Karl Jaspers
INTRODUZIONE
1. KARL JASPERS. UNA VITA IN SITUAZIONE
Karl Theodor Jaspers (1883-1969) fu medico, psichiatra,
psicologo e infine filosofo. Egli riveste un ruolo fondamentale all’interno
delle scienze psichiatriche, principalmente per fondazione
metodologica della psichiatria clinica. La sua opera fondamentale di
psichiatria, Psicologia delle visioni del mondo, del 1919, è allo stesso
tempo il primo manifesto della filosofia dell’esistenza che avrà in Martin
Heidegger (1889-1976) e in Gabriel Marcel (1889-1973) i suoi maggiori
esponenti rispettivamente in ambito tedesco e francese. In seguito alla
tragedia nazista prima e alla ricostruzione politica della Germania poi,
Jaspers si presenterà come esponente di un nuovo pensiero filosoficopolitico, fondato sull’unità di tutti gli uomini in comunicazione: egli
parlerà infatti di Philosophia perennis e di Weltphilosophie.
Nato a Oldenburg, vicino alla costa del Mar del Nord, il 23
febbraio del 1883, Karl Theodor è il maggiore di tre fratelli (seguono
Erna nata nel 1885 ed Enno del 1889). Il padre, Karl Wilhelm Jaspers,
discendente di una ricca famiglia di commercianti dello Jeverland a
ovest della Jade, non ereditò nulla e fu costretto a crearsi
autonomamente una vita attraverso gli studi giuridici. Uomo liberale e
conservatore, estremamente ligio al dovere ma insofferente nei
confronti di ogni superiore, abbandonò l’impiego nell’amministrazione
pubblica come capo distretto (con un potere quasi assoluto) per
divenire direttore di banca. La madre, Henriette Tantzen, proveniente
da una famiglia di proprietari terrieri, è così descritta: « Amava
sconfinatamente, e al suo amore ciò che lei desiderava sembrava
naturalmente sulla più sicura delle vie » (SW, trad. it. p. 22). Nel 1967,
ricordando i suoi genitori, Jaspers dice: « Ero sicuro con i miei genitori.
Involontariamente mio padre fu per noi un modello inconscio. Senza
l’influsso della chiesa, senza riferimento a un’autorità oggettiva, la cosa
peggiore era considerata l’insincerità. E cosa quasi altrettanto brutta: la
cieca ubbidienza. Ambedue non dovevano esistere » (SW, trad. it. p.
21).
Spirito ribelle, il giovane Karl non cederà mai al capriccio ma, forte
dell’educazione e dell’esempio paterno, si muoverà sempre sotto la
sola guida della ragione senza riguardo delle autorità e delle mode.
Già al ginnasio manifestò il suo animo insofferente nei confronti di ogni
1
forma ingiustizia e di disciplina tanto da entrare in conflitto con le
autorità scolastiche e da rischiarne l’espulsione.
La vita di Jaspers fu segnata da due grandi svolte a fronte di una
cerchia di relazioni sincere: l’incontro con il mondo universitario e la
tragedia del nazionalsocialismo, da un lato, il sereno e costante
rapporto con l’amico Ernst Mayer, l’amore per la moglie Gertrud e il
rispetto per il maestro Max Weber, dall’altro.
All’età di 18 anni, nel 1901, ha la prima svolta che cambierà la
sua vita: entra nell’università di Heidelberg. Prosegue gli studi poi a
Monaco, a Berlino e a Göttingen e infine ancora a Heidelberg.
Inizialmente segue le lezioni di giurisprudenza, poi a Berlino passa a
medicina. Dopo aver studiato per cinque semestri a Göttingen decide
che l’università è la sua vita e ritorna nella più prestigiosa: Heidelberg.
Nel 1908 si laurea in medicina con la dissertazione Heimweh und
Verbrechen (“Nostalgia e crimine”) e nel 1909 è dottore. Nel frattempo
(1907) ha conosciuto Gertrud Mayer, sorella dell’amico Ernst Mayer, di
famiglia ebrea. Così racconta del primo incontro: « Come andarono
veramente le cose non posso saperlo, e perciò neppure raccontarlo.
[…] Posso raccontare però gli eventi relativamente esteriori. Da
quando c’è Gertrud, dal 1907, in me è avvenuta una trasformazione.
Fino ad allora ero un uomo – malgrado l’insoddisfazione e gli aneliti –
che voleva sapere, che aspirava alla verità, freddo. Da quel momento
diventai un essere umano a cui ogni giorno viene ricordato che è un
essere umano » (SW, trad. it. p. 40). Emblematiche sono le seguenti
parole: « Ho scritto ripetutamente sull’amore. Ad alcuni ciò è apparso
costruito e utopistico, per me invece è l’inadeguato specchio di una
realtà » (SW, trad. it. p. 40). Gertrud diventerà la signora Jaspers nel
1910 e seguirà la vita del marito, parteciperà alla stesura di tutte le sue
opere e condividerà con lui le tragiche esperienze della seconda
guerra mondiale.
Nel 1909 Karl diviene ricercatore volontario nella clinica
psichiatrica dell’Università di Heidelberg, ruolo che ricoprirà fino al
1915. Anche in questo campo lavora autonomamente, senza altra
regola al di fuori del suo interesse, glielo permette il fatto di non essere
pagato. Il suo interesse si concentra particolarmente sull’applicazione
2
dei metodi della fenomenologia (l’investigazione diretta e la
2
Il suo rapporto con Husserl fu particolare: inizialmente affascinato dalla
fenomenologia, Jaspers cerca una sua applicazione psicopatologica e a sua una domanda al
maestro su che cosa fosse propriamente la fenomenologia, Husserl rispose che era
esattamente quello che lui andava facendo.
2
descrizione dei fenomeni psichici senza far riferimento a teorie
preconcette) alla psichiatria clinica e ben presto, nel 1911, il noto editore
Ferdinand Springer lo invita a scrivere un libro di psicopatologia. Vede la
luce così la sua prima opera a carattere sistematico, Allgemeine
Psychopathologie del 1913 (trad. it., Psicopatologia generale, 1964). Lo
stesso anno, in qualità di esperto psicopatologo, entra a far parte del
Dipartimento di Filosofia dell’Università di Heidelberg, dove ancora questa
branca del sapere non era rappresentata. Nel giro di pochi anni diviene
professore di Filosofia grazie alla sua seconda pubblicazione sistematica,
Psychologie der Weltanschaungen del 1919 (trad. it., Psicologia delle
visioni del mondo, 1950), considerato come il manifesto della futura
Filosofia dell’esistenza, alcuni anni prima della pubblicazione di Sein und
Zeit di Heidegger, che è del 1927 (trad. it., Essere e tempo, 1953).
In quest’opera Jaspers, pur non volendo esporre un sistema
filosofico, tratta del rapporto tra filosofia e scienza e dei limiti della
conoscenza filosofica. La questione del filosofare jaspersiano è qui già
posta in tutta la sua complessità: il pensatore tedesco vuole una filosofia
distinta dalla scienza, non irretita nei vincoli della validità universale delle
formulazioni scientifiche, ma allo stesso tempo non intende fare della
filosofia un surrogato del credo religioso. La filosofia si presenta come
interpretazione non dogmatica dell’essere, in grado di fornire norme e
principi di vita validi universalmente per la singola esistenza storica. Si
tratta di superare i limiti canonici della conoscenza scientifica e di
illuminare la totalità dell’esistenza umana non come semplice essere-nelmondo, mero esser-ci, ma come libertà umana di essere. Tra gli anni
Venti e Trenta Jaspers lavora con l’amico Ernst Mayer all’approfondimento
di queste tesi. Sono questi gli anni in cui stringe amicizia con Martin
Heidegger – amicizia che si romperà in seguito all’adesione di quest’ultimo
al Nazionalsocialismo – e in cui scrive Die geistige Situation der Zeit del
1931 (trad. it., La situazione spirituale del tempo, 1982), i tre volumi del
suo capolavoro,
Philosophie, del 1932 (Orientazione filosofica nel mondo, Chiarificazione
dell’esistenza , Metafisica; trad. it., Filosofia, 1972 sgg.) e, nello stesso
anno, un libro su Max Weber, Max Weber – Politiker, Forscher, Philosoph
(trad. it., Max Weber, politico, scienziato e filosofo, 1969).
Proprio Max Weber (1864- 1920) affascina a tal punto Jaspers da
fargli decidere, negli anni dello studio, di fare dell’Università, di cui si è
ormai formato un ideale altissimo, il luogo della sua vita. Le aule
universitarie sono luoghi sacri e centri d’incontro di un qualcosa di
sovranazionale e grandioso, come le chiese. La comunità che in esse vive
non appartiene a uno stato, è « una comunità che nulla vuole se non
incondizionata e illimitata verità » (SW, trad. it. p. 27). Nell’Università di
Heidelberg c’è un Max Weber e con lui le più eminenti menti del mondo in
3
costante dialogo con le altre sparse per il globo. Magari non tutti
insegnano, ma contribuiscono a formare un’atmosfera quasi irreale,
spirituale, che va assai al di là della semplice scienza: nell’Università di
Heidelberg vive la vita dello spirito! In Weber Jaspers trova un amico ma
non un suo pari: rimane sempre uno spirito di una grandezza tale da
lasciare intimiditi. « Non credo di sbagliarmi nell’aver visto in Max Weber,
spiritualmente parlando, il più grande uomo della nostra epoca, ovvero
grande non in un ambito soltanto, ma con un carattere universale. Il
concetto di grandezza io l’ho ricavato a partire dalla sua esistenza reale »
(SW, trad. it. p. 41). Quella di Max Weber fu, infatti, un’esistenza reale
dominata dal dissidio tra gli alti ideali del sapere e la coscienza della realtà
nella sua concretezza, nella sua crudezza. Fu, a tutti gli effetti un modello.
La seconda grande svolta è l’avvento del nazionalsocialismo di
Hitler. Jaspers, come la maggioranza dei tedeschi, pensava che il
fenomeno Hitler si sarebbe estinto nel giro di qualche anno – il tempo
necessario alla dinamica società tedesca per riprendersi dalla Grande
Crisi. Così non avviene, ed il fatto che Gertrud è ebrea lo qualifica subito
agli occhi del regime come potenziale nemico dello Stato. Già dal 1933 la
vita politica all’interno dell’ateneo gli viene limitata pur potendo continuare
ancora ad insegnare e a scrivere liberamente. Sono gli anni dell’ideazione
della grande opera sistematica, la Logica filosofica, che avrebbe dovuto
far da seguito alla prima, Filosofia. Vengono pubblicati Vernunft und
Existenz del 1935 (trad. it., Ragione ed esistenza, 1942), il saggio su
Nietzsche del 1936 (trad. it., 1996) e su Descartes del 1937 (trad. it.
parziale, 1946), ed
Existenzphilosophie del 1938 (trad. it., Filosofia dell’esistenza, 1940). Nel
1937 poi il regime impone a chiunque avesse in moglie un’ebrea di
divorziare o di emigrare. Jaspers non fa né l’una né l’altra cosa. Smette di
insegnare in quanto è posto in pensione d’autorità e nella sua ultima
lezione a Heidelberg dice: « La mia lezione è finita, ma con essa non è
finita la filosofia che sempre procede oltre nel suo cammino ». Dopo il
fallimento dei tentativi di trasferimento a Zurigo e Istanbul, alcuni amici
(Pollnow, Zimmer e principalmente Lucien Lévy- Bruhl) si impegnano a
organizzargli la fuga a Parigi, ma lui decide di rimanere, non per eroica
resistenza quanto piuttosto per le preoccupazioni derivanti dal suo stato di
salute e all’incognita di un suo soggiorno in terra straniera, non supportato
dalla lingua né da amici (e questa si rivelerà una scelta felice dal momento
che di lì a poco l’esercito nazista occuperà la capitale francese). Decide
pertanto di rimanere in Germania con la moglie, pronto al supremo atto del
suicidio di fronte alla possibilità di essere arrestato o comunque di venir
separato dalla compagna della sua vita. Scrive nel diario il 17 marzo 1939:
« io posso rimanere qui soltanto se sono pronto, a un determinato
4
momento, a morire con Gertrud » (SW, trad. it. p. 192). E ancora: « il
fondamento delle nostre azioni deve rimanere il fatto che non ci separiamo
l’uno dall’altra » (SW, trad. it. p. 194). In un appunto datato 1 aprile 1939
scrive: « la nostra vita deve assumere un atteggiamento differente:
coscienza quotidiana della disponibilità a morire […]. La vita è possibile
soltanto se si fonda sulla trascendenza» (SW, trad. it. p. 196). Di nuovo,
nel 1942, le autorità naziste neautorizzano l’emigrazione in Svizzera ma
alla condizione di abbandonare la moglie. Jaspers, ancora, rifiuta. Vive
con la moglie finché il regime non stabilisce la loro deportazione per il 14
aprile 1945. Il 30 marzo Heidelberg viene occupata dagli Alleati.
