LA SAMBLANA,
PRINCIPESSA DEL BIANCO INVERNO
di Laura Violet Rimola
Sulla gelida vetta delle montagne più alte, fra le grotte azzurre ricamate di ghiaccio e il
luminoso candore della neve, in un bianco reame nel quale governa l’eterno inverno,
viveva un tempo una bellissima principessa, ricordata nelle tradizioni dolomitiche come
la Samblana.
La sua dimora prediletta era la cima del monte Antelao, ma si dice che in origine la
fanciulla vivesse nel bosco Bayon, fra le fitte conifere che crescono sulla parte orientale
della montagna.
Secondo la leggenda, la Samblana era un’antica principessa indigena che governava sui
Maòi – o Bedoyeres, il matriarcale “Popolo delle Betulle” che abitava nella Pusteria (1).
Sebbene molto bella, la giovane era assai ambiziosa, e non accontentandosi del piccolo
paesello sul quale regnava aveva voluto sottomettere anche i popoli vicini. Ogni anno,
all’approssimarsi del gelido inverno, si faceva cucire un abito di candido velo, e questo
doveva essere ogni volta più sfarzoso, lungo e luminoso, e ornato dei ricami più
preziosi. L’ultima di queste incantevoli vesti “era intessuta di luce, d’argento e di
albume d’uovo ed era talmente lunga che mille fanciulle dovevano sostenere lo
strascico, quando la principessa la indossava” (2). Tuttavia lei non era ancora
soddisfatta, perché la bellezza che desiderava superava quella che le più abili sarte
sapevano riprodurre, e per ottenere altri vestiti adatti alla sua aspirazione obbligava il
popolo a pagare imposte sempre più gravose. Così fece per diverso tempo, finché i
sudditi, non potendo più sopportare i suoi mutevoli capricci, le si ribellarono e la fecero
prigioniera, confinandola sulla cima dei monti di vetro, in una landa deserta, gelida e
ghiacciata che ancora oggi viene chiamata Nöfes.
Relegata in completa solitudine su quelle vette abbandonate, la Samblana venne
dimenticata dagli uomini, e sul suo lunghissimo strascico bianco cadde la neve e si
formò uno spesso strato di ghiaccio, così che la principessa non poté più muoversi.
Allora ebbe modo di ripensare al suo regno passato e si rese conto con grande amarezza
dei molti torti fatti al popolo che l’aveva amata e onorata, pentendosi profondamente per
la severità e la prepotenza che gli aveva rivolto.
In tale dolorosa penitenza stette per lunghi anni, finché un giorno giunsero a lei due
bambine molto piccole, le quali dissero di voler reggere la sua veste “affinché ella
potesse liberarsi dei legami del ghiaccio” (3). La Samblana si rallegrò per la lieta
compagnia che le piccole ospiti le procuravano, e col passar del tempo altre bambine
arrivarono dalla bella principessa, e poi ne vennero altre ancora, e tutte desideravano
sorreggere il suo grande strascico per liberarla. Alla fine le piccole ancelle furono
talmente tante che riuscirono a scrollare la neve e il ghiaccio dall’abito della Samblana e
a sollevarlo, permettendole di muoversi di nuovo. Così, quando giunse il gelido inverno,
la principessa cominciò a spostarsi di monte in monte, alla ricerca di un posto che le
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piacesse più degli altri nel quale stabilirsi. Dapprima visitò la Marmolada, poi si recò
sulla Tofana di Mezzo, sulla Fradusta, e infine scelse la chiara vetta dell’Antelao, dove
si dice che viva ancora adesso, circondata dai ghiacci, dalla neve e dalle sue bambine.
Sebbene passassero gli anni, infatti, molte giovinette continuarono a recarsi dalla
candida fanciulla per offrirle il loro servizio, e ogni qualvolta divenivano più numerose
di quanto fosse necessario per sorreggerne il pesante strascico, lei ne congedava alcune,
donando loro un pezzetto del suo lucente vestito. E non appena le piccole damigelle lo
indossavano, subito diventavano bianche come la neve, avvolte in un etereo biancore
luminoso. Allora, e solo allora, se ne volavano via, verso i mondi incantati nei quali
vivono tutte le anime luminose. (4)
La bella principessa della neve e dei ghiacciai di cui narrano i racconti dolomitici, altri
non sarebbe se non un’antichissima divinità dell’inverno, che con l’avvento della nuova
religione patriarcale venne dapprima dipinta come dispotica, ambiziosa e vanitosa, “in
base al processo denigratorio delle divinità pagane” (5), e in un secondo momento
venne punita ed esiliata fra i ghiacci eterni dei monti di vetro, dove si pensava che
nessuno avrebbe più potuto udire la sua voce.
