la specifica azione dello scautismo cattolico, vale il gioco soltanto se al camminare faremo seguire la sosta. Piantare la tenda serve a ritemprarsi dalla fatica, ma anche è la scelta di avere il tempo per fare silenzio in noi stessi e per mettersi in ascolto con gli orecchi, il cuore e la mente della storia quotidiana. Ecco questo Convegno Fede è stato voluto per questo. Perché fosse uno di questi momenti in cui stoppiamo la forsennata rincorsa al “fare” e ci ritroviamo nella sosta per ascoltare ed ascoltarci. E mi sia permesso di dire che, nonostante i mille difetti a tutti presenti, alla luce del poi questo Convegno è stato un vero e proprio momento di grazia, per il quale non renderemo mai sufficiente lode alle decine e decine di volti amici e fraterni che lo hanno reso possibile. Moltissimi di loro non li abbiamo potuti ringraziare, perché costretti per il loro ruolo a restare nell’ombra. A loro e a tutti gli altri organizzatori ai vari livelli vada ora il grazie più sentito di tutta l’Associazione. Ma un grazie altrettanto caloroso vada ai mille e mille partecipanti che hanno reso questo Convegno vivo ed efficace. 3. Un breve intermezzo antropologico Il Patto associativo Agesci, la nostra carta costituzionale dei valori, una volta precisato che l’esperienza di fede cresce e si rinnova «nell’ascolto della Parola di 10 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” Dio, nella preghiera e nella vita sacramentale», impegna le singole comunità capi a sostenere «la crescita spirituale dei suoi capi». A queste cellule motrici dell’Associazione che sono, o almeno dovrebbero essere, le comunità capi, è affidato altresì il vincolo di proporre «in modo esplicito ai ragazzi, con il metodo e la spiritualità che caratterizzano lo scautismo, l’annuncio esplicito di Cristo, perché anch’essi si sentano personalmente interpellati da Dio e gli rispondano secondo coscienza». La finalità che sottende a questo doppio incarico che incombe sulla comunità capi, è chiaramente quella di sostenere la crescita negli adulti di una fede matura, affinché la loro sia una efficace testimonianza di Cristo rivolta al mondo giovanile. Con le suddette parole il Patto associativo si premura inoltre di tracciare due linee direttrici a cui è assegnata la stessa funzione di quei confini che non è lecito oltrepassare. Si tratta della richiesta di una convinta fedeltà al mandato associativo, con la susseguente aderenza al metodo e alla spiritualità scout, e di un’altrettanta motivata fedeltà al mandato ecclesiale, che chiede identità di intenti con la missione universale della Chiesa. Non è questo il momento di discettare su cosa voglia dire nei particolari tutto ciò. Quello che invece è da considerare è che mentre il mandato ecclesiale trova nei vescovi riuniti attorno al sommo pontefice il suo primo motore, a cui noi possiamo affiancarci tutt’al più nella funzione ausiliaria di una critica che sia creativa e positiva, il mandato associativo ci vede invece protagonisti e interlocutori di noi stessi. Dati per immodificabili i 4 punti di B.-P., la sua visione positiva dell’essere umano, il suo sostenere che lo scautismo non può fare a meno di una propria spiritualità e tutto ciò che è strutturale al metodo, ossia gli aspetti senza i quali non potremmo parlare di scautismo e tanto meno di scautismo cattolico, il rimanente deve essere adattato ai “segni dei tempi”. Compreso il modo con cui attuare oggi la spiritualità scout. Se davvero l’Agesci vuol ritenersi con la Chiesa universale parte attiva della missione alle genti per risolvere e non solo consolare la sorte di per sé non certo felice dell’uomo nella sua realtà concreta, essa deve avere il coraggio di verificare l’efficacia delle modalità con cui educa alla fede nel contesto contemporaneo. Il punto di partenza di questa messa a punto è la granitica consapevolezza che non si dà un cristiano capace di testimoniare con fermezza di vita e coerenza di pensiero la propria fede, se al contempo non si forma un uomo e una donna di “carattere”, intendendo con ciò una personalità strutturata. Non più di ottocento anni fa un dottore della Chiesa del calibro di san Tommaso d’Aquino esprimeva questa stessa verità antropologica annotando che la grazia di Dio perfeziona la I NTRODUZIONE - 11 natura, ma non la cambia e tanto meno la stravolge (Somma teologica, I, 62, 5). Detto altrimenti, se considero un cavolo esso al massimo può sperare di divenire il miglior cavolo dell’orto, ma mai un bel cesto di lattuga. Insomma, la grazia di Dio per poter agire al meglio e condurre ciascuno sulla via della santità, che alla fine dei conti è il più alto comando lasciato da Cristo ai suoi discepoli («siate perfetti come lo è il Padre vostro che è nei cieli» Mt 5,48), deve avere a disposizione una natura che sia formata al meglio delle sue possibilità. Ne emerge una specifica antropologia che coinvolge la parte corporale come quella spirituale dell’essere umano e che conveniamo di chiamare con una tradizione proseguita dal Concilio Vaticano II, personalista. Nata nei primi decenni del Novecento come alternativa all’antropologia marxista che non distingueva un uomo da un altro, essendo tutti uguali nel principio dell’azione (il lavoro socialista), e da quella borghese che considerava non la massa ma l’individuo e tra questi solo quello il cui reddito era ragguagliabile entro cifre cospicue, l’antropologia personalista volle ripartire dal vangelo e dal magistero millenario della Chiesa. In essi si predica che l’uomo è un essere unico e irripetibile che ha valore in se stesso e non in ragione del suo agire o del suo avere, ma che trova la sua dignità nell’essere stato creato a immagine e somiglianza di Dio e che ha in Cristo il suo modello ideale (Per un approfondimento si veda: A. SALUCCI, Orientamenti per una educazione alla sessualità e all’affettività alla luce delle indicazioni del magistero ecclesiale, nn. 1 e 2, in www.agesci.it/dowloads/orientamenti_per_uneducazione_alla_sessualità_e_affettività_ottobre_2012.pdf ). 4. Un’occhiata alle carte del mondo occidentale Posto al sicuro il punto di arrivo, si tratta ora di sbirciare dal buco della serratura della storia contemporanea puntando l’occhio là dove ribollono le crisi dell’Occidente. Il Convegno Fede ha infatti preso vita e forma anche per tentare di offrire una risposta che sia risolutiva alle disgregazioni presenti. Non è facile raccapezzarsi nella trama della Storia, e chi ha tentato di farlo ha sempre avuto i tratti del visionario o per tale è stato marchiato (Gioacchino da Fiore e Thomas Müntzer ne sono gli esempi eclatanti). Eppure è un’impresa che bisognerà pur rischiare, nella consapevolezza che oltre che osservato e indagato questo nostro tempo va anche amato. Ma come amare ciò che non si conosce? Per fortuna i tre sociologi che durante il Convegno ci hanno aiutato a scorrere e commentare le immagini dell’oggi, qualche pista carovaniera utile a non perdersi in questa 12 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” immensità ce l’hanno indicata. Il loro sforzo di farci comprendere che il mondo è radicalmente cambiato, per cui ogni prospettiva di interpretazione valida ieri oggi non lo è più, è stato, a mio giudizio, efficace e ha centrato il bersaglio. Ma in realtà quello che ci hanno consegnato è solo una cartella con su scritto: “inizio lavori”. Per noi tutti che ora abbiamo gli Atti del Convegno Fede 2013 tra le mani, l’imperativo diventa di capire se l’Agesci ha decifrato e recepito questo messaggio, e i fatti sembrerebbero dire di sì, ma anche se nelle singole comunità capi ci si sta attrezzando di conseguenza. Data la comprensibile urgenza e gravità del tema, ci si permetta un breve ampliamento rispetto alle ottime analisi di cui abbiamo detto, non certo per contraddirle ma semmai per confermale. Il fine è di rafforzare in ciascuno di noi il senso di progressiva scristianizzazione dell’Occidente, che tuttavia non va inteso come un lento e inesorabile avanzamento del rifiuto di Dio, ma semmai come il segnale di invasione del morbo nefasto dell’indifferenza. Detto con una metafora letteraria: oggi non abbiamo da temere le figure tragiche dell’ateismo scientifico che emergono sublimi da I demoni di Fëdor Dostoevskij, ma i personaggi indifferenti a ogni distinzione tra bene e male che animano i romanzi di André Gide. Ma per nostra fortuna anche su questo delicatissimo risvolto abbiamo avuto la buona sorte di incontrare al Convegno tre teologi che non hanno lesinato intelligenza e acutezza nell’indicarci piste risolutive. Già nel 1956, lo storico delle religioni e orientalista Mircea Eliade, scriveva che: «Se esiste un “uomo moderno”, è nella misura in cui egli rifiuta di riconoscersi nell’antropologia cristiana. L’originalità dell’ “uomo moderno”, la sua novità in rapporto alle società tradizionali, è appunto la sua volontà di considerarsi un essere unicamente storico, il desiderio di vivere in un cosmos radicalmente desacralizzato» (La nascita mistica. Riti e simboli d’iniziazione, Morcelliana, Brescia, 1980, p. 9). Sembrerà strana la coincidenza, ma questo inizio di terzo millennio sta componendo sotto i nostri occhi il puzzle di un mutamento reale e profondo che sta spingendo proprio in questa direzione. Inutile per noi cercarne le cause e lasciamo agli storici di professione il compito di farlo. Tuttavia anche senza ricorso a analisi approfondite, già ora possiamo dire che queste evidenziate dissoluzioni di identità (siano esse familiari, culturali, religiose, sociali) hanno emesso i loro primi vagiti quando ha preso a incrinarsi la perfetta simbiosi che l’Occidente era riuscita a comporre tra Dio, uomo e mondo. Quando cioè il “sacro” aveva ancora un valore per la società e per la singola persona e quindi i fenomeni religiosi avevano una centralità anzitutto antropologica. I NTRODUZIONE - 13 Lo scautismo dal pari suo aveva compreso l’importanza di questa triade simbiotica di uomo-natura-Dio, e senza cadere nella sfera oscura e nefasta del panteismo che identifica Dio con la natura, è riuscito a mettere la Natura al centro della sua azione educativa per farne strumento di promozione umana e di lode a Dio. Il metodo scout infatti educa a vedere nella natura la manifestazione reale del suo Creatore (Rm 1, 19-20), e la utilizza (o forse sarebbe meglio dire la utilizzava?) come scuola di vita per la formazione del carattere della persona. Un’azione educativa, quella dello scautismo, che è riuscita nell’intento di salvare tanti singoli dalla dissoluzione della propria personalità, ma che non ha ovviamente avuto influenza sul mondo a largo raggio, per cui quella che ieri era una crepa nella relazione antropologica oggi è un’evidente frattura. Secolarizzazione, relativismo etico, tecnologia spinta a sistema, economia senza regole etiche, sono alcuni dei frutti avvelenati che maturano negli alberi della contemporaneità. Essi sono la pura conseguenza dell’assolutizzazione dell’uomo a tutto detrimento della santità di Dio. Si cominciò con l’affermare che l’uomo è buono e che è la società a renderlo cattivo (Rousseau), quasi come se la tendenza al male inscritta nell’animo umano si fosse dissolta di colpo. L’aggravamento giunse quando uno dei profeti emergenti dell’Occidente prese a gridare che “Dio era morto” (Nietzsche). Una voce a cui si aggiunse quella di chi vedeva Dio come una proiezione dei nostri bisogni (Feuerbach), o magari il frutto di un inconscio in crisi di identità (S. Freud). Se ai profeti dell’Antico Testamento seguì l’esilio, agli psudo-profeti del nostro tempo è succeduto un uomo che si è trovato solo nell’universo. Questi maestri del pensiero si erano come dimenticati del monito che Kierkegaard aveva vergato a chiare lettere nei Discorsi cristiani: che uccidere Dio è il più orrendo dei suicidi. Escludere scientemente Dio dal nostro orizzonte ha in effetti privato l’uomo di un assoluto che fosse la norma di riferimento per una data etica e dunque di una responsabilità del proprio agire e quindi del corretto esercizio della propria libertà. Un tema, questo della libertà, messo accuratamente a fuoco in questo Convegno, e che qui invita a una brevissima considerazione pedagogica. Apparentemente protetto da un’idea di libertà che gli proveniva dalle grandi ideologie del Novecento, l’uomo di ieri si sentiva a casa, abitatore di se stesso e della società in cui viveva. Si trattava, in questo caso, di una libertà retta da fini solidi e condivisi, aventi il compito di guidare l’agire etico della singola persona, per cui esercitare un atto libero era sempre una scelta a favore di certi valori, per quanto discutibili essi potessero essere. Oggi, invece, dopo che le grandi narrazioni del passato si 14 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” sono dileguate lasciando al loro posto il puro e semplice nulla (il nichilismo di cui parla il prof. M. Magatti), ci si trova disorientati e l’unica soluzione che si è stati in grado di mettere in piedi è la teorizzazione dell’uguaglianza etica di tutti i valori, per cui uno vale l’altro e nessuno è discutibile. Una risposta che ovviamente non spegne la sete di senso dell’essere umano, ma semmai lo degrada da soggetto responsabile di scelte che possono cambiare la storia, a oggetto passivo, vittima designata dei venditori di merci e merce egli stesso. Conseguenza ovvia di una società i cui profeti hanno voluto fare a meno dell’assoluto ma che così, Kierkeegard docet, ha solo messo il cappio al collo degli abitatori della contemporaneità post-moderna. Non meravigliamo allora se uno dei più caustici e nichilisti osservatori del nostro tempo ha potuto scrivere che se Noè avesse potuto leggere il futuro avrebbe certamente fatto calare a picco l’Arca (E. Cioran, Sillogismi dell’amarezza). Ora, fino a quando non sentiremo in ogni fibra del nostro essere il brivido arcigno e distruttore che genera questa riduzione dell’uomo a un oggetto, questa spoliazione della sua dignità di «immagine e somiglianza di Dio», (Gen 1,27), non comprenderemo l’abisso in cui si sta precipitando e in conseguenza l’urgenza che ha il mondo di messaggeri della buona novella del vangelo. Quanto detto sull’importanza di postulare un Assoluto come norma di garanzia di dati valori, unica condizione per una vero esercizio della libertà, che è sempre scelta tra valori alternativi, vale in analogia per la fede. Non esiste una fede che si possa dire tale se non è un atto libero, se non è la scelta motivata e coerente tra una difformità di alternative. Il Padre non avrebbe saputo che farsene di un Figlio che non avesse scelto liberamente di servire l’umanità fino a giungere alla croce: tutta la teologia di san Paolo ha qui il suo cardine! (si veda la Lettera ai Romani e la Lettera ai Galati). Eppure sembra come lo avessimo dimenticato e da tempo non si assiste in Agesci al bisogno di rimettere a tema il significato di libertà come il fondamento ineludibile di ogni educazione alla fede e di farlo proprio oggi che l’idea di libertà vive forse il più grave momento di crisi di tutta la storia recente. 5. Un’occhiata alle carte del cristianesimo attuale È sotto gli occhi di tutti che l’uomo contemporaneo rigetta sempre di più le forme logore del cristianesimo attuale, che non possono che allontanarlo dall’annuncio evangelico. Di un cristianesimo che nelle sue istituzioni (che purtroppo a volte vanno dalla parrocchia alla Curia vaticana) risponde con vecchi I NTRODUZIONE - 15 e sconnessi slogan alle rinnovate istanze e inquietudini che provengono dall’uomo della strada. Di un cristianesimo che a volte non sa neanche rispondere con afflato di grazia al rinnovato bisogno di senso che comincia a fare capolino ad ogni cantone delle tante città dei giovani sparse sul territorio, e che sceglie invece di ammanettarsi nella rigidità della norma canonico-morale, spesso proposta come proficua giustificazione del retto agire, quasi che il vangelo non avesse più la preminenza. Di un cristianesimo che non è più capace di far vivere nella celebrazione dei suoi riti il senso del sacro e della trascendenza, e che in logica conseguenza non sa più trovare in se stesso la dimensione del silenzio, dell’evento unico su tutti che lo costringe a riflettere su di sé e sui propri limiti. E tuttavia proprio accanto a questo desiderio di gettarsi alle spalle la religione dei propri avi, si intravede nell’uomo di oggi anche una specie di sfumato senso di colpa. Quello di chi è al fondo convinto che il rifiuto di Dio non sia l’effettiva soluzione ai mali che travagliano tutti e ciascuno. Va allora detto che per costoro e per l’umanità intera è davvero un grande segno di speranza il radicale cambio di rotta che ha assunto la Navicula Petri da quando il nocchiere è papa Francesco. Da quando alla sua guida c’è un conduttore che cerca di ricondurla alla sua antica navigazione, che è poi quella tracciata nelle mappe del vangelo. Ma il timoniere-capitano può fare ben poco da solo senza un equipaggio composto da cristiani che siano capaci del rinnovamento evangelico e quindi anche di noi, laici e presbiteri, che serviamo la Chiesa mettendoci al servizio del metodo educativo scout. In questa prospettiva mi consola riconoscere che il Convegno Fede ha suggerito molte prospettive utili per dare inizio a un percorso di rinnovamento metodologico a tutto campo, dove l’interdipendenza tra pensiero e azione possono giocarsi come mai. Sta a noi, e non ad altri, cogliere la palla al balzo e giocare il gioco fino in fondo. Abbiamo da poco celebrato i cinquant’anni di indizione del Concilio Vaticano II, della più partecipata assise della Chiesa di tutti i tempi, che san Giovanni XXIII, fattosi docile al soffio dello Spirito santo, volle fosse celebrato nonostante il volere contrario di buonissima parte dell’apparato vaticano. Portato a termine con coraggio dal beato Paolo VI, il Concilio fu una rinfrescante primavera della Chiesa, a cui certo, va detto con onestà, non mancarono brucianti gelate. Eppure esso ebbe il merito di lasciare in eredità alla Chiesa il valore indiscusso del dialogo, esortandola ad aprire le sue finestre per imparare a guardare il mondo, e costringendola ad abbassare i ponti levatoi affinché gli uomini potessero conoscerla dal di dentro. Cinquant’anni che nel frattempo hanno cambiato radical16 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” mente l’Occidente. Un’indicazione percepibile anche da una prima lettura di alcuni testi chiave del Concilio stesso. Quando i padri conciliari discutevano sull’assetto sociale del mondo, era ancora forte l’appello identitario marxista-leninista con l’annesso richiamo all’ateismo scientifico, uno spettro ben diverso dall’indifferentismo attuale. Come esisteva pure una fascia solida e consolidata di laici cristiani impegnati nell’azione politica, di cui finalmente la Lumen Gentium riconosceva il valore e la santità dell’azione. Il Concilio aveva cioè di fronte a sé come interlocutori dei politici che avevano coscienza della missione del bene comune e non certo una corte di politicanti dove a volte è difficile distinguere chi sia il re e chi il buffone e dove addirittura è lecito mascherarsi da politici cristiani, per sventolare ideologie di copertura a cui neanche loro credono, «che tanto il pubblico è ammaestrato e non fa più paura» (F. Guccini, Cyrano). È poi pur vero che cinquant’anni fa troneggiava nell’uomo occidentale la certezza di un domani migliore, e non lo scoraggiamento del presente dove la precarietà è divenuta una costante senza che nessuno ci aiuti a saperla gestire. Gli esempi potrebbero continuare, ma il concetto ormai è chiaro. I tempi sono cambiati e con essi deve cambiare il nostro approccio al mondo, e qui mi piace ricordare le parole con cui il beato Giovanni Battista Montini giustificò di fronte al Concilio la sua decisione di istituire il Sinodo dei vescovi, di creare cioè uno strumento che: «scrutando attentamente i segni dei tempi, [cercasse] di adattare le vie ed i metodi [propri della Chiesa] alle accresciute necessità dei nostri giorni ed alle mutate condizioni della società» (Paolo VI, Motu proprio, Apostolica sollecitudo). Parole di cristallina attualità a cui va aggiunto, onde evitare la tentazione nefasta di dimenticare il depositum fidei (il deposito della fede), che un Concilio ha con sé verità che vanno oltre i tempi storici, verità che incardinano in un presente l’eterna volontà di Dio. Volontà di cui il romano pontefice, come ci ricordava proprio a chiusura del Sinodo straordinario dei vescovi sulla famiglia papa Francesco, è il garante teologico (Francesco I, Movimento di spiriti, in L’Osservatore Romano 20-21 ottobre 2014, p. 5). Tutto questo per noi significa che la nostra riflessione sul rinnovamento della spiritualità scout, utile a rendere più efficace l’azione educativa, non può prescindere dalle indicazioni che ci giungono dal Concilio Vaticano II e dal magistero della Chiesa, di cui forse ben poco consociamo, ma di cui abbiamo adesso tutto lo stimolo per rimediare alla pecca. Molto insomma è cambiato in questi anni a cominciare dalla crisi senza precedenti che attraversa il cattolicesimo europeo. La visione dell’uomo che per secoli aveva fatto da supporto alla proposta di fede cristiana si sta sgretolando, accomI NTRODUZIONE - 17 pagnata immancabilmente da un processo di progressiva de-costruzione di quella cultura che al cristianesimo faceva riferimento come a un proprio faro. Senza dover entrare nello specifico di un’analisi che vada oltre il già detto, è a tutti evidente che quanto il Concilio Vaticano II aveva voluto con fatica inaugurare stia ora cedendo sotto la pressione della secolarizzazione. A rischio è il destino del vangelo e la sua carica innovativa e a rischio è la presenza in mezzo a noi di testimoni significativi che abbiano la capacità di tessere un senso all’esistenza. Se del positivo c’è in questa faccenda, è che nel ripetersi degli assalti sembra che il cosiddetto secolarismo vada gradualmente perdendo la sua forza. Non sono poche le esortazioni del vangelo che invitano a non disperare mai, perché anche nei tempi più bui della storia, Dio riserva per sé un “piccolo resto” di umanità con la quale rinnoverà il mondo (Is 10,20). Quando Mark Twain fu informato che un quotidiano aveva pubblicato il suo necrologio, egli si limitò a commentare che l’annuncio della sua morte gli sembrava davvero esagerato. Ecco, riguardo alla morte del sentimento religioso sembra si possa dire la stessa cosa, perché più che defunto esso appare trasformato. Stando all’analisi di una studiosa di Harvard, quattro sono i differenti ritratti della religiosità contemporanea (M. Glendon, Religioni, fonte di pace o di conflitti?, in Vita e Pensiero 3/2013, pp. 27-34). Il più radicale e tormentato è quello dei cosiddetti “nuovi atei”, che leggono il crescere del fondamentalismo religioso islamico come la conferma della brutalità della religione in genere. La scienza, affermano i R. Dawkins, i D. Dennett, i S. Harris e i Ch. Hitchens di turno, ha ormai screditato Dio e chi pensa che tra scienza e religione sia possibile la coesistenza si sbaglia e si sbaglia di grosso. La razionalità scientifica, insomma, è più che sufficiente a chi volesse dare ragione del mondo, quesiti esistenziali compresi. A fare da contraltare a questi signori si sono elevate le voci dei cosiddetti “non credenti malinconici”. Essi sostengono la tesi che l’Occidente pagherà un prezzo carissimo ogni volta che dimenticherà la sua identità culturale più profonda, che si scorderà che nel suo DNA è scritto che religione, libertà e legge sono indissolubilmente legate. Guidati dalle sagge riflessioni del filosofo tedesco J. Habermas, essi addirittura concludono che l’Occidente se abbandona la sua eredità religiosa, mette a repentaglio i progressi sociali degli ultimi decenni, che non sono altro che il frutto del compromesso tra un’etica giudaica della giustizia e un’etica cristiana dell’amore (J. Habermas, Tempo di passaggi, Feltrinelli, Milano, 2004). Un altro ritratto è invece quello dipinto con ricchezza di particolari dal filosofo canadese Charles Taylor, che nel suo corposo L’età secolare (Feltrinelli, Milano, 2009), ritiene 18 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” che viviamo in un’epoca di imperante secolarismo che forse un giorno, ma nessuno sa quando, tornerà religiosa. Taylor definisce l’avvenuta trasformazione addirittura “titanica” e a suo giudizio essa si mostra senza veli nello svuotamento di ogni sentimento religioso dagli spazi pubblici delle democrazie liberali occidentali. In sostanza, la fede in Dio è divenuta solo un’opzione tra le tante possibili e chi oggi si trova a scegliere di credere, non è sostenuto né da un ambiente, né da una cultura che sia intrisa di un pensiero religioso. L’ultima ritrattistica giunge dalla teologia cattolica e dalle riflessioni del teologo J. Ratzinger, che aveva iniziato a distinguere tra una “laicità positiva”, che accetta di sedere al tavolo dei non belligeranti in materia di fede lasciando a ciascuno la libertà di scelta, e un “secolarismo negativo” che attraverso una serrata azione politica e culturale non lascia alcun spazio per la fede cattolica o cristiana che sia. Presa visione dello scenario, non possono non tornare alla mente le azzeccate intuizioni di quel possente sacerdote e filosofo cattolico di lingua tedesca che fu Romano Guardini. Convinto che la fine dell’ateismo teorico aveva risuscitato nella coscienza collettiva dell’umanità domande rimaste sopite, egli provava nuovamente ad elencarle: «Come è Dio?, Dove lo trovo?, Qual è la mia posizione di fronte a Lui?». L’uomo di oggi, prosegue Guardini, «non [...] si domanda più se, ma come si debba pregare. Non se l’ascesi sia necessaria, ma quale?» (R. Guardini, La realtà della Chiesa, Morcelliana, Brescia, 1967 p. 31). Se c’è un’esca utile al proseguo delle nostre considerazioni è proprio questa. Guardini infatti dice che la formidabile propaganda che ha cercato con ogni mezzo di escludere Dio dal partecipato dell’uomo, non solo ha fallito il suo scopo, ma ha suscitato una nuova e ancor più profonda domanda su Dio. Sta a noi saperla cogliere e utilizzare al meglio, perché attenzione: «La recuperata coscienza del limite, che purtroppo muove verso la deriva nichilista, non significa l’inizio di una prossima primavera dello spirito religioso. Questa resta ancora soltanto la speranza dei credenti. Nella realtà dei fatti, si deve tener conto che oggi, dove rinasce l’interesse per Dio e per la problematica teologica, si accetta di discuterlo e di verificarlo all’interno della tradizione del razionalismo critico» (G. Mucci, L’impatto del clero con la cultura attuale, in La Civiltà Cattolica, 2014 II 3-14, n. 3931, 5 aprile 2014, p. 76). Il Dio di cui la nuova umanità è in cerca non è il Dio della morale cieca che ordina un rigore senza motivarne il perché, ma un Dio con cui ci si possa confrontare utilizzando gli strumenti che sono propri della contemporaneità e che sono quelli della razionalità scientifica. Se è vero, come ci ripetono gli esperti chiamati al nostro Convegno, che l’aggancio alla fede deve partire dal dato espeI NTRODUZIONE - 19 rienziale, è anche vero che molte volte, se non sempre, deve concludersi con un sapere razionale. L’errore che si è fatto in un’evangelizzazione risalente fino a pochi decenni fa è l’aver creduto che crollata la fede nella ragione matematica e scientifica, come annunciavano gli “illuminati” del post-moderno, fosse sufficiente sostituirla con una fede indifferenziata. Un credere che non necessiterebbe di dogmi e dottrine a cui aderire e di morali da attuare. Ma forse è proprio questa la causa che ha destabilizzato l’uomo moderno, facendolo percepire come un perfetto insicuro, il quale «al posto di una solida fede si ritrova ad avere una speranza, un calcolo pragmatico, un’esigenza intima o qualcosa del genere, niente che assomigli alla confidenza del suo antenato veramente credente» (R. Prandestaller, L’uomo senza certezze e le sue qualità, Laterza, Roma-Bari, 19923, p. 23). 6. Api e ragni Il contesto socio-religioso globale nel quale siamo cresciuti dunque non esiste più e bisognerà adattarsi a coabitare col nuovo che, sia detto senza tante nostalgie, penso non sarà né peggio né meglio del precedente, ma solo diverso. Ciò che conta è che i soggetti pensanti destinatari di questi Atti del Convegno Fede 2013 ne prendano coscienza e operino di conseguenza. Che fissino i punti irrinunciabili della proposta educativa che andiamo a proporre a nome dello scautismo e del guidismo e di quel messaggio evangelico che è stato fedelmente custodito dal magistero della Chiesa (il depositum fidei). Se sapremo essere fedeli a questi elementi e agli assunti che fondano e alimentano la fede dei singoli, non avremo gettato al vento la nostra opera, ma l’avremo incanalata nei solchi scavati dallo Spirito santo, sia perché testimoni coerenti, sia perché l’interdipendenza tra pensiero e azione ha trovato faticosa, ma costante attuazione in noi. Ed è di questo che ha bisogno oggi il mondo giovanile: di “adulti” nella fede. Avendo avuto modo di leggere da cima a fondo nel preparare questi Atti, ogni intervento che è uscito dalla bocca dei differenti partecipanti ai tre Convegni e avendo avuto la gioia di assistere in diretta al dipanarsi di quello di Loreto, posso testimoniare con viva e rallegrata coscienza che i suddetti punti “non negoziabili” sono stati messi ben a fuoco durante i nostri lavori, come cercherò di argomentare subito dopo questo paragrafo. Ma la vera sorpresa è stato il constatare che era proprio su di essi che lo spirito dei tre Convegni veniva, quasi motu proprio, a convergere. Non trovo altro modo per spiegarmi che ricorrendo a una metafora cara allo scrittore irlandese Jonathan Swift (1667-1745), a sua volta presa a 20 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” prestito dal filosofo inglese Francesco Bacone. Nell’epica Battaglia dei libri, dove Swift si diverte come un gatto col topo a discettare senza concludere sulla disputa che allora opponeva la sapienza degli Antichi a quella dei Moderni, egli paragona i due partiti in lotta ai ragni e alle api. Il ragno sta a figurare colui che estrae da se stesso il materiale per tessere la sua rete di sapienza, mentre l’ape è la metafora di coloro che cercano all’esterno il fondamento del loro sapere. Ebbene gli Atti che oggi abbiamo in mano sono in certo modo il frutto del lavoro congiunto e sinergico di molti capi-ragno che hanno fatto della loro esperienza sul campo la fonte ispiratrice delle loro azioni educative e di esperti-ape che dall’esterno hanno saputo aggiornarci sul difficile compito di educare, con particolare riguardo all’educare alla fede. Su questa pista immaginifica il Convegno Fede è paragonabile a un ibrido, a una chimera, a un composito di api e di ragni fusi in un unico corpo a svolgere un’unica funzione. Se gli esperti sono state delle laboriose api, i gruppi di studio e di confronto hanno al meglio rappresentato il loro ruolo di ragni. La conclusione è un prodotto che contiene nutrimenti altamente energetici per il lavoro degli anni a venire. Alla luce del poi è anche onesto riconoscere che la parte che maggiormente è venuta a mancare a questo Convegno Fede 2013 è proprio quella dei ragni, ma non per loro colpa, ma perché non è stato possibile agli organizzatori inserire un tempo ulteriore per il confronto tra di noi. Mi piace tuttavia ricordare che questo Convegno non è stato pensato e voluto dall’Associazione come un momento di conclusione, ma anzi, come già si è detto, di apertura al futuro. Che è stato cioè progettato e approvato non come punto di arrivo ma di partenza. Il tempo della riflessione e della discussione nasce dunque ora. Ma su quali punti? A me sembra che nel complesso il Convegno Fede, visto nella sua totalità, ne abbia indicati, con una lucidità che eccede l’evidenza, almeno tre. Anzitutto quello antropologico, ossia la puntualizzazione della positività dell’essere umano e la sua valorizzazione di immagine e somiglianza di Dio in un contesto che tende a mercificare tutto, uomo compreso. Segue la necessità di stabilire i compiti e i confini tra evento della prima evangelizzazione, ormai irrinunciabile in un mondo secolarizzato nelle sue radici, e successiva fase della catechesi, della crescita nei sacramenti e nelle verità della fede. E infine la valorizzazione della dimensione laica dell’Associazione, tramite la condizione di una seria formazione dei capi in ambiti come quello della Sacra Scrittura, della dottrina sociale della Chiesa e degli elementi essenziali del Credo apostolico. I NTRODUZIONE - 21 Tre ambiti che vorrei provare a tematizzare, sia perché rappresentano il futuro di questo Convegno, sia perché potrebbero essere di efficace chiarificazione a chi a questo Convegno era venuto a cercare “ricette” per fare catechesi, non ancora consapevole che la difficile arte dell’educare alla fede non è l’esecuzione pedissequa di un formulario pronto ad ogni evenienza, ma la faticosa ricerca di una mediazione tra una nostra progettualità e l’occasione offertaci dal soffio dello Spirito santo, che come si sa è come il vento, che non sai di dove viene e di dove va (Gv 3,8). Solo l’orante, solo l’uomo e la donna immersi nel silenzio interiore della preghiera, riescono a percepire la notizia profetica di cui sono volenti o nolenti latori. 7. La Chiesa: “esperta in umanità” Il 4 ottobre 1965 Paolo VI fu invitato a tenere un discorso ai membri delle Nazioni Unite riuniti in Assemblea generale (mancava solo l’Albania, il primo stato del mondo a essersi dichiarato ateo). Portando il suo saluto e quello degli altri vescovi e metropoliti, allora impegnati con le fasi conclusive del Concilio Vaticano II, il papa articolò in francese un discorso di un tenore umano, politico, sociale ed ecclesiale di fortissimo impatto, la cui attualità è tuttora viva e zampillante. Presentatosi ai rappresentanti dei governi della Terra con le vesti di un umile pellegrino in cammino da duemila anni, il pontefice rendeva presente di essere il latore di un messaggio da rivolgere a tutta l’umanità. Egli era lì infatti per annunciare a tutte le genti la “buona novella” del Regno di Dio e si sentiva autorizzato a farlo non in nome del suo rango di Capo di Stato della Città del Vaticano, ma perché la Chiesa che egli rappresentava al suo massimo livello umano, era una Chiesa “esperta in umanità”. La stampa, glissando su questo sublime accenno, dette invece moltissimo risalto al suo grido, ripetuto con una voce rotta dall’emozione, che implorava: “Mai più la guerra”. Pur comprendendone il motivo e lodandone le intenzioni, noi invece preferiamo sostare sulle parole che Paolo VI usò per battezzare la Chiesa di un nome nuovo. Una Chiesa “esperta in umanità”. Forse non tutti ricordano la grande attenzione che il beato Giovanni Battista Montini aveva mostrato fin dagli anni giovanili al tema della persona e della vita comunitaria. Cresciuto alla scuola del personalismo francese di E. Mounier e J. Maritain, preso nelle maglie dell’esistenzialismo cristiano, una volta divenuto sacerdote Paolo VI aveva trovato nella Chiesa la massima espressione e l’effettivo compimento di questi percorsi laici e filosofici. Gli studi teologici gli avevano 22 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” insegnato che è in Gesù Cristo che si stanzia il vero modello dell’umano e che è nella Chiesa che abita il vero modello della comunità degli uomini. I duemila anni di cristianesimo che Montini con fierezza si sentiva di portare sulle spalle, avevano insegnato alla Chiesa l’arte di amare l’umanità nelle sue gioie e nelle sue speranze, come intitolava la Gaudium et spes. Chi meglio della Chiesa, credo intendesse il pontefice, che ogni giorno sparge come seme fecondo i suoi missionari ai quattro angoli della Terra per inchinarsi sulle piaghe degli ultimi, può pensare di conoscere l’uomo? Chi meglio della Chiesa, che con i suoi sacerdoti stanzia abitudinariamente nei confessionali dove ogni giorno si imbratta del fango di cui riesce a rivestirsi un’umanità capace dei peccati più gravi, può comprendere gli abissi della fragilità umana? Chi meglio della Chiesa, che grazie alla santità nascosta di miriadi di persone sconosciute incoraggia giorno per giorno i deboli e gli esclusi a continuare il sentiero della vita con gesti semplici come un sorriso, un gesto di oblativa carità, può conoscere i reali bisogni dell’essere umano? La Chiesa esperta in umanità è la Chiesa che da millenni si inchina sull’uomo per servirlo, o per dirla con le parole dello stesso Paolo VI, è la Chiesa che è: «nello stesso tempo madre autorevole di tutti gli uomini e dispensatrice di salvezza» (Paolo VI, Enciclica Ecclesiam suam, Prologo) Con questo suo messaggio Paolo VI consegnava ai capi delle nazioni il cuore amante della Chiesa, ma permettetemi di supporre che al contempo consegnava ai cristiani sparsi nel mondo il messaggio ormai maturo del Concilio: il dovere della riscoperta della missione ad gentes. Nel salutare i suoi che restavano nel mondo Gesù prima di salire al cielo e stabilirsi alla destra del Padre, affida loro un compito che non ammette deroghe: «Andate dunque, e fate discepoli tutti i popoli, battezzando nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20). Parole come sospese in un senso di totalità e compimento, che si reggono su due focali: la figura di Gesù e lo stato di vita da cristiani rappresentato dagli undici lì presenti. Il contesto si badi bene è quello della fede pasquale, di una fede non esente da dubbi (Mt 8,26; 14,30-31), che anzi sta rodendo in una crisi personale e comunitaria i discepoli della Chiesa delle origini, che li sta macerando di una lacerazione che ha bisogno di Gesù Cristo per essere sanata. E tuttavia, nonostante questo stato dei fatti, definito il possesso della signoria sul mondo, avendo ricevuto ogni potere (exousia) dal Padre (Mt 28, 18), Gesù ne consegue con un comando ai suoi discepoli più intimi, che è l’affidamento della missione ad gentes. Mentre la loro prima missione storica come apostoli, ancora vivo Gesù, si era I NTRODUZIONE - 23 limitata «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 16,5-6), adesso i confini geografici si allargano e l’invito alla conversione deve essere esteso a «tutti i popoli». Se la prima missione si era limitata ad annunciare la vicinanza temporale del Regno e i suoi frutti, la nuova missione universale è ora chiamata a fare discepoli, che è come intendere a unire a Cristo tutte le genti. Unità che col battesimo testifica la piena accoglienza del suo insegnamento, compresi i segni della dimensione ecclesiale-sacramentale e quelli della dimensione biblico-caritatevole. Per dirla con le parole di un grande biblista che è tanto caro alla nostra Associazione: «Tutto quello che Gesù ha ordinato [insegnato] è la rivelazione autorevole della volontà di Dio, concentrata nel comando dell’amore» (R. Fabris, Matteo, Borla, Roma, 1982, p. 572). Il compito dell’annuncio della salvezza in Cristo è dunque irrinunciabile per ogni cristiano. Paolo VI insisteva che l’evangelizzazione non deve limitarsi a un annuncio di liberazione che si limiti «alla semplice e ristretta dimensione economica, politica, sociale o culturale, ma deve mirare all’uomo tutto intero, in ogni sua dimensione, compresa la sua apertura verso l’assoluto, compreso l’Assoluto di Dio» (Evangelii nuntiandi, n. 33). Il nostro annuncio del vangelo non può insomma prescindere dalla considerazione dell’uomo e della donna nella loro dimensione personalista sopra ricordata, e che Benedetto XVI ha voluto con la pazienza di un catechista puntualizzare ancora una volta nella sua prima enciclica (Deus caritas est, n. 2-5) 8. Evangelizzazione o catechesi? La spiritualità scout! L’anno prossimo ricorrono i quarant’anni dalla pubblicazione dell’Enciclica Evangelii nuntiandi, ora citata. A dieci anni esatti dalla conclusione del Concilio, in un tempo sì di speranza, ma «travagliato dall’angoscia e dalla paura», aggredito violentemente dal terrorismo di destra e di sinistra, Paolo VI si rivolgeva ai fratelli impegnati «nella missione di evangelizzatori, affinché, in questi tempi di incertezza e di disordine, essi la compiano con amore, zelo e passione sempre maggiore» (n. 1). Nel proseguo dell’Enciclica il beato Montini si mostra preoccupato che al cambiamento dei tempi sociologici, non siano seguite le modifiche dei nostri strumenti per comunicare la salvezza portata da Gesù Cristo all’umanità. Carico delle domande emerse dal Sinodo sull’evangelizzazione del 1974 e convinto che gli annunciatori del vangelo debbano essere al contempo i “servitori” dell’integrità della rivelazione consegnataci e gli uditori di questo stesso mes24 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” saggio, egli si sforza di capire «quali metodi bisogna seguire nel proclamare il vangelo affinché la sua potenza possa raggiungere i suoi effetti» (n. 4). Nello stesso 1975 il Consiglio generale dell’Agesci approvava definitivamente il suo nuovo Statuto, accogliendo con “creativa fedeltà” i suggerimenti di modifica che la CEI aveva presentato a quello consegnatogli l’anno precedente. Ma l’azione profetica di questo iniziato cammino andava a concretizzarsi anche nell’unione di due modi di vivere la relazione con Dio, quali erano quelli presenti nel metodo Asci e nel metodo Agi. E qui credo sia lecito dire che almeno per una volta lo scautismo e il guidismo cattolico italiano si sono trovati avvantaggiati rispetto alle istanze ecclesiali allora suscitate dall’Evangelii nuntiandi, perché già possessori di un metodo efficace per un annuncio del vangelo, qual era il metodo messo in atto da B.-P.. In effetti, come fosse un mantra che ci avvolge fin da quando ne iniziamo a giocare il gioco, abbiamo imparato che lo scautismo non è una scuola pedagogica, ma un metodo educativo. Che lo scautismo non vuole costruire un suo modello di uomo e di donna, per il semplice motivo che lo ha già trovato definito nel libro del Genesi sotto la dicitura: “immagine e somiglianza di Dio” (Gen 1,27). Esso vuole piuttosto portare quest’uomo e questa donna alla loro piena maturità umana, facendone sviluppare in parallelo le potenzialità corporali e quelle spirituali. È quindi chiaro a tutti che lo scautismo parte già fin dalla sua fondazione con una antropologia ben collocata nel suo zaino, che è un’antropologia biblico-personalista. Ora, a giudizio del fondatore dello scautismo, non si dà persona umana se non ammettendo in essa l’anelito verso un Dio a cui rivolgersi (si veda “Bevete la bell’aria di Dio”. Testi di B.-P. sull’educazione religiosa, (a cura di), Paola del Toso e Maria Cristina Bertini, Centro Documentazione Agesci, Roma, 2001). Per parte sua lo scautismo cattolico è stato ancora più facilitato in questa direzione avendo ricevuto dalla Chiesa l’icona vivente della suddetta “immagine e somiglianza” a cui riferirsi: Gesù Cristo. Nella veglia di preghiera della sera del 4 ottobre 2014, richiesta da lui stesso come introduzione al Sinodo straordinario dei vescovi sulla famiglia che si sarebbe aperto il giorno successivo in Vaticano, papa Francesco elencava in tre i doni che esigeva richiedere con questa invocazione. Il terzo era proprio il dono dello “sguardo”, perché, ammoniva, «se davvero intendiamo verificare il nostro passo sul terreno delle sfide contemporanee, la condizione decisiva è mantenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo, sostare nella contemplazione e nell’adorazione del suo volto» (Francesco I, Se manca il vino della gioia, in L’osservatore Romano, 6-7 ottobre 2014, p. 6). I NTRODUZIONE - 25 Innalzati, grazie alla scelta della fedeltà al metodo scout per come pensato da B.-P. e alla figura di Cristo per come ce lo consegna il vangelo e il magistero ecclesiale, quelli che sono i due pilastri portanti del nostro agire, non resta che tirarci sopra un edificio che sia di riparo alle intemperie secolarizzanti di questo tempo. Un giro di frase per significare che la fatica che ora attende l’Associazione sta nel riuscire a comporre in una sintesi organica e non schizoide i due bisogni che le analisi degli esperti e il confronto tra i capi hanno evidenziato in tutta chiarezza in questo Convegno Fede: quello della prima evangelizzazione e quello della formazione di una fede adulta. Ovvero quello tra il primo annuncio a un popolo di analfabeti del cristianesimo e quello del consolidamento di una fede che è finalmente zampillata con l’azione di grazia che deriva dai sacramenti e dal confrontarsi sulla verità di Cristo. Istanze, si noti con attenzione, che alla chiarificazione della differenziazione tra l’evangelizzazione e la catechesi uniscono l’impegno – come ricorda uno dei maggiori ecclesiologi contemporanei – a mettere al centro il primato della persona, prima ancora che dell’istituzione (S. Dianich, Le attese della Chiesa, in Il Regno-Attualità, 14/2012, p. 437). Ce lo hanno detto gli esperti al Convegno e ce lo dice l’esperienza quotidiana del nostro servizio: il contesto sociale in cui viviamo è totalmente digiuno della più elementare grammatica della fede. Armando Matteo è riuscito a dare senso compiuto a questa situazione parlando della “prima generazione incredula” (A. Matteo, La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede, Rubettino, Soveria Mannelli, 2010). Una situazione che nella brevissima presentazione che apre il libro, Claudio Magris decodifica come «una grave mutilazione per tutti, credenti e non credenti, perché [la] cultura cristiana è una delle grandi drammatiche sintassi che permettono di leggere, ordinare e rappresentare il mondo, di darne il senso e il valore, di orientarsi nel feroce e insidioso garbuglio del vivere». Per noi, affetti da una sensibilità cristiana accentuata, questa assenza di sintassi cristiana è molto di più della perdita di un efficace farmaco che sana i quesiti esistenziali, è piuttosto l’indice dell’alto rischio che l’uomo e la donna di oggi perdano l’occasione di incontrare colui che solo tra tutti potrà “salvarli”, tramite quel disegno apocalittico che abbiamo descritto all’inizio, ossia Gesù Cristo. Se vengono a mancare dal linguaggio contemporaneo i sostantivi del Credo apostolico, il Dio cristiano è destinato ineluttabilmente a svaporare in un vago senso del sacro e la figura di Gesù Cristo ad essere ristretta in quella inadeguata di un maestro di morale. Ecco allora stagliarsi davanti a noi il primo granitico impegno come capi e as26 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” sistenti ecclesiastici dell’Agesci, ritessere, per dirla con Benedetto XVI, una «grammatica della fede», che tradotto in lingua comune vuole dire pensare nuovi linguaggi, fossero pure quelli dei social network come ci suggerisce il prof. Martelli, per narrare la realtà antica e sempre viva di Gesù Cristo vero Dio e vero uomo (Concilio di Calcedonia). Questo richiede ovviamente la dovuta competenza, che non dovrà essere eccelsa oltre ogni dire, ma dovrà pur rendere ragione di ogni articolo del Credo Niceno-Costantinopolitano, quello che recitiamo ogni domenica a Messa e che dovrà pur sapere come ha preso forma la Bibbia, oltre che avere in testa due nozioni di esegesi contestuale per non far dire alla Parola di Dio tutto e il contrario di tutto. L’alternativa è quella di annunciare alle generazioni future un falso “maestro”, che niente ha a che fare col Figlio diletto mandato dal Padre e di cui testimoniano i vangeli. Come volete che questo nostro fantoccio posticcio possa far «ardere il cuore», come invece accadde ai discepoli di Emmaus? (Lc 24, 32). Ma questa creativa e paziente ricostruzione di una lingua, non può esser sufficiente ad adempiere la totalità della missione a cui è chiamata la Chiesa e quindi noi con essa. Fatto il primo passo ne deve seguire un secondo, che è l’insegnare a scrivere nel cuore e nella mente l’”esperienza” di Gesù Cristo salvatore, per farla diventare parte intima di noi stessi, quasi un apparato aggiuntivo del nostro intelletto e della nostra volontà. Ma siccome il cuore si muove nella direzione che gli indica l’intelletto (san Tommaso d’Aquino), bisogna sforzarsi di offrire ai nostri giovani un “intelletto educato a Cristo”, di avere una mente così intrisa della sapienza di Dio che in ogni situazione, normale o straordinaria che sia, sappiano agire come agirebbe Dio stesso. Questa seconda fase la potremmo chiamare fase della “crescita nella fede”, e si distingue dalla prima per l’impegno alla formazione della coscienza, che è tale solo se libera dai condizionamenti esterni e pienamente responsabile delle conseguenze delle sue scelte. Purtroppo ancora oggi, per un cattivo vezzo che non siamo riusciti a scrollarci di dosso come Chiesa italiana, si continua a ritenere che questa crescita nella fede coincida in toto con la sacramentalizzazione, anzi a volte con i soli sacramenti dell’iniziazione cristiana (Battesimo, Confermazione, Eucarestia). Ma il grave è che non ci rendiamo conto del danno che provochiamo estirpando in tal modo dalle coscienze di molti il dovere di una formazione permanente, facendo credere che finita la sacramentalizzazione si sia ricevuto il ricevibile, quasi che lo Spirito santo agisca in noi a cottimo. È allora nostro impegno come Associazione che investe sui tempi lunghi, farsi carico di questo processo che segue al ricevimento I NTRODUZIONE - 27 dei sacramenti, affinché essi realizzino davvero in noi quella grazia di cui sono portatori. È altresì nostro impegno rendere le comunità capi un luogo di crescita non solo dell’educatore alla fede, ma del credente adulto. Quanto esposto è la messa a nudo della distinzione che sussiste tra il suscitare l’atto di fede e il renderlo maturo, ed è la base per l’edificazione di un percorso virtuoso che, a mio giudizio, lo scautismo cattolico ha già risolto in positivo da tempo. Educazione alla fede e scautismo sono infatti perfettamente combinabili una volta che si sia compreso che non si dà santità se non nell’integrità caratteriale della persona. Il Progetto Unitario di Catechesi lo aveva ben capito e aveva individuato il punto di saldatura nella tripletta: umano-religioso-cristiano. Dove per “umano” si intende la quotidianità che accomuna ogni persona, quel bisogno di senso che rode interiormente credenti e non credenti e che li spinge a trovare una risposta oltre il proprio io. “Religioso” va invece tradotto come quell’insieme di valori etici che guidano l’azione morale e sociale di ogni persona, e che concretamente si traduce nell’azione per la giustizia, per la tutela della pace, per la salvaguardia del creato, per la difesa della dignità della persona umana in tutti i suoi diritti e via dicendo. Il termine “cristiano” rimanda all’annuncio esplicito che solo Cristo porta a vero compimento il senso della nostra esistenza e dà vero compendio alla giustizia in quel progetto di cieli e terra nuova di cui siamo ormai edotti. Il libro dell’Apocalisse ne descrive la condizione finale, ma i vangeli ci dicono che il Regno è già in mezzo a noi (Mt 12, 28; Lc 11, 20); Lc 17, 21) solo che noi desideriamo realizzarlo. Essere un’Associazione che ha fatto della vita all’aria aperta, della dimensione simbolica, dell’interdipendenza tra pensiero e azione, del gioco, del servizio, dell’avventura, del rapporto capo-ragazzo l’ambiente privilegiato per una reale comunicazione di senso, è la nostra carta vincente. È qui che noi giochiamo da prestigiatori abili e competenti la nostra tripletta dell’umano-religioso-cristiano, come fosse un grimaldello che apre la porta dei cuori dei nostri ragazzi, affinché ci sia permesso di riempirla dell’annuncio della venuta di Cristo Salvatore. Per questo il riuscire a far vivere lo scautismo nella pienezza delle sue specificità, è la pista regale che riuscirà al momento opportuno a far incontrare Cristo nell’esperienza di sé. Una esperienza che non può che suscitare la “fede” nella sua persona e il desiderio tutto critico di approfondirla nei suoi aspetti. Di esplorarla, insomma, come farebbe sicuramente l’uomo dei boschi di cui parla B.-P.. Tutto ciò io lo chiamo, sulla scia di una lunga tradizione che pesca alle origini del movimento, “spiritualità scout”. Una parola che oggi ha perso di significato 28 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” nel nostro vocabolario, fino a scolorirsi in uno slogan buono per ogni occasione, tanto che difficilmente sapremmo definirne il contenuto educativo. Ma per dare maggior consistenza a questa mia tesi, che vede nella spiritualità scout il felice superamento del dualismo che potrebbe voler contrapporre evangelizzazione e catechesi nel senso richiamato, chiamo a testimone la citazione di un passaggio della relazione che il prof. Canobbio ha tenuto al Convegno di Trento: «Si tratta di assumere – dice Canobbio – una prospettiva narrativa, di essere in grado cioè di far capire che l’incontro con il Signore Gesù è capace di sviluppare potenzialità della vita perché io l’ho sperimentato. Questo non vuol dire far diventare la mia esperienza paradigmatica, perché il mio compito non è quello di fare delle fotocopie di me stesso, il mio compito è quello di condurre le persone a Gesù». Ecco, un’esperienza narrativa così intesa a mio giudizio dice tutto. Non si tratta di fare esperienze da laboratorio, di ripescare dalla memoria ciò che è stato senza che sia stato elaborato e confrontarlo semplicemente con un “racconto” della vita di Gesù. Si tratta di vivere pelle a pelle con i nostri ragazzi la sfida della fede, di giocare con loro da adulti il gioco della vita, di aver vissuto e vivere più avventure con Gesù Cristo per amore di Lui, di quanto loro abbiano potuto permettersi. Questa e non altro è la spiritualità scout. Si cerchino pure degli adattamenti, ma non commettiamo l’errore di essere innovativi a tutti i costi e gettare via il bambino con l’acqua sporca. Prima di chiudere questo paragrafo vi giunga l’invito a voler cercare di comprendere a fondo quella sottile ma robusta linea che unisce i pontificati di Paolo VI e papa Francesco, e che va proprio nella nostra direzione. Papa Bergoglio non ci ha ancora dato nessuna Enciclica e si è per ora limitato a un’ Esortazione apostolica, l’Evangelii gaudium. A nessuno tuttavia è sfuggito come nel titolo e nel contenuto essa sia molto simile all’Enciclica di Paolo VI con cui abbiamo aperto questa riflessione sull’evangelizzazione e la fede adulta, l’Evangelii nuntiandi. Eppure papa Francesco nel Proemio delle sua esortazione va ben oltre il suo predecessore, scrivendo qualcosa che il beato papa Montini non riteneva allora necessario evidenziare. Papa Francesco, infatti, guidato dall’umiltà che è propria del pastore ma anche dalla fermezza che deve appartenere al custode del depositum fidei, ricorda che nessuno di noi sarà mai pronto per la sua missione di evangelizzatore, se non è capace in primis della sua continua conversione, se non è un uomo orante, se non ha fatto esperienza vera di Cristo. Egli sarà sì un buon oratore, un buon fascinatore di folle, ma il suo seme cadrà tra i rovi e non porterà frutto (Mc 4,7). Una puntualizzazione su cui c’è poco da commentare e molto da meditare. I NTRODUZIONE - 29 9. Laici e presbiteri in Agesci Sul ruolo dei laici in Agesci ho già avuto modo di esprimermi e a quello scritto non posso che rimandare (A. SALUCCI, Post-Fazione, a M. PANDOLFELLI, Laici nella Chiesa. La natura ecclesiale dell’Agesci, Centro Documentazioni Agesci, Edizioni Fiordaliso, Roma, 2012). Qui basti ricordare che l’ Agesci è un’associazione di laici, ma non laicale. Quello che invece va messo a fuoco è l’articolato e originale interscambio tra laici e sacerdoti che viene a crearsi nel procedere dell’azione educativa, educazione alla fede compresa. Un interscambio che rende l’Agesci così diversa dalle altre associazioni consimili, tanto da non essere a volte compresa dagli stessi ambienti ecclesiali. A chi non ne fosse edotto conviene premettere che l’Agesci è un’associazione cattolica ma non necessariamente di cattolici. È un’associazione, potremmo dire, dalle braccia aperte, che non chiede per farne parte di certificati di sorta, ma è pronta ad accogliere chiunque voglia condividerne lealmente i suoi valori, e tra questi non manca la proposta di una educazione alla fede cattolica. Essa infatti annuncia infaticabilmente la Parola di Dio e attraverso questa l’avvento del Regno di Dio, senza con ciò imporsi alla coscienza individuale, ma attendendo con la pazienza operosa e fedele del missionario che lo Spirito tocchi i cuori di ciascuno. Suo scopo è piuttosto quello della promozione della persona umana nella sua integrità e dignità, quindi anche nella sua dimensione religioso-spirituale. Per questo i capi e gli assistenti ecclesiastici, due figure complementari nel loro ruolo, come la destra lo è alla sinistra, ma così essenziali l’uno all’altro, sono la forza generante della nostra Associazione. Lo sono per virtù della loro testimonianza di un incontro personale con Cristo, vissuto con quotidianità nella preghiera, nella lettura della Parola, nella celebrazione sacramentale, nell’azione caritatevole del servizio educativo. Sappiamo che i Padri del Concilio Vaticano II vollero strutturare attorno al termine “laico” un significato capace di illuminare la Chiesa odierna col riverbero dell’antica tradizione cristiana. L’accezione di laico, più che una funzione indica perciò per i Padri conciliari una “persona”. È il distintivo posto all’occhiello di chi non appartiene al “clero”, ma che proprio per questo svolge una missione sua propria, che è quella di impegnarsi nel mondo per santificarlo. Se fin dalla sua fondazione la Chiesa si è impegnata nell’ordine della salvezza, il Concilio Vaticano II ha ribadito che anche il mondo secolare è ordinato a questa salvezza, e che quindi il laico non è più da comprendersi come il non-chierico o il non30 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” consacrato, bensì come l’animatore di salvezza delle realtà temporali (Si veda: Lumen Gentium 31 e Apostolicam actuositatem). Una precisazione che è sufficiente a far comprendere il ruolo “ecclesiale” dei capi nella nostra Associazione. Riguardo al presbitero-assistente ecclesiastico, che ogni livello associativo deve chiedere e ottenere dal vescovo o dalla conferenza episcopale di competenza, ha il ruolo unico e insostituibile dell’esercizio del ministero sacerdotale. In grazia della celebrazione eucaristica e del sacramento della Riconciliazione è per i nostri capi e i nostri ragazzi/e, il costruttore di autostrade che conducono alla santità. Ma egli deve avere una marcia in più rispetto agli altri. Egli è infatti chiamato dallo Statuto Agesci a essere «corresponsabile della proposta educativa dello scautismo fatta dall’Associazione», ed è reso parte attiva della partecipazione «alla vita delle comunità capi di cui ne condivide il progetto educativo», mettendosi a servizio delle differenti unità e dell’Associazione tutta (art. 9). Perciò oltre alla competenza ministeriale e teologica che gli è propria, deve anche formarsi al metodo scout. L’Associazione non vuole avere nei suoi assistenti ecclesiastici dei semplici dispensatori di sacramenti, ma degli adulti che partecipano al gioco dello scautismo a tutti i livelli e che nel giocare il gioco esercitano il loro ministero sacerdotale. Quando il duetto assistente ecclesiastico-capi delle unità funziona, allora la proposta di educazione alla fede vola a livelli incomparabili, perché l’educare all’esser cristiani non è un surplus, non è la catechesi staccata dal contesto, non è la predica noiosa e melassata del “bisogna essere buoni”, ma è un incastro sapiente di vita e annuncio, di celebrazione e testimonianza. Un principio di metodo che sembrerebbe confermato dalle suggestive parole che nel 1934 Francis Vane rivolgeva in una lettera al conte Mario di Carpegna: «Quando sono ritornato in Italia dopo la guerra, gli esploratori nazionali mi hanno fatto dono del loro Consiglio. Ma come ho scritto al generale Baden-Powell, ho trovato che lo scautismo cattolico è più vicino al nostro ideale e ho messo tutta la mia energia per aiutarlo» (P. RIPA, Lo scautismo cattolico in Italia, in A., FAVALE, (a cura di), Movimenti ecclesiali contemporanei. Dimensioni storiche, teologico-spirituali ed apostoliche, LAS, Roma, 1991, p. 71). Difficilmente si potrebbe esprimere meglio l’affinità tra scautismo e vangelo, tra formazione umana e cristiana, o argomentare di quella capacità che il metodo scout ha di veicolare quel roboante messaggio di salvezza che è Gesù Cristo. Di quel Figlio di Dio, e Dio egli stesso, che si è donato in pienezza, fino a consumarsi nel sacrificio della croce. È di questo incomparabile gesto d’amore di Dio per l’umanità che l’assistente ecclesiastico, ministro I NTRODUZIONE - 31 dell’Eucarestia e dispensatore dei sacramenti, celebra con la vita e col gesto liturgico il “memoriale”. I confronti avvenuti nei differenti gruppi di lavoro hanno gridato così forte il desiderio dei capi di avere accanto a sé degli assistenti ecclesiastici motivati e presenti, che anche i sordi hanno udito. Dell’assistente ecclesiastico hanno necessità come il terreno arido dell’acqua, come il baco da seta del suo bozzolo, come il seme del suo baccello, affinché gli siano compagni di strada nell’intrecciato e per loro complesso “sistema” dell’educazione alla fede. Soprattutto gli chiedono di essergli maestro nella preghiera e nella comprensione della Parola di Dio. Due attese che non hanno bisogno di chiarimenti. Ma ce n’è una terza che vorrei mettere a tema come frutto finale di questo Convegno Fede 2013 e che fa da pendant con l’educazione alla libertà di cui abbiamo già accennato. Mi riferisco all’educazione alla verità, della quale non parliamo mai, col rischio che a forza di darla per scontata scompaia dal nostro orizzonte valoriale. Le analisi sopra esposte ci hanno reso invece coscienti che siamo avvolti in un tale crepuscolo e incertezza che rischiamo come uomini moderni di cercare vie di fuga in mezze verità e sprofondare così nella menzogna, preda di colui che è il padre di ogni male e di ogni falsità (Gv 8,44). Quello che oggi occorre al mondo al contrario è il coraggio tragico della verità, di una verità che non offre protezione o sicurezza, ma espone alla derisione di questo mondo (H. U. von Balthasar), perché è la verità umile e disarmata di Cristo. Di colui che di fronte a Pilato ha combattuto una lotta appassionata che lo ha condotto alla morte, ma con spirito pacificato (Gv 18, 28 - 19,30). E chi meglio di un sacerdote che ogni attimo e giorno della sua vita sa di essere questo agnello immolato per il mondo, può rendere testimonianza della verità di colui che è Verità (Gv 14, 6). 