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Karl Jaspers INTRODUZIONE 1. KARL JASPERS. UNA VITA IN SITUAZIONE Karl Theodor Jaspers (1883-1969) fu medico, psichiatra, psicologo e infine filosofo. Egli riveste un ruolo fondamentale all’interno delle scienze psichiatriche, principalmente per fondazione metodologica della psichiatria clinica. La sua opera fondamentale di psichiatria, Psicologia delle visioni del mondo, del 1919, è allo stesso tempo il primo manifesto della filosofia dell’esistenza che avrà in Martin Heidegger (1889-1976) e in Gabriel Marcel (1889-1973) i suoi maggiori esponenti rispettivamente in ambito tedesco e francese. In seguito alla tragedia nazista prima e alla ricostruzione politica della Germania poi, Jaspers si presenterà come esponente di un nuovo pensiero filosoficopolitico, fondato sull’unità di tutti gli uomini in comunicazione: egli parlerà infatti di Philosophia perennis e di Weltphilosophie. Nato a Oldenburg, vicino alla costa del Mar del Nord, il 23 febbraio del 1883, Karl Theodor è il maggiore di tre fratelli (seguono Erna nata nel 1885 ed Enno del 1889). Il padre, Karl Wilhelm Jaspers, discendente di una ricca famiglia di commercianti dello Jeverland a ovest della Jade, non ereditò nulla e fu costretto a crearsi autonomamente una vita attraverso gli studi giuridici. Uomo liberale e conservatore, estremamente ligio al dovere ma insofferente nei confronti di ogni superiore, abbandonò l’impiego nell’amministrazione pubblica come capo distretto (con un potere quasi assoluto) per divenire direttore di banca. La madre, Henriette Tantzen, proveniente da una famiglia di proprietari terrieri, è così descritta: « Amava sconfinatamente, e al suo amore ciò che lei desiderava sembrava naturalmente sulla più sicura delle vie » (SW, trad. it. p. 22). Nel 1967, ricordando i suoi genitori, Jaspers dice: « Ero sicuro con i miei genitori. Involontariamente mio padre fu per noi un modello inconscio. Senza l’influsso della chiesa, senza riferimento a un’autorità oggettiva, la cosa peggiore era considerata l’insincerità. E cosa quasi altrettanto brutta: la cieca ubbidienza. Ambedue non dovevano esistere » (SW, trad. it. p. 21). Spirito ribelle, il giovane Karl non cederà mai al capriccio ma, forte dell’educazione e dell’esempio paterno, si muoverà sempre sotto la sola guida della ragione senza riguardo delle autorità e delle mode. Già al ginnasio manifestò il suo animo insofferente nei confronti di ogni 1 forma ingiustizia e di disciplina tanto da entrare in conflitto con le autorità scolastiche e da rischiarne l’espulsione. La vita di Jaspers fu segnata da due grandi svolte a fronte di una cerchia di relazioni sincere: l’incontro con il mondo universitario e la tragedia del nazionalsocialismo, da un lato, il sereno e costante rapporto con l’amico Ernst Mayer, l’amore per la moglie Gertrud e il rispetto per il maestro Max Weber, dall’altro. All’età di 18 anni, nel 1901, ha la prima svolta che cambierà la sua vita: entra nell’università di Heidelberg. Prosegue gli studi poi a Monaco, a Berlino e a Göttingen e infine ancora a Heidelberg. Inizialmente segue le lezioni di giurisprudenza, poi a Berlino passa a medicina. Dopo aver studiato per cinque semestri a Göttingen decide che l’università è la sua vita e ritorna nella più prestigiosa: Heidelberg. Nel 1908 si laurea in medicina con la dissertazione Heimweh und Verbrechen (“Nostalgia e crimine”) e nel 1909 è dottore. Nel frattempo (1907) ha conosciuto Gertrud Mayer, sorella dell’amico Ernst Mayer, di famiglia ebrea. Così racconta del primo incontro: « Come andarono veramente le cose non posso saperlo, e perciò neppure raccontarlo. […] Posso raccontare però gli eventi relativamente esteriori. Da quando c’è Gertrud, dal 1907, in me è avvenuta una trasformazione. Fino ad allora ero un uomo – malgrado l’insoddisfazione e gli aneliti – che voleva sapere, che aspirava alla verità, freddo. Da quel momento diventai un essere umano a cui ogni giorno viene ricordato che è un essere umano » (SW, trad. it. p. 40). Emblematiche sono le seguenti parole: « Ho scritto ripetutamente sull’amore. Ad alcuni ciò è apparso costruito e utopistico, per me invece è l’inadeguato specchio di una realtà » (SW, trad. it. p. 40). Gertrud diventerà la signora Jaspers nel 1910 e seguirà la vita del marito, parteciperà alla stesura di tutte le sue opere e condividerà con lui le tragiche esperienze della seconda guerra mondiale. Nel 1909 Karl diviene ricercatore volontario nella clinica psichiatrica dell’Università di Heidelberg, ruolo che ricoprirà fino al 1915. Anche in questo campo lavora autonomamente, senza altra regola al di fuori del suo interesse, glielo permette il fatto di non essere pagato. Il suo interesse si concentra particolarmente sull’applicazione 2 dei metodi della fenomenologia (l’investigazione diretta e la 2 Il suo rapporto con Husserl fu particolare: inizialmente affascinato dalla fenomenologia, Jaspers cerca una sua applicazione psicopatologica e a sua una domanda al maestro su che cosa fosse propriamente la fenomenologia, Husserl rispose che era esattamente quello che lui andava facendo. 2 descrizione dei fenomeni psichici senza far riferimento a teorie preconcette) alla psichiatria clinica e ben presto, nel 1911, il noto editore Ferdinand Springer lo invita a scrivere un libro di psicopatologia. Vede la luce così la sua prima opera a carattere sistematico, Allgemeine Psychopathologie del 1913 (trad. it., Psicopatologia generale, 1964). Lo stesso anno, in qualità di esperto psicopatologo, entra a far parte del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Heidelberg, dove ancora questa branca del sapere non era rappresentata. Nel giro di pochi anni diviene professore di Filosofia grazie alla sua seconda pubblicazione sistematica, Psychologie der Weltanschaungen del 1919 (trad. it., Psicologia delle visioni del mondo, 1950), considerato come il manifesto della futura Filosofia dell’esistenza, alcuni anni prima della pubblicazione di Sein und Zeit di Heidegger, che è del 1927 (trad. it., Essere e tempo, 1953). In quest’opera Jaspers, pur non volendo esporre un sistema filosofico, tratta del rapporto tra filosofia e scienza e dei limiti della conoscenza filosofica. La questione del filosofare jaspersiano è qui già posta in tutta la sua complessità: il pensatore tedesco vuole una filosofia distinta dalla scienza, non irretita nei vincoli della validità universale delle formulazioni scientifiche, ma allo stesso tempo non intende fare della filosofia un surrogato del credo religioso. La filosofia si presenta come interpretazione non dogmatica dell’essere, in grado di fornire norme e principi di vita validi universalmente per la singola esistenza storica. Si tratta di superare i limiti canonici della conoscenza scientifica e di illuminare la totalità dell’esistenza umana non come semplice essere-nelmondo, mero esser-ci, ma come libertà umana di essere. Tra gli anni Venti e Trenta Jaspers lavora con l’amico Ernst Mayer all’approfondimento di queste tesi. Sono questi gli anni in cui stringe amicizia con Martin Heidegger – amicizia che si romperà in seguito all’adesione di quest’ultimo al Nazionalsocialismo – e in cui scrive Die geistige Situation der Zeit del 1931 (trad. it., La situazione spirituale del tempo, 1982), i tre volumi del suo capolavoro, Philosophie, del 1932 (Orientazione filosofica nel mondo, Chiarificazione dell’esistenza , Metafisica; trad. it., Filosofia, 1972 sgg.) e, nello stesso anno, un libro su Max Weber, Max Weber – Politiker, Forscher, Philosoph (trad. it., Max Weber, politico, scienziato e filosofo, 1969). Proprio Max Weber (1864- 1920) affascina a tal punto Jaspers da fargli decidere, negli anni dello studio, di fare dell’Università, di cui si è ormai formato un ideale altissimo, il luogo della sua vita. Le aule universitarie sono luoghi sacri e centri d’incontro di un qualcosa di sovranazionale e grandioso, come le chiese. La comunità che in esse vive non appartiene a uno stato, è « una comunità che nulla vuole se non incondizionata e illimitata verità » (SW, trad. it. p. 27). Nell’Università di Heidelberg c’è un Max Weber e con lui le più eminenti menti del mondo in 3 costante dialogo con le altre sparse per il globo. Magari non tutti insegnano, ma contribuiscono a formare un’atmosfera quasi irreale, spirituale, che va assai al di là della semplice scienza: nell’Università di Heidelberg vive la vita dello spirito! In Weber Jaspers trova un amico ma non un suo pari: rimane sempre uno spirito di una grandezza tale da lasciare intimiditi. « Non credo di sbagliarmi nell’aver visto in Max Weber, spiritualmente parlando, il più grande uomo della nostra epoca, ovvero grande non in un ambito soltanto, ma con un carattere universale. Il concetto di grandezza io l’ho ricavato a partire dalla sua esistenza reale » (SW, trad. it. p. 41). Quella di Max Weber fu, infatti, un’esistenza reale dominata dal dissidio tra gli alti ideali del sapere e la coscienza della realtà nella sua concretezza, nella sua crudezza. Fu, a tutti gli effetti un modello. La seconda grande svolta è l’avvento del nazionalsocialismo di Hitler. Jaspers, come la maggioranza dei tedeschi, pensava che il fenomeno Hitler si sarebbe estinto nel giro di qualche anno – il tempo necessario alla dinamica società tedesca per riprendersi dalla Grande Crisi. Così non avviene, ed il fatto che Gertrud è ebrea lo qualifica subito agli occhi del regime come potenziale nemico dello Stato. Già dal 1933 la vita politica all’interno dell’ateneo gli viene limitata pur potendo continuare ancora ad insegnare e a scrivere liberamente. Sono gli anni dell’ideazione della grande opera sistematica, la Logica filosofica, che avrebbe dovuto far da seguito alla prima, Filosofia. Vengono pubblicati Vernunft und Existenz del 1935 (trad. it., Ragione ed esistenza, 1942), il saggio su Nietzsche del 1936 (trad. it., 1996) e su Descartes del 1937 (trad. it. parziale, 1946), ed Existenzphilosophie del 1938 (trad. it., Filosofia dell’esistenza, 1940). Nel 1937 poi il regime impone a chiunque avesse in moglie un’ebrea di divorziare o di emigrare. Jaspers non fa né l’una né l’altra cosa. Smette di insegnare in quanto è posto in pensione d’autorità e nella sua ultima lezione a Heidelberg dice: « La mia lezione è finita, ma con essa non è finita la filosofia che sempre procede oltre nel suo cammino ». Dopo il fallimento dei tentativi di trasferimento a Zurigo e Istanbul, alcuni amici (Pollnow, Zimmer e principalmente Lucien Lévy- Bruhl) si impegnano a organizzargli la fuga a Parigi, ma lui decide di rimanere, non per eroica resistenza quanto piuttosto per le preoccupazioni derivanti dal suo stato di salute e all’incognita di un suo soggiorno in terra straniera, non supportato dalla lingua né da amici (e questa si rivelerà una scelta felice dal momento che di lì a poco l’esercito nazista occuperà la capitale francese). Decide pertanto di rimanere in Germania con la moglie, pronto al supremo atto del suicidio di fronte alla possibilità di essere arrestato o comunque di venir separato dalla compagna della sua vita. Scrive nel diario il 17 marzo 1939: « io posso rimanere qui soltanto se sono pronto, a un determinato 4 momento, a morire con Gertrud » (SW, trad. it. p. 192). E ancora: « il fondamento delle nostre azioni deve rimanere il fatto che non ci separiamo l’uno dall’altra » (SW, trad. it. p. 194). In un appunto datato 1 aprile 1939 scrive: « la nostra vita deve assumere un atteggiamento differente: coscienza quotidiana della disponibilità a morire […]. La vita è possibile soltanto se si fonda sulla trascendenza» (SW, trad. it. p. 196). Di nuovo, nel 1942, le autorità naziste neautorizzano l’emigrazione in Svizzera ma alla condizione di abbandonare la moglie. Jaspers, ancora, rifiuta. Vive con la moglie finché il regime non stabilisce la loro deportazione per il 14 aprile 1945. Il 30 marzo Heidelberg viene occupata dagli Alleati. Prima della Guerra, e precisamente a partire dal 15 luglio 1926 il professor Jaspers aveva intrapreso un intenso dialogo epistolare con l’allieva e poi amica Hannah Arendt (1906-1975). Il dialogo si interromperà nel 1933 con la fuga dell’ebrea Arendt prima in Francia e poi in America, per riprendere più vivo che mai nel 1945 fino al 1969 ed è poi confluito in Briefwechsel Arendt-Jaspers (1926-69) pubblicato postumo nel 1985 (trad. 5 it., Arendt-Jaspers. Carteggio, 1989) . Dopo la guerra Jaspers viene reintegrato nell’Università, e le sue prime parole sono: « quale uomo fra gli uomini, vorrei partecipare allo sforzo comune per la ricerca e la conquista della verità ». Si impegna, quindi, nella conclusione della sua opera di logica Von der Wahrheit pubblicata tra il 1946 e il 1947 (trad. it. parziale, Sulla verità, 1970) e in una serie di interventi e di scritti riguardanti la questione politica della colpa (Die Schuldfrage, 1946, trad. it., La colpa della Germania, 1947; nella prefazione di quest’opera sono riportate le parole della sua prima lezione del 1945 sopra citate). Ma l’isolamento culturale nel quale si viene a trovare, da un lato, e, dall’altro, l’amara constatazione che ciò che si andava ricostruendo nella Germania del dopoguerra non era uno stato fondato sul senso della responsabilità civile e politica né tanto meno su una più alta moralità nazionale lo spinge ad accettare l’invito dell’Università di Basilea, in Svizzera, dove tiene una serie di lezioni nell’estate del 1947 e dove poi si trasferisce definitivamente nel 1948 rimanendovi fino alla morte, avvenuta nel 1969. È durante il volontario esilio in Svizzera che Jaspers si impegna nelle ultime due grandi battaglie. La definizione del ruolo della filosofia nei confronti della religione e la conseguente chiarificazione del termine “fede filosofica” con cui riassume la sua filosofia (a questo scopo sono dedicati i seguenti scritti: Der philosophische Glaube del 1948, trad. it., La fede filosofica, 1973; Die Frage der Entmythologisierung del 1954, trad. it., La questione della demitizzazione, 1995; Der philosophische Glaube angesichts der Offernbarung del 1962, trad. it., La fede filosofica di fronte alla rivelazione, 1970; Philosophie und Offenbarungsglaube. Ein Gespräch 5 mit H. Zahrnt del 1963, trad. it., Filosofia e fede nella rivelazione. Un dialogo con K. Jaspers - H. Zahrnt, 1971) e la titanica impresa di una grande storia della filosofia mondiale (di cui il volume Die grossen Philosophen del 1957, trad. it., I grandi filosofi, 1973, è solo una piccola parte). Non smette comunque mai di esprimersi sulle questioni politiche (Die Atombombe und die Zukunft des Menschen del 1958, trad. it., La bomba atomica e il destino dell’uomo, 1960; Wohin treibt die 5 Sul rapporto tra i due filosofi si veda anche l’intervista di Peter Wyss a Karl Jaspers trasmessa il 14 febbraio 1965, sul libro della Arendt Eichmann a Gerusalemme del 1963, un dossier per il The New Yorker sul criminale nazista Otto Adolf Eichmann catturato dagli israeliani l’11 maggio 1960 e in seguito condannato a morte a Gerusalemme; ora disponibile anche in italiano in Eichmann a Gerusalemme, Micromega 2/98, pp. 253-270, trad. it. a cura di S. Fabian. 6 Bundesrepublik? del 1966, trad. it., Germania d’oggi. Dove va la Repubblica Federale?, 1969). Muore il 26 febbraio 1969, lasciando circa trentamila pagine di appunti e un importante carteggio di cui, fino ad ora, sono stati pubblicati i seguenti volumi: Briefwechsel Jaspers-Bauer (1945-68), nel 1983; Briefwechsel ArendtJaspers (1926-69), nel 1985; Briefwechsel Jaspers-Hammelsbeck (1919-69), nel 1986 e l’interessantissimo Briefwechsel HeideggerJaspers (1920-63), nel 1990. Del 1991 è la pubblicazione del Nachlass zur philosophischen Logik. 7 2. L’INCERTEZZA COME METODO Nella storia della filosofia del Novecento Jaspers occupa un posto di rilievo vuoi per la sua collocazione mediana tra le filosofie d’inizio secolo e quelle della seconda metà, vuoi per la centralità delle problematiche affrontante nell’arco di una produzione che si estende per più di un cinquantennio. Tuttavia, il valore e il significato della sua opera non si riducono alla particolare “filosofia dell’esistenza” di cui, insieme a Heidegger, è esemplare rappresentante, avendo per primo introdotto in filosofia – lui che filosofo non era – tematiche che sarebbero poi diventate topoi della riflessione del Novecento (l’esistenza, la situazione limite, la comunicazione…). La tradizione degli studi jaspersiani, infatti, tende a fare del filosofo di Oldenburg un fenomeno a parte del tutto originale che non ha lasciato una scuola. Allo stesso modo la letteratura, soprattutto quella italiana, tende a porre Jaspers in una posizione secondaria rispetto alla figura dominante dell’esistenzialismo e del pensiero tedesco del Novecento in generale. In alcuni casi Jaspers è stato persino ridotto a una semplice nota di Essere e tempo di Heidegger (tre, per la precisione: Parte I, sez. II, cap. 1, nota n. 6; cap. 2, nota n. 16 e cap. 4 nota n. 3). Ma l’impulso a riformare le modalità della ricerca scientifica; l’instancabile lotta per le libertà fondamentali nell’ambito della società e della politica; il coraggio di prendere posizione nel campo minato del rapporto tra ragione e fede, filosofia e religione; ma soprattutto l’originale ventata di novità nella ricerca teoretica fanno di Jaspers un filosofo a tutto tondo, che non ha mai rifiutato il compito di pensare sempre e ulteriormente, e di dar da pensare, anche a rischio di uscire dai canoni classici del pensiero logico-razionale. Anzi, l’esemplarità di Jaspers può essere ritrovata proprio in quei paradossi che la sua filosofia suscita e lascia insoluti, laddove si cimenta su questioni-limite (ma non per questo marginali) per l’esistenza – quali la fede, l’amore, la morte. La ricchezza della sua speculazione risiede proprio nella vena critica che muove ogni osservazione e che non si esaurisce in se stessa, ma abbraccia l’intero filosofare in un movimento che può diventare vortice autodistruttivo o circolo chiarificatore. Entrambi gli esiti del resto sono possibili, e la consapevolezza di un simile rischio non costituisce un freno per il pensiero. Il filosofare di Jaspers infatti 8 – come la vita di cui è specchio e riflessione – è un pensiero che non arretra di fronte al paradosso ma che, al contrario, assumendo su di sé la fatica del concetto, se ne arricchisce. Ora, un pensiero del paradosso non richiede una lettura diacronica, anche se questa è sempre possibile e in alcuni casi necessaria. Al contrario, la fecondità del filosofare risiede nella particolare articolazione delle problematiche che si ripresentano sempre sotto orizzonti diversi ma che, nell’arco dell’intera produzione, non escono dalla comune Weltanschauung. Vale per Jaspers quello che egli stesso scrive di Cusano: « Giova dal punto di vista biografico leggere gli scritti nella loro successione cronologica; ma la cosa essenziale è cogliere quell’unità che in essi traspare come sempre la stessa » (GP, trad. it. p. 858). Il suo pensiero, infatti, si articola in un movimento che continuamente ritorna in sé, con sempre nuove ricapitolazioni: le tematiche non cambiano, le analisi esistenziali si approfondiscono. Una tale modalità del filosofare può deludere alla lunga ma, secondo Jaspers, non si dà altro filosofare che questo: un continuo ritornare su questioni-limite, che sono le situazioni esistenziali in cui l’uomo incontra se stesso, allo scopo di chiarificarle e illuminarle affinché in un istante, all’interno della costante lotta per il senso, sia possibile scorgere, in una crescente luminosità, la presenza di segni chiarificatori di un senso ulteriore. Una delle migliori introduzioni alla lettura di Jaspers è data da Hannah Arendt, nel suo Was ist Existenzphilosophie?: « È impossibile presentare l’autentico contenuto della filosofia di Jaspers nella forma di un resoconto, poiché l’essenziale di tale contenuto non si trova nei percorsi e nei movimenti del suo filosofare. Lungo tali percorsi si è avvicinato a tutte le questioni fondamentali della filosofia moderna, senza tuttavia rispondere ad una sola di esse con un risultato positivo o fissarne una in forma definitiva. Ha mostrato alla filosofia moderna, per così dire, i sentieri su cui essa dovrà procedere se non vuole 6 perdersi nei vicoli ciechi del fanatismo positivista o nichilista » . Del resto, all’indagine filosofica così come all’esistenza non è dato di uscire dal finito, ossia dalla situazione storica nella quale l’uomo si viene a trovare, ma solo approfondirlo e chiarirlo sempre e ulteriormente, percorrendone i sentieri sino alle situazioni- limite allo scopo di rinvenire in esse le tracce, le cifre dell’infinito o di ciò che può fornirne un senso. Si tratta quindi di preservare, custodire e aprire lo spazio per un filosofare ulteriore, nella consapevolezza che solo una disposizione di costante tensione “aperitiva” può consentire il salto dal penultimo all’ultimo, dal finito all’infinito. Salto che, però, Jaspers 9 stesso non compie, volendo egli percorrere a pieno le vie della finitezza (o le « prigioni della finitezza », Gefängnis des Endlichen; cfr. VE, 12; 25), che sono le uniche concesse all’esistenza come il suo più proprio, anche se a essa non bastano mai (cfr. KS, 171; 155). Sarà infine proprio la radicalità della “opzione aperitiva” a far sì che l’ultimo o l’oltre, in quanto termine di un salto, venga a sfumare, non rappresentando più propriamente un luogo da raggiungere o un obiettivo da perseguire, e ceda il posto, in definitiva, allo stesso movimento dell’oltrepassare, al vortice del trascendere (oltre la trascendenza stessa). H. ARENDT, Was ist Existenzphilosophie?, in ID., Sechs Essays, 6 L. Schneider, Heidelber 1948, pp. 48-80; trad. it., Che cos’è la filosofia dell’esistenza?, a cura di S. Maletta, Jaca Book, Milano 1995, p. 77. 