Prima della Guerra, e precisamente a partire dal 15 luglio 1926 il
professor Jaspers aveva intrapreso un intenso dialogo epistolare con
l’allieva e poi amica Hannah Arendt (1906-1975). Il dialogo si interromperà
nel 1933 con la fuga dell’ebrea Arendt prima in Francia e poi in America,
per riprendere più vivo che mai nel 1945 fino al 1969 ed è poi confluito in
Briefwechsel Arendt-Jaspers (1926-69) pubblicato postumo nel 1985 (trad.
5
it., Arendt-Jaspers. Carteggio, 1989) .
Dopo la guerra Jaspers viene reintegrato nell’Università, e le sue
prime parole sono: « quale uomo fra gli uomini, vorrei partecipare allo
sforzo comune per la ricerca e la conquista della verità ». Si impegna,
quindi, nella conclusione della sua opera di logica Von der Wahrheit
pubblicata tra il 1946 e il 1947 (trad. it. parziale, Sulla verità, 1970) e in
una serie di interventi e di scritti riguardanti la questione politica della
colpa (Die Schuldfrage, 1946, trad. it., La colpa della Germania, 1947;
nella prefazione di quest’opera sono riportate le parole della sua prima
lezione del 1945 sopra citate). Ma l’isolamento culturale nel quale si viene
a trovare, da un lato, e, dall’altro, l’amara constatazione che ciò che si
andava ricostruendo nella Germania del dopoguerra non era uno stato
fondato sul senso della responsabilità civile e politica né tanto meno su
una più alta moralità nazionale lo spinge ad accettare l’invito
dell’Università di Basilea, in Svizzera, dove tiene una serie di lezioni
nell’estate del 1947 e dove poi si trasferisce definitivamente nel 1948
rimanendovi fino alla morte, avvenuta nel 1969.
È durante il volontario esilio in Svizzera che Jaspers si impegna nelle
ultime due grandi battaglie. La definizione del ruolo della filosofia nei
confronti della religione e la conseguente chiarificazione del termine “fede
filosofica” con cui riassume la sua filosofia (a questo scopo sono dedicati i
seguenti scritti: Der philosophische Glaube del 1948, trad. it., La fede
filosofica, 1973; Die Frage der Entmythologisierung del 1954, trad. it., La
questione della demitizzazione, 1995; Der philosophische Glaube
angesichts der Offernbarung del 1962, trad. it., La fede filosofica di fronte
alla rivelazione, 1970; Philosophie und Offenbarungsglaube. Ein Gespräch
5
mit H. Zahrnt del 1963, trad. it., Filosofia e fede nella rivelazione. Un
dialogo con K. Jaspers - H. Zahrnt, 1971) e la titanica impresa di una
grande storia della filosofia mondiale (di cui il volume Die grossen
Philosophen del 1957, trad. it., I grandi filosofi, 1973, è solo una piccola
parte). Non smette comunque mai di esprimersi sulle questioni politiche
(Die Atombombe und die Zukunft des Menschen del 1958, trad. it., La
bomba atomica e il destino dell’uomo, 1960; Wohin treibt die
5
Sul rapporto tra i due filosofi si veda anche l’intervista di Peter Wyss a Karl
Jaspers trasmessa il 14 febbraio 1965, sul libro della Arendt Eichmann a Gerusalemme
del 1963, un dossier per il The New Yorker sul criminale nazista Otto Adolf Eichmann
catturato dagli israeliani l’11 maggio 1960 e in seguito condannato a morte a
Gerusalemme; ora disponibile anche in italiano in Eichmann a Gerusalemme, Micromega
2/98, pp. 253-270, trad. it. a cura di S. Fabian.
6
Bundesrepublik? del 1966, trad. it., Germania d’oggi. Dove va la
Repubblica Federale?, 1969).
Muore il 26 febbraio 1969, lasciando circa trentamila pagine di
appunti e un importante carteggio di cui, fino ad ora, sono stati
pubblicati i seguenti volumi:
Briefwechsel Jaspers-Bauer (1945-68), nel 1983; Briefwechsel ArendtJaspers (1926-69), nel 1985; Briefwechsel Jaspers-Hammelsbeck
(1919-69), nel 1986 e l’interessantissimo Briefwechsel HeideggerJaspers (1920-63), nel 1990. Del 1991 è la pubblicazione del Nachlass
zur philosophischen Logik.
7
2. L’INCERTEZZA COME METODO
Nella storia della filosofia del Novecento Jaspers occupa un
posto di rilievo vuoi per la sua collocazione mediana tra le filosofie
d’inizio secolo e quelle della seconda metà, vuoi per la centralità delle
problematiche affrontante nell’arco di una produzione che si estende
per più di un cinquantennio. Tuttavia, il valore e il significato della sua
opera non si riducono alla particolare “filosofia dell’esistenza” di cui,
insieme a Heidegger, è esemplare rappresentante, avendo per primo
introdotto in filosofia – lui che filosofo non era – tematiche che
sarebbero poi diventate topoi della riflessione del Novecento
(l’esistenza, la situazione limite, la
comunicazione…). La tradizione degli studi jaspersiani, infatti, tende a
fare del filosofo di Oldenburg un fenomeno a parte del tutto originale
che non ha lasciato una scuola. Allo stesso modo la letteratura,
soprattutto quella italiana,
tende a porre Jaspers in una posizione secondaria rispetto alla figura
dominante dell’esistenzialismo e del pensiero tedesco del Novecento
in generale. In alcuni casi Jaspers è stato persino ridotto a una
semplice nota di Essere e tempo di Heidegger (tre, per la precisione:
Parte I, sez. II, cap. 1, nota n. 6; cap. 2, nota n. 16 e cap. 4 nota n. 3).
Ma l’impulso a riformare le modalità della ricerca scientifica;
l’instancabile lotta per le libertà fondamentali nell’ambito della società e
della politica; il coraggio di prendere posizione nel campo minato del
rapporto tra ragione e fede, filosofia e religione; ma soprattutto
l’originale ventata di novità nella ricerca teoretica fanno di Jaspers un
filosofo a tutto tondo, che non ha mai rifiutato il compito di pensare
sempre e ulteriormente, e di dar da pensare, anche a rischio di uscire
dai canoni classici del pensiero logico-razionale. Anzi, l’esemplarità di
Jaspers può essere ritrovata proprio in quei paradossi che la sua
filosofia suscita e lascia insoluti, laddove si cimenta su questioni-limite
(ma non per questo marginali) per l’esistenza – quali la fede, l’amore,
la morte.
La ricchezza della sua speculazione risiede proprio nella vena
critica che muove ogni osservazione e che non si esaurisce in se
stessa, ma abbraccia l’intero filosofare in un movimento che può
diventare vortice autodistruttivo o circolo chiarificatore. Entrambi gli
esiti del resto sono possibili, e la consapevolezza di un simile rischio
non costituisce un freno per il pensiero. Il filosofare di Jaspers infatti
8
– come la vita di cui è specchio e riflessione – è un pensiero che non
arretra di fronte al paradosso ma che, al contrario, assumendo su di sé
la fatica del concetto, se ne arricchisce.
Ora, un pensiero del paradosso non richiede una lettura
diacronica, anche se questa è sempre possibile e in alcuni casi
necessaria. Al contrario, la fecondità del filosofare risiede nella
particolare articolazione delle problematiche che si ripresentano
sempre sotto orizzonti diversi ma che, nell’arco dell’intera produzione,
non escono dalla comune Weltanschauung. Vale per Jaspers quello
che egli stesso scrive di Cusano: « Giova dal punto di vista biografico
leggere gli scritti nella loro successione cronologica; ma la cosa
essenziale è cogliere quell’unità che in essi traspare come sempre la
stessa » (GP, trad. it. p. 858). Il suo pensiero, infatti, si articola in un
movimento che continuamente ritorna in sé, con sempre nuove
ricapitolazioni: le tematiche non cambiano, le analisi esistenziali si
approfondiscono. Una tale modalità del filosofare può deludere alla
lunga ma, secondo Jaspers, non si dà altro filosofare che questo: un
continuo ritornare su questioni-limite, che sono le situazioni esistenziali
in cui l’uomo incontra se stesso, allo scopo di chiarificarle e illuminarle
affinché in un istante, all’interno della costante lotta per il senso, sia
possibile scorgere, in una crescente luminosità, la presenza di segni
chiarificatori di un senso ulteriore.
Una delle migliori introduzioni alla lettura di Jaspers è data da
Hannah Arendt, nel suo Was ist Existenzphilosophie?: « È impossibile
presentare l’autentico contenuto della filosofia di Jaspers nella forma di
un resoconto, poiché l’essenziale di tale contenuto non si trova nei
percorsi e nei movimenti del suo filosofare. Lungo tali percorsi si è
avvicinato a tutte le questioni fondamentali della filosofia moderna,
senza tuttavia rispondere ad una sola di esse con un risultato positivo
o fissarne una in forma definitiva. Ha mostrato alla filosofia moderna,
per così dire, i sentieri su cui essa dovrà procedere se non vuole
6
perdersi nei vicoli ciechi del fanatismo positivista o nichilista » .
Del resto, all’indagine filosofica così come all’esistenza non è
dato di uscire dal finito, ossia dalla situazione storica nella quale
l’uomo si viene a trovare, ma solo approfondirlo e chiarirlo sempre e
ulteriormente, percorrendone i sentieri sino alle situazioni- limite allo
scopo di rinvenire in esse le tracce, le cifre dell’infinito o di ciò che può
fornirne un senso. Si tratta quindi di preservare, custodire e aprire lo
spazio per un filosofare ulteriore, nella consapevolezza che solo una
disposizione di costante tensione “aperitiva” può consentire il salto dal
penultimo all’ultimo, dal finito all’infinito. Salto che, però, Jaspers
9
stesso non compie, volendo egli percorrere a pieno le vie della
finitezza (o le « prigioni della finitezza », Gefängnis des Endlichen; cfr.
VE, 12; 25), che sono le uniche concesse all’esistenza come il suo più
proprio, anche se a essa non bastano mai (cfr. KS, 171; 155). Sarà
infine proprio la radicalità della “opzione aperitiva” a far sì che l’ultimo o
l’oltre, in quanto termine di un salto, venga a sfumare, non
rappresentando più propriamente un luogo da raggiungere o un
obiettivo da perseguire, e ceda il posto, in definitiva, allo stesso
movimento dell’oltrepassare, al vortice del trascendere (oltre la
trascendenza stessa).
H. ARENDT, Was ist Existenzphilosophie?, in ID., Sechs Essays,
6 L. Schneider,
Heidelber 1948, pp. 48-80; trad. it., Che cos’è la filosofia dell’esistenza?, a cura di S.
Maletta, Jaca Book, Milano 1995, p. 77.