10. Per concludere con “tenerezza” Non so se nel vostro viaggiare tra i libri biblici vi siate, anche solo per caso, imbattuti negli scritti del profeta Osea e abbiate potuto assaporare la sua capacità di scuotere dal torpore dell’abitudine nella fede, per costringerci a rimettere al centro l’essenziale. Egli lo fa quando grida per bocca di Dio: «tenerezza ( ésed) ho voluto non olocausti» (Os 6,6). Col verso agile di una cerbiatta, il profeta ci fa qui gustare l’affettuosa tenerezza che lega l’amante all’amata, lo sposo alla sposa, la madre al figlio, Javhé a Israele, il Padre a Gesù Cristo, lo Spirito santo alla Chiesa, l’educatore all’educato, l’Apostolo alla sua comunità. È come se que32 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” sto lontano profeta ci fischiettasse all’orecchio la tonalità dell’amore di Dio per i suoi figli. Un amore che non è dominio o richiesta, ma un sentimento diretto che stringe in un abbraccio senza tempo, che non è un atto mentale, una razionalità pensata, ma sentimento di “tenerezza”. Cari amici, che siete arrivati alla fine di questa estenuante maratona, vi chiedo: come osare pensare a Dio, dire di conoscerlo e di farlo proprio, fossimo pure nel più intimo di noi stessi e nella notte santa della nostra esistenza, se prima non si è avuto per Lui un moto di tenerezza. Ecco, io credo che dopo tanto argomentare a seguito delle grandi e stimolanti narrazioni che questi Atti ci offrono, sia obbligo ricordare che l’educazione alla fede è anzitutto e sopratutto un gesto di tenerezza. Di quella che dobbiamo al nostro Signore Gesù Cristo, Salvatore e Redentore, e in Lui a quel meraviglioso scrigno di tesori nascosti che sono i giovani affidatici dalla Provvidenza. Il resto è grazia. Con le parole di san Paolo offro a tutti voi a nome del Comitato nazionale, stando «in ginocchio davanti al Padre» (Ef 3, 14) questi Atti frutto del lavoro dei tanti amici che ci hanno aiutato nella riflessione e di tutti voi che avete partecipato al Convegno Fede 2013. Un Padre «dal quale – continua san Paolo – ha origine ogni discendenza in cielo e sulla terra, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati nell’uomo interiore mediante il suo Spirito». E «che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio. A colui che in tutto ha il potere di fare molto di più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che opera in noi, a lui la gloria nella Chiesa e in Gesù Cristo per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli! Amen» (Ef 3, 14-21). Firenze, lì 15 novembre 2014 fr. Alessandro Salucci, op Assistente ecclesiastico generale Agesci I NTRODUZIONE - 33 Lettera di invito al Convegno Fede 2013 A tutti i capi e agli assistenti ecclesiastici dell’Agesci Carissime capo, carissimi capi, carissimi assistenti cclesiastici, sorelle e fratelli nella fede in Gesù Cristo, testimoni di questa fede nella scelta del servizio educativo, grazia e pace da Dio Padre e dal Signore nostro Gesù Cristo, in forza dello Spirito santo che ci è stato dato. È così che iniziano le lettere degli apostoli ed è così che si aprono le lettere pastorali del papa alla Chiesa. In questo esordio vorremmo cogliere insieme a voi la prospettiva del cammino a cui siamo chiamati. Sono ormai quasi cento anni che lo scautismo cattolico anima la vita della Chiesa mettendosi a servizio dei giovani col ministero che gli è proprio. Anche noi come Agesci vi abbiamo contribuito con la nostra competenza. I più giovani fra voi non ricorderanno, se non attraverso il racconto dei capi meno giovani, quella stagione associativa che si aprì con l’arrivo nelle nostre comunità capi del Progetto Unitario di Catechesi, da subito “battezzato” il PUC. Sono trascorsi trenta anni. E ne sono trascorsi venti dal Convegno Giona... Va nella Grande Città e Grida, che rappresentò un momento di “risveglio” per le comunità capi e di viva e originale presenza nelle Chiese locali. Oggi, siamo ancora una volta chiamati con forza e urgenza, ad essere una presenza viva ed originale nella Chiesa italiana, così impegnata sul terreno dell’educazione, e nella Chiesa universale, sfidata dall’urgenza di una nuova evangelizzazione. Proprio oggi, 11 ottobre, il Santo Padre apre l’anno della Fede. Il mandato che ci appartiene come adulti cristiani, testimoni del Risorto davanti ai lupetti e alle coccinelle, agli esploratori e alle guide, ai rover e alle scolte si rinnova. Siamo chiamati a metterci in cammino. E il nostro cammino comincia qui, sin da ora. A 50 anni dall’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II, vogliamo raccoglierne lo spirito: riscoprire la più profonda e autentica tradizione cristiana e trovare le forme più capaci di comunicare questa tradizione agli uomini e alle donne di 34 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” oggi. Con la Chiesa italiana vogliamo raccontare loro “la Vita Buona del Vangelo”, per lasciare che lo Spirito susciti uomini e donne nuove, capaci di una “parlata nuova” che sappia narrare con credibilità il vangelo di Gesù Cristo, iniziare alla vita cristiana, far crescere nella fede, rispondere alla domanda che interroga noi, come i discepoli stessi di Gesù: e voi, chi dite che io sia? Per questo l’Associazione ha deciso di impegnarsi in un Convegno Fede che ci vedrà impegnati in tre diverse città del Nord, Centro e Sud Italia nei giorni 15, 16 e 17 novembre 2013, riuniti sotto il motto evangelico: Ma voi, chi dite che io sia? (Lc 9, 20). La nostra forza è quella di fare le cose assieme, per questo desideriamo fortemente che questo sia un cammino condiviso e partecipato, vissuto dentro le comunità capi, a cui non potrà mancare il contributo degli assistenti ecclesiastici, nel fraterno confronto con le Chiese locali. Sogniamo, come frutto di questa strada, quelle “buone pratiche” capaci di incidere nella vita delle nostre comunità capi, delle nostre Unità, ma anche dei nostri Consigli e Comitati, per riscoprire la bellezza, la gioia, la forza di essere comunità di scout cristiani, affascinati dal vangelo e sempre pronti ad annunciarlo e testimoniarlo con la vita, con la parola, con la celebrazione. Il Convegno Fede che ci attende è al contempo una verifica del cammino fatto, uno sguardo sulle urgenze del presente e una presa in carico del futuro. Se per adesso vi chiediamo di mettere in agenda questo impegno e renderlo prioritario nella vostra programmazione, a breve attraverso la stampa e i diversi livelli associativi, vi giungerà del materiale di studio e di riflessione, utile speriamo a mettere a fuoco il cammino che ci separa da qui al Convegno. Per adesso non abbiamo altro vanto che quello dei seminatori che non sono mai stanchi di uscire a seminare (Mt 13, 3). A seminare il grano della speranza e del coraggio, della fiducia e del conforto, dell’amore e della gioia. Ma grazie a voi sappiamo che ogni chicco si arricchirà ben presto di spighe in ogni angolo della nostra terra. Buona Strada Roma, lì 11 ottobre 2012 Marilina Laforgia, Matteo Spanò, fr. Alessandro Salucci, op Presidenti e Assistente ecclesiastico generale dell’Agesci I NVITO - 35 Saluto iniziale a cura dei Presidenti del Comitato nazionale e dell’Assistente generale Siamo qui – a Loreto, Catania, Trento – convenuti in circa 2500. Tre città per un Convegno, un unico convenire. Proprio sul senso del convenire vorremmo soffermarci per un momento. Convenire significa convergere, convergere come radunarsi in uno stesso punto, ma anche come riconoscere una ragione, o riconoscersi nella ragione di una convocazione. Noi siamo qui perché abbiamo riconosciuto un bisogno: Accrescere la nostra fede e scoprire come suscitare la fede negli altri, per essere Chiesa missionaria nell’educazione. Su questo mettiamo in gioco la nostra Associazione oggi. Ci ritroviamo riuniti in Convegno perché ci siamo sentiti “convocati”, come Chiesa. Lo leggevamo in una delle schede di approfondimento messe a disposizione delle comunità capi in preparazione a questo evento: “la parola Chiesa significa Convocazione”. E noi siamo qui come Chiesa, convocati dai profondi cambiamenti e dalle molteplici domande nuove che ci giungono dalle giovani generazioni. Da cento anni lo scautismo cattolico anima la vita della Chiesa e come Agesci vi abbiamo contribuito con impegno e con competenza (rileggeremo proprio qui, insieme, circa trent’anni della nostra storia). Oggi ancora siamo chiamati ad essere presenza viva e creativa, in un tempo in cui radicali trasformazioni del tessuto sociale, delle relazioni fra le generazioni e della cultura occidentale richiedono un supplemento di originalità. 2500 capi fanno di questo Convegno un evento unico nella storia della nostra Associazione e ci autorizzano a dire che l’Agesci è una associazione viva, in cammino. Ma anche su questa che appare a molti come la stagione dei grandi numeri inattesi (pensiamo ai 34 mila rover e scolte pronti a mettersi in cammino sulle strade del coraggio) vorremmo spendere una parola in più. I grandi numeri ci rendono tutti reciprocamente più responsabili, ma anche più sicuri dell’esito importante del nostro ‘convenire’: siamo certi che stiamo vivendo un evento gravido di futuro. Ma non possiamo non chiederci che cosa si nasconde dietro i grandi numeri e non possiamo non pensare che risposte così corali possono es36 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” sere il volto di una crisi. Crisi che qui assume il senso più positivo che si possa attribuire a questa parola tanto abusata: crisi come ansia di nuovo. Questo incontro – per il quale ci siamo dati appuntamento un anno fa, in perfetta coincidenza con l’apertura dell’anno della fede, richiamando i cinquant’anni dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II e l’impegno della Chiesa Italiana sul terreno dell’educazione – cade, come per Grazia, proprio in un momento intenso di novità dello Spirito, che si annuncia anche con il Pontificato di Papa Francesco. Sentiamo questa coincidenza come una chiamata a vivere la novità dello spirito nella massima pienezza possibile, da protagonisti. Da oltre 2000 anni ci si interroga su chi è Gesù e noi siamo nel flusso di questa storia. Questa figura, che ha attraversato i secoli e tutte le crisi della Storia, continua ad interrogarci oggi, e ci fa avvertire nuova, quasi inedita, la domanda di sempre: “ma voi chi dite che io sia”? Ed è straordinario scoprire come possiamo stare da protagonisti del nuovo nella storia dell’umanità, attraverso la storia stessa della nostra Associazione... 1991 Convegno Giona: Vai nella grande città e grida! Anche allora, come oggi, tre città accoglievano un Convegno nazionale sull’educazione alla fede in Agesci. Più di mille capi fra Bari, Firenze, Venezia richiamati dall’ordine rivolto da Dio al profeta: ‘Vai nella grande città e grida!’ Un ordine, una affermazione, un punto esclamativo... è l’inizio di una storia (e di un convegno, e di un cammino associativo e quindi di Chiesa). Ricordiamo tutti come Giona, il profeta riluttante, compiuta la sua missione, convertiti i Niniviti, provò dispiacere e fu indispettito nei confronti del Signore, non sentì giusto il perdono di Dio per la città di Ninive, Questa storia si chiude con l’interrogativo che Dio rivolge al suo profeta “.... e io non dovrei aver pietà di Ninive...?” Questo interrogativo è un ponte. È un ponte sulla novità del vangelo ed è un ponte anche su questo nostro Convegno. Proietta il Volto di Gesù e si “risolve”, nella domanda che Gesù rivolge ai dodici discepoli “convocati”: ma voi chi dite che io sia? Ai dodici discepoli come a noi, oggi, interrogati per essere testimoni e annunciatori gioiosi alle generazioni che stanno crescendo del Dio nuovo e misericordioso. Un ultimo pensiero: abbiamo voluto trarre la domanda che ci guiderà in questo Convegno dal Vangelo di Luca, che sta accompagnando i passi della comunità cristiana in questo anno Liturgico. Ed al Vangelo di Luca è dedicata una delle schede di riflessione offerte alle comunità capi in preparazione a questo evento. Nel ricostruire il contesto narrativo in cui la domanda di Gesù ci viene consegnata, si ricorda come il momento in cui Gesù interroga gli apostoli preceda la SALUTO - 37 lunga presentazione del viaggio di Gesù dalla Galilea a Gerusalemme, a ricordare quanto essenziale sia il confronto con questa domanda, che interpella la nostra vita e coinvolge tutta la nostra comunità, quando ci si debba mettere in cammino. È essenziale, da capi dell’Agesci, lasciarci interrogare così, mentre ci prepariamo a quel cammino che i rover e le scolte apriranno per tutta la nostra Associazione, portandoci su strade nuove e in territori che, forse, non abbiamo ancora mai esplorato. Un buon Convegno. Marilina Laforgia, Matteo Spanò, fr. Alessandro Salucci, op 38 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” AGESCI – Convegno Fede “Ma voi, chi dite che io sia?” (Lc 9,20) 15-17 novembre 2013 (Trento, Loreto, Catania) Programma del Convegno VENERDÌ 15 NOVEMBRE 18,00 19,00 20,00 21,00 22,30 Arrivo e sistemazione Saluto ufficiale Cena Veglia “giocata” nella città che ospita il Convegno Preghiera SABATO 16 NOVEMBRE 8,30 9,00 11,15 12,00 13,00 16,00 18,00 20,00 21,30 Preghiera Leggere criticamente il percorso associativo nel campo dell’educazione alla Fede - Tavola rotonda – Esperienze a confronto: PUC, Sentiero Fede, Campi Bibbia, “Nella tenda di Abramo” Verifica del percorso “Narrare l’esperienza di fede” – sintesi del percorso fatto e verifica delle acquisizioni maturate Confronto: carrefour e lavori di Gruppo – carrefour, mostra delle idee/riflessioni delle co.ca., sulla base del percorso di approfondimento fatto a casa Pranzo – Lavori di Gruppo, per fare sintesi di quanto ascoltato e per proporre domande e considerazioni per il lavoro del pomeriggio Leggere gli interrogativi e le prospettive che provengono dal mutato contesto sociale e religioso – relazioni proposte da due esperti – domande che provengono dai GdL della mattina e interazione con gli esperti Conoscere la città che ospita il Convegno – visita di alcuni luoghi significativi ed incontro con la Chiesa locale Cena Celebrazione eucaristica DOMENICA 17 NOVEMBRE 8,30 9,00 12,00 13,00 Preghiera Identificare percorsi futuri che impegnino il cammino associativo – lavori di Gruppo (Branche, formatori, quadri), per fare sintesi degli input raccolti ed identificare piste operative di percorsi da sviluppare in Agesci – sintesi, in plenaria, delle indicazioni emerse dai gruppi Considerazioni Conclusioni PROGRAMMA - 39 In preghiera Venerdì 15 novembre (sera) Il Convegno Fede 2013 ha voluto iniziare i suoi lavori mettendosi docilmente sotto la vigile protezione dello Spirito Santo. Al saluto iniziale da parte dei Presidenti del Comitato nazionale e dell’Assistente ecclesiastico generale, è seguita in ognuna delle tre città una veglia di preghiera. A Catania, Loreto e Trento si sono così alzati canti e invocazioni, con al centro dell’attenzione la Parola di Dio. Il nostro Convegno desiderava anche essere un segno che esprimesse la nostra appartenenza a delle Chiese locali. Abbiamo perciò chiesto ai tre vescovi delle città che ci accoglievano, di presiedere almeno uno dei diversi momenti liturgici che avrebbero scandito le nostre giornate. Volevamo infatti affidarci alla Chiesa che è in Catania, Loreto e Trento affinché ci fosse madre prodiga di grazie in questo nostro lavoro di studio, di confronto e di discernimento. L’accoglienza dei tre pastori non è mancata ed è stata calorosa ed efficace nel messaggio. Ringraziamo perciò l’Arcivescovo di Catania, Sua Ecc. Rev. mons. Salvatore Gristina, che ha reso presente la realtà della Chiesa catanese, desiderando celebrare con noi la SS. Messa del sabato sera del 16 novembre, nel Duomo di Catania. Ringraziamo altresì Sua Ecc. Rev. mons. Giovanni Tonucci, Delegato Pontificio per la “Santa Casa” di Loreto, per aver voluto pregare con noi il canto dei vespri di venerdì 15 novembre, proprio nella santa Basilica che racchiude come scrigno la casa che fu di Maria Santissima. E, infine, Sua Ecc. Rev. mons. Luigi Bressan, Arcivescovo di Trento, che ha voluto testimoniare il suo benvenuto presiedendo la SS. Messa vespertina del sabato 16 novembre, proprio in quel Duomo di Trento che vide celebrare tra le sue pareti il Concilio che da quella città prese il suo nome. 40 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” CATANIA Sulla tua parola getterò le reti... (Lc 5, 1-11) Sotto l’egida delle parole che l’evangelista Luca mette sulle labbra di Pietro: «Sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5, 5), che rispondono fiduciose al comando di Gesù di lanciarle nuovamente nonostante gli insuccessi precedenti, la veglia è stata scenicamente ambientata sul lago di Gennèsaret, là dove Pietro fu chiamato ad essere «pescatore di uomini» (Lc 5, 10) e caricato di una nuova missione. Oltre la troneggiante figura di Pietro, l’animazione si è affidata a una serie di personaggi che hanno avuto la ventura di vivere quel momento pur restando nell’ombra, e forse per questo non chiamati in causa nel brano del vangelo. Personaggi che però sono stati capaci di vivere e accogliere i sentimenti e le sensazioni che quella notte attraversarono il cuore del Principe degli Apostoli. L’obiettivo dichiarato della veglia è stato quello di analizzare le diversificate sfaccettature del miracolo più significativo, che non è tanto quello della pesca strepitosa, ma il sì di Pietro alla chiamata di Gesù. Il seguito a un invito che ha anch’esso del miracoloso, perché fatto a un uomo semplice e affannato, che il tempo ha gettato sulla strada del fallimento personale, ma che Dio ha scelto per essere il “capo” della sua Chiesa. La veglia ha comportato che ogni partecipante si confrontasse con una serie differenziata di versetti tratti da questo episodio evangelico (Lc 5,1-11) che esprimono la storia di uomini comuni, che da quel rincorrersi di frasi hanno tratto un’ispirazione e ne hanno dedotto una rotta sulla quale dirigersi una volta incontrato Gesù. L’inizio e il lancio della Veglia sono affidati a Pietro, che si racconta in prima persona e rievoca il fallimento di una notte spesa senza niente raccogliere. Un Pietro che riporta alla mente il dilemma se dire sì a Gesù e gettare nuovamente le reti, ossia quel difficile passo dell’annullamento del proprio orgoglio per affidarsi totalmente all’altro. Poi la sorpresa della pesca miracolosa, la scoperta della potenza di Dio e della propria natura di peccatore, e a seguire il miracolo vissuto in prima persona della scelta di seguire Gesù sulla sua stessa via. In questa fase dell’ambientazione ogni personaggio possiede un simbolo, che rimanda ad un elemento attinente a una barca da pesca: le reti, l’acqua, il vento, la stella polare, l’ancora, il timone, la chiglia e i remi. Simboli differenti, che coincidono con quelli che hanno ricevuto i partecipanti, che così si trovano separati VENERDÌ 15 NOVEMBRE - 41 in gruppetti per vivere con un proprio narratore esperienze attinenti a ciò che egli va raccontando. Entrano ora in scena gli altri personaggi e ciascuno racconta un’esperienza che è come un tassello aggiunto al percorso che conduce a Cristo. Primo personaggio: il pescatore di un’altra barca. Il simbolo è la rete. L’anonimo spettatore, alla luce degli accadimenti che vede succedere nella barca di Pietro, analizza e racconta il suo dilemma, che è quello che lo accomuna ai tanti pescatori che in questo periodo si ritrovano a dover decidere se raccogliere o meno i migranti profughi in mare, a costo di vedere sequestrata la propria barca. Secondo personaggio: la moglie di Pietro. Il Simbolo è l’ancora. Ella sente le voci che giungono dalla spiaggia e che si rammaricano della pesca notturna andata male, e non si capacita del perché del ritorno al largo della barca di suo marito per gettare nuovamente le reti. E tanto meno si capacita della conseguente scelta di Pietro di lasciare tutto, comprese le sicurezze offerte dalla casa e dalla famiglia (l’ancora) per seguire Gesù. E tuttavia si fida e si affida. Il racconto è quello di una delle mogli di uno dei morti a Nassirya, l’incertezza dell’abbandono, la voglia di farsi utile in una terra disastrata. Terzo personaggio: il futuro apostolo Giacomo, uno dei soci di Pietro che assiste al miracolo direttamente e in qualche modo partecipandovi. ll simbolo è l’acqua. Il racconto viene dalla voce di una reale miracolata ancora vivente. Un video in cui racconta della sua esperienza a Lourdes, del ritorno a casa, del miracolo, e poi della conferma da parte della commissione. Quarto personaggio: Gesù stesso, visto come il modello di chi fa scelte controcorrente, ma che liberano da vincoli e catene. Il simbolo è la stella polare. Il personaggio narrante è un prete in prima linea, uno di quelli che ogni giorno devono fare i conti con le minacce e i soprusi a causa del loro lavoro missionario nei quartieri degradati delle nostre città. Il suo racconto è la descrizione della dura lotta che ogni giorno si deve combattere contro il male morale dell’uomo e che si può vincere solo nell’amore di Cristo. Quinto personaggio: è uno della folla che ha sentito parlare del miracolo accaduto a Gennèsaret e ha deciso di seguire Gesù. Il simbolo è la chiglia della nave. Il racconto è del giudice Rosario Livatino. La sua esperienza di persona di fede impegnata nella lotta ogni giorno contro la mafia per la giustizia. Non ha fatto esperienza diretta di Gesù Cristo, ha creduto lo stesso che il suo messaggio fosse una causa da cogliere e lo ha seguito. 42 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” Sesto personaggio: l’altro socio di Pietro, quel Giovanni che antepone a tutto la ragione. Il simbolo sono le cime della nave. È il racconto di chi tenta di dissuadere Pietro dal seguire Gesù e che qui si incarna nella storia di un commerciante che paga il pizzo per ragioni razionali e di pura opportunità, ma che ha in animo la presenza di Cristo che lo stimola al cambiamento, e a cui alla fine si affida. Settimo personaggio: uno della folla che ha lasciato tutto per seguire anche lui Gesù. Il simbolo è il vento. Si racconta la storia di un frate francescano che ha scelto la povertà assoluta, la provvidenza, la preghiera, il servizio, andando in controtendenza rispetto al mondo secolarizzato. Ed ha vinto la sua corsa, perché ha combattuto la buona battaglia. Ottavo personaggio: è una donna della folla che arriva tardi. Ha sentito dire che Gesù sta parlando, ma quando arriva, lui è già andato via. Ma crede, nel suo nome nonostante non sia mai lei destinataria del miracolo atteso. Il simbolo è Il timone. È la storia di ciascuno di noi, che in qualche modo cerca di rendere attuale la presenza di Cristo nella sua vita e che continuamente si confronta con la sua parola, celebra i suoi sacramenti e vive l’azione fattiva della carità. È il racconto dell’ Impossibile, dell’attesa del miracolo, della fede assoluta. Della speranza che la rende viva... nonostante tutto. Ma è anche la storia di una malato di SLA.. Andrea... che crede... nonostante... Nono personaggio: una prostituta. Il simbolo è il remo. Ha sentito Cristo, ha raccolto il suo messaggio, lo ha seguito. Il racconto è quello di una prostituta accolta in una comunità Giovanni XXIII, che ha deciso di denunciare, e cambiare vita. Il remo ha dato la forza per cambiare la direzione alla sua vita. Ha seguito Gesù. È giunto ora il momento in cui ogni personaggio renderà conto ai partecipanti della direzione nella quale ha deciso di muoversi, che è la stessa direzione che l’incontro con Cristo gli ha indicato. Essa indica la rotta verso il silenzio, la rivoluzione, il possibile, la bellezza, la tenerezza, la stabilità, il discernimento, la libertà. Ciascuno dei presenti riceve per loro tramite questi diversi mandati. Infine torna in scena Pietro, che racconterà la fine della storia. Il simbolo è la pietra su cui è stata edificata la Chiesa. VENERDÌ 15 NOVEMBRE - 43 LORETO “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1, 14) Il luogo di svolgimento della veglia è stato il centro della cittadina di Loreto, con un momento iniziale e uno conclusivo nella piazza del Santuario Mariano, accompagnati da due momenti itineranti. Inizio: nello spazio tra il sagrato della Basilica Mariana di Loreto e la fontana è stata dipinta una raffigurazione della casa che custodisce l’Annunciazione (la Casa di Maria a Nazareth), presente a Loreto, che ci chiede: chi sono io per voi? Nel frattempo si iniziano a radunare i partecipanti al Canto Madonna nera, e un sacerdote introduce alla veglia motivando perché oggi siamo qui e perché proprio in questo luogo. In contemporanea sulla facciata della basilica vengono proiettati dipinti raffiguranti l’Annunciazione. A seguire viene proclamato il seguente brano del vangelo di Luca. Dal vangelo secondo Luca (Lc 1, 26-38) In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: “Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te”. A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”. Allora Maria disse all’angelo: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?”. Le rispose l’angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio”. Allora Maria disse: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. E l’angelo si allontanò da lei. Un gesto simbolico: dopo un attimo di silenzio, il sacerdote che ha presieduto 44 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” l’apertura invita i partecipanti a ritessere nel proprio intimo i fili di senso che giungono dall’”eccomi” pronunciato da Maria alla chiamata dell’angelo, e ad approfondire il valore del suo affidamento totale a Dio. Ossia di ri-centrare in noi il senso del Verbo, la seconda persona della SS. Trinità, che si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. Invita poi, a tempo debito, a comporre in tridimensionale la casa disegnata sul selciato utilizzando i sassi che ognuno ha portato dalla propria terra e sui quali ha disegnato o scritto l’esperienza di un suo “eccomi” alla chiamata di Dio. Un gesto che vuole raccogliere la sensazione d’essere anche noi come Maria, la casa che accoglie il Cristo, il Dio che è venuto ad abitare in mezzo a noi. Il gesto è accompagnato da un canto alla cui conclusione il sacerdote esorta i partecipanti a partire lungo alcune direttrici che vengono indicate, e di cercare attraverso l’incontro con gli altri di capire chi è Cristo per noi. Ci si divide quindi per gruppi a seconda del colore del filo di lana assegnato al momento dell’iscrizione. Prima però della dispersione dei gruppi viene recitata una preghiera in comune Gli incontri: i luoghi d’incontro sono due e in ognuno di essi si è attesi da tre persone. Per cui i gruppi ruotano due volte, sempre accompagnati dal volontario del loro colore. Primo incontro: si è guidati in una riflessione sulla parola biblica che è il tema del convegno “Ma voi, chi dite che io sia?” (Lc 9, 20) Secondo incontro: si ascolta la testimonianza su una forma di servizio che è attiva nel territorio di Loreto, a cui segue un confronto fra gruppi di circa 15 persone, che nel frattempo si sono confrontati sulla domanda:”Chi è Cristo per me e dove lo incontro nella mia vita?”. Terminati i due momenti i gruppi hanno di nuovo raggiunto la piazza della Basilica di Loreto, proprio dove si trova la casa antecedentemente costruita con le pietre portate da ognuno. Si è ora invitati a ritrovarsi assieme al canto Donna dell’attesa. Il sacerdote che guida la veglia, ripreso il tema dell’”Eccomi” di Maria, di una donna che si è affidata completamente al Signore, invita a riscoprire chi è Cristo per noi, per essere a nostra volta pronti a pronunciare il nostro sì. Segue la recita del Magnificat a cori alterni. Si è infine invitati a compiere un altro gesto, che è il prendere una delle pietre VENERDÌ 15 NOVEMBRE - 45 che compongono la casa di Loreto che abbiamo appena adesso costruito e recante sulla sua superficie uno dei tanti “sì”che sono stati scritti. È il segno di accoglienza dell’altro e dunque di Cristo. Sarà questo il nostro impegno: essere sale della terra nel nostro quotidiano e riconoscere e accogliere Cristo nelle persone che abbiamo a fianco nella nostra vita, come nel servizio, nei nostri ragazzi, nella famiglia, nella società. La Benedizione e il canto Vergine di luce, chiudono la veglia. TRENTO “Ma voi, chi dite che io sia?” (Lc 9, 20) Oratorio di Santa Chiara, Trento. Un presentatore introduce alla serata spiegando che l’avventura che ci aspetta è le ricerca dell’identità di Gesù. È la risposta alla domanda che Gesù fa ai suoi discepoli: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Ora, inizia l’oratore, già la domanda fa capire che chi sta parlando è straniero. La costruzione è corretta... troppo corretta! Quasi da manuale scolastico, avete presente? E inoltre è perfetta, quindi uno straniero pure secchione! In ogni caso la domanda l’ha fatta e noi siamo chiamati a dare una risposta. Ma mica è facile rispondere ad uno straniero secchione! Se parliamo troppo semplice ci prende per ignoranti (tipico degli italiani usare solo infiniti, dimenticare gli articoli, usare solo dieci parole che di fatto sono quelle conosciute dalla media degli italiani ...). E occhio ad usare i gesti, altra tipicità nazionale, perché anche Lui se ne intende di gesti e simboli, anzi ci ha investito molto per fare carriera! Oppure si va sul complesso, si butta lì una risposta articolata che ci permette di mostrare tutto quello che sappiamo su di Lui, del tipo: “Secondo noi Gesù, Signore Gesù Cristo, ecc...”. Però non abbiamo ancora finito il soggetto che già siamo sfiniti e probabilmente Lui pure. Insomma, diciamocelo, la risposta è complicata e difficile da trovare. Probabilmente perché esistono più risposte e anche più modi per rispondere. Forse esistono delle basi di partenza comuni dalle quali poi ognuno sviluppa una riflessione personale. Insomma è una questione, come dice la domanda stessa, di “voi” (ovvero di ognuno di noi) e di “Io” (ovvero di Lui). 46 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” Per rispondere a questa domanda c’è bisogno allora di mettersi in gioco (e se siete qui non potete non farlo!). C’è bisogno di poter fissare i nostri pensieri e le nostre riflessioni (tutti avete avuto una cartolina, tenetela di conto che nel corso della serata vi tornerà utile). C’è bisogno di essere provocati, stimolati, per riuscire a capire, prima di dire chi Lui sia, dove lo si può trovare per conoscerlo meglio (e noi siamo qui per questo!). E allora, signore e signori, mettetevi comodi sulle vostre poltrone, spegnete i cellulari, lasciate pensieri e preoccupazioni della quotidianità sotto il sedile (li troverete infatti alla fine della serata e potete riprenderli, se lo vorrete). Questa sera, qui, alla ricerca dell’ “Io” ci siete solo “voi”. Intermezzo: in sala si spengono le luci, parte un brano musicale e un gruppo di persone si lanciano in platea e cominciano a scattare un sacco di foto con flash, facendo dei ritratti alle persone sedute nelle poltrone. LUOGO 1. Il tema è: LA PREGHIERA Si inizia leggendo un brano evangelico. Dal vangelo secondo Matteo (Mt 6, 5-15): «E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate. Voi dunque pregate così: «Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male». Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe». Alla lettura segue una testimonianza di uno scout di fede musulmana, che ci aiuta a capire il valore della preghiera per l’Islam. VENERDÌ 15 NOVEMBRE - 47 Al termine come gesto comune di fratellanza e tutti assieme ci prendiamo per mano e diciamo il Padre Nostro. A conclusione aiutati da un sottofondo musicale si ascolta il Baba yetu (il Padre nostro africano). LUOGO 2. Il tema è: L’INCONTRO Ad un tavolo apparecchiato con tovaglia, bicchieri, pane, piatti stanno sedute 4 persone. Anche qui si inizia con la lettura da un passo del vangelo. Dal vangelo secondo Luca (Lc 24, 13-35): «Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli con48 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” versava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane». Terminato l’ascolto ogni partecipante è invitato a narrare il vangelo ascoltato al vicino di sinistra. LUOGO 3. Qui il tema è: LA TESTIMONIANZA È ancora un brano evangelico ad aprire il terzo quadro. Dal vangelo secondo Giovanni: (Gv 1, 1-9 e 19-23) «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: VENERDÌ 15 NOVEMBRE - 49 «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto». Conclusa la lettura del passo del Prologo giovanneo, un personaggio comparso sulla scena inizia a parlare leggendo un testo di Josef Mayer Nusser: “Era chiamato a dare testimonianza della luce!” Poche parole. Quale compito! Testimoniare la luce, annunciare Cristo al mondo. Un’impresa che richiede coraggio. Intorno a lui il buio; orecchie sorde e ciò nonostante doveva dare testimonianza. Dare testimonianza è allo stesso tempo il nostro compito e la nostra arma. Noi giovani cristiani siamo rinati dall’acqua e dallo Spirito Santo a nuova vita. Portiamo in noi la luce della verità, Cristo. Ma non portiamo questa luce timidamente per noi soli, abbiamo una missione nel mondo. Se nel battesimo si è in noi accesa la luce, attraverso la Cresima siamo diventati portatori di luce, incaricati di farla risplendere, dare testimonianza della luce. Non ci sbagliamo. Intorno a noi c’è il buio. Il buio della miscredenza, dell’indifferenza; del disprezzo, forse della persecuzione. Ciò nonostante dobbiamo dare testimonianza e superare questo buio con la luce di Cristo, anche se non ci ascoltano, anche se ci ignorano. Dare testimonianza oggi è un fatto insolito, una cosa modesta e importante. Forse in un primo momento, neanche attraverso la parola, nemmeno attraverso l’azione. Spesso tacere può essere più indicato. Spesso anche la migliore azione può essere distorta. Ma sempre e dovunque dobbiamo essere testimoni! Esserlo con semplicità e senza pretese. È stato detto che l’uomo di oggi può essere convinto da una cosa sola, non da libri, conferenze o prediche, ma solo dalla vita dei cristiani, questo è l’unico libro nel quale si vuole leggere e al quale si crede oppure no. L’essere mossi dalla fede è dunque la prima condizione per ogni testimonianza. Quella vissuta quotidianamente, a casa, al lavoro, sui campi, nell’officina, davanti agli uomini. Proviamo, prima di diventare apostoli della parola e dell’azione, a essere dei giovani cristiani e a esserlo totalmente”. Chiusura: si giunge così alla conclusione della veglia dove viene ripreso il filo del discorso. Siamo alla conclusione di questo viaggio e come al solito le cose viste, vissute, sperimentate e su cui riflettere sono sempre molte... 50 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” Ora, mentre il personaggio conclude, sullo schermo vengono proiettati un “voi” e un “Io” enormi. Adesso il “voi” è pieno delle foto scattate all’inizio e che nel frattempo sono state scaricate e inserite nell’immagine che vediamo. L’”Io” è ancora vuoto e tocca alle persone in sala riempirlo. Devono dire una parola che secondo loro ha senso mettere li, proprio dentro quell’Io. Una preghiera conclude la serata. VENERDÌ 15 NOVEMBRE - 51 La storia dell’educazione alla fede in Agesci Sabato 16 novembre (mattino) In questa sezione si è voluto raccogliere la storia delle differenziate proposte di educazione alla fede che dalla nascita dell’Agesci si sono succedute fino ad oggi. Una storia fatta di idee e di persone, che queste idee hanno cercato di tradurle in strumenti metodologici e proporle nei suoi difformi ambiti all’Associazione. Si sono così articolati nel tempo dei sussidi che partiti col Progetto Unitario di Catechesi e con quelli via via elaborati dai Campi di Catechesi presso la Base di San Benedetto al Subasio, hanno in seguito generato il Sentiero Fede e dopo lungo tempo il sussidio Narrare l’esperienza di fede. Affiancata a questa parte di elaborazione metodologica l’Associazione ha aggiunto anche differenziate proposte di formazione complementare come i Campi Bibbia, i Cantieri di Catechesi e l’esperienza inter-religiosa della Tenda di Abramo. Un patrimonio di idee e di azioni di cui sarebbe nefasto perdere memoria, perché è da essi che comunque si deve partire. Ecco allora perché il Convegno Fede ha chiesto ad alcuni dei protagonisti dei vari eventi di raccontarcene l’esperienza. Quanto segue non è altro che il racconto a più voci di ciascuno di loro. 52 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” CATANIA Il Progetto Unitario di Catechesi (PUC) Presentazione di Paola Dal Toso Come e perché è nato il Progetto Unitario di Catechesi Per poter comprendere come è perché è nato il Progetto Unitario di Catechesi occorre far riferimento al cammino associativo, in particolare agli anni della fusione tra l’Associazione Scouts Cattolici Italiani (Asci) e l’Associazione Guide Italiane (Agi), che nel 1974 danno vita all’Agesci. In sintesi, si può sottolineare che mentre l’Agi fin dall’inizio degli anni Cinquanta è attenta alla Parola di Dio e al rinnovamento liturgico (basti pensare alla costituzione di Pattuglie nazionali su Bibbia e Liturgia), anticipando per alcuni aspetti quanto matura con il Concilio Ecumenico Vaticano II, l’Asci porta in “eredità” la modalità progettuale, che vede i gruppi impegnati nella definizione della proposta educativa in relazione al contesto socio culturale nel quale si trovano a operare, cioè nell’elaborazione del progetto educativo. Con la route nazionale nell’estate del 1979 a Bedonia, viene lanciata a tutta l’Associazione la comunità capi, che grazie al progetto educativo di Gruppo assicura l’unitarietà della proposta educativa tra le varie unità. Progressivamente, emerge un interrogativo: la comunità capi è comunità di vita o di fede? Non va dimenticato che sono gli anni in cui le Branche sono impegnate nella definizione della proposta unificata, necessaria dopo la fusione di due Associazioni che non hanno identici strumenti metodologici. È così che nel 1979 vengono approvati i Regolamenti di Branca Esploratori/Guide e Rover/Scolte e poi, nel 1980 di Branca Lupetti/Coccinelle, che avviate le sperimentazioni degli Ambienti Fantastici, giungono a scegliere di proporre l’ambiente fantastico Giungla anche per le bambine e arrivano a lanciare il Bosco per i bambini. Al passo con la Chiesa italiana, che nel 1970 aveva pubblicato il Rinnovamento della Catechesi e negli anni seguenti i testi del Catechismo per la vita cristiana (seppure ancora nella versione “per la consultazione e la sperimentazione”), nei primi anni Ottanta l’Agesci si inserisce nel clima di rinnovato interesse per una catechesi aderente alla “vita”, iniziando a lavorare, con una cresciuta coscienza della propria dimensione ecclesiale, confermata dal riconoscimento ricevuto dalla Conferenza Episcopale Italiana. SABATO 16 NOVEMBRE - 53 Nel medesimo periodo, l’Assistente generale dell’Agesci, padre Giovanni Ballis 1 organizza un gruppo di lavoro, nel quale sono coinvolti gli assistenti di Branca ed esperti anche esterni 2, per la stesura del Progetto Unitario di Catechesi 3 che viene pubblicato nel marzo 1983. L’obiettivo è quello di curare un testo che faccia sintesi di quanto maturato a livello associativo nell’ambito dell’educazione alla fede e offra ai capi scout uno strumento metodologico. Per questo, la prima parte del PUC, considerata fondativa, che oltre a indicare obiettivi, metodi e destinatari del PUC, sintetizza la proposta della Chiesa, il cammino di iniziazione cristiana, presenta lo scautismo come un cammino educativo alla fede matura, esplicita la visione antropologica biblica sottesa alla proposta scout, indica le responsabilità della comunità capi nell’educazione alla fede. Si vuole poi aiutare i capi scout nel formulare itinerari finalizzati alla crescita nella fede in maniera non occasionale e/o saltuaria, quanto piuttosto organica, in sintonia con i tempi dell’anno liturgico. Dunque, il PUC supera una semplice catechesi occasionale, come fino a quel momento veniva proposta, e presenta una pedagogia della fede, in sintonia con il progetto catechistico italiano, utilizzando in modo organico la metodologia scout. Il progetto è definito “unitario” perché è rivolto all’unicità e globalità della persona, alla continuità e alla progressione della crescita educativa, secondo le tappe di maturazione psicologica di ogni singolo ragazzo, dal momento dell’entrata nel gioco scout fino alla sua conclusione, e perché nell’esperienza educativa è inscindibile la proposta di valori umani dall’annuncio di fede e dalla conoscenza e adesione a Cristo. Inoltre, l’unitarietà del progetto consente una continuità tra i vari momenti formativi, cioè le branche. Infatti, il progetto si chiama “unitario” perché «bisognava cercare unità tra le proposte educative delle branche, ma anche unità con la catechesi della Chiesa locale in cui i gruppi scout sono inseriti [...]. In sostanza una catechesi unitaria prima di tutto nel senso di integrale. Catechesi, perciò, non solo conoscitiva e concettuale, ma che riesca a tenere conto dell’uomo tutto intero, delle sue emozioni ed esperienze; e non solo vissuta in un ambiente privilegiato come lo scautismo, ma in collegamento con tutta la Chiesa, in particolare quella locale» 4. Il PUC vuole essere uno strumento per rifondare il rapporto con le famiglie di bambini, ragazzi e giovani accolti nelle varie unità scout, le relazioni con le parrocchie, dove operano i gruppi, intende esprimere unità con la Chiesa italiana della quale l’Agesci vuole essere al servizio. L’idea originaria, la struttura complessiva, la scrittura del PUC, ma soprattutto lo spirito di fondo di questo lavoro sono certamente da attribuire essenzialmente 54 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” e prima di tutto alla passione e alla competenza 5 dell’Assistente generale padre Giovanni Ballis, promotore e coordinatore del Progetto Unitario di Catechesi. Senza dubbio è principalmente al suo impegno e al fondamentale apporto da lui dato che si deve la realizzazione del PUC. Il servizio scout svolto a livello nazionale dal padre Ballis si esprime proprio nel PUC dal quale traspaiono tutta la sua chiarezza di riflessione e passione nell’aiutare e sostenere la realizzazione dei progetti e programmi educativi nella prospettiva dell’unità della persona, della sua educazione integrale, quindi, anche dal punto di vista religioso. Il raggiungimento di tali finalità, richiede però, la capacità di declinare gli obiettivi in modo chiaro, sistematico, attraverso la definizione di percorsi che domandano ai capi scout di esplicitare quell’intenzionalità educativa, troppo spesso data per scontata, sottintesa, implicita. Del resto, è evidente la difficoltà degli educatori scout e più in generale delle stesse comunità capi, a progettare, a programmare itinerari formativi, a declinare obiettivi non in maniera sporadica e confusa. Tale consuetudine diffusa vuole essere superata dal PUC che chiede ai capi di sviluppare e migliorare la capacità progettuale. Per aiutarli a progettare itinerari di catechesi per l’unità e in relazione con la progressione personale, nel PUC vengono suggerite attenzioni e indicazioni. In rapporto alle diverse fasce d’età sono richiamati i contenuti dei catechismi della Chiesa italiana e sono riportate le caratteristiche psicologiche nello sviluppo della religiosità. A partire dalla descrizione del sentimento religioso, si illustrano la capacità conoscitiva e si presentano obiettivi educativi in relazione alla dimensione profetica, sacerdotale e regale. Per ognuna di queste così dette “triplette”, viene individuato un obiettivo che concorre a delineare la meta finale 6 . In termini di verifica della ricaduta sulla cultura associativa, nonostante qualche sussidio e i campi, i cantieri di catechesi a livello nazionale, messi in atto per supportare i capi, di fatto, questi dimostrano una scarsa intenzionalità formativa e il tentativo di un’organizzazione sistematica della proposta educativa finisce per costituire addirittura una difficoltà nella ricezione del PUC. Ciò forse è riconducibile, per alcuni aspetti, alla cronica allergia scout a riflettere sulle finalità della proposta e sulle sue potenzialità. Eppure, nonostante sia riconosciuto il valore tipicamente scout dell’interdipendenza tra pensiero e azione, – sembra una contraddizione –, prevalere frequentemente l’attenzione per gli aspetti di tipo pratico-operativo. E questo è probabilmente uno dei motivi che portano, in un certo senso, a considerare il PUC di difficile attuazione. In altre parole, sembra che i capi scout siano in grado di elaborare e realizzare programmi, mentre faticano a progettare. SABATO 16 NOVEMBRE - 55 Di fatto, invece, più che al suo interno, maggiore e pressoché unico è l’apprezzamento all’esterno dell’Associazione, soprattutto perché rappresenta un originale itinerario di educazione alla fede e nella fede in riferimento a un ampio arco di tempo evolutivo, dal momento della Promessa alla Partenza, dal piccola “Zampa tenera” o “Cocci” fino all’”uomo o donna della Partenza”, in altre parole, dall’età dei 7-8 anni ai 19-20 circa. Risulta poi uno strumento del tutto particolare anche in ambito pastorale, anche rispetto ad altri progetti catechistici. Note 1 2 3 4 5 6 Per approfondire la figura e in particolare il servizio scout svolto da Padre Giovanni Ballis, si veda: M. Millo, Un grande assistente generale “feriale”. Padre Giovanni Ballis, in AA.VV., Adulti testimoni in un mondo che cambia. Scautismo ed educazione alla fede, Edizioni Scout Fiordaliso, Roma, 2013, pp. 78-87. Tra i membri del gruppo di lavoro, ci sono don Giorgio Basadonna, don Cesare Bonicelli, padre Karl Hubert. Agesci, Progetto Unitario di Catechesi. Dalla Promessa alla Partenza, Ancora, Milano, 1983. Nel gergo scout, il titolo di tale testo viene abbreviato in Puc che indica l’itinerario unitario e globale di catechesi dall’età di 8 anni ai 19-21. Per aiutare i capi scout a concretizzare programmi di catechesi, vengono offerte alcune piste di lavoro attraverso Agesci, Sussidio al Progetto Unitario di Catechesi. Dal Progetto Unitario ai programmi di catechesi, Ancora, Milano, 1985. M. Millo, Un grande assistente generale “feriale”. Padre Giovanni Ballis, in AA.VV., Adulti testimoni in un mondo che cambia. Scautismo ed educazione alla fede, op. cit., pp. 80-81. Padre Giovanni Ballis viene chiamato dal Vescovo di Ravenna, mons. Ersilio Tonini, a dirigere l’Ufficio Catechistico diocesano. Al riguardo, ecco la mia personale testimonianza. Se non ricordo male, nel settembre 1982, sono stata tre giorni a casa di don Giuseppe Benetton – allora Assistente nazionale di Branca Esploratori/Guide –, con padre Giovanni Ballis impegnata nella stesura della seconda parte del PUC. Padre Giovanni camminava avanti e indietro nella stanza, interrogandomi sull’attività che giovanissima capo cerchio proponevo alle “mie” coccinelle. Mi ascoltava, rielaborava, tornava a pormi domande, faceva sintesi, mi dettava, io scrivevo, leggevo a voce alta quanto appuntato e lui correggeva, per poi tornare a farmi rileggere e domandarmi se poteva andare bene. Il tutto era alternato da lunghi momenti di riflessione in silenzio, in cui vedevo padre Giovanni concentrato e pensoso. 56 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” Il Sentiero Fede Presentazione di Evelina Nicotra Sono contenta di poter portare la mia esperienza in Associazione come capo dell’Agesci e testimoniare una proposta di fede attraverso uno strumento che nel tempo si sia reso utile per tutti quei capi che hanno avuto, e che hanno, una difficoltà a saper coniugare la proposta educativa dell’Agesci con una proposta di catechesi che fosse chiara e rispettosa dei contenuti della fede cristiana, così come propone il documento sul rinnovamento della catechesi: “fedeltà a Dio fedeltà all’uomo”. Questa duplice fedeltà è un ideale non facile da raggiungere perché la storia del cristianesimo manifesta la difficoltà di conciliare questi due principi. È difficile accettare l’incarnazione, accettare cioè che l’uomo Gesù di Nazareth, morto crocifisso, sia stato risuscitato dal Padre e sia esso stesso Dio. Il PUC, per orientare i capi in questo equilibrio tra la fedeltà a Dio e all’uomo, ha sottolineato nel secondo capitolo ciò che la chiesa propone per comunicare il mistero cristiano; e al terzo capitolo propone in che modo lo scautismo contribuisce alla formazione cristiana. Lo scautismo è uno straordinario metodo educativo, ma come ogni cosa umana ha bisogno di capi che lo sappiano applicare. I vantaggi dello scautismo nell’educazione alla fede, sono soprattutto sulla linea dell’incarnazione; infatti cogliamo a riguardo tre sottolineature: – l’obiettivo dell’educazione scout è l’uomo integrale nello sviluppo di tutte le sue energie e potenzialità, la proposta religiosa si colloca perciò dentro l’esperienza complessa del ragazzo. Ciò è evidenziato anche dal ruolo dell’assistente ecclesiastico che si trova alla pari con gli altri capi nell’azione educativa, anche se a lui compete un servizio particolare; – l’educazione religiosa nello scautismo non è mai soltanto riflessione e preghiera, ma contemporaneamente azione, ricerca, vita attiva: la catechesi deve anche essere occasionale, inserita cioè nella realtà della vita; – l’educazione scout esige la gradualità dell’esperienza cristiana, per cui viene preferita, all’esperienza idealistica ed esaltante, la concretezza della proposta limitata alle possibilità e alle situazioni contingenti in corrispondenza alle tappe dell’età evolutiva. SABATO 16 NOVEMBRE - 57 Per questo l’esigenza di avere un itinerario scout nella catechesi non è solo di ordine tecnico per gestire la catechesi occasionale, ma è un’esigenza legata all’essenza della formazione religiosa. Come recita il documento Rinnovamento della catechesi, il compito della catechesi è guidare l’itinerario degli uomini alla fede, dall’invocazione della riscoperta del Battesimo fino alla pienezza della vita cristiana. 1. Come e perché è nata l’esperienza e cosa ha rappresentato per l’Associazione (ma anche per la Chiesa), quali ricadute per la cultura associativa. È stata proprio questa difficoltà dei capi a gestire una proposta religiosa che fosse rispettosa di questo cammino, contenuto nel PUC, che interroga l’Associazione tutta a capire la strada da intraprendere. Il Convegno Giona del 1991 evidenzia tutta la fatica dei capi in questo senso. Il Comitato centrale, nella persona di don Arrigo Miglio, si chiede se ristampare il PUC o farne una versione più pratica capace di venire incontro alle esigenze dei capi. Ecco che si affiancò il Sussidio, in cui sono scritte delle tracce di lavoro per la conoscenza del progetto in comunità capi per un programma di catechesi caratterizzato dall’essenzialità e dalla gradualità, per una proposta di integrazione tra programmi di unità e progressione personale e per un programma nell’iter di formazione capi. Si tratta di piste di lavoro che devono fungere da stimolo per approfondire i vari aspetti del progetto di catechesi. Quindi uno strumento che è valido solo se lo si affianca ad una seria riflessione sul progetto di catechesi nell’Agesci. Destinatari i capi e gli assistenti ecclesiastici. Ma malgrado questo sforzo, ancora non ci siamo. Da tutta la base, c’è un profondo disagio dei capi a utilizzare lo strumento PUC, dai campi scuola si alza un grido d’allarme. Non basta più la sola buona volontà dei singoli, ma occorre una competenza in tal senso. Tenendo conto dei rilievi emersi dal Convegno Giona, e non solo, si costituisce una commissione composta non solo da capi esperti, come era avvenuto per il PUC. Si scelse di operare una rivisitazione del PUC soprattutto nella sua struttura e riscrittura su indicazioni e criteri posti alla commissione dal Comitato centrale, quali per esempio: usare un linguaggio semplice ed immediato che tenesse conto della realtà diffusa dei capi dell’Associazione, che spesso vanno motivati alla scelta di fede e alla testimonianza da dare ai ragazzi; offrire semplificazioni attraverso schede di programmazione di attività che potessero offrire un ampio spettro di alternative, evitando ricette preconfezionate, favorendo la libera e creativa utilizzazione del materiale per farne uno strumento più efficace di formazione dei capi. 58 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” In tal senso la commissione operò due scelte fondamentali: – capovolse l’ordine dei primi due capitoli, per partire non dalla teologia dell’iniziazione cristiana, ma dall’esperienza educativa e spiritualità scout, ritenendo che così si potesse meglio agganciare il capo medio nella sua ricerca di orientamenti per la catechesi; – rivisitò la seconda parte del PUC, considerata, dai più, farraginosa e difficile da tradurre. Nacque l’idea di offrire alle comunità capi e agli staff di unità schede con cui imparare a progettare la catechesi in armonia con il metodo e la vita scout. Da questo lavoro nacque il “Sentiero Fede”. → Nasce dal PUC. → È pensato e realizzato dall’interno del PUC. → Ne conserva gli obiettivi e le pagine più significative; → Il meglio del PUC non è in archivio, ma è contenuto nel Sentiero Fede in forma più snella, pratica, leggibile, capace si sviluppare nei capi che lo leggono veri e propri laboratori della fede. → Il Sentiero Fede contiene anche delle novità rispetto al PUC: dalla copertina (dalle dita della creazione di Adamo all’icona di S. Giorgio) al titolo: da una espressione tecnica a una formula evocativa. Sentiero, perché questo è il mondo degli scout, Fede, perché questo è il dono in esso da scoprire e vivere; la struttura: da un unico volume in due parti a due raccoglitori: un volumetto di orientamenti, un sussidio di strumenti, 44 fascicoli di schede per il laboratorio della fede. L’indice del progetto: se il PUC partiva dalla teologia dell’iniziazione cristiana, il Sentiero Fede sceglie l’approccio induttivo, a partire dallo spirito scout e dall’annuncio del vangelo. Questo nuovo strumento, non lo nascondo, è stato molto utile per tutti noi capi, anche per me che ho un bagaglio culturale teologico non indifferente, ma in qualche momento mi è stato utile. Certo, il problema di base rimane sempre quello: quanto i capi sono capaci (sulla base di un proprio bagaglio esperienziale in materia) di gestire uno strumento come questo, sapendolo elaborare e adattare alle esigenze progettuali del caso? 2. Quale ricchezza per l’Associazione oggi? Mi verrebbe da dire che è scontato che è entrato nel patrimonio culturale dell’Associazione tutta. Certo, per potere utilizzarlo, bisogna conoscerlo, specie per le nuove generazioni di capi; quindi i più anziani dovrebbero trasmettere questo patrimonio come tanto altro che l’Agesci ha prodotto sulla base dell’esperienza di tanti capi. SABATO 16 NOVEMBRE - 59 I Campi Bibbia Presentazione di Maria Teresa Spagnoletti Un tempo meno di 4000 anni fa, le parole della futura Nibbia venivano raccontate al fuoco la sera, prima di coricarsi nella tenda, dopo aver raccolto il gregge per la notte. Parole ripetute sera dopo sera, magari sintetizzate o colorate a seconda dell’abilità del bardo narratore. Parole messe in musica e danzate, compagne del sonno ma anche del cammino. Parole da sempre conosciute, anche se ogni volta nuove. Poi, sentita la necessità di fissarle – queste parole – per la memoria, non confidando più solo nel loro ricordo, nacque la redazione scritta, successivamente ordinata a formare un testo che risultasse significativo, che raccontasse di quella particolare relazione che Dio ed Israele avevano intessuto: così iniziò la stesura della Bibbia, la “biblioteca” che poi raccolse anche i racconti di Cristo e dei suoi, e di alcune delle vicende che seguirono. Questo testo è arrivato fino a noi tra mille vicissitudini, nascosto ed esaltato, fonte di salvezza ma anche di violenza, tradotto e tradito in mille lingue, causa di eresia per il suo possessore, tesoro geloso di pochi... Nel secolo scorso la Bibbia nei suoi vari canoni, é stata spezzettata in ogni sua radice, radiografata in ogni particolare, analizzata fino all’atomo, insomma ad essa sono stati applicati di volta in volta, tutti quegli strumenti che la nuova scienza ha messo a disposizione per la speculazione. Ecco quindi che della Bibbia si è parlato da innumerevoli punti di vista, archeologico, storiografico, demografico, sociologico, psicanalitico... insomma una vera miniera!!! Ma che fine ha fatto quel racconto notturno che parlava della vita, che aiutava il futuro, che suscitava energia divina? Ecco dunque l’obiettivo dei Campi Bibbia: approfondire ed allargare l’orizzonte della relazione, che da relazione Dio-persona, si dirama in quella uomo-donna, genitore-figlio, capo-ragazzo. Ci interessa esplorare la Parola di Dio per “sapere” la Bibbia, ma anche per “essere” noi stessi Bibbia, prolungamento di quel racconto iniziato in un tempo immaginario, ma per sempre vivo come le stelle che ancora lo ascoltano immutabili. L’esperienza nasce nell’Agi nel 1970 su proposta di Agnese Tassinario, che aveva vissuto in Francia l’esperienza dei Campi Bibbia organizzati dalle Guide Francesi: il primo campo viene effettuato nel 1971 nell’Abbazia di San Galgano. Sono dall’inizio aperti anche agli R/S e a chi non fa parte dell’Associazione nella 60 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” convinzione che importanti ed arricchenti sono i contributi delle persone che hanno maturato esperienze di fede fuori dell’Associazione. L’esperienza si consolida e vede i Campi Bibbia come un tempo privilegiato di ascolto della Parola di Dio, per la maturazione della nostra fede. Trovano il loro fondamento nelle stesse parole di B.-P. che indica, per raggiungere un genuino spirito religioso, due cose: “la prima è la lettura di quell’antico e ammirabile libro che è la Bibbia, nella quale scoprirai, oltre alla rivelazione divina, un compendio meraviglioso di storia, di poesia e di morale. La seconda è la lettura di un altro libro meraviglioso: quello della Natura e la osservazione di tutto quanto puoi trovare tra le bellezze e i misteri che ti offre per la tua gioia”. Si collocano idealmente nel cammino della Chiesa italiana dopo il Concilio Vaticano II, proponendosi come occasione di una lettura feconda della Bibbia, di un incontro con la Parola di Dio per coglierne il messaggio nei suoi risvolti attuali. Si presentano come occasione per i laici di accostarsi al testo biblico all’interno di una esperienza vitale che consente di far comprendere il ruolo fecondo dell’incontro con la Parola per un cammino di formazione umana e cristiana integrale. Si delineano il Campo “A” di introduzione, diretto a coloro che si accostano per la prima volta alla Bibbia con lo scopo di far conoscere i temi fondamentali del piano di salvezza e il Campo “B” di approfondimento, che propone una lettura di un libro o l’approfondimento di un tema, per coloro che hanno fatto un campo “A” o hanno comunque familiarità con la Scrittura. Si tende a proporli sempre in contemporanea per un arricchimento reciproco dei partecipanti. I Campi “A”, pur con diverse modalità di approccio, offrono un incontro con la Parola vissuta, forniscono la conoscenza dell’”alfabeto” biblico, le chiavi di lettura per poter “aprire” la biblioteca, la possibilità di risposta alle domanda esistenziali e di fede; mentre i Campi “B” puntano sulla testimonianza e su una spiritualità adulta, ponendosi, rispetto ai campi “A”, in un contesto unitario di evoluzione e progressione. I Campi Bibbia sono campi scout, della durata di una settimana, rivolti ai capi dell’Agesci per aiutarli nel loro cammino di adesione al Patto associativo e per vivere una esperienza di fede che li aiuti a crescere per diventare testimoni della Parola ascoltata. Don Francesco Mosetto, uno dei biblisti che ci hanno seguito, il definisce come “un tratto di strada, un pezzo di vita scout con tutte le componenti e gli ingredienti che ne sono l’inconfondibile caratteristica: stare insieme, giocare, fare insieme, cercare e pregare”. La Parola di Dio è al centro di tutto. Viene pregata, ascoltata, studiata, cantata, rappresentata, vissuta nel corso di tutta la giornata e diventa così una realtà tangibile e vicina per tutti. SABATO 16 NOVEMBRE - 61 Alcuni campi hanno uno svolgimento particolare: i campi mobili, in particolare centrati sull’Esodo, il “Campo per le famiglie” o meglio Campo preferenziale per genitori con figli dove accanto al tradizionale campo per gli adulti, è prevista un’attività biblica per i bambini. Nel 1976 nasce formalmente l’Equipe Campi Bibbia, formata dagli staff e dai biblisti dei campi, che tra gli altri scopi ha quello di mantenere i contatti con la Formazione capi, che, nell’illustrare al Consiglio generale del 1976 le esperienza formative segnala tra le occasioni più personali di formazione i “Cantieri Bibbia” che costituiscono un solido e collaudato patrimonio associativo e qualifica la proposta come “indispensabile per un capo educatore di una associazione di cattolici quale è l’Agesci”. Nel 1981 inizia l’esperienza dei Campi Bibbia sui luoghi significativi della fede e, si va in Israele con 44 persone, tutte partecipanti a precedenti Campi Bibbia. Nel 1984 si realizza il secondo Campo Bibbia all’estero “Sulle tracce di San Paolo” in Turchia e Grecia, nel 1988 si svolge il terzo Campo Bibbia all’estero in Siria e Giordania “Sulle orme di Abramo”, nel 1992 si svolge il quarto Campo Bibbia all’estero in Egitto “Sulle vie dell’Esodo”. Ci ha sempre guidato don Rinaldo Fabris. Nel 1983 finalmente si trova il posto fisso per i campi del Centro nella Abbazia di San Benedetto al Subasio (Assisi), che si rivelerà scelta a dir poco favolosa! Per rendere utilizzabile l’Abbazia come Centro di Spiritualità della Associazione, nasce nel 1984 la esperienza dei Campi Ora et labora, divenuti negli anni una proposta stabile in cui, accanto ed insieme al lavoro manuale, viene vissuta una esperienza di riflessione personale e comunitaria in un clima scout. Nel 1993 purtroppo viene meno San Benedetto come centro di spiritualità e i Campi Bibbia si svolgono, oltre che in Sardegna, a Bevagna (PG) e successivamente in diverse località. Nel 1986 si realizza un centro di interesse alla Route nazionale dei Piani di Pezza che vede una vasta partecipazione. Dal 1987 i capi campo vengono ufficialmente nominati dal Comitato centrale (25 anni, censiti, capi brevettati, esperienza di precedenti staff di Campi Bibbia...). Nel 1989 vede la luce “La Bibbia in mezzo a noi”, raccolta di proposte di genere diverso (dagli spunti per la riflessione, ai giochi biblici, dalle veglie di espressione agli schemi per la liturgia), tratte dalle esperienze vissute ai campi, suddivise per temi e raggruppate in sette volumetti raccolti in un contenitore. Dal 1993 i Campi Bibbia per R/S vengono previsti separatamente da quelli per capi. Il Campo Bibbia per R/S è una route o un campo fisso dove si vive l’espe62 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” rienza della comunità riunita intorno alla Parola di Dio. La strada, il gioco, l’espressione, il racconto, il canto, la festa dello stare insieme sono vissuti a partire dall’incontro con la Parola di Dio. Il Consiglio generale 1995 sancisce la conclusione del lungo cammino svolto, collocando i Campi Bibbia tra le occasioni di formazione permanente che la Formazione capi deve offrire, accanto alle occasioni di base e nel programma nazionale 1997 i Campi Bibbia sono presenti come occasione per approfondire la propria fede ed acquisire maggiore competenza educativa, a partire dall’incontro con la Parola di Dio. Nel 1995 nasce poi l’idea del laboratorio inter-religioso, in Sardegna, quasi fosse una costola dei Campi Bibbia tradizionali, il cui modulo era ormai collaudato da oltre vent’anni. Li ha sempre guidati don Valentino Cottini che oggi dirige la rivista Islamochristiana ed è Preside del Pisai (Pontificio istituto di studi arabi e d’islamistica). L’idea di base era quella di sollecitare e di frequentare i testi delle tre religioni rivelate con riferimento a temi che più di altri ci consentivano di cogliere delle appartenenze, una familiarità che nasceva dalla consapevolezza che i vari popoli “hanno una sola origine... un solo fine ultimo, Dio” (Nostra Aetate, 1b). La figura di Abramo, il volto di Dio, la misericordia, la preghiera, la tradizione, l’ospitalità, il perdono, il lavoro, la libertà, il paradiso, il tempo, l’educazione, i cibi... sono solamente alcuni dei temi affrontati nel corso degli anni; temi trattati con rigore scientifico ma con il taglio e con la sensibilità educativa. Nel 2005, in occasione dei 35 anni dei Campi Bibbia, vede la luce la pubblicazione Come la pioggia e la neve... [storia ed emozioni dai 35 anni dei Campi Bibbia Agesci, (a cura di) CHIULLI, F. - SPAGNOLETTI, M. T., Edizioni scout Agesci-Fiordaliso, 2006, N. d. C.] in cui sono raccolte storie ed esperienze vissute ai Campi. Nel 2007, nell’ambito degli eventi organizzati per il centenario dello scautismo, l’Equipe Campi Bibbia organizza il primo campo inte-rreligioso euromediterraneo. Partecipano circa 40 capi di provenienza geografica diversa (Italia, Libano, Danimarca, Giordania, Romania) e differenti religioni (cattolici, protestanti, ortodossi...) cui si sono uniti per alcuni giorni circa 70 ragazzi e capi dell’associazione degli scout mussulmani francesi. Sempre nel 2007 infine, il Consiglio generale, approvando i nuovi percorsi formativi inserisce tra gli eventi formativi associativi previsti nella seconda fase del percorso formativo di base (art. 57 Regolamento), prevedendo: – I Campi Bibbia: eventi rivolti a soci adulti ed adulti extrassociativi, in cui viene proposto l’incontro con la Parola di Dio attraverso la lettura e la conoSABATO 16 NOVEMBRE - 63 scenza della Bibbia. Offrono strumenti per leggere il testo biblico utilizzando gli strumenti tipici del metodo scout. Sono dedicati alla formazione del socio adulto sia a livello personale sia come educatore nel cammino di fede. La loro durata è di una settimana circa. – I Campi di Catechesi Biblica: eventi in cui il metodo scout e la Parola di Dio sono messi a confronto per ripensare e approfondire la proposta di fede realizzata in Associazione. Sono rivolti a soci adulti interessati a sviluppare la propria formazione personale e competenza come educatore nel cammino di fede dei ragazzi. La loro durata è di 3-4 giorni. – I Laboratori Biblici: eventi in cui si mette a confronto la Parola di Dio con un tema significativo o di attualità. Sono rivolti a soci adulti ed adulti extrassociativi che intendono approfondire il tema proposto nelle sue radici bibliche e nei suoi risvolti attuali anche dal punto di vista educativo. La loro durata è di 2-3 giorni. Ed oggi? Assieme a questi eventi “standard” è proseguita ed anzi è stata favorita la collaborazione con altri settori dell’Associazione, nella riflessione e nella organizzazione di eventi associativi relativi alla formazione nella fede. Ne sono un esempio: i laboratori organizzati dal 2006 in avanti in collaborazione con il Settore PNS, legati a tematiche etiche e di attualità lette... con la Bibbia in mano; i Cantieri di catechesi, in collaborazione con le Branche nazionali dal 2009, che hanno seguito in particolare lo sviluppo del percorso “Narrare l’esperienza di fede”; i numerosi eventi sviluppati in collaborazione con regioni e zone con cui sono stati realizzati laboratori biblici, cantieri “Bibbia e metodo scout” e workshop formativi. Alcuni numeri 1971: primo Campo Bibbia a San Galgano sul tema: Introduzione alla Storia della Salvezza, con 12 partecipanti, biblista padre F. Rossi De Gasperis 200: Campi organizzati dal 1971 4: Campi Bibbia Esteri in Medio Oriente (Israele, Grecia-Turchia, SiriaGiordania, Egitto) 1990: Anno con maggior numero di campi realizzati: 11 con 218 partecipanti 3750: Partecipanti circa dal 1971 L’esperienza dei Campi Bibbia dell’Agesci nel corso dei suoi oltre 40 anni di vita ha vissuto momenti di grande interesse e momenti di scarsa partecipazione, così 64 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” come le esperienze giovanili degli ultimi 40 anni, cercando di mantenere la caratteristica di un momento formativo personale dedicato ai capi scout che desideravano confrontarsi con la Parola di Dio. In questo percorso l’equipe Campi Bibbia ha sviluppato, partendo dai riferimenti biblici contenuti nel metodo, un approccio scout alla lettura pedagogico-esistenziale della Parola di Dio contenuta nel testo biblico, che si è rivelata efficace nel contribuire alla crescita di fede dei capi scout. Questa esperienza, come ricordato in tante occasioni e, non ultima, nel libro Viva ed efficace è la Parola di Dio edito nel 2010 da LDC come tributo di gratitudine a don Cesare Bissoli per anni responsabile del settore Apostolato Biblico della CEI, pur “limitata” e “particolare”, è un patrimonio non solo per l’Agesci, ma anche per la Chiesa italiana. Nella tenda di Abramo Presentazione di Maria Teresa Spagnoletti L’idea di un laboratorio inter-religioso nacque nel 1995, in Sardegna, quasi fosse una costola dei Campi Bibbia tradizionali, il cui modulo era ormai collaudato da oltre vent’anni. Li ha sempre guidati don Valentino Cottini che oggi dirige la rivista Islamochristiana ed è Preside del Pisai (Pontificio istituto di studi arabi e d’islamistica). Non vi era certamente la consapevolezza di un problema (la presenza così significativa di cittadini non comunitari nel nostro paese) ma vi era piuttosto l’esigenza (sotto la spinta della dichiarazione conciliare Nostra Aetate) di conoscere un po’ più da vicino tanto il mondo islamico quanto quello ebraico. Il testimonial privilegiato era per noi la figura di Abramo riconosciuto dalle tre religioni come il padre nella fede, quindi un modello antropologico di riferimento; la natura di religioni rivelate ci consentivano di avere dei testi da condividere e da confrontare (Antico e Nuovo Testamento). Iniziò un percorso dal 1995 al 2007 nel corso del quale abbiamo avuto modo di sollecitare e di frequentare i testi delle tre religioni rivelate con riferimento a temi che più di altri ci consentivano di cogliere delle appartenenze, una familiaSABATO 16 NOVEMBRE - 65 rità che nasceva dalla consapevolezza che i vari popoli “hanno una sola origine... un solo fine ultimo, Dio” (Nostra Aetate, 1b). La figura di Abramo, il volto di Dio, la misericordia, la preghiera, la tradizione, l’ospitalità, il perdono, il lavoro, la libertà, il paradiso, il tempo, l’educazione, i cibi: sono solamente alcuni dei temi affrontati nel corso degli anni; temi trattati con rigore scientifico ma con il taglio e con la sensibilità educativa. Col passare degli anni il contesto cambiava, gli stessi numeri della presenza dei non comunitari diventava significativo anche in Italia, si cominciava a parlare di accoglienza anche nelle comunità scout; ci fu un documento elaborato dallo stesso “Gruppo delle Tracce”, e curato da don Sandro Corazza. La cosa che ci colpiva, nonostante la consapevolezza delle differenze precise che segnano la differenza tra le tre religioni abramitiche, era che esisteva un linguaggio comune, una sensibilità comune. Iniziò quasi da subito una parallela ricerca e analisi dei testi di Baden-Powell sull’educazione religiosa e quando nel 2002, a cura di Paola Del Toso e [Maria Cristina Bertini], venne pubblicato Bevete la bell’aria di Dio (“Bevete la bell’aria di Dio”. Testi di B.