10 1. INCERTEZZA ONTOLOGICA E PROSPETTIVA METAFISICA 1.1. L’ESSERE TRA EQUIVOCITÀ E MULTIVOCITÀ Non si comprenderebbe il pensiero di Jaspers se lo si interpretasse come un pensiero sistematico. Al contrario, la sua riflessione si sviluppa nella forma di una “sistematica aperta”, ossia di un costante sforzo di superare le determinazioni concettuali stabilite dall’intelletto senza per questo rinunciare a un metodo. Le determinazioni infatti chiudono gli oggetti in definizioni statiche e si lasciano così sfuggire proprio l’essenziale di ogni atto conoscitivo: la dinamicità e la sempre emergente ulteriorità della realtà che si ha di fronte. Allo stesso tempo però, la volontà di sfuggire al sistema non comporta la definitiva rinuncia a un metodo e a una struttura del pensare che consenta una certa coerenza interna al pensiero stesso e, in definitiva, il progresso della conoscenza. Questa assume pertanto la forma di un sapere che si arricchisce sempre delle prospettive differenti che guadagna nel momento in cui sperimenta la finitudine di ogni singola prospettiva. Ciò vuol dire che la filosofia di Jaspers si presenta al lettore come un’immane opera di appropriazione di molteplici prospettive che, da punti diversi, indagano la realtà, l’oggetto, la verità. Tuttavia, la natura temporale dell’esistenza non consente alcun possesso definitivo della verità né alcuna sua riduzione a una prospettiva finita. La verità pertanto è la nostra via (cfr. W, 1; 3). Essa è per noi il luogo della ricerca, della mediazione, dell’incertezza. Del resto, noi non viviamo immediatamente nell’essere e questo non può venire compreso se non a partire dalla soggettività dell’io indagante. Ma questa condizione, propria di ogni oggetto, acquista una rilevanza del tutto particolare per quell’unico oggetto-non-oggetto che è l’essere stesso. Io, si legge all’inizio di Philosophie del 1932, « non ero all’inizio e non sono alla fine. Eppure, situato tra l’inizio e la fine, domando dell’uno e dell’altra » (PH, I 1; 111). Il pensiero filosofico di Jaspers si pone immediatamente all’interno dell’orizzonte ontologico e il suo cominciamento è il cominciamento della filosofia speculativa: « Io 7 cerco l’essere » (PH, I 1; 111) . Non che questo rappresenti, in tale istanza, l’origine o il cominciamento assoluto (in linea con la dottrina di ogni filosofia dell’esistenza che si rispetti, origine prima, sorgente originaria, fondamento oscuro e inoggettivabile di ogni filosofare è, per Jaspers, l’esistenza), al contrario un qualcosa che c’è, che si ha di 11 fronte e che pertanto è già dato come un primum, pur non essendo ancora propriamente nulla per il pensiero. A esso l’essere si presenta come una nebulosa di senso che la riflessione è chiamata a chiarificare mediante approfondimenti successivi. Una nebulosa nella quale l’esistenza si viene a trovare e che rappresenta per essa solo l’inizio (Anfang) e non ancora l’origine (Ursprung). Il filosofare assume quindi, già al suo cominciamento, la natura dell’interpretazione che muove dall’essere come ciò che c’è e dalla domanda intorno a esso allo scopo di andare oltre il semplice inizio per scorgere invece l’origine: « È vero che noi possiamo porre la domanda in modo originario, tuttavia noi non stiamo mai all’inizio » (RA, 394). Tale domanda assume tutti i caratteri della domanda originaria e si presenta nella doppia valenza di questione ontologica e questione gnoseologica. Sul piano ontologico essa si chiede: “che cos’è l’essere?”, “in che rapporto è con il nulla?” ed “essere e nulla, a loro volta, cosa rappresentano per quel soggetto finito in divenire che sono io?”. Mentre sul piano gnoseologico la questione si esprime nella forma: “cosa posso conoscere dell’essere?” e “cosa posso comunicare dell’essere che conosco?”. Nella sua radicalità, tale domanda non è però univoca. Né lo può essere, dal momento che investe l’intero variopinto orizzonte di ciò che è, di cui fa parte anche l’io stesso che domanda. « La domanda iniziale: “Che cos’è l’essere?” non ha trovato una risposta unica. La risposta a questa domanda soddisfa solo chi, ponendola, riconosce in essa il proprio essere. Ma la stessa domanda che chiede dell’essere non è univoca, perché dipende da chi la pone. Per l’esserci come coscienza in generale la domanda non ha alcun senso originario, perché questa coscienza si disperde nella molteplicità dell’essere determinato. Solo dall’esistenza possibile nasce la passione che fa porre in questione l’essere in sé al di là di tutto l’esserci e di tutto l’essere-oggetto, ma la risposta definitiva non le giunge da un sapere determinato. Ciò che c’è è l’apparire non l’essere, e neppure il nulla » (PH, I 19; 131). Già Aristotele, del resto, sapeva bene che l’essere si dice in molti modi (cfr. Metafisica, IV, 2, 1003a). Ora però, la riflessione jaspersiana, assumendo su di sé tutta la problematicità della speculazione sulla coscienza propria del primo Novecento, intende questa non univocità in modo fondamentalmente tragico ed esistenziale: come il naufragio della volontà di unificazione dell’intelletto e come l’apertura di uno spazio indefinito e variopinto all’interno del quale l’io conosce e agisce. L’elemento tragico e quello 12 esistenziale convergono laddove il fallimento dell’univocità ammaestra l’io sulla natura dell’essere e del se stesso. Anzi proprio il fallimento è il momento fondamentale dell’accertamento dell’essere stesso e dell’io, senza il quale l’intero movimento della coscienza non avrebbe luogo. In definitiva, la questione aristotelica dell’essere è posta in Jaspers sulla scorta della speculazione hegeliana e della sua dissoluzione operata da Kierkegaard e Nietzsche: l’univocità è rotta tragicamente per l’esistenza che si trova a essere interpellata da questa stessa rottura. Parafrasando il Principe di Danimarca, Jaspers afferma che « l’essere è disarticolato [aufgelöst] » e che all’io tocca la missione di 10 rimetterlo in sesto (cfr. PH, III 36; 972) . La rottura della dizione univoca dell’essere assume i caratteri tragici a causa di una duplice inadeguatezza. Da un lato l’oggetto della domanda originaria non è un oggetto, ma appare lacerato nelle determinazioni dell’intelletto al punto che non è propriamente nemmeno più un qualcosa di determinato, ma un abisso, quasi un nulla; dall’altro colui che pone la domanda non è situato al di fuori dell’orizzonte dell’essere, ma al suo interno come un essere tra gli altri, con la conseguenza che di fronte alla non univocità dell’orizzonte di riferimento la domanda stessa in definitiva si risolve in un paradosso e in un labirinto. Questo perché l’essere non è oggetto né l’orizzonte dell’apparire dell’oggetto, quanto piuttosto quel qualcosa che è al di là degli orizzonti particolari all’interno dei quali solo è possibile l’apparire dell’oggetto e il domandare intorno a esso: l’essere è quindi l’orizzonte degli orizzonti. Questa doppia inadeguatezza della risposta univoca alla questione dell’essere impone al filosofo del Novecento una via lunga fatta di approfondimento, di chiarificazione ma anche di fallimento e di naufragio. La non univocità della domanda richiede infatti, secondo Jaspers, una risposta altrettanto non univoca (cfr. PH, I 19; 131) . E la non univocità della risposta è per il pensiero che indaga, al tempo stesso, equivocità e multivocità. Equivocità che abbatte le pretese 11 dell’intelletto che ordina, cataloga e tende alla conoscenza di un oggetto per il soggetto (cfr. EP, 15; 19); multivocità che stimola la 12 ragione che, in quanto facoltà dell’infinito , accoglie le diverse possibili risposte non come un fallimento della 10 Cfr. W. SHAKESPEARE, Hamlet, I, 5, vv. 188-189. Questa esclamazione di Amleto è ormai un topos della riflessione filosofica del Novecento. Jacques Derrida, per esempio, utilizza questo stesso verso di Shakespeare per descrivere il decostruirsi del tempo da cui nasce – per il filosofo che non appartiene più al proprio tempo e non si riconosce nella contemporaneità, che è quindi inattuale – il desiderio di giustizia quale unico indecostruttibile (cfr. J. DERRIDA, Spectres de Marx. L’etat de la dette, le travail du deuil et la nouvelle 13 comprensione, ma come una ricchezza che, pur abbattendo le pretese dell’intelletto, apre lo spazio per una comprensione autentica e per la fondazione di una nuova “certezza”. Ora, allo scopo di chiarire quali siano per Jaspers il senso e le possibilità di questa nuova “certezza” è necessario indugiare in una più attenta, e lunga, riflessione sulle possibilità di dizione tanto della domanda intorno all’essere quanto della sua risposta, e in definitiva sulla natura dell’essere che io stesso sono. Si tratta pertanto di seguire una via che non muove tanto dall’essere come cominciamento, quanto piuttosto dalla sua questione, dalla sua indeterminazione e 13 dall’incertezza che ne deriva per il soggetto . L’INCERTEZZA DELL’ESSERE: DETERMINAZIONE E 1.2. INDETERMINAZIONE « Noi – scrive Karl Jaspers nel suo Existenzphilosophie del 1938 – come indagatori di noi stessi ci muoviamo nell’essere onnicomprensivo che noi siamo, in modo da farci oggetto il nostro stesso esserci, operiamo su di esso, trattiamo con esso, ma al tempo stesso questo ci fa capire che noi non ce ne impadroniamo mai, fuori del caso in cui, come incomprensibile, lo dissolviamo totalmente » (EP, 19; 23). La riflessione filosofica intorno all’esistenza muove dalla questione dell’essere. Tale inizio non poteva essere altrimenti. Premesso infatti che per Jaspers il pensiero non deve porre limiti alla ricerca, ma al contrario deve trovare nei limiti oggettivi della scienza e dell’esistenza stessa (le “situazioni-limite”) l’occasione per filosofare sempre e ulteriormente, e dal momento che 10 Internationale, Paris 1993; trad. it., Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994). 11 Il termine “intelletto” va inteso nel significato kantiano che Jaspers assume. Come è noto, infatti, Kant rovescia la nozione classica che intende l’intelletto come facoltà che coglie i primi principi e lo intende, al contrario, come facoltà della determinazione categoriale. 12 Ancora secondo il rovesciamento operato da Kant. 13 Anche Sein und Zeit si apre con un accenno alla perplessità intorno alla nozione di essere. La citazione dal Sofista platonico (244 a), posta a esergo dell’intera opera, ruota infatti intorno alla situazione di perplessità di fronte all’espressione «essente» e, ancor più, si sofferma a sulla mancanza di coscienza di tale incertezza dell’uomo nei confronti dell’essere. La prospettiva heideggeriana è costantemente presente nell’opera di Jaspers. ma questa si muove su altri binari, in alcuni casi paralleli, ma anche svincolati dall’analisi esistenziale dell’amico e collega. È da rilevare, però, che il riferimento all’incertezza e alla perplessità sia una tonalità costante nella riflessione del Novecento, e la contemporaneità di speculazioni simili e diverse come quelle di Heidegger e Jaspers non è che una conferma di questa ipotesi. 14 l’orizzonte onnicomprensivo del mondo, dell’esistenza e della ricerca filosofica in generale è segnato proprio da quell’essere che si dice in molti modi e che qui si indaga, si tratta di un inizio tutt’altro che arbitrario, bensì del cominciamento. In questo Jaspers pare concordare con lo Hegel della Logica. Ma mentre questa esprime il movimento interno dell’Idea nell’inarrestabile processo dialettico per il quale l’inizio, se tale rimane, permane nell’inessenziale, la Logica jaspersiana dal canto suo, forte della singolare esperienza kierkegaardiana e dell’eccezionale coraggio nietzschiano, si sofferma sul domandare. La domanda sull’essere infatti non è una domanda univoca e come tale richiede una risposta altrettanto non univoca (cfr. PH, I 19; 131). Se per il filosofo greco la plurivocità dell’essere apre alla possibilità di una classificazione dei modi del “dire” l’essere stesso e per il filosofo dell’Ottocento questo, come determinazione astratta, dilegua subito nel nulla; per Jaspers, filosofo del Novecento, la plurivocità dell’essere si moltiplica a dismisura in una vertigine di fenomeni che fa sì che l’essere stesso venga quasi a svanire nel nulla. Nonostante tutto, Jaspers non si esime dal tentare una dizione dei modi dell’essere, pur sapendo che questi non esauriscono l’essere stesso, anzi al contrario, se presi singolarmente, lo falsano. In tutta la sua problematicità, la questione così come si presenta alla riflessione jaspersiana può essere formulata in modo analogo al principio di indeterminazione di Heisenberg: l’osservazione e la conoscenza dell’essere sono condizionate dalle modalità e dalle tecniche stesse di osservazione e di conoscenza, di modo che si può affermare che esista una certa indeterminazione in ogni conoscenza acquisita di qualsiasi essere. Una volta chiarito che per “indeterminazione” s’intende cosa ben diversa dal normale “errore” sperimentale o logico, l’essere osservato con i lumi dell’intelletto pare di conseguenza non essere più propriamente l’essere, ma, secondo le modalità della conoscenza umana – che è una conoscenza determinata – è di volta in volta un essere. Non si tratta cioè di un errore, ma del modo stesso di essere dell’essere nel suo manifestarsi, che si dà solo nella forma di un essere determinato. L’essere, infatti, è inafferrabile di per sé; concepirlo vorrebbe dire già tradurlo in un essere determinato (cfr. PH, I 4; 115). Al contrario esso si presenta solo in una multivocità variopinta di segni che permettono di coglierlo in molti modi che però, a loro volta, non sono l’essere. La multivocità dell’essere impone a Jaspers un procedere per schemi e semplificazioni che spesso rischia di isterilire l’intero discorso, ma attraverso i quali è possibile rinvenire l’urgenza propria del filosofare autentico. L’autore non si esime dal percorrere a pieno le vie della determinazione e della finitezza, ma lo fa allo scopo di aprire 15 la possibilità, per il lettore, di scorgere nelle pieghe della stessa determinazione categoriale la via o le vie del possibile trascendimento oltre le formulazioni fisse dell’intelletto. In questo si evidenzia la formazione prettamente scientifica del filosofo Jaspers e allo stesso tempo l’esigenza di ulteriorità che nasce dall’esperienza dell’inadeguatezza delle stesse categorie scientifiche. È quindi compito del lettore, come afferma Jaspers stesso riguardo al filosofare di Nietzsche, superare le asperità del linguaggio e del periodare schematico al fine di cogliere il movimento originario del pensare. Secondo l’arida determinazione schematica dei suoi “modi”, l’essere si dice fondamentalmente come esser-oggetto, esser-io, essere-in- sé. Ognuno di questi modi mostra l’essere, ma non lo esaurisce: la filosofia della conoscenza (lo studio dell’esser- oggetto), la filosofia dell’esistenza (la chiarificazione dell’esser-io) e la metafisica (l’indagine intorno all’essere-in-sé) non sono quindi che « prospettive per il pensiero » (PH, I 6; 117), cioè delle possibilità per quella coscienza che nel suo esserci temporale esiste nella situazione in cui si trova e, a partire da essa, pensa e agisce. Queste possibilità però rimangono tali, dal momento che nessuna di esse, singolarmente presa, può arrogarsi il merito di cogliere l’essere. Più che una catalogazione dei modi dell’essere quindi, Jaspers, nelle varie opere in cui affronta la questione dell’essere, redige il resoconto delle perdite e dei fallimenti nella ricerca, da parte del pensiero, del proprio oggetto. L’ essere come oggetto è un dato. E come tale è indagato dalle scienze esatte secondo le regole dell’intelletto il quale, determinando il proprio oggetto, ne perde inevitabilmente l’originarietà: l’esser-oggetto infatti non è in alcun modo l’essere. L’essere-in-sé invece rimane nella sospensione propria della metafisica kantiana: non è esperibile né indagabile con le categorie dell’intelletto umano e pertanto rimane del tutto inaccessibile e, nella sua assoluta alterità, è quasi un nulla per il pensiero (cfr. PH, I 13; 124 e EP, 19; 23). Ma, come già Schopenhauer aveva notato, tra la chimera noumenica e la trascendentalità delle mie facoltà conoscitive vi è un termine medio che stabilisce un contatto e che apre una via d’accesso privilegiata alla cosa-in-sé: è l’essere che io sono. L’indagine intorno all’essere si rivolge pertanto a quella forma particolarissima di essere che è l’essere nel modo dell’esser-io, quale autentico, nonché l’unico, luogo di una possibile esperienza dell’essere in quanto tale. A sua volta l’essere che io sono – secondo il tipico argomentare per schemi di Jaspers – si dice fondamentalmente come 16 esserci (io come immediata comprensione, come questo corpo costantemente avvertito, qui e adesso), coscienza in generale (io come identico e sostituibile a ogni altro, in quanto soggetto della coscienza oggettiva e universale), spirito (io come comprensione della totalità in astratto) e come esistenza possibile (io come sorgente originaria, fondamento oscuro e inoggettivabile, volontà incondizionata di sapere e agire: libertà e possibilità). Anche l’io dunque si dice in molti modi: corporeità immediata, soggettività che si rapporta intenzionalmente a delle oggettività, pensiero che è in rapporto a tutto ciò che è intelligibile e, infine, essere che si relaziona alle sue possibilità. L’autenticità del mio essere, nonché l’unificazione dei modi dell’esser-io, è però data fondamentalmente nel mio essere esistenza. Ma questa, ancora una volta, non è definibile di per sé né oggettivabile, poiché non è l’ambito di un essere oggettivo bensì dell’essere possibile. È quindi un rapporto, un nesso in tensione che è chiarificabile unicamente come manifestazione dell’essere nel suo modo d’essere come libertà. Tale manifestazione si realizza all’interno del supporto temporale: è nel tempo, infatti, che si ha la manifestazione dell’essere; in esso l’essere, di per sé inaccessibile, diviene un essere determinato; in esso si realizza quel singolare nesso che è l’esistenza (nesso io-situazione, io-altro, io-trascendenza); e infine è ancora il tempo lo spazio di dispiegamento della libertà come originario ambito di realizzazione dell’uomo nel suo pensare e nel suo agire. Ora la temporalità dell’esistenza segna profondamente quella via d’accesso privilegiata all’essere che io stesso sono. Scandito dal diaframma del tempo, il pensiero dell’essere non può che essere un pensiero di volta in volta determinato e parziale. Qualora il pensatore del Novecento volesse quindi tentare di dire l’essere che si trova al di là delle determinazioni in cui pare manifestarsi, ossia dei suoi modi, ovvero qualora volesse tentare una comunicazione dai caratteri universali e universalmente validi dell’essere stesso, si troverebbe inevitabilmente di fronte allo scacco del suo svanire nel nulla (cfr., tra gli altri, PH, I 2; 111 ed EP, 14; 18). Questo perché i molti modi in cui si dice – singolarmente presi – finiscono per tradire l’essere e, allo stesso tempo, disorientano il 21 filosofo che si sa non più in grado di elencarli tutti né, d’altro canto, ha più la forza di pensarli dal punto di vista dell’Assoluto (per dominarne l’inevitabile nullità). Al cospetto di queste possibilità, il 17 pensiero di Jaspers pare arrestarsi nell’incertezza di fronte all’essere e al compito di dirlo tutto o da parte del tutto. La situazione in cui si trova Jaspers nei confronti della questione dell’essere è analoga a quella, da lui stesso descritta, dell’interprete di fronte ai frammenti di una montagna e di una costruzione. A partire dall’inevitabile indeterminazione dell’essere, si comprende come dell’essere non possa che esserci un’ermeneutica. E non un’ermeneutica asettica e impersonale, quanto piuttosto una pratica di appropriazione (dell’essere) che coinvolga personalmente l’interprete (l’esser-io) nella partecipazione al movimento originario che ha prodotto i frammenti e che, ora, non è più ricostruibile. Jaspers però è cosciente del fatto che anche un’interpretazione dell’essere come esser-io non può condurre a qualcosa di universalmente valido, o a una scienza, ma solo all’esperienza singola dell’essere che io sono. Di fronte all’incertezza pertanto il pensiero può decidere uscirne in vari modi, ovvero può decidere di rimanere in essa, ancora in diversi modi. Ma dal momento che ogni via d’uscita equivarrebbe a una fuga dal problema stesso che lascerebbe insoluta la domanda (poiché ogni nuova certezza si presenterebbe subito come una certezza determinata o come certezza di un essere determinato), a Jaspers non rimane che soggiornare nell’incertezza, magari acuendone i paradossi e le ambiguità, allo scopo di scorgere in essa segni, possibili rimandi, o il modo stesso di darsi di quell’essere che non si può dire altrimenti. Si sofferma pertanto sul fatto che tale essere (anche nel modo dell’esser-io) inevitabilmente gli sfugge, ma allo stesso tempo tenta una via del pensiero (insieme semplice e inattuabile, o inattuale) che dica con le categorie del pensiero (peraltro imprescindibili per noi) ciò che non è oggetto del pensiero stesso. Il fallimento della dizione dell’essere – della sua scrittura in un sistema razionale chiuso che, peraltro, comporterebbe inevitabilmente la sua caduta nel nulla della fissa determinazione – mostra l’essere nel suo annunziarsi senza per questo oggettivarlo, e, d’altro canto, ammaestra l’uomo intorno alla natura del pensare stesso e in definitiva sulla sua stessa umanità. 1.3. L’INCERTEZZA DEL QUALCOSA: L’UOMO E IL MONDO Nella tradizione filosofica della modernità, del resto, la soglia del pensiero, ossia quello spazio guadagnato il quale è possibile cogliere contemporaneamente il suo limite e le sue possibilità, ha assunto 18 sempre più il ruolo di luogo privilegiato della ricerca, di modo che diviene più fecondo il limite che il “qualcosa” stesso. Un tale sporgersi sul limite (sulle situazioni-limite) non è però frutto di una scelta arbitraria, ma è dovuto alla natura stessa del “qualcosa” che non pare essere assolutamente al sicuro. Nella prospettiva jaspersiana, infatti, allo svanire dell’essere fa da contrappunto l’ambiguità dell’ente stesso che pare anch’esso sfuggire a ogni determinazione univoca e si viene a dire in molti modi. Il mondo, per esempio, inteso come la totalità dell’essere nello spazio e nel tempo, si manifesta frammentato (cfr. PH, I 64; 180 o KS, 26; 25) e il suo sapere – la scienza, come sapere orientato agli oggetti, che legge l’essere nelle sue manifestazioni determinate come ciò che 27 ha di fronte, come oggetto – è indefinito e indeterminato . La sua conoscenza si presenta infatti come quel sapere determinato di un oggetto che organizza i propri contenuti in un’unità sistematica allo scopo di dominare l’indefinito cui esso comunque è sempre inevitabilmente rimandato. Questo perché la scienza studia l’essere separato, ossia l’esser-ci determinato nello spazio e nel tempo. E tale esser-ci, non essendo l’essere in sé, viene compreso in un sapere costantemente vincolato al sistema di riferimento, la cui unità (l’unità infatti è il fine della scienza) è pur sempre l’unità di un mondo, mai l’unità assoluta. Dice Jaspers: « Noi infatti siamo certi di oggetti finiti nel mondo ma mai del mondo come di una totalità » (PH, I 95; 213) o, in modo ancora più forte: « Manca l’Uno a tener insieme il Tutto » (KS, 23; 22). Questa sua natura parziale e indefinita fa sì che il cammino della scienza sia di per sé interminabile e che il progresso cui dà moto non abbia limiti (cfr. PH, I 87; 205). Ed è un rilievo importate questo, dal momento che la scienza per sua stessa definizione è un sapere finito che per dare ragione del suo senso necessita, a sua volta, di un sapere del limite (cfr. PH, I 88; 207). Ponendosi come indagine determinata riguardo all’oggetto, essa è infatti un sapere vincolato e 28 limitato che alla lunga delude se non si risolve nel sapere della limitazione stessa e della determinazione; e sebbene il progresso sia esso stesso per natura indeterminato, nell’indeterminatezza assoluta non ci potrebbe essere alcuna forma di sapere scientifico. Questa del resto, nota Jaspers, non è la sola ambiguità della ricerca scientifica (ambiguità che, peraltro, pone in essere, allo stesso tempo, quello sbilanciamento e quella tensione che rappresentano proprio il motore della scienza stessa). Essa in quanto sapere dell’oggetto è fine a se stessa, ossia tende autonomamente alla sua 19 realizzazione in un orizzonte determinato, senza cioè la necessità di alcun ricorso alla metafisica (cfr. PH, I 135; 255: « la scienza autentica si realizza senza metafisica »). Ma allo stesso tempo, proprio in quanto sapere del limite, la scienza invoca la metafisica come suo naturale completamento (cfr. PH, I 135; 254: « la scienza provvista di senso si realizza attraverso la metafisica »): il limite invoca il superamento del 29 limite stesso . E la metafisica infatti, in quanto pratica dell’oltrepassamento del limite o del trascendimento, viene in soccorso della scienza indagatrice dell’oggetto che – ferma alla determinazione 30 – non esce dal mondo (cfr. PH, I 135; 254-255) . 