Tuttavia vi fu un tempo remoto in cui la Samblana viveva più vicina al suo popolo, e si
aggirava nei boschi e vicino alle sorgenti, mostrandosi sempre benevola, generosa, e
amorevole nei confronti degli uomini. Lei era la signora che portava la neve ad
imbiancare le valli, ma proteggeva anche i boschi e gli animali dalle gelate. A lei si
diceva appartenesse un maestoso e rigoglioso faggio che cresceva nel bosco Bayon,
considerato sacro dagli antichi popoli, e sua era anche la piccola sorgente che vi
scorreva poco distante, le cui acque erano ritenute magiche e terapeutiche. Si credeva
infatti che guarissero da certe malattie, e accrescessero la fertilità nelle donne, che forse
la raccoglievano per bagnare il ventre, invocando la dolce protezione della Dea. (6)
Quando ancora viveva fra la florida vegetazione montana, la Samblana aveva creato la
prima stella alpina, fiore magico che sboccia solo ai margini dei crepacci e fra le alte
rocce di montagna, ovvero nei luoghi più pericolosi e difficili da raggiungere (7), e
inoltre aveva donato agli uomini le sue cipolle incantate, che crescevano attorno al
laghetto Thigolye – letteralmente “lago delle cipolle”.
Questi magici tuberi, che si potevano cogliere fra i fitti larici e gli abeti rossi che
circondavano il piccolo specchio d’acqua, proteggevano dal Barba Gol, un malefico
stregone il cui unico intento era quello di gettare le sue infide bategoi – “stregonerie” –
sugli uomini per stordirli e ingannarli, ovvero per confonderli e far perdere loro il senso
della realtà. Bastava però tener con sé una delle cipolle della principessa per mettere in
fuga il mago con i suoi infidi inganni, ed era inoltre sufficiente mangiarne una per
guarire da alcune malattie rare e incurabili con le normali medicine dei dottori. (8)
Anche nel gruppo dolomitico di Brenta, a ovest del fiume Adige, si narrava un tempo di
certe cipolle incantate, che erano state portate in quelle terre da una misteriosa regina
straniera. Questo frammento di leggenda, insieme ad altri disseminati sino a sud delle
Alpi, dimostrano che le storie sulla Samblana si diffusero anche in altri luoghi,
spostandosi di monte in monte come il suo candido abito.
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Con l’avvento del patriarcato, come accennato, la principessa venne dunque confinata
sulle alte cime innevate, e nessuno sentì più parlare di lei. Ciò nonostante, una
moltitudine di bambine si misero in viaggio per raggiungerla, esprimendo l’unico
desiderio di starle accanto e di liberarla dai ghiacci che l’avevano rapita. Chi potevano
essere nella realtà queste piccole damigelle dallo spirito antico?
Le figlie bianche della Samblana
Secondo alcune storie, le piccole ancelle della Samblana provenivano dalla terra degli
uomini ed erano le anime delle bambine indesiderate, le quali venivano sacrificate dalle
madri – o da una donna di conoscenza che svolgeva per loro l’arduo compito – e
affidate simbolicamente alle amorevoli cure della principessa. Si credeva infatti che la
fanciulla accogliesse con gioia le bimbe nel suo regno incantato, e che le piccole
vivessero con lei nella più gaia armonia, fino al momento in cui sarebbero state pronte
per volare oltre i ghiacciai.
A tal proposito, un tempo si diceva che la Samblana avesse adottato le molte bambine
del paesello di Dobbiaco, nate in considerevole eccedenza rispetto ai maschi. Le piccole
avevano raggiunto il bianco reame accompagnate dalla Luna, che dopo averle
dolcemente raccolte come una culla le aveva posate in cima al monte, e lì avevano
vissuto a lungo accanto alla loro bianca signora.