-P. sull’educazione religiosa, (a cura di), Paola del Toso e Maria Cristina Bertini, Centro Documentazione Agesci, Roma, 2001, N. d. C.), un lavoro iniziato tanti anni prima, trovammo la conferma che B.-P. aveva pensato lo scautismo come un naturale ‘laboratorio inter-religioso’ e che, pur riconoscendo la centralità della Scrittura cristiana e della figura di Gesù, «tutti gli uomini della terra, cristiani e non cristiani, dovrebbero vivere come membri di un’unica famiglia e figli di uno stesso Padre» (“Bevete la bell’aria di Dio”, op. cit., p. 87), perché il punto principale è che «tutti adorano Dio, benché in diversi modi» (Ibidem, p. 88). Si pensò, in occasione del centenario della nascita dello scautismo(2007), di organizzare una vero e proprio campo inter-religioso, La tenda di Abramo, lasciandoci guidare da un’idea: per una settimana dei fratelli scout (sotto la paternità di B.-P.), che si riconoscono in un unico Dio, e che hanno in Abramo un fratello maggiore, vivono un’esperienza comune di studio, di confronto, di servizio, di gioco, di preghiera. L’identità, gli altri e il creato sono stati i temi su cui si è lavorato; e al mattino il confronto era soprattutto sui testi che rappresentavano lo specifico delle tre religioni, al pomeriggio invece l’attenzione era concentrata tutta su Baden-Powell e la proposta scout. Insomma abbiamo puntato sulla comune base antropologica rappresentata dal66 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” l’essere scout, dal linguaggio che ci accomuna come fratelli scout per confrontarci invece sulle diversità religiose. Non eravamo tantissimi (una sessantina): c’erano luterani, ortodossi, musulmani, cattolici libanesi e giordani, e una buon numero di italiani. Successivamente l’Associazione ha iniziato, attraverso i suoi organi ufficiali, il Consiglio generale, a esprimere posizioni molto precise rispetto soprattutto all’emergenza educativa rappresentata dalla presenza di tanti ragazzi e giovani di seconda generazione immigrati in Italia; è nata nel frattempo l’Aism; c’è uno scautismo musulmano ma si fanno strada proposte di integrazione e di accoglienza un po’ dappertutto. Noi abbiamo continuato con il lavoro di approfondimento nei laboratori (nel 2013 si è approfondito il tema della fede nelle tre religioni abramitiche); il secondo campo inter-religioso del 2012 non si è potuto realizzare. Diversi sono stati i pronunciamenti della Chiesa sul dialogo inter-religioso: la consapevolezza che lo scautismo possa essere un naturale luogo di incontro tra ragazzi e giovani di fede diversa, ma tutti amici di Dio, crediamo sia una ricchezza e una responsabilità. Il 2015 coincide con i cinquant’anni della dichiarazione conciliare Nostra Aetate, approvata appunto il 28 ottobre 1965. Vorremmo dare risalto a questa data importantissima. Si potrebbe riprendere l’idea di un campo inter-religioso, oppure si potrebbe proporre un laboratorio nazionale (un fine settimana) che veda il coinvolgimento dell’intera associazione e con l’aiuto del Settore Internazionale e del Coordinamento metodologico pensare un evento con il coinvolgimento delle altre federazioni europee. SABATO 16 NOVEMBRE - 67 Sintesi del percorso NARRARE L’ESPERIENZA DI FEDE facciamo il punto sul percorso di riflessione e le sue acquisizioni… A distanza di alcuni anni dall’avvio del percorso di riflessione sul tema dell’educazione alla fede nelle unità scout e sugli strumenti utilizzati, nonché dell’esperienza maturata nei cantieri e negli incontri formativi che abbiamo animato, sentiamo di poter trarre alcune indicazioni che offrano elementi per apprezzare complessivamente gli aspetti emersi e la loro ricaduta in termini formativi ed educativi. Da dove siamo partiti Il percorso è partito dalla riflessione, maturata nell’ambito del Gruppo sulle Tracce (GsT) e poi sviluppata nei Convegni Assistenti tenuti ad Assisi nel 2006, 2008 e 2010, sulle modalità specifiche che lo scautismo offre per educare i ragazzi alla fede cristiana ed individuando, in sintonia con le indicazioni del Progetto nazionale 2007-2011 sul “narrare la vita, esercizio di libertà”, la modalità della “narrazione” come una delle possibilità concrete offerte ai capi, da riscoprire nell’annuncio della fede. Alla base di questa riflessione sono state poste alcune considerazioni sullo stato attuale dell’educazione alla fede (vissuta in Associazione, come nel contesto sociale) e sulle difficoltà che come i capi incontriamo nell’elaborare e rivolgere una proposta attenta alle caratteristiche del tempo che viviamo ed alle attese dei nostri ragazzi: • la situazione del tempo contemporaneo, in cui non si può più dare per scontato il passaggio da una scelta di fede mediata dall’ambiente (familiare, sociale, associativo…) ad una scelta di fede maturata personalmente; • il tema dell’integrazione tra fede e vita, termini percepiti sempre più oggi come indipendenti, e le ricadute che questo ha in termini di qualificazione della catechesi quale vero e proprio itinerario di evangelizzazione; • la necessità di ricentrarsi sulla Parola di Dio, attraverso una maggior familiarità con la Bibbia, quale fonte in cui rintracciare la narrazione del rapporto tra Dio e l’uomo; • la capacità dello scautismo e, in particolare, il suo taglio esperienziale, di aiutare a fare sintesi tra vita e fede. 68 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI CHI DITE IO SIA?” Da queste considerazioni, la riflessione si è mossa verso la riscoperta di quelle risorse del metodo scout, particolarmente preziose in un itinerario, che abbia le caratteristiche antropologiche dell’iniziazione, per aiutare i ragazzi e introdurli nel cammino della fede in modo concreto, esistenziale, a partire dalle situazioni della vita quotidiana. Progressivamente la riflessione ha coinvolto le Branche nazionali (in primis la Branca E/G che aveva avviato sin dal 2007 una riflessione analoga) ed ha portato alla realizzazione di quattro Cantieri di Catechesi svolti dal 2009 al 2012, dando corpo alla riflessione, tesa a valorizzare la dimensione narrativa nell’educazione alla fede. Primo frutto di questa riflessione, oltre ai numerosi articoli apparsi su PE tra il 2007 e il 2009, è stata la pubblicazione “Narrare l’esperienza di fede – riflessioni sull’educare alla fede oggi con il metodo scout”, curata dal GsT e pubblicata da Fiordaliso nel giugno 2011, che ha offerto una prima sintesi delle riflessioni svolte ed è stata utilizzata lungo tutto il percorso come punto di riferimento per ogni successivo approfondimento. Il percorso di sperimentazione In accordo con gli Incaricati nazionali e regionali di Branca, sono stati coinvolti alcuni staff di unità (circa 30, con oltre 70 capi di tutte le branche, provenienti da quasi tutte le regioni italiane), cui è stato chiesto di sperimentare la modalità narrativa nella catechesi di unità. Il coinvolgimento degli staff ha avuto le seguenti principali tappe: I. Cantiere di Catechesi 2011 – è stato il momento fondativo, in cui si è presentata la riflessione e gli staff sono stati coinvolti in un lavoro di elaborazione per la programmazione dell’anno di vita di unità. Taglio esperienziale e laboratoriale, momenti vissuti di branca e altri in comune, approfondimento biblico con la presenza di don Valentino Bulgarelli (biblista e responsabile dell’Ufficio Catechistico dell’Emilia Romagna), sono stati gli ingredienti dell’incontro. Agli staff è stata proposta una “traccia per la programmazione” da vivere in quattro momenti durante l’anno che, partendo da alcune dinamiche/proposte proprie dell’esperienza scout (per le quali ci siamo rifatti agli “elementi del metodo”, come indicati dal Regolamento Metodologico): SABATO 16 NOVEMBRE - 69 • vivere lo spirito ed i valori espressi dalla Legge, dalla Promessa e dal Motto; • vivere l’esperienza comunitaria, che stimola ad acquistare fiducia in se stessi e ad aprirsi agli altri, in un clima di fraternità, gioia, rispetto e fiducia; • sperimentare il servizio, che offre un possibile “senso” della vita ad imitazione di Gesù; • vivere il rapporto con la natura, scoprendo le relazioni ed il ruolo che è chiamato a giocare l’uomo nell’unico disegno di Dio Creatore; è stata tematizzata in termini di esperienza di fede, come di seguito indicato: Metodo – Promessa/Legge/Motto – Educazione al servizio – Vita comunitaria – Vita all’aria aperta 8 Esperienza di fede – Vivere il comandamento nuovo – Servire il prossimo – Vivere la comunità – Amare la creazione, opera di Dio Per ognuno di questi elementi è stato, infine, proposto un brano biblico di riferimento e uno schema metodologico, che ripercorresse i passaggi peculiari per una catechesi secondo la modalità narrativa e mirasse ad offrire ai ragazzi (attraverso gli strumenti tipici di ogni branca) occasioni di rilettura e approfondimento di quanto vissuto: • Partire dal confronto con la Parola di Dio (lavoro preliminare di staff ) – lettura della situazione dell’unità, delle esperienze fondamentali che sta vivendo – confronto con alcuni testi biblici di riferimento – ideazione di esperienze o percorsi di catechesi • Vivere un’esperienza scout – nell’ambito dell’esperienza vissuta o a posteriori, sono offerti ai ragazzi momenti di verifica e riflessione (occasioni di rilettura dell’esperienza) • Interagire con una storia biblica – si propone un testo di riferimento – nella dinamica, i ragazzi sono condotti a riflettere sull’esperienza vissuta e sulla Parola di Dio confrontandola con la propria vita • Narrare la propria storia – si vive una veglia, un momento di deserto, un gioco, una dinamica di gruppo, un tratto di strada… – l’esperienza vissuta, i simboli proposti, i significati colti… sono alla base 70 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI CHI DITE IO SIA?” della dinamica narrativa, nell’ambito della quale i ragazzi sono chiamati a ri-esprimere ciò che hanno vissuto e compreso. II. Primo anno di vita in unità (2011-2012) - durante l’anno gli staff hanno elaborato delle esperienze nei quattro ambiti sopra evidenziati, accompagnati dallo staff del Cantiere di Catechesi con indicazioni, suggerimenti e contatti via mail, telefono ed altri strumenti informatici. III. Cantiere di Catechesi 2012 – è stato il momento di verifica di quanto sperimentato, dove si sono messe a fuoco le difficoltà e le ricchezze del lavoro fatto. Anche in questo caso sono state proposte dinamiche differenziate per favorire lo scambio delle esperienze vissute e l’approfondimento pedagogico. È stato, in particolare, curato l’aspetto liturgico e celebrativo, per fare in modo che quanto vissuto e condiviso diventasse celebrazione di un’esperienza fondativa, alla luce della domanda di Gesù “E voi chi dite che io sia?” (cfr. Mc 8,27-35). I capi partecipanti ci hanno restituito una valutazione complessivamente molto buona di quanto sperimentato, percepito come innovativo ma, al tempo stesso, profondamente radicato nella “tipicità” dello scautismo. Molto bella è stata la testimonianza di un parroco/AE che ha voluto seguire i capi del proprio gruppo per ascoltare e vedere “dal vivo” quanto da loro sperimentato con i ragazzi per un anno intero. Alcune delle frasi-chiave lasciateci dai capi sono riprese più avanti nel paragrafo “le acquisizioni del percorso”. IV. Secondo anno di vita in unità (2012-2013) – è stato chiesto agli staff di sperimentare per un secondo anno la modalità narrativa nell’ambito della catechesi con la propria unità per approfondirla e legarla con più regolarità all’esperienza scout vissuta con i ragazzi. A questi staff è stato chiesto di: – coinvolgere, con l’accordo della comunità capi, un altro staff del proprio gruppo o della propria Zona nello sperimentare questa modalità, facendo del trapasso nozioni; – rendersi disponibili per animare alcuni gruppi di lavoro al prossimo Convegno Fede 2013. Al cuore della proposta Con il maturare progressivo della riflessione e della concreta sperimentazione della proposta, sono stati meglio delineati i contorni della stessa: SABATO 16 NOVEMBRE - 71 • la modalità narrativa parte dalle esperienze, sono queste che educano, le attività scout sono le occasioni che permettono ai ragazzi di vivere delle esperienze. Non si tratta quindi (non solo almeno) di proporre delle attività di… servizio, comunità, aiuto del prossimo… ma di riconoscere le esperienze di… servizio, comunità, aiuto del prossimo… dentro tutte le attività vissute dall’unità e dal singolo ragazzo. Nello scautismo l’esperienza è veicolo educativo fondamentale: non c’è apprendimento, non c’è crescita del singolo come della comunità se non in riferimento ad un’attività vissuta e condivisa che quindi diventa esperienza; • la narrazione conduce a ricercare il significato delle esperienze, del senso che queste hanno per me e per la mia vita. Quanto vissuto e condiviso nell’ambito delle attività scout, una volta compreso nella sua essenza può essere ri-espresso (“narrato”) alla luce del significato compreso. Questo percorso, tipico della maturazione umana, presenta caratteristiche analoghe anche nel campo dell’esperienza di fede: in entrambi c’è bisogno di “parole” che possano interpretare quanto vissuto, che ci aiutino a collocarlo nel nostro percorso vitale, che possano trasformare l’evento/accadimento in esperienza. Ecco perché le esperienze vissute debbono essere rilette alla luce della Parola di Dio, nella consapevolezza che nella storia della salvezza si trovano gli archetipi dell’esperienza di fede, del dialogo di alleanza tra Dio e l’uomo; • la narrazione ha bisogno di tempi adeguati, necessita che sia offerto uno spazio di riflessione ulteriore, di “risonanza”. Con i ragazzi ciò significa che la ricerca di significato non può finire nello spazio “dell’attività di catechesi”, ma richiede ulteriori momenti (sempre da vivere secondo lo stile scout) per essere interiorizzata ed espressa. Al contrario, ciò significa che non può essere vissuto in stile narrativo ogni singolo momento di preghiera o celebrativo. D’altronde la gradualità e l’attenzione ai tempi dei ragazzi è proprio una delle caratteristiche della pedagogia scout; • la catechesi che utilizza la modalità narrativa richiede che anche i capi (lo staff) condividano la narrazione dell’esperienza che stanno vivendo, nel confronto con la Parola di Dio. Si completa in tal modo quella triplice attenzione presente in una catechesi che utilizza la modalità narrativa, dove si tende ad unire insieme la storia di Dio (in ascolto della Parola), la storia di chi accoglie tale Parola (i ragazzi) e la storia di chi la propone e la fa vivere (il capo). Quest’ultimo, come ci ricorda B.-P., è un fratello maggiore, il cui buon esempio nel vivere assieme ai ragazzi ogni esperienza, diventa narrazione e testimonianza direttamente fruibile dai ragazzi. 72 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI CHI DITE IO SIA?” In sintesi: accompagnare i ragazzi nell’esperienza di fede, significa aiutarli a compiere una grande narrazione della propria esistenza, che culmina (con la Partenza…) nel riconoscere la vita come strada, il proprio impegno nella comunità come servizio per il prossimo, e Gesù come chi dà senso della propria esistenza. E questo esercizio (narrativo) ha un’ulteriore valenza formativa per il singolo capo educatore e per lo staff, nonché per la comunità capi. Le acquisizioni del percorso Alcune espressioni colte durante il Cantiere di Catechesi dello scorso settembre 2012, possono aiutare a fare sintesi degli aspetti maggiormente consolidati che sentiamo, anche alla luce del riscontro di quanto sperimentato, fortemente “acquisiti”: • “Come qualcuno ha detto la catechesi narrativa non ha introdotto concetti nuovi ma secondo me è riuscita a renderli concreti”; • “Quello che sembra essere il più bel risultato è il ripartire dalla Parola di Dio e dall’esperienza”; • “Sicuramente un elemento di novità è il coinvolgersi come capi nella ricerca di significato interagendo con i ragazzi e con la Parola”. Proviamo a illustrarle più in dettaglio queste acquisizioni. La modalità narrativa è pienamente in linea con la catechesi vissuta attraverso l’esperienza scout – il percorso compiuto ha permesso di riscoprire le qualità intrinseche dello scautismo in relazione all’educazione alla fede dei ragazzi. Proprio il partire dalle caratteristiche tipiche del metodo (gli “elementi” sopra ricordati) e dal suo taglio esperienziale (s’impara e si conosce più profondamente se stessi e gli altri a partire dalle esperienze che si vivono), ha fatto apprezzare ai capi coinvolti gli aspetti più belli e “potenti” di quella che è stata giustamente definita una “pedagogia dell’esperienza”. La catechesi vissuta nell’esperienza scout non è confinabile in un’attività specifica, non si può pensare a una “attività di catechesi” slegata dall’esperienza scout che si sta vivendo. L’esperienza di fede non è, infatti, da ricercare “fuori” ma “dentro” l’esperienza scout, non c’è un “prima” od un “dopo” da riservare alla fede, ma una ricerca di senso delle esperienze vissute alla luce dell’ascolto della Parola. Senza questa consapevolezza viene meno ogni capacità di fare una proposta incisiva e credibile nel contesto attuale. In tal senso appaiono riconfermate le famose “triplette” identificate dal Progetto SABATO 16 NOVEMBRE - 73 Unitario di Catechesi (PUC, 1982) e ri-espresse nel Sentiero Fede (1998), a fianco delle quali questa riflessione ha offerto un percorso di metodo, strutturato e ripetibile nel tempo e nelle varie branche (si veda quanto riportato nel paragrafo precedente), ed ha enfatizzato la ricerca di significati alla luce della (nel confronto con la) Parola di Dio. Ripartire dalla Parola per dar voce all’esperienza – la parte più difficile e “sfidante” per i capi è stata proprio quella legata all’interazione con la Parola di Dio, attraverso l’uso della Bibbia. Un uso non didascalico (illustrativo di attività svolte), non giustapposto (si ricerca un brano che possa andar bene con l’attività pensata), ma meditato, interagito e soprattutto condiviso da capi e ragazzi. La difficoltà che si è dovuta superare e che ancora crea molta difficoltà (si veda quanto indicato più avanti), appare connaturata alla scarsa confidenza con i testi biblici, al pensare che questi siano utilizzabili per la liturgia, per la meditazione o per la preghiera, ma non testi che possono essere raccontati, rappresentati, giocati, agiti. Proprio il confronto con i testi biblici ha richiesto ai capi di acquisire dimestichezza con gli stessi cogliendone i significati proposti, di meditarli prima di pensare al tipo di esperienza da vivere con i ragazzi e infine di proporli non a conclusione, ma dentro le esperienze stesse. Tutto questo lavoro, preliminare dei capi nel confronto di staff e poi con i ragazzi nel corso delle esperienze vissute offre la possibilità di ri-esprimere le esperienze vissute (siano esse di vita comunitaria, di offerta di servizio ecc.) “traguardandole” attraverso la Parola ascoltata, giocata, rappresentata e simbolicamente restituita. Non si tratta di diventare tutti esperti biblisti! Piuttosto di avere la Bibbia nella nostra “cassetta degli attrezzi”, nel nostro zaino, di scorrerla e di utilizzarla in staff e con i ragazzi facendola divenire per ognuno segno dell’amicizia di Dio con i suoi figli. Questo lavoro è stato anche tra gli elementi di maggior arricchimento percepiti dai singoli capi e dagli staff coinvolti nella sperimentazione. Narrare la propria storia – e veniamo all’aspetto percepito come più “innovativo”: il narrarsi dei capi, che implica la progressiva maturazione della capacità di leggere la propria storia con gli “occhiali” della fede. Entrare in relazione con i ragazzi, proponendosi come testimoni (narranti) di una storia di salvezza è percepita come una grande opportunità educativa, innanzitutto, e poi come un’opportunità per rispondere alla richiesta fatta ad ogni cristiano di essere “pronti 74 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI CHI DITE IO SIA?” sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,15). Condividere con i ragazzi la propria storia, interpretarla alla luce della Parola di Dio, saper ascoltare ciò che loro hanno da esprimere, trarre dalle esperienze vissute assieme un insegnamento… è la modalità (tipicamente scout) di costruire un contesto in cui Parola, testo e comunità formano un’unità profonda, si appartengono reciprocamente: il testo, letto e ascoltato, meditato e pregato ridiventa Parola, la quale genera identità e comunità. è anche un modo non strumentale per utilizzare la Parola di Dio: ciò che è narrato, dopo che si è svolto questo processo, non è più semplicemente “la mia parola” o “il mio racconto”, ma un racconto illuminato dal confronto con la Parola di Dio e arricchito dal dialogo con i fratelli nello spazio dell’esperienza vissuta, pregata e celebrata, che diviene storia vissuta e significato compreso. Per questo è necessario avere grande attenzione alle dinamiche che permettono una rielaborazione narrativa: essere accolti, ascoltare un racconto, reagire alle provocazioni del racconto, cercare assieme un significato, dare spazi di riflessione e risonanza e, infine, celebrare e pregare assieme “affinché si stabilisca il dialogo tra Dio e l’uomo” (cfr. Dei Verbum 25). E le difficoltà incontrate… – Ci sono ovviamente cose da migliorare e difficoltà incontrate dai capi che ci offrono alcuni spunti di riflessione in termini metodologici e formativi: • tra i primi c’è la difficoltà di vivere la catechesi e l’esperienza di fede come qualcosa di non slegato dall’esperienza scout, cui si aggiunge, in alcuni casi, la difficoltà di pensare un percorso pedagogico che parta dalle esperienze vissute dai ragazzi e non discenda da attività ideate a tavolino dai capi; • tra i secondi c’è la necessità di accrescere la familiarità nell’uso della Bibbia e la necessità di acquisire maggiore capacità di narrarsi come adulti e di rileggere la propria storia alla luce della fede. SABATO 16 NOVEMBRE - 75 LORETO Il Progetto Unitario di Catechesi (PUC) Presentazione di Maurizio Millo Nel 1983 abbiamo lanciato un libro, ma non voleva essere solo un libro ma soprattutto la spinta ad iniziare e percorrere quello che noi pensavamo potesse diventare un sentiero importante per l’associazione. Una integrazione nuova nel metodo quotidiano della catechesi. In realtà era un progetto nato prima che io venissi eletto presidente del Comitato nazionale: l’idea originaria ed il nucleo duro erano stati elaborati da padre Ballis che era allora l’assistente nazionale ed era personaggio molto rilevante per la sua intelligenza – nel senso di comprensione – delle situazioni reali e di quelle concrete degli uomini. Il sogno che si annida nel cuore del progetto unitario di catechesi è contenuto nell’aggettivo unitario. Cerco di spiegarmi meglio. L’uso del termine progetto a quei tempi era meno comune ed ovvio di quanto non risulti oggi, ma era comunque abbastanza normale perché la parola progetto fa pensare a qualcosa che viene o verrà realizzata e che la catechesi richiedesse un cammino era già chiaro. L’aggettivo unitario può sembrare una parola aggiunta tanto per movimentare il titolo. In prima battuta si può pensare che si sia voluto fare un libro unico anziché farne tre, perché a quei tempi le branche erano rappresentate tutte nel comitato centrale; erano, diciamo, molto distinte tra loro e qualche volte un po’ separate e l’aggettivo unitario fa pensare appunto all’unitarietà dell’associazione e della proposta educativa. Questo era vero ed era allora già molto innovativo, proprio per l’eccessiva separazione delle tre branche, ma il significato vero era in realtà più profondo e più ambizioso. Se lo si legge con un po’ di calma si capisce che l’unitarietà era il tratto caratteristico dell’uomo a cui si voleva che i capi educatori-catechisti puntassero: l’obiettivo finale dell’educazione scout e della catechesi. Come a volte succede nella vita, forse proprio questo è finito per diventare uno dei limiti del progetto unitario di catechesi, nel senso che lo sforzo di fare una grossa sintesi di tutto il metodo, integrandolo con una proposta profonda di catechesi unitaria rispetto a quella della Chiesa, puntando ad una visione unitaria dell’uomo come obiettivo di tutta l’educazione, pur finendo per essere un risultato abbastanza riuscito, ha partorito un prodotto di non facile lettura, soprat76 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” tutto per il capo scout medio il quale è un tipo pratico e pensa che non vuole riempirsi la testa di “chiacchiere” e complicazioni. Uno dei limiti è forse stato che risulta scritto in maniera, come dire, troppo bella, ma anche troppo complicata ed apparentemente troppo astratta. Temo che il risultato pratico sia allora stato che troppo pochi lo hanno davvero letto e troppo pochi hanno cercato di approfondirlo e metterlo seriamente in pratica. In compenso un aspetto vantaggioso è che per molti versi quel progetto non è ancora superato, proprio per la complessità del disegno che aveva dietro. La parola unitario è perciò così importante prima di tutto perché la prospettiva di fondo che si trova anche esplicitata nel testo è l’unità della persona. Quando si dice unitario si pensa ad un progetto che puntasse all’unità interiore della persona, all’unità della sua vita, all’unità della storia della persona e del popolo con cui è in cammino. Si tratta di una visione dell’uomo e della Storia che anche nella cultura attuale non risulta affatto evidente; anzi devo dire che mi sembra sempre più in pericolo. La frammentazione delle proposte che si fanno nel mondo che ci circonda è molto forte e la tendenza risulta quella di pensare che quando, ad esempio, si agisce sul piano economico non è richiesto ci si debba ricordare di essere anche un cristiano; e quando si agisce sul piano professionale non è previsto ci si debba ricordare di essere uno scout e così via. Di recente, temo solo a parole, c’è forse una riscoperta di questa problematica, ma trenta anni fa, cioè quando il progetto è stato proposto, quasi non si diceva neppure che doveva essere unitario. Forse perché, in buona fede, non si percepiva abbastanza la difficoltà di puntare ad un obiettivo unitario per la formazione della persona, ma anche perché già allora sembrava fosse più moderno ed adeguato puntare a coltivare appartenenze diversificate per ognuno di noi. Già allora, ma direi molto di più attualmente, la molteplicità delle appartenenze appariva ed appare come una situazione che impone una molteplicità di identità diversificate e separate tra loro. Oggi si sono poi aggiunte tutte quelle virtuali, come quelle collegate ai social network, ma non solo. Senza accorgercene rischiamo di crearci personalità e vite non solo distinte ma addirittura separate, finendo per raggiungere la frammentazione della persona. Ecco perché l’unitarietà della catechesi presentata in quella proposta diventava anche la via per educare lo scout, quindi l’uomo e la donna a diventare unitari. Inoltre era una unità di proposta educativa nel senso che proprio recentemente e con Papa Francesco è stato fortemente rilanciato: l’unitarietà nella fedeltà a Dio e all’uomo contemporaneamente. Vi leggo due righe da pag. 23. SABATO 16 NOVEMBRE - 77 È un paragrafo significativamente intitolato “Fedeltà a Dio Fedeltà all’uomo” e vi sono delle parole che suonano così: “fedeltà all’uomo nel senso di rispettarne la sensibilità le esigenze le capacità di accoglienza nel suo divenire storico e delle sue implicanze culturali e sociali“. Sembra quasi un’omelia di Papa Francesco. Ma trent’anni fa non era affatto diffusa nella cultura comune ed anzi per certi versi non lo è nemmeno adesso. Sembra a volte che Papa Francesco dica cose sconvolgenti quando dice cose del genere e qualche volta è vero perché ci eravamo dimenticati di troppe cose, ma in Agesci si dicevano cose del genere già trent’anni fa e proprio in questo libro, in questo progetto, perché va ribadito che il libro è solo strumento proposto per lanciare un progetto da concretizzare. Poi a pag. 45 si legge che lo scopo di questo progetto era di rendere gli scout capaci di prendere parte all’ascolto, interpretazione e attualizzazione della parola di Dio; cioè di partecipare all’ascolto della parola non solo ascoltando quello che raccontano gli altri ma anche partecipandovi e divenendo capaci di inserirsi in una celebrazione liturgica, leggendo dentro i segni rituali il mistero celebrato. Educazione al simbolismo perciò ed alla capacità di discernere nella vita concreta ciò che conviene fare per essere fedeli al vangelo perché non c’è una ricetta data a priori. Ma è importante capire che una ricetta bisogna cercarla perché altrimenti può sembrare che qualunque cosa vada bene, ma questo non è vero e non è bene. Vorrei adesso riprendere il tema dell’unitarietà della proposta educativa all’interno dell’associazione, pur nella distinzione fra le tre branche. Oggi, in seguito alla storia associativa che c’è stata dopo, questa unitarietà interna sembra scontata, ma a quei tempi concordare proposte ed azioni tra le varie branche non era affatto facile. Qualcuno sostiene che oggi forse si è andati anche troppo oltre nella non distinzione tra le branche, ma trenta anni fa il clima era veramente l’opposto. È successo ad esempio che la Branca L/C abbia lanciato un progetto centrato sulla fantasia come perno di tutta la proposta e poteva sembrare che si pensasse che questo fosse il fattore “salvifico” dell’umanità (lo dico fra parentesi perché sono espressioni mie per intendersi). Al contrario la Branca R/S partiva con un altro progetto ritenuto altrettanto “salvifico” e mettersi d’accordo in comitato centrale era molto bello e arricchente ma non di certo facile. Per questo l’idea di far comprendere che l’unitarietà del progetto di catechesi era essenziale nel metodo rappresentava un contributo molto serio ed efficace che, spero e credo, è poi risultato nel tempo uno dei fattori fondamentali per andare avanti. 78 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” Infine l’unitarietà rispetto alla catechesi della Chiesa locale perché anche questo, che non so quanto sia chiaro adesso, non lo era comunque trent’anni fa, quando la fatica di andare d’accordo con il parroco o con il vescovo era molto forte anche perché gli scout si sentivano eccezionali e separati. Uno degli scopi del progetto di catechesi era riuscire a far capire che se siamo – quando capita – eccezionali è per noi fonte di un servizio. È un carisma da mettere a servizio della Chiesa perché si possa fare tutti insieme un annuncio migliore per spiegare a noi stessi e al mondo chi è Cristo. Noi sappiamo bene che secondo B.-P. la religione è dentro lo scautismo. Non sta accanto. Lo scautismo rispetto alla catechesi non è una attività collaterale, per cui, come avviene tuttora quando si fa catechismo in parrocchia, si chiamano i bambini a fare catechesi e poi si va ogni tanto a giocare perché altrimenti la loro attenzione non regge più. Dagli scout si viene proprio per giocare, che è l’attività che i ragazzi fanno più sul serio di tutte e, attraverso il gioco, si cresce in tutte le dimensioni umane ed anche nella conoscenza di Gesù Cristo, facendo catechesi. Questo B.-P. lo aveva molto chiaro; noi molte volte non lo ricordiamo perché rischiamo che il gioco diventi fine a se stesso, mentre qualche altra volta si fa l’errore opposto a quello delle parrocchie, per esempio interrompendo un gioco perché è arrivato Baloo e comunque facendo della catechesi un’attività accanto alle altre. Ma questo non è il meccanismo che aveva pensato B.-P. e questo Progetto Unitario di Catechesi voleva rilanciare anche questo tipo di unitarietà. In conclusione, il mio intervento voleva sottolineare e far capire i motivi per cui si chiama unitario. Spero di esserci riuscito in modo utile e semplice e finisco con una riflessione che riguarda sempre il problema della unità e della unitarietà. Quando si pensa alla catechesi si dovrebbe riflettere di più sul fatto che il problema centrale del cristianesimo, che ha dato origine a scismi ed eresie e dibattiti, è quello di riuscire a credere che Gesù sia contemporaneamente figlio di Dio e figlio dell’uomo. È una affermazione che sembra facile e leggera da dire, ma in realtà non si riesce a comprendere davvero facilmente e, se ci interroghiamo con sincerità, in realtà non sappiamo davvero come spiegarla neppure a noi stessi. Infatti è uno dei “misteri” della nostra fede. Una realtà di cui se non ci avessero spiegato alcune cose non sapremmo nulla, ma sapendo le cose che ci sono state spiegate si riescono a comprendere almeno i contorni esterni e qualcosa del significato intimo, ma rimane un problema come le cose che sappiamo si concilino fra loro e con la nostra vita. La problematica dell’unitarietà è veraSABATO 16 NOVEMBRE - 79 mente grande in tutte le dimensioni che conosciamo: nella nostra personalità, nei rapporti con gli altri, nella società in cui viviamo e così via. Lo scautismo è una forte e sapiente risposta educativa per crescere come uomini interi ed uniti, respingendo da una parte lo spiritualismo, tutta quella corrente di pensiero che sin dall’origine ha pensato che Cristo sia solo figlio di Dio e in conseguenza si è tanto più bravi cristiani quanto più si è spiritualisti, fino a negare nei fatti la corporeità dell’uomo ma, dall’altra, respingendo anche la tentazione oggi forse più attuale che Cristo sia figlio solo dell’uomo e che perciò conti solo la corporeità ed il rapporto orizzontale che c’è tra gli uomini, finendo per ignorare il rapporto verticale tra l’uomo e Dio. Nel Progetto Unitario di Catechesi lo sforzo è stato quello di spiegare quanto lo scautismo può essere un contributo prezioso per crescere facendo una sintesi di queste due dimensioni, combattendo ogni visione riduzionista dell’uomo, perché questa era proprio l’idea di B.-P., ancora più attualizzata nello scautismo cattolico italiano. Basta ricordare al riguardo che la Promessa inizia proprio con le parole “con l’aiuto di Dio” che è affermazione centrale. Non si tratta solo di confidare che con l’aiuto di Dio tutto risulti meno faticoso. In realtà si vuole rimandare ad un significato più profondo: che senza l’aiuto dello Spirito Santo non si può pensare di rispettare la promessa e per questo io prometto di rispettare queste cose con l’aiuto di Dio, perché altrimenti sarei un presuntuoso o uno squilibrato a pensare di riuscire a fare sempre del mio meglio ed essere davvero un bravo scout ed un buon cristiano, perché non riesco da solo a comprendere e conoscere ciò che è giusto fare in tutte le situazioni e soprattutto riuscire a farlo davvero senza l’aiuto dello Spirito Santo. Tutto questo è molto presente nello scautismo, in tutti i testi di B.-P.. Basta ricordare a come spiegava cosa significa il motto “estote parati” quando lo richiamava subito dopo un terremoto dove erano morte molte persone e spiegava appunto che “estote parati” significa essere pronti anche nei confronti della vita che può finire da un momento all’altro. O anche alla parola impossibile a cui si deve levare l’inizio “im” con un calcio ricorda molto quegli episodi del vangelo in cui si spiega che avvengono cose meravigliose ma non ci si deve meravigliare perché nulla è impossibile a Dio. Se uno scout pensasse che nulla fosse impossibile per lui da solo sarebbe a dir poco presuntuoso e forse pericoloso, se invece pensa di poterci riuscire con l’aiuto di Dio, diventa un testimone, un narratore di quello che avviene nella storia quando attraverso il nostro impegno si consente a Dio di intervenire e appunto allora nulla è impossibile, persino fare una società e uno scautismo migliori. 80 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” Il Sentiero Fede Presentazione di Franco Forte Premessa Devo fare una premessa per evitare che alcune riflessioni che propongo possano essere lette in modo errato e distanti dai miei pensieri. Il PUC è il responsabile di tutto ciò che, da un certo punto in poi della mia esperienza scout, ho fatto nel campo dell’educazione alla fede e della catechesi. L’ho scoperto nei Campi di catechesi di Assisi (per otto anni come allievo, per due in staff ) grazie ad uno staff competente e creativo che ha saputo tradurre il PUC in sentieri educativi concreti, suggestivi, avvincenti e stimolanti, facendomi acquisire un’attitudine mentale che mi mancava, insieme ad un consistente numero di capi che hanno portato i risultati di questa esperienza nei loro territori. 1. Perché e come nasce l’esperienza del “Sentiero Fede” In quegli anni, quanto stava avvenendo circa l’utilizzazione del PUC in ambito territoriale, e i nodi che erano emersi da Giona 91, interrogavano l’Associazione sul da farsi rispetto al PUC. Il Comitato centrale, per esso don Arrigo Miglio [al tempo Assistente ecclesiastico generale, N.d.C], si chiedeva se ristampare il PUC o farne una versione più aderente alla situazione associativa che stava emergendo. Le verifiche, infatti, mostravano che le valide intuizioni del PUC erano esposte in una chiave poco comprensibile ai capi. La parte “ concettuale “risultava molto ostica“ e di difficile lettura (ad Assisi prendevo amabilmente in giro il caro p. C. Huber dicendogli che non si capiva, perché era scritta in tedesco). Si scelse di operare una rivisitazione del PUC soprattutto nella sua struttura e riscrittura e furono coinvolti, in una Commissione, gli Assistenti ecclesiastici centrali (don A. Napolioni, don G. Coha, don S. Grossi) con accanto dei capi e non solo degli esperti come era avvenuto per il PUC. La riscrittura/revisione del PUC nasce da precise indicazioni di criterio poste alla commissione dal Comitato centrale. Nella Lettera del Comitato centrale del 10 giugno ‘95 al Consiglio nazionale e alle regioni si legge, in riferimento alla rivisitazione del PUC: «Sulla base del PUC e tenendo conto dei rilievi emersi in occasione dei Convegni Giona 91 sono stati individuati i seguenti criteri di lavoro: SABATO 16 NOVEMBRE - 81 • sostenere la sensibilità per un lavoro serio di catechesi suscitata dal PUC in questi anni, offrendo una traduzione metodologica specifica, unitaria nelle tre branche; • favorire un maggior legame tra azione educativa nell’Associazione e i nuovi catechismi CEI; • cercare la massima integrazione possibile tra catechesi evangelizzatrice e metodo scout, intorno alla spiritualità scout; • esplicitare il collegamento tra la formazione permanente dei capi nelle comunità capi e i bisogni educativi caratteristici delle tre fasce di età. In particolare: • usare un linguaggio semplice ed immediato che tenga conto della realtà diffusa dei capi dell’Associazione, che spesso vanno motivati alla scelta di fede e alla testimonianza da dare ai ragazzi; • offrire semplificazioni attraverso schede di programmazione di attività che, offrendo un ampio spettro di alternative, evitino il rischio di dare ricette preconfezionate ma favoriscano la libera e creativa utilizzazione del materiale, per farne uno strumento più efficace di formazione dei capi». La Commissione si mise al lavoro facendo due scelte fondamentali. La principale fu quella di capovolgere l’ordine dei primi due capitoli, per partire non dalla teologia dell’iniziazione cristiana, ma dall’esperienza educativa e spirituale scout, ritenendo che così si potesse meglio agganciare il capo medio nella sua ricerca di orientamenti per la catechesi. L’altra riflessione riguardò la seconda parte del PUC, quella giudicata da tutti meno riuscita, in quanto gli itinerari esposti risultavano farraginosi e difficili da attuare. Nacque l’idea di offrire alle comunità capi e agli staff di unità schede con cui imparare a progettare la catechesi in armonia con il metodo e la vita scout. La proposta fu approvata dal Comitato centrale e la commissione si mise al lavoro. Fu scritto il Sentiero Fede che nasce dal PUC, è pensato e realizzato dall’interno del PUC, ne conserva gli obiettivi e le pagine più significative. Esso conserva il “meglio” del PUC che, dunque, non è in archivio ma sta nel Sentiero fede in forma più snella e leggibile, a sostenere un “laboratorio della fede”, cui generalmente i capi mettono mano spinti più dalle necessità contingenti che da ponderate progettualità. Il Sentiero Fede contiene anche delle novità rispetto al PUC: copertina, titolo, strutture e indice sono nell’ottica individuata. 82 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” 2. Cosa ha rappresentato per l’Associazione e altri ambiti? Il Sentiero Fede ha rappresentato: • Sicuramente un grande successo editoriale (nonostante il prezzo) tanto da farne subito una ristampa, ma anche una rivoluzione culturale perché si trattò di una scelta condivisa da capi e assistenti, e non solo tra quelli che hanno redatto il Sentiero Fede. Direi che vi fu una condivisione di democrazia dal basso. La bozza del progetto fu sottoposta, da parte del Comitato centrale, al Consiglio nazionale, e da questi a capi e assistenti ecclesiastici distribuiti sul territorio. Si chiese ai capi di analizzare la bozza e fornire indicazioni utili e contributi significativi per la redazione del testo finale. Ed in effetti arrivarono da capi e assistenti ecclesiastici segnalazioni in risposta alla consultazione richiesta dal Comitato centrale. Convegni e campi scuola furono luoghi di sperimentazione e scrittura di nuove schede, che fornirono interessanti chiavi di approccio al Sentiero Fede. Le osservazioni furono tutte recepite nel predisporre la bozza definitiva degli orientamenti. A oltre 50, tra capi e assistenti ecclesiastici, scelti in tutto il territorio nazionale, fu richiesta la redazione delle schede secondo lo schema predisposto dalla Commissione. • La scoperta che la semplicità del linguaggio rappresenta una novità ed è la ricchezza in questo tipo di sussidio: l’idea che capi medi potessero portare la loro esperienza, il loro contributo e il loro linguaggio semplice, ma mai banale, in questo tipo di operazione fu un’idea vincente. • La scoperta che esso, con la sua struttura e quella delle schede, la linearità, la praticabilità, il linguaggio accessibile e coinvolgente, non è per addetti ai lavori, ma rivolto ai capi che abbiamo oggi, è uno strumento modulato profondamente sul metodo attivo che ci è proprio. Il Sentiero ti prende per mano, ti presenta una esperienza reale, (ai redattori delle schede fu chiesto espressamente di partire da racconti reali), ti fornisce strumenti per leggerla, ti fa scoprire percorsi aperti alla lettura, alla riflessione e all’utilizzo creativo, promuove la tua competenza catechistica, ma poi ti costringe a scommettere sulle tue competenze di capo educatore alla fede. 3. Ricadute per la cultura associativa Ho già detto che il Sentiero Fede offre gli strumenti perché ciascun capo, ciascuna comunità capi, non applichino ricette di altri ma siano capaci di inventarne di proprie. Nonostante che, come avvenuto per il PUC, non fosse stato fatto lo stesso clamore per presentarlo (Convegni, Campi,...) e la inopportuna ripropoSABATO 16 NOVEMBRE - 83 sizione del PUC quasi subito dopo la pubblicazione del Sentiero Fede, col risultato di confondere la base dell’Associazione circa il metodo proposto, vi sono state e vi sono molteplici esperienze che dicono di una positiva ricaduta del Sentiero Fede per la cultura associativa. A parte le conoscenze dirette avute subito dopo la pubblicazione del Sentiero, ho cercato di indagare sulle ricadute sulla sua pubblicazione ed ho scoperto cose interessanti. Il Sentiero Fede entra nelle progettazioni educative dei Gruppi. Cito alcune esperienze che non si collocano solo negli anni successivi alla pubblicazione del Sentiero Fede ma, per la maggior parte, sono riferite al presente o passato prossimo: ciò non è privo di significato. Il Gruppo Messina 14 pone al centro del Progetto educativo di Gruppo e modula il percorso di educazione alla fede sul Sentiero Fede. La Zona di Carpi ha prodotto uno schema di utilizzo del Sentiero Fede per ciascuna Branca. Il Gruppo Desenzano 1 ha sviluppato articolati sentieri fede a partire dal Sentiero Fede. La Zona Lecce/Adriatica ha realizzato “Laboratori di Sentiero fede” per le branche. Il Gruppo Mirandola 1 applica il Sentiero Fede alla progressione personale nelle branche. La Zona Brescia/Sebino, in collaborazione con la Diocesi di Brescia, pone il Sentiero Fede a base dell’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi. Il consiglio di Zona Volturno, nel programma 2010-2011 si interroga sul Rapporto tra “Sentiero Fede” e “Tradizioni e Metodo Scout”. Uno stimolo interessante che dice dell’attualità della proposta e che la scommessa è vincente, viene dal Gruppo Alghero 2 che ha provato ad accostare/giocare con le Schede secondo un criterio raccontato durante l’evento: “Nel Sentiero e nel Laboratorio della fede” e che si svolge individuando, a partire dal Sentiero Fede e dall’utilizzo incrociato delle schede, possibili itinerari di come la vita scout può diventare annuncio e spiritualità cristiana. Il Gruppo è andato anche più in là scoprendo le suggestioni che l’ utilizzo delle schede può stimolare e attraverso la riappropriazione del vocabolario integrale dell’esperienza educativa e spirituale e a partire da ciò che concretamente i ragazzi vivono. E poi alcune iniziative locali interessanti, dove so che altre schede sono state elaborate liberamente da capi e assistenti eccelsiastici con lo stesso metodo, evidentemente sperimentandone la validità. 4. Quale ricchezza/portata l’esperienza può avere per l’Associazione e il contesto di oggi e per la Chiesa Credo che non sia priva di significato la circostanza che la collocazione storica del Sentiero Fede è contemporanea al momento in cui la Chiesa italiana ha pen84 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” sato alla seconda edizione dei catechismi, in qualche modo frutto maturo della riflessione catechetica seguita al Concilio Vaticano II. La prima ricchezza ci viene proprio dal riconoscimento che la Chiesa ci fa. Nella Nota del 15/06/1991 dell’Ufficio Catechistico nazionale dal titolo “Il catechismo per l’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi” c’è la menzione specifica dell’Agesci come luogo per l’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi. Leggiamo nella Nota al n. 26: «Le associazioni, i gruppi ecclesiali e i movimenti costituiscono, particolarmente nell’ambito della formazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi, una realtà ricca di presenza e di valore ecclesiale, pastorale e pedagogico. L’Azione Cattolica ragazzi insieme all’Agesci e ad altre associazioni, movimenti e gruppi che operano nel campo della pastorale dei fanciulli e dei ragazzi, presenti nelle comunità, offrono un servizio ecclesiale che permette una molteplicità di proposte educative sostenute da interessanti mediazioni pedagogiche e didattiche». E continua: «La riconsegna del catechismo da parte dei vescovi sollecita ora queste realtà ecclesiali a verificare il proprio servizio catechistico sulla base di alcuni criteri di fondo». Nel Sentiero Fede al cap. 2.2 leggiamo: «L’Agesci, fedele al suo fondamentale carisma educativo ed alla sua scelta di presenza e appartenenza ecclesiale, accetta l’invito e sente la responsabilità di fare della proposta scout un itinerario teso al raggiungimento della maturità cristiana di coloro che accettano di percorrerlo». Questa mi sembra la ricchezza fondamentale del Sentiero Fede. Le altre in rapida sequenza. Credo che la ricchezza e la portata dell’esperienza del Sentiero Fede per l’Associazione e il contesto di oggi stia nelle riflessioni e scelte che guidarono la Commissione nel passaggio dal PUC al Sentiero Fede. Quest’ultimo non ha esaurito le ragioni per le quali è stato redatto, anzi credo che la sua strutturazione “aperta”, che nasce attendendo i contributi dei capi delle staff, delle comunità capi e via dicendo, il modo in cui sono pensate le schede: incarnazione (ti racconto); la formazione capi (riflettiamoci insieme), la creatività (mercato delle idee), la progettualità, possano essere interpretate come una profezia per il tempo presente. Le ricchezze e le suggestioni che può portare alla Associazione/contesto di oggi sono ancora molte. Alcune vanno riscoperte, altre non sono state ancora individuate e possono, ancora e meglio, divenire ricchezze nuove per la cultura associativa. Nel Sentiero Fede ricevono attenzioni nuove parole chiave, per proporsi alla vita dei nostri gruppi: riscoprire l’urgenza dell’evangelizzazione per rispondere al biSABATO 16 NOVEMBRE - 85 sogno di spiritualità. Occorrono capi educatori che, con la maestria dello spirito e del metodo scout (inscindibili!), si mettano per primi in ascolto della Parola di Dio nella Chiesa, per raccontarla con credibilità e vero fascino alle nuove generazioni. E il Sentiero Fede fornisce gli strumenti e i percorsi per farlo e che sono alla portata del capo medio/normale La scelta delle schede e della loro impostazione nasce dalla convinzione che la formazione dei capi come educatori alla fede non passa attraverso elevate proposte teologiche da “addetti ai lavori”, pur esigendo da parte di tutti un graduale sforzo di alfabetizzazione e soprattutto un impegno spirituale personale. Gli elementi di questa ricchezza li trovo: • Nella impostazione sull’imparare facendo, caratteristico dello scautismo, mettendoci nei panni di una comunità capi o di uno staff di unità, generalmente alle prese con un obiettivo educativo o con un tema da tradurre in attività per i ragazzi. • Nell’esserci inoltrati in una riflessione sui contenuti e sui metodi. • Nell’aver suggerito un possibile mercato delle idee. • Dal fatto che ogni scheda è scandita da queste tre tappe, affiancate da domande che vogliono sollecitare il lettore, singolo o in equipe, a reagire man mano, diventando protagonista del suo percorso di auto-formazione (nella linea dell’”imparare facendo”), con opportuni rimandi alla Parola di Dio, al PUC, ai catechismi CEI, ai sussidi disponibili. • Nella semplicità del testo, capace di esporre la nascita e lo sviluppo della spiritualità scout (non solo per addetti ai lavori) senza apparire un ricettario privo di “anima“ e in sé banale. Semplicità che consente un graduale percorso di alfabetizzazione e un serio impegno personale, (percorsi personali di progetto) soprattutto sul piano spirituale (un insieme di percorsi aperti alla lettura, alla riflessione e all’utilizzo creativo di staff e comunità capi). • Nella proposta di schede che insegnano a distinguere e collegare i tre ingredienti che non devono mai mancare per una catechesi incarnata nella vita: l’esperienza umana ed educativa, il linguaggio scout e lo specifico dell’esperienza cristiana. Entrando da ciascuna di queste porte, si può accedere a un dialogo fecondo tra vangelo, scautismo e vita. Giocando con le schede. Il Sentiero Fede educa a questo gioco. E c’è chi lo ha intuito e ha raccolto la sfida. Provate a visitare il sito dell’Alghero 2, sarete conquistati dalle suggestioni proposte. Certo, e qui sta il bello 86 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” e anche il difficile del Sentiero Fede: scegliere non la scheda, ma le schede giuste al momento giusto, ma è questo che va proposto, insegnato, sostenuto e verificato, magari in Zona, cominciando dal servizio dell’assistente ecclesiastico tra capi Gruppo, perché siano a loro volta capaci di animare la formazione permanente e la progettazione in comunità capi (aiuti ulteriori sono esemplificati nel fascicolo degli Strumenti). E soprattutto: imparare a costruire altre schede. 5. Per finire... Quelle intuizioni che indirizzarono la scrittura del Sentiero Fede sono oggi ancora più valide. In questo tempo inedito sotto tanti punti di vista, l’incontro dei giovani con Cristo percorre vie che dobbiamo immaginare e reinventarci giorno dopo giorno. Ma non è questa la scommessa dello scautismo? Il fatto che a questo Convegno Fede 2013 siano iscritti, nelle tre sedi, 2100 capi che, badate bene, sono oltre 1000 in più di quelli che si erano iscritti a Giona 91 (che erano 1022) credo debba porci qualche domanda sulla “ fame “ dei capi di sapere come muoversi nel campo della educazione alla fede. E l’Associazione ha, in ogni caso, la responsabilità di “saziare questa fame”. Ma come? Sono curioso di sapere cosa emergerà dai gruppi di lavoro. Non vorrei che, dopo questo Convegno l’Associazione producesse, in risposta ai bisogni che emergeranno, ulteriori strumenti abbandonando quelli che ci sono e che funzionano. Non vorrei che fra 20 anni, per quelli che ci saranno, si farà un altro convegno cui parteciperanno tremila capi, sempre “affamati” e la storia continuerà con l’aumento del numero dei capi ai Convegni Fede. Probabilmente il fatto che, come ho già detto, il Sentiero Fede entri nei Progetti educativi dei Gruppi non basta. Questa la leggo come intenzione seria, ma se provassimo a “fare nuovi” gli strumenti che abbiamo forse non daremmo un pasto completo ai capi ma un invitante e stuzzicante antipasto forse sì. Sicuramente aiuteremmo i capi a stimolare giorno dopo giorno l’incontro dei giovani con Cristo. Faremmo passare il concetto che alcuni strumenti non debbano soddisfare solo esigenze immediate ma debbano aiutare la storia a dipanarsi e divenire, strumenti perciò di cui nessuna generazione di capi può fare a meno. Ma la risposta non spetta a me. SABATO 16 NOVEMBRE - 87 I Campi Bibbia Presentazione di Agnese Cini Tassinario Carissime sorelle e fratelli scout, sono qui fra voi, felice di potervi raccontare brevemente una delle iniziative dell’Agesci che ne hanno qualificato il cammino per tanti anni: i Campi Bibbia. Questi campi di una settimana, vissuti in stile scout, dove si legge, si medita, si ascolta, si discute, si canta, si prega e si gioca con la Bibbia, sono nati in Francia circa 50 anni fa, per proporre ai capi una forte esperienza formativa che si ispira al pensiero di Padri della Chiesa come sant’Agostino (“La Scrittura cresce con chi la legge”), ma anche a quello di B.