10
1. INCERTEZZA ONTOLOGICA E PROSPETTIVA
METAFISICA
1.1. L’ESSERE TRA EQUIVOCITÀ E MULTIVOCITÀ
Non si comprenderebbe il pensiero di Jaspers se lo si
interpretasse come un pensiero sistematico. Al contrario, la sua
riflessione si sviluppa nella forma di una “sistematica aperta”, ossia di
un costante sforzo di superare le determinazioni concettuali stabilite
dall’intelletto senza per questo rinunciare a un metodo. Le determinazioni infatti chiudono gli oggetti in definizioni statiche e si
lasciano così sfuggire proprio l’essenziale di ogni atto conoscitivo: la
dinamicità e la sempre emergente ulteriorità della realtà che si ha di
fronte. Allo stesso tempo però, la volontà di sfuggire al sistema non
comporta la definitiva rinuncia a un metodo e a una struttura del
pensare che consenta una certa coerenza interna al pensiero stesso e,
in definitiva, il progresso della conoscenza. Questa assume pertanto la
forma di un sapere che si arricchisce sempre delle prospettive
differenti che guadagna nel momento in cui sperimenta la finitudine di
ogni singola prospettiva. Ciò vuol dire che la filosofia di Jaspers si
presenta al lettore come un’immane opera di appropriazione di
molteplici prospettive che, da punti diversi, indagano la realtà,
l’oggetto, la verità.
Tuttavia, la natura temporale dell’esistenza non consente alcun
possesso definitivo della verità né alcuna sua riduzione a una
prospettiva finita. La verità pertanto è la nostra via (cfr. W, 1; 3). Essa
è per noi il luogo della ricerca, della mediazione, dell’incertezza. Del
resto, noi non viviamo immediatamente nell’essere e questo non può
venire compreso se non a partire dalla soggettività dell’io indagante.
Ma questa condizione, propria di ogni oggetto, acquista una rilevanza
del tutto particolare per quell’unico oggetto-non-oggetto che è l’essere
stesso. Io, si legge all’inizio di Philosophie del 1932, « non ero all’inizio
e non sono alla fine. Eppure, situato tra l’inizio e la fine, domando
dell’uno e dell’altra » (PH, I 1; 111). Il pensiero filosofico di Jaspers si
pone immediatamente all’interno dell’orizzonte ontologico e il suo
cominciamento è il cominciamento della filosofia speculativa: « Io
7
cerco l’essere » (PH, I 1; 111) . Non che questo rappresenti, in tale
istanza, l’origine o il cominciamento assoluto (in linea con la dottrina di
ogni filosofia dell’esistenza che si rispetti, origine prima, sorgente
originaria, fondamento oscuro e inoggettivabile di ogni filosofare è, per
Jaspers, l’esistenza), al contrario un qualcosa che c’è, che si ha di
11
fronte e che pertanto è già dato come un primum, pur non essendo
ancora propriamente nulla per il pensiero. A esso l’essere si presenta
come una nebulosa di senso che la riflessione è chiamata a
chiarificare mediante approfondimenti successivi. Una nebulosa nella
quale l’esistenza si viene a trovare e che rappresenta per essa solo
l’inizio (Anfang) e non ancora l’origine (Ursprung).
Il filosofare assume quindi, già al suo cominciamento, la natura
dell’interpretazione che muove dall’essere come ciò che c’è e dalla
domanda intorno a esso allo scopo di andare oltre il semplice inizio per
scorgere invece l’origine: « È vero che noi possiamo porre la domanda
in modo originario, tuttavia noi non stiamo mai all’inizio » (RA, 394).
Tale domanda assume tutti i caratteri della domanda originaria e
si presenta nella doppia valenza di questione ontologica e questione
gnoseologica. Sul piano ontologico essa si chiede: “che cos’è
l’essere?”, “in che rapporto è con il nulla?” ed “essere e nulla, a loro
volta, cosa rappresentano per quel soggetto finito in divenire che sono
io?”. Mentre sul piano gnoseologico la questione si esprime nella
forma: “cosa posso conoscere dell’essere?” e “cosa posso comunicare
dell’essere che conosco?”.
Nella sua radicalità, tale domanda non è però univoca. Né lo può
essere, dal momento che investe l’intero variopinto orizzonte di ciò che
è, di cui fa parte anche l’io stesso che domanda. « La domanda
iniziale: “Che cos’è l’essere?” non ha trovato una risposta unica. La
risposta a questa domanda soddisfa solo chi, ponendola, riconosce in
essa il proprio essere. Ma la stessa domanda che chiede dell’essere
non è univoca, perché dipende da chi la pone. Per l’esserci come
coscienza in generale la domanda non ha alcun senso originario,
perché questa coscienza si disperde nella molteplicità dell’essere
determinato. Solo dall’esistenza possibile nasce la passione che fa
porre in questione l’essere in sé al di là di tutto l’esserci e di tutto
l’essere-oggetto, ma la risposta definitiva non le giunge da un sapere
determinato. Ciò che c’è è l’apparire non l’essere, e neppure il nulla »
(PH, I 19; 131).
Già Aristotele, del resto, sapeva bene che l’essere si dice in molti
modi (cfr. Metafisica, IV, 2, 1003a). Ora però, la riflessione
jaspersiana, assumendo su di sé tutta la problematicità della
speculazione sulla coscienza propria del primo Novecento, intende
questa non univocità in modo fondamentalmente tragico ed
esistenziale: come il naufragio della volontà di unificazione
dell’intelletto e come l’apertura di uno spazio indefinito e variopinto
all’interno del quale l’io conosce e agisce. L’elemento tragico e quello
12
esistenziale convergono laddove il fallimento dell’univocità ammaestra
l’io sulla natura dell’essere e del se stesso. Anzi proprio il fallimento è il
momento fondamentale dell’accertamento dell’essere stesso e dell’io,
senza il quale l’intero movimento della coscienza non avrebbe luogo.
In definitiva, la questione aristotelica dell’essere è posta in Jaspers
sulla scorta della speculazione hegeliana e della sua dissoluzione
operata da Kierkegaard e Nietzsche: l’univocità è rotta tragicamente
per l’esistenza che si trova a essere interpellata da questa stessa
rottura. Parafrasando il Principe di Danimarca, Jaspers afferma che «
l’essere è disarticolato [aufgelöst] » e che all’io tocca la missione di
10
rimetterlo in sesto (cfr. PH, III 36; 972) .
La rottura della dizione univoca dell’essere assume i caratteri
tragici a causa di una duplice inadeguatezza. Da un lato l’oggetto della
domanda originaria non è un oggetto, ma appare lacerato nelle
determinazioni dell’intelletto al punto che non
è propriamente nemmeno più un qualcosa di determinato, ma un
abisso, quasi un nulla; dall’altro colui che pone la domanda non è
situato al di fuori dell’orizzonte dell’essere, ma al suo interno come un
essere tra gli altri, con la conseguenza che di fronte alla non univocità
dell’orizzonte di riferimento la domanda stessa in definitiva si risolve in
un paradosso e in un labirinto. Questo perché l’essere non è oggetto
né l’orizzonte dell’apparire dell’oggetto, quanto piuttosto quel qualcosa
che
è al di là degli orizzonti particolari all’interno dei quali solo è possibile
l’apparire dell’oggetto e il domandare intorno a esso: l’essere è quindi
l’orizzonte degli orizzonti.
Questa doppia inadeguatezza della risposta univoca alla
questione dell’essere impone al filosofo del Novecento una via lunga
fatta di approfondimento, di chiarificazione ma anche di fallimento e di
naufragio. La non univocità della domanda richiede infatti, secondo
Jaspers, una risposta altrettanto non univoca (cfr. PH, I 19; 131) . E la
non univocità della risposta è per il pensiero che indaga, al tempo
stesso, equivocità e multivocità. Equivocità che abbatte le pretese
11
dell’intelletto che ordina, cataloga e tende alla conoscenza di un
oggetto per il soggetto (cfr. EP, 15; 19); multivocità che stimola la
12
ragione che, in quanto facoltà dell’infinito , accoglie le diverse
possibili risposte non come un fallimento della
10 Cfr. W. SHAKESPEARE, Hamlet, I, 5, vv. 188-189. Questa esclamazione di
Amleto è ormai un topos della riflessione filosofica del Novecento. Jacques Derrida, per
esempio, utilizza questo stesso verso di Shakespeare per descrivere il decostruirsi del tempo
da cui nasce – per il filosofo che non appartiene più al proprio tempo e non si riconosce nella
contemporaneità, che è quindi inattuale – il desiderio di giustizia quale unico indecostruttibile
(cfr. J. DERRIDA, Spectres de Marx. L’etat de la dette, le travail du deuil et la nouvelle
13
comprensione, ma come una ricchezza che, pur abbattendo le pretese
dell’intelletto, apre lo spazio per una comprensione autentica e per la
fondazione di una nuova “certezza”.
Ora, allo scopo di chiarire quali siano per Jaspers il senso e le
possibilità di questa nuova “certezza” è necessario indugiare in una più
attenta, e lunga, riflessione sulle possibilità di dizione tanto della
domanda intorno all’essere quanto della sua risposta, e in definitiva
sulla natura dell’essere che io stesso sono. Si tratta pertanto di seguire
una via che non muove tanto dall’essere come cominciamento, quanto
piuttosto dalla sua questione, dalla sua indeterminazione e
13
dall’incertezza che ne deriva per il soggetto .
L’INCERTEZZA DELL’ESSERE: DETERMINAZIONE E
1.2.
INDETERMINAZIONE
« Noi – scrive Karl Jaspers nel suo Existenzphilosophie del 1938
– come indagatori di noi stessi ci muoviamo nell’essere
onnicomprensivo che noi siamo, in modo da farci oggetto il nostro
stesso esserci, operiamo su di esso, trattiamo con esso, ma al tempo
stesso questo ci fa capire che noi non ce ne impadroniamo mai, fuori
del caso in cui, come incomprensibile, lo dissolviamo totalmente » (EP,
19; 23).
La riflessione filosofica intorno all’esistenza muove dalla questione
dell’essere. Tale inizio non poteva essere altrimenti. Premesso infatti
che per Jaspers il pensiero non deve porre limiti alla ricerca, ma al
contrario deve trovare nei limiti oggettivi della scienza e dell’esistenza
stessa (le “situazioni-limite”) l’occasione per filosofare sempre e
ulteriormente, e dal momento che
10
Internationale, Paris 1993; trad. it., Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del
lutto e nuova Internazionale, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994).
11
Il termine “intelletto” va inteso nel significato kantiano che Jaspers assume.
Come è noto, infatti, Kant rovescia la nozione classica che intende l’intelletto come facoltà che
coglie i primi principi e lo intende, al contrario, come facoltà della determinazione categoriale.
12
Ancora secondo il rovesciamento operato da Kant.
13
Anche Sein und Zeit si apre con un accenno alla perplessità intorno alla nozione
di essere. La citazione dal Sofista platonico (244 a), posta a esergo dell’intera opera, ruota
infatti intorno alla situazione di perplessità di fronte all’espressione «essente» e, ancor più, si
sofferma a sulla mancanza di coscienza di tale incertezza dell’uomo nei confronti dell’essere.
La prospettiva heideggeriana è costantemente presente nell’opera di Jaspers. ma questa si
muove su altri binari, in alcuni casi paralleli, ma anche svincolati dall’analisi esistenziale
dell’amico e collega. È da rilevare, però, che il riferimento all’incertezza e alla perplessità sia
una tonalità costante nella riflessione del Novecento, e la contemporaneità di speculazioni
simili e diverse come quelle di Heidegger e Jaspers non è che una conferma di questa ipotesi.