In questa storia, come in molti altri frammenti leggendari, gli attributi di vanità e
prepotenza della Samblana sono del tutto assenti, e l’origine del suo splendido vestito
risulta essere molto diversa da quella più comune. Si dice, infatti, che per onorare la loro
madrina, le bambine avevano voluto tessere e cucire per lei l’immenso velo immacolato,
brillante più di mille stelle, e questo era talmente grande che la Samblana dovette
tagliarlo in pezzetti, donandone uno a ciascuna di loro. Con questi magici lembi, le
piccole damigelle si diressero poi sui monti e sulle valli, sui prati coperti di brina, nei
boschi e sulle rive dei laghi, e ovunque andassero con il candido velo, lì si posava un
soffice manto di neve.
La splendida e lunghissima veste della Samblana, infatti, altro non sarebbe se non
l’immensa distesa innevata che ricopre la terra ogni inverno, che si ritrae con l’arrivo
della primavera, e che dalla cima del monte Antelao si protende giù nelle vallate, fino ai
villaggi abitati.
Da questo mito si deduce che alle bambine della principessa spettasse il gioioso compito
di aiutarla a portar la neve sulla terra, proteggendo dal gelo la rigogliosa vegetazione
montana.
Tuttavia, secondo un’altra versione della storia, le piccole ancelle, il cui sacrificio venne
ricambiato con la nascita nei villaggi di molti maschi, non si fermarono a lungo nel
regno d’inverno della Samblana, ma rinacquero sulla terra in forma di tanti dolcissimi
colchici, “tutti rosa, tutti uguali”. Questi magici fiorellini erano chiamati Mirandoles
della Samblana: “in essi abitavano le anime delle bambine che erano state mandate
incontro alla Luna”. (9)
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Osservando queste leggende da un punto di vista simbolico, si potrebbe pensare che il
sacrificio delle moltissime bambine, che vennero letteralmente sostituite dai maschi,
rappresenti l’eco del passaggio dal matriarcato, nel quale regnavano donne e divine
sovrane, al patriarcato, in cui i maschi presero a governare al loro posto, relegando le
antiche divinità sulla vetta delle montagne, nel profondo delle grotte o nel folto di
boschi fitti e inaccessibili. La cultura degli arcaici popoli dolomitici, infatti, era sempre
stata matriarcale, e questo è dimostrato anche dalla moltitudine di regine che popolano
le leggende più antiche, e dall’assenza di figure maschili di uguale rilevanza. (10)
Se fosse possibile credere a questa interpretazione del sacrificio femminile, allora le
bambine potrebbero essere considerate le piccole eredi dell’antica religione delle donne,
che vennero simbolicamente esiliate sulla cima della montagna – come già era successo
alla loro amata principessa – per permettere ai maschi di prenderne il potere. Lontane
dal mondo che non le comprendeva più, restarono fedeli a loro stesse e alla loro
tradizione, formando il gioioso e fanciullesco corteo della Samblana.
A tal proposito, sarebbe bello immaginare che le bimbe non fossero state realmente
sacrificate, ma che invece avessero raggiunto certe grotte profonde e segrete, fra le nevi
e i ghiacci, dove regnava una misteriosa principessa vestita di bianco, o colei che sulla
terra rappresentava l’amorevole spirito della Samblana. Raggiunto il suo regno
incantato, le fanciulle sarebbero divenute le sue ancelle, e seguendo un percorso
iniziatico avrebbero imparato giorno per giorno a rendersi sempre più bianche, ovvero a
rendere la propria anima sempre più chiara, lucente e leggera, fino a librarsi
estaticamente nei reami sottili come tanti fiocchi di neve, ricongiungendosi alla sorgente
armoniosa da cui tutto ciò che è puro e naturale prende vita. (11)
Le Yméles, messaggere della Samblana
Fra le molte damigelle che raggiungevano il regno nevoso della Samblana, si narra che
un giorno arrivarono due gemelline, tanto belle e simili che sarebbe stato difficile
distinguerle. Le bambine chiesero alla principessa di poterla servire, e lei ne fu molto
felice, ma dato che di servitrici per reggere il suo strascico ne aveva a sufficienza, disse
che avrebbe dato loro un compito diverso ma molto importante, quello di aiutare in sua
vece la buona gente in pericolo, diventando le sue messaggere sulla terra.