28 Si legge nel citato La natura e il valore della scienza: « la conoscenza scientifica delle cose non è la conoscenza dell’Essere. […] La conoscenza scientifica non può in nessun modo fornire delle mete ideali per la vita […]. La scienza, allo stesso modo, non può darci nessuna risposta alla questione che riguarda il suo stesso significato ». In definitiva, i limiti della scienza « hanno dato luogo alla più amara delusione, tutte le volte che ci siamo aspettati dalla scienza ciò che essa non è in grado di fornire » (op. cit., p. 117). 29 Jaspers cita, a questo proposito, Tolstoj: la scienza « è assurda perché non dà alcuna risposta all’unica domanda che a noi importa: che cosa dobbiamo fare? Come dobbiamo vivere? » (MW, 96; 84). 30 Il mondo infatti, pur inalienabile dimora dell’esser-io, è tanto insufficiente come orizzonte vitale che lo slancio metafisico diviene esigenza salvifica di fronte allo “sconforto dell’esserci” (Hilflosigkeit des Daseins). Così Philosophie: « Per me il mondo non è solo l’oggetto di un sapere che posso lasciar indifferentemente sussistere, perché in esso c’è il mio essere autentico che non mi lascia tranquillo. Il coraggio di superare il cieco sconforto dell’esserci genera quel timore che nasce per tutto ciò che nell’esserci importa, e che nelle situazioni-limite è messo in questione » (PH, II 205; 680 – corsivo mio). 20 Similmente l’uomo si dice in molti modi, al punto che per un filosofo del Novecento risulta arduo parlare di “umanesimo”. « Umanesimo si dice in molti sensi » (NH, 21; 13). È questo l’incipit della conferenza Über Bedingungen und Möglichkeiten eines neuen Humanismus del 1949, nella quale Jaspers tenta uno scandaglio delle possibilità di un nuovo umanesimo muovendo dalla constatazione, proprio di matrice pascaliana, che « l’uomo è più di quanto può conoscere di se stesso » e che, « per quanto si descrivano gli uomini di oggi, essi restano nell’ambiguità, né sono riconducibili a un unico tipo » di modo che « qualunque immagine 31 dell’uomo rappresenterebbe già una limitazione » (NH, 22-23; 14-15) . Per la fisiologia l’uomo è corpo, per la psicologia è anima, per la sociologia è essere sociale… etc., ma in generale esso sembra cadere nel nulla (cfr. NH, 23; 13). Tuttavia, proprio in questo naufragio nella « palude » (cfr. NH, 24; 14) della nozione di umanità, l’uomo può divenire cosciente di ciò che è e che non può mai essere annientato, ossia del suo stesso essere che, nel movimento metafisico, si spinge oltre se stesso e « trova pace solo in ciò che cerca, ma non è » (NH, 24; 14). Il limite si presenta quindi come condizione di dicibilità dell’essere: ciò « che esteriormente è determinazione e limite, rileva Jaspers, interiormente è manifestazione 32 dell’essere autentico » (PH, I 16, 127) . In definitiva, l’incertezza derivante dal principio di Heisenberg, secondo il quale non è possibile determinare simultaneamente la posizione e il momento di una particella, può essere metafora dell’incertezza dell’uomo di fronte (angesichts) all’indeterminazione dell’essere del quale non è possibile determinare simultaneamente la sua natura interna (l’essere-insé), il suo apparire determinato in oggetti (l’esser -oggetto o il mondo), il suo manifestarsi nell’io stesso (l’esser-io o l’uomo) … etc. Molteplici registri sono, infatti, necessari per l’interpretazione dei modi in cui l’essere 33 pare lacerato al punto che rischia quasi di cadere nel nulla . Ora, la lettura dei modi in cui l’essere si manifesta nell’indeterminata determinazione del mondo o dell’io rappresenta per la coscienza filosofica la soglia oltre la quale si dispiegano le possibili vie alla trascendenza. Ma lungo la via per la trascendenza, ossia oltre la soglia dell’essere determinato, s’incontra inevitabilmente il nulla come possibilità imprescindibile. 31 Come è stato notato (cfr. R. CELADA BALLANTI, Umanesimo e Liberalität in Karl Jaspers, in AA.VV., Etica e destino, Il Melangolo, Genova 1997, pp. 179-185, in particolare pp. 189-190), vi è una certa affinità tra la lettura dell’umanesimo di Jaspers e la concezione heideggeriana del Brief über den Humanismus. Per esempio in KS, 59; 53: « Ognuna di queste determinazioni [zoon logon echon, zoon politikon, homo faber, homo laborans, homo oeconomicus] coglie un aspetto peculiare dell’uomo. Ma manca in esse ciò che è decisivo: l’uomo non va colto come un Esser-così, come peculiarità, dimensione che sempre ritorna in tali definizioni del suo Essere. L’essere dell’uomo, piuttosto, è in movimento incessante: l’uomo non può restare così com’è. Si trova in una situazione comunitaria in perpetuo movimento. Non è, come gli animali, un essere che si ripete nella compiutezza di generazione in generazione. Va al di là di come è dato a 21 1.4. L’ESSERE E IL NULLA L’indagine nella quale la coscienza filosofica ha indugiato di fronte alla possibilità del nulla è venuta assumendo, nei secoli, la forma della Grundfrage («perché c’è qualcosa in generale piuttosto che il nulla? » Tuttavia, secondo Jaspers, le varie risposte fornite dalla tradizione non escono dal comune errore di voler ridurre la questione dell’essere a un’argomentazione filosofica (seppur questione-limite). Così, per Leibniz, si può retrocedere all’infinito lungo la via delle cause accidentali senza per questo ottenere alcun progresso nella ricerca della risposta, e questo implicherebbe la necessità logica di un principio che risieda al di fuori della serie stessa. Per Kant, invece, l’uomo non può esimersi dal provare vertigine di fronte al pensiero abissale di un essere al di là o dal provare orrore di fronte alla possibilità di un nulla. Ebbene, osserva Jaspers, laddove Kant rimane fermo ai limiti della ragione, Schelling rovescia il limite in possibilità, e dalla situazione del non-sapere salta, mediante l’intuizione intellettuale, a una forma di conoscenza del non-saputo che è pur sempre un sapere. « In Kant stando sul limite v’è il più profondo non sapere, in Schelling c’è invece la conoscenza del non-saputo » (S, 130). Tale rovesciamento del limite in possibilità e del non sapere in conoscenza del non-saputo, se da un lato ha il pregio di aprire la via della trascendenza per un discorso che vuol dire con i caratteri del mito e del simbolo l’essere stesso e la trascendenza, dall’altro non esce dalla pretesa totalizzante propria del pensiero scientifico e si prefigura l’essere e la trascendenza come oggetti e quindi come un possesso, anche se nella forma di un non-saputo. Il pensiero dell’essere che emerge dall’intuizione intellettuale pare quindi non cogliere ancora nel segno, in quanto il salto dell’intelletto intuente schellinghiano fallisce il suo oggetto al pari del movimento dell’intelletto scientifico volto alla determinazione del suo oggetto: come detto, entrambi pretendono di ricondurre il non pensato nella filosofia, e in tale pretesa mancano il loro oggetto. In tutte le sue possibili dizioni, il pensiero dell’« è » permane come una necessità ineliminabile e, allo stesso tempo, per sua natura pare inscindibilmente connesso con il nulla. Secondo Jaspers, infatti, Schelling ha l’indubbio pregio di aver posto la domanda fondamentale sulla via dell’esistenza. se stesso ». Ma mentre Heidegger ricava da tali osservazioni la radicale opposizione alla volontà di potenza dell’humanitas da Platone a Nietzsche, per cui « ogni tentativo di restituire dignità alla logora parola “umanismo” è destinato a cadere, inficiato com’è da un’idea di humanitas pensata a partire dal presupposto dell’animalitas e della ratio » (R. CELADA BALLANTI, op. cit., p. 189), in Jaspers manca la radicalità della Destruktion della cultura occidentale presente invece in Heidegger, poiché Jaspers insiste sull’apertura della storia alla libertà ermeneutica e alla responsabilità dei singoli nel mondo della possibilità, e non della destinazione chiusa. 32 « L’essere-Umgreifende è un essere in tempesta [Das Sein des Umgreifenden ist in der Tat ein Sein im Sturm] » (W, 188-189; 88). 22 Egli parla di una domanda colma di disperazione, «verzweiflungsvoll», che emerge dall’abisso della infelicità dell’uomo e che se non trova risposta ogni cosa s’inabissa nel baratro di un nulla senza fondo. Di qui la possibilità di una sua espressione mitica o simbolica, che però, ancora una volta, non la esaurisce. La questione infatti pare sottrarsi in tutti i modi alla presa filosofica, e l’errore della teosofia tautegorica schellinghiana consisterebbe proprio nel voler portare il non pensato nella filosofia come oggetto, oltre la cifra. Forte quindi dell’esperienza dell’inadeguatezza di ogni risposta alla questione fondamentale che voglia gestire un oggetto, Jaspers si sofferma, più che sulla risposta (che non pare portare ad altro che al naufragio delle possibilità intellettive) sulla domanda stessa che, già da par sua, pone numerosi elementi discriminati. Cosa si intende per questo “qualcosa”? È forse l’essere al di là dell’essere stesso (epékeina tês ousías), il Super-essere o l’Oltre-essere (Überseiende) o piuttosto il qualcosa concreto, ossia in definitiva l’ente? E, allo stesso modo, il nulla è un nulla assoluto o piuttosto solo un nulla relativo, il nulla di essere, il non-essere? Come si è visto, l’essere non è il qualcosa. Il fallimento della domanda « perché c’è in generale qualcosa piuttosto che il nulla? », che pur nella sua radicalità pare mancare il bersaglio, è già presagito nella domanda stessa: infatti il pensiero può cogliere al massimo il fatto che c’è il “qualcosa”, ossia, ancora una volta, l’essere determinato e non l’Oltre-essere. Del resto, afferma Jaspers, la domanda « non trova risposta in una ricerca o in un corso necessitante di pensiero » (PGO, trad. it. p. 560), al contrario il pensiero « salta fuori dalla serie quando si interroga intorno all’origine non del primo termine della serie ma della serie intera » (PGO, trad. it. p. 563). Quindi solo la sorpresa del fallimento di questo gioco del pensiero oggettivante, che, dal momento che non dispone di un oggetto adeguato, inevitabilmente esce dai cardini (out of joint!, direbbe Amleto) e naufraga, è occasione per un approfondimento ma non più a livello teorico, bensì esistenziale, pre-logico o addirittura vitalistico (cfr. PGO, trad. it. p. 560). «Bisogna abbandonare il pensiero oggettivante – scrive Pareyson in La “domanda fondamentale”: « Perché l’essere piuttosto che il nulla » – accettando che ciò che si rivela esistenzialmente è l’essere pur non essendo identico per tutti. Questa diversità attesta che qui siamo nella sfera dell’inogettivabile, non trattandosi né di un problema scientifico d’interpretazione intellettuale, né d’un problema psicologico di descrizione, ma d’un problema esistenziale di comunicazione. Un’autentica risposta alla domanda fondamentale non è univoca proprio perché esistenziale, e sa cogliere l’essere anche 23 nella vertigine del pensiero e nell’abisso del nulla; essa non è autentica se non dove la questione è posta in tutta la sua serietà, quando lo stupore provocato dalla domanda esige l’approfondimento della coscienza sino al nodo che vincola fra loro esistenza e trascendenza». Del resto il pensiero speculativo non ha nulla da dire riguardo alla verità dell’essere o al massimo può divenire « occasione » per un maggiore approfondimento esistenziale. Esempio paradigmatico del fallimento della volontà totalizzante della speculazione filosofica riguardo alla questione dell’essere è la stessa dialettica hegeliana. Secondo Jaspers, infatti, nemmeno la potente speculazione di Hegel pare risolvere la questione, sebbene abbia il pregio d’aver colto l’imprescindibile connessione di essere e nulla. Questo perché in essa il puro essere è nulla, astrazione da tutte le finitezze e da tutte le determinazioni e quindi, senza più alcunché di determinato, esso è il puro nulla. Un nulla di essere, però, per cui l’uno e l’altro paiono inseparabili e solo la dialettica del movimento speculativo riesce a unificarli: l’essere è nulla e nel nulla si annida l’essere, e in definitiva il nulla stesso è l’essere autentico nel divenire. Sulla via di questo pensiero, nota Jaspers, trovano la loro giustificazione tanto l’ontologia quanto il nichilismo. Entrambi (la dottrina dell’essere e la dottrina del nulla) non sono però che « dei precipizi che rovinano l’esperienza viva del pensiero dell’essere e la riducono ai fuscelli di paglia del pensiero intellettuale ». La dialettica quindi è sì un movimento illuminante, ma anche un inganno sofistico in cui il pensiero « si lascia svanire nel vago » (PGO, trad. it. p. 557). « Ma questi pensieri – conclude Jaspers – ci traviano verso l’assoluta mancanza di fondamento, verso il nulla dell’irresponsabilità » (PGO, trad. it. pp. 557-558). Al contrario, afferma Jaspers, domanda e risposta « sono guide, seguendo le quali si chiarifica o si produce una disposizione interna » (PGO, trad. it. p. 560). Come l’interpretazione di un testo di Nietzsche rimane sterile se non si traduce in una concreta e personale partecipazione al filosofare e al pensare, così non è certo nel processo necessitante del pensiero o nelle visioni intellettive che la questione fondamentale trova risposta. Anzi, per l’intelletto essa risulta sempre più vuota e sterile tanto da venir abbandonata ed esclusa dal novero delle entità conoscibili. Sembra quasi « uno scherzo fatto per ridere » (PGO, trad. it. p. 560). Ogni risposta possibile, nella sua inadeguatezza, ha senso solo se interpretata come una cifra. E le cifre, nella loro varietà e ricchezza, alimentano e accrescono ulteriormente il domandare originario di modo che la reazione a catena della sorpresa, per un gioco forse insensato, pare non avere termine (cfr. PGO, trad. it. p. 564). E del 24 resto il termine di questo gioco è inessenziale per Jaspers. Quel che conta è che sia sempre l’uomo « il luogo in cui si verifica questo vario manifestarsi, luogo come diversa presenzialità in tutti i modi della totalità comprensiva [Umgreifende] che l’uomo è » (PGO, trad. it. p. 562). Si chiede infatti Jaspers: che cosa rimane della domanda originaria e della questione filosofica fondamentale nell’indeterminato gioco delle risposte che, in quanto cifre, anziché risolvere, alimentano il domandare e problematizzano ulteriormente? La risposta è illuminante e semplicissima: rimane la « chiarificazione esistenziale mediante il pensare in cifre e nell’oltrepassare le cifre » (PGO, trad. it. p. 563), rimane l’esistenza. 1.5. « IO CERCO L’ESSERE CHE NON SI RISOLVE SOLO NELLO SVANIRE » Il nodo centrale della speculazione jaspersiana intorno all’essere (sulla scorta dell’esperienza dell’equivocità e della multivocità dell’essere stesso) è quindi il tentativo di comprendere, o almeno di chiarire a livello esistenziale e indagare l’essere che non si risolve nel semplice svanire (cfr. PH, I 2; 111). Del resto, tanto l’essere che si risolve nello svanire oltre le determinazioni quanto quello che si lascia dire tutto mediante le categorie dell’intelletto non dicono nulla dell’essere che qui si indaga. E l’intero movimento della scienza, dal canto suo, altro non è che questo rifiuto dell’essere nello svanire e la ricerca dell’essere in sé. Ora, sebbene da nessuna parte l’io abbia a che fare con l’essere chiuso in sé (cfr. PH, I 18; 130), proprio quell’essere nello svanire che è scartato dai costruttori del sapere scientifico è l’unico modo d’essere dell’essere per il pensiero. Lo svanire, quindi, è l’oggetto della ricerca filosofica che non vuole fermarsi all’oggetto (che, per definizione, non può essere l’essere). Del resto, dice Jaspers, ciò « che c’è è l’apparire non l’essere e neppure il nulla » (PH, I 19; 131) – anche se questo essere che c’è è tanto poco l’essere di cui l’io andava in cerca che pare quasi svanire nel nulla (cfr. PH, I 13; 124). Ora, la nullità di questo essere che c’è è però l’unico modo dell’essere: l’essere si dà per me sotto il segno della quasi nullità. Altrimenti detto, nel “divenire”. La dialettica hegeliana sembrerebbe rispettata, in questo punto, ma con uno slittamento che ne rivela, nell’interpretazione jaspersiana, il fondo esistenziale. O, meglio, è Jaspers che legge la dialettica essere-nulla- 25 divenire nella sua valenza esistenziale. Nel divenire infatti (che è divenire temporale) l’essere che appare (fenomenologia dell’essere) porta con sé i due precedenti (l’essere e il nulla), ma il prodotto, ossia il terzo, non è una nuova immediatezza come invece il terzo hegeliano. Esso infatti mantiene al suo interno quella forte lacerazione che l’ha generato, poiché in esso la duplicità rimane insuperabile: tanto l’essere-in-sé della trascendenza quanto l’essere nella coscienza per l’esistenza non sono l’essere, e in più non sono reciprocamente commensurabili (cfr. PH, I 20; 131). La dialettica jaspersiana dell’essere si presenta quindi come una dialettica aperta in cui la memoria (Erinnerung) non è il medio della conciliazione degli opposti ma, al contrario, la traccia che l’io porta con sé dell’irriducibilità e dell’incommensurabilità degli opposti stessi. « Non c’è alcuna concezione dell’essere in grado di abbracciare tutto l’essere in cui ci troviamo. Questa è la mia situazione che, filosofando, non dimentico » (PH, I 22; 133 – corsivo mio). Che ne è quindi dell’essere? Si chiede Jaspers (cfr. W, 37). È forse questo “diluirsi” dell’essere stesso in tutto ciò che indeterminatamente si può dire che è? O è la “fissazione” ( starrwerden) del molteplice sensibile nell’essere categorialmente determinato che è conosciuto? O infine è quell’essere di cui mi posso accertare nel trascendimento di ogni oggettività mediante il pensiero? (cfr. PH, I 23; 135). In ogni caso, l’essere si presenta come una magna questio che non pare trovare una soluzione univoca: « l’essere, diviso dalle domande che lo riguardano non può essere riconosciuto nella sua unità » (PH, III 36; 972). L’impossibilità di una risposta universalmente valida impone, in conformità con quanto precedentemente rilevato riguardo alla teoria dell’interpretazione, un ritorno sul domandante. Il fallimento della domanda apre la possibilità di una riflessione sul soggetto stesso della domanda. Non per una sorta di relativismo soggettivo di chi s’impone come misura di tutte le cose – di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono – ma per la necessità che scaturisce dal fallimento stesso di ogni tentativo di determinazione univoca. L’essere non si dà quindi nella comprensione. Esso, in quanto abbracciante (Um-greifende) è di per sé in-comprensibile (Un46 ). Ma l’in-comprensibilità dell’essere apre all’esistenza greifende come unico ambito per una possibile risposta. Soggettiva forse, e quindi fallace o fallibile, ma una e non unica (cfr. PH, III, 416-417; 904906), e comunque sempre possibile risposta sull’essere. 26 « A questo punto l’esistenza diventa il segno per indicare la direzione dell’autoaccertamento di un essere che non si può pensare oggettivamente, né in termini di universale validità; è l’essere che nessuno conosce e che nessuno può affermare nella pienezza del suo senso, né riferendosi a se stesso, né riferendosi ad altro » (PH, I 19; 130-131). L’uomo è l’unica via d’accesso all’essere, in quanto è anche l’unico essere che è cosciente del proprio, pur inadeguato, essere. Non si danno altre possibilità. Del resto «L’eterogeneità dell’apparire (del fondo oggettivo nei fenomeni, della trascendenza dell’essere-in-sé nelle cifre, dell’esistenza nella certezza della coscienza assoluta) annulla in ogni sua direzione la consistente stabilità di un essere, perché nel suo complesso questa eterogeneità mantiene l’essere, a cui si rivolge la domanda dell’esistenza possibile nella realtà temporale, in una lacerazione definitiva che investe alla radice anche la domanda » (PH, I 21; 133). La lacerazione (Zerrissenheit) dell’essere investe tutto l’essere e rimbalza sulla domanda stessa che, come detto, non trova una risposta univoca, ma segna anche il domandante che, in quanto tale, è anche l’unico interpellato. Il filosofare è quindi questo movimento del pensiero che ritorna sul soggetto il quale è chiamato a leggere e interpretare personalmente l’essere così come esso si presenta, ossia nell’apparire che come tale è nulla per il pensiero, ma che, come apparire dell’essere, è un qualcosa carico di significato (pur non essendo la verità): « il filosofare, attraverso l’apparire, coglie l’essere nell’interpretazione delle cifre della trascendenza e nel pensiero che si appella all’esistenza » (PH, I 20; 132). L’essere quindi può essere scorto solo nel movimento riflessivo del pensiero che leggendo il fenomeno come cifra dell’essere (dalla fenomenologia dell’essere all’interpretazione delle cifre dell’essere stesso) non svela questo, riducendolo di volta in volta a un essere determinato e così perdendolo, come vorrebbe la conoscenza scientifica, ma si accerta di esso. L’interpretazione dell’essere è quindi sempre una, mai unica (ossia univoca e dogmatica). Ciò vuol dire che, trascendendone l’oggettività (che però in quanto tale è solo un prodotto o, kantianamente, una forma a priori del soggetto), il pensiero esperisce l’inadeguatezza dell’espressione categoriale, peraltro imprescindibile, e apre così all’accertamento dell’essere quale forma di conoscenza, ancora categoriale, ma non più oggettiva. Fare filosofia pare quindi voler dire, pascalianamente, beffarsi della filosofia. E tale inevitabile farsi beffe della filosofia, ironico e tragico allo stesso tempo, è il trascendere (cfr. PH, I 23; 134). 27 L’autentico essere, quindi, è da cercarsi solo nella trascendenza, o nel trascendimento. Non certo attraverso la coscienza in generale che indaga l’essere come un oggetto per un soggetto, ma tramite l’esistenza. Questo perché l’ontologia (ossia la dottrina dell’essere) può giungere solo a tradurre l’essere nei modi dell’essere stesso senza per questo poter mai comprendere l’essere come unico; al massimo essa può liberare il cammino per un ulteriore trascendimento. « Oggi l’ontologia non vale più come metafisica, ma come teoria delle categorie » (PH, I 24; 136). E ancora: « Qualunque cosa possa pensare il pensiero mi crea solo lo spazio dell’io come esistenza possibile che rimane sempre estranea al pensato » che, di per sé, ha solo « conoscibilità relativa », è « possibilità », « appello », nulla di più (PH, I 24; 136). Ma come può una certezza chiarificatrice darsi in una oggettivazione inadeguata? Del resto « l’essere, come essere-oggetto, non sussiste da sé », ma è solo un ens rationis (PH, I 30; 143). Questo sarà possibile solo se il soggetto è più e meno che soggetto: nonostante il soggetto, l’io è altro. Nel fallimento della soggettività del 50 soggetto , l’io nella sua intenzionalità si rapporta a un essere nonoggettivo, e tale rapporto (ma è un rapporto impossibile!) è l’esistenza 51 (PH, I 28; 140-141) . La prospettiva di una certezza fondata su di un impossibile rapporto al non-oggettivo non può che abbattere il pensiero categoriale (dell’intelletto) al pari dell’uomo che si limita a esserci senza svelare la sua natura intimamente sbilanciata verso la trascendenza (cfr. PH, I 38, 152). Ma lo sconforto dell’esserci è al tempo stesso stimolo al trascendimento: « Nello sconforto dell’esserci c’è in me lo slancio dell’essere » (PH, II 204; 679). Il pensiero non è in grado di conoscere l’essere, ma solo di chiarire l’esistenza, quando si fa pensiero attivo nella vita stessa che attraverso il medio del linguaggio filosofico si traduce in appello. Appello a trascendere. « Tutte le sue vie conducono alla metafisica » (PH, I 32; 145). «L’essere è rimasto in sospensione per l’incomprensibilità dell’essere-in-sé. Esso è apparso come un limite nell’analisi dell’esserci. Ma mentre l’essere-in-sé mi resta del tutto inaccessibile perché, come assoluta alterità, è quasi nulla per il pensiero, io sono a mia volta quell’io che è posto come limite all’analisi dell’esserci. Nella ricerca dell’esserci è questo il passo ulteriore che bisogna compiere » (PH, I 13; 124). 