14
l’orizzonte onnicomprensivo del mondo, dell’esistenza e della ricerca
filosofica in generale è segnato proprio da quell’essere che si dice in
molti modi e che qui si indaga, si tratta di un inizio tutt’altro che
arbitrario, bensì del cominciamento. In questo Jaspers pare
concordare con lo Hegel della Logica. Ma mentre questa esprime il
movimento interno dell’Idea nell’inarrestabile processo dialettico per il
quale l’inizio, se tale rimane, permane nell’inessenziale, la Logica
jaspersiana dal canto suo, forte della singolare esperienza
kierkegaardiana e dell’eccezionale coraggio nietzschiano, si sofferma
sul domandare. La domanda sull’essere infatti non è una domanda
univoca e come tale richiede una risposta altrettanto non univoca (cfr.
PH, I 19; 131). Se per il filosofo greco la plurivocità dell’essere apre
alla possibilità di una classificazione dei modi del “dire” l’essere stesso
e per il filosofo dell’Ottocento questo, come determinazione astratta,
dilegua subito nel nulla; per Jaspers, filosofo del Novecento, la
plurivocità dell’essere si moltiplica a dismisura in una vertigine di
fenomeni che fa sì che l’essere stesso venga quasi a svanire nel nulla.
Nonostante tutto, Jaspers non si esime dal tentare una dizione dei
modi dell’essere, pur sapendo che questi non esauriscono l’essere
stesso, anzi al contrario, se presi singolarmente, lo falsano.
In tutta la sua problematicità, la questione così come si presenta
alla riflessione jaspersiana può essere formulata in modo analogo al
principio di indeterminazione di Heisenberg: l’osservazione e la
conoscenza dell’essere sono condizionate dalle modalità e dalle
tecniche stesse di osservazione e di conoscenza, di modo che si può
affermare che esista una certa indeterminazione in ogni conoscenza
acquisita di qualsiasi essere.
Una volta chiarito che per “indeterminazione” s’intende cosa ben
diversa dal normale “errore” sperimentale o logico, l’essere osservato
con i lumi dell’intelletto pare di conseguenza non essere più
propriamente l’essere, ma, secondo le modalità della conoscenza
umana – che è una conoscenza determinata – è di volta in volta un
essere. Non si tratta cioè di un errore, ma del modo stesso di essere
dell’essere nel suo manifestarsi, che si dà solo nella forma di un
essere determinato. L’essere, infatti, è inafferrabile di per sé;
concepirlo vorrebbe dire già tradurlo in un essere determinato (cfr. PH,
I 4; 115). Al contrario esso si presenta solo in una multivocità
variopinta di segni che permettono di coglierlo in molti modi che però,
a loro volta, non sono l’essere.
La multivocità dell’essere impone a Jaspers un procedere per
schemi e semplificazioni che spesso rischia di isterilire l’intero
discorso, ma attraverso i quali è possibile rinvenire l’urgenza propria
del filosofare autentico. L’autore non si esime dal percorrere a pieno le
vie della determinazione e della finitezza, ma lo fa allo scopo di aprire
15
la possibilità, per il lettore, di scorgere nelle pieghe della stessa
determinazione categoriale la via o le vie del possibile trascendimento
oltre le formulazioni fisse dell’intelletto. In questo si evidenzia la
formazione prettamente scientifica del filosofo Jaspers e allo stesso
tempo l’esigenza di ulteriorità che nasce dall’esperienza
dell’inadeguatezza delle stesse categorie scientifiche. È quindi compito
del lettore, come afferma Jaspers stesso riguardo al filosofare di
Nietzsche, superare le asperità del linguaggio e del periodare
schematico al fine di cogliere il movimento originario del pensare.
Secondo l’arida determinazione schematica dei suoi “modi”,
l’essere si dice fondamentalmente come esser-oggetto, esser-io,
essere-in- sé. Ognuno di questi modi mostra l’essere, ma non lo
esaurisce: la filosofia della conoscenza (lo studio dell’esser- oggetto),
la filosofia dell’esistenza (la chiarificazione dell’esser-io) e la metafisica
(l’indagine intorno all’essere-in-sé) non sono quindi che « prospettive
per il pensiero » (PH, I 6; 117), cioè delle possibilità per quella
coscienza che nel suo esserci temporale esiste nella situazione in cui
si trova e, a partire da essa, pensa e agisce.
Queste possibilità però rimangono tali, dal momento che nessuna
di esse, singolarmente presa, può arrogarsi il merito di cogliere
l’essere. Più che una catalogazione dei modi dell’essere quindi,
Jaspers, nelle varie opere in cui affronta la questione dell’essere,
redige il resoconto delle perdite e dei fallimenti nella ricerca, da parte
del pensiero, del proprio oggetto.
L’ essere come oggetto è un dato. E come tale è indagato dalle
scienze esatte secondo le regole dell’intelletto il quale, determinando il
proprio oggetto, ne perde inevitabilmente l’originarietà: l’esser-oggetto
infatti non è in alcun modo l’essere. L’essere-in-sé invece rimane nella
sospensione propria della metafisica kantiana: non è esperibile né
indagabile con le categorie dell’intelletto umano e pertanto rimane del
tutto inaccessibile e, nella sua assoluta alterità, è quasi un nulla per il
pensiero (cfr. PH, I 13; 124 e EP, 19; 23). Ma, come già Schopenhauer
aveva notato, tra la chimera noumenica e la trascendentalità delle mie
facoltà conoscitive vi è un termine medio che stabilisce un contatto e
che apre una via d’accesso privilegiata alla cosa-in-sé: è l’essere che
io sono. L’indagine intorno all’essere si rivolge pertanto a quella forma
particolarissima di essere che è l’essere nel modo dell’esser-io, quale
autentico, nonché l’unico, luogo di una possibile esperienza dell’essere
in quanto tale. A sua volta l’essere che io sono – secondo il tipico
argomentare per schemi di Jaspers – si dice fondamentalmente come
16
esserci (io come immediata comprensione, come questo corpo
costantemente avvertito, qui e adesso), coscienza in generale (io
come identico e sostituibile a ogni altro, in quanto soggetto della
coscienza oggettiva e universale), spirito (io come comprensione della
totalità in astratto) e come esistenza possibile (io come sorgente
originaria, fondamento oscuro e inoggettivabile, volontà incondizionata
di sapere e agire: libertà e possibilità). Anche l’io dunque si dice in
molti modi: corporeità immediata, soggettività che si rapporta
intenzionalmente a delle oggettività, pensiero che è in rapporto a tutto
ciò che è intelligibile e, infine, essere che si relaziona alle sue
possibilità. L’autenticità del mio essere, nonché l’unificazione dei modi
dell’esser-io, è però data fondamentalmente nel mio essere esistenza.
Ma questa, ancora una volta, non è definibile di per sé né
oggettivabile, poiché non è l’ambito di un essere oggettivo bensì
dell’essere possibile. È quindi un rapporto, un nesso in tensione che è
chiarificabile unicamente come manifestazione dell’essere nel suo
modo d’essere come libertà. Tale manifestazione si realizza all’interno
del supporto temporale: è nel tempo, infatti, che si ha la
manifestazione dell’essere; in esso l’essere, di per sé inaccessibile,
diviene un essere determinato; in esso si realizza quel singolare nesso
che è l’esistenza (nesso io-situazione, io-altro, io-trascendenza); e
infine è ancora il tempo lo spazio di dispiegamento della libertà come
originario ambito di realizzazione dell’uomo nel suo pensare e nel suo
agire.
Ora la temporalità dell’esistenza segna profondamente quella via
d’accesso privilegiata all’essere che io stesso sono. Scandito dal
diaframma del tempo, il pensiero dell’essere non può che essere un
pensiero di volta in volta determinato e parziale. Qualora il pensatore
del Novecento volesse quindi tentare di dire l’essere che si trova al di
là delle determinazioni in cui pare manifestarsi, ossia dei suoi modi,
ovvero qualora volesse tentare una comunicazione dai caratteri
universali e universalmente validi dell’essere stesso, si troverebbe
inevitabilmente di fronte allo scacco del suo svanire nel nulla (cfr., tra
gli altri, PH, I 2; 111 ed EP, 14; 18).
Questo perché i molti modi in cui si dice – singolarmente presi –
finiscono per tradire l’essere e, allo stesso tempo, disorientano il
21
filosofo che si sa non più in grado di elencarli tutti né, d’altro canto,
ha più la forza di pensarli dal punto di vista dell’Assoluto (per
dominarne l’inevitabile nullità). Al cospetto di queste possibilità, il
17
pensiero di Jaspers pare arrestarsi nell’incertezza di fronte all’essere e
al compito di dirlo tutto o da parte del tutto.
La situazione in cui si trova Jaspers nei confronti della questione
dell’essere è analoga a quella, da lui stesso descritta, dell’interprete di
fronte ai frammenti di una montagna e di una costruzione. A partire
dall’inevitabile indeterminazione dell’essere, si comprende come
dell’essere non possa che esserci un’ermeneutica. E non
un’ermeneutica asettica e impersonale, quanto piuttosto una pratica di
appropriazione (dell’essere) che coinvolga personalmente l’interprete
(l’esser-io) nella partecipazione al movimento originario che ha
prodotto i frammenti e che, ora, non è più ricostruibile.
Jaspers però è cosciente del fatto che anche un’interpretazione
dell’essere come esser-io non può condurre a qualcosa di
universalmente valido, o a una scienza, ma solo all’esperienza singola
dell’essere che io sono. Di fronte all’incertezza pertanto il pensiero può
decidere uscirne in vari modi, ovvero può decidere di rimanere in essa,
ancora in diversi modi. Ma dal momento che ogni via d’uscita
equivarrebbe a una fuga dal problema stesso che lascerebbe insoluta
la domanda (poiché ogni nuova certezza si presenterebbe subito come
una certezza determinata o come certezza di un essere determinato),
a Jaspers non rimane che soggiornare nell’incertezza, magari
acuendone i paradossi e le ambiguità, allo scopo di scorgere in essa
segni, possibili rimandi, o il modo stesso di darsi di quell’essere che
non si può dire altrimenti. Si sofferma pertanto sul fatto che tale essere
(anche nel modo dell’esser-io) inevitabilmente gli sfugge, ma allo
stesso tempo tenta una via del pensiero (insieme semplice e
inattuabile, o inattuale) che dica con le categorie del pensiero (peraltro
imprescindibili per noi) ciò che non è oggetto del pensiero stesso.
Il fallimento della dizione dell’essere – della sua scrittura in un sistema
razionale chiuso che, peraltro, comporterebbe inevitabilmente la sua
caduta nel nulla della fissa determinazione – mostra l’essere nel suo
annunziarsi senza per questo oggettivarlo, e, d’altro canto, ammaestra
l’uomo intorno alla natura del pensare stesso e in definitiva sulla sua
stessa umanità.
1.3. L’INCERTEZZA DEL QUALCOSA: L’UOMO E IL MONDO
Nella tradizione filosofica della modernità, del resto, la soglia del
pensiero, ossia quello spazio guadagnato il quale è possibile cogliere
contemporaneamente il suo limite e le sue possibilità, ha assunto
18
sempre più il ruolo di luogo privilegiato della ricerca, di modo che
diviene più fecondo il limite che il “qualcosa” stesso. Un tale sporgersi
sul limite (sulle situazioni-limite) non è però frutto di una scelta
arbitraria, ma è dovuto alla natura stessa del “qualcosa” che non pare
essere assolutamente al sicuro. Nella prospettiva jaspersiana, infatti,
allo svanire dell’essere fa da contrappunto l’ambiguità dell’ente stesso
che pare anch’esso sfuggire a ogni determinazione univoca e si viene
a dire in molti modi.