Da allora molte leggende nacquero sulle piccole Yméles – letteralmente “gemelle” –
che erano tanto care al cuore dei montanari. Si diceva che fosse possibile vederle
specialmente alle prime luci del mattino, sotto ai riverberi del sole nascente, mentre
camminavano tenendosi per mano sugli alti pascoli, fra l’erba umida di rugiada, e fra le
rocce e la ghiaia dei ripidi costoni. Se si aveva la fortuna di vederle da lontano,
bisognava fermarsi e salutarle con molta gentilezza, calando il cappello e offrendo loro
un sorriso, perchè erano messaggere della principessa dell’inverno e il loro aiuto era
prezioso.
Le gemelline si premuravano infatti di avvertire gli alpigiani in caso di gravi pericoli,
così frequenti sugli erti e franosi pendii (12). All’occorrenza, lanciavano grida acute e
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inquietanti, che riecheggiavano fra le grigie montagne, per segnalare frane imminenti o
violenti temporali, e mettevano anche in guardia dall’arrivo della terribile “ombra”,
temuta specialmente dai pastori di pecore. Il passaggio rapido dell’ombra sui prati, sui
boschi e sulle pendici dei monti, rivelava infatti la presenza dell’enorme avvoltoio degli
agnelli, un rapace dagli occhi di fuoco che sorvolava le greggi, basso e minaccioso, per
scegliersi la preda più ambita, mentre le pecore terrorizzate si lanciavano in corse folli,
finendo spesso col precipitare nei burroni. (13) Le Yméles, però, conoscevano bene tutti
i luoghi in cui i grandi volatili avevano nidificato, e non appena li vedevano spiccare il
volo correvano ad avvertire i pastori, i quali raggruppavano subito gli animali e poi, con
l’aiuto di piccoli specchietti di ottone, rifrangevano i raggi del sole verso l’avvoltoio,
abbagliandolo e spingendolo a cercar cibo altrove.
Oltre a proteggere uomini e animali dall’avvoltoio degli agnelli, le buone gemelline
avvisavano anche del nefasto comparire del Barba Gol, ovvero mettevano in guardia
dell’avvicinarsi di illusioni e inganni. (14)
Per ringraziare le piccole Yméles della loro benevolenza e del loro soccorso, i
montanari solevano indicar loro i boschetti in cui crescevano le fragoline di bosco più
dolci, i lamponi più succosi e i mirtilli più gustosi, poiché si sapeva, ne erano assai
golose…
In una delle storie sulle buone gemelline si narra che il primo giorno in cui esse si
presentarono alla Samblana, le portarono una bellissima pietra azzurra, che brillava
come un piccolo sole e rifletteva tutto il turchese del cielo sereno e dei laghi immoti.
Con questa pietra, chiamata Ray – “raggio” – la principessa si fece costruire un piccolo
specchio magico, con il quale poteva catturare i raggi del sole invernale e rifletterli fin
negli angoli più nascosti, gelidi e ombrosi delle vallate, portando luce e calore laddove
ce ne fosse stato bisogno.
Si dice che vicino a Cortina, sulle alture di Pocol, si possa ancora intravedere, nel
crepuscolo delle limpide sere d’inverno, il riflesso azzurro del magico Ray, che luccica
lontano, sulla cima del monte Antelao… E forse, osservando quel fugace brillio, si può
immaginare la bella Samblana che tiene alto il suo specchio lucente, raccogliendo gli
ultimi riverberi di sole per offrirli al mondo.
La leggenda della bella principessa e delle sue messaggere, si diffuse in un tempo molto
lontano anche a sud delle Alpi e vicino al Lago di Garda. Qui si dice che le due
bambine, chiamate les egueles (15), emergessero dalle acque del lago e portassero alle
genti i messaggi della loro bellissima regina, che indossava una splendida veste
intessuta d’argento e trascorreva ogni inverno sotto lo specchio d’acqua, nel suo regno
incantato. (16)
***
Sebbene esiliata fra i ghiacci, in un reame selvaggio fatto di picchi innevati e nude
rocce, ma anche di caverne nascoste agli occhi dei mortali, la principessa Samblana non
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venne dimenticata da tutti, ma sopravvisse grazie al prezioso lavoro di rari raccoglitori
di leggende. Così è ancora possibile conoscerla, e intuire la sua natura originaria di
grande Dea del bianco inverno, dalla pelle chiara come la luna e le vesti ricamate di
neve, ghiaccio e brina.