1.6. LA FONDAZIONE DELLA COSCIENZA DELL’ESSERE 28 Muovendo dallo sconforto dell’esserci quale irriducibile tonalità emotiva riguardo all’essere, al mondo e all’io (frutto tanto dell’esperienza vissuta quanto dell’argomentazione teorica), Jaspers ritiene che il fine, e quindi anche il significato, della ricerca filosofica non debba in definitiva consistere nella realizzazione di un sapere concreto riferito a un oggetto, cosa che si addice esclusivamente al sapere delle scienze particolari; al contrario, il pensiero filosofico, e in modo particolare quel pensiero che si situa a pieno nel Novecento, vuole essere « la trasformazione della coscienza dell’essere » (VE, 48; 81). Questa espressione di Vernunft und Existenz del 1935, pone Karl Jaspers all’interno della tradizione che intende la filosofia come indagine ontologica, ma allo stesso tempo situa la riflessione del filosofo di Oldenburg in una particolare prospettiva ermeneutica: le possibili spiegazioni del significato dell’essere, infatti, sono altrettante interpretazioni cui il filosofo è chiamato a dare spazio. Anzi, è responsabilità del filosofo assicurare il libero spazio entro cui l’essere possa emergere. « Non perderti negli oggetti della coscienza! Non lasciarti distogliere dalla trascendenza! » (VE, 48; 81). Sono questi gli imperativi che guidano l’indagine ontologica jaspersiana e che, come tali, ne tracciano i limiti: gli oggetti e la trascendenza. All’interno di questi elementi il filosofo si pone dal punto di vista della comprensività, per cui ogni manifestazione dell’essere (ciascuno dei suoi modi) risulta fondamentale e imprescindibile per l’inveramento degli altri modi e dell’intero orizzonte onnicomprensivo. Tanto gli oggetti quanto la trascendenza si modulano quindi in una sistematica vivente che è scandita dalla temporalità dell’esistenza e che, come tale, ha nel movimento e nel dinamismo il suo motore (cfr. PH, I 276; 398). Per questo motivo Jaspers non chiama la sua un’indagine “ontologica”, bensì “metafisica” – laddove per metafisica intende il movimento di continuo oltrepassamento della situazione e del limite. Nella prospettiva jaspersiana, infatti, l’ontologia è la cristallizzazione dell’essere negli enti, essa è semplice « teoria delle categorie » (cfr. PH, I 24; 136); mentre la metafisica è la sua fluidificazione dinamica nella tensione che, dividendole, unisce esistenza e trascendenza. Tensione che è mossa dall’originaria sproporzione dell’esistenza che, per sua stessa definizione, è proiettata verso un’ulteriorità che la segna nel suo intimo. La filosofia, si diceva, è per Jaspers essenzialmente la trasformazione (cfr. VE, 48; 81) o la formazione (cfr. KS, 44; 40) di una coscienza dell’essere che, come tale, non deve essere coscienza di un essere né tanto meno coscienza assoluta (ossia possesso totale e definitivo) di un oggetto. Al contrario i modi dell’essere, ossia le modalità in cui esso si viene a manifestare nello spazio del filosofare e nel tempo del 29 mondo in generale per la coscienza, sono, come i frammenti di una costruzione ancora da venire, in reciproca connessione. Non si tratta di tante visioni parziali, ma della sinfonia che solo nel comune rimando reciproco (nell’idea) apre la possibilità di una comprensione. Comprensione certo problematica, poiché fondata sull’impossibilità della riduzione univoca all’unità, sulla certezza dell’assenza di un fondamento universalmente valido ancorato a un oggetto e infine manifestantesi in una serie di polarità (ragione ed esistenza, esistenza e trascendenza, tempo ed eternità, etc.) che non si risolvono in semplici antitesi, ma che nella tensione si chiariscono vicendevolmente ma incessantemente. Ogni modo nel quale l’essere si manifesta pare differire in poco dall’altro. Il compito che la ragione filosofica jaspersiana si propone è pertanto quello di fare chiarezza allo scopo di distinguere pur nell’assenza di fondamento oggettivo, per esempio, l’esistenza dalla vitalità dell’esserci (l’Existenz dalla Daseinvitalität), la trascendenza dalla natura, etc. (cfr. VE, 49; 82). A partire quindi dalla questione dell’essere, Jaspers definisce la ricerca filosofica come l’azione dell’aprire e del tenere aperto lo spazio dell’essere per l’esistenza libera, che però non sia, per questo, sciolta da qualsiasi vincolo (cfr. EP, 12; 15: « L’essere inteso come lo spazio vastissimo dell’abbracciante da cui si muove incontro a noi ciò che di volta in volta per noi è l’essere »). La libera interpretazione dei modi dell’essere infatti, è tale in quanto libera da condizionamenti ma non arbitraria, bensì essa si dà all’interno di un orizzonte. Un vincolo permane comunque insuperabile per l’esistenza: ed è la mia storicità. Solo questa mi restituisce al mio essere non come puro e astratto carattere ontologico, ma come autentico essere mio. Come si vede, lo sforzo costante di Jaspers è quello di operare rovesciamenti; il rovesciamento del limite, per esempio, in possibilità: « Ciò che esteriormente è determinazione e limite, interiormente è manifestazione dell’essere autentico » (PH, I 16; 127). Concreto ma non disperso nella contingenza, l’io indaga il proprio essere storico allo scopo di aprire lo spazio della manifestazione dell’essere nei suoi 55 modi, di cui uno è l’io stesso . È questa la pretesa di Jaspers: « Si può abbracciare l’immensità senza perdersi nella vuota e povera universalità dell’intelletto, nei fatti senza senso dell’esserci o in un misero al di là » (VE, 49; 83). Coscienza dell’essere e coscienza dell’uomo che io sono, sono intimamente legate al punto che solo nella fondazione di una adeguata coscienza delle possibilità umane è possibile parlare di coscienza 30 dell’essere (cfr. NH, 23; 15). Nel momento in cui infatti, con una decisione fondamentale, prendo coscienza del mio essere uomo (non intendo quindi l’umanità come oggetto di un sapere determinato, ma come l’ambito di manifestazione di tutti i modi determinati dell’essere uomo) io non sono più sufficiente a me stesso ma, subito, sono rimandato « all’alterità dell’altro e al Tutt’Altro della trascendenza » attraverso la quale sono reso trasparente a me stesso nella mia nullità (cfr. NH, 27; 16). È infatti solo nella storicità sempre personale della ricerca intorno all’essere che si apre uno « sconfinato orizzonte » (VE, 49; 83) nel quale unicamente è possibile la manifestazione dell’essere. Ma allo stesso tempo è nell’inclusione all’interno di una situazione, di un essere concreto, che si apre per l’uomo la possibilità di un autentico discorso sull’essere stesso. Apertura e inclusione paiono qui congiungersi nell’unico movimento interpretativo dell’io che solo nella fondazione di un’autocoscienza si apre la via per la trascendenza. In quanto essere razionale, l’io è l’unico luogo (o almeno l’unico che ci è dato conoscere) in cui ciò che è viene all’evidenza e in cui è possibile fondare pertanto una coscienza dell’essere. Ora, una tale fondazione ha i caratteri del rovesciamento della fondazione stessa (o dello sfondamento), in quanto si opera mediante il salto dall’oggettiva conoscenza intellettuale degli oggetti alla inoggettiva autocoscienza dell’essere stesso. Si legge in Kleine Schule des philosophischen Denkens del 1965 – opera che ha il pregio della riepilogazione in un pensiero, come quello jaspersiano, spesso prolisso e ripetitivo: « Compiamo un salto: dalla conoscenza intellettuale degli oggetti alla inoggettiva autocoscienza di ciò che attuiamo ed esperiamo in quella. Il terreno che raggiungiamo con un tale salto è, dal punto di vista della conoscenza del mondo, un nulla; in termini filosofici è invece la possibilità di fondare una nuova coscienza dell’essere. La chiamiamo sapere fondamentale. Svilupparlo significa per così dire saltare oltre la propria ombra oppure camminare a gambe all’aria. Tentiamolo! » (KS, 44; 40). 1.7. IN CAMMINO VERSO L’ESSERE « Il pensiero filosofico contemporaneo ha luogo in modo cosciente a partire dalla propria origine, che col solo sussidio della scienza non può essere né scoperta né raggiunta » (EP, 11; 14). Tale origine è l’essere, insondabile con le categorie universalmente valide dell’intelletto, ma, allo stesso tempo, esistenzialmente presente per l’uomo che abbia anche solo un livello minimo di coscienza del proprio esserci. La filosofia infatti non può che cominciare con la domanda: « 31 cosa è? » (cfr. EiP, 24; 53). Tuttavia dal momento che il pensiero dell’essere non è in grado di giungere a una determinazione unica e assoluta dell’essere stesso ma al contrario in esso ogni unità e determinazione pare essere compresa, e dal momento che esso non si presenta mai come un oggetto visibile che sta di fronte al soggetto che io sono come un qualcosa di determinato e conoscibile mediante le categorie dell’intelletto ma appare lacerato nella frammentazione degli oggetti per cui il mio sapere è sempre rimandato nella forma di un sapere di oggetti finiti mai dell’essere stesso, dal momento infine che l’uomo che io stesso sono non è una totalità ma solo una « Siamo, in quanto esseri razionali, il luogo – l’unico che conosciamo – nel quale si fa palese ciò che è, nel nostro pensiero oggettivo, nel nostro comprendere, nel nostro operare e creare, in ogni forma della nostra esperienza » (KS, 44; 39-40). 57 32 possibilità (l’esistenza possibile) che come tale si dà unicamente insieme ad altre possibilità (le altre esistenze), per tutto questo, dice Jaspers « nessuna verità oggettiva potrà mai essere assoluta, ma ogni oggettività sarà sempre relativa » (PH, II 109; 580). Del resto la Grundfrage era destinata inevitabilmente al naufragio in quanto, volendo ricondurre il non pensato all’interno della filosofia, come si è visto, non riusciva a riconoscere oggettivamente l’essere come uno e quindi a stabilire « un concetto dell’essere che fosse così comprensivo da includere tutti gli essere come sue specie o come momenti inclusi nella sua totalità » (PH, I 48; 162). Ma non per questo il pensiero ha abbandonato la ricerca. Al contrario, non ha lasciato nulla di intentato: « si è pensato l’essere come essere determinato nei concetti degli oggetti, lo si è appreso in modo immediato nel riferimento dell’esser-io a se stesso, lo si è colto nel suo sparire e lo si è riconosciuto come inconoscibile nei pensieri limite dell’esser-in-sé… » (PH, I 6; 117). Tutti questi tentativi, sebbene non abbiano ottenuto effetti concreti – cioè non abbiano dato vita ad alcun sapere (Wissen) definito e stabile – hanno avuto comunque il pregio di porre l’uomo sulla via della ricerca dell’essere. Il filosofare, infatti, non è altro che la ricerca dell’essere (cfr. PH, I 24; 137), in cui l’essere stesso diviene problema per l’io che non si limita al semplice esserci (cfr. PH, I 38; 152), ma che si fa coscienza di sé come coscienza dell’esser-sé quale modo dell’essere stesso, e come tale si stupisce nel naufragio della comprensione e nell’imbarazzo dell’intelletto; cioè, in una parola: filosofa, ponendosi così « in cammino verso l’essere percorrendo le vie del pensiero » (PH, I 24; 137). La ricerca filosofica è questo cammino dell’uomo che, sulla via, incontra solo oggetti e che, in questo incontro, si accerta di sé come nonassoluto. Non l’essere, del resto, né gli oggetti, né lui stesso sono qualcosa di assoluto (cfr. PH, II 121; 592: « Nel mio limite temporale mi trovo costretto e condizionato da situazioni e compiti che non mi consentono di pensarmi assoluto nel tempo »). Ed è proprio la non presenza dell’assoluto nello spazio del mondo e nel tempo della storia che segna il rapporto filosofico all’essere nella ricerca. Tale non-presenza è il fallimento della ricerca stessa, che per sua natura però non può che tendere alla totalità e all’unità. Ancora una volta, fare filosofica significa farsi beffe di quella filosofia che non è più in grado di esporre un sistema 58 della totalità dell’essere nella forma di un’unità oggettiva , per cui l’essere stesso rimane, per l’io che lo indaga, il non-chiuso che in ogni sua 59 determinazione lo trascina verso l’illimitato . Il cammino verso l’essere e la via verso l’illimitato vengono così a coincidere nell’accertamento esistenziale dell’irriducibilità dell’essere a 33 oggetto e della sua esclusiva presentazione, per noi, nella scissione soggetto-oggetto che però, inevitabilmente, lo falsa. Data la disarticolazione dell’essere, dunque, « non posso pensare l’essere assoluto, né posso evitare il pensiero. Questo essere è trascendenza, perché io non lo posso comprendere, ma sono costretto a trascendere verso di esso con un pensiero che si conclude in un non-poter-pensare » (PH, III 38; 973). Al filosofare rimane quindi solo la via del trascendere quell’oggettività categoriale che ha di fronte come qualcosa di imprescindibile. In questo trascendere, l’essere non solo si rivela come l’orizzonte in cui di volta in volta ciò che è si rende visibile per me, ma, ancor più, si presenta come « ciò da cui sorgono pure tutti i nuovi orizzonti » (EP, 14; 18) e che come tale però, sembra sempre « venir meno ». È ciò che solo si annuncia senza mai diventare oggetto. « È ciò che non presenta mai se stesso, ma in cui tuttavia il resto si manifesta » (EP, 14; 60 18). È quindi, quello che Jaspers chiama l’Umgreifende , l’in61 comprensibile totalità comprensiva . 58 « La filosofia non è più in grado di esporre un sistema della totalità dell’essere in forma di unità oggettiva » (EP, 12; 14). 59 « L’essere resta per noi il non chiuso, esso ci trascina da ogni parte verso l’illimitato » (EP, 13; 17). 60 In rapporto alla sterminata bibliografia tedesca, la letteratura critica italiana non è molto numerosa, ma qualitativamente rilevante. Il già citato saggio di Silvia Marzano, Aspetti kantiani del pensiero di Jaspers, anche se ormai datato, rappresenta un’adeguata ed esauriente trattazione della questione dell’Umgreifende in rapporto al filosofare kantiano e schellinghiano. A esso pertanto si rimanda. 61 Il termine Umgreifende pone non poche difficoltà al traduttore italiano al punto che Galimberti preferisce non tradurlo affatto, laddove altri propongono « essere abbracciante » (L. Pareyson), « comprensività indefinita » (O. Abate), « orizzonte circoscrivente » (E. Paci), « tutto-circonfondente » (R. De Rosa), « essere onnicomprensivo » (A. La Macchia), « onnicomprendente » (D. Di Cesare), « onniabbracciante » (G. Vattimo), « orizzonte ultimo » (C. Ciancio)… etc. (cfr. anche S. Maletta in H. ARENDT, Che cos’è la filosofia dell’esistenza?, Jaca Book, Milano 1995, p. 77 n.). L’espressione qui usata gioca sull’assonanza um-greifen, un-greifen allo scopo di rendere contemporaneamente la totale comprensività e l’inesauribile trascendenza dell’essere. Questo, in sintonia con l’appropriazione di Jaspers della nozione cusaniana di incomprensibilità del « massimo assoluto », e della « l’incomprensibile precisione della verità » (cfr. N. CUSANO, De docta ignorantia, I, 8-11). 34 Ma quale linguaggio per questo essere? si chiede Jaspers. Necessariamente una nuova “logica filosofica”: la logica dei modi dell’abbracciante che sappia cogliere nei singoli modi quel che li disdice e li rende trasparenti e quindi “segni” in direzione della trascendenza (cfr. EP, 14; 18). Il pensiero di un tale essere che è svincolato da qualsiasi sistema di riferimento ma che a sua volta è l’orizzonte dei possibili orizzonti, è l’operazione filosofica fondamentale, semplice e inattuabile allo stesso tempo. Ogni proposizione che si riferisce all’essere, del resto, non può che essere espressa nel pensiero oggettivante e categoriale dell’intelletto ma, se vuole realmente dire questo essere-abbracciante, deve costantemente disdirsi e quindi esprimersi con sempre nuovi controsensi: « pensare nella forma dell’oggettività ciò che non è oggettivo » è una « equivocità inevitabile » (EP, 15; 19). Ora, l’equivocità causa per l’intelletto (Verstand o Bewusstsein überhaupt, ossia per quel modo dell’essere onnicomprensivo che io sono e che è il soggetto della coscienza oggettiva e universale) l’arenarsi del pensiero categoriale della scienza, mentre per la ragione (Vernunft, ossia la connessione dei modi dell’essere onnicomprensivo) è occasione del naufragio in cui la multivocità diviene condizione di possibilità e di una dicibilità ulteriore. Jaspers infatti vuole quasi forzare il pensiero ad arrestarsi nelle secche della contraddizione logica allo scopo di far sorgere nell’uomo quell’« imbarazzo dell’intelletto » (cfr. VE, 89; 149) nel quale solo sono possibili – tramite la classica categoria tragica del rovesciamento – la formazione, la chiarificazione e la trasformazione della 62 coscienza dell’essere . Per comprendere l’essere è necessario quindi guadagnare il « più vasto spazio del possibile » e in questo si presenterà ciò che annuncia 63 l’essere pur non essendo l’essere . L’Umgreifende, del resto, è « ciò che fa sì che tutte le cose non siano soltanto quello che sembrano a prima vista, ma restino trasparenti » (EP, 14; 18). L’essere stesso, il mondo e l’io, quindi, nel momento in cui si sottraggono alla pensabilità divengono quasi dei punti vuoti in divenire della trascendenza. Lontani e inafferrabili al punto che sembrano irraggiungibili, tanto irraggiungibili che sembrano svanire nel nulla (cfr. W, 690). Ed è veramente un’immane potenza, quella del pensiero jaspersiano, che pretende di tenere fermo lo svanire, ossia di fissare in un’istantanea quel momento unico e particolarissimo (anche se si tratta di un’esperienza costantemente vissuta dall’esistenza) in cui il trascolorare del reale mostra, a un tempo, la sua realtà e l’oltre in cui essa pare svanire. Mentre per il Professore di Jena questa stessa potenza derivava dalla previa identificazione di essere e pensiero e ancor più dalla definitiva 35 risoluzione del finito nell’infinito, per il filosofo di Oldenburg, una volta rotta l’unità razionale dell’Assoluto hegeliano, si apre la possibilità (ma è più una pretesa) non di mantenere insieme finito e infinito, ma di coglierli entrambi (di chiarificarli, di accertarsi di loro) nel momento – inevitabilmente tragico – in cui il primo finendo, come è sua natura, 64 trapassa nel secondo che così, istantaneamente, si rivela . 62 « Potrà allora colui che pensa non già sommergersi nel vuoto di un’assoluta inconsistenza, ma essere veramente aperto in modo che gli venga incontro l’essere stesso » (VE, 91; 152). 63 « L’essere inteso come lo spazio vastissimo dell’abbracciante da cui si muove incontro a noi ciò che di volta in volta per noi è l’essere » (EP, 12; 15). 64 L’operazione filosofica fondamentale del pensiero jaspersiano non pare, in questo, differire di molto dal movimento onnicomprensivo, onnivoro e anamnestico del professore di Jena – salvo che nella prospettiva fragile da cui si pone il filosofo esistenzialista. Tanto la negatività del fallimento come motore dell’intero movimento, quanto la tensione alla chiarificazione e all’accertamento di ciò che c’è di fronte (che altro non è se non una dizione esistenziale dell’interiorizzazione hegeliana) sembrano accomunare i due pensieri. 36 2. INCERTEZZA GNOSEOLOGICA E LA “FEDE FILOSOFICA” 2.1. DELLA FEDE. SLITTAMENTO SEMANTICO E RICERCA DI SIGNIFICATO Il termine fede indica in filosofia la certezza di un tener-per-vero che non trae il suo fondamento dall’evidenza di una dimostrazione razionale valida universalmente, ma si connota come l’atto con il quale il soggetto esprime un assenso razionale a una testimonianza di qualcuno che, nel riferire riguardo ad un oggetto che non esibisce garanzie scientifiche razionalmente indagabili, si presenta come attendibile. Tale definizione, nel corso dei secoli, ha subito sensibili variazioni, venendo a contenere ora qualcosa di più ora qualcosa di meno del semplice atto razionale. In questo capitolo seguo quindi, brevemente, gli slittamenti di significato che il termine ha subito nel corso del tempo ad opera degli autori principali che l’hanno utilizzato. Si tratta di una sorta di circumnavigazione della nozione di fede allo scopo di tracciare l’orizzonte entro cui si inscrive la formulazione di un concetto, così ardito e apparentemente contraddittorio, come quello di fede filosofica, sul quale successivamente si concentrerà il mio approfondimento. a) Il concetto di fede da Platone a Tommaso Per il filosofo greco il termine fede (pístis, fides), vuol dire credenza, ossia una forma di opinione che è sì conoscenza ma al secondo livello della conoscenza sensibile (opinione, doxa, opinio), ossia quella rivolta agli oggetti materiali. Tale conoscenza non ha in sé la garanzia della propria verità e correttezza, ma rimane sospesa nell’incertezza, come è sospeso il mondo sensibile cui si riferisce, se non interviene il ragionamento causale a fondarla sull’Idea. Questo non vuol dire che la fede non è veritiera, ma solo che essa – per il fatto di rivolgersi al mondo 65 della generazione e non a quello dell’essenza – può essere vera o falsa . Una fede retta, quindi, non è meno veritiera di una conoscenza retta ma, 66 in quanto è copia e immagine della scienza della verità , essa staziona 67 intermedia tra ciò che è e ciò che non è e permane nel dubbio e 68 nell’incapacità di cogliere con sufficiente chiarezza l’essenza del Bene . 65 Cfr. PLATONE, Gorgia, 454d2; Menone, 97a e sgg.; similmente ARISTOTELE, De Anima, Γ 3, 428a20. 