Il mondo, per esempio, inteso come la totalità dell’essere nello
spazio e nel tempo, si manifesta frammentato (cfr. PH, I 64; 180 o KS,
26; 25) e il suo sapere – la scienza, come sapere orientato agli oggetti,
che legge l’essere nelle sue manifestazioni determinate come ciò che
27
ha di fronte, come oggetto – è indefinito e indeterminato . La sua
conoscenza si presenta infatti come quel sapere determinato di un
oggetto che organizza i propri contenuti in un’unità sistematica allo
scopo di dominare l’indefinito cui esso comunque è sempre
inevitabilmente rimandato. Questo perché la scienza studia l’essere
separato, ossia l’esser-ci determinato nello spazio e nel tempo. E tale
esser-ci, non essendo l’essere in sé, viene compreso in un sapere
costantemente vincolato al sistema di riferimento, la cui unità (l’unità
infatti è il fine della scienza) è pur sempre l’unità di un mondo, mai
l’unità assoluta. Dice Jaspers: « Noi infatti siamo certi di oggetti finiti
nel mondo ma mai del mondo come di una totalità » (PH, I 95; 213) o,
in modo ancora più forte: « Manca l’Uno a tener insieme il Tutto » (KS,
23; 22).
Questa sua natura parziale e indefinita fa sì che il cammino della
scienza sia di per sé interminabile e che il progresso cui dà moto non
abbia limiti (cfr. PH, I 87; 205). Ed è un rilievo importate questo, dal
momento che la scienza per sua stessa definizione è un sapere finito
che per dare ragione del suo senso necessita, a sua volta, di un
sapere del limite (cfr. PH, I 88; 207). Ponendosi come indagine
determinata riguardo all’oggetto, essa è infatti un sapere vincolato e
28
limitato che alla lunga delude
se non si risolve nel sapere della
limitazione stessa e della determinazione; e sebbene il progresso sia
esso stesso per natura indeterminato, nell’indeterminatezza assoluta
non ci potrebbe essere alcuna forma di sapere scientifico.
Questa del resto, nota Jaspers, non è la sola ambiguità della
ricerca scientifica (ambiguità che, peraltro, pone in essere, allo stesso
tempo, quello sbilanciamento e quella tensione che rappresentano
proprio il motore della scienza stessa). Essa in quanto sapere
dell’oggetto è fine a se stessa, ossia tende autonomamente alla sua
19
realizzazione in un orizzonte determinato, senza cioè la necessità di
alcun ricorso alla metafisica (cfr. PH, I 135; 255: « la scienza autentica
si realizza senza metafisica »). Ma allo stesso tempo, proprio in quanto
sapere del limite, la scienza invoca la metafisica come suo naturale
completamento (cfr. PH, I 135; 254: « la scienza provvista di senso si
realizza attraverso la metafisica »): il limite invoca il superamento del
29
limite stesso . E la metafisica infatti, in quanto pratica
dell’oltrepassamento del limite o del trascendimento, viene in soccorso
della scienza indagatrice dell’oggetto che – ferma alla determinazione
30
– non esce dal mondo (cfr. PH, I 135; 254-255) .
28
Si legge nel citato La natura e il valore della scienza: « la conoscenza
scientifica delle cose non è la conoscenza dell’Essere. […] La conoscenza scientifica
non può in nessun modo fornire delle mete ideali per la vita […]. La scienza, allo
stesso modo, non può darci nessuna risposta alla questione che riguarda il suo
stesso significato ». In definitiva, i limiti della scienza « hanno dato luogo alla più
amara delusione, tutte le volte che ci siamo aspettati dalla scienza ciò che essa non
è in grado di fornire » (op. cit., p. 117).
29
Jaspers cita, a questo proposito, Tolstoj: la scienza « è assurda perché
non dà alcuna risposta all’unica domanda che a noi importa: che cosa dobbiamo
fare? Come dobbiamo vivere? » (MW, 96; 84).
30
Il mondo infatti, pur inalienabile dimora dell’esser-io, è tanto
insufficiente come orizzonte vitale che lo slancio metafisico diviene esigenza salvifica
di fronte allo “sconforto dell’esserci” (Hilflosigkeit des Daseins). Così Philosophie: «
Per me il mondo non è solo l’oggetto di un sapere che posso lasciar
indifferentemente sussistere, perché in esso c’è il mio essere autentico che non mi
lascia tranquillo. Il coraggio di superare il cieco sconforto dell’esserci genera quel
timore che nasce per tutto ciò che nell’esserci importa, e che nelle situazioni-limite è
messo in questione » (PH, II 205; 680 – corsivo mio).
20
Similmente l’uomo si dice in molti modi, al punto che per un filosofo
del Novecento risulta arduo parlare di “umanesimo”. « Umanesimo si dice
in molti sensi » (NH, 21; 13). È questo l’incipit della conferenza Über
Bedingungen und Möglichkeiten eines neuen Humanismus del 1949, nella
quale Jaspers tenta uno scandaglio delle possibilità di un nuovo
umanesimo muovendo dalla constatazione, proprio di matrice pascaliana,
che « l’uomo è più di quanto può conoscere di se stesso » e che, « per
quanto si descrivano gli uomini di oggi, essi restano nell’ambiguità, né
sono riconducibili a un unico tipo » di modo che « qualunque immagine
31
dell’uomo rappresenterebbe già una limitazione » (NH, 22-23; 14-15) .
Per la fisiologia l’uomo è corpo, per la psicologia è anima, per la sociologia
è essere sociale… etc., ma in generale esso sembra cadere nel nulla (cfr.
NH, 23; 13). Tuttavia, proprio in questo naufragio nella « palude » (cfr. NH,
24; 14) della nozione di umanità, l’uomo può divenire cosciente di ciò che
è e che non può mai essere annientato, ossia del suo stesso essere che,
nel movimento metafisico, si spinge oltre se stesso e « trova pace solo in
ciò che cerca, ma non è » (NH, 24; 14). Il limite si presenta quindi come
condizione di dicibilità dell’essere: ciò « che esteriormente è
determinazione e limite, rileva Jaspers, interiormente è manifestazione
32
dell’essere autentico » (PH, I 16, 127) .
In definitiva, l’incertezza derivante dal principio di Heisenberg, secondo il
quale non è possibile determinare simultaneamente la posizione e il
momento di una particella, può essere metafora dell’incertezza dell’uomo
di fronte (angesichts) all’indeterminazione dell’essere del quale non è
possibile determinare simultaneamente la sua natura interna (l’essere-insé), il suo apparire determinato in oggetti (l’esser -oggetto o il mondo), il
suo manifestarsi nell’io stesso (l’esser-io o l’uomo) … etc. Molteplici
registri sono, infatti, necessari per l’interpretazione dei modi in cui l’essere
33
pare lacerato al punto che rischia quasi di cadere nel nulla . Ora, la
lettura dei modi in cui l’essere si manifesta nell’indeterminata
determinazione del mondo o dell’io rappresenta per la coscienza filosofica
la soglia oltre la quale si dispiegano le possibili vie alla trascendenza. Ma
lungo la via per la trascendenza, ossia oltre la soglia dell’essere
determinato, s’incontra inevitabilmente il nulla come possibilità
imprescindibile.
31
Come è stato notato (cfr. R. CELADA BALLANTI, Umanesimo e Liberalität in Karl
Jaspers, in AA.VV., Etica e destino, Il Melangolo, Genova 1997, pp. 179-185, in particolare pp.
189-190), vi è una certa affinità tra la lettura dell’umanesimo di Jaspers e la concezione
heideggeriana del Brief über den Humanismus. Per esempio in KS, 59; 53: « Ognuna di queste
determinazioni [zoon logon echon, zoon politikon, homo faber, homo laborans, homo oeconomicus]
coglie un aspetto peculiare dell’uomo. Ma manca in esse ciò che è decisivo: l’uomo non va colto
come un Esser-così, come peculiarità, dimensione che sempre ritorna in tali definizioni del suo
Essere. L’essere dell’uomo, piuttosto, è in movimento incessante: l’uomo non può restare così
com’è. Si trova in una situazione comunitaria in perpetuo movimento. Non è, come gli animali, un
essere che si ripete nella compiutezza di generazione in generazione. Va al di là di come è dato a
21
1.4. L’ESSERE E IL NULLA
L’indagine nella quale la coscienza filosofica ha indugiato di fronte alla
possibilità del nulla è venuta assumendo, nei secoli, la forma della
Grundfrage («perché c’è qualcosa in generale piuttosto che il nulla? »
Tuttavia, secondo Jaspers, le varie risposte fornite dalla tradizione non
escono dal comune errore di voler ridurre la questione dell’essere a
un’argomentazione filosofica (seppur questione-limite). Così, per Leibniz,
si può retrocedere all’infinito lungo la via delle cause accidentali senza per
questo ottenere alcun progresso nella ricerca della risposta, e questo
implicherebbe la necessità logica di un principio che risieda al di fuori della
serie stessa. Per Kant, invece, l’uomo non può esimersi dal provare
vertigine di fronte al pensiero abissale di un essere al di là o dal provare
orrore di fronte alla possibilità di un nulla.
Ebbene, osserva Jaspers, laddove Kant rimane fermo ai limiti della
ragione, Schelling rovescia il limite in possibilità, e dalla situazione del
non-sapere salta, mediante l’intuizione intellettuale, a una forma di
conoscenza del non-saputo che è pur sempre un sapere. « In Kant stando
sul limite v’è il più profondo non sapere, in Schelling c’è invece la
conoscenza del non-saputo » (S, 130).
Tale rovesciamento del limite in possibilità e del non sapere in
conoscenza del non-saputo, se da un lato ha il pregio di aprire la via della
trascendenza per un discorso che vuol dire con i caratteri del mito e del
simbolo l’essere stesso e la trascendenza, dall’altro non esce dalla
pretesa totalizzante propria del pensiero scientifico e si prefigura l’essere
e la trascendenza come oggetti e quindi come un possesso, anche se
nella forma di un non-saputo. Il pensiero dell’essere che emerge
dall’intuizione intellettuale pare quindi non cogliere ancora nel segno, in
quanto il salto dell’intelletto intuente schellinghiano fallisce il suo oggetto al
pari del movimento dell’intelletto scientifico volto alla determinazione del
suo oggetto: come detto, entrambi pretendono di ricondurre il non pensato
nella filosofia, e in tale pretesa mancano il loro oggetto.
In tutte le sue possibili dizioni, il pensiero dell’« è » permane come
una necessità ineliminabile e, allo stesso tempo, per sua natura pare
inscindibilmente connesso con il nulla. Secondo Jaspers, infatti, Schelling
ha l’indubbio pregio di aver posto la domanda fondamentale sulla via
dell’esistenza.
se stesso ». Ma mentre Heidegger ricava da tali osservazioni la radicale opposizione alla volontà di
potenza dell’humanitas da Platone a Nietzsche, per cui « ogni tentativo di restituire dignità alla
logora parola “umanismo” è destinato a cadere, inficiato com’è da un’idea di humanitas pensata a
partire dal presupposto dell’animalitas e della ratio » (R. CELADA BALLANTI, op. cit., p. 189), in
Jaspers manca la radicalità della Destruktion della cultura occidentale presente invece in
Heidegger, poiché Jaspers insiste sull’apertura della storia alla libertà ermeneutica e alla
responsabilità dei singoli nel mondo della possibilità, e non della destinazione chiusa.
32
« L’essere-Umgreifende è un essere in tempesta [Das Sein des Umgreifenden ist in
der Tat ein Sein im Sturm] » (W, 188-189; 88).
22
Egli parla di una domanda colma di disperazione,
«verzweiflungsvoll», che emerge dall’abisso della infelicità dell’uomo e
che se non trova risposta ogni cosa s’inabissa nel baratro di un nulla
senza fondo. Di qui la possibilità di una sua espressione mitica o
simbolica, che però, ancora una volta, non la esaurisce. La questione
infatti pare sottrarsi in tutti i modi alla presa filosofica, e l’errore della
teosofia tautegorica schellinghiana consisterebbe proprio nel voler
portare il non pensato nella filosofia come oggetto, oltre la cifra.