La Samblana fu una divinità delle donne, protettrice della fertilità femminile, madrina
delle giovani fanciulle che con devozione si votavano a lei. Signora notturna, lunare,
incarnava lo spirito della neve e degli aspetti più dolci dell’inverno, proteggendo e
mettendo in guardia gli uomini da quelli più violenti. Nel ciclo stagionale presiedeva
alla parte buia e fredda – ma al contempo segreta e ovattata – dell’anno, ed era
armoniosamente contrapposta alle lucenti Figlie del Sole, che governavano nel tempo
primaverile ed estivo. (17)
Ma la buona principessa era anche maestra di antichi misteri femminili, in quanto
insegnava alle bambine a farsi bianche come la neve e le stelle alpine. Per giungere al
suo regno bisognava percorrere il sentiero della Luna, ovvero essere condotte dai suoi
raggi d’argento, e porsi al suo servizio voleva forse dire ricercare la purezza e il candore
dell’anima, fino a quel sacro stato d’essere simbolizzato dal dono del velo bianco, che
avrebbe permesso di volare nei regni d’armonia, tutte ricolme di candida luce.
La leggenda più conosciuta sulla Samblana si conclude dicendo che verrà un tempo in
cui il suo lungo e pesante abito si sarà talmente accorciato che non toccherà più terra, e
quello sarà il giorno in cui anche lei, ormai completamente libera, volerà via, recandosi
finalmente “dove camminano le anime beate nello splendore eterno oltre i nevai”. (18)
Allora la signora dell’inverno si ricongiungerà a tutte le sue piccole figlie, e a coloro che
da sempre e per sempre l’amarono e le furono fedeli.
Solo le due gemelline resteranno nel mondo, e si aggireranno liete nei boschi e nelle
valli, per continuare a offrire buoni consigli e protezione a quegli uomini meritevoli che
sapranno, con affettuoso rispetto, porgere loro un gentile saluto.
Ma fino a quel lontano momento, la bella principessa vivrà sulla vetta della montagna, e
il suo spirito d’amore potrà essere percepito ovunque si posi una soffice coltre di neve.
E se qualche giovane fanciulla, sfuggita ad un mondo che non la comprende più, vorrà
raggiungere il suo regno immacolato, non avrà che da invocar la luna, seguendo il suo
sentiero riflesso sulla neve, in una serena notte d’inverno.
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Note:
1. I Bedoyeres erano uno dei popoli di carattere matriarcale che abitavano la valle Pusteria. La
parola ladina bedoyeres deriva da bedoia, ovvero betulla, e ha il significato di “Popolo delle
Betulle”, e sebbene i boschi che queste genti abitavano siano ora essenzialmente popolati da
conifere, è possibile ipotizzare che in un tempo antico vi crescessero molte betulle.
In queste rigogliose foreste i Bedoyeres onoravano regine e principesse, divine e probabilmente
mortali, ed è facile dedurre che uno dei loro culti femminili fosse rivolto proprio alla Samblana,
signora delle nevi che governava soprattutto durante il tempo invernale.
2. Citazione da Karl Felix Wolff, Rododendri bianchi delle Dolomiti, pag. 23
3. Ibidem
4. Wolff, op. cit., pagg. 17-25
5. Vedi Leggendiario – La Samblana
6. Quando sopravvenne il cristianesimo la sorgente che era appartenuta alla Samblana venne
dedicata alla Madonna e le sue acque vennero ritenute miracolose per sua intercessione.