37 66 67 68 Cfr. Timeo, 29c1 e sgg. Cfr. PLATONE, Repubblica. V 478b e sgg. Cfr. PLATONE, Repubblica. VI 505e3 e sgg. 38 La riflessione platonico-aristotelica pone la fede al livello della storicità. Essa risulta radicata nel mondo della generazione e della corruzione piuttosto che in quello dell’essenza e dell’idea. Se pertanto tale forma di conoscenza può rivendicare un qualche valore veritativo, ciò è condizionato dal suo essere immagine della conoscenza vera (che non è a volte vera e a volte falsa, come l’opinione, ma sempre e certamente vera) . Ora, con l’incontro della speculazione filosofica ateniese con la tradizione ebraica prima e la cultura cristiana poi, la nozione di fede subisce un’evoluzione in direzione del trascendente che acquista sempre più i caratteri dell’elevazione che la porterà ad essere la forma di conoscenza privilegiata. Già in Filone d’Alessandria, sulla base della Sacra Scrittura, il termine acquista il significato di credenza in Dio e nella sua Rivelazione: per Filone, infatti, la fede è la virtù suprema cui si riduce 69 la stessa virtù dianoetica della sapienza . Sesto Empirico poi, nei suoi schizzi pirroniani, Pyrrhoneion hypotyposeon, riconosce alla fede lo statuto di assenso razionale alle conclusioni di un ragionamento, non sulla base della necessità delle sue premesse, ma in virtù della fede in Dio o in una divinità, e in una sua rivelazione. Trascendenza e storicità sono, quindi, i cardini della nozione di fede. Trascendenza di un Dio che nella sua totalità eccede la ragione umana, storicità di una Rivelazione quale fonte certa di autorità e di testimonianza. L’affermazione dell’immanenza di Dio o la negazione della storicità della Rivelazione comporterebbero irrimediabilmente, ognuna a suo modo, la negazione della fede in quanto tale. Perché ci sia fede è necessaria, quindi, la trascendenza (e di conseguenza il mistero) e un contatto che da questa trascendenza sia venuto (cioè la Rivelazione, appunto, storica). L’atto rivelativo si staglia in un ambito di doppia distanza, un’anteriorità temporale e un’ulteriorità trascendente, e come tale richiede un nesso. Tramite di questo contatto è la testimonianza: testimone è colui che avendo visto un determinato evento ne può riferire conformemente a verità. Qualora il dato evento fosse esperibile da chiunque, qualora cioè esso fosse accessibile ad ogni intelletto nel suo uso normale, il valore del testimone sarebbe nullo. Ora, per quel che riguarda l’evento della Rivelazione di cui parla la fede cristiana, il testimone acquista una duplice importanza: riguardo alla distanza temporale che separa l’evento dalla sua trasmissione, e riguardo all’origine incondizionata e misteriosa dell’evento stesso. Non un uomo qualunque potrebbe riportare la testimonianza della fede rivelata – ché riporterebbe solo l’attestazione di un fatto storico – ma Dio stesso, nella seconda persona della SS. Trinità, si presenta quale interprete di se stesso e della sua Rivelazione. Non si attesta infatti solamente un evento storico, ma un evento in cui la trascendenza e la storicità si incontrano nell’unicità della pienezza dei tempi. La grandezza 39 del testimone attesta la grandezza nell’annuncio che da esso viene. Su tali presupposti si fonda la fede cristiana. b) Il dibattito nella modernità: da Kant a Kierkegaard In seguito alla frammentazione della Scolastica, il termine fede subisce un doppio slittamento: uno in senso pratico-normativo, l’altro in senso speculativo-idealista. Il primo conduce dalla tarda scolastica (Duns Scoto [ca. 1266-1308], Guglielmo da Ockham [1290 o 1295-ca. 1349]), attraverso Baruch Spinoza (1632-1677) a Immanuel Kant; il secondo porta dalla mistica tedesca (Maister Eckhart, ca. 1260-1327), ai cosiddetti “filosofi della fede” (Johan Georg Hamann [1730-1788], Friedrich Heinrich Jacobi [1743- 1819]) e infine all’idealismo tedesco. 1 2 Immanuel Kant nella sua Critica della ragione pura (1781 , 1787 ) tematizza lo slittamento semantico avvenuto fin qui nel corso dei secoli formulando una nuova definizione del termine fede: «se il tener-per-vero è sufficiente solo soggettivamente, ed al tempo stesso viene considerato oggettivamente insufficiente, si tratta di un credere (Glauben)». Siamo nella terza sezione del secondo capitolo della Dottrina trascendentale del metodo (Transzendentale Methodenlehre), il capitolo si intitola Il canone della ragione pura (Der Kanon der reinen Vernunft), la sezione Dell’opinare, del sapere e del credere (Vom Meinen, Wissen und Glauben). In questo luogo Kant afferma quanto segue. Il tener-per-vero (das Fürwahrhalten) si posa su fondamenti sia oggettivi che soggettivi. La sufficienza oggettiva di tale tenerper- vero si chiama certezza (Gewissheit), quella soggettiva ma universalmente esperibile da tutti i soggetti si chiama convinzione (Überzeugung), quella soggettiva ma valida solo individualmente si chiama invece persuasione (Überredung). Ora, dalle combinazioni del momento oggettivo e di quello soggettivo riguardo al tener-per-vero derivano tre gradi: l’opinare, il credere e il sapere. L’opinare (Meinen), tipico della persuasione, è insufficiente sia oggettivamente che soggettivamente, in quanto manca di una qualsiasi connessione con la verità, e pertanto sia al giudizio scientifico che a quello morale non è permesso in alcun modo di abbandonarsi ad esso (l’opinione è, quindi, semplice apparenza, mera illusione, ein bloßer Schein). Il credere (Glauben) invece, tipico della convinzione, è sufficiente soggettivamente ma è ritenuto oggettivamente insufficiente (è quindi una convinzione valida soggettivamente, esperibile, sì, da tutti ma non applicabile universalmente): la sua validità soggettiva ne consente l’applicabilità non nell’ambito scientifico ma – come vedremo subito – solo in quello praticomorale. Il sapere (Wissen), infine, tipico della certezza, è sufficiente tanto soggettivamente quanto oggettivamente (non solo convinzione, quindi, ma convinzione che si basa su certezze comprovabili e comunicabili) e come tale 40 può sussistere quale fondamento di un giudizio scientifico. Conclude Kant: «non mi soffermerò a spiegare concetti così facili»! La fede risulta, quindi, una credenza teoreticamente insufficiente ma praticamente atta a dirigere le azioni dell’uomo. Dice infatti Kant: «pertanto, è semplicemente dal punto di vista pratico, che il tener-pervero, teoreticamente insufficiente (das theoretisch unzureichende Fürwahrhalten), può essere chiamato fede». Essa è pertanto quella credenza valida solo soggettivamente (e quindi, si noti bene, incomunicabile) che, sebbene non in grado di fondare una scienza, è comunque garante di quelle certezze morali che sono postulate praticamente, anche se non trovano il loro fondamento nella chiarezza e distinzione della conoscenza scientifica. Tutti gli uomini, dice Kant, in virtù della loro razionalità possono giungere a certezze morali, le quali però non sono tematizzabili scientificamente. Per quanto riguarda le norme di conduzione della vita, infatti, l’opinare è certamente insufficiente (freilich zu wenig), ma il sapere è troppo (auch zu viel). È nel determinare l’agire che il tener-per-vero, valido soggettivamente, trova la sua applicazione come guida e fonte dei giudizi pratici in vista di fini prossimi e accidentali (abilità o fede prammatica, der pragmatische Glaube) o ultimi e necessari (fede morale, der moralische Glaube). Per meglio chiarire le due tipologie di fede – quella prammatica e quella morale – Kant interpone ad esse la fede dottrinale, di cui peraltro l’intelletto comune (der gemeine Verstand) ha maggiore esperienza. Ora, la fede prammatica riguarda fini arbitrari o accidentali. Essa può quindi esser verificata dalla scommessa (das Wetten), in quanto ammette gradi di convinzione secondo la differenza degli interessi in gioco. Altra cosa è, invece, la fede dottrinale (der doktrinale Glaube) per la quale l’uomo, se avesse la possibilità di provarne l’oggetto, sarebbe pronto a scommettere tutto senza paura di perdere. Questa riguarda, infatti, l’esistenza di Dio e tutte le altre Verità per le quali l’uomo ritiene di avere sufficienti motivi per scommettere, anche senza disporre di alcunché per verificarne la questione mediante esperienza o conoscenza teoretica. Tale credere dottrinale si muove nella direzione fornita delle idee della ragione pura, prima tra tutte l’idea di unità del mondo che presuppone un saggio creatore come sua unica condizione. «Il termine fede – afferma Kant –, in tali casi, è un’espressione di modestia dal punto di vista oggettivo, ma al tempo stesso di salda fiducia, dal punto di vista soggettivo». La semplice (bloß) fede dottrinale, seppur rivolgendosi ad oggetti ultimi e necessari, mantiene sempre in sé qualcosa di instabile, per il suo carattere puramente speculativo. Se invece tale fede si applica alla 41 determinazione dell’azione, la connessione dei fini appare necessaria e, sebbene nessun uomo possa vantarsi di poter esibire un sapere riguardo all’esistenza di Dio ed argomenti simili, tale fede morale è in grado di fondare convinzioni che sono certezze non logiche, ma appunto morali, in quanto si radicano su ragioni pratico-soggettive (il sentimento morale), le quali non permettono di dire “é moralmente certa l’esistenza di Dio”, ma “io sono moralmente certo dell’esistenza di Dio”. Questo perché «dopo che sono state rese vane tutte le mire ambiziose di una ragione che ama vagabondare al di là dei limiti di ogni esperienza, ci rimane ancora abbastanza per aver motivo di essere contenti dal punto di vista pratico». E sebbene il sentimento morale non sia in grado di esibire leggi positive universalmente valide, poiché nessun uomo potrà mai dirsi libero da qualsiasi interesse particolare, esso è in grado di fornire una fede negativa (ein negativer Glaube) che se non è in grado di creare buoni sentimenti, almeno può frenare il dilagare di quelli negativi. In conclusione, quello che potremmo chiamare il senso comune (sensus communis di Vico o il common sense di Thomas Reid), ossia « l’insieme organico delle certezze di fatto e di principio che sono comuni a ogni uomo e precedono ogni riflessione critica », per Kant si chiama fede ed è valido solo soggettivamente. Kant stesso, al termine della sezione qui in esame, previene l’obiezione dell’uomo comune sulla presunta inutilità di una filosofia che giunga ad affermare tesi che ogni intelletto comune potrebbe da sé produrre. La risposta è paradigmatica: «la più alta filosofia non può raggiungere un risultato migliore di quello cui porta la guida che la natura ha concesso persino all’intelletto più comune (auch dem gemeinsten Verstande)»! La filosofia kantiana muove da una limitazione e, all’interno di questa, pone una potenza. La limitazione delle pretese legittime della ragione e la potenza della conoscenza umana all’interno di tali limiti. Ora, fu la limitazione, più che la potenza, a impressionare i contemporanei di Kant e i suoi discepoli. Già il concittadino di Kant Johann Georg Hamann (1730-1788), il famoso mago del nord, aveva espresso dubbi sulla categoricità del limite imposto da Kant e sull’assoluto predominio concesso da questo alla sola ragione. Al contrario, sulla scorta di Hume che aveva affermato la credenza (belief) l’unico fondamento della conoscenza, Hamann riconosce nella fede e non nella ragione il carattere predominante dell’umanità (cfr. principalmente la Metacritica del purismo della ragione, scritto del 1784 ma pubblicato postumo nel 1788). Nella 42 stessa direzione si muoverà anche Johann Gottfried Herder (1744-1803) nella sua Metacritica alla critica della ragion pura del 1799. Ed è proprio muovendo da un ripensamento critico di Kant che Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819) formula la sua originale teoria della fede, o filosofia della fede. Va detto subito che tale teoria si basa un allargamento anche al piano teoretico conoscitivo della validità, per Kant solo pratica, della fede. L’opera più interessante a questo riguardo è il dialogo David Hume, über den Glauben, oder Idealismus und Realismus 78 del 1787 . Figura filosofica estremamente interessante, Jacobi instaura con i suoi scritti occasionali (romanzi, lettere, dialoghi, saggi e discorsi) un serrato dialogo con personalità di prim’ordine dello scacchiere filosofico illuminista e romantico: Spinoza, Lessing, Goethe, Kant, Hamann, Herder, Fichte, Schelling e lo stesso Hegel. Il filosofo di Düsseldorf incarna pienamente tutto il travaglio del transito da una visione illuminista del mondo a un sentire tipicamente romantico e, allo stesso tempo, si propone come primo critico tanto della filosofia trascendentale di Kant (con il saggio Sull’idealismo trascendentale, pubblicato in appendice allo stesso David Hume) quanto del nascente idealismo tedesco (assai interessanti sono gli interventi su Fichte e le critiche a Schelling, ne Le cose divine e la loro rivelazione del 1811, a riguardo del quale Jacobi introduce il termine “nichilismo”, che successivamente incontrerà grande fortuna nella storiografia filosofica, per interpretare la vuota identità in cui l’idealismo estetico risolve tanto Dio quanto la natura – contemporaneamente Hegel usa la celebre espressione notte nera in cui tutte le vacche sono nere). Filosofia della fede, si diceva. L’espressione appare a tutta prima contraddittoria o quanto meno ambigua, ma è fondamentale per comprendere il successivo utilizzo, da parte di Jaspers, dell’altrettanto ambigua fede filosofica. Si tratta di impostazioni sostanzialmente diverse ma che si stagliano in un comune orizzonte critico. Per il momento ci soffermiamo su Jacobi. Prima di tutto una distinzione: la filosofia della fede, pur rapportandosi alla religione e conseguentemente alla filosofia della religione, non si identifica con essa. La filosofia della religione infatti, per la sua stessa definizione, deve tener conto delle molteplici implicanze derivanti dal suo rapportarsi alla religione: deve pertanto prendere in esame la fede, la rivelazione, la storicità della rivelazione stessa, nonché le relazioni che intercorrono tra le varie religioni storiche. Al contrario la filosofia della fede concerne esclusivamente l’attività conoscitiva dell’intelletto umano, le sue possibilità e i suoi fondamenti. Non si tratta infatti, come si vedrà subito, della fede in una rivelazione trascendente, 43 bensì della fede nella rivelazione immediata e verace del sé, dell’esistenza di Dio sopra di sé e del mondo fuori di sé. Proprio allo scopo di chiarire la confusione tra filosofia della fede e filosofia della religione e per rispondere alle critiche del pensatore ebreo Moses Mendelssohn (1729-1786) suo contemporaneo, amico di Lessing e celebre autore del Trattato sull’evidenza delle scienze metafisiche (1764) che fu preferito dall’Accademia di Berlino alla Ricerca sulla chiarezza dei principi della teologia naturale e della morale dello stesso Kant, Jacobi è chiamato ad approfondire il concetto di fede. Anche Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) dal canto suo, in una lettera datata 21-X-1785, avanza seri dubbi sulla tollerabilità dell’uso filosofico della parola glauben, tipico dei Glaubensophisten, i sofisti della fede, coloro che mirano a «oscurare ogni certezza del sapere e coprirla con le nuvole del loro fluttuante regno etereo, non potendo scuotere le salde fondamenta della verità». In una lettera della prima edizione degli Spinoza-Briefe Jacobi dice: « Caro Mendelssohn, noi nasciamo tutti nella fede e dobbiamo rimanere nella fede; proprio come nasciamo tutti nella società e dobbiamo rimanere nella società. Totum parte prius necesse est. Come potremmo aspirare alla certezza, se non ci fosse già precedentemente nota? Come potrebbe esserci nota se non mediante qualcosa che già conosciamo con certezza? Si deve dunque ammettere il concetto di una certezza immediata che non soltanto non ha bisogno di essere motivata, ma che esclude assolutamente ogni motivazione, ed è unicamente la rappresentazione stessa nel suo accordo con la cosa rappresentata (dunque fondata in se stessa). La convinzione fondata su motivi è certezza di seconda mano, e i motivi sono soltanto segni della somiglianza con una cosa di cui siamo certi. La convinzione che essi producono deriva da un confronto e non può mai essere del tutto sicura e perfetta. Se ogni Fürwahrhalten (si noti, il termine usato da Kant nella sezione Von Meinen, Wissen und Glauben) che non scaturisce da motivi razionali è fede, la stessa convinzione fondata su motivi razionali deve necessariamente venire dalla fede e ricevere soltanto da essa la sua forza». Nella visione di Jacobi la fede è un sentimento dell’incondizionato, « un atteggiamento preliminare, costituivo, condizionante e non condizionato di ogni conoscenza ». Si tratta di qualcosa di connaturato all’esistenza umana, che non possiede un oggetto determinato, come le scienze, ma è una sorta di sapere originario del sé, del mondo e di Dio, che l’uomo possiede prima di ogni sapere. « Ogni dimostrazione – dice ancora Jacobi – presuppone qualcosa di dimostrato il cui principio è la 44 rivelazione » per cui « la fede è l’elemento di ogni conoscenza e di ogni attività umana ». Nella prefazione alla prima edizione del suo David Hume del 1787, assente nell’edizione del 1815, Jacobi chiarisce ulteriormente che egli utilizza il termine fede per rispondere a una certa filosofia che afferma: « una duplice conoscenza dell’esistenza reale: una certa e una incerta. Quest’ultima allora, a mio parere, può esser chiamata soltanto fede, perché si è partiti dal presupposto che ogni conoscenza che non scaturisca da motivi razionali sia fede. La mia filosofia non afferma una duplice conoscenza dell’esistenza reale, ma soltanto una semplice, ottenuta mediante la sensazione, e limita la ragione, considerata per sé sola, alla pura facoltà di percepire distintamente dei rapporti, cioè di formare il principio di identità e di giudicare in conformità ad esso. Ma io devo ammettere che solo l’affermazione di proposizioni puramente identiche può essere apodittica e implicare una certezza assoluta; e che l’affermazione dell’esistenza in sé di una cosa fuori della mia rappresentazione non può mai essere un’affermazione apodittica del genere e implicare una assoluta certezza. Quindi l’idealista, in base a questa distinzione, può costringermi a ammettere che la mia convinzione dell’esistenza di cose reali fuori di me è soltanto fede. Ma come realista devo allora dire che ogni conoscenza può venire soltanto dalla fede, perché mi devono esser date delle cose, prima che io sia in grado di scorgervi dei rapporti». Come si vede, l’affermazione della necessità della fede, in Jacobi, trova il suo fondamento nella negazione della possibilità di una conoscenza puramente razionale-dimostrativa della realtà, propria dell’imperante idealismo di matrice trascendentale. Già il Kant precritico aveva del resto affermato che l’esistenza non può in alcun modo essere un predicato (che è posto sempre in rapporto ad altro) o una determinazione di qualche cosa, bensì una sua assoluta posizione. Ora, una volta chiarito che non c’è conoscenza razionale (ossia scienza dei rapporti) senza che gli oggetti siano primariamente dati alla conoscenza stessa nell’immediatezza della sensazione, si tratta di comprendere che, filosoficamente parlando, non c’è altro termine all’infuori di quello di fede per indicare quel sapere immediato che con la sua inderivabile evidenza fonda la certezza e la convinzione dell’io, del mondo e di Dio stesso. In questo Jacobi si rifà agli scozzesi David Hume (1711-1776) (« in qualità di maestro di fede ») e Thomas Reid (1710-1796). Quest’ultimo, negli importanti Essays on the Intellectual Powers of Man del 1785, usa il termine fede, belief, proprio allo scopo di indicare quel sentimento che accompagna la percezione e che, garantendo la rappresentazione di un oggetto esterno, è alla base del senso comune, common sense. « 45 Volendo adoperare i concetti filosofici nel loro senso rigoroso – si legge nel David Hume – non è altro che una fede, dal momento che ciò che è insuscettibile di una prova rigorosa può soltanto essere creduto, né alcun’altra parola si trova nella nostra lingua per indicare questa distinzione ». Una tale posizione, pur muovendo da Kant, non trova però riscontro nella filosofia del maestro di Königsberg. Lo stesso Kant si affretta, infatti, a prendere le distanze dallo Jacobi e a ribadire – nel suo Che cosa significa orientarsi nel pensare del 1786 – che la fede non è un originario e incondizionato sentimento dell’incondizionato ma che essa può solo fondarsi su di un postulato della ragione pratica e, come tale, non fornisce alcuna certezza teoretica ma solo verosimiglianza sufficiente a determinare la condotta morale. Ma lo slittamento in senso idealista (sebbene Jacobi non sia idealista e sarà aspramente criticato da Hegel) è ormai in atto. Continua, infatti, Jacobi a Mendelssohn: « mediante la fede sappiamo di avere un corpo e che fuori del nostro corpo ci sono altri corpi e altri esseri pensanti. Questa è una rivelazione verace, miracolosa. Perché noi sentiamo soltanto il nostro corpo in questa o quella sua disposizione; e in quanto lo sentiamo in questa o quella disposizione ci accorgiamo non soltanto dei suoi mutamenti, ma anche di qualcosa di completamente diverso che non è né semplice sensazione né pensiero, e cioè di altre cose reali; e questo proprio con la stessa certezza con cui ci accorgiamo di noi stessi, perché senza il tu non è possibile l’io. Noi riceviamo quindi tutte le rappresentazioni soltanto attraverso le disposizioni che assumiamo, e non c’è nessun’altra via della conoscenza reale; perché quando la ragione genera oggetti, si tratta di fantasmi. Così abbiamo una rivelazione della natura che non soltanto comanda, ma costringe ogni uomo a credere e ad accettare attraverso la fede verità eterne ». Con l’idealismo tedesco si viene a completare quello slittamento dal carattere normativo a quello teoretico della fede. Contemporaneamente si opera, in Hegel, l’espulsione del termine fede dal vocabolario filosofico, poiché esso appartiene alla tradizione religiosa che la filosofia assume in sé e supera. In Hegel, infatti, la filosofia si trova a operare con lo stesso oggetto della religione, ma anziché basarsi sulla rivelazione e sulla credenza (momenti tipici della trascendenza, che in Hegel diviene solo il per sé) si fonda sul concetto quale prodotto del lungo travaglio della riflessione che, scindendo e analizzando, assume e sintetizza, in una parola com-prende, il tutto. Se da un lato, quindi, Hegel critica la filosofia della fede, dall’altro assume nella sua filosofia assoluta quelle caratteristiche di incondizionatezza e onnicomprensività proprie della fede 46 – quale via privilegiata alla conoscenza –, nonché le sua pretesa di essere via d’accesso alle «verità eterne». « La verità dell’essere è l’essenza. L’essere è immediato. In quanto il sapere vuol conoscere il vero, quello che l’essere è in sé e per sé, esso non rimane all’immediato e alle sue determinazioni, ma penetra attraverso quello, nella supposizione che dietro a quell’essere vi sia ancora qualcos’altro che non l’essere stesso, e che questo fondo costituisca la verità dell’essere. Questa conoscenza è un sapere mediato… ». Questo è Hegel. All’inizio del secondo volume della Scienza della logica intitolato La dottrina dell’essenza. Il cominciamento è l’essere. Ma tale essere sarebbe nulla se non fosse verità, essere saputo, conosciuto e detto. L’esser-vero dell’essere, dice Hegel, è l’essenza (Wesen) che in tedesco deriva dal passato del verbo sein (gewesen, stato). Ciò vuol dire che «l’essenza è l’essere che è passato, ma passato senza tempo». Questo passare senza tempo è il rifluire dell’immediatezza dell’essere nella mediazione del sapere. Ripeto: non saputo, l’essere sarebbe nulla. Così come un essere non determinato è una notte nera in cui tutte le vacche sono nere, allo stesso modo un oggetto non oggetto per un soggetto, un dato cioè senza una coscienza, è vuoto nulla. Di qui muove la grandiosa sintesi di Hegel, per il quale il paradigma della mediazione totale rappresenta il motore della storia come del pensiero. Si tratta dell’immane forza della dialettica, che nelle sue maglie ingloba tutto l’essere e ne rielabora il senso globale in un dover-essere superiore. Questo, del resto, è il compito della filosofia: quello di portare alla coscienza ciò che le sta davanti, di rielaborarlo, ricordarlo, superarlo assumendolo e mantenerlo come tolto. La filosofia è, quindi, come la nottola di Minerva che si leva in volo al crepuscolo, coscienza di un reale già dato. È la vita dell’Assoluto, dello Spirito Assoluto (il termine Spirito, Geist, è lo stesso usato per esprimere la terza persona della SS. Trinità: lo Spirito Santo), che ha come contenuto la totalità – lo stesso contenuto della religione – ma compresa ed espressa a un livello di mediazione superiore, un livello di coscienza, appunto, assoluto. Il rapporto tra religione e filosofia è quindi analogo, dice Hegel, a quello che intercorre tra Vor-stellung e Dar- stellung, tra il porre di fronte a… e l’esporre da…, tra rappresentazione e concetto. L’una ha il proprio oggetto fuori di sé, l’altro ha il proprio oggetto in sé, ossia supera la divisione tra soggetto e oggetto in una globale comprensione immanente. Comprensione che, però, non è mai data immediatamente, ma al contrario emerge come costante prodotto di se stessa, del suo venerdì santo speculativo. 