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La Battaglia terrestre di Cuma (524 a. ) Non lontano da Capua e ben arroccata su un promontorio di fronte all’sola di Pitekousa (Ischia), sorgeva la colonia euboica di Cuma, fondata intorno al 740 a. C. Nel 524 a. C. Cuma fu attaccata da un esercito composto da etruschi, umbri, dauni ed altri barbari Questa, se si escludono le prime schermaglie tra romani e veienti nel primo periodo monarchico di Roma, fu la prima battaglia terrestre degli etruschi di cui si abbia notizia certa.. L’unico storico antico a dare notizia di questa battaglia è Dionigi di Alicarnasso Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VII, 3, 4. (attivo a Roma nella seconda metà del primo secolo a. C.), mentre Livio, suo contemporaneo, non ne fa alcun cenno. Ecco come Dionigi ci racconta l’evento: « Durante la sessantaquattresima olimpiade, quando Milziade era arconte di Atene, i Tirreni delle coste del golfo Ionio Il golfo ionico è la grande insenatura del Mare Adriatico., dopo che da lì furono cacciati dai Galli, insieme agli umbri e ai dauni e ad altri barbari in gran numero tentarono di distruggere Cuma, città greca tra gli opici, fondata dagli eretri e dai calcidesi, senz’altra ragione se non per odio della loro prosperità. Infatti Cuma famosissima a quei tempi in tutta l’Italia per la ricchezza, per la potenza e per molti altri beni, possedeva le terre più fertili della Campania con porti efficientissimi presso Miseno. I barbari, invidiando quella grande ricchezza, le mossero contro con 18.000 cavalieri e non meno di 500.000 fanti. Dopo che questi si accamparono non lontano dalla città accadde uno straordinario prodigio che non si ricorda essere mai accaduto in alcun luogo né tra i greci, né tra i barbari. I fiumi che scorrevano presso gli accampamenti (uno si chiamava Volturno e l’altro Clanis) smettendo di scorrere in modo naturale, invertirono il corso risalendo per molto tempo dalla foce alla sorgente. Visto il prodigio, i cumani presero il coraggio di piombare sui barbari, come se gli Dei stessero per avvilire la forza di quelli e per incoraggiare loro che già apparivano depressi. Così, dividendo in tre parti gli uomini atti alle armi, schierato uno squadrone a difesa della città, un altro per le navi e il terzo davanti alle mura, aspettarono che il nemico si avvicinasse. I cavalieri cumani erano seicento mentre i fanti erano quattromilacinquecento: anche se così pochi di numero tennero testa a tante migliaia! Appena i barbari seppero che i cumani erano pronti alla battaglia, dato un grido, corsero in formazione barbara, disordinati e con i cavalieri misti a fanti, proprio nel tentativo di annientarli in un sol colpo. Il luogo davanti alla città dove si affrontarono era una valle angusta, circondata da lagune e da monti, favorevole al valore dei cumani ma avversa alla folla dei barbari. Così che questi, travolgendosi e calcandosi gli uni sugli altri in più luoghi e principalmente nel fango intorno alla palude, si distrussero in gran parte tra di loro senza neanche scontrarsi con la milizia greca dei cumani: e quell’esercito così numeroso, a piedi, disfatto e sbaragliato da sé stesso, scappò da varie parti senza aver concluso nulla di concreto. La cavalleria, però, andò all’attacco dando molto filo da torcere ai greci: ma non potendo circondare il nemico per l’angustia del luogo, e temendo che il fato combattesse a favore dei cumani con piogge, con tuoni e con fulmini, si diedero anch’essi alla fuga. In questa battaglia i cavalieri cumani combatterono tutti valorosamente e per questo furono celebrati come autori della vittoria. Si distinse sopra tutti Aristodemo detto il Malaco; poiché, affrontandolo, da solo uccise il capitano nemico e anche molti valorosi. Finita la battaglia si offrirono molti sacrifici di ringraziamento agli Dei e fu data adeguata sepoltura ai caduti in battaglia. Ma quando si dové decidere a chi attribuire la corona, cioè al più forte, si discusse a lungo. I magistrati meno influenti, assieme al popolo, volevano che fosse concessa ad Aristodemo, ma i più potenti, assieme al Senato (decisero) per Ippomedonte, capo della cavalleria. A quei tempi Cuma era governata dagli aristocratici e il popolo contava poco; ma sorta una sedizione a causa di questa controversia, gli anziani temendo che tanta ambizione generasse un cruento tumulto, convinsero le due parti a dare ugual potere ai due valorosi. Da quel momento Aristodemo il Malaco divenne il protettore del popolo; e poiché nei discorsi pubblici aveva proposto un ottimo argomento, con questo convinceva la massa, proponendo giuste leggi, facendo elargizioni ai poveri e rimproverando i potenti di appropriarsi dei beni comuni. Per questi motivi divenne molto sgradito e pericoloso per gli aristocratici». Questo resoconto pone non pochi interrogativi. La prima cosa che osserviamo è che questa sembra avere la connotazione di una battaglia storicamente anomala e potremmo addirittura negare l’evento se non fosse per il fatto che la fine della battaglia vede l’ascesa politica di