-P. che indica due cose per raggiungere un genuino spirito religioso: “la prima è la lettura di quell’antico e ammirabile libro che è la Bibbia, nella quale scoprirai, oltre alla rivelazione divina, un compendio meraviglioso di storia, di poesia e di morale. La seconda è la lettura di un altro libro meraviglioso: quello della Natura e la osservazione di tutto quanto puoi trovare tra le bellezze e i misteri che ti offre per la tua gioia”. Storia Dopo aver frequentato tre “Campi Bibbia” in Francia negli anni ’60 ed essermi perdutamente innamorata – come lo sono ancora – dei personaggi e delle grandi parole della Bibbia ed essere diventata Capo Guida, ho proposto all’allora Agi e Asci di fare questa esperienza anche noi in Italia. E così avvenne. Il primo Campo Bibbia fu fatto nel 1971 nell’Abbazia di San Galgano con 12 partecipanti (primo campo “misto”: l’Agesci nascerà infatti formalmente nel 1974). L’esperienza si è consolidata nel tempo, con agguerrite équipe che si sono succedute nel tempo, e che li hanno organizzati magistralmente fino ad oggi, donando a chi vi partecipava un’occasione preziosa di ascolto della Parola di Dio, per una maturazione consapevole e fondata della nostra fede. Sin dall’inizio erano aperti anche a rover e scolte e a chi non faceva parte dell’Associazione, nella convinzione che i contributi di persone non appartenenti all’Agesci possono generare una “cultura dello scambio” importante e arricchente. Dato il successo, anche numerico, dell’esperienza, si sono presto delineati in un campo A di introduzione, diretto a chi si accostava alla Parola per la prima volta, e in un campo B di approfondimento di un tema o di un libro della Bibbia, 88 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” per coloro che avevano già fatto un campo A, o che avevano comunque una certa familiarità con la Scrittura. Nel 1976 nasce formalmente l’Equipe Campi Bibbia, formata dagli staff dei campi e dai biblisti dei campi, in stretto contatto con la Formazione capi che li segnala al Consiglio generale dello stesso anno come una proposta “indispensabile per un capo educatore di una associazione di cattolici quale è l’Agesci”. Nel 1981 inizia l’esperienza dei campi Bibbia all’estero, sui luoghi della Bibbia, guidati da don Rinaldo Fabris (Israele, Turchia, Grecia, Siria, Giordania ed Egitto). Nel 1983 si trova finalmente un posto fisso per i campi del centro nell’Abbazia di San Benedetto al Subasio: luogo favoloso come Centro di Spiritualità dell’Agesci, dove anche le pietre parlano! Qui vengono svolte altre iniziative come i campi “Ora et labora” per restaurare il luogo, o i campi di catechesi. Purtroppo, dopo dieci anni, nel 1993, San Benedetto passa agli amici della Comunità di Bose e i campi Bibbia si spostano a Bevagna, in Sardegna e in altre località. Da quest’anno i campi per R/S vengono previsti separati dai campi Bibbia, nella forma di una route dove si vive, anche camminando, l’esperienza di una comunità riunita intorno alla Parola di Dio. Intanto vedono la luce due pubblicazioni: “La Bibbia in mezzo a noi” nel 1989, con spunti, riflessioni, schemi, giochi e veglie bibliche e “Come la pioggia e la neve” nel 2005, in cui sono raccolte storie ed esperienze vissute ai campi. Nel 2007 infine il Consiglio generale dell’Agesci approva i nuovi percorsi formativi, nei quali si inseriscono per la seconda fase i tradizionali Campi Bibbia di una settimana per soci adulti e adulti extra-associativi; i Campi di Catechesi Biblica di 3/4 giorni, per capi ed educatori, dove si confronta il metodo scout con la Parola di Dio per ripensare e approfondire la proposta di fede dell’Associazione; i Laboratori Biblici di 2/3 giorni, per soci adulti ed extra-associativi, che vogliono approfondire un singolo tema significativo o di attualità a confronto con la Scrittura, e che magari non trovano tempo e possibilità di partecipare a un intero Campo Bibbia. Parola di Dio? Vorrei cogliere questa occasione per proporvi una breve riflessione sulla “Parola di Dio” e sulla sua importanza fondamentale. Cosa significa qualificare la Bibbia come “Parola di Dio”? Dio parla ancora? Certamente Dio non parla più, almeno nel modo in cui si dichiara che abbia SABATO 16 NOVEMBRE - 89 parlato un tempo ai grandi personaggi dell’Antico Testamento che ne udivano la voce e discutevano e litigavano addirittura con Lui, come Abramo o Giacobbe sul fiume Yabboq. È evidente che Egli resta silenzioso anche di fronte alla tante richieste personali o alle grida che chiedono aiuto, giustizia o anche vendetta per i mali e i dolori del mondo. Questo “mutismo divino” appare nel fatto stesso che la sua voce ci giunge ormai solo in veste scritta. Dio non parla più, e a noi non è più dato di udire la sua voce, né quella di Gesù, sua parola vivente, anch’essa divenuta scritta, oltretutto in una lingua che è ormai scomparsa. Non possiamo più dialogare con Dio al modo di Mosè o di Geremia, o chiedergli conto del dolore degli innocenti come Giobbe, né sederci ai piedi di Gesù per ascoltarne l’insegnamento scegliendo, come Maria, la parte migliore. Il Concilio Vaticano II è chiaro su questo argomento, quando dice a proposito della chiusura del canone: “Non è da aspettare alcuna altra rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo” (Dei Verbum 4), cioè prima del ritorno del Messia alla fine dei tempi (o della sua venuta, secondo gli ebrei). Le tracce di Dio da cercare Ma (c’è sempre un “ma”), ci resta la traccia scritta dei dialoghi e dei racconti, delle leggi e delle preghiere, delle scelte di vita, degli errori umani e del perdono divino nei 73 libri della Bibbia, tracce da leggere e meditare, da trasmettere e farle ancora parlare. Queste tracce, affidate alla Bibbia e poi alla Tradizione, sono infatti lontane da noi, legate ad altri tempi e culture, e questo rischia di rendercele spesso difficili e addirittura silenti: occorre un impegno serio e costante per farle nostre. Ma questa distanza è anche un segno della delicatezza e dell’umiltà divina, che ci consente la libertà e la grave responsabilità di accogliere la Parola o di rifiutarla, di leggere e interpretare la lettera divina destinata agli uomini o di rimandarla al mittente. Come la fede, che è sempre ricerca di fede e mai certezza acquisita, la Bibbia rinuncia alla forza dell’imposizione, è un dono, una possibilità, che ci permette di conoscere la volontà di Dio per metterla in pratica. Dunque si tratta di “cercare Dio” nelle tracce che ha lasciato. Una storiella ebraica racconta che dei bimbi giocavano a nascondino. Poi si stufarono e se ne andarono. Il bimbo che si era nascosto andò piangendo dal nonno. “Cos’hai piccolo?” gli chiese. “Nessuno mi ha cercato” rispose. E il nonno lo ac90 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” carezzò tristemente dicendo: “Ti capisco. Anche a me succede la stessa cosa. Nessuno mi cerca”. Il messaggio centrale di tutta la Scrittura La fede ci dice che sono esistite creature umane che hanno ascoltato la voce di Dio e hanno dialogato con lui, che circa duemila anni fa Dio stesso è apparso come Parola vivente in Gesù affinché il suo messaggio fosse ancora più incisivo e universale, che poi queste straordinarie esperienze sono state messe per iscritto ed è lì, in queste tracce, nella Bibbia, che possiamo trovarlo. Per i credenti la Bibbia è un vero e proprio miracolo; essa è la via per comprendere la volontà e la misericordia divina e per poterle eseguire, è feconda come la pioggia che scende dal cielo e non vi ritorna senza aver irrigato la terra (Isaia 55,10-11), capace di far ardere il cuore a chi la legge secondo i discepoli di Emmaus, portatrice di gioia a chi la legge (“gioisca il cuore di chi cerca il Signore”, Salmo 105,3) e anche a Dio stesso, come dicono i maestri, perché “chiunque si affatica sulla Torà rallegra Dio”! Allora forse non è empio, ma certamente da incoscienti ignorarla, non lasciarle un adeguato spazio. Per queste ragioni, e per l’esperienza che ho felicemente vissuto e trasmesso nei Campi Bibbia dell’Agesci, mi permetto di raccomandarne calorosamente la prosecuzione piena. Da questa esperienza sono nate molte nuove avventure, frequentazioni bibliche e fedi più adulte, e, nel mio caso, anche un’associazione laica di cultura biblica denominata “Biblia” che opera da quasi 30 anni in Italia con molteplici iniziative, fra cui il compito consegnatoci dal MIUR di operare per una maggiore presenza della Bibbia nella scuola. Chi trova la Bibbia trova un tesoro per la vita, posso assicurarvi che è un amico che non ci lascia mai soli, che accompagna il nostro cammino quotidiano (“Lampada ai miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”, Salmo 119,105). Si tratta, per parafrasare Pirandello di “73 libri in cerca di lettori”: auguro a ciascuno di noi e all’Agesci tutta di far parte della schiera dei cercatori. SABATO 16 NOVEMBRE - 91 Nella tenda di Abramo Presentazione di Stefano Pinna L’idea di un laboratorio inter-religioso nacque nel 1995, in Sardegna, quasi fosse una costola dei Campi Bibbia tradizionali, il cui modulo era ormai collaudato da oltre vent’anni. Li ha sempre guidati don Valentino Cottini che oggi dirige la rivista Islamochristiana ed è Preside del Pisai (Pontificio istituto di studi arabi e d’islamistica). Non vi era certamente la consapevolezza di un problema (la presenza così significativa di cittadini non comunitari nel nostro paese) ma vi era piuttosto l’esigenza (sotto la spinta della dichiarazione conciliare Nostra Aetate) di conoscere un po’ più da vicino tanto il mondo islamico quanto quello ebraico. Il testimonial privilegiato era per noi la figura di Abramo riconosciuto dalle tre religioni come il padre nella fede, quindi un modello antropologico di riferimento; la natura di religioni rivelate ci consentivano di avere dei testi da condividere e da confrontare (Antico e Nuovo Testamento). Iniziò un percorso dal 1995 al 2007 nel corso del quale abbiamo avuto modo di sollecitare e di frequentare i testi delle tre religioni rivelate con riferimento a temi che più di altri ci consentivano di cogliere delle appartenenze, una familiarità che nasceva dalla consapevolezza che i vari popoli “hanno una sola origine... un solo fine ultimo, Dio” (Nostra Aetate, 1b). La figura di Abramo, il volto di Dio, la misericordia, la preghiera, la tradizione, l’ospitalità, il perdono, il lavoro, la libertà, il paradiso, il tempo, l’educazione, i cibi: sono solamente alcuni dei temi affrontati nel corso degli anni; temi trattati con rigore scientifico ma con il taglio e con la sensibilità educativa. Col passare degli anni il contesto cambiava, gli stessi numeri della presenza dei non comunitari diventava significativo anche in Italia, si cominciava a parlare di accoglienza anche nelle comunità scout; ci fu un documento elaborato dallo stesso “Gruppo delle Tracce”, e curato da don Sandro Corazza. La cosa che ci colpiva, nonostante la consapevolezza delle differenze precise che segnano la differenza tra le tre religioni abramitiche, era che esisteva un linguaggio comune, una sensibilità comune. Iniziò quasi da subito una parallela ricerca e analisi dei testi di Baden-Powell sull’educazione religiosa e quando nel 2002, a cura di Paola Del Toso e [Maria Cri92 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” stina Bertini], venne pubblicato Bevete la bell’aria di Dio (“Bevete la bell’aria di Dio”. Testi di B.-P. sull’educazione religiosa, (a cura di), Paola del Toso e Maria Cristina Bertini, Centro Documentazione Agesci, Roma, 2001, N. d. C.), un lavoro iniziato tanti anni prima, trovammo la conferma che B.-P. aveva pensato lo scautismo come un naturale ‘laboratorio inter-religioso’ e che, pur riconoscendo la centralità della Scrittura cristiana e della figura di Gesù, «tutti gli uomini della terra, cristiani e non cristiani, dovrebbero vivere come membri di un’unica famiglia e figli di uno stesso Padre» (“Bevete la bell’aria di Dio”, op. cit., p. 87), perché il punto principale è che «tutti adorano Dio, benché in diversi modi» (Ibidem, p. 88). Si pensò, in occasione del centenario della nascita dello scautismo (2007), di organizzare una vero e proprio campo inter-religioso, La tenda di Abramo, lasciandoci guidare da un’idea: per una settimana dei fratelli scout (sotto la paternità di B.-P.), che si riconoscono in un unico Dio, e che hanno in Abramo un fratello maggiore, vivono un’esperienza comune di studio, di confronto, di servizio, di gioco, di preghiera. L’identità, gli altri e il creato sono stati i temi su cui si è lavorato; e al mattino il confronto era soprattutto sui testi che rappresentavano lo specifico delle tre religioni, al pomeriggio invece l’attenzione era concentrata tutta su Baden-Powell e la proposta scout. Insomma abbiamo puntato sulla comune base antropologica rappresentata dall’essere scout, dal linguaggio che ci accomuna come fratelli scout per confrontarci invece sulle diversità religiose. Non eravamo tantissimi (una sessantina): c’erano luterani, ortodossi, musulmani, cattolici libanesi e giordani, e una buon numero di italiani. Successivamente l’Associazione ha iniziato, attraverso i suoi organi ufficiali, il Consiglio generale, a esprimere posizioni molto precise rispetto soprattutto all’emergenza educativa rappresentata dalla presenza di tanti ragazzi e giovani di seconda generazione immigrati in Italia; è nata nel frattempo l’Aism; c’è uno scautismo musulmano ma si fanno strada proposte di integrazione e di accoglienza un po’ dappertutto. Noi abbiamo continuato con il lavoro di approfondimento nei laboratori (nel 2013 si è approfondito il tema della fede nelle tre religioni abramitiche); il secondo campo inter-religioso del 2012 non si è potuto realizzare. Diversi sono stati i pronunciamenti della Chiesa sul dialogo inter-religioso: la consapevolezza che lo scautismo possa essere un naturale luogo di incontro tra SABATO 16 NOVEMBRE - 93 ragazzi e giovani di fede diversa, ma tutti amici di Dio, crediamo sia una ricchezza e una responsabilità. Il 2015 coincide con i cinquant’anni della dichiarazione conciliare Nostra Aetate, approvata appunto il 28 ottobre 1965. Vorremmo dare risalto a questa data importantissima. Si potrebbe riprendere l’idea di un campo inter-religioso, oppure si potrebbe proporre un laboratorio nazionale (un fine settimana) che veda il coinvolgimento dell’intera Associazione e con l’aiuto del Settore Internazionale e del Coordinamento metodologico pensare un evento con il coinvolgimento delle altre federazioni europee. 94 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” Sintesi del percorso NARRARE L’ESPERIENZA DI FEDE facciamo il punto sul percorso di riflessione e le sue acquisizioni… A distanza di alcuni anni dall’avvio del percorso di riflessione sul tema dell’educazione alla fede nelle unità scout e sugli strumenti utilizzati, nonché dell’esperienza maturata nei cantieri e negli incontri formativi che abbiamo animato, sentiamo di poter trarre alcune indicazioni che offrano elementi per apprezzare complessivamente gli aspetti emersi e la loro ricaduta in termini formativi ed educativi. Da dove siamo partiti Il percorso è partito dalla riflessione, maturata nell’ambito del Gruppo sulle Tracce (GsT) e poi sviluppata nei Convegni Assistenti tenuti ad Assisi nel 2006, 2008 e 2010, sulle modalità specifiche che lo scautismo offre per educare i ragazzi alla fede cristiana ed individuando, in sintonia con le indicazioni del Progetto nazionale 2007-2011 sul “narrare la vita, esercizio di libertà”, la modalità della “narrazione” come una delle possibilità concrete offerte ai capi, da riscoprire nell’annuncio della fede. Alla base di questa riflessione sono state poste alcune considerazioni sullo stato attuale dell’educazione alla fede (vissuta in Associazione, come nel contesto sociale) e sulle difficoltà che come i capi incontriamo nell’elaborare e rivolgere una proposta attenta alle caratteristiche del tempo che viviamo ed alle attese dei nostri ragazzi: • la situazione del tempo contemporaneo, in cui non si può più dare per scontato il passaggio da una scelta di fede mediata dall’ambiente (familiare, sociale, associativo…) ad una scelta di fede maturata personalmente; • il tema dell’integrazione tra fede e vita, termini percepiti sempre più oggi come indipendenti, e le ricadute che questo ha in termini di qualificazione della catechesi quale vero e proprio itinerario di evangelizzazione; • la necessità di ricentrarsi sulla Parola di Dio, attraverso una maggior familiarità con la Bibbia, quale fonte in cui rintracciare la narrazione del rapporto tra Dio e l’uomo; • la capacità dello scautismo e, in particolare, il suo taglio esperienziale, di aiutare a fare sintesi tra vita e fede. SABATO 16 NOVEMBRE - 95 Da queste considerazioni, la riflessione si è mossa verso la riscoperta di quelle risorse del metodo scout, particolarmente preziose in un itinerario, che abbia le caratteristiche antropologiche dell’iniziazione, per aiutare i ragazzi e introdurli nel cammino della fede in modo concreto, esistenziale, a partire dalle situazioni della vita quotidiana. Progressivamente la riflessione ha coinvolto le Branche nazionali (in primis la Branca E/G che aveva avviato sin dal 2007 una riflessione analoga) ed ha portato alla realizzazione di quattro Cantieri di Catechesi svolti dal 2009 al 2012, dando corpo alla riflessione, tesa a valorizzare la dimensione narrativa nell’educazione alla fede. Primo frutto di questa riflessione, oltre ai numerosi articoli apparsi su PE tra il 2007 e il 2009, è stata la pubblicazione “Narrare l’esperienza di fede – riflessioni sull’educare alla fede oggi con il metodo scout”, curata dal GsT e pubblicata da Fiordaliso nel giugno 2011, che ha offerto una prima sintesi delle riflessioni svolte ed è stata utilizzata lungo tutto il percorso come punto di riferimento per ogni successivo approfondimento. Il percorso di sperimentazione In accordo con gli Incaricati nazionali e regionali di Branca, sono stati coinvolti alcuni staff di unità (circa 30, con oltre 70 capi di tutte le branche, provenienti da quasi tutte le regioni italiane), cui è stato chiesto di sperimentare la modalità narrativa nella catechesi di unità. Il coinvolgimento degli staff ha avuto le seguenti principali tappe: I. Cantiere di Catechesi 2011 – è stato il momento fondativo, in cui si è presentata la riflessione e gli staff sono stati coinvolti in un lavoro di elaborazione per la programmazione dell’anno di vita di unità. Taglio esperienziale e laboratoriale, momenti vissuti di branca e altri in comune, approfondimento biblico con la presenza di don Valentino Bulgarelli (biblista e responsabile dell’Ufficio Catechistico dell’Emilia Romagna), sono stati gli ingredienti dell’incontro. Agli staff è stata proposta una “traccia per la programmazione” da vivere in quattro momenti durante l’anno che, partendo da alcune dinamiche/proposte proprie dell’esperienza scout (per le quali ci siamo rifatti agli “elementi del metodo”, come indicati dal Regolamento Metodologico): 96 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI CHI DITE IO SIA?” • vivere lo spirito ed i valori espressi dalla Legge, dalla Promessa e dal Motto; • vivere l’esperienza comunitaria, che stimola ad acquistare fiducia in se stessi e ad aprirsi agli altri, in un clima di fraternità, gioia, rispetto e fiducia; • sperimentare il servizio, che offre un possibile “senso” della vita ad imitazione di Gesù; • vivere il rapporto con la natura, scoprendo le relazioni ed il ruolo che è chiamato a giocare l’uomo nell’unico disegno di Dio Creatore; è stata tematizzata in termini di esperienza di fede, come di seguito indicato: Metodo – Promessa/Legge/Motto – Educazione al servizio – Vita comunitaria – Vita all’aria aperta 8 Esperienza di fede – Vivere il comandamento nuovo – Servire il prossimo – Vivere la comunità – Amare la creazione, opera di Dio Per ognuno di questi elementi è stato, infine, proposto un brano biblico di riferimento e uno schema metodologico, che ripercorresse i passaggi peculiari per una catechesi secondo la modalità narrativa e mirasse ad offrire ai ragazzi (attraverso gli strumenti tipici di ogni branca) occasioni di rilettura e approfondimento di quanto vissuto: • Partire dal confronto con la Parola di Dio (lavoro preliminare di staff ) – lettura della situazione dell’unità, delle esperienze fondamentali che sta vivendo – confronto con alcuni testi biblici di riferimento – ideazione di esperienze o percorsi di catechesi • Vivere un’esperienza scout – nell’ambito dell’esperienza vissuta o a posteriori, sono offerti ai ragazzi momenti di verifica e riflessione (occasioni di rilettura dell’esperienza) • Interagire con una storia biblica – si propone un testo di riferimento – nella dinamica, i ragazzi sono condotti a riflettere sull’esperienza vissuta e sulla Parola di Dio confrontandola con la propria vita • Narrare la propria storia – si vive una veglia, un momento di deserto, un gioco, una dinamica di gruppo, un tratto di strada… – l’esperienza vissuta, i simboli proposti, i significati colti… sono alla base SABATO 16 NOVEMBRE - 97 della dinamica narrativa, nell’ambito della quale i ragazzi sono chiamati a ri-esprimere ciò che hanno vissuto e compreso. II. Primo anno di vita in unità (2011-2012) - durante l’anno gli staff hanno elaborato delle esperienze nei quattro ambiti sopra evidenziati, accompagnati dallo staff del Cantiere di Catechesi con indicazioni, suggerimenti e contatti via mail, telefono ed altri strumenti informatici. III. Cantiere di Catechesi 2012 – è stato il momento di verifica di quanto sperimentato, dove si sono messe a fuoco le difficoltà e le ricchezze del lavoro fatto. Anche in questo caso sono state proposte dinamiche differenziate per favorire lo scambio delle esperienze vissute e l’approfondimento pedagogico. È stato, in particolare, curato l’aspetto liturgico e celebrativo, per fare in modo che quanto vissuto e condiviso diventasse celebrazione di un’esperienza fondativa, alla luce della domanda di Gesù “E voi chi dite che io sia?” (cfr. Mc 8,27-35). I capi partecipanti ci hanno restituito una valutazione complessivamente molto buona di quanto sperimentato, percepito come innovativo ma, al tempo stesso, profondamente radicato nella “tipicità” dello scautismo. Molto bella è stata la testimonianza di un parroco/AE che ha voluto seguire i capi del proprio gruppo per ascoltare e vedere “dal vivo” quanto da loro sperimentato con i ragazzi per un anno intero. Alcune delle frasi-chiave lasciateci dai capi sono riprese più avanti nel paragrafo “le acquisizioni del percorso”. IV. Secondo anno di vita in unità (2012-2013) – è stato chiesto agli staff di sperimentare per un secondo anno la modalità narrativa nell’ambito della catechesi con la propria unità per approfondirla e legarla con più regolarità all’esperienza scout vissuta con i ragazzi. A questi staff è stato chiesto di: – coinvolgere, con l’accordo della comunità capi, un altro staff del proprio gruppo o della propria Zona nello sperimentare questa modalità, facendo del trapasso nozioni; – rendersi disponibili per animare alcuni gruppi di lavoro al prossimo Convegno Fede 2013. Al cuore della proposta Con il maturare progressivo della riflessione e della concreta sperimentazione della proposta, sono stati meglio delineati i contorni della stessa: 98 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI CHI DITE IO SIA?” • la modalità narrativa parte dalle esperienze, sono queste che educano, le attività scout sono le occasioni che permettono ai ragazzi di vivere delle esperienze. Non si tratta quindi (non solo almeno) di proporre delle attività di… servizio, comunità, aiuto del prossimo… ma di riconoscere le esperienze di… servizio, comunità, aiuto del prossimo… dentro tutte le attività vissute dall’unità e dal singolo ragazzo. Nello scautismo l’esperienza è veicolo educativo fondamentale: non c’è apprendimento, non c’è crescita del singolo come della comunità se non in riferimento ad un’attività vissuta e condivisa che quindi diventa esperienza; • la narrazione conduce a ricercare il significato delle esperienze, del senso che queste hanno per me e per la mia vita. Quanto vissuto e condiviso nell’ambito delle attività scout, una volta compreso nella sua essenza può essere ri-espresso (“narrato”) alla luce del significato compreso. Questo percorso, tipico della maturazione umana, presenta caratteristiche analoghe anche nel campo dell’esperienza di fede: in entrambi c’è bisogno di “parole” che possano interpretare quanto vissuto, che ci aiutino a collocarlo nel nostro percorso vitale, che possano trasformare l’evento/accadimento in esperienza. Ecco perché le esperienze vissute debbono essere rilette alla luce della Parola di Dio, nella consapevolezza che nella storia della salvezza si trovano gli archetipi dell’esperienza di fede, del dialogo di alleanza tra Dio e l’uomo; • la narrazione ha bisogno di tempi adeguati, necessita che sia offerto uno spazio di riflessione ulteriore, di “risonanza”. Con i ragazzi ciò significa che la ricerca di significato non può finire nello spazio “dell’attività di catechesi”, ma richiede ulteriori momenti (sempre da vivere secondo lo stile scout) per essere interiorizzata ed espressa. Al contrario, ciò significa che non può essere vissuto in stile narrativo ogni singolo momento di preghiera o celebrativo. D’altronde la gradualità e l’attenzione ai tempi dei ragazzi è proprio una delle caratteristiche della pedagogia scout; • la catechesi che utilizza la modalità narrativa richiede che anche i capi (lo staff) condividano la narrazione dell’esperienza che stanno vivendo, nel confronto con la Parola di Dio. Si completa in tal modo quella triplice attenzione presente in una catechesi che utilizza la modalità narrativa, dove si tende ad unire insieme la storia di Dio (in ascolto della Parola), la storia di chi accoglie tale Parola (i ragazzi) e la storia di chi la propone e la fa vivere (il capo). Quest’ultimo, come ci ricorda B.-P., è un fratello maggiore, il cui buon esempio nel vivere assieme ai ragazzi ogni esperienza, diventa narrazione e testimonianza direttamente fruibile dai ragazzi. SABATO 16 NOVEMBRE - 99 In sintesi: accompagnare i ragazzi nell’esperienza di fede, significa aiutarli a compiere una grande narrazione della propria esistenza, che culmina (con la Partenza…) nel riconoscere la vita come strada, il proprio impegno nella comunità come servizio per il prossimo, e Gesù come chi dà senso della propria esistenza. E questo esercizio (narrativo) ha un’ulteriore valenza formativa per il singolo capo educatore e per lo staff, nonché per la comunità capi. Le acquisizioni del percorso Alcune espressioni colte durante il Cantiere di Catechesi dello scorso settembre 2012, possono aiutare a fare sintesi degli aspetti maggiormente consolidati che sentiamo, anche alla luce del riscontro di quanto sperimentato, fortemente “acquisiti”: • “Come qualcuno ha detto la catechesi narrativa non ha introdotto concetti nuovi ma secondo me è riuscita a renderli concreti”; • “Quello che sembra essere il più bel risultato è il ripartire dalla Parola di Dio e dall’esperienza”; • “Sicuramente un elemento di novità è il coinvolgersi come capi nella ricerca di significato interagendo con i ragazzi e con la Parola”. Proviamo a illustrarle più in dettaglio queste acquisizioni. La modalità narrativa è pienamente in linea con la catechesi vissuta attraverso l’esperienza scout – il percorso compiuto ha permesso di riscoprire le qualità intrinseche dello scautismo in relazione all’educazione alla fede dei ragazzi. Proprio il partire dalle caratteristiche tipiche del metodo (gli “elementi” sopra ricordati) e dal suo taglio esperienziale (s’impara e si conosce più profondamente se stessi e gli altri a partire dalle esperienze che si vivono), ha fatto apprezzare ai capi coinvolti gli aspetti più belli e “potenti” di quella che è stata giustamente definita una “pedagogia dell’esperienza”. La catechesi vissuta nell’esperienza scout non è confinabile in un’attività specifica, non si può pensare a una “attività di catechesi” slegata dall’esperienza scout che si sta vivendo. L’esperienza di fede non è, infatti, da ricercare “fuori” ma “dentro” l’esperienza scout, non c’è un “prima” od un “dopo” da riservare alla fede, ma una ricerca di senso delle esperienze vissute alla luce dell’ascolto della Parola. Senza questa consapevolezza viene meno ogni capacità di fare una proposta incisiva e credibile nel contesto attuale. In tal senso appaiono riconfermate le famose “triplette” identificate dal Progetto 100 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI CHI DITE IO SIA?” Unitario di Catechesi (PUC, 1982) e ri-espresse nel Sentiero Fede (1998), a fianco delle quali questa riflessione ha offerto un percorso di metodo, strutturato e ripetibile nel tempo e nelle varie branche (si veda quanto riportato nel paragrafo precedente), ed ha enfatizzato la ricerca di significati alla luce della (nel confronto con la) Parola di Dio. Ripartire dalla Parola per dar voce all’esperienza – la parte più difficile e “sfidante” per i capi è stata proprio quella legata all’interazione con la Parola di Dio, attraverso l’uso della Bibbia. Un uso non didascalico (illustrativo di attività svolte), non giustapposto (si ricerca un brano che possa andar bene con l’attività pensata), ma meditato, interagito e soprattutto condiviso da capi e ragazzi. La difficoltà che si è dovuta superare e che ancora crea molta difficoltà (si veda quanto indicato più avanti), appare connaturata alla scarsa confidenza con i testi biblici, al pensare che questi siano utilizzabili per la liturgia, per la meditazione o per la preghiera, ma non testi che possono essere raccontati, rappresentati, giocati, agiti. Proprio il confronto con i testi biblici ha richiesto ai capi di acquisire dimestichezza con gli stessi cogliendone i significati proposti, di meditarli prima di pensare al tipo di esperienza da vivere con i ragazzi e infine di proporli non a conclusione, ma dentro le esperienze stesse. Tutto questo lavoro, preliminare dei capi nel confronto di staff e poi con i ragazzi nel corso delle esperienze vissute offre la possibilità di ri-esprimere le esperienze vissute (siano esse di vita comunitaria, di offerta di servizio ecc.) “traguardandole” attraverso la Parola ascoltata, giocata, rappresentata e simbolicamente restituita. Non si tratta di diventare tutti esperti biblisti! Piuttosto di avere la Bibbia nella nostra “cassetta degli attrezzi”, nel nostro zaino, di scorrerla e di utilizzarla in staff e con i ragazzi facendola divenire per ognuno segno dell’amicizia di Dio con i suoi figli. Questo lavoro è stato anche tra gli elementi di maggior arricchimento percepiti dai singoli capi e dagli staff coinvolti nella sperimentazione. Narrare la propria storia – e veniamo all’aspetto percepito come più “innovativo”: il narrarsi dei capi, che implica la progressiva maturazione della capacità di leggere la propria storia con gli “occhiali” della fede. Entrare in relazione con i ragazzi, proponendosi come testimoni (narranti) di una storia di salvezza è percepita come una grande opportunità educativa, innanzitutto, e poi come un’opportunità per rispondere alla richiesta fatta ad ogni cristiano di essere “pronti SABATO 16 NOVEMBRE - 101 sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,15). Condividere con i ragazzi la propria storia, interpretarla alla luce della Parola di Dio, saper ascoltare ciò che loro hanno da esprimere, trarre dalle esperienze vissute assieme un insegnamento… è la modalità (tipicamente scout) di costruire un contesto in cui Parola, testo e comunità formano un’unità profonda, si appartengono reciprocamente: il testo, letto e ascoltato, meditato e pregato ridiventa Parola, la quale genera identità e comunità. è anche un modo non strumentale per utilizzare la Parola di Dio: ciò che è narrato, dopo che si è svolto questo processo, non è più semplicemente “la mia parola” o “il mio racconto”, ma un racconto illuminato dal confronto con la Parola di Dio e arricchito dal dialogo con i fratelli nello spazio dell’esperienza vissuta, pregata e celebrata, che diviene storia vissuta e significato compreso. Per questo è necessario avere grande attenzione alle dinamiche che permettono una rielaborazione narrativa: essere accolti, ascoltare un racconto, reagire alle provocazioni del racconto, cercare assieme un significato, dare spazi di riflessione e risonanza e, infine, celebrare e pregare assieme “affinché si stabilisca il dialogo tra Dio e l’uomo” (cfr. Dei Verbum 25). E le difficoltà incontrate… – Ci sono ovviamente cose da migliorare e difficoltà incontrate dai capi che ci offrono alcuni spunti di riflessione in termini metodologici e formativi: • tra i primi c’è la difficoltà di vivere la catechesi e l’esperienza di fede come qualcosa di non slegato dall’esperienza scout, cui si aggiunge, in alcuni casi, la difficoltà di pensare un percorso pedagogico che parta dalle esperienze vissute dai ragazzi e non discenda da attività ideate a tavolino dai capi; • tra i secondi c’è la necessità di accrescere la familiarità nell’uso della Bibbia e la necessità di acquisire maggiore capacità di narrarsi come adulti e di rileggere la propria storia alla luce della fede. 102 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI CHI DITE IO SIA?” TRENTO Il Progetto Unitario di Catechesi (PUC) Presentazione di Isora Mantovani Il Progetto Unitario di Catechesi è un libro scritto a più mani. Io ho partecipato alla “Revisione del linguaggio”: la parlata scout doveva risultare precisa, attenta perché la posta in gioco era alta. Si presentava alla Chiesa lo scautismo, si andava a dimostrare che i valori scout sono valori cristiani, che il metodo educativo è un “metodo biblico”. Il PUC ha elaborato e presentato questo confronto. Abbiamo offerto la nostra Specificità educativa alla Chiesa e la Chiesa ci ha accolti. Siamo diventati un Movimento educativo Ecclesiale, movimento basato su due punti essenziali: – Fedeltà a Dio e Fedeltà all’uomo; – Dimensione profetica, sacerdotale, regale nel servizio. Questo cosa ha rappresentato per l’Associazione? Un passo fondamentale: fermento, consapevolezza, fedeltà, ricerca, complementarietà. Bibbia tra le mani. Cammino pastorale, ecclesiale tra le mani. Ora, qual è l’attualità del Progetto Unitario di Catechesi? È un libro-base, magari da tenere accanto alla Bibbia, da sfogliare ogni tanto per sapere chi siamo, per ricercare le pagine più belle quali il Messaggio di Giovanni Paolo II, il valore della Comunità, la specificità delle Branche, i tanti segni della Spiritualità Scout, i richiami a B.-P., i richiami attenti al proprio cammino di fede. Noi diciamo “Educazione alla Fede Occasionale”, ma anche non perdere occasione, quando serve crea l’occasione, proprio in nome della preziosità della persona grande o piccola che sia. Cosa è auspicabile? Nella Formazione capi c’è il Campo di formazione metodologica, c’è il Campo di formazione associativa, perché non un Campo di formazione biblica? Voglio chiudere con una frase di Papa Benedetto XVI: “Esistono molte vie e tutte insieme formano una sinfonia della fede. Le Chiese locali e i Movimenti non sono in contrasto fra loro, ma costituiscono la Struttura viva della Chiesa”. SABATO 16 NOVEMBRE - 103 Il Sentiero Fede Presentazione di don Giuseppe Coha Quando il PUC veniva scritto, agli inizi degli anni ‘80, ero studente di catechetica e assistente ecclesiastico alle prime armi: ho cominciato la mia avventura scout nel 1981. Scelsi come tema di un seminario su percorsi di pastorale e catechesi giovanile proprio il PUC, e quindi ebbi modo di vederlo nascere. Così mi trovai per vie diverse a doverci lavorare: so molto bene che negli anni successivi quel progetto unitario fu uno strumento che impegnò molto l’Associazione, i capi, le comunità capi anche a livello nazionale: i campi di catechesi furono occasioni straordinarie per mediare quanto quel testo proponeva, a partire da una riflessione che era di tutta la Chiesa italiana su come fare catechesi oggi. Il problema infatti non era solo degli scout, era di tutta la Chiesa: ripensare alla luce del Concilio, della sua riflessione sulla Rivelazione, sull’uomo, sulla Chiesa, le modalità, lo stile, le caratteristiche, il metodo, in certo modo il contenuto stesso della catechesi. All’inizio degli anni ‘90, forse anche complice il fatto che l’edizione del PUC stava finendo nelle rivendite, era necessario decidere se ristamparlo così come era, riscriverlo, o fare qualche cosa di diverso. L’inizio di questa riflessione incrociò un evento associativo per certi versi simile a quello che stiamo vivendo oggi, i convegni Giona in tre luoghi d’Italia, che volevano riflettere sulla presenza degli scout dell’Agesci nella chiesa e sul territorio, e quindi anche sull’annuncio che come scout proponiamo ai ragazzi. Sono anni che anche per il progetto catechistico della Chiesa italiana sono importanti. Dopo il documento base Il rinnovamento della catechesi (1970) e la successiva pubblicazione per la consultazione e la sperimentazione della prima edizione dei catechismi per le varie fasce di età (1974-1982), a seguito della verifica, si avvia la loro rielaborazione, che porterà negli anni ‘90 alla seconda edizione, ancora in vigore oggi. Per essere sinceri oggi non sembrano più tantissimo usati e infatti – apro una parentesi – a livello CEI ci si sta interrogando se è opportuno realizzare nuovi strumenti, e di che tipo di strumenti è necessario dotare la catechesi. In ogni caso, possiamo considerare acquisito dalla “coscienza catechetica” che la catechesi non sono i catechismi, ma le persone e le comunità che la fanno. 104 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” Però l’elaborazione dei catechismi metteva in moto una riflessione sulla catechesi, sulla sue modalità, sulle sue specificità, sulle sue caratteristiche; e allora in quel contesto anche in Agesci si riflette; e il Comitato centrale accettò la proposta del gruppo di lavoro che era stato costituito: sulla solida base del PUC, tenendo conto dei rilievi emersi dai Convegni Giona del 91, realizzare uno strumento rinnovato. Questi i criteri indicati dal Comitato centrale nel giugno del ‘95: – usare un linguaggio semplice e immediato che tenga conto della realtà diffusa dei capi dell’Associazione che spesso vanno motivati alla scelta di fede e alla testimonianza da dare ai ragazzi – offrire semplificazioni attraverso schede di programmazione di attività che evitino il rischio di dare ricette preconfezionate ma favoriscano la libera e creativa utilizzazione del materiale per farne uno strumento più efficace di formazione dei capi. Quindi il Sentiero Fede, che spero abbiate letto, con le schede allegate nasce non perché il PUC ha finito la sua funzione ed è necessario pensare una seconda fase. Il Sentiero Fede nasce dal PUC e per rilanciarne le scelte fondamentali. Non è una cosa totalmente nuova (chi volesse mettersi a fare un certosino lavoro di confronto potrà trovare anche pagine riprese quasi senza modifiche dal PUC), è la convinzione della necessità di rilanciare le cose fondamentali sia del modo di pensare la catechesi sia della necessità di pensare e progettare itinerari catechistici. Concretamente, cosa è stato fatto? Per prima cosa abbiamo pensato di dividere il testo in due parti. Una cosa è il Progetto, altra cosa sono le Schede. Le schede in qualche modo cercano di riprendere tutto il materiale che nel PUC era la parte degli itinerari, che erano sembrati in molti casi poco percorribili perché troppo strutturati rispetto a quello che sono i cammini tipici di un Gruppo scout, di un’unità scout. Sembrava necessario offrire del materiale che mettesse in campo una libera e creativa interpretazione dello stesso in modo che fossero i capi stessi, come è normale che sia, che a partire dalle proposte, dai suggerimenti, dagli abbozzi presenti nelle schede, elaborassero gli itinerari, e non che ci fosse un itinerario che in qualche modo sembrava già un po’ prestabilito. Nella prima parte, il Progetto, siamo intervenuti a livello di linguaggio e di metodo. Mi spiego. Il PUC aveva fatto un grande e lodevole sforzo per dire, attraverso il linguaggio proprio della ricerca e della riflessione catechetica di quegli anni, che il progetto dell’Agesci si inseriva a pieno titolo nel Progetto catechistico italiano. L’Agesci era nata da meno di 10 anni, la sua collocazione ecclesiale non SABATO 16 NOVEMBRE - 105 sempre (anche da una parte dei capi...) pienamente riconosciuta: dunque il PUC si poneva come strumento sia per la crescita interna della proposta catechistica, sia per la sua presentazione all’esterno. Ci è sembrato che con la seconda fase, quella che si è concretizzata nel Sentiero Fede, fosse più importante sottolineare il percorso inverso: vedere come con il linguaggio scout noi potevamo dire quelle stesse cose. Perciò il percorso che fa il Sentiero Fede parte dal metodo scout. Certo, punto di partenza per pensare alla catechesi è sempre Gesù Cristo, è evidente; però poi si parte dal metodo scout. Se guardate i primi capitoli, vedete come portano a vedere bene come dal metodo scout nasce un modo particolare di vivere il vangelo: quella che chiamiamo “spiritualità scout”. Non che siamo cristiani diversi dagli altri, però il vangelo è di una ricchezza tale che non possiamo costringerlo in una scatola. Ci sono prospettive e visioni differenti, non che divergono ma che permettono di vedere la ricchezza del vangelo. Seguono alcuni capitoli più dedicati a riprendere i concetti che il PUC aveva già ben espresso ma che forse potevano essere ri-espressi in modo un po’ più semplificato: questo è stato il lavoro che si è fatto. Molto importante invece è stato quanto fatto nella seconda parte, ovvero nelle Schede, che volevano essere appunto una proposta di come è possibile mettersi al lavoro. Le schede cercavano di dire, a partire dalla loro struttura, tutti gli ingredienti necessari per una buona progettazione della catechesi. Sono divise in tre colonne: “ti racconto”; “riflettiamoci insieme”; “mercato delle idee”; a queste si aggiunge la colonna “guida alla progettazione”. Ti racconto: non c’è una buona catechesi se non è incarnata in una storia. Il Signore lo si incontra nelle esperienze che intessono la nostra storia personale. La riflessione catechetica dice sinteticamente questa convinzione affermando che il principio metodologico fondamentale è quello della duplice fedeltà: a Dio e all’uomo, «fedeltà alla parola di Dio e alle concrete esigenze dei fedeli» per usare le parole di Rinnovamento della catechesi. Ti racconto aiuta a dire: non pensiamo ai massimi sistemi, ma caliamoci nella realtà. Riflettiamoci insieme: una buona catechesi nasce dalla testimonianza e dalla convinzione dei capi, per cui per prepararsi a fare catechesi bisogna innanzitutto mettersi in stato di catechesi cioè accettare che i primi destinatari della catechesi siamo noi capi. Il nostro pensiero non deve partire dalla ricerca delle ricette, che cosa faremo, che cosa diremo a lupetti e coccinelle, a esploratori e guide, a rover 106 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” e scolte. Bisogna che innanzitutto ci chiediamo che cosa sta dicendo a noi il Signore. È a noi che chiede: “ma voi chi dite che io sia”, se non ci mettiamo noi prima a riflettere non faremo nessuna catechesi, nessuna risonanza della Parola per coloro a cui parliamo. È un aspetto su cui il PUC già insisteva; Sentiero Fede insiste attraverso le schede in questo modo. Il mercato delle idee: i modi per fare catechesi sono tanti, ci sono tanti possibili punti di partenza, ci vuole fantasia e creatività. Il mercato delle idee che è presente nelle schede non vuole essere una elaborazione completa. Con semplicità vuol dire: guarda, a noi sono venute in mente queste idee, tu aggiungi, prova, sperimenta. La guida alla progettazione è un invito a progettare la catechesi, a non accontentarsi di una programmazione per attività ma ad accettare anche la sfida dei tempi lunghi dei percorsi di catechesi. Questa è la struttura delle schede. La successiva esperienza fatta in tanti campi scuola, ma anche in convegni e assemblee di Zona e Regione a cui sono stato in invitato in quegli anni ha confermato che lo strumento poteva (può?) essere ben utilizzato e arricchito. In un paio d’ore si costruisce una scheda “dal nulla”. Il Sentiero Fede non ha l’ambizione di dire che l’Agesci ti fornisce tutte le schede necessarie per fare catechesi, per costruire tutti i tuoi percorsi di catechesi “dalla Promessa alla Partenza”. Non ci sembra che una cosa del genere sarebbe stata neanche corretta. L’idea era quella di dare una modalità di lavoro. Proprio in questa direzione, dopo l’uscita del Sentiero Fede venne anche scritto un fascicolo, Gli strumenti del Sentiero Fede, che provava a suggerire anche come si fa a costruire un percorso a partire dalle schede. Credo che sia valsa la pena di fare quel lavoro, e credo che, nella necessaria evoluzione anche della nostra proposta catechistica, il bagaglio di PUC e Sentiero Fede ci permetta oggi di guardare più lontano. La sfida dell’annuncio e della trasmissione della fede, in ogni caso, rimane sempre la stessa. Che lupetti e coccinelle, guide ed esploratori, scolte e rover possano incontrare capi che siano testimoni credibili, significativi, che mostrino la bellezza del credere, il coraggio del cercare, la gioia dell’incontrare e del dialogare. SABATO 16 NOVEMBRE - 107 I Campi Bibbia Presentazione di don Rinaldo Fabris Da oltre quarant’anni partecipo ai “Campi Bibbia” e ai “Cantieri e Laboratori” della Bibbia dell’Agesci. Con i responsabili dell’Équipe fede condivido la passione e l’interesse per la crescita umana e spirituale dei ragazzi e dei giovani scout. Sono consapevole delle sfide attuali chiamate “emergenza educativa” e “crisi di fede”. Di fronte agli interrogativi e alle situazioni di disagio non ho risposte rassicuranti né ricette sicure. Mi vengono in mente le parole che Paolo scrive al suo amico e discepolo Timoteo: «Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Tm 3,14-17). I “Campi Bibbia” e gli altri eventi – Cantieri e Laboratori – dell’Agesci hanno lo scopo di promuovere l’ascolto della Parola di Dio attraverso la lettura e la conoscenza della Bibbia, valorizzando le modalità tipiche del metodo scout: strada, giochi, veglie, attività espressive. Ai partecipanti si offrono gli strumenti per leggere il testo biblico nei suoi presupposti letterari, storici, geografici e culturali, per coglierne il messaggio nei suoi risvolti attuali. Destinati alla formazione dei capi scout sia a livello personale sia come educatori nel cammino di fede, i Campi Bibbia in parte suppliscono alla generale carenza biblica nel percorso di iniziazione cristiana. L’esperienza dei Campi Bibbia-Agesci si colloca idealmente nel cammino della Chiesa italiana che, sull’onda del rinnovamento avviato dal Concilio Vaticano II, elabora i “catechismi” per le varie fasce di età, dai bambini agli adulti. Nel 1971 è pubblicato il “Documento base”, dove si afferma che “il testo del catechismo è la Bibbia”. In questa prospettiva sono preparati i vari catechismi a cura dell’Ufficio Catechistico nazionale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), pensati come strumenti e sussidi per accostarsi alla parola di Dio attestata nella sacra Scrittura. Nel 1995, in occasione del trentesimo anniversario della promulgazione della Costituzione conciliare Dei Verbum – 18 novembre 1965 – la Commissione per la Dottrina della fede e la Catechesi della CEI pubblica una Nota 108 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” pastorale su “La Bibbia nella vita della Chiesa. Con un’osservazione icastica si rileva che “la Bibbia è uno dei libri più diffusi, ma meno letti” in Italia. In effetti, l’incontro diretto con la parola di Dio attraverso la Bibbia è riservato ad alcune élites. Inoltre si afferma con lucidità e realismo che gli operatori pastorali sono impreparati per una buona comunicazione della Bibbia. Tra le carenze più vistose il documento della CEI segnala la mancanza di un metodo esegetico con il rischio di cadute in “biblicismi distorti”. Infine come conseguenza del rifiuto o dell’ignoranza della dimensione storica della rivelazione di Dio, si corre il rischio di fare una lettura “fondamentalista” della Bibbia. Per fortuna ci sono anche gli aspetti positivi che caratterizzano la presenza della Bibbia nella vita della Chiesa in Italia. In primo luogo la “Nota” della CEI rileva che i fedeli laici, grazie alla diffusione delle scuole di teologia sul territorio, hanno acquisito una qualificazione a livello teologico, anche se questo non ha sempre sbocchi immediati nella vita delle chiese locali. Oltre al solido impianto biblico dei testi di catechesi preparati dall’Ufficio Catechistico nazionale della CEI, che possono favorire un buon accostamento alla Bibbia, si segnala la riscoperta della Lectio divina o di forme analoghe come la “scuola della parola” e l’esperienza di preghiera incentrate sulla Scrittura, con peculiare e significativa partecipazione di giovani. Infine si osserva che l’interesse e la conoscenza della Bibbia hanno favorito e dato impulso all’ecumenismo soprattutto a livello locale e anche al dialogo con gli Ebrei a partire dalle sacre Scritture. Qualche anno prima della “Nota” pastorale della CEI sulla Bibbia nella vita della Chiesa la Pontificia Commissione Biblica pubblica un Documento su “L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa” (15 aprile 1993), dove si passano in rassegna i diversi metodi di lettura e d’interpretazione della Bibbia. Mentre si dà una valutazione sostanzialmente positiva dei vari metodi attualmente adoperati nella lettura della Bibbia – da quello storico storico-critico, a quelli di carattere sociologico o psicologico – si mette invece in guardia di fronte al rischio di una lettura “fondamentalista” della Bibbia perché si tratta di una interpretazione ideologica della parola di Dio in una visione della realtà sociale e politica conservatrice o restauratrice. Un accostamento fondamentalistico alla Bibbia sembra favorito dall’attuale contesto della società occidentale caratterizzata dalla insicurezza e dalla paura. Dal confronto o scontro con altre culture ed esperienze religiose si diffonde la tendenza a fondare o difendere identità e appartenenze forti anche sul piano religioso e culturale. D’altra parte si deve prendere atto che il contesto culturale odierno non favorisce SABATO 16 NOVEMBRE - 109 la lettura della Bibbia per un fruttuoso incontro con la Parola di Dio. Prima di tutto il linguaggio della comunicazione di massa rapido, semplificato ed effimero, che fa leva sulle immagini e le emozioni, attraverso segni e suoni, distoglie dalla lettura di un testo che riflette un altro modo di vivere e pensare. Il linguaggio della Bibbia ha la fragilità della parola orale e scritta. Inoltre gli interessi delle persone oggi sono centrati sul presente immediato senza storia e senza futuro. Da qui deriva la difficoltà a leggere la Bibbia che rimanda a un passato lontano e presuppone l’orizzonte della trascendenza di Dio e della responsabilità umana. A queste difficoltà di carattere generale, per il contesto italiano si deve aggiungere la impreparazione per una lettura corretta della Bibbia. Anche a livello di studi superiori si riscontra la quasi totale ignoranza dei metodi scientifici correnti applicati alla lettura e allo studio della Bibbia, come il metodo storico-critico, quello letterario, semiotico, narratologico e l’analisi retorica. Anche l’assenza di un insegnamento e studio sistematico della Bibbia nelle Università italiane spiega in parte l’incompetenza dei docenti ed educatori ad aiutare i ragazzi e i giovani all’incontro con la Bibbia. A ciò si aggiunga da una parte la diffusione di letture tendenzialmente fondamentaliste o moralistiche della Bibbia e dall’altra la presenza massiccia nella cultura italiana di pregiudizi antidogmatici e si comprenderà l’emarginazione della lettura e della cultura biblica in Italia. A uno sguardo sereno e realistico si possono rilevare anche alcune opportunità per fare una lettura feconda della Bibbia. Prima di tutto l’accostamento alla Bibbia oggi può contare su un più diffuso interesse per la “terra” e l’ambiente, sulla ricerca di una maggiore concretezza nell’esperienza umana attenta all’aspetto corporeo-fisico della persona. Anche la ricerca attuale della qualità delle relazioni umane, la cura dei sentimenti e delle emozioni può favorire l’incontro con la Bibbia che pone al centro la persona umana nel suo rapporto con Dio e con gli altri dentro le diverse esperienze della vita. In questo clima favorevole all’incontro con la parola di Dio attraverso la Bibbia si collocano i “Campi Bibbia” dell’Agesci. Di fronte alle sfide attuali della società e della cultura anche i cristiani che hanno responsabilità educative spesso rispondono con atteggiamenti e scelte operative che rivelano la carenza di formazione biblica. All’urgenza ed emergenza della domanda “etica” molti chiedono regole o soluzioni legalistiche senza avere un grande orizzonte etico. Molti operatori pastorali – catechisti e animatori della formazione – si dedicano a un’iper-evangelizzazione dei “vicini”, mentre si fa sempre più grande la distanza dai “lontani”. Altri ricercano una spiritualità calda e immediata con ricadute in 110 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” un devozionismo frammentato e sterile. Al bisogno di sicurezze si risponde con un fondamentalismo strisciante, dove la cultura religiosa è usata in funzione apologetica e moralistica. Infine di fronte a una mancanza sempre più accentuata di presbiteri nelle chiese locali si tende a vivere in modo “clericale” i ministeri laicali. I Campi Bibbia dell’Agesci non sono l’unico antidoto per curare o prevenire queste carenze nella formazione degli educatori e operatori pastorali. Tuttavia sono un patrimonio non solo per l’Agesci, ma anche per la Chiesa italiana. Assieme ad altre esperienze analoghe i Campi Bibbia possono contribuire a superare o almeno ridurre i compartimenti stagni tra i diversi metodi di lettura della Bibbia: lettura confessionale e lettura laica, lettura fondamentalista e spiritualista. Il contatto diretto con la Bibbia può favorire lo scambio fecondo tra lettura scientifica e lettura pastorale o sapienziale della sacra Scrittura. Infine la familiarità con la Bibbia stimola a promuovere il dialogo ecumenico e interreligioso per camminare insieme versa l’unità e la pace tra cristiani di varie confessioni e credenti di altre religioni. Nella tenda di Abramo Presentazione di Lorenzo Marzona L’idea di un laboratorio inter-religioso nacque nel 1995, in Sardegna, quasi fosse una costola dei Campi Bibbia tradizionali, il cui modulo era ormai collaudato da oltre vent’anni. Li ha sempre guidati don Valentino Cottini che oggi dirige la rivista Islamochristiana ed è Preside del Pisai (Pontificio istituto di studi arabi e d’islamistica). Non vi era certamente la consapevolezza di un problema (la presenza così significativa di cittadini non comunitari nel nostro paese) ma vi era piuttosto l’esigenza (sotto la spinta della dichiarazione conciliare Nostra Aetate) di conoscere un po’ più da vicino tanto il mondo islamico quanto quello ebraico. Il testimonial privilegiato era per noi la figura di Abramo riconosciuto dalle tre religioni come il padre nella fede, quindi un modello antropologico di riferimento; la natura di religioni rivelate ci consentivano di avere dei testi da condividere e da confrontare (Antico e Nuovo Testamento). SABATO 16 NOVEMBRE - 111 Iniziò un percorso dal 1995 al 2007 nel corso del quale abbiamo avuto modo di sollecitare e di frequentare i testi delle tre religioni rivelate con riferimento a temi che più di altri ci consentivano di cogliere delle appartenenze, una familiarità che nasceva dalla consapevolezza che i vari popoli “hanno una sola origine... un solo fine ultimo, Dio” (Nostra Aetate, 1b). La figura di Abramo, il volto di Dio, la misericordia, la preghiera, la tradizione, l’ospitalità, il perdono, il lavoro, la libertà, il paradiso, il tempo, l’educazione, i cibi: sono solamente alcuni dei temi affrontati nel corso degli anni; temi trattati con rigore scientifico ma con il taglio e con la sensibilità educativa. Col passare degli anni il contesto cambiava, gli stessi numeri della presenza dei non comunitari diventava significativo anche in Italia, si cominciava a parlare di accoglienza anche nelle comunità scout; ci fu un documento elaborato dallo stesso “Gruppo delle Tracce”, e curato da don Sandro Corazza. La cosa che ci colpiva, nonostante la consapevolezza delle differenze precise che segnano la differenza tra le tre religioni abramitiche, era che esisteva un linguaggio comune, una sensibilità comune. Iniziò quasi da subito una parallela ricerca e analisi dei testi di Baden-Powell sull’educazione religiosa e quando nel 2002, a cura di Paola Del Toso e [Maria Cristina Bertini], venne pubblicato Bevete la bell’aria di Dio (“Bevete la bell’aria di Dio”. Testi di B.-P. sull’educazione religiosa, (a cura di), Paola del Toso e Maria Cristina Bertini, Centro Documentazione Agesci, Roma, 2001, N. d. C.), un lavoro iniziato tanti anni prima, trovammo la conferma che B.-P. aveva pensato lo scautismo come un naturale ‘laboratorio inter-religioso’ e che, pur riconoscendo la centralità della Scrittura cristiana e della figura di Gesù, «tutti gli uomini della terra, cristiani e non cristiani, dovrebbero vivere come membri di un’unica famiglia e figli di uno stesso Padre» (“Bevete la bell’aria di Dio”, op. cit., p. 87), perché il punto principale è che «tutti adorano Dio, benché in diversi modi» (Ibidem, p. 88). Si pensò, in occasione del centenario della nascita dello scautismo (2007), di organizzare una vero e proprio campo inter-religioso, La tenda di Abramo, lasciandoci guidare da un’idea: per una settimana dei fratelli scout (sotto la paternità di B.-P.), che si riconoscono in un unico Dio, e che hanno in Abramo un fratello maggiore, vivono un’esperienza comune di studio, di confronto, di servizio, di gioco, di preghiera. L’identità, gli altri e il creato sono stati i temi su cui si è lavorato; e al mattino il confronto era soprattutto sui testi che rappresentavano lo specifico delle tre re112 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” ligioni, al pomeriggio invece l’attenzione era concentrata tutta su Baden-Powell e la proposta scout. Insomma abbiamo puntato sulla comune base antropologica rappresentata dall’essere scout, dal linguaggio che ci accomuna come fratelli scout per confrontarci invece sulle diversità religiose. Non eravamo tantissimi (una sessantina): c’erano luterani, ortodossi, musulmani, cattolici libanesi e giordani, e una buon numero di italiani. Successivamente l’Associazione ha iniziato, attraverso i suoi organi ufficiali, il Consiglio generale, a esprimere posizioni molto precise rispetto soprattutto all’emergenza educativa rappresentata dalla presenza di tanti ragazzi e giovani di seconda generazione immigrati in Italia; è nata nel frattempo l’Aism; c’è uno scautismo musulmano ma si fanno strada proposte di integrazione e di accoglienza un po’ dappertutto. Noi abbiamo continuato con il lavoro di approfondimento nei laboratori (nel 2013 si è approfondito il tema della fede nelle tre religioni abramitiche); il secondo campo inter-religioso del 2012 non si è potuto realizzare. Diversi sono stati i pronunciamenti della Chiesa sul dialogo inter-religioso: la consapevolezza che lo scautismo possa essere un naturale luogo di incontro tra ragazzi e giovani di fede diversa, ma tutti amici di Dio, crediamo sia una ricchezza e una responsabilità. Il 2015 coincide con i cinquant’anni della dichiarazione conciliare Nostra Aetate, approvata appunto il 28 ottobre 1965. Vorremmo dare risalto a questa data importantissima. Si potrebbe riprendere l’idea di un campo inter-religioso, oppure si potrebbe proporre un laboratorio nazionale (un fine settimana) che veda il coinvolgimento dell’intera Associazione e con l’aiuto del Settore Internazionale e del Coordinamento metodologico pensare un evento con il coinvolgimento delle altre federazioni europee. SABATO 16 NOVEMBRE - 113 Sintesi del percorso NARRARE L’ESPERIENZA DI FEDE facciamo il punto sul percorso di riflessione e le sue acquisizioni… A distanza di alcuni anni dall’avvio del percorso di riflessione sul tema dell’educazione alla fede nelle unità scout e sugli strumenti utilizzati, nonché dell’esperienza maturata nei cantieri e negli incontri formativi che abbiamo animato, sentiamo di poter trarre alcune indicazioni che offrano elementi per apprezzare complessivamente gli aspetti emersi e la loro ricaduta in termini formativi ed educativi. Da dove siamo partiti Il percorso è partito dalla riflessione, maturata nell’ambito del Gruppo sulle Tracce (GsT) e poi sviluppata nei Convegni Assistenti tenuti ad Assisi nel 2006, 2008 e 2010, sulle modalità specifiche che lo scautismo offre per educare i ragazzi alla fede cristiana ed individuando, in sintonia con le indicazioni del Progetto nazionale 2007-2011 sul “narrare la vita, esercizio di libertà”, la modalità della “narrazione” come una delle possibilità concrete offerte ai capi, da riscoprire nell’annuncio della fede. Alla base di questa riflessione sono state poste alcune considerazioni sullo stato attuale dell’educazione alla fede (vissuta in Associazione, come nel contesto sociale) e sulle difficoltà che come i capi incontriamo nell’elaborare e rivolgere una proposta attenta alle caratteristiche del tempo che viviamo ed alle attese dei nostri ragazzi: • la situazione del tempo contemporaneo, in cui non si può più dare per scontato il passaggio da una scelta di fede mediata dall’ambiente (familiare, sociale, associativo…) ad una scelta di fede maturata personalmente; • il tema dell’integrazione tra fede e vita, termini percepiti sempre più oggi come indipendenti, e le ricadute che questo ha in termini di qualificazione della catechesi quale vero e proprio itinerario di evangelizzazione; • la necessità di ricentrarsi sulla Parola di Dio, attraverso una maggior familiarità con la Bibbia, quale fonte in cui rintracciare la narrazione del rapporto tra Dio e l’uomo; • la capacità dello scautismo e, in particolare, il suo taglio esperienziale, di aiutare a fare sintesi tra vita e fede. 114 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI CHI DITE IO SIA?” Da queste considerazioni, la riflessione si è mossa verso la riscoperta di quelle risorse del metodo scout, particolarmente preziose in un itinerario, che abbia le caratteristiche antropologiche dell’iniziazione, per aiutare i ragazzi e introdurli nel cammino della fede in modo concreto, esistenziale, a partire dalle situazioni della vita quotidiana. Progressivamente la riflessione ha coinvolto le Branche nazionali (in primis la Branca E/G che aveva avviato sin dal 2007 una riflessione analoga) ed ha portato alla realizzazione di quattro Cantieri di Catechesi svolti dal 2009 al 2012, dando corpo alla riflessione, tesa a valorizzare la dimensione narrativa nell’educazione alla fede. Primo frutto di questa riflessione, oltre ai numerosi articoli apparsi su PE tra il 2007 e il 2009, è stata la pubblicazione “Narrare l’esperienza di fede – riflessioni sull’educare alla fede oggi con il metodo scout”, curata dal GsT e pubblicata da Fiordaliso nel giugno 2011, che ha offerto una prima sintesi delle riflessioni svolte ed è stata utilizzata lungo tutto il percorso come punto di riferimento per ogni successivo approfondimento. Il percorso di sperimentazione In accordo con gli Incaricati nazionali e regionali di Branca, sono stati coinvolti alcuni staff di unità (circa 30, con oltre 70 capi di tutte le branche, provenienti da quasi tutte le regioni italiane), cui è stato chiesto di sperimentare la modalità narrativa nella catechesi di unità. Il coinvolgimento degli staff ha avuto le seguenti principali tappe: I. Cantiere di Catechesi 2011 – è stato il momento fondativo, in cui si è presentata la riflessione e gli staff sono stati coinvolti in un lavoro di elaborazione per la programmazione dell’anno di vita di unità. Taglio esperienziale e laboratoriale, momenti vissuti di branca e altri in comune, approfondimento biblico con la presenza di don Valentino Bulgarelli (biblista e responsabile dell’Ufficio Catechistico dell’Emilia Romagna), sono stati gli ingredienti dell’incontro. Agli staff è stata proposta una “traccia per la programmazione” da vivere in quattro momenti durante l’anno che, partendo da alcune dinamiche/proposte proprie dell’esperienza scout (per le quali ci siamo rifatti agli “elementi del metodo”, come indicati dal Regolamento Metodologico): SABATO 16 NOVEMBRE - 115 • vivere lo spirito ed i valori espressi dalla Legge, dalla Promessa e dal Motto; • vivere l’esperienza comunitaria, che stimola ad acquistare fiducia in se stessi e ad aprirsi agli altri, in un clima di fraternità, gioia, rispetto e fiducia; • sperimentare il servizio, che offre un possibile “senso” della vita ad imitazione di Gesù; • vivere il rapporto con la natura, scoprendo le relazioni ed il ruolo che è chiamato a giocare l’uomo nell’unico disegno di Dio Creatore; è stata tematizzata in termini di esperienza di fede, come di seguito indicato: Metodo – Promessa/Legge/Motto – Educazione al servizio – Vita comunitaria – Vita all’aria aperta 8 Esperienza di fede – Vivere il comandamento nuovo – Servire il prossimo – Vivere la comunità – Amare la creazione, opera di Dio Per ognuno di questi elementi è stato, infine, proposto un brano biblico di riferimento e uno schema metodologico, che ripercorresse i passaggi peculiari per una catechesi secondo la modalità narrativa e mirasse ad offrire ai ragazzi (attraverso gli strumenti tipici di ogni branca) occasioni di rilettura e approfondimento di quanto vissuto: • Partire dal confronto con la Parola di Dio (lavoro preliminare di staff ) – lettura della situazione dell’unità, delle esperienze fondamentali che sta vivendo – confronto con alcuni testi biblici di riferimento – ideazione di esperienze o percorsi di catechesi • Vivere un’esperienza scout – nell’ambito dell’esperienza vissuta o a posteriori, sono offerti ai ragazzi momenti di verifica e riflessione (occasioni di rilettura dell’esperienza) • Interagire con una storia biblica – si propone un testo di riferimento – nella dinamica, i ragazzi sono condotti a riflettere sull’esperienza vissuta e sulla Parola di Dio confrontandola con la propria vita • Narrare la propria storia – si vive una veglia, un momento di deserto, un gioco, una dinamica di gruppo, un tratto di strada… – l’esperienza vissuta, i simboli proposti, i significati colti… sono alla base 116 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI CHI DITE IO SIA?” della dinamica narrativa, nell’ambito della quale i ragazzi sono chiamati a ri-esprimere ciò che hanno vissuto e compreso. II. Primo anno di vita in unità (2011-2012) - durante l’anno gli staff hanno elaborato delle esperienze nei quattro ambiti sopra evidenziati, accompagnati dallo staff del Cantiere di Catechesi con indicazioni, suggerimenti e contatti via mail, telefono ed altri strumenti informatici. III. Cantiere di Catechesi 2012 – è stato il momento di verifica di quanto sperimentato, dove si sono messe a fuoco le difficoltà e le ricchezze del lavoro fatto. Anche in questo caso sono state proposte dinamiche differenziate per favorire lo scambio delle esperienze vissute e l’approfondimento pedagogico. È stato, in particolare, curato l’aspetto liturgico e celebrativo, per fare in modo che quanto vissuto e condiviso diventasse celebrazione di un’esperienza fondativa, alla luce della domanda di Gesù “E voi chi dite che io sia?” (cfr. Mc 8,27-35). I capi partecipanti ci hanno restituito una valutazione complessivamente molto buona di quanto sperimentato, percepito come innovativo ma, al tempo stesso, profondamente radicato nella “tipicità” dello scautismo. Molto bella è stata la testimonianza di un parroco/AE che ha voluto seguire i capi del proprio gruppo per ascoltare e vedere “dal vivo” quanto da loro sperimentato con i ragazzi per un anno intero. Alcune delle frasi-chiave lasciateci dai capi sono riprese più avanti nel paragrafo “le acquisizioni del percorso”. IV. Secondo anno di vita in unità (2012-2013) – è stato chiesto agli staff di sperimentare per un secondo anno la modalità narrativa nell’ambito della catechesi con la propria unità per approfondirla e legarla con più regolarità all’esperienza scout vissuta con i ragazzi. A questi staff è stato chiesto di: – coinvolgere, con l’accordo della comunità capi, un altro staff del proprio gruppo o della propria Zona nello sperimentare questa modalità, facendo del trapasso nozioni; – rendersi disponibili per animare alcuni gruppi di lavoro al prossimo Convegno Fede 2013. Al cuore della proposta Con il maturare progressivo della riflessione e della concreta sperimentazione della proposta, sono stati meglio delineati i contorni della stessa: SABATO 16 NOVEMBRE - 117 • la modalità narrativa parte dalle esperienze, sono queste che educano, le attività scout sono le occasioni che permettono ai ragazzi di vivere delle esperienze. Non si tratta quindi (non solo almeno) di proporre delle attività di… servizio, comunità, aiuto del prossimo… ma di riconoscere le esperienze di… servizio, comunità, aiuto del prossimo… dentro tutte le attività vissute dall’unità e dal singolo ragazzo. Nello scautismo l’esperienza è veicolo educativo fondamentale: non c’è apprendimento, non c’è crescita del singolo come della comunità se non in riferimento ad un’attività vissuta e condivisa che quindi diventa esperienza; • la narrazione conduce a ricercare il significato delle esperienze, del senso che queste hanno per me e per la mia vita. Quanto vissuto e condiviso nell’ambito delle attività scout, una volta compreso nella sua essenza può essere ri-espresso (“narrato”) alla luce del significato compreso. Questo percorso, tipico della maturazione umana, presenta caratteristiche analoghe anche nel campo dell’esperienza di fede: in entrambi c’è bisogno di “parole” che possano interpretare quanto vissuto, che ci aiutino a collocarlo nel nostro percorso vitale, che possano trasformare l’evento/accadimento in esperienza. Ecco perché le esperienze vissute debbono essere rilette alla luce della Parola di Dio, nella consapevolezza che nella storia della salvezza si trovano gli archetipi dell’esperienza di fede, del dialogo di alleanza tra Dio e l’uomo; • la narrazione ha bisogno di tempi adeguati, necessita che sia offerto uno spazio di riflessione ulteriore, di “risonanza”. Con i ragazzi ciò significa che la ricerca di significato non può finire nello spazio “dell’attività di catechesi”, ma richiede ulteriori momenti (sempre da vivere secondo lo stile scout) per essere interiorizzata ed espressa. Al contrario, ciò significa che non può essere vissuto in stile narrativo ogni singolo momento di preghiera o celebrativo. D’altronde la gradualità e l’attenzione ai tempi dei ragazzi è proprio una delle caratteristiche della pedagogia scout; • la catechesi che utilizza la modalità narrativa richiede che anche i capi (lo staff) condividano la narrazione dell’esperienza che stanno vivendo, nel confronto con la Parola di Dio. Si completa in tal modo quella triplice attenzione presente in una catechesi che utilizza la modalità narrativa, dove si tende ad unire insieme la storia di Dio (in ascolto della Parola), la storia di chi accoglie tale Parola (i ragazzi) e la storia di chi la propone e la fa vivere (il capo). Quest’ultimo, come ci ricorda B.