47 In un tale contesto l’utilizzo del termine fede, per significare la certezza sensibile di avere un corpo e dell’esistenza delle cose al di fuori del soggetto ma anche la certezza dell’incondizionata esistenza di Dio, viene stigmatizzato come astratto formalismo. Questo perché ogni fede muore al sorgere della mediazione. Ed in Hegel non si dà immediatezza del sapere che non sia inscindibilmente legata alla mediazione, tanto che ogni immediatezza può essere considerata persino prodotto della mediazione stessa. Come il risultato di un teorema è immediato, ma solo dopo la grande fatica del processo di mediazione dimostrativa; o come la conoscenza dell’America può essere oggetto di un sapere immediato, ma solo dopo l’immane sforzo compiuto da Colombo, dai costruttori di navi, e così via all’infinito; allo stesso modo la fede, in quanto immediata apprensione di una evidenza, non è che un momento del processo conoscitivo dello Spirito (la via crucis dello Spirito) che ha il suo cominciamento nella certezza sensibile e che culmina nell’apoteosi onnivora dello Spirito Assoluto. Essa è quindi solo il prodotto dell’azione infinitamente mediatrice della filosofia speculativa, specchio della vita dell’Assoluto. Søren Kierkegaard (1813-1855) è, invece, l’autore che ci introduce direttamente nel cuore delle tematiche jaspersiane della fede filosofica. Con lo sfortunato filosofo danese si viene a realizzare, dopo la sintesi di Hegel, la riunificazione delle due strade: della via alla trascendenza e della via della normatività pratica. La fede diviene atto esistenziale. Atto che instaura un rapporto senza peraltro iniziarlo: il rapporto alla trascendenza. Instaurazione senza inizio, dicevo, perché l’uomo stesso, nella sua singola esistenza storica, limitata e dal limite proiettata verso ciò che sta oltre il limite, è rapporto con la trascendenza. Un rapporto iniziato, ossia posto dalla trascendenza stessa con l’atto creativo e di filiazione, e che l’uomo è chiamato in ogni momento a re-instaurare responsabilmente in una esistenza autentica. Radice pertanto dell’esistenza del singolo (Il singolo, è l’epitaffio che illumina la tomba del filosofo danese) è la trascendenza che nella sua irriducibilità irrompe nella storia dell’uomo squassandola e annichilendola, contraddicendola, elevandola, anzi, a paradosso. Sì perché la logica umana di fronte alla logica divina non è che paradosso. L’imperativo divino rappresenta la sospensione teologica di qualsiasi legge umana, comprese le leggi dell’etica (si veda il caso di Abramo chiamato a sacrificare suo figlio Isacco in Timore e tremore, del 1843) in virtù di un rapporto assoluto alla trascendenza cui è connesso il rischio esistenziale altrettanto assoluto, il rischio del nulla. Se nel mondo greco la fede era meno della scienza e nel mondo cristiano la fede è divenuta più della scienza, con Kierkegaard essa è «la 48 coscienza dell’eternità, la certezza più appassionata che spinge l’uomo a sacrificare tutto, anche la vita» (Diario, X, A 635). Coscienza d’eternità non fondata su una certezza, ma sulla decisione e sul rischio. Certezza angosciosa, in cui l’uomo è chiamato a scegliere una scelta in cui lui non conta, in quanto Dio è tutto ed ogni iniziativa umana è esclusa. Non più forma di conoscenza privilegiata che permette di giungere là dove i limiti della ragione kantiana non permettevano quindi, ma certezza fondata sul paradosso, a sua volta fondato sul incommensurabile rapporto tra esistenza e trascendenza. c) La fede filosofica Coma abbiamo visto, la fede si dice in molti modi. La plurivocità del termine, lungi dal disperderne il senso, ne rivela, al contrario, la ricchezza. L’assenso razionale ad una testimonianza riguardo un argomento scientificamente e razionalmente non indagabile; la certezza ritenuta sufficiente solo soggettivamente; il sapere immediato che con la sua inderivabile evidenza fonda la certezza e la convinzione del mondo, di Dio, etc., sono aspetti diversi di un unico cammino fondamentale della ragione indagatrice. Aspetti che rivelano l’esigenza originaria di un rapporto conoscitivo che superi la semplice scissione tra soggetto e oggetto, tipica delle scienze. In un momento, quello attuale, in cui ogni scienza e ogni disciplina hanno come primario scopo quello di giustificare se stesse, ossia di ritagliarsi uno spazio vitale all’interno dello spazio frammentato del sapere umano, anche la filosofia, se non vuole essere ridotta a mera riflessione teorica su qualcosa (filosofia della scienza, della politica, della religione, dell’arte…) ma se vuole essere filosofia in senso pieno, filosofia prima, direbbe Aristotele, philosophia perennis, direbbe Jaspers… è chiamata a dare ragione della propria peculiarità, prendendo le distanze – ma allo stesso tempo gettando i ponti per un dialogo costruttivo – nei confronti della scienza e della religione. Proprio dal dialogo con la scienza e con la religione la filosofia può oggi prendere coscienza, ancora una volta, del proprio valore e della propria funzione. Ebbene questo è il compito che uno scienziato ha sentito con tanta urgenza da abbandonare la sua professione di psicopatologo, rinunciare alla direzione della clinica psichiatrica in cui lavorava, per esprimere un qualcosa d’altro: il salto nel filosofico, ovvero il superamento della visione scientifica a vantaggio di una visione più globale dell’umano. In questo contesto Karl Jaspers parlerà di fede come di una certezza e una convinzione di qualcosa che non esibisce il proprio fondamento veritativo in quanto è oltre, ma che si annuncia per mezzo di cifre che 49 danno da pensare. Certezza, però, che rimane sospesa in quanto fondata sul riconoscimento dei limiti della conoscenza scientifica – il naufragio – e sulla coscienza della problematicità e del rischio di una conoscenza non dimostrativa. Vediamo ora come si inscrive la tematica della fede filosofica all’interno del vastissimo orizzonte speculativo di Jaspers. Non si tratta certo di un’argomentazione accessoria ma del punto di arrivo, indubbiamente problematico e aperto a sempre ulteriori sviluppi, di una ricerca unitaria – e forse titanica – finalizzata alla comprensione dell’esistenza nel suo originario e fondante rapporto con la Trascendenza, con l’Essere, ovvero la Verità. 2.2. LA FEDE FILOSOFICA NELLA SISTEMATICA JASPERSIANA In un momento, quello attuale, in cui ogni scienza e ogni disciplina hanno come primario scopo quello di giustificare se stesse, ossia di ritagliarsi uno spazio vitale all’interno dello spazio frammentato del sapere umano, anche la filosofia, se non vuole essere ridotta a mera riflessione teorica su qualcosa (filosofia della scienza, della politica, della religione, dell’arte…) ma se vuole essere filosofia in senso pieno, filosofia prima, direbbe Aristotele, philosophia perennis, direbbe Jaspers… è chiamata a dare ragione della propria peculiarità, prendendo le distanze – ma allo stesso tempo gettando i ponti per un dialogo costruttivo – nei confronti della scienza e della religione. Proprio dal dialogo con la scienza e con la religione la filosofia può oggi prendere coscienza, ancora una volta, del proprio valore e della propria funzione. Ebbene questo è il compito che uno scienziato ha sentito con tanta urgenza da abbandonare la sua professione di psicopatologo, rinunciare alla direzione della clinica psichiatrica in cui lavorava, per esprimere un qualcosa d’altro: il salto nel filosofico, ovvero il superamento della visione scientifica a vantaggio di una visione più globale dell’umano. In questo contesto Karl Jaspers parlerà di fede come di una certezza e una convinzione di qualcosa che non esibisce il proprio fondamento veritativo in quanto è oltre, ma che si annuncia per mezzo di cifre che danno da pensare. Certezza, però, che rimane sospesa in quanto fondata sul riconoscimento dei limiti della conoscenza scientifica – il naufragio – e sulla coscienza della problematicità e del rischio di una conoscenza non dimostrativa. Vediamo ora come si inscrive la tematica della fede filosofica all’interno del vastissimo orizzonte speculativo di Jaspers. Non si tratta 50 certo di un’argomentazione accessoria ma del punto di arrivo, indubbiamente problematico e aperto a sempre ulteriori sviluppi, di una ricerca unitaria – e forse titanica – finalizzata alla comprensione dell’esistenza nel suo originario e fondante rapporto con la Trascendenza, con l’Essere, ovvero la Verità. Il termine “fede” ha assunto molteplici significati nel corso della storia. La plurivocità del termine, lungi dal disperderne il senso, ne rivela, al contrario, la ricchezza. L’assenso razionale a una testimonianza riguardo un argomento scientificamente e razionalmente non indagabile (pensiero medievale); la certezza ritenuta sufficiente solo soggettivamente (Kant); il sapere immediato che con la sua inderivabile evidenza fonda la certezza e la convinzione del mondo, di Dio (Jacobi), etc., non sono che aspetti diversi di un unico cammino fondamentale della ragione indagatrice. Aspetti che rivelano l’esigenza originaria di un rapporto conoscitivo che superi la semplice scissione tra soggetto e oggetto, tipica delle scienze. Il pensiero di Jaspers è uno di quei luoghi filosofici che rappresentano una stazione di transito più che di soggiorno. La sua lettura, suggestiva quanto impegnativa, richiede pazienza e continuo approfondimento, ma non delude colui che, superata la mole dei suoi testi e la lentezza del suo procedere (lentezza, peraltro, rotta ogni tanto da illuminanti salti e lucide intuizioni), segue la lunga via indiretta alla Verità, fatta di orientazione, chiarificazione e decifrazione. L’originalità del pensiero di Jaspers risiede proprio nel suo non richiedere un soggiorno quanto, piuttosto, un transito. Un lettore scolastico (nel senso deteriore del temine) troverebbe poca soddisfazione nelle pagine di uno Jaspers. Al contrario è sul piano teoretico che lo stimolo si fa sentire in tutta la sua forza. Da un breve sguardo alla letteratura secondaria risalta subito evidente che, nonostante la vastità dell’orizzonte, il pensiero jaspersiano ha ben pochi critici a fronte di molti lettori. Il caso italiano è paradigmatico. Gli studi espressamente dedicati alla filosofia di Karl Jaspers non sono più di una dozzina mentre la storia della sua influenza nei pensatori a lui contemporanei e successivi è ben più cospicua. Questo perché il suo sistema filosofico (e non si può infatti parlare che di sistema) non è un complesso chiuso, ma ha nell’apertura il suo punto di forza. Apertura che fa del sistema una struttura aperta (una sistematica aperta) fatta di pensieri che sono circoli, di affermazioni che sono contraddizioni e paradossi, di cifre e simboli che nel dire quel che dicono significano più di quel che dicono. Apertura, infine, che stimola ad andare oltre, come del resto il filosofare stesso non è che un continuo andare oltre, un trascendere. 51 2.3. IL FILOSOFARE COME ESERCIZIO DI LIBERTÀ Il filosofare di Jaspers nel suo continuo trascendere, ossia nel suo continuo rapportarsi a un altro che è costantemente al di là, è un concreto esercizio di libertà. Seguendo l’insegnamento kierkegaardiano, il filosofo tedesco propone e si cimenta in una serie di possibili esistenze, nella coscienza che tale esercizio non si riduce ad un gioco virtuale ma che rappresenta un serissimo tentativo di rinvenire, tra le innumerevoli possibilità, quelle che realizzino l’io nella sua autenticità. Si tratta di un tentativo cui è connesso il rischio della dispersione, della riduzione dell’esistenza a mero esserci, della perdita cioè dell’io stesso nell’inautenticità. Tale rischio che pende costantemente come una spada di Damocle sull’esistenza filosofante è ciò che, paradossalmente, rende autentica l’esistenza stessa. Una vita, infatti, che non mette in questione se stessa, che rimane al riparo da ogni pericolo, e principalmente dal pericolo di perdere se stessa, non è una vita autentica; al contrario è proprio la possibilità dello smarrimento del sé, del fallimento esistenziale, che pone le basi per un autentico rapporto a sé dell’io e pertanto di una sua piena realizzazione in quanto esistenza. Nella sua opera – unitaria nelle sue infinite sfaccettature – Jaspers intraprende vari cammini differenti che nella loro complementarità delineano, come si è detto, una sistematica aperta. La prolissità dell’esposizione, l’attenzione quasi maniacale per le classificazioni, il procedere lento e sempre ritornante su se stesso, infatti, non scrivono un mondo chiuso ed autoreferenziale ma, al contrario, aprono uno spazio in un costante esercizio che è il filosofare: si tratta dello spazio della libertà nel quale l’io – libero da vincoli dogmatici, ossia dalle cristallizzazioni intellettuali che paralizzano la ricerca – può veramente essere se stesso e, ciò che è più importante, diventare se stesso. Non filosofia, quindi, ma filosofare. Non sistema ma sistematica aperta, rivolta alla comprensione di una totalità che per la natura stessa della ricerca è una totalità relativa, il cui orizzonte muta costantemente con il mutare della situazione della singola esistenza filosofante in cammino (una totalità assoluta, infatti, sarebbe incomprensibile nel senso letterale del termine: non potrebbe essere com-presa, abbracciata dall’esistenza filosofante; e d’altro canto una visione sub speciae aeternitatis, dopo Hegel, non è più praticabile, in quanto risulterebbe violenta e onnivora nella sua assolutezza, astratta e bisognosa di realizzazione nella sua idealità). Le articolazioni di questa sistematica aperta sono i punti di attrito, di cesura, dove si evidenziano 52 contrapposizioni insolute in cui il venir meno degli schemi sotto i colpi della contraddizione, lungi dal far fallire l’intero filosofare, contribuisce a far scorgere, oltre i limiti del filosofare stesso, un orizzonte ultimo di là da ogni orizzonte, una totalità ultima oltre ogni totalità relativa: l’Essere. Scopo della filosofia in questo contesto è quello di rendere trasparente l’orizzonte particolare. Ciò vuol dire chiarificare la situazione esistenziale ed evidenziarne l’intrinseco sbilanciamento verso un oltre trascendete e, allo stesso tempo, mostrare i limiti della ragione e con ciò additare il non-possesso-dell’essere in vista dell’essere stesso che si annuncia oltre ogni essere particolare. Laddove la scienza e la tecnica, così come una religiosità dogmatica e irriflessa, ritengono, secondo Jaspers, di possedere l’esclusiva sulla totalità dell’essere e come tali si negano qualsiasi forma di ricerca ulteriore e di dialogo, la filosofia si propone, invece, come costante esercizio di ricerca della verità nella tensione che unisce il singolo nella sua esistenza alla trascendenza che nell’esistenza solo si annuncia. Per questo Jaspers parla di concreto esercizio di libertà: perché il filosofare consiste proprio in un costante atto di liberazione da quei vincoli propri della conoscenza scientifica e di qualsiasi altra forma di sapere dogmatico e universalmente valido, allo scopo di consentire all’esistenza la sua realizzazione secondo quella che è la sua stessa natura, quella appunto di e-sistere (nel senso di emergere , uscire da sé, sbilanciarsi oltre sé per rapportarsi ad altro) nel momento stesso in cui è con-sistere (nel senso di essere esistenza tra le esistenze, in comunicazione, in dialogo, in intenzione di intesa). Inaccessibilità moltiplicata, scacco diversificato e sempre ritornante, contraddizione fruttuosa, naufragio controllato, nichilismo metodologico. Saranno queste le tappe della via jaspersiana all’essere che passa attraverso il naufragio di ogni possibile ontologia (dove per ontologia si intende una dottrina codificata e cristallizzata dell’essere come oggetto) per giungere quindi all’acquisizione di una nuova coscienza critica e una nuova metafisica (intesa appunto nel senso di un sapere che ha nell’andar-oltre, nel trascendere, la sua essenza). Jaspers nella sua opera delinea pertanto un soggetto che, nel suo continuo ricercare, fallisce (non fallibile in teoria, ma che fallisce nella pratica) e mostra come l’anelito proprio di ogni filosofia (la totalità dell’Essere, la Verità e la sua comprensione) sia raggiungibile solo attraverso la via lunga e faticosa della problematicità e del pensare sempre ulteriore. Una via fatta di concetti che sono circoli, di paradossi elevati a contraddizioni, di interpretazioni e fraintendimenti. Il tutto sullo sfondo della decisione del singolo – dove per singolo Jaspers intende il 53 soggetto vitale, che desidera, nasce e muore tra la gioia di vivere e la miseria del suo essere effimero, nella coscienza della propria capacità di emergere fuori da sé, oltre sé, e di scorgere l’incomprensibile totalità comprensiva (l’Umgreifende) che è l’essere che si annuncia nell’insoddisfazione della ricerca che, a sua volta, deriva dall’incompiutezza di ciascuno e dalla non totalità di tutti i modi dell’essere stesso che noi siamo. Incompiutezza, non totalità e non possesso sono quindi i modi di dire lo scacco che però non è mai definitivo (Jaspers non vuole cadere mai nel nichilismo, ma vede in un nichilismo metodico l’unica via praticabile che conduce all’Essere autentico) ma propedeutico, grazie alla fede. 2.4. L’EMERGENZA DELL’ULTERIORITÀ: L’ESISTENZA Punto di partenza di ogni riflessione, nell’ottica della filosofia dell’esistenza, è appunto l’esistenza. Essa di per sé non è definibile né oggettivabile, in quanto non è un dato ma un nesso. Il dato o viene appreso, elaborato e codificato sì da diventare un prodotto del soggetto (prospettiva idealistica), o viene assunto quale criterio di autorità vincolante cui adeguarsi nel cammino della ricerca scientifica (prospettiva realistica). In entrambi i casi, sia nella prospettiva idealistica sia in quella realistica, il dato risulta essere qualcosa di afferrabile: è oggetto. Al contrario, l’esistenza non è comprensibile con i criteri dell’universale validità né con i metodi vincolanti dell’intelletto scientifico, in quanto è un nesso relazionale, ossia una presenza intenzionale. Qualora l’esistenza fosse un semplice dato oggettuale, l’uomo sarebbe una cosa tra le altre, con tutti i caratteri dell’utilizzabilità e della maneggiabilità propri della cosa (e qui, nota Jaspers, il nazismo troverebbe una sua giustificazione teorica! E con esso ogni forma di conoscenza invasiva nei confronti dell’oggetto ad opera di un soggetto forte e violento). Al contrario l’esistenza è un nesso: un contatto che si realizza nella separazione, un’identità nella differenza, un rapporto. Rapporto a sé, primariamente, quindi rapporto ad altro, ed infine alla trascendenza. L’esistenza, infatti, non è pura presenza (o mero esser-ci) ma ha la propria peculiarità nel carattere riflessivo che la fa essere chiusura in sé (o in-sistenza) per l’apertura all’altro (o consistenza), ossia intima eccentricità (appunto, e-sistenza), presenza interessata, intenzionale. Per questo esistere coincide con trascendere, la presenza è tensione, l’immanenza è trascendenza, l’esistenza è emergenza di un’ulteriorità. Ma come dire la coincidenza di autorelazione ed eterorelazione, di esistenza e trascendenza, di presenza e tensione? Ebbene, il filosofare jaspersiano si rivolge proprio a ciò che non si può cogliere con i criteri universalmente validi della conoscenza intellettiva e la cui dicibilità risulta 54 pertanto problematica: l’essere, l’esistenza, la trascendenza. Del resto è proprio l’indicibile quell’implicito che dall’interno del filosofare emerge come ciò che è oltre il filosofare stesso, non semplice sottinteso da svelare ma implicito da rivelare in quanto, allo stesso tempo, ne è all’origine e ne fonda il senso. Jaspers intende pertanto chiarire l’essere, l’esistenza e la trascendenza nella loro inoggettivabilità non direttamente, ma nel reciproco intreccio di relazioni che instaurano in un comune ambito: il tempo. Il tempo è infatti il luogo dell’essere, dell’esistenza e della trascendenza. Esso è il supporto della manifestazione dell’essere, il luogo della realizzazione dell’esistenza e l’ambito della rivelazione della trascendenza. È nel tempo infatti che l’essere si dà alla conoscenza e viene alla parola per il soggetto; è, ancora, nel tempo che l’io in-siste come con-sistenza tra gli altri uomini ed e-sistenza, ossia emergenza dalla singola situazione in intenzione di trascendenza; allo stesso modo è nel tempo che la trascendenza irrompe kierkegaardianamente nella storia squassandola e dandole senso. È pertanto nel tempo che il trascendere si presenta come essenza e destinazione dell’uomo, che però non trova di fronte a sé un oggetto in quanto tale, ma un altro che si dice e si lascia dire solo mediante simboli che per la loro stessa definizione rimangono in sospensione, aperti al fraintendimento, alla multivocità, all’interpretazione. Questi simboli sono le cifre, segni presenti di un significato assente, significati comprensibili di un senso altro, manoscritti di qualcos’altro che nella loro opacità costitutiva lasciano trasparire l’essere che di per sé è incomprensibile (se comprendere significa abbracciare, afferrare, begreifen) in quanto è l’inafferrabile abbracciante onnicomprensivo (periéchon, Umgreifende), per sua natura ritraente in quanto sempre ulteriore. 