Aristodemo di Cuma. Le nostre perplessità riguardano la provenienza e la natura dell’esercito che attaccò Cuma, il numero di quella massa umana e il prodigio dei due fiumi. Ma esaminiamo uno alla volta i punti elencati. Circa la provenienza di questi etruschi riteniamo che si debba scartare l’ipotesi che fossero originari dell’Etruria propria e, in particolare, di Caere o di altre città costiere. In questo caso, infatti, Caere avrebbe attaccato Cuma dal mare (come tenterà di fare nel 474 a. C.). Se invece si accetta l’ipotesi che gli etruschi presenti in questo miscuglio di popoli non fossero campani bisogna ammettere la loro provenienza dall’Etruria padana e che questi, poi, presa la direzione adriatica, assieme a gruppi di umbri, si siano congiunti con i dauni della puglia nord-occidentale e, di qui, valicando l’Appennino non senza difficoltà, alla stregua di quella che fu chiamata la “crociata dei pezzenti” di Pietro l’Eremita (1096 d. C.), abbiano proseguito verso la Campania per raggiungere le sue pianure. Una simile impresa, sicuramente ricca di molte situazioni di pericolo, oltre a richiedere un lungo lasso ti tempo ― mesi, se non anni ― avrebbe dovuto lasciare una traccia ben più marcata nella storia. Si può pensare, allora, ad una migrazione in massa, che comprendesse, oltre ad un numeroso esercito, per altro male addestrato, interi nuclei familiari, carri trainati da buoi e masserizie varie, verso il sud della penisola. La causa di questa migrazione potrebbe essere vista, probabilmente, in una delle tante ondate dei galli che dall’VIII al IV secolo scesero in Italia dalle Alpi. Non sembra improbabile che piccoli gruppi di etruschi di varie parti della Campania abbiano fatto parte dell’esercito che attaccò Cuma, ma neghiamo l’intervento ufficiale di città come Capua, Nola o Aversa. Osserviamo che, in tal caso, se gli etruschi di queste città (ma anche di altre, in particolar modo di Pontecagnano e di Fratte) avessero voluto eliminare definitivamente il pericolo greco, scongiurato una prima volta nella battaglia di Alalia ad opera dei ceriti, avrebbero potuto coalizzarsi e combinare un attacco da terra e da mare con le navi di Caere e altre che senz’altro dovevano possedere gli etruschi di Pontecagnano e di Fratte che si affacciavano su golfo di Salerno; ma le città etrusche sono sempre state gelose della loro indipendenza, quasi sempre condividendo tra loro solo la lingua e le tradizioni sociali e religiose. Tra l’altro, non si hanno notizie di eventi bellici tra la colonia greca e gli etruschi campani fino al 524 a. C. Poiché tra i due popoli c’erano stati comunque intensi rapporti commerciali e culturali (proprio da Cuma gli etruschi appresero l’alfabeto che da qui si diffuse in tutta l’Etruria) è lecito pensare che fino a quella data le due etnie non abbiano avuto rapporti conflittuali. Tra l’altro la stessa Capua accolse alcuni aristocratici cumani espulsi da Cuma (dopo il 505 a. C.) da Aristodemo quando questi diventò tiranno della città. I numeri proposti da Dionigi (500.000 fanti e 18.000 cavalieri) ci sembrano a dir poco eccessivi; se si pensa che la popolazione di una città come Tarquinia non superava a quei tempi il numero di 35.000 anime il numero totale di una simile massa umana in movimento non doveva superare, a nostro giudizio, le 100.000 unità. Riteniamo, inoltre, che tale numero comprendesse non solo guerrieri, ma interi nuclei familiari, per cui, tolto dal totale proposto il numero delle donne, dei vecchi e dei bambini, risulta un numero di circa dieci o al massimo quindicimila uomini atti alle armi. Un’ultima riflessione è quella che riguarda lo strano prodigio. Dionigi, infatti, ci parla di fiumi che avevano invertito il loro corso e di una giornata chiusa e piovosa, squassata da tuoni e rischiarata da moltissimi fulmini. Non è difficile vedere allora in questa informazione un evento che oggi chiamiamo “bomba d’acqua” associata ad una tempesta marina che avrebbe spinto le acque ingrossate del mare nei corsi del Volturno e di un altro fiume che lo storico chiama Glanis (da identificare con quello che oggi viene chiamato “Regi Lagni” e che scorre un po’ più a nord di Aversa perpendicolarmente alla costa) causando lo straripamento e l’allagamento della “terra di lavoro” (oggi chiamata “terra dei fuochi”) con conseguenze alluvionali fino a Cuma Nel corso del ‘900 il Volturno è straripato alcune volte allagando vastissime zone pianeggianti.. Per quanto riguarda la dinamica della battaglia non esistono seri problemi ad accettare la versione di Dionigi; aggiungiamo, tuttavia che la vittoria dei cumani non fu determinata solo dalle avverse condizioni meteorologiche (queste dovettero causare ovviamente problemi anche ai greci) ma principalmente alla superiorità tattica di un esercito ben organizzato che combatteva contro quella che potremmo definire un’“armata Brancaleone” ante litteram. Il successo dei cumani in questa battaglia fece in modo che tempo dopo Aristodemo divenisse il tiranno di Cuma imprimendo poi un nuovo corso alla politica della sua città.