-P., è un fratello maggiore, il cui buon esempio nel vivere assieme ai ragazzi ogni esperienza, diventa narrazione e testimonianza direttamente fruibile dai ragazzi. 118 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI CHI DITE IO SIA?” In sintesi: accompagnare i ragazzi nell’esperienza di fede, significa aiutarli a compiere una grande narrazione della propria esistenza, che culmina (con la Partenza…) nel riconoscere la vita come strada, il proprio impegno nella comunità come servizio per il prossimo, e Gesù come chi dà senso della propria esistenza. E questo esercizio (narrativo) ha un’ulteriore valenza formativa per il singolo capo educatore e per lo staff, nonché per la comunità capi. Le acquisizioni del percorso Alcune espressioni colte durante il Cantiere di Catechesi dello scorso settembre 2012, possono aiutare a fare sintesi degli aspetti maggiormente consolidati che sentiamo, anche alla luce del riscontro di quanto sperimentato, fortemente “acquisiti”: • “Come qualcuno ha detto la catechesi narrativa non ha introdotto concetti nuovi ma secondo me è riuscita a renderli concreti”; • “Quello che sembra essere il più bel risultato è il ripartire dalla Parola di Dio e dall’esperienza”; • “Sicuramente un elemento di novità è il coinvolgersi come capi nella ricerca di significato interagendo con i ragazzi e con la Parola”. Proviamo a illustrarle più in dettaglio queste acquisizioni. La modalità narrativa è pienamente in linea con la catechesi vissuta attraverso l’esperienza scout – il percorso compiuto ha permesso di riscoprire le qualità intrinseche dello scautismo in relazione all’educazione alla fede dei ragazzi. Proprio il partire dalle caratteristiche tipiche del metodo (gli “elementi” sopra ricordati) e dal suo taglio esperienziale (s’impara e si conosce più profondamente se stessi e gli altri a partire dalle esperienze che si vivono), ha fatto apprezzare ai capi coinvolti gli aspetti più belli e “potenti” di quella che è stata giustamente definita una “pedagogia dell’esperienza”. La catechesi vissuta nell’esperienza scout non è confinabile in un’attività specifica, non si può pensare a una “attività di catechesi” slegata dall’esperienza scout che si sta vivendo. L’esperienza di fede non è, infatti, da ricercare “fuori” ma “dentro” l’esperienza scout, non c’è un “prima” od un “dopo” da riservare alla fede, ma una ricerca di senso delle esperienze vissute alla luce dell’ascolto della Parola. Senza questa consapevolezza viene meno ogni capacità di fare una proposta incisiva e credibile nel contesto attuale. In tal senso appaiono riconfermate le famose “triplette” identificate dal Progetto SABATO 16 NOVEMBRE - 119 Unitario di Catechesi (PUC, 1982) e ri-espresse nel Sentiero Fede (1998), a fianco delle quali questa riflessione ha offerto un percorso di metodo, strutturato e ripetibile nel tempo e nelle varie branche (si veda quanto riportato nel paragrafo precedente), ed ha enfatizzato la ricerca di significati alla luce della (nel confronto con la) Parola di Dio. Ripartire dalla Parola per dar voce all’esperienza – la parte più difficile e “sfidante” per i capi è stata proprio quella legata all’interazione con la Parola di Dio, attraverso l’uso della Bibbia. Un uso non didascalico (illustrativo di attività svolte), non giustapposto (si ricerca un brano che possa andar bene con l’attività pensata), ma meditato, interagito e soprattutto condiviso da capi e ragazzi. La difficoltà che si è dovuta superare e che ancora crea molta difficoltà (si veda quanto indicato più avanti), appare connaturata alla scarsa confidenza con i testi biblici, al pensare che questi siano utilizzabili per la liturgia, per la meditazione o per la preghiera, ma non testi che possono essere raccontati, rappresentati, giocati, agiti. Proprio il confronto con i testi biblici ha richiesto ai capi di acquisire dimestichezza con gli stessi cogliendone i significati proposti, di meditarli prima di pensare al tipo di esperienza da vivere con i ragazzi e infine di proporli non a conclusione, ma dentro le esperienze stesse. Tutto questo lavoro, preliminare dei capi nel confronto di staff e poi con i ragazzi nel corso delle esperienze vissute offre la possibilità di ri-esprimere le esperienze vissute (siano esse di vita comunitaria, di offerta di servizio ecc.) “traguardandole” attraverso la Parola ascoltata, giocata, rappresentata e simbolicamente restituita. Non si tratta di diventare tutti esperti biblisti! Piuttosto di avere la Bibbia nella nostra “cassetta degli attrezzi”, nel nostro zaino, di scorrerla e di utilizzarla in staff e con i ragazzi facendola divenire per ognuno segno dell’amicizia di Dio con i suoi figli. Questo lavoro è stato anche tra gli elementi di maggior arricchimento percepiti dai singoli capi e dagli staff coinvolti nella sperimentazione. Narrare la propria storia – e veniamo all’aspetto percepito come più “innovativo”: il narrarsi dei capi, che implica la progressiva maturazione della capacità di leggere la propria storia con gli “occhiali” della fede. Entrare in relazione con i ragazzi, proponendosi come testimoni (narranti) di una storia di salvezza è percepita come una grande opportunità educativa, innanzitutto, e poi come un’opportunità per rispondere alla richiesta fatta ad ogni cristiano di essere “pronti 120 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI CHI DITE IO SIA?” sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,15). Condividere con i ragazzi la propria storia, interpretarla alla luce della Parola di Dio, saper ascoltare ciò che loro hanno da esprimere, trarre dalle esperienze vissute assieme un insegnamento… è la modalità (tipicamente scout) di costruire un contesto in cui Parola, testo e comunità formano un’unità profonda, si appartengono reciprocamente: il testo, letto e ascoltato, meditato e pregato ridiventa Parola, la quale genera identità e comunità. è anche un modo non strumentale per utilizzare la Parola di Dio: ciò che è narrato, dopo che si è svolto questo processo, non è più semplicemente “la mia parola” o “il mio racconto”, ma un racconto illuminato dal confronto con la Parola di Dio e arricchito dal dialogo con i fratelli nello spazio dell’esperienza vissuta, pregata e celebrata, che diviene storia vissuta e significato compreso. Per questo è necessario avere grande attenzione alle dinamiche che permettono una rielaborazione narrativa: essere accolti, ascoltare un racconto, reagire alle provocazioni del racconto, cercare assieme un significato, dare spazi di riflessione e risonanza e, infine, celebrare e pregare assieme “affinché si stabilisca il dialogo tra Dio e l’uomo” (cfr. Dei Verbum 25). E le difficoltà incontrate… – Ci sono ovviamente cose da migliorare e difficoltà incontrate dai capi che ci offrono alcuni spunti di riflessione in termini metodologici e formativi: • tra i primi c’è la difficoltà di vivere la catechesi e l’esperienza di fede come qualcosa di non slegato dall’esperienza scout, cui si aggiunge, in alcuni casi, la difficoltà di pensare un percorso pedagogico che parta dalle esperienze vissute dai ragazzi e non discenda da attività ideate a tavolino dai capi; • tra i secondi c’è la necessità di accrescere la familiarità nell’uso della Bibbia e la necessità di acquisire maggiore capacità di narrarsi come adulti e di rileggere la propria storia alla luce della fede. SABATO 16 NOVEMBRE - 121 Le relazioni degli esperti Sabato 16 novembre (pomeriggio) Sei sono gli esperti che abbiamo chiamato in aiuto per il nostro Convegno Fede. Due per ognuno dei tre luoghi. La richiesta che abbiamo loro fatto era di articolare per noi, in una specie di dialogo a due voci tra un sociologo e un teologo, ciò che potesse affinare il nostro senso critico sui bisogni che l’attuale contesto socio-religioso fa emergere in relazione all’educazione alla fede e offrirci, se possibile, eventuali piste di ulteriore riflessione se non di risoluzione. A Catania sono stati di nostro aiuto: – il prof. Giuseppe Savagnone, docente di Dottrina Sociale della Chiesa, presso la LUMSA (Libera Università SS. Maria Assunta) di Palermo – il prof. Giuseppe don Ruggieri, teologo, professore emerito di Teologia Fondamentale presso la Studio teologico di Catania. A Loreto sono venuti a darci mani: – il prof. Vito don Mignozzi, teologo, docente di Ecclesiologia e Teologia sacramentale presso la facoltà Teologica Pugliese – il prof. Mauro Magatti, Sociologo ed economista, che è ordinario di Sociologia della globalizzazione presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. A Trento, abbiamo potuto ascoltare: – il prof. Stefano Martelli, Sociologo, Professore Ordinario di Sociologia dei Processi culturali e comunicativi presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni M. Bertin” dell’Università di Bologna “Alma Mater Studiorum” – il prof. Giacomo mons. Canobbio, teologo, che è docente di Teologia Sistematica presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano. 122 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” CATANIA Intervento del prof. Giuseppe Savagnone L’educazione alla fede di fronte agli scenari della post-modernità Premessa La prima cosa che credo si debba dire, perché non è scontata, è che il nostro non è il peggiore dei mondi possibili. Spesso il nostro rapporto con il tempo (o “il nostro tempo”) è un rapporto estremamente problematico. Soprattutto nel mondo cattolico è facile che si rimpianga il passato; è facile sentire persone che ricordano tempi in cui “certe cose non succedevano”. Come è facile trovare persone che, davanti alle stesse novità che si verificano all’interno della Chiesa, si stupiscono con aria preoccupata. Ebbene, il tema generale che io svilupperò – sugli scenari della post-modernità in rapporto dell’educazione alla fede – in qualche modo è ispirato all’idea che in realtà il nostro tempo fornisce all’educazione alla fede alcuni spunti importanti, alcuni guadagni decisivi che sarebbero stati impensabili 50, 60, 70 anni fa, anche se è vero che devono essere purificati, devono essere in qualche modo riscattati da fraintendimenti che finiscono con rovinarli e impoverirli. Il problema per noi oggi, vorrei che fosse chiaro fin dall’inizio, non è di rimpiangere il passato e tornare indietro, è di andare avanti e proseguire sulla linea di questi guadagni decisivi. I temi che io voglio trattare si collegano tutti a questa tematica, ma restano esemplificativi. Quello che io dirò (e forse non riuscirò neanche a dire tutto quello che avevo preparato nel mio schema) è soltanto una minima parte. Il che è tuttavia un vantaggio, perché significa che la mia relazione esige da parte vostra che continuiate questo cammino di riflessione e che applichiate la stessa impostazione, lo stesso atteggiamento critico e costruttivo ad altre tematiche che io in questa sede non riuscirò a toccare. L’educazione alla fede di fronte alla crisi della dimensione comunitaria Il primo tema che vorrei affrontare è quello del rapporto tra libertà e comunità. Il nostro tempo ha visto un guadagno importante, fondamentale: il recupero dell’autonomia del singolo di fronte alle grandi istituzioni che fino a pochi decenni fa lo dominavano e lo schiacciavano. Senza voler essere eccessivamente SABATO 16 NOVEMBRE - 123 negativo, mi accorgo che, se rivisitiamo la storia del rapporto tra individui e grandi istituzioni (e con queste intendo la famiglia, lo Stato, la stessa Chiesa, i partiti), noi vediamo che questo rapporto era spesso di una subordinazione totale. La figura della monaca di Monza (di manzoniana memoria), che si fa suora perché i genitori, ovvero la famiglia, vogliono che si faccia suora, non è un episodio poi così isolato. È anche vero che risale a secoli fa, ma questo atteggiamento autoritario dei genitori sui figli ha avuto una sua continuazione. Quanti ragazzi e quante ragazze fino a pochi decenni fa si sono sposati con una persona che conoscevano a stento, solo perché la famiglia voleva così. O quanti hanno intrapreso un lavoro (soprattutto gli uomini, perché le ragazze, per volontà della famiglia, rimanevano a casa), che era quello del padre, perché questi voleva che la sua attività fosse continuata dal figlio. Quanti giovani sono morti in nome di uno Stato che chiedeva un sacrificio sulle cui motivazioni spesso c’era da molto dubitare. Ma anche nella Chiesa quale effettivo riconoscimento dell’autonomia del singolo è stato dato in passato a figure come don Primo Mazzolari, o don Milani (e l’elenco potrebbe continuare)? Non dobbiamo dunque andare lontano nel tempo, basta guardare nei decenni a noi vicini per incrociare figure che sono state obiettivamente in grande difficoltà, ma a cui il tempo sta dando finalmente ragione delle loro istanze, delle loro esigenze, anche se dobbiamo onestamente riconoscere che l’istituzione ecclesiastica non ha sempre dato loro spazio. Oggi, invece, viviamo in un tempo che, almeno come istanza, come aspirazione, tende a recuperare questo valore della libertà del singolo. Spesso si sente ripetere che questa libertà è, però, eccessiva (“questi giovani sono troppo liberi”!). Vorrei allora sottolineare che, contrariamente alle apparenze, quello che oggi si verifica non è che di libertà ce n’è troppa, ma che ce n’è troppo poca. Con questo voglio dire è che probabilmente la conquista della libertà effettuata nei tempi recenti è ancora incompleta, perché si riduce a una libertà di autonomia individuale. Ed è per questa sua incompletezza, non perché è libertà, che spesso rende difficilissimo creare comunità fondate su vincoli profondi. Prendiamo, per esempio, l’idea di famiglia. Si parla tanto, oggi di “famiglie di fatto”, non fondate sul patto matrimoniale, e si ha l’impressione che l’assenza di questo impegno garantisca di più la libertà dei singoli. Questa tendenza si manifesta, anzi, già nel semplice rapporto sentimentale tra ragazzo e ragazza, in quella fase che un tempo si chiamava del “fidanzamento” e che ora viene invece definita solo come uno “stare insieme”. Oggi, normalmente, se una ragazza sente 124 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” la madre dire a un’amica: “Mia figlia è fidanzata con un bravo ragazzo”; salta su: “Mamma! Io non sono fidanzata con nessuno! Noi stiamo insieme”. Ecco la parola magica: “noi stiamo insieme”. In numero sempre maggiore le famiglie odierne non si fondano sul matrimonio come vincolo sociale, ma sullo stare insieme, che dura – questo è ciò che sembra garantire la libertà – finché si sta bene insieme. Solo che quella che così viene garantita è solo la libertà di autonomia che, non prevedendo di per sé la responsabilità verso l’altro, è incapace di fondare una vera comunità. Io posso dire anche alla signora con cui sono sull’autobus “Signora, noi stiamo insieme”... Ed è la verità, il problema è che questo non basta a costituire un vincolo reale tra due persone, tanto meno una comunità come la famiglia. Perché ci sia una comunità bisogna uscire da questa visione troppo restrittiva della libertà. Una libertà piena è una libertà che si sa assumere la responsabilità degli altri e sa in qualche modo costruire insieme a loro qualcosa. Ciò presuppone che, oltre la “libertà da” (quella che abbiamo chiamato “autonomia”), si scopra e si valorizzi anche la “libertà per”, la libertà come orientamento verso un fine. Oggi spessissimo si sente dire a una ragazza: “i miei mi lasciano molto libera”, nel senso che i genitori le permettono di fare quello che lei vuole. Ma il problema più grande, per lei, è anche di avere un motivo, uno scopo, per cui volere o non volere fare una cosa; di poter dare, insomma, un senso – nella duplice accezione di “significato” e di “direzione” – alle proprie scelte. È questa “libertà per” che oggi spessissimo manca. La “libertà da” è importante e nessuno mette in discussione l’importanza della sua recente conquista, ma, se essa viene assolutizzata e resa esclusiva, allora distrugge la possibilità impegnarsi per una causa, per un obiettivo più grande di se stessi. Quello che rimane è allora di puntare esclusivamente sulla propria realizzazione. Lo slogan dell’auto-realizzazione è quello che oggi ritorna più spesso quando si cerca una motivazione delle scelte di qualcuno. Chiedete a un ragazzo: “Ma tu perché vuoi fare il medico?”, e quasi sempre vi risponderà: “Perché mi voglio realizzare”. Ora, siamo tutti d’accordo che realizzarsi nel proprio lavoro è importantissimo; ma è sufficiente per dare un senso alla scelta di fare il medico? Corrisponde al significato di questa professione? Chiediamocelo: la medicina è stata inventata perché i medici si realizzassero? O non è nata invece per i malati? Così anche l’insegnamento. Io, ad esempio, conosco tanti professori che fanno lezione per se stessi. Poi magari dicono: “La classe non è all’altezza”. Non si chiedono affatto se per caso non sono loro all’altezza della classe! Così è per SABATO 16 NOVEMBRE - 125 tutti i lavori. Il fatto è che se uno mira solo alla propria realizzazione, perde di vista il fatto che il lavoro che fa, qualunque esso sia, non ha come obiettivo quello di soddisfare le sue esigenze, ma quelle di coloro a cui è rivolto. Certo, il valore dell’auto-realizzazione è un’importante conquista del nostro tempo, rispetto al passato; ma a patto che non venga resa autoreferenziale ed esclusiva e che essa scaturisca dall’aver realizzato qualche cosa che vale in sé, e che non può essere la mia stessa auto-realizzazione. Tutto quanto abbiamo fin qui detto ci permette di capire meglio perché questi scenari siano inquietanti, ma al tempo stesso significativi per l’educazione alla fede. Essi intanto ci permettono di capire che non esiste la “fede ereditaria”, che cioè ognuno di noi deve essere capace di fare da sé il suo cammino e nessuna comunità lo può intruppare. E questo è il senso sano di una conquista della propria individualità, nella logica della libertà di autonomia. Ma deve anche essere chiaro che non ci possiamo fermare a questa prima forma di libertà, ma dobbiamo conquistare una libertà più piena e che saremo veramente liberi se, oltre a potere fare quello che vogliamo, se individuiamo qualcosa che valga la pena di essere voluto. Sarà Dio, sarà qualcos’altro che per noi conta davvero più di noi stessi. Se infatti nella vita non c’è niente che meriti di essere scelto e se ogni cosa vale solo perché noi la scegliamo, alla fine tutto si equivale e la scelta diventa impossibile. La crisi delle vocazioni di cui tanto si parla nasce da questo: qualunque sia la vocazione (al sacerdozio, al matrimonio, a qualunque cosa), essa presuppone che quel qualcosa valga, che non sia la mia semplice auto-realizzazione. Così anche l’educazione alla fede passa attraverso la capacità di far brillare agli occhi di una persona una luce, qualcosa di bello e di vero che possa attrarre la sua libertà e dare senso alla sua vita. E solo una libertà protesa a un fine veramente amato può riconciliare il singolo con la comunità, perché solo intorno a un tale fine le persone possono convergere e riunirsi senza costrizione. L’educazione alla fede di fronte alla complessità dell’io Il secondo tema su cui mi vorrei soffermare è la complessità dell’io. Se noi confrontiamo un ritratto rinascimentale con un quadro in cui Picasso dipinge il volto umano, ci accorgiamo della differenza: nel primo caso abbiamo un volto compatto, unitario, preso sotto una prospettiva unica e che ha un’espressione ben definita. Nell’altro ci sono tutti gli elementi del viso, ma sono visti in modo talmente disgregato e sotto prospettive così contraddittorie ed incompatibili tra di 126 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” loro che il volto sembra non esserci più. Il paragone rende bene il passaggio da una società in cui le persone erano viste come individui “tutti d’un pezzo”, sicuri di sé, decisi e donati alla causa di cui erano convinti, ad una in cui è diventato difficile trovare chi abbia l’assoluta certezza della propria identità. Una società in cui il soggetto si scopre molto più complesso di quanto non credesse, e dunque più esposto a trovarsi in contraddizione con se stesso. Grazie a Dio, aggiungerei, perché ciò comporta la caduta delle maschere e il recupero di una identità più vera, più ricca, anche se più complessa e problematica. I mostri che ci sono dentro ognuno di noi un tempo venivano rimossi, chiusi, per così dire, in cantina, anche se poi ogni tanto venivano fuori, improvvisamente, con effetti devastanti. Oggi noi siamo più onesti, stiamo imparando a riconoscerli e ad accettare che ci siano, primo passo per poterli almeno addomesticare. E tuttavia anche questo passo avanti comporta dei problemi, perché nel momento in cui l’ultima parola diventa la complessità, che a sua volta comporta una specie di frantumazione del soggetto, è diventato difficilissimo non solo praticare una vita di fede, ma anche avere una vita coerente in qualunque senso. Il grosso problema oggi è che noi non siamo più capaci di capire chi siamo e il primo problema dell’educazione alla fede non è per noi di proporre Gesù Cristo, ma è di far capire che Gesù Cristo è colui che ti chiama dalla massa ed evocandoti dalla massa ti costringe ad assumere la responsabilità e il rischio di essere te stesso di fronte a lui. Di essere un io. Scriveva Kierkegaard, il fondatore della filosofia esistenzialista: «Si parla tanto di vite sprecate: ma sprecata è soltanto la vita di quell’uomo che così la lasciava passare, ingannato dalle gioie della vita e dalle sue preoccupazioni, in modo che non diventò mai, con una decisione eterna, consapevole di se stesso come spirito, come Io, oppure – ed è lo stesso – perché mai si rese conto, perché non ebbe mai, nel senso più profondo, l’impressione che esiste un Dio e che “egli”, proprio lui, il suo Io, sta davanti a questo Dio» (S. KIERKEEGARD, La malattia mortale, in Id., Il concetto dell’angoscia. La malattia mortale, a cura di C. FABRO, Sansoni, Firenze 1965, p. 233.). Quando noi diciamo il Credo in chiesa, se voi ci fate caso, la parolina che manca è “Io” credo.... Senza di essa, la professione di fede a volte si assopisce in una collettività. Crediamo tutti ma la domanda è: “io, proprio io, credo?”. Un pensatore contemporaneo ateo, Dennett, porta come argomento contro la fede proprio la constatazione che, dietro le loro affermazioni teoriche, non c’è mai, secondo lui, una vera convinzione intima. A tal proposito racconta un aneddoto: SABATO 16 NOVEMBRE - 127 “Un alpinista cammina in montagna, ad un certo momento scivola e si trova aggrappato ad un arbusto, sospeso sopra un abisso. Inizia disperatamente a gridare: “Aiuto, aiuto! C’è qualcuno che mi può aiutare?”. Una voce, dal cielo, risponde: “Io posso aiutarti”. “Però, aggiunge subito, “devi aver fede in me. Affidati. Lascia la presa all’arbusto”. L’alpinista rimane in silenzio qualche istante. Poi grida di nuovo: “C’è qualcun altro che può aiutarmi?”. È un che ci invita a riflettere sul carattere personale della nostra fede: davvero sono “io” che credo, con tutte le mie forze? Ecco perché un’educazione alla fede oggi, deve partire dallo sforzo di far scoprire all’altro il suo centro interiore, il suo io, pur nella complessità, perché solo allora egli sarà in grado di accettare i suoi mostri e di cercare di superarli, compiendo il suo atto di fede pieno nei confronti di Dio. L’educazione alla fede di fronte alla “morte del padre” La “morte del padre” è la terza grossa sfida dove per “padre” si intende l’autorità, colui che in qualche modo costituisce il punto di riferimento a cui obbedire. Oggi sono morti i padri, sono morti i maestri. È una reazione a un tempo in cui la figura del “padre-padrone” e del maestro autoritario incombeva e schiacciava figli e discepoli, soffocandone la personalità. Per questo non dobbiamo, neanche in questo caso, rimpiangere il passato. Il clima odierno è un rifiuto di ogni forma di autoritarismo e costituisce, da questo punto di vista, un guadagno. Eppure, ancora una volta, esso, nelle sue forme concrete, implica delle esasperazioni che rischiano di far deviare e sfigurare il valore che noi dobbiamo salvaguardare. Il pericolo che oggi si corre è di respingere, insieme all’autoritarismo, anche il senso dell’autorità e di essere incapaci di rapportarci non solo al padrepadrone, ma alla paternità come tale. Da qui una fuga dall’autorità che coinvolge perfino chi ne è investito e dovrebbe esercitarla. Oggi molti padri cercano di disfarsene e di farsi scambiare dal figlio per un compagno di giochi, magari facendosi chiamare per nome e dicendo sempre sì a qualunque sua richiesta. Questa situazione nasce dal fatto che spesso si confondono autorità e potere. Tra le due cose, in realtà, c’è una grande differenza. Mentre il primo è la capacità di coercizione fisica, psichica, economica o sociale, con cui qualcuno esercita di fatto un dominio su qualcun altro, la seconda è la qualità per cui una persona è degna, in linea di principio, di essere obbedita. In Luca si dice che “la gente era stupita perché Gesù parlava con autorità e non come i loro scribi”. Ma Gesù non aveva nessun potere. Quello l’avevano, anzi, proprio gli scribi! 128 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” Il fatto è che il potere incide sull’agire delle persone e le obbliga a fare certe cose prescindendo dalla loro volontà. Il rapitore prescinde dalla volontà del rapito e lo rapina, lo stupratore prescinde dalla libertà della donna e la stupra, il potere economico prescinde dalle nostre volontà e ci getta nella crisi in cui siamo, i poteri mediatici ci dominano senza chiedere il nostro permesso. Il potere cioè agisce sul risultato e non coinvolge il soggetto, che anzi tratta come un oggetto. L’autorità invece è tale solo perché si rivolge alle persone e chiede loro non di fare ma di volere quello che l’autorità chiede. Perciò si parla di “obbedienza”. E l’obbedienza non è il far una cosa perché un altro te la impone, ma il volerla noi stessi perché l’autorità ce lo chiede e noi abbiamo fiducia in essa. L’emblema dell’obbedienza è Gesù nell’orto del Getsemani: “Padre se possibile, allontana da me questo calice, ma sia fatta la tua e non la mia volontà”. Se Gesù fosse stato costretto dal Padre a morire sulla croce, non sarebbe stato un atto di obbedienza nei suoi confronti, ma la semplice sottomissione al suo potere. Al contrario l’obbedienza è un atto supremo di libertà. Ma perché si deve obbedire alle autorità? L’origine del termine “autorità” aiuta a comprendere il motivo per fare una simile scelta: il verbo augere in latino significa “far crescere” e, in senso traslato, “far nascere”. Da esso deriva, insieme ad auctoritas, anche l’altro sostantivo auctor. Si può essere riconosciuti come auctoritas perché si è auctor. Nella visione cristiana, ogni autorità deriva da Dio perché Egli è l’Auctor supremo. L’autorità perciò non è, come il potere, legata immediatamente al presente, ma si radica in un’origine, precisamente nella storia della relazione tra due persone, una delle quali ha la responsabilità di far crescere l’altra. Io obbedisco a qualcuno come autorità perché vedo in lui l’autore, colui che fa nascere la vita mia personale o forma una comunità, sia esso il padre, la madre o il maestro che mi sta facendo crescere. A volte l’autorità si serve anche del potere. Ma in questo caso esso non è più un fatto bruto, bensì uno strumento legittimo per far valere le esigenze dell’autorità stessa. Naturalmente l’autorità deve essere degna di questo. Purtroppo conosco tante autorità che si mascherano dietro questo titolo per esercitare poi di fatto uno sterile potere. L’autorità è tale se rispetta sempre nell’altro una persona, perché se l’autorità tratta l’altro come un oggetto è diventata potere. Solo se dialoga con il soggetto, lo ascolta, anche se deve assumere alla fine la responsabilità di decidere, essa è veramente se stessa. La posta in gioco è alta. In mancanza di un auctor, non c’è – o è debole – l’identità. Su questo concordano tutti gli psicologi: le figure parentali sono fondamenSABATO 16 NOVEMBRE - 129 tali perché il bambino si identifichi e cresca in modo corretto. Un’educazione alla fede non può escludere questo rapporto alla figura del padre e del maestro, sia nella sua immagine divina e umana – Gesù – sia in coloro che in qualche modo lo rappresentano. L’educazione alla fede di fronte alla crisi della morale del dovere L’ ultimo tema è la morale del dovere. Una cultura senza desiderio e senza slancio non è certo una morale cristiana. È il caso della morale del dovere, che a ben vedere ha dei forti limiti anche come morale umana. La morale del dovere nasce pressappoco alla fine del 1700, appena due secoli fa. Non c’era prima di Kant: la morale tradizionale era un’altra, quella che Aristotele aveva pensato e che il grande Dottore cristiano san Tommaso d’Aquino ha a sua volta adottato, ed era la morale delle virtù. Eppure molti la identificano con “la” morale. Chiedete a chiunque qual è la parola che gli viene in mente quando si parla di morale. Vi risponderà “il dovere”. E per molti infatti vale il motto “prima il dovere poi il piacere”. Ebbene, educare oggi significa capire l’inadeguatezza di questo schema e anche la sua fragilità. La morale del dovere – almeno nel modo in cui è stato intesa e trasmessa – prescinde dalla felicità, dalle passioni e dai desideri. Insomma non bisogna appassionarsi e non bisogna desiderare. Una morale delle passioni e dei desideri che mira alla felicità – secondo questa impostazione – è falsata in partenza, perché l’unico criterio che deve guidare l’agire umano può essere l’imperativo categorico posto dalla ragione, che comanda di fare quello che è giusto fare, anche se non lo si desidera affatto e se porta all’infelicità. Molto diversa è la morale delle virtù, che tra l’altro la filosofia anglosassone negli ultimi decenni ha valorizzato moltissimo. Essa si fonda sulle virtù considerate come la disposizione, acquisita e intimamente assimilata, di esercitare le proprie passioni secondo il giusto mezzo. Qui la morale ha la propria sede non in una ragione che ignora o addirittura castra la sfera affettiva, ma nelle passioni stesse, che, con l’aiuto della ragione, devono essere capaci di autoregolarsi per raggiungere la loro piena forza. Per esempio, san Tommaso d’Aquino, parlando nella Summa teologica del peccato d’iracondia, dice che l’iracondia è quella di colui che si arrabbia sempre e c’è da dire che in questo modo sciupa anche l’ira, che è una virtù se orientata al peccato, perché uno che si arrabbia sempre è una persona molto nervosa. C’è però anche il vizio opposto, quello di chi non si arrabbia mai. Noi italiani quanti anni abbiamo passato a non arrabbiarci, questa non è pa130 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” zienza, è un vizio! Gesù nel Tempio ha gettato via i mercanti a colpi di fune perché l’ira è un valore e bisogna sapersi arrabbiare, solo che bisogna saperlo fare secondo il criterio della giusta ira, cioè l’ira nel momento giusto, per i motivi giusti, nelle situazioni giuste, nelle modalità giuste. Potrei portare anche l’esempio del rapporto con il cibo e dire che è un vizio essere ingordi, ma è un vizio anche non saper gustare i buoni cibi. Quando uno mangia tutto come se fosse uguale o beve il vino come se fosse acqua, un po’ di vizio c’è, dice il solito san Tommaso, perché non è capace di gustare la vita e la vita va gustata nella reale relazione che noi abbiamo con la morale. Quanto al giusto mezzo, per individuarlo, volta per volta, non ci sono trattati teorici che possano indicarlo, perché esso «non consiste in una proporzione aritmetica valida indistintamente per ciascuno, ma in un giusto mezzo rispetto a noi (...) che si adatta alla nostra persona e alla situazione nella quale ci troviamo» (A. DA RE, Filosofia morale. Storia, teorie, argomenti, Bruno Mondadori, Milano 2008, p. 22). Quello che per una persona sarebbe mangiare troppo, per un’altra può essere giusto. Non si tratta di relativismo, ma di senso della relatività, che è cosa ben diversa. Il “rispetto a noi” non elimina il valore intrinseco del bene, né tanto meno la sua differenza dal male, come oggi a volte si sostiene, ma li suppone e deve sempre misurarsi con essi. Solo, li adegua alle nostre reali situazione esistenziali. Il vangelo è molto più affine, pur con profonde diversità, a questa prospettiva morale che non a quella di Kant, perché gli insegnamenti di Gesù non sono imperativi categorici, come spesso noi li abbiamo intesi, riducendo la morale cristiana a una collezione di divieti e di precetti e oscurando il fatto che nella “buona notizia” la cosa più importante è la felicità. Si può essere cristiani solo se si è protesi alla felicità e chi non desidera la felicità è meglio che cambi religione! La religione cristiana è per gente che desidera vivere in pieno le sue passioni, prima su tutte l’amore, che è una grande passione. Dio la infonde in modo teologale, ma le passioni umane, tutto il coacervo di vita umana che Dio trasfigura, non si annullano in Dio: la natura è necessaria perché la grazia possa raggiungere il suo pieno sviluppo ed anche la virtù teologale dell’amore lo è. Se vi ricordate, Gesù, a chi gli chiede qual è il primo comandamento, non indica nessuno di quelli della Legge, ma l’amore. Ebbene tutto questo ci dice che, anche in un’ottica cristiana, noi dobbiamo valorizzare una morale delle passioni. Come si può vivere una vita di fede se uno segue la logica del dovere? Come ci si può rapportare a Dio? Noi abbiamo cambiato il rapporto tra amore e dovere, SABATO 16 NOVEMBRE - 131 il dovere c’è pure nel vangelo ma è frutto dell’amore (siccome io amo, osservo i comandamenti). Invece noi abbiamo una visione per cui quando andiamo a confessarci, il confessore ci chiede se siamo andati a Messa, se siamo stati fedeli al coniuge, non ci chiede come stiamo riuscendo a potenziare l’amore, come stiamo facendo a vivere l’amore, quali sono le manifestazioni della nostra passione. E credo che adesso noi non andremmo più a confessarci perché abbiamo più paura di una domanda così che della domanda sui precetti che abbiamo osservato o meno. Il testo, pur essendo stato rivisto dall’autore, mantiene la forma diretta e discorsiva dell’intervento orale. (n. d. A.) CATANIA Intervento del prof. Giuseppe Ruggieri Educare alla fede Premessa Il taglio della mia riflessione è in qualche modo opposto a quello che ha impiegato il prof. Savagnone. Penso che la sua analisi e la sua proposta costituiscano tuttavia solo un lato della medaglia, essendo fatte a partire da una prospettiva immanente all’orizzonte culturale nel quale ci troviamo: la riscoperta del singolo, la complessificazione del soggetto che rischia di diventare prigioniero della molteplicità delle esperienze, la crisi dell’autorità, la valorizzazione della sfera emotiva. A partire da quest’analisi vengono individuati i correttivi che possono facilitare una più matura consapevolezza credente. Questa prospettiva ha un merito indubbio, quello di svelare dal di dentro, dalle contraddizioni immanenti alla condizione umana attuale vie immanenti a una vita più dignitosa. Resta tuttavia altrettanto vero che anche l’esperienza cristiana della fede ha da dire la sua sulla situazione dello spirito umano. E, quanto la fede dice, suggerisce a sua volta atteggiamenti critici che, senza negare la validità dell’analisi immanente, fanno scoprire nuovi orizzonti. Io partirò quindi da alcuni aspetti fondamentali dell’esperienza di fede. 132 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” L’oggetto della fede Nel vangelo di Luca leggiamo: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18, 8). Che cosa vogliono dire queste parole? È possibile che la fede scompaia dalla faccia della terra? Per intendere le parole di Gesù dobbiamo situarle nel contesto immediato del vangelo di Luca. Gesù parla della necessità di pregare sempre senza stancarsi mai, fino a quando la preghiera non troverà il suo esaudimento. Per questo racconta la parabola del giudice iniquo che pur di non essere importunato dalla supplica incessante di una povera vedova perché le venga fatta giustizia, alla fine la esaudisce pur di togliersela di mezzo. A maggior ragione, argomenta Gesù: “E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. La fede equivale qui all’attesa degli eletti “che gridano giorno e notte verso Dio” per ottenere giustizia, ma che corrono il rischio di stancarsi per cui potrebbe accadere che, alla venuta del Figlio dell’uomo, avranno desistito dal pregare per la giustizia. Per comprendere questa fede, come preghiera incessante dei giusti, possiamo ancora ricordare il testo più vicino al brano di Luca, nel libro dell’Apocalisse 6, 9-11. Si tratta della visione di ciò che accade quando l’Agnello immolato (cioè Gesù Cristo) apre il quinto sigillo che tiene chiuso il libro della storia: si tratta cioè della visione della storia che si apre quando la si legge a partire dalla croce di Gesù. “Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso. E gridarono a gran voce: Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra? Allora venne data a ciascuno di loro una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco (sottolineatura mia), finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli, che dovevano essere uccisi come loro.” Gli eletti che gridano giorno e notte verso Dio di Lc 18, 7 qui diventano coloro che sono stati perseguitati fino alla morte e che come i giusti della terra attendono ancora giustizia da Dio. Si tratta in altri termini dell’attesa del Regno. Credere vuol dire allora attendere senza stancarsi mai il Regno di Dio, dove sono beati i poveri, i miti, coloro che patiscono ingiustizia. Esiste un testo bellissimo di Tertulliano il grande apologeta vissuto a cavallo tra II e III secolo, che commenta questo brano dell’Apocalisse fino a portarlo all’esasperazione. Ecco le sue SABATO 16 NOVEMBRE - 133 parole, nel commento all’invocazione “venga il tuo Regno” del Padre nostro: “Se la realizzazione del regno di Dio è volontà del Signore ancorché noi non sappiamo (il momento), com’è possibile che alcuni chiedano qualche dilazione per il mondo, dal momento che il regno di Dio di cui chiediamo la venuta implica la fine del mondo? Noi desideriamo regnare al più presto e non essere schiavi più a lungo. Quand’anche non fosse già predeterminato nella preghiera di chiedere la venuta del regno, avremmo da noi stessi proferito queste parole, bramosi come siamo di abbracciare la nostra speranza. Le anime dei martiri sotto l’altare gridano al Signore disonorandolo1: Fino a quando, o Signore, non vendicherai il nostro sangue sugli abitanti della terra? La loro vendetta infatti è regolata a partire dalla fine del mondo. Anzi, venga il più presto possibile o Signore il tuo regno, desiderio dei cristiani, vergogna delle nazioni, esultanza degli angeli, per il quale veniamo tormentati e per il quale, ancora di più, noi preghiamo.” Risuonano in questo commento di Tertulliano le parole stesse di Gesù nel brano di Luca citato sopra: “Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente”. Questo significato della fede, come attesa/preghiera incessante per la venuta del Regno corrisponde al senso primario della fede, che si trova nel nucleo centrale della predicazione di Gesù: “Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo. (Mc 1, 14-15). Così come i giusti di Luca pregano chiedendo giustizia e Dio li esaudirà prontamente, così come i martiri dell’Apocalisse chiedono fino all’esasperazione, accusando quasi Dio di mancare alla sua parola, che Egli metta presto fine all’ingiustizia del loro martirio, altrettanto Gesù chiede che si presti fede al suo annuncio che il Regno sta per venire. Preghiera incessante per l’avvento del Regno, per l’avverarsi delle promesse, è quella fede che il Figlio dell’uomo quando verrà, cercherà di trovare ancora sulla terra. E già il salmista pregava con questa fede, rimproverando quasi Dio, anche se in maniera più delicata di Trtulliano: “Ricordati della parola detta al tuo servo, con la quale mi hai dato speranza” (Sal 119, 49). Appare quindi come l’oggetto della fede sia il vangelo del Regno. Noi crediamo che il Regno di Dio si avvicina. Noi non crediamo semplicemente in Dio, ma crediamo che questo Dio, il Padre di Gesù di Nazaret, vuole istaurare il suo Regno che appartiene ai poveri della terra, a coloro che piangono, a coloro che hanno sete di giustizia che questa società nega loro e che subiscono persecuzione per essa, appartiene agli uomini e alle donne dal cuore puro e retto, a coloro 134 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” che danno la testimonianza del Cristo fino a subire per questo persecuzione. Giacché il Regno si fa vicino a noi proprio in Gesù Cristo, cioè nel messia che è venuto e che ritornerà, e si fa vicino nell’azione di quanti seguono il messia Gesù, senza mai essere compiuto, giacché tutta la creazione soffre nei dolori del parto aspettando con impazienza di essere liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare bella libertà della gloria dei figli di Dio (cf. Rom 8, 19-21) A volte quando parliamo di fede corriamo due rischi. Il primo è quello di identificare la fede con una generica convinzione dell’esistenza di Dio, dimenticando che Dio non l’ha visto nessuno, ma il Figlio suo ce ne ha fatto l’“esegesi”, lo ha cioè “dispiegato” nella sua vita terrena, come colui che ci ama e vuole che noi tutti partecipiamo a quella stupenda tavolata del Regno in cui è il padrone stesso che “si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12, 37). Il secondo rischio è quello di concentrarci talmente nel Cristo, nella vita di comunione con lui, dimenticando che egli è venuto per rendere vicino il Regno, anzi portandolo “in mezzo a noi” con il suo annuncio, i suoi gesti di guarigione, la sua morte per noi. Il giudizio su “questo” mondo Spesso facciamo una grande confusione dicendo che questo mondo è buono, che dobbiamo amare il mondo e frasi del genere. Quando parliamo così, spesso dimentichiamo di precisare infatti di quale mondo si tratti. Nel NT ci sono due significati antitetici della parola mondo (kosmos). C’è il mondo che Dio ama fino a tal punto da farci dono del Figlio suo unigenito perché credendo in lui gli uomini siano salvi (Giov 3, 16). E c’è il mondo il cui schema è destinato a passare (1Cor 7,31). La parola greca schema viene resa nell’ultima traduzione della CEI con “figura”. Penso che sia una buona traduzione, se la intendiamo come l’aspetto in cui si presenta questo mondo. Un buon dizionario del NT, quello di Walter Bauer, traduce così il testo della 1Cor 7, 31: “Il mondo, nella manifestazione che gli è propria, passa”. È evidente che nel primo caso il mondo viene identificato con gli umani, mentre nel secondo caso il mondo è identificato con la struttura dominante (schema) dei rapporti umani. Un bellissimo testo dell’Apocalisse ci dice cos’è questa struttura dominante dei rapporti umani. Come sapete, nel libro dell’Apocalisse ci sono tre figure che rappresentano i nemici dell’Agnello immolato, cioè di Gesù crocifisso. La prima è il drago, immagine di Satana, cioè del male personificato che trascende la volontà dei singoli, che combatte l’ordine voluto da Dio nel SABATO 16 NOVEMBRE - 135 mondo. Il drago si serve tuttavia, per lottare contro Dio e contro l’Agnello, di due bestie. La prima che “viene dal mare”, cioè il potere di allora, quello romano che aveva conquistato l’Asia minore (luogo in cui vivevano le comunità a cui si rivolge l’autore dell’Apocalisse) venendo dal mare, a cui il drago “diede la sua forza, il suo trono e il suo grande potere”. La seconda bestia “viene dalla terra”, è indigena, e rappresenta tutti coloro, gli opinion makers diremmo adesso, che convincono gli uomini ad adorare sia il drago che la prima bestia. Questi opinon makers (la seconda bestia che è indigena, è all’interno della nostra società, ma è al servizio di un potere esterno) sono capaci di “far sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, ricevano un marchio sulla mano destra o sulla fronte, e che nessuno possa comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome.” (Ap 13, 16-17) Non conosco pagina più eloquente di questa nel descrivere la struttura di questo mondo. Il potere che s’incarna in figure diverse (allora quello politico di Roma, oggi il capitale finanziario) e costruisce attorno a sé una macchina del consenso, di cui sono operatori gli intellettuali up to date, manifesta la sua forza facendo sì che tutti dipendiamo da esso per vivere materialmente (comprare o vendere). Coloro che hanno fede nel Regno che si è avvicinato a noi nel messia Gesù, il mite messo a morte sulla croce, svelano la falsità e il potere di morte di questa “figura” del mondo, ne proclamano la fine e pregano senza stancarsi mai perché “venga il Regno”, nella forma della preghiera che il messia mite Gesù ci ha insegnato. L’amore per il mondo degli umani, che Dio ama fino a dare il Figlio suo unigenito, spinge allora i seguaci del messia mite Gesù, a resistere alla falsità di questo mondo realizzando così le parole di Gesù a Pilato, quando gli disse che il suo regno non è di questo mondo, ma che egli è venuto per dare testimonianza alla verità. Una testimonianza che non si serve del potere di cui partecipa Pilato, tanto è vero che non ha soldati che combattono per esso, ma arriva alla sua massima espressione nel dono della vita: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù. Allora Pilato gli disse: Dunque tu sei re? Rispose Gesù: Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Giov 18, 36-37). Educare alla fede o educazione della fede? So che l’espressione “educare alla fede” è di moda e che i vescovi italiani l’amano 136 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” molto. A me piace tuttavia rovesciare la frase e fare della fede il soggetto che educa, e che cresce educando. I medievali avevano un’espressione che amo molto: la fede non si prova, ma è essa stessa a provare. Non è la nostra esistenza, la nostra esperienza umana a provare, cioè a dare forza alla fede, ad alimentarla, ad iniziarci ad essa, ma è vero il contrario. La fede nasce infatti dalla Parola e dal suo ascolto e poi produce in noi un’umanità nuova, una passione per l’umano vero che ci fa lottare contro la disumanità di questo mondo. È vero che si dà una “preparazione alla fede” (nel linguaggio classico si chiamava l’“inizio della fede”), ma questa è opera della grazia stessa della fede, che in noi suscitata desideri e stati d’animo adeguati. A partire dalle poche cose che abbiamo detto sulla fede possiamo fermarci su alcuni aspetti ofndamentali di questa educazione della fede: il giudizio, la testimonianza, la preghiera. Il giudizio La fede, per quel che abbiamo detto, è essenzialmente politica. Il vangelo, l’annuncio di Gesù sul Regno di Dio che si avvicina e incombe sulla nostra vita, infatti annuncia un Regno che è negazione della struttura attuale della polis. Questo vuol dire semplicemente che allora la fede ha nella sua natura stessa una dimensione politica. Questa dimensione politica, essenziale alla fede, vuol dire soltanto che la fede vissuta genera in noi una lucidità particolare sulla menzogna che sta alla base della strutturazione concreta dei rapporti umani nella polis. Questa illuminazione non è come un fascio di luce che illumina le tenebre di una città addormentata, ma incontra il gemito della creazione che è stata sottomessa controvoglia alla caducità (Rom 8,20). La fede coglie questo gemito nei volti dei poveri, ptochoi li chiama Gesù, cioè coloro che per vivere dipendono dagli altri, non hanno nemmeno il lavoro e sono umiliati e costretti a mendicare. Coglie il gemito nei migranti che pur di sopravvivere affrontano il rischio di attraversare il mare su barche insicure. Coglie il gemito nei morti sul lavoro per l’insicurezza degli impianti di cui sono colpevoli padroni avidi e noncuranti. Ma la fede alimenta proietta questa luce sulle cose non affidandosi soltanto alle letture critiche della sociologia, della filosofia, del cinema, della letteratura, in cui il gemito della creazione sottomessa controvoglia alla caducità delinea già il volto dei sofferenti, ma guardando alla sofferenza degli umani con gli occhi di Dio, ascoltando con le sue orecchie, accogliendole con il suo cuore. C’è un gemito della creatura che percepisce solo il Padre. Sguardo, udito e cuore SABATO 16 NOVEMBRE - 137 di Dio sono quelli di cui ci parlano le Scritture. Come accostarsi alla sofferenza dell’uomo innocente se non con Giobbe? Come guardare alla falsità del potere se non con l’Apocalisse? Come accostarsi al degrado e alla sofferenza umana se non con i vangeli? L’educazione della fede avviene quindi attraverso la lettura e la comprensione delle Scritture. Le scritture sono frutto di una sintesi: la sintesi della Parola che si fece carne nell’esistenza di Gesù di Nazaret e la situazione concreta dei primi discepoli che “conformarono” la loro carne a questa “forma” che la Parola aveva assunto. La lettura credente delle Scritture non è quindi uno studio letterario, ma ascolto della Parola nella situazione di adesso, una situazione fatta di gemiti direttamente ascoltati con le proprie orecchie e amplificati da cinema, letteratura, sociologia, filosofia etc. Ritengo indispensabile che la comunità di coloro che hanno accolto la Parola si raduni almeno una volta a settimana nell’ascolto della parola di Dio testimoniata dalle Scritture, per una lettura intelligente, intus legens, che vada cioè in profondità nell’evento della Parola. Giacché la Parola può essere penetrata in profondità solo se opera, se avviene il miracolo dell’ “agricoltura di Dio” come dicevano i Padri e i teologi medievali, solo se il seme caduto in un terreno fertile, assorbe l’humus della terra degli uomini. Una lettura introdotta sobriamente da un competente che sappia anzitutto spiegare la situazione storica in cui la Parola che meditiamo diede la sua forma, in-formò, alcuni credenti, cioè gli autori “in-spirati”. Ma che poi, attraverso il confronto comune, deve manifestare la traccia che quella Parola in-scrive nella nostra vita, nella nostra esperienza. La testimonianza La fede si manifesta agli altri e al tempo stesso si rafforza in noi attraverso la testimonianza. La testimonianza ha ogni volta uno stile adeguato a ciò che viene attestato. Il potere ad esempio viene testimoniato attraverso l’uso della forza. L’amore si testimonia invece nella tenerezza. Gesù ribadisce davanti al potere di questo mondo (Pilato) che egli è venuto per dare testimonianza alla verità e per questo ha accettato di essere “consegnato” a questo potere (sia quello religioso dei giudei, che quello politico di Pilato) senza ricorrere ai servi che hanno combattuto per lui. Cos’è la verità che Gesù è venuto a testimoniare? La natura di questa verità, che non è quella filosofica e nemmeno quella scientifica, ci viene spiegata soprattutto 138 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” nel cap. 8 del vangelo secondo Giovanni. Gesù, rivolgendosi ai “giudei” (cioè, nel vangelo di Giovanni, a quanti non vogliono riconoscere le opere che egli compie e collegarle a Dio) dice che essi • non comprendono il suo linguaggio e quindi non possono dare ascolto alle sue parole • la ragione di questa incomprensione sta nel fatto che hanno per padre il diavolo e quindi vogliono compiere i suoi desideri • fin da principio (ap’archès) il diavolo è stato omicida e non ha perseverato nella verità, perché in lui non vi è verità • infatti egli, quando dice il falso, parla a partire da ciò che gli appartiene (ek tôn idiôn) • e sta in questo, nel fatto che cioè parli a partire da ciò che gli appartiene, la ragione per cui egli deve essere considerato menzognero (cf. Giov 8, 43-45). In questo brano del IV evangelista troviamo racchiusa tutta un’antropologia e al tempo stesso un’interpretazione della storia umana. Cominciamo con la dimensione antropologica della menzogna. Nel brano citato di Giovanni, la menzogna viene presentata come distorsione della relazione con l’altro. Fin quando l’uomo parla e pensa a partire di ciò che è suo, egli è nella menzogna. La menzogna non sta nel raccontare cose che non sono, ma nel porsi davanti agli altri (giacché il parlare è il modo in cui ci poniamo davanti agli altri), a partire da sé. La menzogna è l’incapacità di relazione autentica, di rispetto di ciò che appartiene all’altro. Una donna e un uomo possono anche dire cose che non sono. Quante volte lo fanno per salvare una situazione! Non per questo stanno nella menzogna, ma solo se lo fanno per salvare ciò che appartiene loro. La menzogna, prima ancora di tradursi in un atto specifico, è uno stato dell’uomo che pensa a partire da sé e comunque non con l’altro, ma solo a partire da sé. Si dirà che in questo senso è impossibile evitare la menzogna così intesa. Chi di noi riesce a liberarsi di un fondamentale egocentrismo? E che dire dell’organizzazione politica nelle sue varie forme che è in buona parte finalizzata alla difesa dei propri interessi? Forse questo è proprio uno dei nodi della nostra riflessione che in qualche modo dovremmo sciogliere. Mi limito per adesso a dire che forse a questa “impossibilità” pensa Paolo, quando esorta i cristiani di Filippi “a non cercare le cose che appartengono ad ognuno di voi, ma anche quelle degli altri” (Fil 2, 4)2 Sorprende comunque che nel testo di Giovanni la menzogna venga collegata all’omicidio. Ma la sorpresa finisce se pensiamo che, se la menzogna è il pensare SABATO 16 NOVEMBRE - 139 a partire da sé e quindi senza riguardo all’altro, allora essa è la vera radice della violenza. La violenza è la misura necessaria quando l’esistenza dell’altro diventa una minaccia per le cose che mi appartengono. La violenza, fino all’omicidio, è solo una menzogna portata alle sue conseguenze estreme. Non sorprende invece a questo punto che Giovanni, sia pure in maniera crittica, introduca una lettura della storia umana come genealogia della menzogna. Lo fa dicendo che “egli (il diavolo) fin da principio era (imperfetto: quindi come azione continua fin dagli inizi della storia umana) omicida e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso parla (al presente indicativo) a partire dalle cose che gli appartengono, perché è menzognero e padre della menzogna” (Giov 8, 44, b-c). Fin dal principio. È una paroletta magica nel vangelo di Giovanni. Il suo prologo comincia con questa paroletta, “In principio”, di non facile decifrazione: l’inizio della creazione o il principio di sempre, di prima ancora della creazione? Comunque qui è chiaro che la paroletta indica l’inizio della storia umana. Giov rilegge cioè il racconto genesiaco degli inizi della storia umana, segnati dal pensare e agire a partire da sé (voler essere come Dio) e dall’omicidio. Correttamente Giov legge assieme Gen 3 e 4 come unità inscindibile. Noi siamo abituati in genere a leggerli separatamente. Ma essi sono i due aspetti della menzogna. In Gen 3 il diavolo suggerisce la trasgressione a partire dal desiderio di ciò che è proprio all’uomo. In Gen 4 è il peccato personificato (hatta’t) accovacciato alla porta, il nemico che Caino non riesce a dominare. Interessante per la nostra riflessione è che non si abbia traccia di pentimento né in Adamo ed Eva, né in Caino, ma che nell’uno e nell’altro caso si tenda invece all’autogiustificazione. Ma ancora più importante è che la “condanna” venga superata dalla benedizione. Ha ragione l’esegeta tedesco Zenger proponendo la lettura unificata dei due capitoli genesiaci. Per Giovanni il mito genesiaco non descrive allora un fatto del passato, ma una presenza costante nella storia. Importante è l’uso dei verbi, dove il tempo imperfetto descrive l’orizzonte del presente. La storia della menzogna è la storia costante dell’umanità. Il peccato accovacciato alla porta fin dall’inizio “era” e adesso “parla”, anzi continua a parlare. La conclusione di quest’analisi del testo di Giovanni è sorprendente: la storia umana è la storia della menzogna che genera violenza. Il peccato è da sempre accovacciato alla porta e proprio perché gli uomini e le donne parlano e pensano a partire da sé essi generano violenza. La genealogia della storia è quella di una 140 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” menzogna che genera violenza. Il male del mondo è la menzogna: il parlare, il pensare e l’agire a partire da sé. La verità allora, è ciò a cui la menzogna, cioè il parlare a partire da sé si oppone. La verità è il parlare a partire dall’Altro e dall’Altro per eccellenza, cioè di Dio. E anche la Verità ha una sua storia. Come il peccato è accovacciato alla porta di casa, anche la Verità ha posto la sua abitazione in mezzo agli uomini, anche se gli uomini non la comprendono. O meglio ci sono alcuni a cui è dato di comprenderla, cioè che invece di parlare a partire da sé, si lasciano generare dall’Altro, cioè da Dio. Essi sono attirati da Dio, dice sempre Giovanni. Ciò implica che allora si dia una dialettica tra verità e menzogna e che, come la menzogna si manifesta nella violenza, così la verità si manifesti e sia testimoniata nella mitezza di chi è “mite ed umile di cuore” e venga appresa dal messia che fu così. Il concilio ribadisce a questo proposito qual è lo stile della testimonianza della fede. Lumen Gentium 8, 3: “Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa e chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo « che era di condizione divina... spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo » (Fil 2,6-7) e per noi « da ricco che era si fece povero » (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione.” La preghiera Possiamo così tornare al principio di questa conversazione, quando sulla scorta del principio di Luca abbiamo detto che la fede che il Figlio dell’uomo quando tornerà vuole trovare su questa terra è la preghiera che i giusti fanno senza stancarsi mai. È difficile distinguere nelle parole di Gesù tra la preghiera come frutto della fede nel Regno e la preghiera come alimento di questa fede. Diciamo piuttosto che si tratta di un circolo. Solo chi ha fede nel Regno prega perché il Regno venga presto. La preghiera che è frutto della fede è quindi in primo luogo resistenza. E questo lo è a partire dalla preghiera per eccellenza, il Padre nostro, il breviarium totius evangelii, il sommario di tutto il vangelo come, a partire da Tertulliano e fino a papa Giovanni XXIII, è stato ripetutamente chiamato. Lì la resistenza a questo mondo si esprime nel desiderio che il Regno venga presto, SABATO 16 NOVEMBRE - 141 che gli uomini riconoscano le opere di Dio e quindi sia santificato il suo nome, che la sua volontà sia fatta da tutti e vinca così contro la menzogna. Lì la resistenza si esprime ancora nella richiesta del pane necessario e sufficiente per andare avanti ogni giorno, senza preoccuparsi del domani, perché a chi cerca per prima cosa il Regno il resto sarà dato in sovrappiù. Lì si chiede di sperimentare la misericordia e la mitezza di Do come noi testimoniamo la sua mitezza e la sua misericordia agli altri. L’infine si chiede aiuto contro la grande tentazione, contro il marchio che la Bestia cerca di imprimere sulla nostra fronte o sul nostro braccio. Accanto al Padre nostro, la resistenza si esprime nella preghiera della domenica, nell’eucaristia in cui facciamo la memoria “pericolosa” della morte e della risurrezione del messia, dove veniamo uniti a lui, conformati a Lui nutrendoci del dono per eccellenza, il suo corpo consegnato per noi e il suo sangue versato per noi e sperimentiamo così il dono di una nuova fratellanza e di una nuova sororità. E c’è infine la resistenza che si esprime nella preghiera che sperimentiamo nel segreto del nostro cuore, quando ci mettiamo nudi davanti alla Verità di Dio, scoprendo la “nostra” menzogna quotidiana, ma caricandoci altresì davanti a Dio della contraddizione e del peccato degli altri, del loro gemito e della loro sofferenza, per vivere così, davanti a Lui con il carico dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. 1 Corsivo mio con cui traduco il latino invidia, nell’espressione “clamant ad Dominum inuidia animae martyrum”, su suggerimento di A. Blaise, Dictionnaire Latin-Français des Auteurs Chrétiens, Turnhout 1954, 471 ad v. “invidia”. Blaise traduce: semblant lui faire honte, attutendo quindi il senso della vergogna gridata dai martiri a Dio. 2 Tutto il brano di Fil 2, 6-11 mostra l’origine di questo atteggiamento in quello di Gesù che, essendo nella forza di Dio, non rimase indifferente alla sorte dell’uomo schiavo del peccato, ma ne assunse la forma. 