Forte quindi dell’esperienza dell’inadeguatezza di ogni risposta
alla questione fondamentale che voglia gestire un oggetto, Jaspers si
sofferma, più che sulla risposta (che non pare portare ad altro che al
naufragio delle possibilità intellettive) sulla domanda stessa che, già da
par sua, pone numerosi elementi discriminati. Cosa si intende per
questo “qualcosa”? È forse l’essere al di là dell’essere stesso
(epékeina tês ousías), il Super-essere o l’Oltre-essere (Überseiende) o
piuttosto il qualcosa concreto, ossia in definitiva l’ente? E, allo stesso
modo, il nulla è un nulla assoluto o piuttosto solo un nulla relativo, il
nulla di essere, il non-essere?
Come si è visto, l’essere non è il qualcosa. Il fallimento della
domanda « perché c’è in generale qualcosa piuttosto che il nulla? »,
che pur nella sua radicalità pare mancare il bersaglio, è già presagito
nella domanda stessa: infatti il pensiero può cogliere al massimo il
fatto che c’è il “qualcosa”, ossia, ancora una volta, l’essere determinato
e non l’Oltre-essere. Del resto, afferma Jaspers, la domanda « non
trova risposta in una ricerca o in un corso necessitante di pensiero »
(PGO, trad. it. p. 560), al contrario il pensiero « salta fuori dalla serie
quando si interroga intorno all’origine non del primo termine della serie
ma della serie intera » (PGO, trad. it. p. 563). Quindi solo la sorpresa
del fallimento di questo gioco del pensiero oggettivante, che, dal
momento che non dispone di un oggetto adeguato, inevitabilmente
esce dai cardini (out of joint!, direbbe Amleto) e naufraga, è occasione
per un approfondimento ma non più a livello teorico, bensì
esistenziale, pre-logico o addirittura vitalistico (cfr. PGO, trad. it. p.
560).
«Bisogna abbandonare il pensiero oggettivante – scrive
Pareyson in La “domanda fondamentale”: « Perché l’essere piuttosto
che il nulla » – accettando che ciò che si rivela esistenzialmente è
l’essere pur non essendo identico per tutti. Questa diversità attesta che
qui siamo nella sfera dell’inogettivabile, non trattandosi né di un
problema scientifico d’interpretazione intellettuale, né d’un problema
psicologico di descrizione, ma d’un problema esistenziale di
comunicazione. Un’autentica risposta alla domanda fondamentale non
è univoca proprio perché esistenziale, e sa cogliere l’essere anche
23
nella vertigine del pensiero e nell’abisso del nulla; essa non è autentica
se non dove la questione è posta in tutta la sua serietà, quando lo
stupore provocato dalla domanda esige l’approfondimento della
coscienza sino al nodo che vincola fra loro esistenza e trascendenza».
Del resto il pensiero speculativo non ha nulla da dire riguardo alla
verità dell’essere o al massimo può divenire « occasione » per un
maggiore approfondimento esistenziale. Esempio paradigmatico del
fallimento della volontà totalizzante della speculazione filosofica
riguardo alla questione dell’essere è la stessa dialettica hegeliana.
Secondo Jaspers, infatti, nemmeno la potente speculazione di Hegel
pare risolvere la questione, sebbene abbia il pregio d’aver colto
l’imprescindibile connessione di essere e nulla. Questo perché in essa
il puro essere è nulla, astrazione da tutte le finitezze e da tutte le
determinazioni e quindi, senza più alcunché di determinato, esso è il
puro nulla. Un nulla di essere, però, per cui l’uno e l’altro paiono
inseparabili e solo la dialettica del movimento speculativo riesce a
unificarli: l’essere è nulla e nel nulla si annida l’essere, e in definitiva il
nulla stesso è l’essere autentico nel divenire. Sulla via di questo
pensiero, nota Jaspers, trovano la loro giustificazione tanto l’ontologia
quanto il nichilismo. Entrambi (la dottrina dell’essere e la dottrina del
nulla) non sono però che « dei precipizi che rovinano l’esperienza viva
del pensiero dell’essere e la riducono ai fuscelli di paglia del pensiero
intellettuale ». La dialettica quindi è sì un movimento illuminante, ma
anche un inganno sofistico in cui il pensiero « si lascia svanire nel
vago » (PGO, trad. it. p. 557). « Ma questi pensieri – conclude Jaspers
– ci traviano verso l’assoluta mancanza di fondamento, verso il nulla
dell’irresponsabilità » (PGO, trad. it. pp. 557-558).
Al contrario, afferma Jaspers, domanda e risposta « sono guide,
seguendo le quali si chiarifica o si produce una disposizione interna »
(PGO, trad. it. p. 560). Come l’interpretazione di un testo di Nietzsche
rimane sterile se non si traduce in una concreta e personale
partecipazione al filosofare e al pensare, così non è certo nel processo
necessitante del pensiero o nelle visioni intellettive che la questione
fondamentale trova risposta. Anzi, per l’intelletto essa risulta sempre
più vuota e sterile tanto da venir abbandonata ed esclusa dal novero
delle entità conoscibili. Sembra quasi « uno scherzo fatto per ridere »
(PGO, trad. it. p. 560).
Ogni risposta possibile, nella sua inadeguatezza, ha senso solo
se interpretata come una cifra. E le cifre, nella loro varietà e ricchezza,
alimentano e accrescono ulteriormente il domandare originario di
modo che la reazione a catena della sorpresa, per un gioco forse
insensato, pare non avere termine (cfr. PGO, trad. it. p. 564). E del
24
resto il termine di questo gioco è inessenziale per Jaspers. Quel che
conta è che sia sempre l’uomo « il luogo in cui si verifica questo vario
manifestarsi, luogo come diversa presenzialità in tutti i modi della
totalità comprensiva [Umgreifende] che l’uomo è » (PGO, trad. it. p.
562).
Si chiede infatti Jaspers: che cosa rimane della domanda
originaria e della questione filosofica fondamentale nell’indeterminato
gioco delle risposte che, in quanto cifre, anziché risolvere, alimentano
il domandare e problematizzano ulteriormente? La risposta è
illuminante e semplicissima: rimane la « chiarificazione esistenziale
mediante il pensare in cifre e nell’oltrepassare le cifre » (PGO, trad. it.
p. 563), rimane l’esistenza.
1.5. « IO CERCO L’ESSERE CHE NON SI RISOLVE SOLO NELLO
SVANIRE »
Il nodo centrale della speculazione jaspersiana intorno all’essere
(sulla scorta dell’esperienza dell’equivocità e della multivocità
dell’essere stesso) è quindi il tentativo di comprendere, o almeno di
chiarire a livello esistenziale e indagare l’essere che non si risolve nel
semplice svanire (cfr. PH, I 2; 111). Del resto, tanto l’essere che si
risolve nello svanire oltre le determinazioni quanto quello che si lascia
dire tutto mediante le categorie dell’intelletto non dicono nulla
dell’essere che qui si indaga. E l’intero movimento della scienza, dal
canto suo, altro non è che questo rifiuto dell’essere nello svanire e la
ricerca dell’essere in sé.
Ora, sebbene da nessuna parte l’io abbia a che fare con l’essere
chiuso in sé (cfr. PH, I 18; 130), proprio quell’essere nello svanire che
è scartato dai costruttori del sapere scientifico è l’unico modo d’essere
dell’essere per il pensiero. Lo svanire, quindi, è l’oggetto della ricerca
filosofica che non vuole fermarsi all’oggetto (che, per definizione, non
può essere l’essere). Del resto, dice Jaspers, ciò « che c’è è l’apparire
non l’essere e neppure il nulla » (PH, I 19; 131) – anche se questo
essere che c’è è tanto poco l’essere di cui l’io andava in cerca che
pare quasi svanire nel nulla (cfr. PH, I 13; 124). Ora, la nullità di questo
essere che c’è è però l’unico modo dell’essere: l’essere si dà per me
sotto il segno della quasi nullità. Altrimenti detto, nel “divenire”. La
dialettica hegeliana sembrerebbe rispettata, in questo punto, ma con
uno slittamento che ne rivela, nell’interpretazione jaspersiana, il fondo
esistenziale. O, meglio, è Jaspers che legge la dialettica essere-nulla-
25
divenire nella sua valenza esistenziale. Nel divenire infatti (che è
divenire temporale) l’essere che appare (fenomenologia dell’essere)
porta con sé i due precedenti (l’essere e il nulla), ma il prodotto, ossia il
terzo, non è una nuova immediatezza come invece il terzo hegeliano.
Esso infatti mantiene al suo interno quella forte lacerazione che l’ha
generato, poiché in esso la duplicità rimane insuperabile: tanto
l’essere-in-sé della trascendenza quanto l’essere nella coscienza per
l’esistenza non sono l’essere, e in più non sono reciprocamente
commensurabili (cfr. PH, I 20; 131).
La dialettica jaspersiana dell’essere si presenta quindi come una
dialettica aperta in cui la memoria (Erinnerung) non è il medio della
conciliazione degli opposti ma, al contrario, la traccia che l’io porta con
sé dell’irriducibilità e dell’incommensurabilità degli opposti stessi. «
Non c’è alcuna concezione dell’essere in grado di abbracciare tutto
l’essere in cui ci troviamo. Questa è la mia situazione che, filosofando,
non dimentico » (PH, I 22; 133 – corsivo mio).
Che ne è quindi dell’essere? Si chiede Jaspers (cfr. W, 37). È
forse questo “diluirsi” dell’essere stesso in tutto ciò che
indeterminatamente si può dire che è? O è la “fissazione” (
starrwerden) del molteplice sensibile nell’essere categorialmente
determinato che è conosciuto? O infine è quell’essere di cui mi posso
accertare nel trascendimento di ogni oggettività mediante il pensiero?
(cfr. PH, I 23; 135). In ogni caso, l’essere si presenta come una magna
questio che non pare trovare una soluzione univoca: « l’essere, diviso
dalle domande che lo riguardano non può essere riconosciuto nella
sua unità » (PH, III 36; 972).
L’impossibilità di una risposta universalmente valida impone, in
conformità con quanto precedentemente rilevato riguardo alla teoria
dell’interpretazione, un ritorno sul domandante. Il fallimento della
domanda apre la possibilità di una riflessione sul soggetto stesso della
domanda. Non per una sorta di relativismo soggettivo di chi s’impone
come misura di tutte le cose – di quelle che sono in quanto sono e di
quelle che non sono in quanto non sono – ma per la necessità che
scaturisce dal fallimento stesso di ogni tentativo di determinazione
univoca. L’essere non si dà quindi nella comprensione. Esso, in quanto
abbracciante (Um-greifende) è di per sé in-comprensibile (Un46
). Ma l’in-comprensibilità dell’essere apre all’esistenza
greifende
come unico ambito per una possibile risposta. Soggettiva forse, e
quindi fallace o fallibile, ma una e non unica (cfr. PH, III, 416-417; 904906), e comunque sempre possibile risposta sull’essere.
26
« A questo punto l’esistenza diventa il segno per indicare la
direzione dell’autoaccertamento di un essere che non si può pensare
oggettivamente, né in termini di universale validità; è l’essere che
nessuno conosce e che nessuno può affermare nella pienezza del suo
senso, né riferendosi a se stesso, né riferendosi ad altro » (PH, I 19;
130-131).
L’uomo è l’unica via d’accesso all’essere, in quanto è anche
l’unico essere che è cosciente del proprio, pur inadeguato, essere.
Non si danno altre possibilità. Del resto «L’eterogeneità dell’apparire
(del fondo oggettivo nei fenomeni, della trascendenza dell’essere-in-sé
nelle cifre, dell’esistenza nella certezza della coscienza assoluta)
annulla in ogni sua direzione la consistente stabilità di un essere,
perché nel suo complesso questa eterogeneità mantiene l’essere, a
cui si rivolge la domanda dell’esistenza possibile nella realtà
temporale, in una lacerazione definitiva che investe alla radice anche
la domanda » (PH, I 21; 133).