2.5. LA CIFRA, MANOSCRITTO DI QUALCOS’ALTRO La teoria jaspersiana delle cifre è divenuta un topos della filosofia del Novecento. La riassumo brevemente. Nonostante l’inafferrabilità della trascendenza (che come tale è l’abbracciante e il ritraente, ciò che circonda e allo stesso tempo sopravanza), per il pensiero che ricerca nel mondo vi sono manoscritti leggibili di questa intima alterità: le cifre, decifrabili solo esistentivamente. Ora, la lettura delle cifre cui il pensiero metafisico si dedica non è l’apertura di un senso fondante e pacificante, quasi fosse una soluzione della ricerca filosofica, quanto l’ulteriore 55 sfondamento di una prospettiva che nel tempo, in cui non c’è pace, si scopre doppiamente fallibile: da un lato la trasparenza del significante – sarebbe meglio dire l’opacità dell’indicante – è il fallimento dell’oggettività dell’oggetto-cifra, poiché l’oggetto colto non è ciò che si vorrebbe cogliere, e dall’altro il fallimento della significanza del significante-cifra, in quanto il significato non è in alcun modo oggettivabile. Nella constatazione di questo doppio naufragio la metafisica rimane pertanto sospesa, salvo poi recuperare un senso positivo grazie alla dialettica dell’implicanza (di matrice barthiana) per la quale, come accade nella lingua tedesca, due negazioni affermano, e quindi, proprio in questa doppia fallibilità, trovare infine il senso nella propria positività: alla fine il tempo tace e il resto è silenzio. Siamo nel silenzio della verità dell’essere nella trascendenza. Di quell’essere che noi non siamo e che in fondo non è (un essere che fosse sarebbe qualcosa e il qualcosa è già una determinazione, che cercando di afferrare l’essere lo perde; cfr. P, III 44; 980). Il percorso della riflessione jaspersiana è il seguente: l’esistenza è formata, strutturata, supportata dalla temporalità la quale segna ogni sua realizzazione, anzi è la sua realizzazione; allo stesso modo però la temporalità segna anche la Verità quale ambito della sua manifestazione, per cui non si dà Verità assoluta ma solo verità nella comunicazione; ma la comunicazione, a sua volta, fallisce nella volontà d’infinito e si sospende nel silenzio. Per contro la trascendenza, come limite contro cui urta ogni tentativo del pensiero – non Grenze (confine) oltre cui guardare ma Schranke (barriera) contro cui franare – non ha tempo, non ha verità, non ha tensione, né ricerca, né pensiero… in essa il pensiero, come il tempo, tace. Le celebri parole di Jaspers che seguono sintetizzano paradigmaticamente tale situazione: « Il silenzio dell’essere della verità nella trascendenza [...] ecco il limite nel quale per qualche istante può risplendere ciò che è il tutto senza divisioni; ma nel mondo esso scompare, per quanto influisca decisamente sull’essenza dell’uomo, ed è incomunicabile, perché la comunicazione lo attirerebbe nei modi dell’essere onnicomprensivo nei quali sarebbe frainteso. La sua esperienza è assolutamente storica: nel tempo eppure al di là del tempo. È per esso che si può parlare, ma non si può parlare di esso. Per il pensiero come per la comunicazione il punto d’arrivo è il silenzio » (VE, 74; 125). Nel tempo quindi, ma al di là dal tempo, si danno dei manoscritti di qualcos’altro, ossia dei documenti, dei monumenti, delle testimonianze di un autore assente, attraverso cui traspare un’ulteriorità che, in quanto manoscritto, è sì leggibile e decifrabile ma solo da chi ne possieda la chiave. L’autore è l’originario, la trascendenza. La testimonianza non è però necessariamente un testo o un messaggio: può essere un fatto, un 56 evento, una persona… qualsiasi cosa o evento che possa significare e allo stesso tempo avere un significato differente da quello di cui è portatore, o meglio qualsiasi cosa che nel significare quel che significa, nel dire quel che dice, dica più e oltre, lasciando trasparire un’ulteriorità di per sé indicibile, un senso inafferrabile, ma pur sempre in un certo senso comprensibile. Il lettore infine è l’esistenza. Colui che per il fatto di esistere, ossia di essere un essere nel modo dell’esistenza, situato temporalmente e intimamente sbilanciato verso la trascendenza dell’essere stesso, ovvero per il fatto di essere un singolo nella sua storicità, possiede la chiave di decodificazione della cifra. Tale chiave è costituita dall’esistenza stessa, ossia da quel legame originario che è causa dello scarto interiore che, a sua volta, muove il tempo e la storia. Ebbene, questo manoscritto di qualcos’altro è, suo malgrado, un’oggettività. La trascendenza infatti non può che manifestarsi in un’oggettività. Ma tale oggettività, come si diceva, deve fallire il suo carattere oggettivante, perché la sua missione è quella di veicolare l’esistenza verso la Trascendenza e ciò è possibile solo se l’oggettività (di cui peraltro né il mondo, né il pensiero, né l’esistenza stessa possono fare a meno) si fa trasparente e si dissolve per l’esistenza: «l’oggettività in cui appare la trascendenza è trasparente solo per l’esistenza e, come oggettività, si dissolve» (PH, I 49; 163). Solo l’esistenza, quindi, ha in mano la chiave dello scrigno della cifra. Questo perché non si tratta di una conoscenza da comunicare in termini cristallizzati e universalmente validi, ma di una conoscenza di tipo totalmente nuovo che ha bisogno di un linguaggio suo, di una logica propria: il linguaggio dell’essere e la logica della trascendenza. A questo scopo Jaspers elabora la sua metafisica che non conosce la trascendenza ma crea lo spazio – in un trascendere logico, in un linguaggio dell’oggettività che è presente e si dissolve allo stesso tempo – per la lettura dell’oggettività dissolventesi per l’esistenza nella cifra. Risultano illuminanti pertanto le seguenti parole di Jaspers: «L’esistenza può captare risposte solo quando si autocomprende in riferimento all’essere; queste risposte sorgono dalla profondità del fondamento trascendente e si presentano in immagini e in concetti che, come oggetti di volta in volta finiti, sono simboli. Nella problematizzazione dell’oggettività il simbolo, afferrato dalla coscienza, diventa cifra, ossia manoscritto di qualcos’altro che, illeggibile coi criteri dell’universale validità, è decifrato esistenzialmente » (PH, I 33; 146). La cifra è quel manoscritto che può esser letto e decifrato solo esistenzialmente, a partire dall’esperienza del mondo, per poi giungere al salto, non condivisibile né ripetibile, che ciascuno nella sua singolarità è 57 chiamato a decidere per sé (il singolo nel suo rapportarsi autenticamente a se stesso «vuol giungere al limite, dove il mondo come esserci si dissolve, per spiccare il salto», dice Jaspers; cfr. PH, I 44; 158). La metafisica è pertanto quell’indagine che rende consapevole della lettura delle cifre. Essa filosofa col concetto e crea costruzioni analoghe a miti ma con una forma di penetrazione più piccola e una chiarezza maggiore («Essa – dice ancora Jaspers – legge i miti, l’arte, la poesia come manifestazioni della trascendenza e, mediante concetti, si appropria di ciò che sta sopra di essa»; PH, I 58; 173). Ne risultano pensieri non logicamente vincolanti – la trasparenza verso la trascendenza, del resto, non può che risultare opacità per una mente orientata nel mondo –, circoli, paradossi che naufragano dissolvendosi nel «silenzio dell’essere della verità nella trascendenza» (VE, 74; 125). È solo nel silenzio dell’essere che la ricerca trova pace: «l’esserci si fa trasparente quando è originario essere-se -stesso in cui per un istante si annulla l’inquietudine; allora il tempo tace, il ricordo si risolve nell’essere» (PH, I 39; 152). Come si vede, l’esito della metafisica, nel suo superare le cristallizzazioni dell’intelletto, consiste nell’apertura all’uomo che filosofa a partire dalla propria esistenza di una prospettiva di ulteriorità che, nella sua trascendenza (la trascendenza dell’essere -non-oggetto) non può che dirsi con il silenzio. Una sorta di mistica laica, quindi, in cui però il silenzio non ha il senso dell’annullamento totale della soggettività indagante, ma è solo un modo altro di dire ciò che con il linguaggio della conoscenza scientifica non sarebbe che contraddizione e paradosso. Un tale silenzio quindi non vuole essere vuoto, assenza di parola, ma al contrario nella prospettiva di Jaspers vuole essere gravido di significato e affermare con forza il suo legame con la Verità nel momento in cui non può che mostrare il fallimento di quella realtà, peraltro imprescindibile per l’uomo, che è la coscienza scientifica. Il cammino verso la Verità si rivela quindi un cammino fatto di negazione e di fallimento. Sarà proprio nel fallimento (nel naufragio) che la trascendenza dell’Essere assolutamente inafferrabile per l’intelletto si rivelerà in tutta la sua abbacinante verità. Ma – il procedere di Jaspers non si cristallizza mai in una posizione stabile – tale verità sarà valida solo per l’esistenza singola nel suo atto di relazionarsi alla sua ulteriorità. E questo solo in rari momenti. All’uomo quindi, e intendo all’uomo in generale, non restano che i continui fallimenti di un discorso che vuole dire ciò che non può e che si traduce in un anelare che sperimenta solo il proprio naufragio. In una tale prospettiva il linguaggio scientifico-razionale abdica a favore di un altro linguaggio: il linguaggio della fede. 2.6. LA TESTIMONIANZA DELLA CIFRA: LA FEDE 58 Il fallimento intellettivo (naufragio scientifico nell’opacità della trasparenza della trascendenza) e l’insoddisfazione esistentiva (naufragio della comunicazione in intenzione d’infinito nel tempo), esperiti all’interno della struttura temporale, aprono la crisi nella quale nascono, per il singolo che filosofa, la questione della Verità, la domanda, il rischio, e in fine il silenzio. È il silenzio del non-sapere che deriva dall’irruzione dell’eterno nel tempo. Un’irruzione che sconnette il tempo (« The time is out of joint »! dice Amleto citato più volte da Jaspers; Hamlet, I, 5, 188-189, ad es. in W, 937) e che a sua volta apre al silenzio come luogo ultimo, puntuale, del filosofare nel tempo nel quale solo è possibile il trascendere per il pensiero. Veicolo di tale trascendere è la cifra quale manoscritto di qualcos’altro, testimonianza omogenea solo all’esistenza in quanto radicata in quella trascendenza che è l’ultimo e il primo per l’esistenza, in quell’estraneità interiore che fonda l’esistenza stessa nella sua valenza esistenziale. Ambito di tale trascendimento per la testimonianza della cifra è il salto della fede che non è mai universale o comunicabile ma sempre personale («è la mia fede come realizzazione originaria e come rischio ad esso connesso»; PH, I 57; 171). Ora, dice Jaspers, se per lo spirito (il modo di esser-io aperto all’intelligibilità) l’essere coincide con il pensiero, per l’esistenza (il modo di esser-io aperto alla propria possibilità e quindi alla libertà) l’essere coincide, kierkegaardianamente, con la fede che si sostituisce al pensiero inglobante come unica espressione del senso. Proprio la fede infatti – nel suo slittamento semantico che l’ha portata dall’essere un assenso razionale a una testimonianza (per la filosofia classica), poi una credenza sufficiente solo soggettivamente (in Kant), poi ancora un sapere immediato che con la sua inderivabile evidenza fonda la certezza e la convinzione di realtà (in Jacobi) – è in Jaspers la certezza di qualcosa che non esibisce il proprio fondamento veritativo in quanto è oltre, ma che si annuncia per mezzo di cifre che danno da pensare; certezza che rimane sospesa in quanto fondata sul riconoscimento dei limiti della conoscenza – il naufragio intellettivo – e sulla coscienza della problematicità e del rischio di una conoscenza non dimostrativa e vincolante. Si tratta pertanto della filosofia stessa di Jaspers, del pensiero che, immerso nell’orizzonte temporale, opera il trascendimento tra pienezza estatica e silenzio espressivo: «immersa nella realtà del tempo, la filosofia conosce la presenza e la contemporaneità del vero essenziale proprio della philosophia perennis che, in ogni tempo, estingue il tempo» (PG, 131; 179). 59 2.7. IL CONCETTO DI FEDE FILOSOFICA A questo punto Jaspers si sente in dovere di dare ragione del suo ricorso al termine fede per indicare il senso più proprio della sua filosofia. Ebbene, dice Jaspers in un’opera tanto monumentale quanto pedante nell’infinita volontà di ricapitolazione (Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung del 1962), la fede è una prerogativa dell’uomo inteso come soggetto conoscente. Tale peculiarità si inserisce all’interno delle facoltà umane non come qualcosa di esterno né come qualcosa di opzionale e accessorio. Qualora il soggetto possedesse la pienezza della conoscenza della Verità, infatti, si troverebbe nella reale impossibilità di sperimentare una fede, in quanto non troverebbe di fronte a sé (angesichts) alcuna barriera che nel limitare le sue capacità conoscitive allo stesso tempo innalzi queste alla possibilità della fede, intesa come atto razionale di accoglienza di una testimonianza riguardo a verità razionalmente non dimostrabili. Allo stesso modo, però, un soggetto incapace di ricercare, perché fermo al semplice livello dell’esser-ci, non aperto cioè alla dimensione dell’ulteriore, dell’e -sistenza, non potrebbe in alcun modo tendere verso un oggetto che possiede e non possiede ad un tempo, ovvero possiede nella forma del cercarlo ulteriormente. Solo l’uomo – che come Eros è sinolo di pienezza e povertà – si trova nello stato della ricerca e quindi della possibilità della fede. Certo, non ogni ricerca ha come suo punto d’arrivo la fede. Ma ogni ricerca ha in sé la possibilità della fede come disposizione interiore ad andare oltre e allo stesso tempo a criticare e a ritenere non concluso né conclusivo ciò che possiede. La fede sorregge la ricerca, quindi, ma solo la ricerca autentica, ossia quella che nella sua radicalità osa spingersi sino alle estreme possibilità offerte dalla natura stessa del conoscere umano che è in primis, ma non solo, un conoscere scientifico. Ora, tale riflessione preliminare, nel limitare all’ambito della ricerca umana la possibilità della fede, permetta a Jaspers di riconoscere come prerogativa di ogni uomo la possibilità della fede, senza per questo identificare necessariamente l’uomo con il credente. La possibilità della fede, cioè, è insita in ogni uomo. Ma oggi, osserva Jaspers, il potenziale credente che ogni uomo è per natura si trova a lasciar sopire la sua fede, sopraffatto da quella naturale e universale tensione alla comunicazione e all’intesa umana che è radice e stimolo della storia del mondo. «La possibilità della fede è oggi, in innumerevoli uomini nascosta», si legge nella prefazione alla monumentale opera del 1962 (PGO, trad. it. p. 11). Questa situazione (l’assopimento del potenziale fideistico insito in ogni uomo) non è dovuto, secondo Jaspers, a una esplicita negazione di ogni credo, ma alla volontà di intesa con l’altro che l’uomo sente innata e che la 60 fede, intesa kantianamente come credenza valida solo soggettivamente, non è in grado di soddisfare. Gli uomini cioè, come l’insieme dei soggetti conoscenti in ricerca, tendono per natura verso l’unanimità, verso l’intesa. Tale tensione universale non appare però soddisfatta dalla fede, che nella sua valenza soggettiva è sostanzialmente incerta, ma al contrario dalla conoscenza scientifica. La fede, con un processo del quale abbiamo brevemente tratteggiato le tappe, si è venuta strutturando nel procedere del pensiero filosofico sempre più come una fonte veritativa e normativa valida solo soggettivamente, individualmente. Al contrario, nel corso dei secoli, la conoscenza scientifica è venuta assurgendo al ruolo di attore protagonista e il suo linguaggio a koinè dell’umano sapere. Proprio il sapere scientifico, con i suoi vincoli matematici riscontrabili oggettivamente, con la sua esattezza logica, con la sua universale validità, può rappresentare, per il filosofo moderno, il terreno di intesa tra gli uomini. Esso infatti, dice Jaspers, nel suo incessante progresso finirà per unificare tutti i tipi dell’umano in un’universale chiarezza in intenzione di Verità. Ma tale chiarezza « è, paradossalmente, l’oscuramento dell’essenziale » (PGO, trad. it. p. 12). Più la scienza procede, infatti, nella sua opera di chiarificazione, più essa viene a perdere l’oscuro fondamento del tutto, che è l’eterna origine, l’essere umgreifende. Questo perché il metodo scientifico, approfondendo sempre più le determinazioni, viene ad affermare sempre più il regno della differenza e della scissione tra soggetto e oggetto. Con il suo lume, quindi, si allontana sempre più dall’oscuro e unico fondamento del tutto, quale è l’Essere inteso non come questo essere particolare e determinato (oggetto della scienza) ma come, appunto, l’essere originario che fa sì che tutto sia e in cui tutto è uno. Certo, l’uomo nel suo cammino di ricerca non può che muoversi nella scissione tra soggetto e oggetto, e quindi tale allontanamento dall’origine è necessario e necessitato proprio dalla struttura della conoscenza umana. Ma – e qui interviene l’opera del filosofo Jaspers – proprio a partire dalla chiarezza oscurante del metodo scientifico è possibile per l’uomo che ricerca, ossia per l’uomo autentico, ripercorrere a ritroso il cammino della chiarezza oscurante della scienza per rinvenire l’eterna origine, l’essere al di là di ogni essere determinato. Questo in virtù del fatto che il pensiero che opera nella scissione tra soggetto e oggetto, il pensiero nel particolare cioè, è un pensiero riduttivo, limitato, oggettivo, ma allo stesso tempo è «il luogo in cui si annuncia una verità che s’avverte irriducibile a contenuto-pensato e si pone perciò come un creduto (Geglaubtes)». Qui si apre l’immane impresa del filosofo Jaspers: leggere nel mondo della scissione tra soggetto e oggetto ciò che è al di là di ogni scissione e che per sua stessa definizione si sottrae a ogni definizione, l’incomprensibile totalità comprensiva, l’Essere umgreifende. 61 Una tale lettura non può avvalersi del « linguaggio della chiarezza razionale », che lungi dall’unire gli uomini li limita e li lega (dal latino religare) con la costruzione di sempre nuove barriere, nuove determinazioni e nuove negazioni, derivanti dalle necessarie cristallizzazioni con cui opera il linguaggio razionale. Ora un tale pensiero, che ha come oggetto ciò che non può essere oggetto di pensiero, non può che avere il nome di “fede”. Il saputo non compreso è il creduto, dice Jaspers. Se da un lato la verità scientifica, relativamente ai suoi metodi, è universalmente valida e come tale può pretendere di fornire una spiegazione del suo oggetto, la verità filosofica risulta assoluta per colui che vive in essa e allo stesso tempo si mostra nella molteplicità non universalizzabile delle enunciazioni soggettive. Certo, una tale impresa è possibile per l’uomo che filosofa autenticamente, che non si limita ad esserci, ma che, muovendo dalla non compiutezza di una chiarificazione che procede all’infinito, riesce a mantenere libero lo spazio per una vera realizzazione della ricerca e di conseguenza riesce a mantenere se stesso nella libertà. La libertà è, infatti, il punto focale dell’analisi di Jaspers: «Solo nella libertà gli uomini possono divenire uomini » (PGO, trad. it. p. 11). La libertà e la chiarificazione infinita possono, quindi, aprire lo spazio per un’intesa umana, anche se nella coscienza dell’impossibilità di ogni determinazione esauriente e definitiva. All’interno di tali riflessioni si inseriscono le lezioni sul concetto di fede filosofica del 1947. 2.8. LE LEZIONI SULLA FEDE FILOSOFICA Nel luglio del 1947, su invito della libera fondazione accademica dell’Università di Basilea, Jaspers tiene un ciclo di sei lezioni espressamente dedicate alla chiarificazione del concetto di “fede filosofica” (Il concetto di fede filosofica; I contenuti della fede filosofica; L’uomo; Filosofia e religione; Filosofia e antifilosofia; La filosofia nel futuro). Sempre il 1947 è l’anno della pubblicazione di Von der Wahrheit, la prima parte della monumentale opera di Logica filosofica rimasta incompiuta. Entrambe presentano un approfondimento della Verità in rapporto alla situazione temporale nella quale viene a manifestarsi e all’incomprensibile orizzonte comprensivo che è l’essere stesso di cui può parlare solo un linguaggio diverso da quello scientifico. Tale linguaggio è, per Jaspers, la fede filosofica, ossia una forma di conoscenza che – unica – superando la scissione tra soggetto e oggetto, è capace di rivolgersi all’Essere umgreifende attraverso il medio paradossale delle cifre. 62 La filosofia nasce dalla ricerca di senso, dice Jaspers. Se tale ricerca trova la sua risposta in una acritica accettazione di una fede rivelata, la filosofia muore sottomessa alla teologia. Se invece rinviene la risposta all’interno delle possibilità dell’intelletto scientifico, la filosofia perde ogni sua giustificazione, riducendosi, al massimo, a teoria della conoscenza. Ancella della teologia ovvero ancella della scienza. In entrambi i casi la filosofia non ha più senso di esistere. Deve forse abdicare? Si domanda Jaspers. Certamente no. O, detto altrimenti: in un’epoca dominata dall’estrema frammentazione del sapere e in cui si rifugge o si predica l’integrazione dei saperi, il compito primario della ragione filosofica consiste nella giustificazione di se stessa come possibilità antropologica alla luce di quelle altre possibilità che si presentano con sempre maggiore insistenza e coinvolgono con sempre maggiore forza: principalmente cioè la fede nella scienza e la fede nella religione. La filosofia si presenta quindi, per Jaspers, in contrapposizione, o almeno in dialogo, con la scienza e con la religione. Un dialogo costruttivo, se basato sul comune intento di rinvenire punti di contatto e ambiti di applicazione specifici. Un dialogo che, invece, diviene viva contrapposizione qualora una delle parti in campo avanzi la pretesa di estendere la sua sfera di applicazione oltre dei propri limiti. Non si tratta, quindi, della scienza e della religione tout court, ma di una certa fede nella scienza e di una certa fede nella religione, che Jaspers identifica con il termine di superstizione. Si tratta cioè di quelle forme di pensiero che intendono fondare il loro stesso sapere su un’affermazione dogmatica e deresponsabilizzante in campo politico, economico, scientifico, religioso, etc., e che, sulla base di tale presupposto, non consentono alcun dialogo con altre forme di sapere ma, al contrario, si muovono ponendo costantemente semplici (o semplicistiche) alternative preconcette che, in quanto tali, privano l’uomo della propria libertà, della libertà cioè di realizzarsi pienamente come soggetto in ricerca, come esistenza nel cammino della vita. 2.9. CONTRO LA SUPERSTIZIONE La perversa atque impia religio di Cicerone, ovvero la superstizione (Aberglaube), è per Jaspers la pigrizia della ragione che nella costante e naturale tensione alla Verità cede alla tentazione di eludere il rischio – sempre personale e mai delegabile ad altri – della ricerca, scegliendo invece l’adesione a surrogati preconfezionati e, per di più, accettati acriticamente. Questi surrogati, dice Jaspers, a prescindere dal possibile contenuto veritativo, sono da rifiutare in quanto snaturano l’essere stesso 63 dell’uomo che è un essere in cammino, in ricerca, e lo sottraggono alla responsabilità che egli ha verso se stesso e che, continua il filosofo tedesco, gli deriva da Dio stesso. Queste affrettate alternative « collocando le possibilità umane in opposizioni così radicali, le dilacerano, facendo così naufragare la realizzazione dell’essere umano autentico » (PG, 10; 56). Si tratta del cattivo naufragio che conduce alla perdizione esistenziale, alla perdita cioè di quella categoria di santità esistenzialistica che è l’ autenticità. Come vedremo, a questo primo “cattivo” naufragio Jaspers opporrà un secondo naufragio, kierkegaardiano e “virtuoso”, in cui il momento dello scacco viene a coincidere con il momento della piena realizzazione dell’uomo nel suo rapporto alla Trascendenza. L’arroganza della scienza (“o la scienza o l’illusione”) e l’esclusività della fede rivelata (“o Cristo o il nulla”) sono alternative che, secondo Jaspers, gettano l’uomo nell’angoscia e nella disperazione, laddove questi sente chiaramente di essere altro, anzi, oltre . Dice Jaspers: « noi, filosofando preferiamo il rischio, preferiamo restare aperti alle possibilità che si dischiudono alla condizione umana. La filosofia non deve abdicare. Oggi meno che mai » (PG, 10; 56). Per comprendere adeguatamente il discorso di Jaspers è fondamentale notare come questi accosti scienza e fede nella comune tendenza alla superstizione. Egli quindi non critica la religione e la scienza, come del resto non si pone né come teologo né come scienziato, ma mette in luce la deviazione filosofica di certa scienza e certa religione, che ha la sua radice proprio nella pigrizia della ragione che, non volendosi assumere il rischio della fatica del concetto, si abbandona a schemi e ideologie deresponsabilizzanti. Anziché estraniarsi dal dialogo tra scienza e fede e proporre una terza via, lo Jaspers filosofo dialoga costantemente con entrambe accomunandole nella loro possibile valenza filosofica. Questo è il motivo per cui la filosofia non deve in alcun modo abdicare. Perché, nella sua peculiarità e autonomia, permane come orizzonte – anche – di un corretto ricorso alla scienza e alla religione. 