142 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” CATANIA Il dibattito seguito alle due relazioni Don Jean Paul Lieggi alla fine delle relazioni ha voluto sottolineare che questa accentuazione della fede come attesa del Regno, ci aiuta a recuperare una delle ricchezze che in Associazione abbiamo sottolineato quando ci siamo dati il Progetto Unitario di Catechesi, che è forse una parolina che sta sparendo dal nostro vocabolario. Ma chi conosce il Progetto Unitario di Catechesi si accorge invece come in quegli anni esso ci stava a cuore quando parlavamo dell’educazione alla fede. Quindi forse questo invito di don Pino [il prof. Ruggieri, N. d. c.] a guardare la fede come attesa del Regno e preghiera incessante perché il Regno venga ci aiuta anche a recuperare un po’ delle cose che sottolineavamo ed accentuavamo nella nostra spiritualità scout un po’ di tempo fa e che forse questi tre aspetti fondamentali dell’educazione e della Fede (cioè il giudizio, la testimonianza e la preghiera) ci aiutano poi a vivere. Il Prof. Savagnone ci ha presentato alcuni scenari, il Prof. Ruggieri ci ha detto qualcosa sull’educazione della Fede, reagiamo con qualche nostra osservazione o con qualche nostra domanda partendo da quello che loro ci hanno detto e, magari, coinvolgendo in quello che abbiamo ascoltato qualcosa del nostro vissuto associativo. DOMANDA: – Al professor Savagnone volevo chiedere se il Sacramento della confessione è o non è anche questo uno di quegli atteggiamenti che ci permette di riconoscerci? DOMANDA: – Poco fa nel gruppo di discussione è uscita fuori una difficoltà che ci ha riguardato come capi ed educatori alla fede: il fatto che spesso sia più semplice educare ai valori piuttosto che educare all’incontro con Cristo e con la sua esperienza. È stato il nostro orizzonte di discussione e volevo interrogarvi su questa tematica, per capire quanto riuscire a cambiare la prospettiva di educazione alla fede dal valoriale all’esperienziale, in riferimento a Gesù, possa essere un valore aggiunto. DOMANDA: – Il prof. Savagnone ha detto che autorità e potere sono due realtà opposte: il potere schiaccia mentre l’autorità dialoga per portare ad una strada di libertà. Davanti ad un genitore che non sa usare il potere sul figlio e non riesce nemmeno a dialogare, considera il figlio o la figlia come amico/a, quali consigli possiamo dare? Comportarsi come amico/amica aiuta molto il figlio a crescere o lo rovina ancora di più? SABATO 16 NOVEMBRE - 143 INTERVENTO: – Un ospite di altra nazionalità offre sull’intervento del Prof Savagnone “la seguente suggestione”: interessantissima presentazione, soprattutto per quanto riguarda il riferimento alla morale del dovere. Baden-Powell ci ha dato diverse indicazioni che valgono in tutto il mondo e ha parlato del carattere. Gli scout hanno carattere e qualcuno dice che il carattere è quella cosa che tu fai quando nessuno ti sta osservando. Noi siamo 32 milioni nel mondo e la cosa che noi tutti condividiamo è il dovere verso Dio, fa parte della nostra Promessa. Lei oggi ha detto di stare molto attenti a questo dovere. Prof. SAVAGNONE: – Credo che il problema di scegliere tra i valori e Cristo è nato dal momento in cui noi abbiamo secolarizzato il cristianesimo e lo abbiamo fatto diventare un elenco di valori che non esistono in realtà, una prospettiva globale di salvezza, di realizzazione dell’uomo nella verità – intendendo per verità quello che ha detto don Ruggieri molto felicemente – e tutto questo è inseparabile da Cristo. Una religione dei valori rischia veramente di scadere in quel moralismo di cui parlavo prima, basato su un codice di cose da rispettare. Aristotele dice, a proposito della morale delle virtù – che non si possono insegnare delle virtù perché si possono insegnare solo delle regole, ma le virtù non sono delle regole, ma dei modi di vivere. Ora, io credo che questo corrisponda profondamente al messaggio cristiano quando ci dice che il problema non è di rispettare delle regole, ma è imparare a vivere nel modo in cui è vissuto Gesù, naturalmente realizzandolo secondo le modalità del nostro concreto contesto culturale, e così via. Il fatto è che proprio per realizzare le virtù – diceva già Aristotele, un pagano e che non aveva in mente assolutamente il riferimento a Cristo – bisogna guardare qualcuno che le ha vissute e, aggiungeva, vivere in una comunità che le rispetti attuandole. Ed è qui che noi troviamo proprio Cristo nella sua persona e Cristo nella sua Chiesa. Personalmente credo che l’idea che noi possiamo educare a dei valori separandoli dal fatto che ci sia un Cristo, in cui noi veniamo incarnati e concretizzati, e da una comunità che li vive, inseguendo ed educando a dei valori avulsi da tutto questo, non ha niente a che vedere non solo col cristianesimo ma neanche con quella morale delle virtù che io cercavo di proporre come orizzonte. Per quello che riguarda i genitori il consiglio da dare è pensare ad essere genitori. I figli ne hanno tanti di amici, invece di padre e di madre hanno quelli. Il genitore che si camuffa da amico, toglie ai figli qualcosa di unico per dargli qualcosa che loro hanno già in esempi ed esperienze. 144 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” Il potere non va demonizzato in assoluto, il potere diventa demoniaco quando è sganciato dall’autorità, ma a volte l’autorità si deve servire del potere. La madre a volte costringe il figlio a mangiare, ma c’è un abisso tra l’azione della madre che trascina il figlio via dalla finestra per non farlo cadere e l’azione del rapitore che trascina via il ragazzo perché lo vuole rapire. Il potere a volte si deve esercitare, un dato necessario questo perché a volte bisogna dirli dei no, pur coscienti di stare esercitando un potere. Un genitore che non sa dire mai di no è un genitore che ha abdicato alla sua autorità. Personalmente sono per il recupero di una visione equilibrata del rapporto tra autorità e potere, della quale sono convinto che la chiave di volta sia il dialogo. Vi invito a leggere il libro della giornalista [Marida] Lombardo Pijola sui pre-adolescenti [Ho dodici anni, faccio la cubista, mi chiamo Principessa – Storie di bulli, lolite e altri bimbi, Bompiani, 2007, N.d.C.], un libro da cui emerge una cosa terrificante e che emergeva anche da quel famoso romanzo che ha avuto un grande successo intitolato L’eleganza del riccio [l’autrice è Barbery Muriel ed in Italia è stato edito da E/O, N.d.C.]. Si parla di una ragazzina di 13 anni che non ha il minimo dialogo con i suoi genitori e che dice che a 14 anni darà fuoco alla casa e si suiciderà perché non vuole diventare come i suoi genitori che erano persone importanti (il padre diplomatico, la madre una gran donna della società). Nel libro della Lombardo Pijola c’è un’analisi, elaborata da una giornalista ma a mio avviso molto corrispondente alla realtà, dell’atteggiamento dei pre-adolescenti dagli 11 ai 14 anni, che si trovano a vivere una vita totalmente parallela a quella dei genitori, senza che questi sospettino minimamente la loro vera realtà. Oggi il grande problema tra gli adulti e i giovani è il silenzio, qualcuno si rallegra che i tempi della contestazione siano finiti, ma è un’illusione, un equivoco, la cosa più pericolosa non è nella contestazione, che è un conflitto, è cioè comunque un rapporto, perché nel conflitto ci si continua a relazionare. La cosa più pericolosa è la fine del conflitto, che significa non una reciproca comprensione, ma (come succede spessissimo) la rinuncia per disperazione a essere capiti. Ho avuto tantissimi alunni che mi sono venuti a parlare dicendo: “è inutile che io parli di questo con i miei genitori, non capirebbero”. Il vero problema oggi tra genitori e figli è che se cade il silenzio il genitore crede che questa sia una vittoria, è invece un equivoco terribile. Anche come professore se mi trovavo a dire una cosa che sapevo contrariare i miei alunni e loro non replicavano (o replicavano solo dopo una discussione) mi allarmavo. Ma i silenzi sono la cosa più terrificante, il silenzio significa che l’altro si ripiega su se stesso e si costruisce il suo mondo. Oggi i giovani i loro problemi SABATO 16 NOVEMBRE - 145 li discutono con i loro pari e così ne diventano i consiglieri e i confidenti, ma di parlare con gli adulti non se ne parla, perché gli adulti non capiscono, vivono in un mondo invecchiato. Allora il mio consiglio fondamentale alle famiglie è trovate il tempo di stare a parlare con i vostri figli, di stare seduti a parlare (non distrattamente e poi cambiare discorso per esprimere i propri problemi di lavoro e di gestione della famiglia), mostrandovi interessati a sapere che cosa succede. A volte bisogna saper perdere del tempo, bisogna saper accettare che il ragazzo parli di tante cose che ci sembrano di ordinaria amministrazione, poi viene fuori improvvisamente un accenno e allora un genitore intelligente capisce che il ragazzo sta parlando del suo vero problema, ma per arrivare a ciò deve essere anche capace di ascoltarlo. Nel libro della Lombardo Pijola, una delle persone che parlano dice: “Mio padre parla per sentire se stesso”. Molti genitori non sanno nulla della vita dei propri figli, giocare a fare gli amici è pericoloso. Per rispondere all’amico straniero. Voi scout avete una morale che non è stata fondata solo sul dovere, le cose le fate perché avete acquisito un carattere. A me è piaciuto questo riferimento al carattere perché esprime bene anche il discorso delle virtù: le virtù plasmano il temperamento. Ognuno nasce con un temperamento ma poi il carattere si forma e acquisiamo delle virtù agendo e operando. Vi sembrerà banale ma c’è un libro che gli educatori devono leggere, è Capitani coraggiosi [l’autore è Rudyard Kipling, N.d.C.]. È un libro per ragazzi, che se anche nessun ragazzo legge più sarebbe il momento che lo leggessero gli educatori, perché parla di un ragazzino che assomiglia moltissimo ai ragazzini nostri, il quale per una serie di circostanze finisce su un peschereccio e non può tornare a terra, deve vivere là per tre mesi e attraverso l’esperienza di un’attività vissuta all’interno di un Gruppo, di una comunità finalizzata a realizzare qualcosa di importante. Impara non delle regole ma acquisisce delle virtù e diventa piano piano diverso. Dovete prendere coscienza del valore che ha questa esperienza originale in cui vivete e farla diventare qualcosa che comunicate al mondo che vi circonda. Che viviate intanto con sempre maggiore consapevolezza nella prospettiva di educare il mondo circostante, che invece di queste cose ancora non riesce a rendersi conto perché oscilla tra la morale del dovere (rifiutata) e una vita funzionale basata sul “mi sento-non mi sento, mi va-non mi va”. Ritengo che un confessore dovrebbe iniziare dallo stile a cui siamo abituati. Purtroppo nella grande maggioranza dei casi il problema è di elencare i peccati (ci sono persone che se li scrivono e la confessione si riduce con il leggere un elenco), seguito da un atto di dolore e da una penitenza. Il vero rapporto della 146 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” riconciliazione, a mio avviso da sempre ma oggi in modo particolare, dovrebbe passare attraverso un dialogo di ascolto, o se si vuole di un racconto di vita. La riconciliazione deve passare attraverso il fatto di una persona che racconta al suo confessore, ma prima di tutto a se stessa e, in ultima istanza a Dio, la sua esperienza e allora il sacramento non è semplicemente dire “questo peccato lo depenniamo perché facciamo finta che non ci sia stato”. Il problema è di contestualizzare anche le cadute in una storia, farle diventare esperienza che nella grazia del sacramento fa crescere rispetto alla propria debolezza. In questo senso io credo che non ci sia oggi una vera confessione nel suo senso profondo, come non c’è un vero dialogo spirituale significativo e duraturo tra un sacerdote che mette il suo tempo a disposizione. Oggi non c’è più il dialogo personale e non c’è nemmeno più un dialogo spirituale. La vecchia direzione spirituale è morta trascinando con sé anche ogni forma di rapporto personale e andiamo avanti a forza di grandi convegni e di eventi epocali. Bisogna invece cercare un dialogo, iniziato nel tempo, durevole e non ridurre la confessione a un episodico incontro in cui uno elenca i suoi peccati e l’altro lo assolve, perché a mio avviso questo è il modo peggiore di intendere in modo educativo la riconciliazione, che deve essere invece un momento fortemente educativo. Prof. RUGGIERI: – A partire dalla mia esperienza pastorale, cosa vuol dire il discorso che ho fatto? Semplicemente (quello che noi preti non sappiamo più fare), mettere al centro di tutto il vangelo e ciò che è tipico del vangelo. Quante sono le parrocchie o le comunità dove c’è l’abitudine della lettura frequente delle Scritture? Ancora non molte, ma poi non ci si può lamentare che si finisca nel moralismo e che non si apprenda cosa vuol dire la Parola di Dio su questo mondo e sulla situazione umana. La domanda sulla confessione. Difficilissima! Io sono un teologo, in specifico uno storico della teologia, e vi dico che tutta la storia della Chiesa conosce la crisi della confessione e non c’è nulla che sia cambiato di più nella storia della Chiesa della prassi della confessione. Pensate che nel Medioevo i vescovi aprirono una polemica contro la confessione privata. Adesso tutti vi dicono “confessatevi! confessatevi!”, ma nessuno si interroga sulle cause della crisi della confessione attuale. La Chiesa dunque ha reagito alle varie crisi epocali della confessione, cambiando la pratica. Ma la Chiesa attuale non lo vuol fare, vuole ribadire una pratica che ormai ha poco senso, secondo me. Trovare nuove pratiche non è facile, perché occorrerebbe distinguere tra il dialogo e il consiglio SABATO 16 NOVEMBRE - 147 spirituale, che non è uno specifico dei preti e appartiene invece ai cristiani comuni in quanto tali che hanno avuto questo carisma. Se il prete ce l’ha che sia il benvenuto, se non ce l’ha fa danni enormi. Da questo aspetto del dialogo e del consiglio spirituale bisogna dunque distinguere la confessione. In età moderna invece (cioè a partire dal ‘500) le due cose si sono unite senza che una facesse parte dell’essenza della confessione. Educare ai valori o incontrare Cristo? Qui farei un discorso un po’ diverso da quello che ha fatto il prof. Savagnone. Avete avuto oggi un esempio concreto di risposta alla domanda: lui ha parlato di valori, non ha parlato di Cristo. I valori si apprendono dalla pratica, dal costume della società, eccetera, non si apprendono da Cristo. Con tutta la sua fede in Cristo, Paolo non ha capito che la schiavitù è un peccato, l’ha accettata e così ha fatto la Chiesa per tanti secoli. Dicevo, in un passaggio del mio discorso, che la verità di Cristo e il giudizio sul mondo incontra il gemito della creazione che conosciamo attraverso una filosofia, attraverso il cinema, attraverso la letteratura, attraverso la sociologia. Cioè di fatto questi valori che esistono nella società, che sono presenti. L’Associazione scautistica, a partire dal suo fondatore, non è specificatamente cristiana, è un’associazione che si preoccupa di educare ai valori e questo ha una grande funzione nella società. Questi valori, la percezione delle contraddizioni – così come le ha esposte il prof. Savagnone – si debbono incontrare, d’altra parte, con la testimonianza del Cristo e da lì essere rivisitati, corretti, giudicati, ma anche valorizzati non pensando che tutti i valori possono essere già trovati nella testimonianza del Cristo o nella vita con Lui. Il prof Savagnone ha fatto un discorso, “immanente” l’ho chiamato, io ne ho fatto un altro a partire dalla fede, non tanto per rinnegare quello, ma perché il compito educativo che dovrebbe essere quello principale della vostra Associazione, è che avvenga l’incontro con Cristo, perché anche i valori della società ci aiutano a comprendere meglio il vangelo. Pensate alla Chiesa e come per secoli e secoli non sia stata capace di condannare la schiavitù, su come le Chiese in Sudafrica per decenni abbiano accettato l’apartheid. Allora la percezione storica dei valori aiuta a scoprire meglio anche le dimensioni del vangelo. 148 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” LORETO Intervento del prof. Vito don Mignozzi Nel presente intervento intendo porre l’attenzione su quattro questioni che, a mio parere, rappresentano degli snodi cruciali con cui fare i conti per considerare adeguatamente la sfida dell’educazione alla fede nel contesto odierno. Tali questioni sono: 1. Qual è il panorama socio-religioso dal quale proveniamo?; 2. Cosa è in gioco oggi in merito alla proposta cristiana?; 3. Con quale stile siamo chiamati ad abitare “da cristiani” questo tempo?; 4. Cosa ha da offrire l’Agesci in merito all’educazione alla fede? 1. Anzitutto, da dove veniamo? In quale contesto di chiesa noi adulti siamo stati formati? Cosa resta ancora oggi di questo passato, nonostante i radicali cambiamenti in atto? Una prima sottolineatura va fatta in merito al modello di catechesi che ha formato intere generazioni di credenti e che ha considerato l’educazione alla fede essenzialmente alla stregua di una dottrina da insegnare, come un travaso di nozioni trasferite da chi più sa a chi meno sa. Per diversi secoli generazioni e generazioni di coscienze credenti sono state educate secondo questo modello, la cui impronta in certo qual modo permane ancora oggi nei nostri percorsi formativi. Un secondo rilievo riguarda il modello di iniziazione cristiana che, grosso modo, coinvolge in maniera univoca i piccoli ed è funzionale alla ricezione dei sacramenti. Non è difficile rendersi conto di come nelle nostre comunità ecclesiali questo dato sia ancora fortemente presente, al punto che l’iniziazione cristiana sembra una questione solo dei fanciulli e dei ragazzi, per i quali si pensa sufficiente una catechesi che li prepari ai sacramenti, termine e obiettivo quasi unico dei percorsi1. Questo è un problema con il quale dobbiamo fare i conti perché, tra l’altro, rivela un esagerato sbilanciamento nell’impegno dei formatori e dei catechisti sul versante dei piccoli a discapito spesso del mondo degli adulti, che il Documento base aveva, ormai più di 40 anni fa, indicato come prioritario nella cura pastorale della comunità cristiana2. Un terzo elemento da considerare attiene al modello di parrocchia. Esso sopravvive soprattutto in Italia come eredità del Concilio di Trento, sorto cioè in un contesto socio-religioso connotato da un regime di cristianità, nel quale tutti erano credenti - o quasi - e la parrocchia era legata alla figura del Parroco SABATO 16 NOVEMBRE - 149 che si occupava della cura delle anime attraverso la predicazione, la catechesi, le missioni e tutti quei servizi che mostravano un volto di parrocchia simile a quello di un’agenzia di servizi religiosi. Alla parrocchia non veniva chiesto altro, perché i processi generativi della fede avvenivano altrove, in famiglia per esempio, e alla comunità cristiana incombeva il compito di accompagnare i percorsi di fede che necessitavano soltanto di una grammatica utile alla loro comprensione. Questi tre elementi erano ben armonizzati dentro un modello specifico di educazione alla fede, che poteva fare affidamento su alcuni grembi generatori. La famiglia, come luogo nel quale si viveva l’esperienza della fede all’interno del tessuto proprio della vita quotidiana. La scuola, soprattutto quella elementare, nella quale la maestra ereditava quanto già la famiglia andava realizzando e proseguiva il processo di educazione religiosa. E poi c’era il paese, un grembo protettivo nel quale ciascuno si sentiva responsabile non solo dei propri figli ma anche di quelli altrui. Erano tre grembi che facevano funzionare l’esperienza della fede e della crescita dei ragazzi3. 2. E oggi? Che ne è stato di questo mondo antico? Dove è andato a finire uno scenario del genere? Noi registriamo anzitutto che il paese è diventato un villaggio globale. Basta un click perché i ragazzi, e non solo loro, possano essere in contatto con il mondo intero, che prende sempre più le sembianze di un supermarket sui cui scaffali si può trovare tutto e il suo contrario, i valori più opposti e le contraddizioni più grandi. Il paese sembra dimissionario rispetto al suo ruolo educativo e ognuno ricorre a quelle bancarelle che maggiormente riescono a soddisfare i propri bisogni. E anche per quanto concerne la scuola, la laicità nell’insegnamento è diventata una parola d’ordine, per fortuna dovremmo dire, e l’ora di religione tenta con fatica di mantenere nella scuola la memoria culturale del cristianesimo e dei suoi valori. Anche la famiglia, il terzo elemento, non è esente da questo complesso congedo educativo. I genitori spesso fanno fatica a ritrovare un modello educativo sicuro da applicare. Ogni giorno si tenta un’azione educativa significativa e non di rado si registrano insuccessi, si registrano fallimenti. Se dovessimo parlare poi della fede, succede spesso che gli stessi genitori credenti alle volte hanno difficoltà a comunicare la fede ai figli, hanno perso le parole giuste e buone, perché anche in loro forse la fede è attraversata dal dubbio, dalla crisi o dalla semplice abitudine4. Qual è, dunque, il problema di fondo che si cela dietro questi “congedi educativi”? Si tratta probabilmente di una condizione nuova, inedita fino ad oggi, 150 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” che domanda una nuova inculturazione della fede. Siamo entrati in una fase di grande transizione culturale, nella quale gli equilibri precedenti si sono disgregati. Venuto meno il contesto di cristianità, nel quale si nasceva già cristiani, il modello che per secoli si è mostrato efficace ora rivela molteplici tratti di inadeguatezza. Siamo posti così di fronte all’esigenza di individuare un modo nuovo di inculturare la fede, capace di aiutarci a stare nel mondo di oggi, nella sua complessità, senza smarrire la grazia del Vangelo. E questo diventa un passaggio necessario, dal momento che nella società attuale la fede si presenta ormai come un’opzione tra le tante, non più l’unica possibile, nell’orizzonte di una geografia plurale dei vissuti credenti. Volendo provare a disegnare i tratti con cui si mostrano i volti dei credenti di oggi, è piuttosto frequente trovarsi di fronte ad alcuni che si sono allontanati dalla Chiesa con un sentimento di aggressività nei suoi confronti o magari ad altri che continuano la pratica cristiana, ma con una mentalità secolare, uomini e donne che hanno una religiosità privata, à la carte, ritagliata a misura sui loro gusti personali, e infine persone che sono tranquillamente non credenti, ma ricche di una loro interiorità e di una spiritualità non religiosa che rende più forte e caratterizzante la loro vita5. Di fronte a questo scenario come ha reagito la Chiesa italiana? È sufficiente in questa sede prendere in considerazione solo pochi elementi, che richiamano alcune scelte fatte proprie dalle nostre Chiese in questi ultimi anni. Si pensi, in primo luogo, alla spinta missionaria data a tutta la pastorale ecclesiale, nella linea del primo annuncio. Dovunque oggi viene chiamato in causa il primo annuncio, con le sue prerogative e le sue chances, quasi fosse la risoluzione a tutte le questioni della catechesi odierna. Se ne parla nel documento sul volto missionario delle parrocchie6, nella nota sul primo annuncio7, nella lettera ai cercatori di Dio8 ed anche nella lettera ai catechisti per il quarantesimo del documento base9; si tratta, quindi, di un’insistenza che merita un’attenzione particolare10. In particolare nel documento sul volto missionario delle parrocchie si profila con grande lucidità il cambiamento in atto e si invita a raccogliere la sfida. Vi sono indicate le due possibili derive per le nostre comunità ecclesiali: l’autoreferenzialità da una parte e la riduzione della parrocchia ad un centro di servizi religiosi dall’altra. Viene dunque riproposto il volto di una Chiesa vicina alla vita della gente, si invita a ripartire dal primo annuncio, viene indicata nella pastorale integrata o a rete la via da percorrere a servizio del Vangelo11. Accanto a questo c’è un secondo elemento che mi pare derivante dal primo. La seconda conversione che la Chiesa italiana va vivendo in questo contesto SABATO 16 NOVEMBRE - 151 riguarda il ripensamento del modello di iniziazione cristiana in prospettiva catecumenale. I vescovi italiani sono tornati sul tema a più riprese; mi riferisco alle tre note sull’iniziazione cristiana che rappresentano una via nuova con cui confrontarsi in merito ai percorsi di educazione alla fede12. Vale la pena richiamare in questa sede quanto afferma il “Direttorio generale della catechesi” a proposito dei tratti caratterizzanti il percorso di iniziazione cristiana di marca catecumenale: «La concezione del catecumenato battesimale, come processo formativo e vera scuola di fede, oltre alla catechesi post-battesimale chiede una dinamica e alcune note qualificanti: l’intensità e l’integrità della formazione; il suo carattere graduale, con tappe definite; il suo legame con riti, simboli e segni, specialmente biblici e liturgici; il suo costante riferimento alla comunità cristiana» (n. 91). Ed in ultimo il terzo elemento di conversione della pastorale nella Chiesa italiana. Mi riferisco alla considerazione secondo cui l’annuncio del Vangelo deve essere rimodulato a partire dagli snodi fondamentali della vita, così come il Convegno nazionale di Verona ha affermato13. Siamo passati da un’impostazione dell’evangelizzazione o comunque del vissuto ecclesiale incentrata sui compiti fondamentali della comunità, cioè l’annuncio, la liturgia e la carità, ad un paesaggio nuovo che parte dalla persona, dall’esigenza di unità piuttosto che da un’articolazione interna della Chiesa. Nel documento di Verona i Vescovi scrivevano: «Mettere la persona al centro costituisce una chiave preziosa per rinnovare in senso missionario la pastorale e superare il rischio del ripiegamento, che può colpire le nostre comunità»14. Si tratta così di riscoprire il senso ultimo dell’educazione nella fede che è quello di dare una forma cristiana alla vita quotidiana. Allo stesso tempo questo cambio di paradigma evidenzia la rilevanza antropologica dell’educazione cristiana, che ha come scopo quello di formare l’uomo in tutte le sue dimensioni personali e relazionali a immagine dell’uomo perfetto che è Gesù Cristo. A ciò si deve aggiungere pure che ulteriore elemento rilevante di questa transizione paradigmatica è che si permette di ricondurre la molteplicità dell’azione educativa e pastorale all’unità della persona e della sua coscienza, alla formazione completa della sua identità nelle relazioni affettive, in rapporto al tempo del lavoro e del riposo, nel campo della cittadinanza, nell’esperienza quotidiana dei limiti e delle fragilità, e in tutte le dinamiche di trasmissione della vita e della fede15. Questi tre percorsi di conversione cosa hanno procurato in genere nelle nostre Chiese in Italia? Sicuramente hanno messo in atto delle ripartenze ed iniziato – da un po’ di tempo a questa parte – il tempo dei “piccoli passi”, delle 152 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” sperimentazioni, dei tentativi di rinnovamento delle prassi in atto. È stato inaugurato il tempo della creatività pastorale e non sono state offerte ricette ma sono stati aperti percorsi, mi pare. Chi ha a che fare con la catechesi sa bene che in diverse diocesi d’Italia sono stati attivati tentativi di sperimentazione soprattutto in riferimento a percorsi di iniziazione cristiana che, mi pare, stiano spostando l’attenzione da un modello che ormai era logoro verso un nuovo ideale di iniziazione alla vita cristiana16. 3. Tutto questo con quale stile? Qual è il nuovo stile di annuncio che questi tre percorsi di conversione chiedono? Anche qui faccio riferimento a tre cambiamenti di prospettiva. In primo luogo occorre considerare come l’accoglienza del Vangelo oggi si caratterizzi radicalmente per essere un’esperienza di libertà. Noi siamo passati dall’antico adagio dei tempi di Tertulliano, secondo il quale “cristiani non si nasce ma si diventa”, ad un secondo passaggio secondo cui si poteva dire “si nasce cristiani e non si può non esserlo”, ad un terzo passaggio, che è poi quello di oggi: “cristiani non si nasce, si può diventarlo, ma questo tante volte non è percepito come necessario per vivere umanamente la propria vita”. Se non si nasce cristiani lo si può diventare, ecco l’opzione, opzione che è una scelta tra le altre. Siamo cioè in un contesto nel quale la libertà è rimessa fortemente in gioco. Il contesto odierno permette in qualche modo un recupero di questa dimensione originaria dell’esperienza credente, cioè il fatto che c’è una libertà che viene provocata ad una scelta. Se in una società cristianizzata paradossalmente non era necessario evangelizzare, perché si nasceva già cristiani, la nuova situazione culturale nella quale noi viviamo oggi chiede il ritorno ad una inedita capacità di proporre il Vangelo, chiede che torniamo a dire che Gesù è il nostro Salvatore, che torniamo a proporre il cuore del suo Vangelo. Accanto a questo ne aggiungerei un altro che ha a che fare con lo stile della proposta, fatto di gratuità e libertà. Questo tratto dell’evangelizzazione e comunque dell’educazione alla fede rappresenta la condizione prima di una possibile ri-accoglienza del Vangelo. Ciò comporta che chi annuncia non pretenda mai di mettere le mani sulla risposta e non giudichi mai la risposta della persona. A tal proposito i vescovi lombardi in un documento sulla sfida della fede e il primo annuncio affermano: «La Chiesa di oggi è chiamata a guarire, accompagnare, sanare in modo assolutamente gratuito ogni accesso alla fede, senza insinuare il sospetto che lo faccia perché il destinatario della sua azione possa diventare cristiano e discepolo. Ciò che sta in cima ai nostri pensieri SABATO 16 NOVEMBRE - 153 e che muove le nostre azioni è la gioia di rendere possibile che ogni uomo o donna che bussa alla porta della vita e delle nostre comunità diventi liberamente il discepolo credente»17. Questo sul piano educativo penso abbia da dire molto in rapporto ad uno stile di accompagnamento anche nell’esperienza della fede. La libertà invoca la gratuità nella proposta. Il terzo passaggio è che lo stile dell’annuncio oggi deve fare i conti con il recupero della gradualità e della organicità della proposta della fede. In una parola, con la dimensione iniziatica. Qui si tratta di recuperare e mettere in atto tutto il processo di introduzione alla fede, perché la proposta non incontri solo l’intelligenza delle persone. Il rischio è infatti quello di una catechesi pensata solo come una dottrina, ritenendo come unico intento quello di riempire le teste delle persone di contenuti. Al contrario, si ha bisogno di recuperare un percorso iniziatico che sia in grado di coinvolgere tutte le dimensioni della vita delle persone. Di qui nasce allora uno sguardo sulla comunità ecclesiale che oggi è chiamata a recuperare un volto generativo della fede e rigenerativo di se stessa nella fede. In tal senso lo stile della libertà, lo stile della gratuità, lo stile della gradualità contribuiranno a dare un volto nuovo alla Chiesa. Si sa bene che, soprattutto i giovani, oggi vivono in maniera forte non tanto un rifiuto del Vangelo, quanto una difficoltà a fare i conti con una comunità cristiana. Se ci riferiamo ad alcune recenti indagini sui giovani e la fede, ci rendiamo conto di come spesso si esplicita una distinzione chiara tra la piccola Chiesa del quotidiano e la Chiesa istituzionale, indicando la prima come caratterizzata dalle relazioni e quindi abitabile, e addirittura simpatica ai giovani, e l’altra come piuttosto problematica. Allora la domanda in rapporto allo stile di chiesa è: “Perché la Chiesa oggi rappresenta per molti giovani un ostacolo piuttosto che un segno?”. Di fronte a tale interrogativo non possiamo nasconderci, a mio parere, dietro la falsa motivazione che è tutto un problema di rinnovamento dei metodi, o meglio, non è solo questo ma è innanzitutto questo. La ragione di fondo è che «le parole del Vangelo non parlano più alla Chiesa stessa. Non sono parole di Vangelo che manifestano e incrociano quell’autenticità che i giovani cercano. La crisi della comunicazione della fede rinvia la Chiesa a un rinnovato ascolto del Vangelo»18. A questo si aggiunga il fatto che spesso si riduce il tema della conversione della Chiesa ad una questione individuale dei singoli cristiani, senza saperla coraggiosamente coniugare all’interno di un quadro che è quello istituzionale. Ancora Castegnaro afferma che «la conversione spirituale soggettiva deve anche coraggiosamente diventare “riforma strutturale”, perché 154 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” il Vangelo sia comunicato dalla Chiesa in maniera coerente sia dalle sue parole sia dalla figura che essa si dà nella storia»19. Si tratta allora di passare da una Chiesa che sta alla finestra della storia, che magari giudica la storia, stabilendo una terapia per i suoi mali, a una Chiesa che prova a stare dentro la storia come compagna di viaggio, pronta a mettere in comune ciò che di più caro ha - il dono del Vangelo -, ma anche pronta a ricevere una parola di Vangelo che il Signore riserva per lei nelle donne e negli uomini di oggi, sia credenti che non. In una Chiesa maggiormente ospitale e abitabile si può diversamente affrontare la questione dell’educazione alla fede, soprattutto dei giovani. È il caso qui di richiamare una bella formula che Giovanni Paolo II utilizzò - nell’omelia della Veglia a Tor Vergata - durante la GMG del 2000 quando, parlando della Chiesa, la definì “un grande laboratorio della fede”20. Prospettava quasi un passaggio profetico da una Chiesa museo ad una Chiesa laboratorio. «Una Chiesa museo è quella che conserva il deposito della fede senza lasciarlo toccare, magari con l’allarme attivato se si avvicina troppo e con qualche custode pronto a rimproverarti. Questa Chiesa non interessa se non ai collezionisti di ricordi. Una Chiesa laboratorio invece è una bottega che trasmette un sapere, che insegna un saper essere e un saper fare (di vita e di fede) e lo affida alla creatività di chi lo riceve»21. Del resto non è sempre stata questa la dinamica della fede che vive di trasmissione, di accoglienza e di rielaborazione? Questi sono i processi che da sempre caratterizzano il dato della fede: qualcuno che trasmette l’annuncio e qualche altro che lo accoglie e lo rielabora nella propria vita per poterlo riconsegnare. I giovani non sembrano disinteressati alla tradizione della fede, vogliono piuttosto prendersi il tempo di accoglierla, vogliono guardarci dentro, vogliono rielaborarla, la vogliono smontare e rimontare come si fa in una bottega, assumendosi anche il rischio di qualche sbaglio. Essi chiedono la logica del laboratorio e non quella del museo, chiedono una Chiesa in cui ci siano luoghi per sperimentare tutto questo, in modo che l’educazione alla fede rappresenti per loro un vero e proprio apprendistato, un tirocinio. Questo laboratorio della fede mi pare che abbia tre reparti tra loro comunicanti: le credenze (il contenuto della fede), i riti (che servono come percorso per rieducare alla pratica cristiana) e le regole (per educare il desiderio)22. Mi fermo solo ad accennare questa tripartizione senza avventurarmi in ulteriori approfondimenti. 4. Mi interessa invece andare all’ultimo passaggio e vorrei aprire alcune finestre. Lo faccio sulla base dell’esperienza maturata negli anni in cui ho servito SABATO 16 NOVEMBRE - 155 l’Associazione come Assistente, con la speranza che la memoria non mi tradisca troppo, che i ricordi non siano diventati troppo lontani e che certi snodi ancora oggi mantengano la loro vivacità all’interno dei vissuti associativi. Le finestre da aprire sono cinque. a. Anzitutto uno sguardo aderente alla realtà che i ragazzi vivono. Saper stare nella complessità del cambiamento in atto da educatori, e da educatori alla fede, significa percepire che i nostri ragazzi vivono nella loro vita la transizione di cui abbiamo parlato anche a proposito del loro rapporto con la fede. Sempre meno provengono da famiglie che li hanno accompagnati nei primi anni della vita anche in un ingresso nell’esperienza credente. Per loro, dunque, la fede costituisce piuttosto un elemento accessorio, non indispensabile, forse anche di poca utilità per la vita che desiderano vivere e le rappresentazioni dei vissuti credenti che vanno maturando sono spesso condizionate da visioni contaminate o quanto meno parziali. La lucidità dello sguardo sulla biografia della fede dei ragazzi, dunque, è necessaria per cogliere come i cambiamenti in atto toccano nel vivo anche la loro vita e interpellano gli educatori a transizioni necessarie nella loro proposta di fede. b. Da questa prima finestra s’intravede immediatamente l’altra e cioè che i vissuti dei nostri ragazzi chiedono un’educazione alla fede che vada nella linea del primo annuncio. Se anche loro ormai ci dicono che non sono nati cristiani, o quanto meno nel bagaglio della loro vita cristiana c’è il sacramento del Battesimo e forse anche gli altri sacramenti dell’IC come “tasselli dovuti” e nulla più, accettare la sfida di accompagnarli nell’esperienza della fede significa essenzialmente permettere un incontro libero e liberante con la forza e la bellezza del Vangelo capace di significare i loro vissuti e di sostenere le loro scelte. c. Un incontro del genere non può realizzarsi senza la messa in gioco di qualcuno che annunci loro il Vangelo. Si apre qui una terza importante finestra di riflessione che riguarda il vissuto credente del capo. La fede vive di un processo di comunicazione, nel quale qualcuno consegna all’altro una parola di Vangelo che ha, anzitutto, convinto e coinvolto la propria vita. Non si tratta mai, pertanto, di un annuncio “neutrale”, ma piuttosto di quanto il Vangelo ha compiuto nella propria esistenza. Qui si intravede una grande sfida per il capo educatore che mi piace esplicitare in questi termini: i nostri ragazzi, attendendo da noi una parola di Vangelo, sono in grado di evangelizzarci loro per primi. La loro vita, infatti, rappresenta una storia sacra nella quale lo Spirito, prima di noi, va già compiendo la sua opera. Per questo la loro presenza nella vita degli educatori è capace di interpellare gli stessi adulti in merito al loro vissuto credente. Possiamo pensare 156 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” questa condizione come occasione di secondo annuncio o di un secondo primo annuncio23. Il servizio educativo, infatti, diventa opportunità perché i capi stessi accettino di essere rievangelizzati, proprio da coloro ai quali essi devono portare il Vangelo. Qui si inserisce il grande tema della formazione degli adulti e il primato nell’educazione alla fede proprio degli adulti (cf. scelta del DB). d. Un’ulteriore finestra di riflessione è sicuramente il ruolo del gruppo e delle singole branche come luogo ideale per realizzare l’apprendistato/tirocinio della fede di cui si parlava sopra. Non c’è contesto migliore, tenendo conto di tutte le possibilità che il metodo scout offre, di vivere l’esperienza di gruppo e quindi di branca come opportunità per i ragazzi di sperimentarsi in quello che è stato definito il “laboratorio della fede”, nel quale possono accostarsi ai contenuti della fede e ai vissuti credenti nella logica di una progressione educativa per la quale il metodo scout ha tutti gli strumenti idonei a realizzarla. A questo è legata la dimensione iniziatica della vita credente, che si esplicita nei processi di iniziazione cristiana e che unisce insieme formazione alla vita cristiana e sperimentazione della stessa. Anche da questo punto di vista il metodo scout possiede un’idea educativa di fondo che non può che facilitare la scansione dell’esperienza credente secondo tappe di maturazione. e. E, da ultimo, la finestra che si affaccia sul rapporto tra scoutismo e vita della comunità cristiana, nello specifico quella della parrocchia. L’esperienza della fede cristiana ha un tratto essenziale che è dato dalla sua ecclesialità. Non ci può essere un “io credo”, che nasce, si sviluppa, cresce e matura a prescindere da quel contesto originario – la chiesa – in cui la stessa esperienza del credere si rende possibile. Il “noi crediamo”, dunque, fonda e crea le condizioni di possibilità per l’”io credo”. Questo elemento non è trascurabile nell’educazione alla fede perché mostra il “noi ecclesiale” come generatore di esistenza credente, ma allo stesso tempo come contesto-soggetto ineludibile negli stessi percorsi di fede. In tal senso i percorsi di educazione alla fede in Agesci non possono non avere chiari e far funzionare la relazione tra gruppo e comunità ecclesiale, che definirei nei termini di una “mutua dipendenza”. Mi spiego. Alla missione specifica di una parrocchia o, più in genere, di una comunità ecclesiale, la proposta scout offre il proprio specifico contributo e lo fa con un proprio metodo e dei percorsi definiti di educazione alla fede. L’orizzonte ultimo di senso, però, non può che essere, almeno in termini di vita credente, l’accompagnamento dei ragazzi verso un vissuto di fede in grado di esibire chiari tratti di ecclesialità. Questo significa che lo scoutismo come proposta educativa non può sostituirsi al ruolo della comunità ecclesiale. Deve, SABATO 16 NOVEMBRE - 157 piuttosto, permettere di sperimentare un’appartenenza reale e un inserimento progressivo nella vita della comunità, evitando percorsi paralleli che corrono il rischio di non consentire mai ai ragazzi di incrociare il soggetto ecclesiale in nome del quale, in fondo, gli stessi percorsi associativi esistono. Tra comunità cristiana e gruppo devono essere resi possibili, piuttosto, transiti facili e frequenti. Così emergerà il ruolo funzionale dell’esperienza associativa nella sua relatività rispetto alla vita della comunità, lungi da ogni lettura nei termini di un assoluto in sé autosufficiente oltre che autoreferenziale. BREVE CURRICULUM Vito Mignozzi è presbitero della diocesi di Castellaneta (TA). Ha svolto per circa un decennio il servizio di Assistente in Agesci. Attualmente nella sua Chiesa locale è direttore dell’Ufficio catechistico diocesano. Insegna Ecclesiologia e Teologia Sacramentaria nell’Istituto Teologico Regina Apuliae della Facoltà Teologica Pugliese. Ha al suo attivo diversi studi su questioni ecclesiologiche. È membro dell’Équipe che sta realizzando il Progetto Secondo annuncio. 1 Sulla questione sono tornati in modo molto chiaro gli Orientamenti pastorali del decennio in corso, dove si legge che «l’iniziazione cristiana mette in luce la forza formatrice dei Sacramenti per la vita cristiana, realizza l’unità e l’integrità fra annuncio, celebrazione e carità, e favorisce alleanze educative. Occorre confrontare le esperienze di iniziazione cristiana di bambini e adulti nelle Chiese locali, al fine di promuovere la responsabilità primaria della comunità cristiana, le forme del primo annuncio, gli itinerari di preparazione al battesimo e la conseguente mistagogia per i fanciulli, i ragazzi e i giovani, il coinvolgimento della famiglia, la centralità del giorno del Signore e dell’Eucaristia, l’attenzione alle persone disabili, la catechesi degli adulti quale impegno di formazione permanente». CEI, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, 4 ottobre 2010, n. 54. 2 «Per molti, i termini catechismo o catechesi evocano un insegnamento rivolto quasi esclusivamente ai fanciulli, senza sviluppi nelle età successive. Crescerebbe così l’uomo e non crescerebbe in lui il cristiano. Occorre invece comprendere che, in tutte le età, il cristiano ha bisogno di nutrirsi adeguatamente della parola di Dio. Anzi, gli adulti sono in senso più pieno i destinatari del messaggio cristiano, perché essi possono conoscere meglio la ricchezza della fede, rimasta implicita o non approfondita nell’insegnamento anteriore. Essi, poi, sono gli educatori e i catechisti delle nuove generazioni cristiane. Nel mondo contemporaneo, pluralista e secolarizzato, la Chiesa 158 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” può dare ragione della sua speranza, in proporzione alla maturità di fede degli adulti». CEI, Il rinnovamento della catechesi, Edizioni Conferenza Episcopale Italiana, Roma 1970, n. 124. 3 E. B IEMMI, Il secondo annuncio. La grazia di ricominciare, EDB, Bologna 2011, pp. 7-11. 4 Cf. E. B IEMMI, Il secondo annuncio, p. 11-12. 5 Cf. E. BIEMMI, Il secondo annuncio, p. 18; A. CASTEGNARO – G. DAL PIAZ – E. BIEMMI, Fuori dal recinto. Giovani, fede, chiesa: uno sguardo diverso, Ancora, Milano 2013, pp. 81-97. 6 CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia. Nota pastorale, 30 maggio 2004, n. 6 7 COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, L’ANNUNCIO E LA CATECHESI, “Questa è la nostra fede”. Nota pastorale sul primo annuncio del Vangelo, 15 maggio 2005. 8 COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, L’ANNUNCIO E LA CATECHESI, Lettera ai cercatori di Dio, 12 aprile 2009. 9 COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, L’ANNUNCIO E LA CATECHESI, Annuncio e catechesi per la vita cristiana. Lettera alle comunità, ai presbiteri e ai catechisti nel Quarantesimo del Documento di base Il rinnovamento della catechesi, 4 aprile 2010, nn. 10.14. 10 Di recente sono tornati sul tema anche gli Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia – Incontriamo Gesù – pubblicati dalla CEI il 29 giugno 2014. Al nostro argomento sono dedicati i nn. 35-41. Cf. CEI, Incontriamo Gesù. Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia, EDB, Bologna 2014, pp. 51-62. 11 «Questa figura di parrocchia si trova minacciata da due possibili derive: da una parte la spinta a fare della parrocchia una comunità “autoreferenziale”, in cui ci si accontenta di trovarsi bene insieme, coltivando rapporti ravvicinati e rassicuranti; dall’altra la percezione della parrocchia come “centro di servizi” per l’amministrazione dei sacramenti, che dà per scontata la fede in quanti li richiedono. La consapevolezza del rischio non ci fa pessimisti: la parrocchia nel passato ha saputo affrontare i cambiamenti mantenendo intatta l’istanza centrale di comunicare la fede al popolo. Ciò tuttavia non è sufficiente ad assicurarci che anche nel futuro essa sarà in grado di essere concretamente missionaria. Perché ciò accada, dobbiamo affrontare alcuni snodi essenziali. Il primo riguarda il carattere della parrocchia come figura di Chiesa radicata in un luogo: come intercettare “a partire dalla parrocchia” i nuovi “luoghi” dell’esperienza umana, così diffusi e dispersi? Altrettanto ci interroga la connotazione della parrocchia come figura di Chiesa vicina alla vita della gente: come accogliere e accompagnare le persone, tessendo trame di solidarietà in nome di un Vangelo di verità e di carità, in un contesto di complessità sociale crescente? E ancora, la parrocchia è figura di Chiesa semplice e umile, porta di accesso al Vangelo per tutti: in una società pluralista, come far sì che la sua “debolezza” SABATO 16 NOVEMBRE - 159 aggregativa non determini una fragilità della proposta? E, infine, la parrocchia è figura di Chiesa di popolo, avamposto della Chiesa verso ogni situazione umana, strumento di integrazione, punto di partenza per percorsi più esigenti: ma come sfuggire al pericolo di ridursi a gestire il folklore religioso o il bisogno di sacro? Su questi interrogativi dobbiamo misurarci per riposizionare la parrocchia in un orizzonte più spiccatamente missionario». CEI, Il volto missionario delle parrocchie, n. 4. 12 CEI, L’iniziazione cristiana 1. Orientamenti per il catecumenato degli adulti. Nota pastorale del Consiglio Episcopale Permanente, 1997; L’iniziazione cristiana 2. Orientamenti per l’iniziazione dei fanciulli dai 7 ai 14 anni. Nota pastorale del Consiglio Episcopale Permanente, 1999; L’iniziazione cristiana 3. Orientamenti per il risveglio della fede e il completamento dell’iniziazione cristiana in età adulti. Nota pastorale del Consiglio Episcopale Permanente, 2003. Negli Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia è dedicato l’intero capitolo terzo al tema. Cf. CEI, Incontriamo Gesù, pp. 67-91. 13 CEI, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo - Atti del 4° Congresso ecclesiale nazionale, Verona, 16-20 ottobre 2006. Rimando per un approfondimento interessante a G. Z IVIANI, La persona cuore della pastorale, in: Rivista del clero italiano, 90 (2009) 5, pp. 336-349. 14 CEI, “Rigenerati per una speranza viva” (1Pt 1,3): testimoni del grande “sì” di Dio all’uomo, Roma, 27 settembre 2007, n. 22. 15 Cf. A. TONIOLO, La missione educativa della Chiesa nel contesto culturale odierno, in: 16 Cf. E. B IEMMI, Il secondo annuncio, pp. 28-31. Catechesi 4(2010-2011), pp. 13-30, qui p. 28. 17 VESCOVI DELLE DIOCESI LOMBARDE, La sfida della fede: il primo annuncio, EDB, Bologna, 2009, pp. 40-41. 18 A. CASTEGNARO – G. DAL P IAZ – E. B IEMMI, Fuori dal recinto, p. 196. 19 Ibidem 20 Negli Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia si precisa cosa si intende per laboratorio: «Il termine laboratorio non ha il senso di contenitore strumentale, tecnico o metodologico, ma come espressione di un’azione nella quale perizia e creatività, maestranza e apprendistato, si compongono per dare vita ogni volta a qualcosa di nuovo dentro una tradizione». CEI, Incontriamo Gesù. p. 66. 21 A. CASTEGNARO – G. DAL P IAZ – E. B IEMMI, Fuori dal recinto, p. 199. 22 Per un approfondimento si veda A. CASTEGNARO – G. DAL P IAZ – E. B IEMMI, Fuori 23 Sul tema si veda il già citato E. B IEMMI, Il Secondo annuncio. È possibile seguire dal recinto, pp. 199-202. l’evoluzione del tema e del progetto anche sul sito www.progettosecondoannuncio.it. 160 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” LORETO Intervento del prof. Mauro Magatti La fede nel nostro tempo Non è un compito facile parlare della fede in questo nostro tempo così complicato e che, per alcuni aspetti almeno, sembra così ostile all’esperienza religiosa. Eppure, come tutti i tempi complicati, è anche entusiasmante: al suo interno ci sono grandi sfide che investono prima di tutto i giovani. Per descrivere l’esperienza che viviamo mi piace un’espressione usata da un teologo che dice “guardando la crisi finanziaria e la disoccupazione dei giovani e tutto quello che sta succedendo, si capisce come l’amore di sé e l’ossessione della propria libertà individuale arrivano al punto da fermare la storia”. Questa espressione ci fa riflettere sul fatto che, sorprendentemente, in occidente, nelle democrazie avanzate, il futuro sembra non ci sia più. Non siamo più in grado di pensare cosa ci potrà essere di bello tra 50 anni, non abbiamo più nessuna proiezione verso il futuro. Siamo liberi, viviamo in mezzo al benessere e alla tecnologia più avanzata, godiamo dei vantaggi di una democrazia avanzata. Ma non sappiamo dove andare. Questo amore di sé che ferma la storia è evidente in tante esperienze che tutti facciamo: mancanza di senso, slegamenti sociali, disuguaglianze, ingiustizie, depressione. In realtà, noi viviamo in un’epoca che è segnata da un profondo tratto nichilistico. Nichilismo vuol dire mancanza di fondamento, inconsistenza fondamentale. Per questo, viviamo in un tempo in cui non c’è niente: come recita il titolo dell’ultimo libro di Milan Kundera, viviamo (felicemente?) immersi nella festa dell’insignificanza. Per non soffrire troppo e tenerci aperte tutte le possibilità, rendiamo sottile la realtà, fino a farla sparire. Come accade drammaticamente quando due persone, dopo aver vissuto insieme per 20 anni, si lasciano dicendosi che vogliono cominciare un’altra vita. Di colpo, 20 anni di vita spariscono e di essi non resta niente. Per quanto cerchiamo di sterilizzarci, l’esperienza del niente è sempre un’esperienza drammatica. L’idea di libertà che abbiamo sviluppato è l’idea di totale apertura che si traduce nella vita con la domanda “perché no?” Oggi essere liberi vuol dire essere aperti. SABATO 16 NOVEMBRE - 161 Il che è anche una cosa bella: i mistici sono persone aperte! Ma essere genericamente aperti a quello che si potrà incontrare ci espone al rischio di perderci, sia perché possiamo incontrare qualunque cosa, sia perché possiamo incontrare a ripetizione e alla fine non sapere più dove si sta andando. C’è un altro termine, come dicono gli psicanalisti, che definisce questo tempo: tempo incestuoso. Incestuoso in quanto nichilistico e totalmente aperto. L’incesto è un tabù che ordinava fin dall’antichità, il divieto assoluto di rapporti sessuali tra familiari. Attraverso questo divieto, l’incesto è una legge che spinge verso l’altro. Invece, noi viviamo in un tempo dove tutto è possibile. È un tempo incestuoso perché non c’è legge. Siamo convinti che per essere liberi dobbiamo ammettere che qualunque cosa possibile si possa fare. Ma ciò vuol dire creare le premesse per un tempo incestuoso, in cui può succedere di tutto. Basta aprire i giornali, guardare quello che accade nel mondo. Ne deriva un mondo di plastica, tutto molle, che produce da un lato la ricerca dell’eccesso – come via per sentire qualcosa – e dall’altro, la reazione del fondamentalismo. I fondamentalismi sono presenti in tutto il mondo in quest’epoca nichilista. Ne sono l’altra faccia: potremmo dire che il fondamentalismo è la risposta nevrotica alla perversione nichilista: non sapendo più cosa fare per fermare la deriva a cui ci si sente esposti, al crollo di ogni certezza ci si attacca a qualcosa che sembra solido e si prova a resistere facendo riferimento a un fondamento che non si possa mettere in discussione (la razza, la terra, il dio-idolo). Da quanto detto finora, mi sembra evidente che questo sia un tempo in cui la qualità della nostra esperienza umana è gravemente depauperata. Raimon Panikkar filosofo, teologo, mistico morto qualche anno fa, diceva così ”la nostra esperienza umana si basa su tre occhi: l’occhio del corpo (la sensibilità, ciò che noi sperimentiamo attraverso i sensi), l’occhio dell’intelletto (ciò che noi sperimentiamo attraverso la parola, il ragionamento) e l’occhio dello spirito (ciò che ci consente di vedere l’invisibile, il mito, il sacro). Nel nostro tempo, che pretende di aver risolto tutti i problemi del mondo, il terzo occhio è stato cancellato. Viviamo in un mondo che è fatto tutto dall’uomo, in cui l’occhio del corpo è iper-sollecitato. Siamo continuamente iperstimolati sensorialmente e non ci badiamo neanche più. La nostra esperienza è tutta dentro un mondo fatto dall’uomo, in cui il terzo occhio è completamente appannato. Inoltre, per quanto riguarda l’occhio dell’intelletto, sempre di più diventa l’occhio della ragione tecnica. Ma la ragione non è solo calcolante, è anche una ragione argomentante. Se siamo d’accordo solo sul 2 + 2 fa 4 e nient’altro, se solo questa è la 162 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” verità attorno alla quale possiamo convenire, allora scompare la possibilità di capirsi e comunicare. È quindi la nostra esperienza che è gravemente depauperata: tendenzialmente perdiamo un occhio, il secondo occhio lo usiamo per metà e il primo occhio è continuamente eccitato. In questo quadro, la premessa fondamentale è che non si può trasmettere la fede ai giovani se non li si educa ad avere un’esperienza umana più equilibrata e più ricca, perché la fede non è un insieme di discorsi, di dogmi, ma è prima di tutto un’esperienza. E dato che la nostra esperienza umana è gravemente malata, è impossibile trasmettere la fede se non li si aiuta a usare tutti e tre gli occhi, ad avere un’esperienza umana più ricca di quella che fanno normalmente. Altrimenti adoperando solamente il primo occhio e mezzo, non capiranno mai cosa è la fede. Per capire come si possa fare, faccio un esempio che per uno scout è semplice cogliere: stare nella natura. Andare in un bosco, camminare in montagna, scendere un fiume sono fatti dirompenti. La ragione è quello che ho detto prima: stando nella natura è possibile porsi domande che in un contesto cittadino sono inconcepibili. L’altra cosa che vorrei sottolineare è questa: fede, fiducia, affidamento, fidanzamento, fedeltà, sono tutte parole che hanno la stessa radice fides che in latino vuol dire corda, legame, cioè qualcosa che tiene insieme. Fedeltà è tenere insieme la stessa corda, che poi è la corda della vita. Così è chiaro che la fede non è un insieme di contenuti, è un’esperienza che riguarda il senso della vita. Vita che qualcuno prima di me mi ha dato e che ho la responsabilità di passare a quelli che verranno dopo. Come si può dunque tradurre questo compito pensando ai ragazzi di oggi? Non abbiamo nessuna risposta. Siamo tutti in ricerca. Mi limito a sottolineare alcuni aspetti. Primo, il desiderio: non c’è esperienza religiosa che non abbia a che fare con il desiderio. Il desiderio di un’esperienza umana piena, ricca. Desiderio di non essere capitati nell’assurdo e di trovare un senso. Il vangelo risponde e rilancia il desiderio. Secondo, la testimonianza: il testimone è qualcuno che attesta ciò che ha visto. Noi non possiamo passare quel che non abbiamo. Dunque non ci può essere un educatore alla fede che non faccia un percorso di ricostruzione della sua storia e non sia in grado di rileggerla. SABATO 16 NOVEMBRE - 163 Terzo, la legge. Che non è una riduzione della libertà. Perché andare nel deserto senza un punto di riferimento significa perdersi. La legge sono i segnali utili a mantenere dei punti di riferimento e dato che non siamo onnipotenti, è chiaro che qualcuno ci ha dato quei punti di riferimento. Quarto, la narrazione. La fede è una narrazione nella tua vita. È la narrazione di un popolo prima di noi, l’essere legati ad una storia. Gesù è uno che non ha scritto una riga, ma ha vissuto e ha raccontato. La fede è l’esperienza di una vita che si racconta e di un popolo che cammina. Raccontare la vita (la propria, quella dei santi, quella dei martiri) aiuta i ragazzi a rileggere la loro vita. Noi ci sentiamo padroni della vita, ma siamo solo una canoa che scende il fiume della vita. Possiamo raccontare il pezzo di fiume che abbiamo percorso, ma riconoscendo che questa vita è più grande di noi. Questo è il presupposto per trasmettere la fede: aiutare noi stessi e i ragazzi a uscire da questo delirio individualistico contemporaneo. Quinto, il rito, che è un momento collettivo e soprattutto non solo razionale che coinvolge il terzo occhio, quello del sacro e dell’invisibile. Ma affinché ciò avvenga, nel rito i gesti devono essere pensati, curati, amati. Occorre porre attenzione al rito affinché non cada nella sciatteria! L’efficacia della trasmissione della fede sta inoltre nell’essere un momento costitutivo del vostro essere capi. Trovate quindi il modo di farlo emergere nelle vostre attività, oppure diventerà una cosa posticcia e inefficace. La fede o investe la persona intera – la vostra persona – oppure non può essere trasmessa. Chiudo con un’ultima considerazione. Viviamo in una cultura individualista in cui si pensa che la fede riguardi solo la coscienza personale. Ma io credo che la religione e nel caso specifico la religione cattolica (ma vale anche per altre confessioni cristiane) sia anche un’esperienza pubblica e non solo un’esperienza intimistica da vivere in privato. La vera libertà non è solo l’espressione delle pluralità dei singoli individui, ma la pluralità di punti di vista collettivi sul mondo. Le religioni hanno la grande responsabilità di essere presenti sulla scena pubblica, alimentandola con quella ricchezza di cui loro sono portatrici. Senza nessuna arroganza o pretesa di dominio, ma nemmeno cedendo ai tentativi di relegare la fede alla sfera puramente privata, perché la religione, per definizione è un’esperienza di popolo. 