La lacerazione (Zerrissenheit) dell’essere investe tutto l’essere e
rimbalza sulla domanda stessa che, come detto, non trova una
risposta univoca, ma segna anche il domandante che, in quanto tale, è
anche l’unico interpellato. Il filosofare è quindi questo movimento del
pensiero che ritorna sul soggetto il quale è chiamato a leggere e
interpretare personalmente l’essere così come esso si presenta, ossia
nell’apparire che come tale è nulla per il pensiero, ma che, come
apparire dell’essere, è un qualcosa carico di significato (pur non
essendo la verità): « il filosofare, attraverso l’apparire, coglie l’essere
nell’interpretazione delle cifre della trascendenza e nel pensiero che si
appella all’esistenza » (PH, I 20; 132). L’essere quindi può essere
scorto solo nel movimento riflessivo del pensiero che leggendo il
fenomeno come cifra dell’essere (dalla fenomenologia dell’essere
all’interpretazione delle cifre dell’essere stesso) non svela questo,
riducendolo di volta in volta a un essere determinato e così
perdendolo, come vorrebbe la conoscenza scientifica, ma si accerta di
esso. L’interpretazione dell’essere è quindi sempre una, mai unica
(ossia univoca e dogmatica). Ciò vuol dire che, trascendendone
l’oggettività (che però in quanto tale è solo un prodotto o,
kantianamente, una forma a priori del soggetto), il pensiero esperisce
l’inadeguatezza dell’espressione categoriale, peraltro imprescindibile,
e apre così all’accertamento dell’essere quale forma di conoscenza,
ancora categoriale, ma non più oggettiva. Fare filosofia pare quindi
voler dire, pascalianamente, beffarsi della filosofia. E tale inevitabile
farsi beffe della filosofia, ironico e tragico allo stesso tempo, è il
trascendere (cfr. PH, I 23; 134).
27
L’autentico essere, quindi, è da cercarsi solo nella trascendenza,
o nel trascendimento. Non certo attraverso la coscienza in generale
che indaga l’essere come un oggetto per un soggetto, ma tramite
l’esistenza. Questo perché l’ontologia (ossia la dottrina dell’essere)
può giungere solo a tradurre l’essere nei modi dell’essere stesso
senza per questo poter mai comprendere l’essere come unico; al
massimo essa può liberare il cammino per un ulteriore trascendimento.
« Oggi l’ontologia non vale più come metafisica, ma come teoria delle
categorie » (PH, I 24; 136). E ancora: « Qualunque cosa possa
pensare il pensiero mi crea solo lo spazio dell’io come esistenza
possibile che rimane sempre estranea al pensato » che, di per sé, ha
solo « conoscibilità relativa », è « possibilità », « appello », nulla di più
(PH, I 24; 136).
Ma come può una certezza chiarificatrice darsi in una
oggettivazione inadeguata? Del resto « l’essere, come essere-oggetto,
non sussiste da sé », ma è solo un ens rationis (PH, I 30; 143). Questo
sarà possibile solo se il soggetto è più e meno che soggetto:
nonostante il soggetto, l’io è altro. Nel fallimento della soggettività del
50
soggetto , l’io nella sua intenzionalità si rapporta a un essere nonoggettivo, e tale rapporto (ma è un rapporto impossibile!) è l’esistenza
51
(PH, I 28; 140-141) .
La prospettiva di una certezza fondata su di un impossibile
rapporto al non-oggettivo non può che abbattere il pensiero categoriale
(dell’intelletto) al pari dell’uomo che si limita a esserci senza svelare la
sua natura intimamente sbilanciata verso la trascendenza (cfr. PH, I
38, 152). Ma lo sconforto dell’esserci è al tempo stesso stimolo al
trascendimento: « Nello sconforto dell’esserci c’è in me lo slancio
dell’essere » (PH, II 204; 679). Il pensiero non è in grado di conoscere
l’essere, ma solo di chiarire l’esistenza, quando si fa pensiero attivo
nella vita stessa che attraverso il medio del linguaggio filosofico si
traduce in appello. Appello a trascendere. « Tutte le sue vie
conducono alla metafisica » (PH, I 32; 145).
«L’essere è rimasto in sospensione per l’incomprensibilità
dell’essere-in-sé. Esso è apparso come un limite nell’analisi
dell’esserci. Ma mentre l’essere-in-sé mi resta del tutto inaccessibile
perché, come assoluta alterità, è quasi nulla per il pensiero, io sono a
mia volta quell’io che è posto come limite all’analisi dell’esserci. Nella
ricerca dell’esserci è questo il passo ulteriore che bisogna compiere »
(PH, I 13; 124).
1.6. LA FONDAZIONE DELLA COSCIENZA DELL’ESSERE
28
Muovendo dallo sconforto dell’esserci quale irriducibile tonalità emotiva
riguardo all’essere, al mondo e all’io (frutto tanto dell’esperienza
vissuta quanto dell’argomentazione teorica), Jaspers ritiene che il fine,
e quindi anche il significato, della ricerca filosofica non debba in
definitiva consistere nella realizzazione di un sapere concreto riferito a
un oggetto, cosa che si addice esclusivamente al sapere delle scienze
particolari; al contrario, il pensiero filosofico, e in modo particolare quel
pensiero che si situa a pieno nel Novecento, vuole essere « la
trasformazione della coscienza dell’essere » (VE, 48; 81).
Questa espressione di Vernunft und Existenz del 1935, pone Karl
Jaspers all’interno della tradizione che intende la filosofia come
indagine ontologica, ma allo stesso tempo situa la riflessione del
filosofo di Oldenburg in una particolare prospettiva ermeneutica: le
possibili spiegazioni del significato dell’essere, infatti, sono altrettante
interpretazioni cui il filosofo è chiamato a dare spazio. Anzi, è
responsabilità del filosofo assicurare il libero spazio entro cui l’essere
possa emergere. « Non perderti negli oggetti della coscienza! Non
lasciarti distogliere dalla trascendenza! » (VE, 48; 81). Sono questi gli
imperativi che guidano l’indagine ontologica jaspersiana e che, come
tali, ne tracciano i limiti: gli oggetti e la trascendenza. All’interno di
questi elementi il filosofo si pone dal punto di vista della comprensività,
per cui ogni manifestazione dell’essere (ciascuno dei suoi modi) risulta
fondamentale e imprescindibile per l’inveramento degli altri modi e
dell’intero orizzonte onnicomprensivo. Tanto gli oggetti quanto la
trascendenza si modulano quindi in una sistematica vivente che è
scandita dalla temporalità dell’esistenza e che, come tale, ha nel
movimento e nel dinamismo il suo motore (cfr. PH, I 276; 398). Per
questo motivo Jaspers non chiama la sua un’indagine “ontologica”,
bensì “metafisica” – laddove per metafisica intende il movimento di
continuo oltrepassamento della situazione e del limite. Nella
prospettiva jaspersiana, infatti, l’ontologia è la cristallizzazione
dell’essere negli enti, essa è semplice « teoria delle categorie » (cfr.
PH, I 24; 136); mentre la metafisica è la sua fluidificazione dinamica
nella tensione che, dividendole, unisce esistenza e trascendenza.
Tensione che è mossa dall’originaria sproporzione dell’esistenza che,
per sua stessa definizione, è proiettata verso un’ulteriorità che la
segna nel suo intimo.
La filosofia, si diceva, è per Jaspers essenzialmente la trasformazione
(cfr. VE, 48; 81) o la formazione (cfr. KS, 44; 40) di una coscienza
dell’essere che, come tale, non deve essere coscienza di un essere né
tanto meno coscienza assoluta (ossia possesso totale e definitivo) di
un oggetto. Al contrario i modi dell’essere, ossia le modalità in cui esso
si viene a manifestare nello spazio del filosofare e nel tempo del
29
mondo in generale per la coscienza, sono, come i frammenti di una
costruzione ancora da venire, in reciproca connessione. Non si tratta di
tante visioni parziali, ma della sinfonia che solo nel comune rimando
reciproco (nell’idea) apre la possibilità di una comprensione.
Comprensione certo problematica, poiché fondata sull’impossibilità
della riduzione univoca all’unità, sulla certezza dell’assenza di un
fondamento universalmente valido ancorato a un oggetto e infine
manifestantesi in una serie di polarità (ragione ed esistenza, esistenza
e trascendenza, tempo ed eternità, etc.) che non si risolvono in
semplici antitesi, ma che nella tensione si chiariscono vicendevolmente
ma incessantemente.
Ogni modo nel quale l’essere si manifesta pare differire in poco
dall’altro. Il compito che la ragione filosofica jaspersiana si propone è
pertanto quello di fare chiarezza allo scopo di distinguere pur
nell’assenza di fondamento oggettivo, per esempio, l’esistenza dalla
vitalità dell’esserci (l’Existenz dalla Daseinvitalität), la trascendenza
dalla natura, etc. (cfr. VE, 49; 82).
A partire quindi dalla questione dell’essere, Jaspers definisce la
ricerca filosofica come l’azione dell’aprire e del tenere aperto lo spazio
dell’essere per l’esistenza libera, che però non sia, per questo, sciolta
da qualsiasi vincolo (cfr. EP, 12; 15: « L’essere inteso come lo spazio
vastissimo dell’abbracciante da cui si muove incontro a noi ciò che di
volta in volta per noi è l’essere »). La libera interpretazione dei modi
dell’essere infatti, è tale in quanto libera da condizionamenti ma non
arbitraria, bensì essa si dà all’interno di un orizzonte. Un vincolo
permane comunque insuperabile per l’esistenza: ed è la mia storicità.
Solo questa mi restituisce al mio essere non come puro e astratto
carattere ontologico, ma come autentico essere mio.
Come si vede, lo sforzo costante di Jaspers è quello di operare
rovesciamenti; il rovesciamento del limite, per esempio, in possibilità: «
Ciò che esteriormente è determinazione e limite, interiormente è
manifestazione dell’essere autentico » (PH, I 16; 127). Concreto ma
non disperso nella contingenza, l’io indaga il proprio essere storico allo
scopo di aprire lo spazio della manifestazione dell’essere nei suoi
55
modi, di cui uno è l’io stesso . È questa la pretesa di Jaspers: « Si
può abbracciare l’immensità senza perdersi nella vuota e povera
universalità dell’intelletto, nei fatti senza senso dell’esserci o in un
misero al di là » (VE, 49; 83).
Coscienza dell’essere e coscienza dell’uomo che io sono, sono
intimamente legate al punto che solo nella fondazione di una adeguata
coscienza delle possibilità umane è possibile parlare di coscienza
30
dell’essere (cfr. NH, 23; 15). Nel momento in cui infatti, con una
decisione fondamentale, prendo coscienza del mio essere uomo (non
intendo quindi l’umanità come oggetto di un sapere determinato, ma
come l’ambito di manifestazione di tutti i modi determinati dell’essere
uomo) io non sono più sufficiente a me stesso ma, subito, sono
rimandato « all’alterità dell’altro e al Tutt’Altro della trascendenza »
attraverso la quale sono reso trasparente a me stesso nella mia nullità
(cfr. NH, 27; 16). È infatti solo nella storicità sempre personale della
ricerca intorno all’essere che si apre uno « sconfinato orizzonte » (VE,
49; 83) nel quale unicamente è possibile la manifestazione dell’essere.
Ma allo stesso tempo è nell’inclusione all’interno di una situazione, di
un essere concreto, che si apre per l’uomo la possibilità di un autentico
discorso sull’essere stesso. Apertura e inclusione paiono qui
congiungersi nell’unico movimento interpretativo dell’io che solo nella
fondazione di un’autocoscienza si apre la via per la trascendenza.