2.10. LA FILOSOFIA NON DEVE ABDICARE « La filosofia non deve abdicare. Oggi meno che mai » (PG, 10; 56). Essa non deve dimettersi proprio in vista del baratro verso cui l’Occidente tecnologico corre sempre più rapidamente (ricordo che siamo nel 1947!). Solo la filosofia, infatti, è depositaria di quella relazione con la sorgente originaria dell’umano (l’Essere quale incomprensibile totalità comprensiva, in tedesco: Umgreifende), che non è oggetto delle scienze esatte e che non può essere oggetto di una acritica accondiscendenza religiosa, non tanto per i presunti limiti intrinseci di una scienza cieca (inesauribilità della ricerca) e di una religione dogmatica (cristallizzazione di un rapporto 64 unico, personale ed irripetibile), quanto piuttosto proprio a causa dell’inoggettivabilità derivante dall’inesauribilità dell’Essere stesso. Relazione all’originario, quindi, che è anch’essa originaria e che in ultima istanza è l’uomo stesso. L’uomo è esistenza. E non si dà esistenza senza trascendenza, anzi proprio nella definizione dell’esistenza è contenuta la natura emergentiva dell’io, che è originariamente relazionalità, intenzionalità, e-mergenza. Relazione primariamente a sé e, mediante questa, relazione ad altro: autorelazione ed eterorelazione. L’uomo è, quindi, naturalmente sbilanciato (emergente) verso l’altro e verso l’oltre, verso cioè un altro che è al di là del semplice esser-ci e che nella sua assenza si rivela più fondante di ogni presenza (è da ricordare che il termine Da-sein, diversamente che in Heidegger, in Jaspers ha un senso riduttivo, di semplice presenza, mero qui e ora, irriflesso e irrelato). Compito della filosofia oggi è, pertanto, la scoperta e la messa in evidenza di questa « relazione con la sorgente originaria dell’umano» (PG, 10; 56). Non si tratta di un impegno secondario o accessorio, in quanto si sofferma su quella relazione – alla trascendenza – che fonda tutte le altre relazioni umane (la relazione a sé, all’altro, a Dio) e che in ultima istanza è l’uomo stesso. Per esplicita ammissione di Jaspers, infatti, «si tratta di un tema illimitato » (PG, 11; 57) affrontando il quale si abbraccia l’intero ambito dell’umano. Questa è, del resto, la peculiarità del sapere filosofico. Muovendo da tali basi Jaspers delinea un fitto parallelo con le altre forme di sapere sopra citate: la scienza e la religione. È paradigmatico, come si è detto, che scienza e religione vengano da Jaspers accomunate nella loro differenza dalla filosofia: entrambe infatti, pur nelle loro reciproche diversità, si presentano come forme di sapere che nella loro naturale tensione all’universalità, alla comunicazione e alla condivisione, in definitiva all’unanimità, divengono sostanzialmente estranee all’esistenza del singolo e, in un certo senso, indifferenti all’uomo. Solo la verità filosofica è omogenea all’esistenza. Essa infatti, secondo Jaspers, si affida a tal punto all’uomo da morirne nella ritrattazione. Al contrario, la verità scientifica si affida al rigore della logica e dalla matematica e la verità religiosa si affida all’autorità della Rivelazione e della Chiesa che ne perpetua il messaggio. Proprio il rigore scientifico e l’autorità della Chiesa sono, quindi, oggetto di critica da parte di Jaspers, non in quanto tali, ma se utilizzati per soppiantare la ricerca filosofica – costante, irripetibile, sempre personale e mai cristallizzabile in forme concettuali valide universalmente. E questo non per eliminare la scienza e la religione, ma allo scopo di evidenziare la forza unitiva della filosofia rispetto ad 65 entrambe. Tale forza si fonda nel suo radicarsi nell’umano autentico, nell’esistenza come coincidenza di relazione a sé e relazione alla trascendenza. 2.11. DUE TESTIMONI: BRUNO E GALILEI A ragione sono celeberrime le seguenti parole: «La fede è diversa dal sapere. Giordano Bruno credeva, Galilei sapeva » (PG, 11; 57). Cui segue: « Qui sta la differenza: c’è una verità che, ritrattata, muore; e c’è una verità che nessuna ritrattazione è in grado di estinguere ». E ancora: « La verità dalla quale io traggo la mia esistenza vive solo se io mi identifico con essa; storica nel suo apparire, non possiede una validità universale pari alla sua enunciazione oggettiva, ma è incondizionata. La verità che io posso dimostrare, può sussistere anche senza di me, essa è universalmente valida, non è storica, non dipende dal tempo, ma non è neppure incondizionata, perché dipende dalle premesse e dai metodi della conoscenza in connessione ai fini »; e di seguito: « Voler morire per qualcosa di esatto e di dimostrabile è fuori luogo. Al contrario, il pensatore che crede di aver penetrato il fondamento delle cose non può ritrattare le sue proposizioni, senza con ciò attentare alla verità stessa, questo è il suo segreto» (ib.). Come si vede, Jaspers pone l’accento sul rapporto personale alla Verità e all’Essere che vede salvaguardato solo dalla filosofia, e che, invece, la scienza e la religione, fissate nella loro dogmaticità sembrano annullare. È questo il grido di genuino amore per il sapere (filo-sophia) di chi vive l’esperienza di masse di uomini che si conformano a ideologie spersonalizzanti o che si affidano ciecamente al progresso tecnologico. È da notare come l’unione di incondizionatezza e storicità, nella sua paradossalità, richiami la grande sintesi kantiana dei giudizi sintetici a priori. In questi il maestro di Königsberg riusciva ad unire l’incondizionatezza del conoscere con la condizionalità del dato dell’esperienza. Allo stesso modo, la verità una vive nel mondo affidata alle testimonianze sempre uniche che le singole esistenze sanno darne. La verità filosofica – così proclama il messaggio di Jaspers inviato all’umanità intera nel momento della ricostruzione di una sua identità, il 1947 – vive della testimonianza da parte di un’esistenza capace di mettere a rischio se stessa per il riconoscimento del suo fondamento, per la verità appunto. Essa si presenta quindi nella sua fragilità che, lungi dal 66 rappresentarne la negazione del valore universale, è, al contrario, l’affermazione della sua validità al di sopra sia dei semplici vincoli logicomatematici delle scienze sia delle autorità di qualsiasi tipo. La forza della Verità risiede proprio nel suo affidarsi all’esistenza ed aprirsi quindi alla possibilità tanto della conferma quanto del rinnegamento. Si tratta infatti di qualcosa che tocca il cuore del singolo, non come un mero contenuto oggettivo, bensì come un appello che richiede risposta, testimonianza e, se necessario, martirio (ché poi è la traduzione greca di testimonianza). 2.12. LA FEDE COME SAPERE Nessuna evidenza accolta universalmente può pretendere il sacrificio, nota Jaspers (cfr. PG, 11; 58). La peculiarità della verità scientifica è infatti quella di non essere mai in debito nei confronti di chi se ne fa portatore, in quanto la sua validità è dettata dall’autorità che il metodo matematico universalmente valido le fornisce, a prescindere da ogni sua enunciazione particolare. Essa è pertanto al riparo da ogni rischio di fallimento ed un eventuale rinnegamento non la intaccherebbe se non marginalmente. Ma questa sua forza si traduce, per l’uomo che ricerca il fondamento del tutto, in un astratto universalismo che oscura il senso, anziché rivelarlo. Il non-fallire della scienza è il suo reale fallimento, laddove non è in grado di rivolgersi all’esistenza del singolo nella sua libertà, ma sa solo vincolarne le possibilità. Allo stesso modo la verità religiosa, nel suo radicarsi nell’autorità della Chiesa, si presenta – secondo Jaspers – come un dato inequivocabile cui conformarsi. Nell’ottica jaspersiana la verità scientifica e la verità religiosa sembrano costringere. Esse, infatti, sono accomunate ed interpretare come forme di sapere kantianamente patologiche, ossia estranee ed invasive nei confronti dell’esistenza, la quale viene così a trovarsi di fronte a principi trascendenti, sì, ma di una trascendenza data fuori di sé, e quindi essenzialmente estranea ed impersonale (proprio l’essere di fronte, angesichts, rivela l’estraneità e in un certo senso – questa volta hegeliano – la negatività: si pensi al titolo dell’opera del 1962, La fede filosofica di f r ont e alla Rivelazione). La verità filosofica invece libera: nell’atto di svincolare la ricerca da principi eteronomi, essa consente l’accertamento all’interno della ragione stessa di quell’originario radicamento emergentivo che fonda la possibilità del trascendimento della situazione particolare e, quindi, la possibilità dello stesso rapporto alla Trascendenza. La verità filosofica pertanto rivela una “immanente trascendenza” nel rinvenire la propria ragion d’essere nel filosofare ulteriore, non solidificato e sempre aperto alle possibilità dell’esistenza. Essa apre al rischio e al sacrificio che è possibile solo « dopo una lunga e combattuta vittoria riportata su di sé » 67 (PG, 11; 58) riguardo a ciò che ha un valore assoluto ma non universale. Solo in questo caso si può parlare di fede autentica, in quanto « certezza della verità che non si lascia dimostrare » (PG, 11; 58). Tale fede filosofica si raccoglie in enunciati che hanno la forma di una professione di fede, senza però essere accettazione acritica di una rivelazione: mentre la scienza si presenta come un organismo di pensieri che penetrano la vita nella sua totalità, la fede è la facoltà dell’originale rapporto all’originario. Questo non vuol dire che la fede autentica sia irrazionalità. Essa, infatti non si realizza negli « attacchi gratuiti condotti contro tutto, nella distruzione di quei valori verso cui massimamente si aspirava, e a cui era riconosciuta una certa efficacia realizzatrice, nella dispersione del patrimonio della tradizione, accompagnata da una mancanza assoluta di serietà mascherata sotto il nome di libertà, nell’esaltazione dell’incoerenza e dell’irresponsabilità » (PG, 12; 59). Al contrario la fede è volontà di sapere. Ancor più: « essa vuol sapere cosa è possibile sapere » (PG, 13; 59) e in questa ricerca chiarisce se stessa (come si vede, più si approfondisce il senso del ricorso al termine fede e più si comprende come la fede filosofica sia distante dalla fede intesa in senso classico). Nella fede filosofica il sapere riguardo a verità non dimostrabili scientificamente si traduce in volontà di chiarire e di approfondire il nesso che lega (religare, ma ora nel senso di ancorare) l’uomo a queste verità. Tale nesso, nella chiarificazione delle possibilità del sapere, si mostra non estrinseco ma a tal punto connaturato all’uomo in ricerca che risulta essere la sua stessa esistenza. Dalla coscienza della propria esistenza come nesso e rapporto alla trascendenza inoggettivabile sorge, per l’uomo che filosofa autenticamente, la convinzione e la chiarezza, ovvero l’evidenza della propria fede. Si tratta di un’evidenza diversa da quella della scienza in quanto la fede si situa nell’inscindibilità di soggetto e oggetto, fides qua creditur e fides quae creditur, sorgente della fede e contenuto della fede stessa. Qualora si scinda il momento soggettivo da quello oggettivo si cadrebbe nella credulità o nel dogma. Credulità di una fede valida solo soggettivamente; dogmaticità di una fede abbandonata acriticamente all’oggetto: in entrambi i casi si perderebbe il rischio e la problematicità di un impegno personale. Quando Jaspers parla di fede autentica, invece, intende riferirsi a « ciò che abbracciando circoscrive (umgreift) il soggetto e l’oggetto » (PG, 14; 60). Tale fede ha il primato dell’autenticità in quanto è l’unica rivolta all’essere autentico che in sé non è né oggetto né soggetto (cioè non determinato), ma si situa prima di ogni determinazione nell’originaria solidarietà di esistenza e trascendenza. La radice kantiana di una tale concezione è evidente: la grande scoperta di Kant, il suo pensiero fondamentale, consiste secondo Jaspers nella 68 comprensione della la fede non come atto né come contenuto, ma come orizzonte umgreifende essa stessa, in cui si può dare, per l’esistenza, la relazione all’Essere cui ogni azione e ogni sapere si riferiscono come sorgente da cui il filosofare trae origine e fine a cui tendere. È questo l’originale salto nella fede che Jaspers propone: dal cattivo religare (così Cicerone: trahit Hectorem ad currum religatum Achilles) all’origine del positivo religare (così Cesare: naves ad terram religare); dalla cristallizzazione ideologica all’ancoramento alla Verità. 2.13. GLI ENUNCIATI DELLA FEDE FILOSOFICA La fede è l’espressione di un sapere dell’esistenza che, in quanto coincidenza di autorelazione ed eterorelazione, realizza un sapere omogeneo all’Essere il quale, nel suo non lasciarsi dimostrare, si pone quale presupposto per ogni possibile sapere. Gli enunciati teoretici di una tale fede sono i seguenti: La fede è la dialettica del rischio o il rischio di una dialettica che nel suo procedere non annulli i poli in una sintesi onnivora, ma al contrario viva, nella tensione, l’autenticità del rapporto. Anzi, nel fallimento della sintesi, nell’impossibilità di un reale rapporto alla Trascendenza, la fede vuole cogliere la Verità nel suo darsi per l’esistenza. Come tale essa è la verità dell’esistenza nel rapporto con la Trascendenza. Esprime infatti un modo di relazionarsi alla trascendenza che non implica un’oggettivazione ma che, nel suo fallire l’acquisizione di un dato, apprende di più e oltre, per l’esistenza. Ciò però è possibile solo in un contesto di costante sospensione, in un divenire senza sosta, dove il soggetto in ricerca possiede l’oggetto sempre solo nella forma del cercarlo ulteriormente. La fede è quindi l’attesa dell’Essere nell’esistenza che sperimenta la Trascendenza. Nella coscienza della non totalità della situazione storica e della precarietà della finitudine umana, l’esistenza sperimenta il proprio fallimento – il fallimento della comprensione totale e il fallimento della comunicazione universale – e di conseguenza non le rimane che porsi in attesa di un’irruzione dell’eterno nel tempo, di una rivelazione. Irruzione però che non è estrinseca, bensì necessitata dalla natura dell’esistenza stessa (natura, come detto, emergentiva), irruzione che è l’esistenza stessa. La fede è, pertanto, l’imprevedibile vicinanza dell’assenza, del Deus absconditus. Proprio la radice emergentiva dell’esistenza è infatti l’espressione della presenza di quella Trascendenza che per definizione si ritrae, ed è assente. Si tratta di una presenza connotata secondo i 69 caratteri della negatività. E negativa è anche la forma del sapere possibile per l’uomo: la fede è lo slancio nella pienezza del non-sapere. Proprio il non-sapere – come l’Eros platonico – è il motore della vita e della storia, della ricerca filosofica che per essere autentica deve prender coscienza dei propri limiti e deve emanciparsi dalle catene di un sapere dogmatico e vincolante. La fede è quindi la coscienza della libertà del finito nella finitezza. Dove per libertà Jaspers intende appunto il salto da un religareimprigionare negativo ad un religare-ancorare positivo. Il tutto, comunque, sempre nel regno della possibilità e dell’esistenza possibile. La fede è infine la problematicità della possibilità che nella sua incondizionatezza fonda la certezza della Verità nella sospensione sul naufragio. 3. CONCLUSIONE: INCERTEZZA ESISTENZIALE Quanto fin qui detto non esaurisce le questioni del filosofare jaspersiano, ma ne evidenzia la rilevanza speculativa. Non si tratta infatti di un tema di una specifico settore della ricerca filosofica (quale può essere la religione, anche se hegelianamente si confronta con gli stessi contenuti della fede religiosa) ma di una particolare tonalità della ricerca filosofica, la quale assume su di sé il rischio dell’incertezza e si dà il nome di “fede” per meglio chiarire il carattere non sistematico e fondamentalmente personale (ma non soggettivo) dell’appello alla Verità che è radicato originariamente nell’esistenza umana. Non quindi un contesto di dogmi o ideologie da trasmettere, né un sistema di proposizioni strutturate in un sapere chiuso. La fede filosofica è un pensiero aperto, in movimento e forse anche evanescente – laddove si presenta come difficile sintesi di ricerca scientifica e credo religioso. Ma la verità che ne emerge non è paradossale (credo quia absurdum). Al contrario, il paradosso è l’espressione particolare di una situazione di sospensione nel problematico, laddove alla contraddizione inerte si sostituisce il rischio non solidificato che tiene costantemente desta l’inquietudine e la perplessità, fonti del continuo filosofare ulteriore. Certo, il cammino della filosofia – così delineato – non può essere il percorso di un sapere ( Wissen) ma il sentiero tortuoso di una fede (Glaube). Non quindi la via solare del sistema hegeliano, ma il cammino più oscuro e notturno della ricerca che non annienta la Verità (magari sostituendovisi) ma la tutela e la preserva nel gioco degli oltrepassamenti, dei rimandi, delle cifre. La mediazione globale hegeliana, del resto, è oggettiva e “ontologica”: comprende l’essere, riducendo la Verità a un tutto detto. Quella di Hegel è pertanto una fede nella mediazione globale della 70 ragione conciliante. Al contrario Jaspers delinea una fede nel tempo della povertà estrema (in dürftiger Zeit) che fa proprio il momento del paradosso (di Kierkegaard) ed il rischio nichilistico (di Nietzsche) per far naufragare il sapere nel mare della contraddizione e, in tale naufragio, rivelare un’ulteriorità in grado di salvare il tutto: basta che l’essere sia, dice Jaspers in conclusione del suo lungo e oscuro cammino metafisico (PH, III 236; 1183). Se la contraddizione hegeliana risulta rovinosa per la Verità – essa infatti sotto l’apparenza di salvarne la realtà (Wirklichkeit) ne accelera l’annientamento – quella jaspersiana vuole essere fruttuosa e feconda: nell’accelerare il naufragio della finitezza, ne vuole manifestare la verità, ovvero l’originario legame alla Trascendenza. La fede di Jaspers non è quindi una fede mediatrice, bensì rivelatrice. Di qui la tolleranza provvisoria del momento tragico-nichilistico del naufragio allo scopo di permettere la rivelazione (anche qui uno slittamento semantico!) dell’ulteriorità dell’Essere. Rivelazione, questa, che non ha certo un’origine patologica, in senso kantiano. Essa risulta infatti da quella dialettica interna alla ragione stessa che sfugge ad una facile determinazione terminologica e che in Jaspers ha il nome di fede filosofica. Terminato il discorso, rimangono comunque molti interrogativi: cosa è realmente la Trascendenza, se non è Dio ma la condizione di possibilità della sua manifestazione? In fondo non è poi così trascendente, se si colloca all’interno dell’esistenza stessa: si tratta forse di una « 91 trascendenza immanente », come dice Cornelio Fabro? E ancora, nel gioco dei rimandi e degli oltrepassamenti cosa resta della Verità? Essa è forse solo trascendimento e cifra? E infine, Jaspers è veramente contra Hegel? La necessità del momento nichilistico non è la riaffermazione di quel principio dialettico del reale, riproposto in una dialettica dell’esistenza? Si tratta di interrogativi che non chiudono la ricerca della Verità, né per il solo fatto di rimanere aperti annullano lo sforzo di una vita di ricerca. Al contrario, esattamente come pensa Jaspers, rappresentano stimoli per un filosofare ulteriore. Comunque, per quel che riguarda la presente ricerca, una volta chiarito il senso del ricorso al termine fede, comprendiamo bene che Jaspers non ha certo bisogno della fede. Quella di Jaspers è una filosofia problematica dell’esistenza, non certo una fede religiosa. Ma solo una fede può salvare dal naufragio, solo la fede infatti ripiega nella difesa di quel minimum che è ai confini del nulla e da lì può bruscamente illuminare un’ampiezza senza limiti. Solo ammaestrata dall’esperienza e dalla 71 possibilità del nulla e della negazione di ogni fede, nonché dall’esperienza dei limiti, l’esistenza può infatti affidarsi al salto nello spazio in cui si chiariscono i modi dell’Umgreifende che l’esistenza stessa è e in cui si trova. «Certo – dice Jaspers –, la fede filosofica passa attraverso il nulla, ma quando è originaria non nasce dall’assenza di terreno e non prende le mosse dal nulla. “Perché tu credi?”. Perché mio padre mi ha detto di credere. Questa risposa di Kierkegaard, trasposta, vale anche per la filosofia» (PG, 22; 69). Personale come la risposta a un padre ma sconvolgente come l’abisso del nulla su cui si sporge, la fede è quella prospettiva che riesce, per Jaspers, a dare ragione del finito e del nulla, del dubbio e del pessimismo e, allo stesso tempo, è proprio il parallelo con la fede religiosa che consente il recupero finale della salvezza: « Es ist genug, daß Sein ist », basta che l’essere sia. La “fede filosofica” è l’espressione della genuina volontà della ragione di assumere in sé, di assimilare (aneignen), anche quel contesto di ricerca e di provvisorietà, di rischio e di sospensione, di affidamento, di naufragio e di testimonianza, che traccia l’orizzonte di una verità fragile nel suo affidarsi al consenso o al tradimento da parte della parola dell’uomo. È la fragilità del silenzio, che non vuole però essere nulla, anche se, per essere autentico, si afferma di fronte (angesichts) e attraverso il nulla. « La verità è il nostro cammino », dice Jaspers all’inizio del suo Von der Wahrheit (W, 1). Un cammino scandito dalla temporalità quale supporto della ricerca, ma anche quale ambito della sua incompiutezza. Il tempo della ricerca è quindi lo specchio dell’umano in cui il finito si relaziona a se stesso e si comprende nel rapporto originario alla Trascendenza. Trascendenza che qui non è propriamente Dio (Jaspers parla della cifraDio, della cifra delle cifre) ma quell’intima ulteriorità che fonda ogni possibile relazione ad altro (al sé, al prossimo, a Dio), come una sorta di genio benigno che squassa la chiusura dell’esistente trasformandone la forza centripeta in forza centrifuga, in apertura, in intenzione di Verità. Proprio la Verità, quindi, diviene, più che l’oggetto di un credo, l’ambito di realizzazione del singolo oltre le proprie barriere e i propri vincoli. La Verità come cammino quindi, sempre da scrivere come un impegno, sempre fragile come una possibilità, ma sempre presente nel trascorrere del tempo, sempre una nella molteplicità delle sue possibili dizioni. 91 Cfr. C. FABRO, Introduzione all’ateismo moderno, Studium, Roma 1969, pp. 931-943. 72 BIBLIOGRAFIA Riporto solo le monografie espressamente dedicate al pensiero dell’autore. Per una più ampia bibliografia rimando a G. CANTILLO, Introduzione a Jaspers, Laterza, Roma-Bari 2001 AA.VV., Karl Jaspers - Filosofia Scienza Teologia, a cura di Giorgio Penzo, Morcelliana, Brescia 1983. AA.VV., Karl Jaspers e la critica, a cura di Giorgio Penzo e Maria Luisa Basso Vetri, Morcelliana, Brescia 1985. AA.VV., Karl Jaspers 1883-1969. Celebrazioni nel primo centenario della nascita. 1983, a cura di Giovanni Santinello, Istituto culturale italo-tedesco, Merano 1985. AA.VV., Karl Jaspers. Esistenza e trascendenza, a cura di Rosa Brambilla, Biblioteca Pro Civitatae Christiana, Assisi 1989. AA.VV., Filosofia, Esistenza, Comunicazione in Karl Jaspers, a cura di Donatella Di Cesare e Giuseppe Cantillo, Loffredo, Napoli 2002. M.L. BASSO, Filosofia dell’esistenza e storia. K. Jaspers e N. Berdjaev, CLUEB, Bologna 1994. A. CARACCIOLO, Studi jaspersiani, Marzorati, Milano 1958. P. CATTORINI, Il trascendere formale in Karl Jaspers: strumenti ed esiti di una metafisica non-oggettiva, Vita e Pensiero, Milano 1986. R. 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