Tuttavia col tempo il suo scorrere rallentò, fino ad esaurirsi. Per quanto riguarda invece il
grande faggio, esso era ancora presente nel bosco sacro agli inizi del 1900, quando Karl Felix
Wolff andò a visitarlo. Egli affermò che nonostante l’albero fosse morto, “quel luogo non aveva
perso nulla della sua particolare bellezza e suggestione.” (Wolff, op. cit., pag. 21)
7. Per approfondire la simbologia e le leggende della stella alpina, vedi Stella Alpina, ricerca di
Violet per Il Tempio della Ninfa
8. Questo particolare è narrato in una breve fiaba, raccolta da Wolff nel suo prezioso testo:
“Un ricco signore aveva un figlio. Questo giovane si ammalò e suo padre fece venire molti
medici per curarlo. Il padre credeva nell’arte dei medici, e pensava che essi ne sapessero di più
delle vecchie raccoglitrici di erbe. Ma tutto ciò che fecero i medici fu vano. Il figlio allora
disse: ‘Datemi da mangiare una cipolla del laghetto del bosco’. I medici non lo permisero e il
povero ragazzo morì. Dopo la sua morte, i medici gli aprirono lo stomaco e vi trovarono una
massa dura come un sasso. Il padre la prese per avere un ricordo di suo figlio e si fece fare con
questa un manico per coltello. Una volta, mentre tagliuzzava una cipolla come quella
desiderata dal figlio, all’improvviso il manico del coltello sparì. Allora l’uomo comprese che
con la cipolla egli avrebbe potuto salvare il figlio.” (Wolff, op. cit., pag. 19)
Questa storia, oltre a mettere in luce il passaggio che dalle antiche tradizioni medicinali, affidate
alle sagge “raccoglitrici di erbe”, portò alla moderna scienza medica – la quale soprattutto
all’inizio si rivelò non solo inutile, ma insensata ed estremamente dannosa per coloro che così
spesso ne furono vittime – rivela il benefico potere delle cipolle magiche, che fanno
“scomparire” certi mali, altrimenti incurabili con qualsivoglia medicina.
Considerando il significato simbolico della fiaba, si potrebbe ipotizzare che le malattie su cui
agiscono i doni della principessa non siano quelle comuni, ma quelle che affliggono lo spirito,
simbolicamente rappresentate come masse scure, pesanti e soffocanti, che però svaniscono
come nebbia al sole se solo vengono toccate dalle influenze benefiche della Natura.
7
9. Citazione da Claudio Cima, Sui sentieri delle leggende, pag. 153. La leggenda narra che ci fu
un tempo in cui nell’antico popolo delle betulle nascevano moltissime bambine, e nessun
maschio. La regina era molto preoccupata, e avrebbe voluto dare alla luce un erede per suo
marito, ma quando partorì una principessa decise che era arrivato il momento di tener consiglio
con tutte le altre donne del popolo, per decidere cosa avrebbero potuto fare per assicurare la
sopravvivenza della tribù. All’assemblea femminile venne invitata una maga, la quale decretò
che tutte le madri con troppe figlie avrebbero dovuto portarle all’ombra del monte Serla in una
notte di luna, e avrebbero dovuto lasciarle nel grande prato dove scorreva il gorgogliante
ruscello Bruckele.
Così fu fatto, le bambine furono lasciate nel punto predetto, e non appena sorse la Luna la maga
le raccolse e le portò via con sé.
Al suo ritorno, le madri vollero sapere che cosa ne era stato delle loro figliolette, e lei rispose
che erano state tutte affidate alla buona Samblana, e che avrebbero ben dovuto rallegrarsi,
perché da quel giorno al loro popolo era destinata la nascita di molti maschi.
Quella notte la regina e la maga si fermarono a dormire poco distante dal grande prato, nel
rudere di un castello abbandonato i cui proprietari si erano estinti per mancanza di eredi.
Quando sorse il mattino, le due donne uscirono dalle vecchie mura, e guardando avanti a sé
rimasero senza parole… Sul prato erano sbocciati migliaia di bellissimi colchici rosa. La maga,
allora, disse che quei magici fiorellini erano le Mirandoles della Samblana, e che in essi
vivevano le anime delle figlie del popolo delle betulle.
10. Vedi Adriano Vanin, I popoli delle Dolomiti
11. Queste capacità magiche erano appartenute sin dai tempi più remoti alle sacerdotesse e alle
sciamane di tutto il mondo, come dimostrano diversi studi sull’argomento.
12. L’Antelao è un monte ben noto per i suoi tremendi temporali, le sue violente bufere di neve
e le molte frane, che più di una volta precipitarono a valle sotterrando un paese intero. Per
questo, nella leggenda, l’aiuto delle Yméles è fondamentale per salvaguardare la vita degli
uomini e delle greggi.
13. Il grandissimo avvoltoio che compare come “l’ombra” nella leggenda delle Yméles, è il
Gypaetus barbatus, ovvero il Gipeto, chiamato anche Avvoltoio barbuto o, appunto, Avvoltoio
degli agnelli.