164 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” LORETO Il dibattito seguito alle due relazioni DOMANDA: – Una domanda al prof. Mignozzi: È necessaria una semplicità e una chiarezza di messaggio, però ci sono determinati ambiti in cui il messaggio non è semplice (il caso della Sacra Scrittura). Quando i ragazzi ti fanno domande sulla formazione della Bibbia, su chi l’ha scritta, su chi è l’autore, la risposta non può esser semplice, può essere fatta di simboli, ma deve essere per forza articolata. E qui vedo una difficoltà, cioè se noi vogliamo fare un discorso serio non possiamo essere diretti, semplici, veloci. Prof. MIGNOZZI: – Sul primo intervento: diciamo che la semplicità può rimanere anche quando le questioni sono grosse. La semplicità la contrapporrei alla banalità e penso che anche in rapporto a questioni grosse, quali quelle legate alla Scrittura e a tutta la sua genesi, possa essere un ambito in cui, con semplicità ma allo stesso tempo con profondità, si fa una proposta formativa che può avere molte chance perché quando parlo come la Scrittura si è formata e di tutte le questioni relative agli autori, posso avere anche un’opportunità di andare oltre, di cogliere che c’è una storia di fede, c’è la storia di popolo che ad un certo momento si è sentito l’esigenza di metterla in una forma scritta per una trasmissione. Anche altre questioni possano essere toccate con grande semplicità ma allo stesso tempo utilizzate come via per una formazione che va oltre quella che è una semplice informazione sui dati relativi alla scrittura. Il pericolo che io vedrei è quello di banalizzare le grandi questioni, la semplicità penso sia il tratto che deve connotare sempre ogni processo di accompagnamento anche nell’esperienza della fede, affinché non si creino equivoci, non si creino percorsi interrotti da certe pre-comprensioni nel nostro accompagnare i ragazzi nell’esperienza della fede. DOMANDA: – Una domanda al prof. Magatti: Come mai non ha messo come sesto punto quello del confronto. Ha citato Panikkar, un teologo cristiano ma anche un buddista, che riusciva quindi a mettere insieme tutte le cose. Egli era un grande comunicatore e un costruttore del dialogo inter-religioso. Panikkar diceva che era talmente convinto della propria fede che nessuno di un’altra fede SABATO 16 NOVEMBRE - 165 poteva fargli cambiare idea. Hegel parla di tesi, antitesi e sintesi, ed è quest’ultima che fa avanzare nello spirito l’umanità. Prof. MAGATTI: – Noi siamo fortunati perché ci capita di vivere in un’epoca in cui le religioni si trovano a condividere il pianeta e questo pone tutta una serie di questioni che erano state affrontate in qualche maniera nel corso dei secoli su estensioni però più piccole e come Panikkar insegna (perché Panikkar è stato grande proprio perché ha cercato fondamentalmente di esplorare nel profondo i punti di comunione tra le diverse esperienze religiose, è stato un esploratore del dialogo). Questo aiuta la fede cristiana, la chiesa cattolica stessa, a crescere, perché il rapporto e la vicinanza con un’altra fede pone domande che sono nuove. E lo fa anche alla nostra stessa fede, al modo con cui concepiamo la fede, al rapporto con gli altri. Quindi questo è un tema all’ordine del giorno, e non è che ci sono dei canoni, delle risposte. È una cosa che nella relazione con i ragazzi che avete nelle unità sarà importante e bisognerà avere il coraggio di cominciare a porre a tema la questione, capire come si può trattare il tema. Sentivo prima che in qualche unità comincia ad esserci la partecipazione di qualche ragazzo islamico. Su questo adesso francamente non ho nessuna indicazione da dare, ma certamente sarà interessante capire come questo tipo di diverso approccio alla fede deve essere gestito quando questa nuova situazione si venisse a creare. Il tema del rapporto tra le religioni è un grande dono di una storia dell’umanità che avanza e che oggi, tra le altre cose, ha sulle spalle la sfida di trovare un modo di convivenza e di scambio tra le diverse esperienze di fede. Spesso, però, e questo in modo drammatico in un’Italia cattolica, siamo inadeguati anche a intrattenere un dialogo inter-religioso pur ad un livello abbastanza semplice come può essere quello che vi può capitare come capi nelle vostre città e nelle vostre situazioni. Guardate che per tenere un dialogo bisogna essere umanamente strutturati nella propria esperienza di fede con un’articolazione (un secondo occhio) anche culturale di quella fede. Il dialogo inter-religioso richiede quindi un impegno serio e non è che lo si affronta così alla leggera. Qualcuno ha detto “oranti in mezzo ad altri oranti”, espressione che sottoscrivo. Certamente il secondo occhio richiede elaborazioni intellettuali e questa è una questione che non si può eludere. Io ho come la sensazione, soprattutto in una cultura occidentale che tende a scristianizzarsi come è stato detto, che abbiamo per la fede lo stesso problema che abbiamo per le lingue straniere. La lingua, anche quella materna, la si impara parlandola e poi quando la parli, studi la grammatica e metti ordine. In Italia invece, in modo del tutto particolare, si insegna 166 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” l’inglese partendo dalla grammatica con la conseguenza che nessuno sa l’inglese, perché è insegnato nel modo sbagliato! E così vale per la fede. Noi siamo passati da un contesto in cui la fede era un dato di fatto, ed in quel contesto era abbastanza facile strutturare l’elemento intellettuale, ad un contesto in cui i nostri ragazzi (o molti di loro) non hanno nessuna esperienza con la fede, Ora, noi non possiamo piantarli lì. La mia sensazione è che la educazione alla fede non possa funzionare così come oggi è strutturata in genere e rischiamo di essere prigionieri di una concezione intellettualistica della fede, che invece sul piano intellettuale è preziosissima! Però la fede è molto di più. È mia convinzione che soprattutto per l’età dei vostri ragazzi sia molto importante accompagnarli ad esperienze che abbiano a che fare con la religione e, sulla base di quelle esperienze, poi recuperare degli elementi anche intellettuali. È la ragione per cui nel vangelo è scritto: “non si può dire di amare Dio senza amare il fratello”, perché amare Dio rischia di essere un’esperienza puramente intellettuale, mentre amare il fratello coinvolge anche il nostro corpo, il nostro tempo, la nostra vita. Ed è chiaro che le due dimensioni devono essere tenute attaccate. DOMANDA: – Una domanda al prof. Mignozzi: La libertà, la gratuità e la carità, penso che il metodo scout abbia molte carte da giocare, proprio come sua storia e come suo modo di porsi all’interno della parrocchia. A proposito di come vivere la missionarietà, a me piace molto l’immagine che ho di Charles de Foucauld e anche di quei Padri Trappisti che nel 1994 vengono uccisi [in Algeria]: loro non si preoccupavano di andare a convertire, ma vivere il vangelo lì, oranti in mezzo ad altri oranti. Domani è il compleanno di Padre Dall’Oglio che è sparito in Siria e lui ha portato avanti il dialogo inter-religioso formidabile. Un pensiero va anche a lui. Prof. MIGNOZZI: – Sono perfettamente d’accordo, la missionarietà è riuscire a stare in questa complessità che è la storia nella quale viviamo, ma con lo stile del vangelo. Forse è questa la grande sfida educativa: riuscire a starci voi e a farci stare i nostri ragazzi ma con la grazia del vangelo, che è la grazia dell’incontro nella persona di Gesù. L’esperienza della fede è essenzialmente questo: non è l’insieme di cose che devi imparare altrimenti non vivi, ma è un’esperienza che dà qualità e senso alla tua vita e ti fa stare con un certo modo e un certo stile in questa complessità che è la storia del mondo, che per chi è credente non è inferiore rispetto a chi non è credente, ma c’è una grazia che ti caratterizza, che ti SABATO 16 NOVEMBRE - 167 struttura, che ti aiuta a vivere il tempo nel quale vivi. Per me quindi è questa la missionarietà: saper stare in questo tempo senza fuggire, senza rinchiudersi, con la grazia del vangelo che dà uno stile alla vita. DOMANDA: – Una domanda al prof. Mignozzi: Lei parlava del rischio di un Gruppo Agesci che in qualche modo possa chiudersi all’ecclesialità. Le chiedo di spiegare meglio questo passaggio perché dall’alto a volte può essere una specifica Agesci della sua idea di ecclesialità, che non è necessariamente il legame con una parrocchia, dall’altra esiste questo rischio che può però essere anche un vantaggio a come trovare un carisma diverso. Prof. MIGNOZZI: – Certo che c’è un rischio di non vivere pienamente l’ecclesialità in certi momenti, in certe esperienze educative. Quando parlavo dell’importanza di collegare il vissuto associativo con il vissuto della comunità ecclesiale, intendevo proprio questo. L’Associazione svolge un servizio fondamentale, utilissimo alla vita della comunità nei termini di educazione alla fede, ma deve tenere conto che è la comunità ecclesiale il grembo, ma anche lo sbocco finale dell’esperienza educativa. E questo è possibile coglierlo se l’Associazione ha un’attenzione costante a far intercettare la vita della comunità, la vita della parrocchia, la vita della diocesi e dei movimenti ecclesiali all’interno della comunità attraverso l’esperienza associativa. Il rischio che io vedo è che c’è l’Associazione da una parte che fa il suo percorso e il suo cammino e quando va bene c’è la scelta di svolgerlo nella comunità, poi però c’è tutto il resto che va per conto suo. Vedo invece anche la necessità di una buona contaminazione tra realtà ecclesiali diverse attraverso la quale la comunità riceve grandi ricchezze dall’esperienza associativa ma anche l’Associazione può in qualche modo vivere pienamente l’ecclesialità della propria esperienza educativa all’interno di un contesto più ampio. Questo intendevo dire, e dirlo tenendo conto di queste grandi ricchezze che una realtà può dare all’altra, pur sapendo che in qualche modo per i ragazzi vivere un’esperienza associativa è già un’esperienza di Chiesa. DOMANDA: – Una domanda al prof. Magatti: Lei diceva che dobbiamo in qualche modo intercettare questa schizofrenia di fondo (oggi mi sento angelico, domani mi sento il più grande diavolo del mondo). Come andiamo noi a formulare la nostra testimonianza che invece ha un fondamento nella fede. Siamo noi che dobbiamo seguire questa onda un po’ schizofrenica? O come dobbiamo 168 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” intercettare la nostra testimonianza, che potrebbe essere più o meno la stessa o se inseguire quell’esperienza. Prof. MAGATTI: – No, certamente non dobbiamo inseguire quell’esperienza da cui son partito. Il problema è che siamo tutti ammalati di quell’esperienza. È come se con la modernità e l’evoluzione sociale rispetto alla cristianità in particolare medioevale, noi potessimo leggere la parabola del figliol prodigo e del padre misericordioso con una chiave storica. È come se noi – uomini moderni, contemporanei, nichilisti – fossimo usciti dalla casa del padre in epoca medioevale e fossimo lì, fuori nel mondo. Sarebbe opportuno che la Chiesa non pensasse di essere il padre (perché questo sarebbe un po’ preoccupante), ma neanche pensasse di essere il fratello maggiore che sta in casa e che è invidioso, perché non è andato fuori anche lui. In realtà cosa possiamo essere? Noi siamo là fuori con i nostri contemporanei e quello che possiamo portare è al massimo la memoria di una casa. Ovvero, quando il figlio è là fuori, l’elaborazione della sua libertà che non va da nessuna parte, perché egli ha bisogno di un dialogo con se stesso. Rispetto all’esperienza contemporanea, in quanto credenti, noi siamo esposti a tutto ciò che il nostro tempo produce e siamo come le foglie degli alberi dei nostri boschi. Siamo tutti un po’ rattrappiti, perché non è che quel mondo lì non ci tocca. Per fare un esempio, guardate le storie di pedofilia dei preti. Nessun è fuori da questo tempo e noi non possiamo immaginare di essere fuori da questo tempo e dalle sue malattie, solo che in quanto credenti siamo portatori di una memoria, di una storia e possiamo entrare in dialogo con esso, non perché siamo dentro una casa belli protetti e pensiamo di essere immuni dalla malattia di questo tempo, ma perché possiamo aiutare questo nostro tempo a riavere il desiderio della casa che ha lasciato. Naturalmente a partire dall’idea che in quella parabola questo passaggio di uscita, di rottura, di provocazione sia un passaggio necessario nella storia della libertà. INTERVENTO – Alla fine del dibattito, padre Alessandro Salucci conclude con un inciso. Se avete ancora la pazienza di ascoltare, vorrei fare una precisazione sul tema dell’inter-religiosità visto che è un quesito che sta emergendo con forza nel dibattito associativo (e questo mi fa estremamente piacere). Provo perciò a informarvi su cosa sta bollendo in pentola in Associazione circa questa tematica. Premetto che sarebbe stato assurdo pensare ad un Convegno Fede senza tener conto che oramai ci sono altre religioni che fanno già parte del nostro tessuto sociale che interagiscono, volenti o nolenti, anche con quello ecclesiale. SABATO 16 NOVEMBRE - 169 Credo che tutti voi, bene o male, abbiate avuto qualche genitore islamico che ha bussato alla porta della vostra sede per iscrivere suo figlio ai lupetti o agli esploratori. Quando è capitato a me, mi sono preoccupato di indirizzarli al CNGEI, ma alcuni di questi genitori mi hanno risposto di no, perché vogliono che i loro figli entrino a contatto con l’Agesci, e lo vogliono perché in essa c’è un’idea di un Dio a cui si fa riferimento. Ecco, credo che questa è un’occasione di dialogo incredibile, che sarebbe una follia sprecare. Questa mia esperienza unita alle tante testimonianze che portano nella stessa direzione e che ci vengono dai Gruppi sul territorio, ci impegna, come Associazione, a mettersi in strada per cercare soluzioni. Al contempo impegnarsi nell’incontro con l’Islam – come ha sottolineato giustamente Mauro [Magatti] – non è un problema semplice. E non lo è perché questa non è una religione primitiva bensì molto elaborata, così ricca di componenti interne che è necessario conoscere a fondo se la vogliamo davvero rispettare e ancor più rispettare i suoi aderenti. Perché è una religione dalla forte identità, che di conseguenza genera un forte senso di appartenenza e la cui visione antropologica non è in niente coincidente con quella cristiano-occidentale e basterebbe pensare al ruolo assegnato alla donna nell’Islam per capirlo. Eppure, pur coscienti che forse siamo ancora del tutto impreparati al compito dell’accoglienza dei bambini islamici, perché poco sappiamo del loro effettivo vissuto religioso e non è con la superficialità, pur guidata dal senso del servizio, che si fa crescere le persone, non è intenzione di nessuno di chiudere alcuna porta. Per questo alla parte di Convegno che si sta svolgendo a Trento abbiamo chiesto una rappresentanza degli scout musulmani. Esiste infatti in Trentino un primo nucleo di quella che dovrebbe diventare in Italia l’Associazione Scout Musulmani Italiani. Aggiungo a ciò, che chi di voi ha letto gli Atti del Consiglio generale, ha visto che era stata istituita da Capo Scout e Capo Guida una commissione preparatoria dedicata al problema del dialogo inter-religioso e interculturale. Sulla base del suo lavoro il Consiglio generale ha chiesto che si istituisca una commissione di studio che entro il 2015 riferisca al Consiglio generale le modalità di approccio antropologico, culturale, religioso e così via al mondo dell’Islam. Questo perché dobbiamo pensare in termini di inclusività e non di esclusività, questo perché ce lo chiede la Chiesa del Concilio Vaticano II. Questo per dire che l’Associazione si sta muovendo anche se per adesso nei livelli, cosiddetti, istituzionali ma, come ben sapete, il livello istituzionale è frutto di una vostra elaborazione, della vostra esperienza nelle unità. Il proseguo di questo fronte aperto dovrà tener conto anche di ciò che questo Convegno Fede vorrà dire. 170 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” TRENTO Intervento del prof. Stefano Martelli Scautismo e videosocializzazione 2.0 Le sfide educative poste all’Agesci dalla società “post”-moderna o della comunicazione globale Premessa Questo convegno ha per titolo l’esigente domanda, che Cristo stesso ha posto ai suoi discepoli: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Lc 9, 20). Questa domanda, a più di duemila anni di distanza, continua ad inquietare tutti i cristiani... anche chi, per professione, fa il sociologo! Anzi, il sociologo è ancora più in difficoltà degli altri, perché si trova provocato dalla domanda di Cristo sotto entrambi gli aspetti: quello personale e quello professionale – due aspetti che, come insegnò Max Weber nei suoi scritti metodologici, sono strettamente intrecciati perché costituiscono la Beruf del sociologo: la professione, infatti, è al tempo stesso anche una vocazione [WEBER 19672] – almeno, lo è stato nella prospettiva della modernità e pure della sociologia come scienza moderna. Inoltre, dopo la Laborem Exercens (1981), la prima enciclica sociale scritta dal beato Giovanni Paolo II, questa Beruf va vista come la «via normale» alla santità – vedasi la parte V dell’enciclica –, che viene proposta a tutti i fedeli laici. È dunque perché provocato fortemente su entrambi i versanti della mia propria esistenza che mi permetto di presentarvi qualche riflessione sul contesto socioeducativo attuale: un contesto inedito, che a mio avviso va compreso a partire da una teoria della società “post”-moderna o delle comunicazioni globali. La mia tesi generale è che questa società porta sfide inedite a tutte le agenzie educative: sfide che altrove ho riassunto con il termine «videosocializzazione». Quali inedite sfide educative comporta l’essere educatori in un ambiente sociale permeato da old e da new media? E cosa comporta ciò nel caso specifico dell’Agesci? E quali nuove alleanze educative è opportuno stringere con le altre agenzie educative – in primo luogo la famiglia –, anch’esse provocate dalle medesime sfide? In questa sede dapprima cercherò di delineare le grandi trasformazioni in atto nella cultura e nell’educazione contemporanea, le quali stanno rafforzando la tendenza alla maggiore individualizzazione di tutti i processi social. La trasforSABATO 16 NOVEMBRE - 171 mazione in atto è evidente nelle comunicazioni sociali: in questo campo si assiste più frequentemente al passaggio dal pubblico (insieme di uditori passivi) ad un’audience attiva, formata da individui che non solo sono i ricettori di messaggi, ma che sono pure divenuti produttori a loro volta di informazioni. Il passaggio dai mass media ai new media – non solo internet, ma anche smartphone e social forum – a mio avviso va letto come l’emergere di un ambiente comunicativo in cui l’adolescente attua forme inedite di socializzazione – caratterizzate più dalla debolezza delle agenzie formative tradizionali, che dalla forza intrinseca dei new media. Ma come cresceranno i nuovi bambini e bambine nell’ambiente sociale offerto dalle comunicazioni globali? L’emergere negli ultimi due decenni di una struttura inedita – il «triangolo Sms», ovvero costituito da sinergie fra sport, media e aziende sponsor – consente all’analisi relazionale di dar ragione sia del dinamismo elevato che la nuova struttura dimostra, sia del diffondersi di consumismo e di conformismo sociale. Occorre pertanto adottare una prospettiva realistica e critica – che, evitando gli opposti sensazionalismi propri sia degli «apocalittici», sia degli «integrati» [ECO 1963] – sappia porsi domande cruciali: ad es. interrogativi sulle trasformazioni delle identità personali e delle forme di comunità nel web 2.0. Ciò al fine di poter individuare le opportunità che, accanto ai rischi, sono pur sempre presenti in ogni ambiente socio-culturale e che possono offrire esiti positivi per un educatore cristianamente ispirato e creativamente in sintonia con la cultura contemporanea. In sede conclusiva pertanto si offrirà qualche spunto su due processi emergenti, che potrebbero rafforzare l’impiego a fini educativi e pastorali delle inedite opportunità comunicative offerte dalla videosocializzazione. In breve ci si chiederà quanto influiscono i “cattivi esempi” provenienti dai media, che continuamente ripropongono il modello di vita consumista basato sulle “3 S” – soldi, sesso e successo –, nella vita delle comunità scout – infatti anche il consumismo è una proposta “educativa” che ha i suoi propri “valori” (però solo utilitaristici ed edonistici) e i suoi propri maestri (interessati nel senso del proprio tornaconto). In che misura le “cattive notizie” date dai media influiscono negativamente sull’azione educativa agli ideali scout? E quanto i ragazzi/e dei reparti si espongono ai media? Sono essi divenuti “dipendenti” dal telefono cellulare? O dai social forum? In breve: dopo aver imparato a rifiutare la lezione della «cattiva maestra Tv» [POPPER e CONDRY 1994], si dovrà ora imparare a diffidare dei guru del web 2.0? 172 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” 1. L’analisi: Un panorama sociale in rapido mutamento Da più di vent’anni il mondo della comunicazione è al centro di un profondo e radicale cambiamento. Sotto la spinta di processi endogeni – ad es., l’incessante produzione di nuovi media basati sulla convergenza digitale – ed esogeni – ad es., la globalizzazione come oltrepassamento continuo e fortemente intensificatosi dei confini nazionali da parte di persone, informazioni, capitali, beni e servizi [ROBERTSON 1999] –, sta emergendo un inedito ambiente sociale e culturale, il quale pone inedite sfide alle agenzie educative. Quali sono le principali trasformazioni avvenute nell’uso dei mass media? E quali inedite opportunità comunicative presentano i new media?Il telefono, così come l’abbiamo conosciuto e usato per anni, non è più solo «il telefono, la tua voce», come sintetizzava lo slogan pubblicitario della fortunata campagna Sip-Società italiana per l’esercizio telefonico (1977-1983), ma è divenuto un terminale multifunzione che ciascuno di noi porta con sé e che molti consultano spesso nel corso di una giornata, quasi astraendosi dalla realtà intorno o parlando di cose private, a volte molto personali, in pubblico. Il cellulare, specie se trasformatosi in smartphone, apre inedite possibilità di essere a contatto ad ogni momento con “altri significativi”, spesso ubicati in altre città o stati, a prescindere dai contesti in cui fisicamente la persona si trova – nel caso dei minori, si può “stare con altri significativi” e così sottrarsi all’influenza degli ambienti educativi – famiglia, scuola, parrocchia, clan... I giornali non solo non sono più fogli d’informazione, ovvero testi scritti per presentare informazioni all’opinione pubblica nel modo il più possibile oggettivo e quindi stimolare la riflessione e il formarsi di opinioni condivise, ma si sono trasformati in “iper-testi”. Ciò è evidente nei formati digitali, in cui i testi scritti sono sempre più di frequente accompagnati da immagini in movimento e talora da suoni; ma anche nel formato a stampa, l’“incorniciamento” delle notizie mira ad offrire più frequentemente emozioni e interpretazioni “di parte”, se non apertamente “tendenziose”. In questa trasformazione “iper-testuale” i giornali cambiano pelle: la drammatizzazione del mondo prevale sull’informazione oggettiva, l’emozione prevale sulla riflessione. Non conta più essere un «cittadino ben informato» – questo era il fine dei mass media nel progetto della modernità [HABERMAS 1976] –, ma occorre consumare, acquisire beni e godere di servizi – è questo l’imperativo categorico della “post”-modernità. Lo stesso potrebbe dirsi degli altri mass media. La radio non è più il “telegrafo senza fili” inventato da Guglielmo Marconi, ma è divenuta da tempo una music box (Sarnoff ), il cui chiacchiericcio gradevole ci accompagna nel corso della giorSABATO 16 NOVEMBRE - 173 nata, in tante situazioni diverse. Pure la televisione non è più una sorta di moderno focolare, attorno alla quale, la sera, si riuniva la famiglia, ma è divenuta uno schermo multicanale su cui strumenti diversi – lettori per videocassette e dvd; internet; fotocamere digitali, ecc. – riversano i propri contenuti. E ciascun minore, oggi, ha in camera propria un televisore e consuma il proprio tempo in fruizioni individuali, così sottraendosi alla riflessione familiare e a scelte condivise. Persino il computer non è più la macchina per elaborare dati, per scrivere testi e per disegnare grafici che a partire dagli anni ’90 ha sostituito la macchina da scrivere, ma anch’esso – grazie alla posta elettronica, alle chat line, ai social forum, ecc.– è divenuto un mezzo per comunicare con altri/lontani. Si comunica così con tutto il mondo, talora ignorando o prescindendo dalle persone della propria famiglia. Per non parlare, poi, dei tanti new media, dagli iPad ai tablet e alle foto/videocamere digitali miniaturizzate, che l’industria delle telecomunicazioni globali fornisce a getto continuo – tutti personal media, ovvero mezzi per relazionarsi con cerche sociali lontane e, quindi, poco capaci di orientare le scelte individuali! È la reversibilità la caratteristica delle relazioni sociali “mediate” che forse, più di altre, attira gli adolescenti. Per “loggarsi” in una comunità on line bastano pochi secondi, al massimo un paio di minuti se occorre attendere la mail di conferma di avvenuta iscrizione, che contiene pure il link o la password per poter navigare. E, qualora si resti insoddisfatti o altre relazioni appaiano al cybernauta più interessanti, basta non frequentare più la community, né rispondere agli inviti e alle sollecitazioni. Legami tanto facili da stabilire, quelli nel cyberspace, quanto fragili e facili da rescindere... in ogni caso, assai meno impegnativi di quelli che si possono instaurare nelle relazioni face-to-face! Più in generale, la digitalizzazione della comunicazione sta portando ad evoluzioni impensabili fino a pochi anni fa, sia nelle piattaforme di distribuzione dei contenuti, sia nelle modalità di fruizione dei medesimi. Considerata l’importanza e la pervasività dei mezzi di comunicazione nella società contemporanea, si deve correggere Marshall McLuhan e gli altri studiosi della prima generazione: i media oggi non sono più semplici protesi dei nostri sensi, ma sono divenuti ambienti socio-culturali in cui tutti noi siamo immersi; e noi ci adattiamo a tali ambienti, finendo per esserne condizionati in modi assai più complessi di quelli posti in essere dai «persuasori occulti», per riprendere il noto titolo di un’opera di Vance Packard [1958], nell’epoca dei mezzi di comunicazione di massa. In breve oggi occorre sviluppare una cultura dei nuovi media e ripensare l’educazione secondo le modalità della videosocializzazione 2.0. 174 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” 2. L’approfondimento. Il processo di socializzazione nell’ambiente mediale globalizzato Quali cambiamenti nelle modalità educative comportano queste mutazioni avvenute nell’ambiente mediale? Da almeno trent’anni, molta parte della nostra vita sociale si svolge con l’apporto attivo della tv, anche se oggi alla tv generalista si espongono ormai solo le persone meno attrezzate culturalmente e le più anziane [MARTELLI 2011, cap. 4]. La gran parte degli italiani, e più frequentemente se giovani e se dotati di un grado medio-elevato di istruzione, presentano una “dieta” mediale ricca: accanto alla tv, essi navigano in internet, utilizzano il telefonino e, sempre più spesso, usano smartphone, tablet, social forum, ecc. 2.1. Educare in tempi di “eresia” generalizzata Quali gli effetti sull’educazione di questa sovrabbondanza di media? Una volta era facile distinguere fra realtà e rappresentazione; oggi è assai più difficile, perché i media costituiscono i nuovi ambienti di socializzazione: “luoghi” virtuali “navigati” da molte persone quotidianamente, che tuttavia hanno conseguenze reali sul vivere in società. In tali ambienti i minori imparano a conformarsi ai modi socialmente approvati di comportamento, a ripetere frasi sentite, a vestirsi alla moda – c’è molto conformismo (e consumismo!) oggi nell’uso dei media, e c’è pure molta sofferenza nei minori, che si sentono così spesso inadeguati ad essi – si pensi al tema del corpo, e alle “malattie” da eccessi alimentari, come la bulimia e l’anoressia [RICH et Al, 2004]. Se per le generazioni nate fino agli anni ’60 la famiglia forniva la socializzazione primaria, che poi era completata da altre agenzie educative più o meno istituzionalmente orientate a fini educativi, come la scuola, l’oratorio, il circolo cultural-ricreativo, l’associazione volontaria, il servizio militare, la fabbrica o altro luogo di lavoro, ecc. [MASSA 2001: 118-134] – le generazioni nate a partire dagli anni ‘70, invece, hanno cominciato ad orientarsi verso i modelli di riferimento offerti dalla televisione e confezionati dall’industria culturale per i teen e i nuovi strati sociali: star del cinema, cantanti di successo, campioni sportivi ecc. Potenza dei mass media? Non proprio: la mia tesi è più complessa, perché nasce dalla visione di un processo “a due stadi”: prima c’è l’attenuarsi del controllo sociale da parte delle agenzie di socializzazione tradizionali – gli educatori appaiono dis-orientati sotto la pressione di modelli sociali “nuovi”; poi c’è l’orientarsi da parte dei minori all’uso dei media. In breve, se i messaggi condizionanti prodotti dall’industria culturale sono stati accolti in misura crescente dai minori, ciò SABATO 16 NOVEMBRE - 175 è stato possibile perché, nel frattempo, nelle stesse agenzie di socializzazione (famiglia, scuola, chiesa, ecc.) si andavano rarefacendo le figure di riferimento, l’impegno educativo e pure il controllo sociale si erano indeboliti, i contenuti tradizionali parevano incapaci di interpretare le mutate condizioni socio-culturali, la qualità delle relazioni sociali era progressivamente diminuita, si andava diffondendo l’individualismo, i legami sociali e relazionali si erano indeboliti e svuotati di significato, ecc. In breve, i minori non hanno più trovato «altri significativi» [BLUMER 1969], capaci di orientare la propria crescita. Nella seconda metà del sec. XX un numero crescente di ricerche sociali –prima negli USA poi pure in Italia – ha segnalato la calante capacità educativa delle agenzie di socializzazione (primaria e secondarie): la famiglia – l’agenzia più importante, che costituisce l’ambiente di socializzazione primaria – cominciò ad accusare una crisi permanente: crebbe l’instabilità coniugale, calarono sia le nascite, sia i matrimoni (prima quelli religiosi e, negli ultimi anni, pure quelli civili), si delinearono convivenze plurime; pure dalle agenzie educative secondarie – pur meno frequentemente studiate della famiglia – vengono segnali di decremento nella capacità socializzatrice: la scuola attraversa da tempo una crisi quantitativa e qualitativa, finora aggredita in termini solo di tagli alla spesa pubblica e solo da pochi anni, e timidamente, studiata in termini di indicatori sull’efficacia e sull’efficienza del processo formativo (istituzione dell’Invalsi, ecc.); sulle associazioni educative, sui circoli culturali-ricreativi e sugli oratori scarseggiano i dati – solo l’Agesci fa eccezione. Non parliamo, poi, del servizio militare (la leva obbligatoria, lo si sa, è terminata a partire dai nati nel 1980) e dei luoghi di lavoro, i quali sono stati studiati assai più frequentemente in termini delle dinamiche (occupazionali, di produttività, ecc.), e assai meno come ambienti di socializzazione. A prima vista sembra che sia stata la Tv a svuotare questi “luoghi della memoria condivisa”, e a sbriciolare il confine tra immaginazione e realtà. In realtà il processo è più complesso: anziché abbracciare la tesi dei powerful media e con ciò “scaricare” tutte le colpe sulla «cattiva maestra televisione», c’è da ricordare che sono state le persone, con le loro scelte quotidiane, ad aver allentato l’impegno educativo e la vicinanza ai minori in crescita. In questi ultimi decenni è avvenuto un gigantesco processo di individualizzazione, che tra l’altro si è tradotto pure nella de-responsabilizzazione di tanti educatori. A loro parziale discolpa gioca il fatto che la Tv ha evidenziato la pluralità di comportamenti sociali e quindi ha posto in evidenza quell’«imperativo eretico» –quella spinta a staccarsi dalla 176 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” tradizione (culturale, religiosa, ecc.) in nome dell’obbligo di realizzarsi come individui che, per Peter Berger [1987], è la cifra stessa della modernità culturale; però l’individualizzazione delle scelte ha come rovescio della medaglia il declino delle istituzioni e l’indebolirsi dei legami sociali [GELHEN 1967]. Per decenni ogni sera – o in qualsiasi altro momento della giornata: ma è la “prima serata” la fascia oraria in cui l’Auditel registra la massima quantità di telespettatori – la Tv mostra a milioni di persone la possibilità di «fare altrimenti» – soprattutto di comportarsi in maniera disimpegnata e individualistica, se non addirittura deviante o delinquente –, e quindi attua una «coltivazione» [GERBNER et Al. 1986] di ciò che è contrario ai princìpi educativi. Il controllo delle emozioni, la riflessività come atteggiamento critico e l’orientamento all’universalismo – tratti comportamentali emersi, secondo Talcott Parsons, nella formazione sociale moderna e necessari per la sua stessa ri-produzione – vengono sommersi dalla marea, montante nel “post”-moderno, delle emozioni, del rivendicare aspetti ascritti delle identità, dall’esaltare l’appartenenza a gruppi e a lobby che non si curano del bene comune, ma solo dei propri interessi particolari. La breccia nelle certezze educative, così creata dalla modernità e che la Tv visibilizza, è poi divenuta un più generale «crollo dei muri» nella società “post”-moderna e della comunicazione globale: tra gli educatori si diffonde la rinuncia a qualsiasi forma di regolazione delle scelte del minore, anche se tali forme sono necessarie per «ex ducere», per trar fuori il meglio di sé dal minore stesso. Perfino in forme di comunicazione “fredde” come sono (o come dovrebbero essere) gli Sms o i “cinguettii” di Twitter – fredde perché sono forme di comunicazione basate sulla scrittura, anziché sulla parola, e ciò dovrebbe consentire maggiore riflessività e controllo dell’espressione – si notano imprecazioni, parolacce, minacce, ecc.: tutti comportamenti in cui le passioni sembrano aver preso il sopravvento sulla ragione e sulle norme di “buona” educazione. A sua volta Snapchat in questi ultimi mesi del 2013 sta avendo un grande successo negli USA perché cancella automaticamente il messaggio e la foto ricevuti sul proprio smartphone dopo appena 10 secondi: un automatismo molto interessante per gli adolescenti, che vogliono nascondere i propri “segreti” agli occhi di mamma e papà. Viene pertanto inevitabile il chiedersi cosa stia succedendo alle agenzie educative nella “post”-modernità. Per poter rispondere, occorrono nuovi concetti: infatti la questione educativa, oggi, si pone in termini inediti. Da tempo ho proposto di chiamare «videosocializzazione» [MARTELLI, (a cura di), 20034] la forma emergente che assume il processo educativo nel vuoto di relazioni sociali signiSABATO 16 NOVEMBRE - 177 ficative e nell’ambiente comunicativo ipertrofico offerto dalla globalizzazione. All’indebolirsi delle tradizionali agenzie di socializzazione, per via delle dinamiche individualizzanti promosse dalla società moderna, nella “post”-modernità si rafforza quel surrogato di esperienza che è la realtà “mediata” dai media. I mezzi di comunicazione – specie la tv generalista ed ora, sempre più di frequente, la telefonia mobile, internet ed i social forum – costituiscono forme di esperienza “a distanza”, che vengono vissute dalle persone come importanti fonti di significato per la propria vita. Di certo l’esperienza “mediata” è un’esperienza multidimensionale: non è solo cognitiva, ma è anche emotiva, pratica, relazionale – pure le relazioni virtuali hanno effetti reali, come ricorda il teorema di Thomas! Se la visione della realtà sociale oggi si forma per oltre il 90% attraverso la tv, le persone tenderanno ad orientare il proprio comportamento sulle pratiche “mediate” cui assistono continuamente: la realtà sociale, quasi riflettendosi nello «specchio sporco» della tv [BETTETINI, GRASSO, (a cura di), 1988], tenderà a organizzarsi attraverso format, regole televisive, personaggi divenuti modelli di vita. La realtà “mediata” diviene oggetto di continue elaborazioni e ri-elaborazioni, messe in atto da persone che interagiscono “a distanza” – però nel vuoto di relazioni significative “vicine” –; e tale percezione della realtà finisce per mutare il nostro modo di comportarsi. Il problema, se mai, è che questa grande rivoluzione potenzialmente liberatoria – la dis-intermediazione dai legami sociali “in presenza” potrebbe aprire a relazioni più ricche umanamente, anche se “mediate” – è in realtà guidata da una «industria culturale» [ADORNO 1969] che, tramite i media, intende veicolare conformismo e consumismo al fine di accrescere i propri budget. I gestori/conduttori/proprietari dei media, purtroppo, spesso mirano a diffondere l’edonismo e il permissivismo, al fine di incrementare i propri guadagni promuovendo le vendite di beni e servizi di aziende globali, le quali, tramite la pubblicità, costituiscono la voce principale dei propri bilanci. Ma in questo individualismo ed edonismo dilagante, non c’è posto né per il bene comune, né per valori universalistici. In breve il contesto comunicativo attuale offre ai minori inedite opportunità di “formarsi da sé”, imitando i comportamenti di “altri significativi” che – a differenza di quanto finora sperimentato da tutte le generazioni precedenti – ora vengono proposti dai mezzi di comunicazione, vecchi e nuovi. Lo si vede facilmente osservando i comportamenti sociali nella sfera del tempo libero, ad esempio nei consumi e nello sport-spettacolo. 178 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” 2.2. Itinerari di videosocializzazione nei consumi e nello sport “mediato” È chiaro che sugli individui che abitano le società contemporanee pesa un carico di aspettative tali, da rendere plausibili e pure affascinanti altre scelte, rispetto all’impegno e alla responsabilità richiesti dall’esercizio della libertà “dei moderni” – sia essa religiosa, civile o sociale. Scelte di disimpegno o, per essere più precisi, di “impegno” nel divertirsi e nel consumare di più sono incoraggiate dalle imprese, che producono beni e servizi per un pubblico globale di consumatori, e che valutano la propria efficacia ed efficienza in base al solo denaro guadagnato. Così tra gli anni ’90 e i primi del nuovo millennio è sembrato trionfare la «McDonaldizzazione» del mondo – per riprendere il titolo di un libro di George Ritzer [1998], in cui il sociologo statunitense analizza la diffusione mondiale del noto marchio di fast food, e che egli usa quale metafora per riproporre il tema weberiano della razionalizzazione di ogni sfera di vita, ovviata dalla società moderna, nel nuovo campo dei consumi e del leisure. In questa e in altre opere, come La religione dei consumi e L’era dell’iperconsumo [RITZER 2000, 2003], il sociologo statunitense ha attirato l’attenzione su questa pratica di massa, sulle forme a volte parossistiche che essa assume, e sui luoghi in cui essa si svolge, quali sono oggi gli iper-mercati, i parchi tematici (Disneyland, Mirabilandia, ecc.) e le navi da crociera; tutti ambienti “di sogno”, ovvero «cattedrali» di una ritualità godereccia e spendereccia, in cui le persone trovano svago e divertimenti organizzati, così “ricreandosi” dagli stress e dalla fatica accumulati negli ambienti di lavoro – o, se pensionati o rentiers –, “divertendosi”. In altri termini, tutti questi ambienti sono stati progettati per agevolare il comportamento socialmente approvato nella “post”-modernità: il consumo in tutte le sue forme – di tempo, di denaro, di beni, di servizi... di se stessi! Fra le “cattedrali” dei consumi a mio avviso vanno annoverati pure gli stadi, in cui si svolgono competizioni sportive tra squadre – di calcio, di basket, di hockey su ghiaccio, ecc. – o tra atleti (corse, salti, lanci, ecc.). Non solo tali edifici sono luoghi di leisure [ROBERTS 2004, 2006], ma anche, grazie ai network dei media globali, lo sport-spettacolo entra facilmente nei salotti di casa in tutto il mondo ed affascina miliardi di persone. Ne è un esempio il calcio: la Fifa, la Fédération internationale des Associations de Football, organizza ciclicamente tornei calcistici divenuti altrettanti spettacoli globali, in grado di attirare l’attenzione di pubblici planetari; così la più recente edizione dei Mondiali di calcio, quella svoltasi in Sudafrica nel 2010, è stata vista in mondovisione per almeno 20’ minuti da oltre un miliardo e mezzo di persone, la gran parte delle quali si trova in Cina, Indonesia e altri paesi emergenti [KANTAR 2010: 16]. SABATO 16 NOVEMBRE - 179 Ma per quale ragione centinaia di milioni di persone seguono in tv un gioco che non appartiene alle proprie tradizioni culturali, e in cui neppure gioca una propria squadra nazionale? Per gli studiosi la risposta va cercata nelle dinamiche dell’acculturazione globale: per molti abitanti dei paesi emergenti, il giocare al calcio o comunque il tifare per campioni e squadre “occidentali”, così come bere Coca-Cola, recarsi a un fast food della McDonald’s o della Kentucky Fried Chicken, o anche comprare i beni e i servizi mostrati dalla pubblicità trasmessa nel corso delle partite – queste ed altre scelte di consumo rappresentano altrettante occasioni per “modernizzarsi” e così entrare nel “paese di Bengodi”, che l’Occidente oggi propone quale modo di vita “esemplare”. Qui la globalizzazione appare con evidenza un’acculturazione all’American way of life. Se queste sono le dinamiche a livello “micro”-sociologico, altre e complementari avvengono a livello “macro”. Negli ultimi trent’anni si è formata una inedita configurazione sociale, il «triangolo Sms»: sport, media e sponsor [MARTELLI 2010, 2012; ID. e PORRO 2013, pp. 113-125]; tre sistemi sociali finora relativamente autonomi – sport di squadra, come il calcio o, negli Usa, il football, il basket e il baseball; mezzi di comunicazione come i network della televisione commerciale; e aziende sponsor che operano a livello globale o, almeno, continentale – negli ultimi due decenni del sec. XX hanno cominciato a cooperare attivamente, al fine di attirare l’attenzione di audience immense e così meglio promuovere le vendite di beni e servizi. L’obiettivo comune è la “conquista dell’audience”: gli immensi pubblici, che si radunano di fronte alla tv per assistere alle gare di Mondiali di calcio e Olimpiadi, sono composti al tempo stesso da praticanti sportivi o, comunque, da fan o appassionati di sport; da telespettatori attirati dallo sport; e da consumatori che, tramite la pubblicità televisiva, sono potenziali clienti dei beni e servizi da questa promossi. Il successo ottenuto da questa inedita alleanza fra strutture materiali e culturali è indubbio, come mostrano i dati raccolti dall’Auditel per il pubblico italiano dello sport “mediato” ed elaborati dallo SportComLab dell’Alma Mater. È vero però che nuovi comportamenti di ascolto, favoriti dal diffondersi di internet e dei social forum – di cui fruiscono specie i più giovani –, potrebbero portare a sviluppi imprevedibili, ovvero tali da mettere in discussione l’attuale «triangolo Sms». 2.3. Consumismo e sportivizzazione: quali personalità formano? Il punto decisivo per la presente discussione è il seguente. Quale personalità di base viene modellata dal consumismo e dalla sportivizzazione del mondo? Pos180 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” sono, queste alternative funzionali all’educazione ai valori universalistici, risultare altrettanto capaci di favorire il formarsi di personalità all’altezza delle sfide richieste dalla modernità “avanzata”, ovvero capaci di «riflessività»? [BECK, GIDDENS, e LASCH, 1999; ARCHER, 2006] O, al contrario, consumismo e sportivizzazione appaiono non solo un paradossale ritorno in piena modernità ad atteggiamenti sognanti e a forme di evasione dalla realtà che assomigliano molto ai comportamenti propri delle religioni primitive, così ben descritte da Mircea Eliade ne La nostalgia delle origini [1972] e in altre sue opere famose? Ma se questi comportamenti a-storici avevano una propria ragion d’essere in società arcaiche o antiche, nell’attuale formazione sociale rappresentano una grave remora allo sviluppo, perché rendono le persone inadatte ad adempiere alle prestazioni elevate, richieste dalle strutture sociali moderne. Pertanto, dietro al divertimento e alla spensieratezza propria dei «riti dell’iperconsumismo» si gioca una posta assai più alta che il rischio di alienazione, segnalato in più occasioni da Georg Ritzer nelle sue graffianti (però anche superficiali) critiche al consumismo esasperato [RITZER 2003]. A mio avviso è in gioco la stessa libertà della persona – almeno così come è concepita nella modernità, e ciò per due ragioni. La prima è che la libertà di consumare dipende strettamente dalle risorse economiche, le quali però sono distribuiti socialmente in maniera fortemente diseguale; pertanto il consumatore – di beni, di servizi, di sport, ecc. – è tale solo se ha risorse per accedere a questi divertimenti/intrattenimenti, che sociologicamente appaiono altrettanti sostituti funzionali della religione. Pertanto la crisi economica in atto dal 2008, la quale ha allargato ancora la discrasia già profonda fra gli strati sociali generatasi nel corso dell’età moderna, e che in prospettiva mondiale ha pure reso più evidenti le differenze esistenti fra le nazioni, è una grande minaccia alla libertà della persona – per lo meno a quella di tutti coloro (e sono decine, forse centinaia di milioni) che vivono nelle società dei consumi, però che non hanno (non hanno più) il denaro per partecipare ai grandi riti collettivi del consumo. Diviene così grave il problema dell’integrazione sociale pure nelle società già “sviluppate”. La seconda e più grave ragione è che gli atteggiamenti e i comportamenti di consumo, che vengono proposti dal «triangolo Sms», presuppongono proprio quel tipo di strutture della personalità – l’individualismo istituzionalizzato [ALEXANDER, 1990, pp. 119-120] – che però esso distrugge. Vi è infatti molta passività ed «etero-direzione» nei fenomeni di moda e nel fanatismo per i campioni dello sport. SABATO 16 NOVEMBRE - 181 Com’è evidente anche nel nostro Paese, l’attuale situazione di grave crisi economica – iniziata nel 2008 con il fallimento della Lehman Brothers Holdings Inc. e con i rischi di sfilacciamento del tessuto bancario mondiale –, ha costretto i governi dei paesi occidentali a operare pesanti tagli nella spesa pubblica e ha pure fortemente ridotto le aspettative, finora nutrite dalla grande maggioranza della popolazione, di migliorare continuamente le proprie condizioni di vita e di lavoro. Questo sfondo socio-economico rivela che il progetto della “post”modernità”, la libertà di consumare, non solo è un sostituto banale della libertà dei moderni, ma per di più è un bene fragile ed effimero, che viene dissipato senza misura, né preoccupazione alcuna di ricostituirlo. Nell’Italia di oggi sembra svanita la «fede nel progresso» che, a partire dall’800, ha costituito la struttura di base di ideologie così diverse, come il liberalismo, il fascismo e il comunismo, cementando l’adesione delle masse ai partiti che le rappresentavano. Il consumismo sembra avviato dalla recente crisi economica e dai tagli alla spesa pubblica a fare la medesima fine. Ci si pone allora la domanda fondamentale: quali rischi e quali opportunità per le associazioni educative – qual è l’Agesci – si danno nell’orizzonte cupo, a tratti tempestoso, che accompagna l’inizio del sec. XXI nel nostro Paese? 3. La proposta: Ripensare l’educazione in tempi di rapido mutamento culturale Il ritmo incalzante di novità che caratterizza la produzione dei new media impone una continua sperimentazione di nuove forme sociali e culturali di comportamento; le persone sono costrette ad adeguarsi, sempre precariamente e provvisoriamente a continue novità, a configurazioni sempre diverse. Ad es. nei videogiochi le “comunità virtuali” (i gruppi di videogiocatori online, a volte residenti in nazioni diverse) appaiono aggregati di individui in connessione momentanea e saltuaria. Infatti, se non esiste un legame sociale, formatosi previamente in presenza reale, quello che si contrae rapidamente nel cyberspace può essere, altrettanto rapidamente rescisso; in breve il legame virtuale si mostra quanto mai effimero e superficiale – a meno che non si sovrapponga a legami instauratisi previamente in cerchie sociali professionali o di vicinato [RAINIE, WELMANN, 2012].Vorrei ora sviluppare alcune considerazioni sociologiche sulle opportunità e rischi della videosocializzazione. È possibile impiegare i new media come risorse per rinsaldare i legami sociali e potenziarne gli effetti educativi? Le comunità esistenti – i clan Agesci, nel nostro caso – potranno trasformarsi in comunità online 182 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” ed essere “rilanciati” dalla frequentazione del web 2.0? Come cambierà l’identità (personale ed associativa) nell’attività di social networking? 3.1. Oltre gli opposti determinismi tecnologici Prima però occorre sgombrare il campo da un equivoco, che in forme differenti è assai diffuso: ovvero che la tecnologia determini profondi cambiamenti nella società. Questa impostazione deterministica, che in varie forme è stata proposta da sociologi e da filosofi, sia materialisti sia idealisti, può avere due varianti: una pessimistica ed una ottimistica. Limitandoci al caso delle nuove tecnologie della comunicazione, la prima variante descrive i social network come pericolosi, perché chi li frequenta può cadere vittima di criminali o disturbati mentali che lo infastidiscono, lo minacciano o gli fanno proposte oscene, o più semplicemente (e fraudolentemente) cercano di carpirgli dati sensibili, utili per effettuare poi prelievi bancari a suo danno. In breve, i tecno-deterministi nella versione pessimistica, come Alessandro Acquisti e Ralph Gross [2006], tendono a considerare gli utenti dei social network come incaute prede di malintenzionati, facili vittime della ingannevole facilità d’uso delle nuove tecnologie. All’opposto la versione tecno-ottimista enfatizza le opportunità offerte dal social networking per rafforzare le capacità individuali, per valorizzare l’autonomia e la libertà personale, e per consolidare legami sentimentali e comunitari. Ad esempio Danah Boyd [2008] sostiene che i social network rappresentano soluzioni tecnologiche in grado di sostenere i legami “deboli” – tali perché le persone sono lontane e/o si vedono raramente – e per di più esse consentono ai giovani di sfuggire al controllo degli adulti – genitori, insegnanti, educatori – e di rifugiarsi in spazi autonomi, nei quali possono sperimentare le proprie capacità, plasmando a piacere la propria identità. È evidente che sia la teoria della vittimizzazione, elaborata dai tecno-pessimisti, sia quella dell’empowerment della persona tramite i nuovi media, elaborata dai tecno-ottimisti, sono entrambe fuorvianti: esse si oppongono su tanti aspetti, ma accettano la medesima impostazione deterministica ed individualistica, ovvero che le nuove tecnologie di per sé spingano i comportamenti umani verso un esito predefinito. Questa illusione tecnologica, come ha mostrato da tempo Umberto Eco in Apocalittici e integrati [1963], risorge ogni volta che una nuova tecnologia della comunicazione si è affacciata nella società moderna: la si ritrova nei dibattiti sulla “potenza” dei media originatisi all’apparire del cinema alla fine SABATO 16 NOVEMBRE - 183 dell’800, della radio all’inizio del ‘900, della televisione nei primi anni ’50 del secolo scorso, del computer alla fine del medesimo e oggi, all’inizio del terzo millennio, del social networking. Il determinismo va respinto perché, assumendo come vero (ma ciò non è) l’effetto diretto e potente delle novità tecnologiche sulla mente umana, presume di poter prevedere i comportamenti individuali; esso indebitamente ignora i valori, le norme e le pratiche del contesto sociale e culturale in cui la persona vive – e, cosa ancora più grave – nega la libertà della persona (pur nei vincoli dati dalla situazione). La migliore ricerca sociale pertanto ha respinto da tempo ogni suggestione deterministica e ha preso sul serio la libertà e la creatività delle persone, analizzandone la cultura e considerando i vincoli posti dall’ambiente sociale in cui essi vivono come limiti e, al tempo stesso, come opportunità, su cui far valere la riflessività [ARCHER, 2006, 2011; Donati 19932, 2013a,b]. Pertanto la sociologia multidimensionale e relazionale [MARTELLI 1999, 2009; ID., (a cura di), 20034, 2006] considera il Web 2.0 un fenomeno sociale complesso, che però può essere facilmente compreso osservandolo a partire dallo schema Agil, che per Pierpaolo Donati costituisce la «bussola» capace di orientare l’analisi di ogni fatto sociale. Adottando questa chiave interpretativa emergono quattro aspetti, generatori di relazioni, del Web 2.0, i seguenti: (A) Le pratiche per adattarsi alle proprietà dei mezzi tecnologici (ad esempio: come e con chi scoprire possibilità e limiti della piattaforma usata); (G) Gli scopi che il soggetto si propone di realizzare (ad esempio: mostrare una propria foto ad amici che non si vedono da anni, ecc.); (I) Le norme che si devono seguire (la net etiquette va rispettata, ad esempio: NON SCRIVERE IN MAIUSCOLO, è come se tu urlassi); (L) I valori che orientano l’azione (ad esempio: partecipazione, condivisione, creatività, ecc.). Non è questa la sede per approfondire ciascuno di questi quattro aspetti relazionali e per descrivere le relazioni sociali che essi generano. Piuttosto è importante tenere fermo il fatto che pure il web 2.0 è un artefatto umano, quindi un fenomeno sociale e culturale, che non va demonizzato e, però, neppure acriticamente esaltato; piuttosto l’ambiente virtuale va compreso nelle sue dinamiche sociali a partire dalle proprietà sociali emergenti che lo caratterizzano. In particolare lo sviluppo in senso positivo per la persona del web 2.0 dipende dal capitale sociale esistente nella società; al tempo stesso, tecnologie efficaci di social networking aiutano a riprodurre la fiducia esistente tra le persone ed i gruppi 184 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” umani, e a rafforzare le relazioni solidaristiche e cooperative tra queste e le istituzioni. In breve anche il web 2.0 può costituire una risorsa per migliorare la società attuale, per proseguire nella civilizzazione. 3.2. Le comunità del web 2.0 italiano: una tipologia Applicando quanto appena detto al panorama italiano dei siti web 2.0 e analizzandolo in base allo schema Agil, si ottiene la seguente tipologia degli attuali social network: – le comunità ludiche (L) – rappresentate da YouTube, LiberoVideo, Metacafe, GoogleVideo, Pic20, Flickr e Frogg– potenziano l’espressività degli internauti e ne valorizzano la ludicità: una dimensione dell’essere umano, come ha mostrato Huizinga [19642], ingiustamente trascurata dalla modernità; – le comunità relazionali (I), come Habbo, Neopets, SecondLife, Blogger, Splinder, Xanga.com, googleGroups, Yahoo!Groups e Facebook, realizzano forme di convivialità in rete; – a loro volta le comunità di scambio (G), come MySpace, Flixster, VirtualTourist, Digg e WindowsLiveSpaces, creano circuiti per beni e servizi, a volte scambiati – specie nel caso di software o altri beni immateriali – in forme tipiche dell’«economia del dono», in altre regolati dalle modalità capitalistiche di transazione; – infine le comunità di apprendimento (A), da Wikipedia a Yahoo!Answers, da Wiktionary ad Answers.com ed a LinkedIn, realizzano forme di condivisione dello scibile umano e di cooperazione per rintracciare informazioni. In breve le comunità nel web 2.0 si presentano come reti sempre instabili di rapporti personali mediati dalle nuove tecnologie, che forniscono quattro principali risorse, le seguenti: • Socialità “mediata” (o tecnosocialità) [DELL’AQUILA 1999, 2005]; • Supporto emotivo a un “Io minimo” [LASCH 1985]; • Informazioni e consigli (specie di tipo tecnico); • Un senso di appartenenza a un Gruppo e una identità sociale, però sempre provvisoria e reversibile. 3.3. Cambiamenti nell’identità e nel senso di comunità Nella «emergente società in rete» [MARTELLI e GAGLIO 2005] sia l’identità, sia la comunità appaiono in profonda ridefinizione. La «networked society» [CASTELLS 2002, 2002-2003, 2004] si presenta come un insieme di persone che SABATO 16 NOVEMBRE - 185 entrano ed escono continuamente da gruppi formatisi grazie alle opportunità tecnologiche offerte da migliaia di reti telematiche; l’appartenenza a tali “comunità” è libera e assicurata da un semplice “colpo di click” del mouse. Così, grazie alle nuove tecnologie, le persone possono coltivare contemporaneamente appartenenze multiple e pure sperimentare identità differenti; il rovescio di tale libertà di relazioni è però la loro instabilità. Queste trasformazioni del legame sociale, favorite dalle nuove tecnologie, si iscrivono però entro trasformazioni socio-culturali più ampie, le quali tendono alla «de-costruzione» della modernità [LYOTARD 1981; VATTIMO 1985; JAMESON 1989]. La globalizzazione, anziché configurarsi come assimilazione di tutte le culture entro il modello occidentale ovvero come omologazione all’American way of life, si intreccia con la vitalità di religioni e culture – inattesa per chi si colloca acriticamente nella visione eurocentrica e modernistica della società contemporanea –, e con la riscoperta delle identità locali. Pertanto Roland Robertson [1999], seguito da molti altri, ha proposto di parlare di «glocalizzazione», al fine di evidenziare meglio gli effetti paradossali e, talora, “perversi” che si originano da questo inedito intreccio tra apertura al mondo e rinvigorirsi del localismo [MARTELLI 1999]. In breve sia l’identità, sia la comunità vengono profondamente ridefinite dagli usi sociali delle nuove tecnologie. Sintetizzando al massimo quanto risulta da numerosi studi [TURKLE 1997; DELL’AQUILA 2005; SPREDICATO 2008], si può dire che: – l’identità, da “essenza” stabile e definita, appare un costrutto socio-culturale in continua evoluzione, oggetto di sperimentazione continua e continui adattamenti ad ambienti virtuali differenti. Il soggetto “post”moderno, distinguendo il proprio “io” dai molti sé come ha insegnato da tempo la sociologia di Ervin Goffman [1969], sa entrare in gruppi e comunità virtuali in modi differenti, presentando avatar e maschere virtuali, collezionando molteplici identità, sempre parziali e continuamente ri-definite. Il networked individualism [WELLMAN et al. 2003] dà quindi adito alla trasformazione dell’identità stabile in una molteplicità di identità. – Analoga trasformazione subisce la comunità: da concetto olistico – come nelle sociologie di Ferdinand Tönnies o di Émile Durkheim – nella società in rete essa va inevitabilmente declinata “al plurale”: non solo perché nel cyberspace si possono distinguere tipi differenti di comunità – ad esempio comunità “ancorate” ad un territorio dato (metropoli, regione, ecc.), comunità 186 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” di interesse (etnico, religioso, professionale, ecc.) o anche comunità di affinità (appassionati di musica, fan del calcio o della moda, ecc.) –, ma soprattutto perché il moltiplicarsi a dismisura del loro numero introduce una trasformazione irreversibile nel concetto stesso di comunità. Con buona pace dei tecno-ottimisti del virtuale [RHEINGOLD 1993, 2002], le comunità in rete si presentano come cerchie sociali diluite e depotenziate: proprio quelle caratteristiche – integrazione sociale, sostegno della personalità, ecc. – che più sono cercate dagli internauti, sono anche quelle più labili: il cybermondo appare popolato da comunità «immaginate» [ANDERSON 1996; FERNBACK 2007]. Pertanto pure la riscoperta della comunità, nella società glocalizzata, è più frutto di nostalgia che adesione ad una struttura emergente, e ciò dà luogo ad esiti imprevisti e paradossali. In breve sia la personalità, sia la comunità nella «emergente società in rete» si pluralizzano e si trasformano, con esiti e in direzioni che sono ancora oggetto di studio da parte delle scienze sociali. 3.4. Identità e relazioni nei social network italiani Tenendo presente quanto si è appena detto sulle trasformazioni sia dell’identità, sia della comunità, si può dire in estrema sintesi che nei social network italiani: – le identità esprimono liberamente spontaneità, creatività, gratuità; – si assiste alla pluralizzazione delle identità di un singolo soggetto (Io multiplo, identità sempre reversibile); – l’atmosfera delle comunità virtuali è emotiva (ambience, stimmung): favorisce il ri-crearsi del legame sociale, anche se in forme differenti da quelle proprie dei rapporti face-to-face; – la socialità appare diffusa, ma anche instabile; è a-finalistica ed a-progettuale. Queste caratteristiche sono effetto dei processi socio-culturali in atto nella società “post”-moderna, tra cui quelli di de-individualizzazione e di de-comunitarizzazione [MARTELLI 1999]. Conclusione: Opportunità per l’educazione allo Scautismo nella modalità della videosocializzazione 2.0 Quale sarà l’esito finale di queste trasformazioni per la società italiana? E quale impatto avranno pure sull’educazione? È ancora presto per poter dare risposte attendibili. Per ora si osserva che le radicali modifiche in atto nel senso della comunità e dell’identità personale, nei social network italiani descrivono le seguenti tre direzioni: SABATO 16 NOVEMBRE - 187 – dall’unica comunità alla pluralizzazione delle comunità (i legami sociali si moltiplicano, ma anche si indeboliscono); – dall’identità definita e rigida si passa alle identità plurime, flessibili ma volatili (dei tre esiti del processo di videosocializzazione, prevale la «personalità a bassa definizione» [MARTELLI 20034, cap. 1]); – gli effetti sull’impegno civile, sociale, religioso sono ambivalenti, poco visibili e a lunga durata (secondo quanto previsto dalla «teoria della coltivazione» di Gerbner [et al., 1986]). Ognuno di tali esiti costituisce una sfida, ma anche una opportunità, per gli educatori oggi, che va studiata e interpretata, al fine di potervi dare adeguate risposte [Martelli 2010]. Al tempo stesso sin da ora si può osservare che le esperienze più riuscite nell’impiegare i new media per dare sbocchi positivi alla videosocializzazione in atto si inseriscono nei due processi socio-culturali seguenti: a) ri-territorializzazione del legame sociale; b) ri-personalizzazione del networked individualism [RAINIE, WELLMANN, eds. 2012]. Ne derivano alcune implicazioni per le dinamiche educative in Agesci. L’Associazione già presenta una presenza territoriale articolata e qualificata, e una tradizione educativa attenta alla persona nelle sue fasi evolutive [MASSA 2001; FRATTINI, IACONO 2005]. Pertanto l’agire educativo potrebbe essere agevolato, qualora venissero implementate alcune delle diverse applicazioni che si stanno sperimentando nel web 2.0, così rafforzando le relazioni sociali entro le comunità scout. Quali? La risposta verrà data dagli animatori della cultura e delle comunicazioni presenti sia nelle comunità locali, sia nello Scautismo italiano, nei loro tentativi più riusciti di “addomesticare” i nuovi media e di aprire varchi educativi nella videosocializzazione 2.0. Bibliografia di riferimento – ACQUISTI, A., - GROSS, R., (2006), Imagined communities: Awareness, information sharing, and privacy on the Facebook, in GOLLE Ph. e DANEZIS G. (eds.), Proceedings of 6th Workshop on Privacy Enhancing Technologies, Robinson College, Cambridge (UK), pp. 36-58. – ADORNO, T.W. (1969), Televisione e modelli di cultura di massa, in LIVOLSI, M. (a cura di), Comunicazioni e cultura di massa, Hoepli, Milano,pp. 379-393. – ALEXANDER, J.C. 