Questo uccello vanta un’apertura alare di quasi tre metri, ha gli occhi rossi e una sorta di barba
sotto al becco. La femmina è addirittura più grande e temibile del maschio.
Il suo aspetto è alquanto inquietante, e tenendo in considerazione la sua grandezza non stupisce
il fatto che fosse molto temuto. Nonostante questo, la sua alimentazione consiste quasi
esclusivamente di animali già morti e soprattutto di ossa. Il suo stomaco produce infatti succhi
gastrici talmente potenti da poterle digerire. Non riuscendo però a spezzarle col becco, il gipeto
le getta sulle rocce, lasciandole cadere da grandi altezze, così da frantumarle e poterle poi
consumare facilmente.
Giunto quasi alla completa estinzione nell’Ottocento, quando moltissimi esemplari vennero
uccisi, negli ultimi tempi si sta per fortuna reintegrando, e per la sua protezione i luoghi in cui
nidifica vengono tenuti rigorosamente segreti.
Nelle Dolomiti il gipeto rappresentava l’animale totemico dei popoli predatori e aggressivi, e
veniva invocato prima di compiere assalti, saccheggi e battaglie. Anche il popolo dei Fanes, in
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origine pacifico e rappresentato totemicamente dalla mite marmotta, lo assunse come nuovo
totem quando divenne più battagliero e violento. (Adriano Vanin, Il regno dei Fanes- Avvoltoio)
14. Questa particolare cura che le messaggere offrivano a nome della Samblana, nonché il
potere magico delle cipolle della principessa, potrebbero suggerire una sua particolare
apprensione nei confronti di coloro che venivano minacciati dalle illusioni, ovvero la sua
premura di risvegliarli dai malvagi sortilegi che annebbiano i pensieri e fanno perdere la limpida
e profonda consapevolezza della realtà.
15. A tal proposito dice Wolff: “Dell’origine antica del racconto è testimone la “s” finale del
plurale ladino che non s’incontra più già da tempo nei dialetti intorno al lago di Garda.”
(Wolff, op. cit., pag. 25)
16. Questa breve variazione del mito ricorda la figura della Dama del Lago e quella delle
antiche Fate che abitavano sotto le acque di laghi e pozzi, emergendo per offrire i loro consigli
agli uomini che li meritavano. Anche Frau Holle, l’antica Dea dell’inverno germanica, che
portava la neve sulla terra sbattendo vigorosamente il suo soffice piumone, abitava in un
bellissimo regno celato oltre le acque di un pozzo o di un lago.
17. Le Figlie del Sole erano la Soreghina, il cui nome significa “raggino di Sole”, Elba e Donna
Chenina. Le loro leggende sono raccolte in Karl Felix Wolff, I monti pallidi, Cappelli Editore.
Nella storia della Soreghina si trova un riferimento alla Samblana molto bello: “Il grande Vernel
era avvolto in un così pesante mantello di neve, che avresti potuto crederlo il trono della
Samblana, la maestosa regina dell’inverno che abita sulle alte montagne ghiacciate, ogni anno
sopra una cima diversa.” (I monti pallidi, op. cit., pag. 167)
18. Wolff, op. cit., pag. 24
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BIBLIOGRAFIA
Rododendri bianchi delle Dolomiti, Karl Felix Wolff, Cappelli Editore, Bologna, 1993
I monti pallidi, Karl Felix Wolff, Cappelli Editore, Bologna
Sui sentieri delle leggende. Itinerari scelti nei luoghi delle leggende dolomitiche,
Claudio Cima, Edizioni Mediterranee, Roma, 1992
Leggende delle Alpi, Maria Savi-Lopez, Editrice Il Punto, Torino, 2007
Entità fatate della Padania, Alberta Dal Bosco e Carla Brughi, Edizioni della Terra di
Mezzo, Milano
Fiabe d’Inverno. Fiabe e leggende delle Alpi, dell’Europa centrale e orientale e del
grande Nord. Tradotte, narrate e illustrate da Maria Paola Asson, Edizioni Cierre,
Sommacampagna, 2011
Il regno dei Fanes, di Adriano Vanin http://www.ilregnodeifanes.it/
L’albero della fiaba, di Maria Paola Asson http://www.albero-della-fiaba.it
Leggendiario https://sites.google.com/site/leggendiario/home
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