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Comportamenti socio-religiosi nei confronti dei defunti in un contesto di Terza Italia (Franco Angeli, ivi 2005, con la collab. di BORTOLINI, M. et Al.). TRENTO Intervento del prof. Giacomo mons. Canobbio Educare alla fede nel tempo presente Il tema dell’educazione alla fede si è posto in forma acuta negli ultimi tempi: la situazione di scristianizzazione in atto ha portato a riflettere sull’adeguatezza dei metodi finora utilizzati per trasmettere la fede. Le nuove iniziative messe in atto, sebbene ad alcuni sembrino distaccarsi dalla tradizione, in verità non sono altro che attuazione della tradizione, la quale si configura come vita della Chiesa che, ricca del patrimonio ereditato dal passato, cerca nuove via per far incontrare le persone con Gesù Cristo. L’educazione alla fede, infatti, non può prescindere dai destinatari e dall’ethos nel quale costoro vivono: ciò significa che la fedeltà alla tradizione non coincide con la ripetizione del già noto, bensì con la ricerca di forme nuove per far vivere il vangelo. In questo senso l’evangelizzazione si presenta anche come autoeducazione del popolo di Dio: nel cercare forme nuove di missione il popolo di Dio si rinnova. E non si può immaginare che 192 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” prima ci sia il rinnovamento poi la missione; se è vero che il rinnovamento è per la missione, è altrettanto vero che la missione è fonte di rinnovamento. In effetti la Chiesa si modella mentre svolge il suo compito: l’adagio scolastico agere sequitur esse può valere a livello ontologico; ma a livello fenomenologico non si può dimenticare che l’agere modella l’esse. Uno sguardo ‘generico’ alla storia. Fin dal suo sorgere la comunità cristiana ha compreso se stessa come strumento mediante il quale Gesù potesse essere incontrato da tutti, e ha ‘inventato’ metodiche finalizzate a raggiungere l’obiettivo che era inscritto nella sua identità. Basterebbe leggere gli Atti degli Apostoli per rendersene conto: spinti dallo Spirito, gli Apostoli, che secondo il Decreto del concilio Vaticano II sull’attività missionaria della Chiesa, Ad gentes, sono, allo stesso tempo, “il seme del nuovo Israele e l’origine della sacra gerarchia” (n. 5), e con loro gli inviati delle comunità cristiane, si preoccupano di far conoscere/sperimentare ad altri quanto essi hanno già conosciuto/sperimentato. L’incontro con Gesù vivo mette in moto un processo di comunicazione mediante il quale l’esperienza di alcuni diventa anche il fondamento dell’esperienza credente degli altri. Una chiara attestazione di quanto detto si riscontra nel racconto dei discepoli di Emmaus: Cleopa e il suo compagno, dopo aver ricevuto la rivelazione del Risorto, tornano (merita attenzione il participio anastantes: Lc 24,33, che richiama la risurrezione) a Gerusalemme dagli undici e da quanti erano con loro riuniti, per raccontare la loro esperienza, e si sentono annunciare: “Il Signore è risorto ed è apparso a Simone” (Lc 24,33-35). L’incontro con Gesù vivo non può restare chiuso nella vita solo di qualcuno: Gesù è il salvatore di tutti e tutti devono avere la possibilità di incontrarlo. Forse nessuno meglio di san Giovanni nella sua prima Lettera esprime questa consapevolezza: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, [...] quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo” (1Gv 1,1-3). Osservando globalmente il Nuovo Testamento come pure la storia a esso successiva si può facilmente constatare che la Chiesa nasce e si sviluppa (e non solo in senso quantitativo, bensì anche qualitativo) per comunicazione di esperienze, grazie alla forza dello Spirito. Ogni cristiana/o potrebbe raccontare come anche SABATO 16 NOVEMBRE - 193 a lei/lui sia stata comunicata la possibilità di incontrare il Signore Gesù: per quanto sia il Signore che dona la fede, a questa si giunge mediante relazioni interumane. E ogni comunità cristiana, qualche volta anche priva di ministri ordinati, potrebbe narrare la preoccupazione che l’ha sempre accompagnata di aprire a nuove persone la porta delle fede. Certo la fede, intesa come dono e come scelta personale di aderire al Signore non può essere trasmessa: ogni scelta di libertà è personale e nessuno può trasmettere il suo dono e la sua scelta ad altri; ma è indubitabile che la possibilità di scegliere è offerta grazie alla comunicazione di conoscenze e di esperienze. Lo ricorda san Paolo nella Lettera ai Romani: dopo aver richiamato che la salvezza è per tutti e che il Signore concede i suoi beni a tutti coloro che lo invocano, aggiunge con tono accorato: “Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati?”; e poi, quasi con soddisfazione, conclude citando la Scrittura: “Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene!” (Rm 10, 11-15). La storia del nostro Paese è in gran parte anche storia della fede che di generazione in generazione veniva ‘trasmessa’ in un contesto nel quale, pur senza negare la libertà dell’adesione, era quasi ovvio diventare cristiani: la comunità cristiana – almeno in molti ambienti – tendeva a coincidere con la comunità civile e il processo educativo era, in buona parte, se non trasmissione diretta del vangelo, almeno trasmissione di un costume pervaso dal vangelo. La figura della comunità era quella di un tessuto relativamente coeso nel quale quasi con naturalezza venivano inserite le persone che si affacciavano alla vita. I sacramenti della iniziazione cristiana, salvo rare eccezioni, erano dati a tutti e, tramite quei sacramenti, tutti erano inseriti nella comunità cristiana, per diventare a loro volta, pur in forme e in tempi diversi, protagonisti della comunicazione della fede. Non si può dimenticare, a questo riguardo, che anche quanti ritenevano di non dover più vivere in forma esplicita l’appartenenza ecclesiale si preoccupavano di far introdurre i loro figli alla vita cristiana. Sarebbe superficiale giudicare tale scelta come semplice adeguamento al costume e quindi pratica da riprovare. In effetti, pur riconoscendo che le consuetudini sociali avessero un’importanza notevole nell’orientare le scelte, si deve ammettere che permaneva la coscienza di non poter privare le nuove generazioni di quanto si era ricevuto. La comunità cristiana restava il luogo nel quale si veniva formati alla vita, e la famiglia, grazie 194 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” soprattutto all’azione delle mamme, era, anche se a volte in forma indiretta, l’ambiente naturale dell’educazione cristiana delle nuove generazioni. E sebbene nella concezione diffusa di Chiesa fosse prevalente la figura del parroco, o in genere dei preti, molte persone, laici e religiose (soprattutto negli oratori, almeno in alcuni ambienti) contribuivano con dedizione alla catechesi e alla formazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi. Si può dire che in un tessuto sociale nel quale l’educazione avveniva per trapasso generazionale, anche la comunità cristiana riusciva a svolgere la sua missione senza grandi ostacoli. La responsabilità di tutti non era molto teorizzata perché di fatto vissuta, anche se in forma diversa e con deleghe alla organizzazione parrocchiale quando si trattava di insegnare i contenuti della dottrina cristiana in vista della ricezione dei sacramenti. Le rapsodiche osservazioni qui proposte ci rimandano a una delle caratteristiche della società attuale rilevate dalle analisi sociologiche, cioè alla perdita del senso della tradizione, intesa non tanto come modalità abituale di esistenza bensì come dinamismo di trasmissione: soprattutto le nuove generazioni non sarebbero disponibili a farsi introdurre da parte degli adulti alle esperienze vitali. Nasce probabilmente da tale constatazione – che negli educatori genera spesso sensazione di incapacità – la convinzione di tanti, secondo la quale si deve lasciare che ciascuno faccia le sue esperienze, e nell’ambito della fede ognuno deve essere lasciato libero di scegliere. In forma sintetica: sembra non sia più ritenuto necessario farsi ‘iniziare’ e lasciarsi ‘iniziare’; la sottolineatura dell’autonomia personale ha anche nell’ambito delle fasi iniziatorie i suoi risvolti. E ciò sebbene nella vita sociale si ripropongano ‘riti’ di iniziazione. Va però osservato che questi non sono finalizzati a far maturare decisioni nelle persone, bensì a prendere atto di un tappa (cronologica) raggiunta o a dichiarare che si è superata una certa fase dell’esistenza; si tratta di automatismi che non incidono sulla volontà delle persone sì da renderle capaci di orientare consapevolmente la propria vita. Se si volesse usare un paragone, si potrebbe dire che il processo della paideia, tipico dell’antichità, tende a scomparire. Alla fede si giunge accompagnati A fronte di tale constatazione sta il dinamismo, già sopra accennato, del giungere alla fede e al battesimo. Si possono prendere due testi emblematici al riguardo: At 8,26-40; Mc 16,14-20. Ambedue, come già il testo di Rm sopra citato, richiamano che senza la predicazione non si può conoscere Gesù Cristo, e senza qualcuno che compia il gesto non si può essere battezzati. Con ciò si vuol affermare SABATO 16 NOVEMBRE - 195 la dimensione ecclesiale della fede (e del battesimo). Tale affermazione ha un indiscutibile valore strutturale, ma ha pure un risvolto pratico a partire dal quale il valore strutturale viene compreso e affermato: alla fede si è introdotti da chi ha ricevuto un mandato e svolge il compito di iniziatore. Lo si vede nella figura di Filippo, la cui funzione – disposta da Dio – consiste nello spiegare la Scrittura. Questa, infatti, resta sigillata senza qualcuno che ne sveli il significato cristologico. L’esigenza della spiegazione traspare chiaramente nella domanda retorica dell’eunuco (At 8,31), che si contrappone a ogni pretesa di autosufficienza nella comprensione. La spiegazione di Filippo – che qui appare come una riproposizione di quanto Gesù ha fatto secondo Lc 24 – assume un aspetto ‘dottrinale’: si tratta di svelare il significato del passo di Is, non tanto di suscitare ‘sentimenti’. Ed è ovvio che sia così: il momento dell’annuncio (rispettivamente della scoperta) comporta anzitutto la dizione del dato oggettivo; è questo che è vangelo (cfr. At 8, 35; Mc 16, 15). Si supera così ogni prospettiva puramente morale e si offre una indicazione sul modo di accompagnare le persone alla fede. Merita attenzione il termine usato dall’eunuco in At 8,31: odegesei, tradotto con ‘istruisce’, ma che di per sé significa ‘guida’, ‘indica la via’. Non si tratta semplicemente del kerygma, bensì della spiegazione che illustra e quindi apre alla comprensione, al termine della quale si pone la scelta di aderire a Gesù Cristo mediante il battesimo. La fede si configura così anche come intellezione al termine di un percorso. Ciò pare meriti una sottolineatura in rapporto al nostro contesto, nel quale, mentre sul versante scientifico si evidenzia la ricerca di spiegazioni, sul versante della fede si ritiene che si tratti di una opzione prevalentemente legata al ‘sentire’. Va riconosciuto che, per reazione a un cristianesimo anzitutto dottrinale, negli ultimi tempi si è accentuata una forma di cristianesimo del sentimento, anche in forza della fatica a districarsi nelle diverse opinioni. La conseguenza non è solo un ‘relativismo’ dottrinale, ma pure una fluttuazione dell’adesione credente in base alle condizioni del sentire. A questo riguardo, si potrebbe sostenere che il New Age è ampiamente penetrato anche nella Chiesa, dove si rischia di andare alla ricerca di emozioni forti non valutate criticamente nella loro fondazione. E anche le proposte di itinerari alla fede fanno leva, a volte, più sul sentimento che non sul dato dottrinale. Il fenomeno è contestuale all’oscuramento del tema della verità, la cui oggettività sembra suscitare fantasmi di imperialismo. L’esito è una religiosità narcisista, nella quale il termine della ricerca non è la persona di Gesù Cristo, bensì il pro196 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” prio benessere. Diventa allora irrilevante se a produrlo sia Gesù Cristo o il cielo stellato o il silenzio del bosco o il gorgoglio del ruscello. Nulla da eccepire sul valore dell’incontro con la natura. Va però valutato se si tratti ancora di esperienza cristiana, anche se affascinante. Forse proprio per questo si dovrebbero ripensare percorsi che, senza negare il valore del sentire, lo aprano alla dimensione dottrinale, ovviamente ben intesa, cioè come comprensione della persona di Gesù nella totalità della sua vicenda, inclusa quella che appare meno affascinante, cioè la croce. Al riguardo, è sintomatico che il testo di Is nelle mani dell’eunuco sia il cap. 53. Come già nella ‘spiegazione’ di Gesù ai due discepoli di Emmaus prima e ai discepoli riuniti poi (Lc 24), è la croce al centro dell’attenzione: segno che anche nella comunità cristiana delle origini era questo momento della vicenda di Gesù a costituire difficoltà e quindi a esigere una spiegazione. La croce, in effetti, non è immediatamente comprensibile e capace di suscitare interesse; è piuttosto un dato che suscita difficoltà. Ma la fede è anche (forse soprattutto) accettazione del non ovvio, al quale si accede solo mediante una guida. Questa implica una dimensione di autorevolezza ricevuta dall’alto: Filippo si muove su ordine di un angelo e poi dello Spirito, a dire che il suo agire non è pura iniziativa sua. Ci si trova qui di fronte a una tipica visione lucana: la diffusione del vangelo è provocata dallo Spirito (basterebbe riprendere At 2,111 o At 13, 1-3), e l’annunciatore è solo uno strumento, tuttavia necessario; in ultima analisi, nessuno, quando si tratta del vangelo, si muove da sé: colui che lo porta è inviato dall’alto, colui che lo accoglie è condotto dall’inviato (al riguardo si potrebbe rileggere la dinamica descritta in At 10). Dalla fede al battesimo Il compimento dell’itinerario di educazione alla fede è il battesimo ed educare alla fede comporta anche fare memoria del battesimo (si veda il nuovo rito del matrimonio). Al riguardo si deve ricordare che il significato del termine baptisthenai (cfr. At 8,36; Mc 16,16) è “essere immerso”. Se nei due testi non ci si sofferma a illustrare in che cosa si è immersi, lo si coglie dal resto del NT, in particolare da Rm 6, 3-5: il luogo nel quale si è immersi (si noti il passivo) è la morte di Gesù (merita attenzione l’uso del termine homoioma in Rm 6,5, che indica la ‘somiglianza’ tra quello che è accaduto a Gesù con la morte e al credente con il battesimo), per risorgere con lui alla vita nuova. Sullo sfondo sta il gesto rituale dei primi secoli, che voleva indicare come alla morte al peccato e al rivestirsi di Cristo (altro tema presente nel NT per dire la nuova condizione del criSABATO 16 NOVEMBRE - 197 stiano: cfr. Gal 3,27) si è portati dalla Chiesa. Mirabile a questo proposito quanto scrive sant’Agostino, nella lettera 98 indirizzata al vescovo Bonifacio, per spiegare che non è tanto la fede del bambino e neppure dei genitori a rendere valido il battesimo, bensì la fede della Chiesa. In questa luce si comprende anche tutta la terminologia del rito battesimale, che privilegia l’azione transitiva o il passivo: questa forma grammaticale non riguarda solo Cristo o il suo Spirito, ma pure la Chiesa. Del resto, Filippo, pur non avendo ricevuto alcun mandato ufficiale, resta sempre un rappresentante della comunità ellenistica di Gerusalemme; leggendo poi Mc 16,16 in raffronto con Mt 28,19, si coglie chiaramente che coloro che battezzano sono gli undici, cioè il germe della Chiesa. Se poi si volesse sottolineare la scelta del soggetto, questa va nella direzione della fede, non del battesimo: basti vedere i modi dei verbi in Mc 16,16 (credere è attivo, essere battezzato è passivo), che vogliono, nella loro successione, mostrare la precedenza dell’adesione personale rispetto alla ricezione del battesimo. Ma con ciò non si deve dimenticare che anche il credere in senso esplicitamente cristiano è possibile grazie alla predicazione; che è quanto dire: pure alla fede, come sopra si richiamava, si è condotti e quindi anche il credere non è pura scelta; o meglio: è scelta che dipende dall’essere raggiunti da una parola che viene da altrove. La parola sfocia nel gesto e ambedue concorrono a modellare un’esistenza capace di trasformare il mondo liberandolo dal male: cfr. Mc 16,17-18. I battezzati non solo non sono più travolti dal male, ma producono anche trasformazione. E ciò dipende dal fatto che essi ormai condividono, pur in forma incompiuta, la signoria di Gesù (Mc 16, 19-20): i segni da essi posti stanno a indicare che la Signoria di Dio, ora diventata la signoria di Gesù, è ormai stabilita. La trasformazione avvenuta mediante la fede e il battesimo si presenta così come il principio della signoria di Gesù sul mondo, tanto più per il fatto che nella trasmissione della fede e nel conferimento del battesimo, mediante legami ecclesiali, si manifesta una graduale realizzazione della riconciliazione universale. La fede di una persona con il conseguente battesimo (assunto qui come cifra della iniziazione cristiana, che ovviamente culmina nell’eucaristia) è il segno dell’efficacia dell’innalzamento di Gesù a Signore. A questo riguardo gli inni cristologici di Col ed Ef andrebbero richiamati: coloro che sono entrati a far parte della Chiesa, grazie alla Chiesa stessa, rileggono il loro cammino come passaggio dalle tenebre alla luce. In tale passaggio la decisione personale si manifesta come obbedienza resa possibile: nello scegliere l’adesione a Cristo la persona realizza compiutamente se stessa perché accoglie di essere liberata dal potere del male, che consiste anzitutto nell’essere in balia di forze mortifere. 198 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” La Chiesa ‘madre’ che genera A partire dalle considerazioni fin qui poste si può riprendere la metafora della Chiesa madre. Questa, che trova radicazione già nell’ambiente pagano, risale alle origini del cristianesimo ed è stata ripresa dal Vaticano II. Del concilio ci limitiamo a considerare un testo di PO 6: “Mediante la carità, la preghiera, l’esempio e le opere di penitenza, la comunità ecclesiale esercita anche una vera azione materna nei confronti delle anime da condurre a Cristo. Essa infatti viene a essere, per chi ancora non crede, uno strumento efficace per indicare o agevolare il cammino che porta a Cristo e alla sua Chiesa; e per chi crede è stimolo, alimento e sostegno per la lotta spirituale”. Nel contesto della funzione che i presbiteri hanno di edificare la comunità cristiana, il passo citato illustra la funzione materna della comunità non solo in rapporto all’origine della vita cristiana, bensì in tutto l’itinerario vitale; inoltre rimanda all’azione di tutti i membri della comunità: costoro da ‘figli carissimi’ diventano collettivamente soggetti che rendono possibile ad altri di incontrare Cristo. La maternità non si attua semplicemente quindi mediante la predicazione e i sacramenti: riguarda tutta la vita. In tal senso si profila il modello di esistenza quale veicolo per formare/generare alla fede: quel che sopra si diceva a proposito dell’ethos che costituiva l’humus nel quale le nuove generazioni venivano introdotte alla fede, qui trova un riscontro nella prospettiva del ‘dover essere’. Si profila altresì il superamento della visione secondo cui solo i ministri ordinati svolgerebbero una funzione generatrice. Peraltro andrebbe tenuto presente che in PO 6 si allude anche alla funzione ‘paterna’ dei presbiteri, cui corrisponde la funzione materna della comunità. La comunità generata dalla Parola e dai sacramenti diventa a sua volta generatrice mediante la vita corrispondente alla sua origine, e in essa tutti coloro che sono divenuti credenti contribuiscono a modellare/educare la medesima comunità. Ipotesi per un percorso per l’educazione alla fede Si deve anzitutto essere consapevoli del rischio di farsi catturare dalle attese, ma anche di non tenerne conto (sullo sfondo sta una questione cristologica: Gesù Cristo è sì risposta alle attese dell’uomo, ma solo quando questi viene compreso secondo un’antropologia cristianamente ispirata). Si devono poi ricercare punti di aggancio tra l’esistenza umana e il messaggio cristiano, con la capacità di dire le verità di sempre con linguaggi comprensibili (esistenziali, difficili da trovare). In terzo luogo si deve sviluppare la capacità di ricondurre alle questioni fondaSABATO 16 NOVEMBRE - 199 mentali dell’esistenza, anche a partire dalle domande più superficiali. Inoltre è necessario assumere una prospettiva ‘narrativa’ in grado di mostrare che l’incontro con Gesù dischiude orizzonti di esistenza compiuta. Coerentemente, appare ineludibile proporre una morale positiva più che di divieti, e mostrare che la morale è la via a un’esistenza compiuta non effimera (anche a proposito della morale si dovrebbe stabilire una ‘gerarchia di verità’, senza con ciò diventare lassisti). Appare ancora indispensabile educare a pensare e quindi a dire le ragioni delle proprie opinioni (sviluppando il senso critico). Ulteriormente appare importante ridare spazio ai simboli (non a quelli ‘fittizi’: il simbolo richiede un riconoscimento e ha una capacità performativa). Infine è fondamentale curare i rapporti interpersonali che permettono di cogliere il valore esistentivo delle domande e di indicare quello delle risposte. Il percorso qui sinteticamente tracciato non ha certamente la garanzia di condurre le persone alla fede; può tuttavia presumere di riuscire a mostrare che la comunità cristiana sa farsi carico delle persone nelle loro situazioni vitali, affinché nessuno vada perduto. Le ragioni di questo ipotetico percorso Il tempo in cui viviamo provoca necessariamente – lo si diceva in apertura – delle variazioni nel modo di educare alla fede. In tal senso si presenta come kairòs: attraverso le esigenze poste alla missione la Chiesa impara nuovi stili di esistenza. E chi la educa è Dio stesso mediante le circostanze storiche. Sono esse in ultima analisi lo strumento di cui Dio si serve per far camminare la sua Chiesa sul percorso da Lui segnato. Osservando la storia si può dire che le iniziative di rinnovamento della Chiesa provenienti da intuizioni ‘interne’, in verità sono state provocate dall’esterno. È con la storia e nella storia che Dio educa il suo popolo nella fede. Da ciò deriva uno sguardo fiducioso sull’attuale stagione del popolo di Dio: non siamo alla deriva; piuttosto Dio sta educando la Chiesa a ripensare la sua missione, cioè se stessa, per essere maggiormente conforme al suo Signore. 200 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” TRENTO Il dibattito seguito alle due relazioni DOMANDA: – Una domanda al prof. Canobbio: Lei aveva iniziato – suonando delle corde a noi vicine – sottolineando una certa inadeguatezza tra il linguaggio, la modalità e la risposta che in qualche modo i nostri ragazzi possono dare. Ma poi alla fine Lei dice che dobbiamo tornare al nostro Battesimo e vivere la comunità cristiana che in qualche modo è nostra madre. Ecco, io mi sento “orfano di madre”. Tre quarti di queste persone qua vivono il percorso di fede, si impegnano con la propria testimonianza orfani della Chiesa, perché la Chiesa, io penso, non ce la fa più, non riesce a seguirci, non riesce a darci gli assistenti ecclesiastici, non riesce a movimentare al proprio interno risposta alle nostre richieste. Ed è un limite enorme, seconde me, che la Chiesa dimostra ora di fronte a tutti noi. Ma, come è stato detto, è un’occasione per noi importante, alla quale come capi scout non ci sottraiamo. È ovvio che a noi viene in mente l’Estote Parati. Ho sentito prima nel nostro Gruppo di lavoro (eravamo circa 30 persone), che quasi ognuno di noi stava “inventando” una modalità per dialogare con i ragazzi, perché al centro della nostra azione – voi lo sapete – ci sono i ragazzi che ci sono affidati. È ovvio che noi stiamo cercando di formarli come uomini e donne della Partenza, ma oggi qui parliamo della fede, cioè di una componente importantissima, fondamentale della nostra azione, una componente che noi testimoniamo ogni giorno. Ed è questa la fatica, secondo me, che mi anima e che spiega perché sono qua. Sono qua per cercare di capire me stesso, testimoniare meglio questa mia scelta. Però, ed c’è un invito che rivolgo alla Chiesa in qualche modo. La esorto, la Chiesa, a cambiare il linguaggio, la esorto a fare delle scelte importanti, tanto quanto stiamo facendo noi. Ritornare al Battesimo quando un quarto dei nostri reparti è composto da persone non battezzate, parlare della comunità cristiana quando forse (azzardo) noi siamo gli ultimi che riescono a dialogare con i ragazzi usando parole che dicono a loro qualcosa, con riti, modi, l’avventura. Ed è questa la cosa fondamentale: noi siamo invitati a ricostruire – e forse per questo stiamo qua – un linguaggio nuovo, parole, tecniche, per testimoniare la nostra scelta cristiana. Io penso che noi abbiamo molto da dire e molto da fare (e il fatto che siamo qua numerosi lo attesta e mi rincuora moltissimo) ma, con questo mio intervento, io esorto la Chiesa a trovare forme di colSABATO 16 NOVEMBRE - 201 legamento con noi, modi di interazione per aiutarci a trovarci insieme. Non usiamo le solite forme “ritornare al Battesimo” o “ricostituire la comunità”. Vogliamo (io voglio) dalla Chiesa una risposta più precisa, più concreta, laddove è possibile ovviamente perché so che sto chiedendo alla Chiesa una cosa che difficilmente riesce a dare, visto che non ha neanche i sacerdoti per tenere in piedi una propria Parrocchia, ma almeno un aiuto, un’accoglienza più seria e più costruttiva. DOMANDA: – Una domanda al prof. Martelli: a me ha colpito molto la parte sull’attività conseguente alla passività e vorrei collegarla, anche se un po’ forzatamente, alla comprensibilità, quindi ai linguaggi che dobbiamo usare con i nostri ragazzi. Qual è il fenomeno che può avere originato che un’attività succeda a una passività, quale male può aver determinato “metastasi” dell’informazione che gli strumenti, come i social network, hanno dato adesso. Qualsiasi informazione, anche la più certa, la più basilare, ha oggi più detrattori, cioè chiunque che è portato a dire tutto e il contrario di tutto, dappertutto. Qual è il messaggio inattaccabile? Quello solo semplicissimo? A volte io ho difficoltà a parlare con i ragazzi perché non so dove posso essere attaccato. DOMANDA: – Una domanda al prof. Martelli, su educare alla fede in un contesto totalmente nuovo come quello web 2.0. Una domanda semplicissima: come poter essere oggi coloro che rispondono alla domanda: “E voi, chi dite che io sia?”, attraverso queste tecnologie, attraverso un contesto culturale di migrazione? E quanto Papa Francesco ci sta insegnando a dire nell’uso sia degli strumenti tecnologici, ma anche nell’incontro con altre persone? DOMANDA: – Ho detto in altre situazioni di ritenere che la situazione attuale sia una benedizione per noi laici, perché sta spingendo noi laici (ma da bravi italiani con il fucile alla tempia), ad assumerci le nostre responsabilità nel trasmettere la fede ai nostri ragazzi. Ora bisogna capire che cosa c’è in atto e per aiutarci in questo, a comprendere cioè quanto attualmente le scelte della Chiesa sono disposte a delegare a noi laici e alla nostra Associazione, visto che i sacerdoti sono sempre meno, ma anche che Nostro Signore ci ha insegnato che ognuno deve assumersi la propria responsabilità ed ognuno di noi ha il carisma per poter trasmettere la fede. Cosa c’è in essere, cosa c’è all’orizzonte su questa strada? 202 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” INTERVENTO: Il problema non è che ci sono sempre meno preti, il problema è che sono ancora troppi e non permettono ai laici di assumersi le loro responsabilità! Quando non ci saranno più preti, la Chiesa fiorirà! INTERVENTO: – La mia non è una domanda, però io non mi ritrovo nella fratellanza di “figli orfani di madre”, per mille motivi, uno perché non condivido questa definizione di Chiesa come “altra da noi”. La Chiesa siamo noi. Poi non stiamo parlando della ritirata degli alpini dalla campagna di Russia, di una Chiesa che sta cercando di aggirare i danni per portare a casa ancora qualche successo militare, in termini di propaganda, di proselitismo. Io la vivo molto più serenamente. Se la Chiesa è la Chiesa di Gesù Cristo, ci penserà un po’ anche Lui! Bisogna avere anche questa serenità per vivere il nostro compito educativo. Siamo qua a ragionare come nel nostro cammino di educatori, di Associazione educativa che ha un lunghissimo percorso storico, possiamo rendere ancora il nostro linguaggio e quindi il nostro messaggio attuale e capace di essere compreso dai ragazzi che ci ritroviamo oggi, che naturalmente sono diversi da quelli di ieri. Io leggo questo Convegno in questo contesto e lo voglio leggere in un contesto di Chiesa, cioè non insieme alla Chiesa ma insieme ai vescovi, ai sacerdoti, ai nostri assistenti, che non è che non ci sono perché non ce li manda la Chiesa, non ci sono perché ci sono meno sacerdoti e questo mi fa interrogare su cosa io posso fare in questa Chiesa per riuscire ancora a trasmettere questo messaggio. Prof. CANOBBIO: – Il linguaggio che viene utilizzato svela ancora alcune concezioni per dire che, aldilà di tutte le dichiarazioni che noi facciamo, di aver superato il passato, questo ci è rimasto dentro in forma notevolissima. In due interventi ho notato che si usa il termine Chiesa identificandola con i vescovi e con il papa. Forse andrebbe ripensato questo modo di pensare, comprensibilissimo per carità, anche perché nelle alte gerarchie si continua a usare questo linguaggio. Giustamente veniva detto che nel nostro contesto ci sono ancora troppi preti. Pensate, il cristianesimo in Corea è sopravvissuto per due secoli senza neanche un prete. Questo vuol dire che allora i preti non devono esserci? No, i preti continueranno ad esserci, probabilmente non saranno più i preti come li abbiamo conosciuti. Questo vuol dire che ogni cristiano è chiamato a sentirsi protagonista di una trasmissione di quella fede che lui stesso/lei stessa ha ricevuto. I gruppi scout non hanno più un assistente? E chissà che questo non possa essere un’opportunità per far maturare delle coscienze di cristiani laici che forse SABATO 16 NOVEMBRE - 203 sono maggiormente in grado – che non un assistente – di aiutare a maturare la fede sua e quella dei ragazzi che sono affidati. In questo senso, la situazione attuale potrebbe essere una provocazione e mi pare che il Convegno che state celebrando vada in questa direzione e non occorre che siano i preti a chiedere alle persone: “ma tu come risponderesti alla domanda: E voi, chi dite che io sia?” È difficile ma è possibile perché quello che è difficile non è impossibile, basta leggerlo come un’opportunità. Prof. MARTELLI: – Almeno tre interventi, sui cinque che ci sono stati presentati, hanno in qualche maniera offerto occasione per un mio intervento, che però sarà un intervento per così dire bizzarro. Mi viene voglia di proporvi – visto che molti gruppi scout non hanno l’assistente ecclesiastico – un assistente ecclesiastico virtuale. Abbiamo parlato di video-socializzazione 2.0 e mi chiedo: ma non è possibile pensare a un assistente ecclesiastico che possa interagire su queste nuove forme di comunicazione, sui social forum? Ovviamente deve essere una persona reale, non sto dicendo voci sintetizzate o programmi software, però un pochino di tempo di un assistente ecclesiastico scout con un pedigree inattaccabile, che sappia di che cosa parla, non un teologo prestato alla bisogna, ma uno che ci ha vissuto in mezzo agli assistenti. Ovviamente si sperimenta in questo tutta la fragilità di queste nuove tecnologie, non occorre che io spenda molte parole per dire che non ci si deve illudere sulla potenza delle nuove tecnologie, ma forse la debolezza delle nuove tecnologie diventa però un velo in grado di poter mostrare che a domanda si risponde che ci sono nuove forme di linguaggio ecclesiale su questo settore. 204 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” I gruppi di lavoro Domenica 17 novembre (mattino) Quello di domenica mattina 17 novembre è stato indubbiamente uno dei momenti cardine del Convegno Fede. Ha rappresentato infatti lo spazio del confronto a tutto tondo sulla tematica dell’educazione alla fede, riletta alla luce della storia percorsa dall’Agesci, per come ci è stata presentata sabato 16 mattina, e dalle relazioni degli esperti sulle novità emergenti in campo socio-religioso. I partecipanti sono stati divisi in gruppi e ciascun gruppo era invitato a presentare, al termine della discussione, un proprio elaborato. Il numero totale dei gruppi di lavoro, che ha visto scambiarsi opinioni tra capi e assistenti ecclesiastici per tutta la mattinata è stato di 71. Alla fine il materiale prodotto è stato davvero massivo circa la mole di fogli stilati e talmente ricco di stimoli e contenuti che riportarlo per intero in questi Atti avrebbe costretto ciascuno a doversi sobbarcare il carico di giungere a una sintesi, ossia dell’unica cosa utile per riflettere su ciò che ci attende domani. Aggiunto a ciò il ripetersi nel contenuto di molti degli interventi registrati, il convergere di molti intenti sul futuro prossimo, l’assonanza su molte tematiche proprie del nostro essere educatori alla fede, hanno consigliato di riportarne una sintesi ragionata, piuttosto che l’intera estensione del materiale prodotto. Ringraziamo per questo lavoro di messa in sintesi Giorgia Caleari, una nostra capo, oggi Incaricata nazionale al Coordinamento Metodologico, che ad esso si è dedicata con dedizione, sobbarcandosi una fatica non da poco, portando a termine un compito svolto con fine intelligenza e acutezza nel saper cogliere l’essenziale. Echi dai lavori di Gruppo: priorità e azioni di Giorgia Caleari, Incaricata nazionale al Coordinamento Metodologico Il testo che segue nasce dalla rilettura dei lavori di Gruppo del Convegno Fede “Ma voi, chi dite che io sia?” (Catania, Loreto, Trento – 15/17 novembre 2013). Il suo intento è quello di offrire una prima sintesi, certamente non esaustiva, delle questioni emerse. DOMENICA 17 NOVEMBRE - 205 Da uno sguardo complessivo sembra emergere con una certa evidenza il fatto che se da un lato ci intendiamo senza incertezze su cosa significhi essere dei” buoni cittadini”, dall’altro non è altrettanto chiaro cosa voglia dire essere dei “buoni cristiani” in Agesci: nell’ambito della dimensione della fede, infatti, sono ancora molti i nodi non risolti che necessitano di essere posti all’attenzione dell’Associazione nei prossimi anni. Tra le criticità individuate dai capi vi è sicuramente la difficile integrazione tra fede e vita . L’esperienza di fede non può essere alimentata soltanto da momenti formazione, poiché è prima di tutto un incontro, un’esperienza personale, un cammino. C’è bisogno di capi credenti e dunque credibili, capaci di lasciar trasparire la fede nella propria vita, poiché hanno trovato nella Parola il senso delle risposte alle domande che la vita continuamente pone. A rendere più arduo il compito di riconoscere il disegno che sottende alla nostra vita, è la grande ignoranza biblica che caratterizza il nostro tempo e che il Convegno ha denunciato con forza: non è possibile la relazione senza la conoscenza. La mancanza di familiarità con la Scrittura ci rende muti e la storia di salvezza nella quale camminiamo ci diventa estranea, poiché siamo stranieri in un mondo di storie conosciute solo parzialmente. Questo ha una ricaduta anche nella vita delle Unità, che rischia di essere sconnessa da un orizzonte di senso più profondo. Altro nodo problematico è quello del rapporto dualistico tra ragione e sentimento: si cammina sul crinale tra due pendii, da un lato si vive la fede come ragionamento, cercando prove certe e inconfutabili, dall’altro si crede solo in ciò che “si sente” senza apparente possibilità di conciliazione o di superamento in un ordine superiore di pensiero. Anche la catechesi e le attività ordinarie non vengono vissute come unica realtà e si è perso il legame tra preghiera e attività: si vorrebbe che la preghiera fosse nutrimento dell’attività, ma più spesso è un momento separato da essa, poiché forse a monte manca la capacità di applicare gli strumenti del metodo alla catechesi; la conseguenza è che i percorsi proposti non sono sempre connessi e declinati sugli strumenti del metodo, rischiando di divenire generici e utilizzabili indifferentemente in altri gruppi o associazioni. Uno dei temi più sensibili è quello del linguaggio, da molti indicato come il nodo nevralgico. È stato rilevato come spesso le liturgie e i sacramenti non ven206 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” gano compresi dai capi stessi. È pertanto necessario individuare nuovi linguaggi che sappiano raccontare una fede che intimamente si vive, ma che non trova nei riti un codice condiviso in grado di creare comunione. Da un punto di vista strettamente associativo, è emersa anche la necessità di ripensare alla figura dell’assistente ecclesiastico, per arrivare a definire quali siano le aspettative e il profilo richiesto. Spesso i capi lamentano la mancanza dell’assistente, ma quando c’è lo si considera un “professionista della preghiera” e ci si sente assolti da un compito profetico che è invece di ogni capo. Si vorrebbe che venissero maggiormente valorizzate le potenzialità di questo importante ruolo all’interno della nostra proposta educativa, riscoprendo la ricchezza della bella dialettica tra capi e assistenti ecclesiastici. Sullo sfondo emergono i tratti di una tiepida appartenenza alla Chiesa, non per mancanza di amore, quanto per scarsa consapevolezza. È la nostra idea di Chiesa che va maturata dentro il servizio: spesso non ci sentiamo a casa nostra nelle parrocchie, ma ospiti – non sempre graditi – e non condividiamo con le altre realtà i diversi percorsi di catechesi, pur validi, perché non riusciamo ancora a vivere la dimensione comunitaria ampia della fede. In quest’ambito si pone come problematica nuova la questione del coinvolgimento dei capi nella preparazione ai sacramenti dell’iniziazione cristiana: le comunità locali chiedono con crescente frequenza che il cammino scout si prenda cura anche di accompagnare i ragazzi nei sacramenti di iniziazione cristiana e la domanda è se questo faccia parte del nostro carisma ed eventualmente come ci si possa preparare a questa nuova chiamata al servizio. Per quanto riguarda poi i temi eticamente sensibili si può dire che non c’è in tutti chiarezza sulle questioni legate alla bioetica, all’inizio e alla fine della vita, all’omosessualità, al matrimonio e alle separazioni. Si cercano risposte fondanti e non soltanto sul piano normativo, con attenzione alle strade percorribili nella quotidianità delle comunità capi. Vi è infine il tema legato a questo nostro tempo dell’accoglienza di ragazzi di religioni/confessioni diverse, soprattutto in considerazione delle problematiche poste dal momento finale della Partenza. Il dubbio in cui ci si dibatte è tra accoglienza e testimonianza, nel desiderio di prepararsi ad un incontro che coinvolge anche la dimensione culturale e gli stili di vita. Ci si chiede come sia possibile continuare ad educare con un modello antropologico cristiano (Verità, Bene, DOMENICA 17 NOVEMBRE - 207 Bello, Uomo e Donna della Partenza) ed essere rispettosi della cultura, del modo di esprimere la fede, dei riti di ragazzi di altre religioni, ovvero come si possa fare una proposta di fede, senza snaturarne l’identità. A fronte di queste emergenze condivise, i gruppi di lavoro hanno individuato anche alcune azioni specifiche sulle quali ritengono che l’Agesci dovrebbe impegnarsi per sostenere i capi nel servizio educativo. Innanzi tutto, porre maggiore attenzione alla vita di fede dei capi a partire dall’accoglienza in comunità capi: offrire esperienze formative insieme a momenti di preghiera all’interno della vita associativa. Conoscere e formarsi, per superare l’approccio razionalistico alla fede senza scivolare nel “sentimentalismo religioso”. In secondo luogo, occorre ripensare alla comunità capi come comunità educante alla fede e come luogo privilegiato di conoscenza biblica e teologica. È necessario fornire sostegno ai capi Gruppo sul tema della fede, con momenti formativi proposti dalla Zona; promuovere week-end di spiritualità e brevi Campi Bibbia nei fine settimana . Si sollecita la disponibilità a mettersi in rete per conoscere e condividere occasioni formative diocesane o di altre associazioni. Altra direzione indicata è quella di favorire la nascita di centri di spiritualità e, contestualmente, di rafforzare i contenuti e le esperienze di fede all’interno dei campi di formazione. In particolare il Campo di formazione tirocinanti deve stimolare la ricerca di fede, puntando di più sull’aspetto vocazionale, dando priorità alla dimensione comunitaria dell’esperienza religiosa: conoscere la propria storia di salvezza di “popolo in cammino”, l’incontro con un Dio che si fa uomo. Si invita a ripensare anche allo stile degli eventi a tutti i livelli, dal locale al nazionale, in particolare a non distinguere la preghiera dalle attività. Nei campi scuola si chiede di ideare percorsi di catechesi che mettano al centro la parola e che integrino la fede con la vita, tenendo insieme percorso del campo e percorso di fede. Aiutare i capi a legare i momenti di Progressione Personale con la Parola di Dio e il cammino di fede individuale, affinché nelle attività e attraverso gli strumenti del metodo si possano vivere momenti di vita nella fede. Va riscoperto inoltre il senso del simbolismo nel suo significato più autentico, perché non resti ritualismo sterile o momento puramente emozionale. Pensare a nuovi linguaggi per dire la propria esperienza di fede e organizzare momenti formativi per familiarizzare con la narrazione come momento fondamentale della catechesi. 208 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” Sarà importante ragionare sulla figura dell’assistente ecclesiastico e sul suo ruolo in Associazione. Vivere rapporti più intensi con le gerarchie ecclesiastiche, affinché dal dialogo e dalla conoscenza reciproca possa nascere una collaborazione più fattiva. Proporre momenti formativi sullo scautismo anche all’interno dei seminari diocesani, agevolando la partecipazione dei futuri presbiteri ai campi estivi. Sollecitare le comunità capi e le Zone ad uno stile più accogliente nei confronti degli assistenti ecclesiastici, riconoscendone la specificità e la ricchezza. Per quanto riguarda l’essere Chiesa si invitano le comunità capi e le Zone a trovare occasioni di incontro con altre realtà ecclesiali per interrogarsi sulla dimensione comunitaria della vita di fede, per essere presenza viva nei luoghi di confronto con la comunità ecclesiale e con le altre associazioni. Vogliamo diventare sempre più interlocutori credibili per la Chiesa, manifestando il nostro sentirci parte di essa. Per questo è essenziale utilizzare i luoghi associativi (consigli, comitati, ecc...) per sensibilizzare al nostro ruolo e alla nostra presenza nella Chiesa. In merito a catechesi e iniziazione cristiana il bisogno espresso è quello di chiarire in Associazione se sia possibile preparare i ragazzi ai sacramenti “soltanto” con l’attività scout ed eventualmente definire itinerari di formazione per i capi che svolgono questo servizio alla Chiesa locale. Le situazioni eticamente problematiche chiamano ad un approfondimento che le comunità capi non possono svolgere in solitudine. È urgente individuare orizzonti che aiutino a fare discernimento rispetto alle nuove domande poste dal contesto culturale in cui viviamo. Infine, si chiedono linee guida in vista della Partenza dei ragazzi che esprimono una scelta di fede non cattolica e pertanto una definizione dei percorsi di fede e accoglienza per ragazzi di altre religioni. La numerosa partecipazione nelle tre sedi del Convegno Fede ci parla del desiderio di prepararsi al tempo che viene, per dire ancora la gioia della fede ai ragazzi con cui facciamo strada. Raccogliere l’insieme delle riflessioni emerse ci consentirà di indicare gli ambiti all’interno dei quali impegnarci nel prossimo futuro. Dopo la condivisione delle fatiche dell’annuncio e della testimonianza, potremo allora timidamente provare a rispondere alla domanda che ci ha convocato: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Conoscere il Verbo ci aiuterà a trovare le parole per dirLo. DOMENICA 17 NOVEMBRE - 209 Interventi di chiusura CATANIA Matteo Spanò, Presidente del Comitato nazionale Un capo che partecipa ad un evento come questo ha la necessità di portarsi a casa qualche cosa. E non intendiamo deludere. Ma non crediamo che la sintesi a cui ci apprestiamo in questo momento possa essere degna dell’impegno che è stato messo in campo da parte dei capi convenuti in queste tre città. Accadrà successivamente che insieme dovremo rielaborare il pensiero, il frutto del confronto, l’esito del punto della strada che abbiamo fatto qui. Siamo partiti raccontandoci la strada percorsa ed abbiamo generato qualcosa di nuovo. Quando dico “nuovo” non intendo riferirmi esclusivamente a ciò che può e deve essere cambiato, nuovo non significa cambiamento. Possiamo cambiare strumenti, attenzioni, metodiche e stili, ma possiamo anche rinnovare ciò che da sempre mettiamo in campo e conosciamo come fondante, come ad esempio l’ascolto della parola, la necessità di viverla all’interno delle nostre comunità capi. Qualcuno, ieri, ci ricordava che noi siamo in una stagione nuova, un momento bello, carico di opportunità e di occasioni per riscoprire il valore della libertà. Libertà intesa come la possibilità personale di rinunciare alle “maschere” e di fare della libertà una forza comune, per un comune progetto di comunità cristiana. Comunità cristiana di cui la comunità capi può essere un’espressione, un modello, un esempio. La comunità capi come luogo e momento in cui vivere e curare la nostra crescita nella fede e la nostra capacità di farci accompagnatori nella fede, questa è una prima riflessione che porteremo a casa, insieme alla scoperta di una preziosa risorsa da investire e far fruttare, quale è ciò che provvisoriamente abbiamo chiamato catechesi narrativa e che può essere una strada possibile da esplorare e percorrere per educare alla fede ed essere Testimoni del Risorto. Più volte abbiamo sottolineato la necessità di essere testimoni coerenti, cioè capaci di incarnare l’annuncio, ed abbiamo riconosciuto in ciò la nostra debolezza e il nostro bisogno. Anche la famiglia è stata qui riconosciuta come risorsa e al contempo come debolezza e perciò come un fronte verso cui dirigere attenzione e impegno. Emerge come solido il nostro senso di appartenenza alla Chiesa o me210 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” glio la nostra consapevolezza di essere Chiesa. Con questo spirito assumiamo l’impegno di riflettere sul tema della preparazione ai sacramenti. Abbiamo manifestato qui sensibilità diverse, in rapporto ad esperienze diverse: chi ha sperimentato questo servizio può averlo percepito come un’opportunità che ci interpella anche sul piano della riflessione metodologica o può averlo avvertito come una delega da parte della comunità parrocchiale ed un compito affidatoci senza affiancamento e supporto. Ma davvero oggi non possiamo e non vogliamo ridurre ad ulteriore sintesi il prezioso confronto di questi giorni. Certo, sentiamo distintamente di aver tracciato, se non percorso, un pezzo di strada che certamente incrocerà la strada della Route nazionale 2014. Sarà un altro grande momento di ascolto, di riflessione, di pensiero. La nostra Associazione si sta preparando ad una stagione di grande impegno, a rispondere al dovere rinnovarsi, rimettendo al centro della propria azione, con forza nuova e nuovi linguaggi i punti fermi della proprio patrimonio. A voi tutti va un grande grazie, perché tutto quello che potremo dire parte anche di qui, da questo passaggio fondamentale, da questi tre giorni che hanno riempito i nostri zaini di responsabilità nuove, forse anche della paura di nuove fatiche, ma anche del valore delle esperienze vissute e condivise. Siamo in cammino, nel cammino della Chiesa. Ci siamo radunati, in questa splendida terra di Sicilia, chiamati dalla domanda “Ma voi, chi dite che io sia?” Ed orientati da questa stessa domanda riprendiamo il nostro cammino. Buona strada DOMENICA 17 NOVEMBRE - 211 LORETO fr. Alessandro Salucci, op, Assistente ecclesiastico generale Buongiorno a tutti. Vorrei iniziare la sintesi conclusiva di questo Convegno Fede 2013, affidandomi alle parole di San Paolo: «Noi dobbiamo sempre rendere grazie a Dio per voi, fratelli amati nel Signore, perché vi ha scelti come primizia per la salvezza, attraverso l’opera santificatrice dello Spirito e la fede nella verità» (2 Tess 2,13). L’apostolo attesta che il Padre celeste ha scelto ciascuno di noi come “primizia”, come offerta a Lui gradita per portare al mondo la salvezza operata da suo Figlio Gesù Cristo, per il tramite dello Spirito santo. La parola primizia ha nella Bibbia un significato tutto particolare. Essa sta a indicare che tutto viene da Dio e a Dio ritorna, ma è segno anche della cosa a Lui più cara, quella che gli sta veramente a cuore. Infatti Dio ha a cuore ciascuno di noi e non ci abbandonerà mai nella fatica delle prove a cui siamo chiamati per vocazione. Il tutto grazie allo Spirito santo che nel santificare noi santifica il mondo. Il metodo scout ci dice che questo percorso di santificazione personale, questo crescere nella fede, avviene grazie a esperienze che segnano il nostro percorso. Attenzione però. Sant’Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi è riuscito a farci comprendere che non tutto ciò di cui facciamo esperienza viene da Dio, e che è anzi necessario discernere tra ciò che è dello Spirito e ciò che non lo è. Ora, noi che siamo “la primizia” nel campo educativo dobbiamo caricarci anche di questo compito, il compito del discernimento delle esperienze, che si rivela un fardello non da poco e che richiede lunga esperienza e corretta preparazione. Ciò giustifica lo scoramento che ho tante volte sentito risuonare in questi tre giorni. Molti di voi pensano di non essere capaci a gestire la proposta di un percorso di fede, perché non si sentono competenti in questo specifico ambito e quindi non del tutto capaci di gestire la chiamata ricevuta da Dio all’azione educativa. A una missione talmente vertiginosa, talmente delicata, che forse non ne esiste di più ardua. Con i pochi appunti che seguono vorrei provare a confortarvi, a dirvi “coraggio”, a sollecitarvi ad andate avanti comunque. Alle sfide si risponde affrontandole, 212 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” mai facendoci sommergere da esse. A tal proposito tento di fondare questo appello alla fiducia su tre pilastri. Il primo sono gli scritti del fondatore del movimento scout. In essi è scritto a chiare lettere che noi dobbiamo educare al buon cittadino e all’uomo cosciente di un senso “religioso”, come componente essenziale della sua personalità. L’Agesci ha tradotto questo concetto con l’educazione al buon cittadino e al buon cristiano, nella consapevolezza che se non educhiamo uomini e donne di motivata personalità, persone di “carattere” avrebbe detto B.-P., non avremo mai un buon cristiano. Questa è la nostra missione. In questo impegno di fedeltà all’uomo e a Dio, si esercita quell’invito alla missione che per noi è missione educativa, quella stessa che fin dall’inizio Gesù ha affidato ai suoi discepoli e che papa Francesco giustamente ci sta ricordando con pastorale insistenza. Il secondo pilastro su cui vorrei mettere attenzione è il Concilio Vaticano II. Paolo VI, nel 1966, in occasione del 50° anniversario di fondazione dell’Asci, esattamente un anno dopo la chiusura dei lavori conciliari, ebbe a rivolgersi ai capi presenti con l’affermazione che “il Concilio Vaticano II aveva in certo qual modo santificato il metodo scout”. La frase, ascoltata da tutti i presenti, molti dei quali ancora tra noi a testimoniarne il pronunciamento, è talmente forte che non fu riportata nel discorso ufficiale dato alle stampe. Fatto è che con quella frase il supremo magistero della Chiesa riconosceva allo scautismo cattolico italiano di essere una parte essenziale della Chiesa e lo marcava a pieno titolo di ecclesialità, tanto che molti vescovi e i pontefici a lui successivi, a cominciare da Giovanni Paolo II, hanno più volte espresso nei nostri confronti il dovere dell’impegno ad attuare con pienezza il metodo scout, efficace mezzo per servire in pienezza la missione della Chiesa. Ma la frase di Paolo VI ha anche un altro evidente riscontro. Con queste parole il Sommo Pontefice voleva valorizzare il ruolo del laicato nella Chiesa, che fu una delle tante novità volute dal Concilio. Si potrebbe allora estrapolare e dire che B.P., anticipando di quasi cinquant’anni le conclusioni conciliari sul ruolo del laicato nello scautismo, aveva già saputo intuire la forza di questa componente. In ciò lo hanno seguito le associazioni cattoliche italiane poi confluite nell’Agesci, che anticipando i tempi della Chiesa e della politica, hanno saputo valorizzare a fondo la pari dignità non solo del laicato, ma del laicato femminile. Se il Concilio Vaticano II, sia con i pronunciamenti preparatori del beato Giovanni XXIII, sia con le grandi costituzioni conciliari (su tutte la Gaudium et spes), ha segnato la nascita della “teologia dei segni dei tempi”, del saper osservare ciò DOMENICA 17 NOVEMBRE - 213 che accade nel contesto umano-sociale, per esercitare su di esso l’azione profetica della Chiesa e modellarvi l’agire cristiano, allora come Associazione possiamo ben dire di aver colto questo spirito e di averlo esercitato più volte. Personalmente credo che anche questo Convegno Fede sia sulla stessa scia. Lo conferma la vostra partecipazione così numerosa e così attiva, l’afflato che accompagna la vostra ricerca di un senso alla vostra azione catechetica, il vostro desiderio di un miglioramento interiore e metodologico. Perché dunque scoraggiarsi se siamo nell’abbraccio santificante della Chiesa? Qui a Loreto abbiamo iniziato il nostro Convegno accanto alla casa di Maria a Nazareth. A fianco del luogo dove Maria, duemila anni fa, ha pronunciato il suo sì alla richiesta dell’Onnipotente: Hic Verbum Caro factum est (Qui il Verbo si è fatto carne), è infatti scritto in bella evidenza nella santa casa. Un sì, quello di Maria, che non è stato immediato, ma preceduto da un senso di timore, che era al contempo sconcerto e professione di indegnità. Alle parole dell’angelo in effetti Maria: «rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto» (Lc 1,29). A questo esprimersi genuinamente umano di Maria l’angelo risponde con parole altrettanto vibranti, ma questa volta espressione del disegno divino di salvezza: «Non temere Maria, perché hai trovato grazia presso Dio». E quando l’umano e il divino si incontrano come qui niente rimane senza effetto e tutto si compie. Maria è la prescelta, è la “piena di grazia”, è colei che è ripiena dello Spirito Santo. Lo Spirito santo, questo sconosciuto, amava apostrofare il grande teologo Yves Congar, uno dei padri della teologia del laicato al Concilio Vaticano II. Se c’è una parola che è mancata qui a Loreto è stata proprio questa, come se la terza persona della SS. Trinità non fosse parte attiva della nostra azione missionaria. Non fosse il motore della nostra santificazione e di quella altrui (i ragazzi a noi affidati). Ecco allora evidenziarsi il terzo pilastro: lo Spirito santo, la persona della SS. Trinità in forza della quale siamo in comunione con Dio e con la Chiesa universale. Giustamente alcuni di voi hanno evidenziato il bisogno di riscoprire la celebrazione, di valorizzare al meglio la dimensione sacramentale, in qualunque forma essa si esprima nei dettami ecclesiali. È allora bene ricordare che senza lo Spirito santo ci riduciamo a “falsi profeti”, ad annunciatori sterili, a soffiatori di vento. Non dimenticatelo mai: voi siete la “primizia” gradita a Dio nella misura in cui vi mettete in ascolto di Dio e del mondo, e lo sarete ogni volta che saprete decifrare i segni dei tempi con gli occhi di Dio. Ma ciò è impossibile se, come Maria, non vi riempite dello Spirito di Dio. Spirito che va invocato nella preghiera e accresciuto nella carità. 214 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?” In questo scambiarsi di idee che è stato il nostro Convegno sono emerse proposte, iniziative e conferme davvero importanti: il metodo della narrazione, il bisogno di spazi per accrescere le nostre conoscenze bibliche e teologiche, l’approccio per definire il ruolo della parrocchia, l’impegno a una catechesi dell’iniziazione cristiana. Grazie per questo vostro contributo, grazie per il clima di fraternità che siete riusciti a creare, grazie per esservi voluti coinvolgere senza risparmio. Sarà ovviamente compito del post-Convegno realizzare e razionalizzare tutto quello che in questi giorni è stato messo a fuoco. E un numero così significativo di partecipanti, tanto da stupirci perché andato oltre ogni attesa, impegna più che mai l’Associazione a dare soluzione alle differenti richieste. Da oggi è iniziato il dopo Convegno Fede che dovrà vederci altrettanto partecipi quali che siano i suoi prossimi passi. Per procedere al meglio sarà necessario accordare una sinergia tra capi laici e assistenti ecclesiastici, il cui ruolo è insostituibile nel procedere Associativo. Sono loro a garantire la dimensione sacramentale, a consentire l’accesso allo Spirito santo tramite la celebrazione Eucaristica, il rito della Riconciliazione, l’assistenza nella direzione spirituale, il sostegno della competenza teologica, la comunione col magistero ecclesiale per il cui mandato agiscono tra noi. Purtroppo non sempre i nostri vescovi riescono a capire il bisogno profondo che abbiamo di assistenti ecclesiastici e lasciano sguarniti i nostri gruppi. Anche su questo fronte sono state avanzate proposte che andranno attentamente considerate. Spero che quanto andiamo dicendo confermi a molti di noi che l’Agesci non è una chiesa nella Chiesa, – definizione che forse spetta ad altri movimenti ecclesiali ma non al nostro–, ma che è parte viva della Chiesa Universale di cui vuole compiere la missione secondo il mandato ricevuto. A tal proposito la preghiera di chiusura sigillerà con uno specifico mandato la nostra convinta adesione alla missione della Chiesa che è in Italia e alla Chiesa universale. È in questa scia che si situa il sempre maggior numero di vescovi che chiede ai nostri gruppi di farsi carico di quello che era il catechismo parrocchiale per la preparazione ai sacramenti dell’iniziazione cristiana e la sempre maggiore adesione dei gruppi a questa prospettiva. Ovviamente l’impegno va ben inteso e misurato sulle nostre forze e sulle nostre competenze, al fine di non snaturare l’essenza propria del nostro metodo scout, ma neanche di fallire il compito affidatoci. Già da tempo ho intrapreso colloqui con i vertici della Conferenza Episcopale Italiana e dell’Ufficio Catechistico nazionale per meglio comprendere la portata dell’impegno. La recente malattia che mi ha colpito ha purtroppo sospeso tutto, ma adesso è DOMENICA 17 NOVEMBRE - 215 forse il momento di ascoltare l’Associazione nelle sue varie componenti e giungere per qualcosa di concreto in proposito. L’importante è che non perdiamo il senso dell’obbedienza creativa, della capacità di servire la Chiesa locale aiutandola anche là dove non troviamo l’accoglienza sperata, senza con questo rinunciare al nostro specifico educativo che, lo ripeto, ha dalla Chiesa stessa ricevuto la sua consacrazione. Anche in questo l’Associazione non può che affidarsi a voi, a voi che conoscete le realtà territoriali, sia socialmente che ecclesialmente, che siete le sentinelle del territorio e che meglio di tutti potete mediare per una giusta soluzione, magari dietro a generali linee di indirizzo offerte dall’Associazione. Da Trento, Loreto, Catania, sembra sorgere al nostro interno una nuova primavera, ricca di “primizie” e di speranze. Quello che mi raccomando è questo: preghiamo lo Spirito santo con insistenza, senza stancarci mai, come direbbe San Paolo, affinché ci illumini con i suoi doni per saper discernere ciò che è giusto e gradito a Dio. Carissimi, se non recuperiamo la preghiera personale, se non dedichiamo del tempo a prestare attenzione al Dio dell’Assoluto, se non sappiamo chiedere in piena umiltà l’illuminazione e il sostegno della grazia di Dio, difficilmente possiamo farcela a reggere questo mandato, a onorare il nostro status di primizie. E nella misura in cui vi affiderete allo Spirito non avrete nulla da “temere”. Ecco delinearsi già un primo compito del post-Convegno: congregarsi in una comunione di preghiera ampia quanto lo è l’Associazione, per far salire a Dio il grido della nostra supplica e della nostra richiesta di grazia. Un’invocazione che non passerà inascoltata (Cfr. Salmo 4,1-4). Non dimentichiamo mai quel confortante passo evangelico dove Gesù annuncia che quando due o più si riuniranno nel suo nome, egli sarà in mezzo a loro. È così che ha dato vita alla Chiesa fidandosi di dodici apostoli, poveri pescatori analfabeti, esattori delle tasse, fanatici religiosi. Ora, anche noi, se come gli apostoli viviamo la nostra Pentecoste, allora saremo ben capaci di cose grandi. Non temete dunque, non siete soli in questo delicato compito educativo, è con voi l’Associazione, la Chiesa santa e cattolica, Gesù Cristo, lo Spirito santo e il Padre Onnipotente. Non siamo mai soli nel nostro agire e per questo ce la possiamo fare, sempre, purché spinti dall’ amore di Dio (cfr. 1 Gv, 4, 18). Ancora grazie a tutti voi per la passione con cui avete vissuto questo Convegno Fede 2013, grazie per aver condiviso la vostra passione e la vostra fede. Dio vi accompagni lungo la vostra strada e buon lavoro di prosecuzione. 216 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI CHI DITE IO SIA?” TRENTO Marilina Laforgia, Presidentessa del Comitato nazionale Conosciamo, per averla vissuta tutti e più volte, la legittima attesa da parte di chi è stato convocato di vedere, prima di tornare da dove si è venuti, il frutto dell’“essere convenuti”. Ci si aspetta, prima di ripartire, di poter vedere quale forma ha preso, nel suo convergere, il pensiero, l’esperienza, lo scambio, il vecchio e il nuovo che si sono incontrati e combinati. Si avverte, quasi, il diritto a tornare a casa avendo un'idea di quel che è accaduto nel luogo dell’incontro, potendo così immaginare che cosa da quel punto in poi potrà ancora accadere. Riconosciuto questo, bisogna riconoscere anche il carattere di assoluta provvisorietà del giusto tentativo che ora facciamo di dare risposta a questa attesa. È provvisorio perché molto più tempo, molto più studio, e anche molta meno ansia richiede la raccolta e la restituzione a chi lo ha prodotto di un pensiero collettivo così importante, importante perché tocca la verità del nostro servizio quotidiano e la ragione stessa per cui tutti noi siamo e vogliamo essere questa Associazione, l’Agesci. È provvisorio quello che potremo dire perché, pur chiudendo il Convegno e accompagnando i saluti, apre – deve aprire – per tutti noi una fase di ricerca di nuovo, perché il Convegno stesso nasceva per aprire... una “stagione associativa”, dicevamo. Detto ciò e confidando nella benevolenza di tutti e dopo aver messo insieme al nostro il frutto raccolto a Loreto e Catania (anche questo provvisoriamente ed approssimativamente), ecco quel che crediamo di poter “restituire”. La domanda “ma voi, chi dite che io sia?” ha avuto veramente la forza di un richiamo, come a risvegliare la fame e la sete della Parola e il desiderio di raggiungere la fonte dell’acqua fresca (per richiamare le parole di Don Rinaldo). Chi è qui è venuto spinto da una motivazione personale e profonda. Capi giovani, molti. Non sempre, tuttavia, accompagnati fin qui dal cammino delle comunità capi (come avremmo voluto che fosse quando un anno fa abbiamo lanciato questo evento, scrivendo contemporaneamente a ciascun capo e a ciascun capo Gruppo). Lo hanno detto anche a Catania: potrebbe essere proprio una sfida cruciale, quella di imparare a vivere le nostre comunità capi DOMENICA 17 NOVEMBRE - 217 anche come occasioni per sperimentare la comunità cristiana, il cammino cristiano, che non ammette solitudini. C’è’ una parola piuttosto pesante, che in altri contesti o momenti potrebbe suonare persino offensiva, e che qui, come a Loreto e Catania, è risuonata descrivendo un certo carattere delle nostre comunità capi. È la parola analfabetismo applicata al nostro rapporto con i testi “sacri”. Propriamente sacri, come la Scrittura, ma sacri anche perché pietre miliari della storia e della cultura associativa. Ma a sorprendere e a sfidare è, altresì, la considerazione che trent’anni della nostra storia non costituiscono per molti capi il terreno in cui affondare le radici di una ricerca di nuovo. Dovremo prender atto di quanto le comunità capi fatichino a mantenere e consegnare con forza generativa, il filo della nostra storia, via via che, appunto, si rigenerano. Possiamo sentirci “orfani della madre Chiesa” o farci grembo generativo della nostra madre Chiesa. “Siamo gli ultimi che riescono a dialogare con i ragazzi”. Questa espressione è risuonata quasi come un grido in questa sala ieri, un grido carico di ansia, di preoccupazione. Ma è risuonato anche come la scoperta di una responsabilità nuova, non soltanto nei confronti dei giovani, anche nei confronti della nostra Chiesa. Siamo maestri nella parlata, noi, e proprio la nostra storia, raccontata qui ieri ci ha ricordato come siamo stati capaci in passato di renderla nuova, anche per parlare alla Chiesa. Abbiamo bisogno anche di una parlata che ci renda capaci di imparare lingue nuove. È noto che una lingua straniera non si impara se non pratichiamo con competenza la grammatica della lingua madre. Anche il nostro linguaggio – come i new media – è un ambiente, educativo il nostro. Abitarlo con competenza ci permetterà di abitare anche i new media come ambienti e di far interagire il nostro con questi. Abbiamo un bagaglio ancora ricco di materiali utili, di sorprendente portata rinnovatrice: la narrazione, da tecnica e stile della relazione educativa a modalità di catechesi, proprio quella catechesi che sembra raccogliere la lezione di monsignor Canobbio, “insegno e imparo... a riconoscere i simboli, non quelli fittizi, ma i simboli dalla forza performativa”. E questo è emerso con decisione qui, a Loreto e a Catania e, non senza prudenza, possiamo dire che rappresenta già un terreno di ricerca, di studio e di impegno che potremo cominciare a frequentare già da domani. Si delinea come nostra specifica missione la catechesi del primo annuncio. Ma 218 - CONVEGNO F EDE 2013 “MA VOI CHI DITE IO SIA?” risuona anche con insistenza un richiamo ad attrezzarci (significa a investire ancora il nostro patrimonio metodologico e pedagogico) per l’iniziazione cristiana e la preparazione ai sacramenti. Forse vediamo più nitidamente la frontiera del dialogo interreligioso; ne scorgiamo tre valichi, distinti, comunicanti, ma da non confondere e da non sovrapporre: l’accoglienza che mai rinuncerà all’annuncio esplicito e al dialogo. Accoglienza, annuncio e dialogo che, come sappiamo, sono tanto più possibili e fruttuosi quanto più salde sono le identità in gioco. È questo, forse, il terreno di un approfondimento antropologico, di ricerca e ridefinizione del profilo di uomo e di donna che incarniamo e che proponiamo. Ma dal nostro bagaglio sembra che si debba tirar fuori un gioiello della nostra pedagogia, per metterlo a disposizione dell’accompagnamento alla fede delle nuove generazioni. È l’interdipendenza fra pensiero e azione. Non certo, come avvertiva il prof. Canobbio, per un’educazione ad una fede intellettuale, ma per un’educazione alla fede come esperienza di libertà, per chi viene accompagnato e per chi accompagna, in una relazione reciprocamente liberante. Ci vorrebbe molto più spazio e molta più lucidità per trattenersi su questo aspetto dell’educazione al pensare e al senso critico come presupposto dell’educare alla fede, e lo faremo, spero. Intanto voglio con tutte le mie forze raccogliere questo richiamo al pensare e al liberare, perché è questo che stiamo preparando per tutti i rover e le scolte d’Italia e lo stiamo facendo con tutto l’amore che sentiamo per loro, scoprendoci consapevoli, infine, che è proprio questo che ci ha portati qui. DOMENICA 17 NOVEMBRE - 219 Finito di stampare nel mese di dicembre 2014 da Micropress srl via Giovanni da Palestrina 108, Fermo - Italia A 50 anni dall’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II, vogliamo raccoglierne lo spirito: riscoprire la più profonda e autentica tradizione cristiana e trovare le forme più capaci di comunicare questa tradizione agli uomini e alle donne di oggi. Con la Chiesa italiana vogliamo raccontare loro “la Vita Buona del Vangelo”, per lasciare che lo Spirito susciti uomini e donne nuove, capaci di una “parlata nuova” che sappia narrare con credibilità il vangelo di Gesù Cristo, iniziare alla vita cristiana, far crescere nella fede, rispondere alla domanda che interroga noi, come i discepoli stessi di Gesù: e voi, chi dite che io sia? (dalla Lettera di invito al Convegno Fede 2013)