In quanto essere razionale, l’io è l’unico luogo (o almeno l’unico
che ci è dato conoscere) in cui ciò che è viene all’evidenza e in cui è
possibile fondare pertanto una coscienza dell’essere. Ora, una tale
fondazione ha i caratteri del rovesciamento della fondazione stessa (o
dello sfondamento), in quanto si opera mediante il salto dall’oggettiva
conoscenza intellettuale degli oggetti alla inoggettiva autocoscienza
dell’essere stesso. Si legge in Kleine Schule des philosophischen
Denkens del 1965 – opera che ha il pregio della riepilogazione in un
pensiero, come quello jaspersiano, spesso prolisso e ripetitivo: «
Compiamo un salto: dalla conoscenza intellettuale degli oggetti alla
inoggettiva autocoscienza di ciò che attuiamo ed esperiamo in quella.
Il terreno che raggiungiamo con un tale salto è, dal punto di vista della
conoscenza del mondo, un nulla; in termini filosofici è invece la
possibilità di fondare una nuova coscienza dell’essere. La chiamiamo
sapere fondamentale. Svilupparlo significa per così dire saltare oltre la
propria ombra oppure camminare a gambe all’aria. Tentiamolo! » (KS,
44; 40).
1.7. IN CAMMINO VERSO L’ESSERE
« Il pensiero filosofico contemporaneo ha luogo in modo
cosciente a partire dalla propria origine, che col solo sussidio della
scienza non può essere né scoperta né raggiunta » (EP, 11; 14). Tale
origine è l’essere, insondabile con le categorie universalmente valide
dell’intelletto, ma, allo stesso tempo, esistenzialmente presente per
l’uomo che abbia anche solo un livello minimo di coscienza del proprio
esserci. La filosofia infatti non può che cominciare con la domanda: «
31
cosa è? » (cfr. EiP, 24; 53). Tuttavia dal momento che il pensiero
dell’essere non è in grado di giungere a una determinazione unica e
assoluta dell’essere stesso ma al contrario in esso ogni unità e
determinazione pare essere compresa, e dal momento che esso non si
presenta mai come un oggetto visibile che sta di fronte al soggetto che
io sono come un qualcosa di determinato e conoscibile mediante le
categorie dell’intelletto ma appare lacerato nella frammentazione degli
oggetti per cui il mio sapere è sempre rimandato nella forma di un
sapere di oggetti finiti mai dell’essere stesso, dal momento infine che
l’uomo che io stesso sono non è una totalità ma solo una
« Siamo, in quanto esseri razionali, il luogo – l’unico che conosciamo – nel
quale si fa
palese ciò che è, nel nostro pensiero oggettivo, nel nostro comprendere, nel nostro
operare e creare, in ogni forma della nostra esperienza » (KS, 44; 39-40).
57
32
possibilità (l’esistenza possibile) che come tale si dà unicamente insieme
ad altre possibilità (le altre esistenze), per tutto questo, dice Jaspers «
nessuna verità oggettiva potrà mai essere assoluta, ma ogni oggettività
sarà sempre relativa » (PH, II 109; 580).
Del resto la Grundfrage era destinata inevitabilmente al naufragio in
quanto, volendo ricondurre il non pensato all’interno della filosofia, come si
è visto, non riusciva a riconoscere oggettivamente l’essere come uno e
quindi a stabilire « un concetto dell’essere che fosse così comprensivo da
includere tutti gli essere come sue specie o come momenti inclusi nella
sua totalità » (PH, I 48; 162). Ma non per questo il pensiero ha
abbandonato la ricerca. Al contrario, non ha lasciato nulla di intentato: « si
è pensato l’essere come essere determinato nei concetti degli oggetti, lo si
è appreso in modo immediato nel riferimento dell’esser-io a se stesso, lo
si è colto nel suo sparire e lo si è riconosciuto come inconoscibile nei
pensieri limite dell’esser-in-sé… » (PH, I 6; 117). Tutti questi tentativi,
sebbene non abbiano ottenuto effetti concreti – cioè non abbiano dato vita
ad alcun sapere (Wissen) definito e stabile – hanno avuto comunque il
pregio di porre l’uomo sulla via della ricerca dell’essere. Il filosofare, infatti,
non è altro che la ricerca dell’essere (cfr. PH, I 24; 137), in cui l’essere
stesso diviene problema per l’io che non si limita al semplice esserci (cfr.
PH, I 38; 152), ma che si fa coscienza di sé come coscienza dell’esser-sé
quale modo dell’essere stesso, e come tale si stupisce nel naufragio della
comprensione e nell’imbarazzo dell’intelletto; cioè, in una parola: filosofa,
ponendosi così « in cammino verso l’essere percorrendo le vie del
pensiero » (PH, I 24; 137).
La ricerca filosofica è questo cammino dell’uomo che, sulla via,
incontra solo oggetti e che, in questo incontro, si accerta di sé come nonassoluto. Non l’essere, del resto, né gli oggetti, né lui stesso sono
qualcosa di assoluto (cfr. PH, II 121; 592: « Nel mio limite temporale mi
trovo costretto e condizionato da situazioni e compiti che non mi
consentono di pensarmi assoluto nel tempo »). Ed è proprio la non
presenza dell’assoluto nello spazio del mondo e nel tempo della storia che
segna il rapporto filosofico all’essere nella ricerca. Tale non-presenza è il
fallimento della ricerca stessa, che per sua natura però non può che
tendere alla totalità e all’unità. Ancora una volta, fare filosofica significa
farsi beffe di quella filosofia che non è più in grado di esporre un sistema
58
della totalità dell’essere nella forma di un’unità oggettiva , per cui l’essere
stesso rimane, per l’io che lo indaga, il non-chiuso che in ogni sua
59
determinazione lo trascina verso l’illimitato .
Il cammino verso l’essere e la via verso l’illimitato vengono così a
coincidere nell’accertamento esistenziale dell’irriducibilità dell’essere a
33
oggetto e della sua esclusiva presentazione, per noi, nella scissione
soggetto-oggetto che però, inevitabilmente, lo falsa. Data la
disarticolazione dell’essere, dunque, « non posso pensare l’essere
assoluto, né posso evitare il pensiero. Questo essere è trascendenza,
perché io non lo posso comprendere, ma sono costretto a trascendere
verso di esso con un pensiero che si conclude in un non-poter-pensare »
(PH, III 38; 973). Al filosofare rimane quindi solo la via del trascendere
quell’oggettività categoriale che ha di fronte come qualcosa di
imprescindibile. In questo trascendere, l’essere non solo si rivela come
l’orizzonte in cui di volta in volta ciò che è si rende visibile per me, ma,
ancor più, si presenta come « ciò da cui sorgono pure tutti i nuovi orizzonti
» (EP, 14; 18) e che come tale però, sembra sempre « venir meno ». È ciò
che solo si annuncia senza mai diventare oggetto. « È ciò che non
presenta mai se stesso, ma in cui tuttavia il resto si manifesta » (EP, 14;
60
18). È quindi, quello che Jaspers chiama l’Umgreifende , l’in61
comprensibile totalità comprensiva .
58
« La filosofia non è più in grado di esporre un sistema della totalità
dell’essere in forma di unità oggettiva » (EP, 12; 14).
59
« L’essere resta per noi il non chiuso, esso ci trascina da ogni parte verso
l’illimitato »
(EP, 13; 17).
60
In rapporto alla sterminata bibliografia tedesca, la letteratura critica italiana
non è molto numerosa, ma qualitativamente rilevante. Il già citato saggio di Silvia
Marzano, Aspetti kantiani del pensiero di Jaspers, anche se ormai datato, rappresenta
un’adeguata ed esauriente trattazione della questione dell’Umgreifende in rapporto al
filosofare kantiano e schellinghiano. A esso pertanto si rimanda.
61
Il termine Umgreifende pone non poche difficoltà al traduttore italiano al
punto che Galimberti preferisce non tradurlo affatto, laddove altri propongono « essere
abbracciante » (L. Pareyson), « comprensività indefinita » (O. Abate), « orizzonte
circoscrivente » (E. Paci), « tutto-circonfondente » (R. De Rosa), « essere
onnicomprensivo » (A. La Macchia), « onnicomprendente » (D. Di Cesare), «
onniabbracciante » (G. Vattimo), « orizzonte ultimo » (C. Ciancio)… etc. (cfr. anche S.
Maletta in H. ARENDT, Che cos’è la filosofia dell’esistenza?, Jaca Book, Milano 1995, p.
77 n.). L’espressione qui usata gioca sull’assonanza um-greifen, un-greifen allo scopo di
rendere contemporaneamente la totale comprensività e l’inesauribile trascendenza
dell’essere. Questo, in sintonia con l’appropriazione di Jaspers della nozione cusaniana
di incomprensibilità del « massimo assoluto », e della « l’incomprensibile precisione della
verità » (cfr. N. CUSANO, De docta ignorantia, I, 8-11).
34
Ma quale linguaggio per questo essere? si chiede Jaspers.
Necessariamente una nuova “logica filosofica”: la logica dei modi
dell’abbracciante che sappia cogliere nei singoli modi quel che li disdice e
li rende trasparenti e quindi “segni” in direzione della trascendenza (cfr.
EP, 14; 18). Il pensiero di un tale essere che è svincolato da qualsiasi
sistema di riferimento ma che a sua volta è l’orizzonte dei possibili
orizzonti, è l’operazione filosofica fondamentale, semplice e inattuabile allo
stesso tempo. Ogni proposizione che si riferisce all’essere, del resto, non
può che essere espressa nel pensiero oggettivante e categoriale
dell’intelletto ma, se vuole realmente dire questo essere-abbracciante,
deve costantemente disdirsi e quindi esprimersi con sempre nuovi
controsensi: « pensare nella forma dell’oggettività ciò che non è oggettivo
» è una « equivocità inevitabile » (EP, 15; 19).
Ora, l’equivocità causa per l’intelletto (Verstand o Bewusstsein
überhaupt, ossia per quel modo dell’essere onnicomprensivo che io sono
e che è il soggetto della coscienza oggettiva e universale) l’arenarsi del
pensiero categoriale della scienza, mentre per la ragione (Vernunft, ossia
la connessione dei modi dell’essere onnicomprensivo) è occasione del
naufragio in cui la multivocità diviene condizione di possibilità e di una
dicibilità ulteriore. Jaspers infatti vuole quasi forzare il pensiero ad
arrestarsi nelle secche della contraddizione logica allo scopo di far sorgere
nell’uomo quell’« imbarazzo dell’intelletto » (cfr. VE, 89; 149) nel quale
solo sono possibili – tramite la classica categoria tragica del
rovesciamento – la formazione, la chiarificazione e la trasformazione della
62
coscienza dell’essere .
Per comprendere l’essere è necessario quindi guadagnare il « più
vasto spazio del possibile » e in questo si presenterà ciò che annuncia
63
l’essere pur non essendo l’essere . L’Umgreifende, del resto, è « ciò che
fa sì che tutte le cose non siano soltanto quello che sembrano a prima
vista, ma restino trasparenti » (EP, 14; 18).
L’essere stesso, il mondo e l’io, quindi, nel momento in cui si
sottraggono alla pensabilità divengono quasi dei punti vuoti in divenire
della trascendenza. Lontani e inafferrabili al punto che sembrano
irraggiungibili, tanto irraggiungibili che sembrano svanire nel nulla (cfr. W,
690). Ed è veramente un’immane potenza, quella del pensiero
jaspersiano, che pretende di tenere fermo lo svanire, ossia di fissare in
un’istantanea quel momento unico e particolarissimo (anche se si tratta di
un’esperienza costantemente vissuta dall’esistenza) in cui il trascolorare
del reale mostra, a un tempo, la sua realtà e l’oltre in cui essa pare
svanire. Mentre per il Professore di Jena questa stessa potenza derivava
dalla previa identificazione di essere e pensiero e ancor più dalla definitiva
35
risoluzione del finito nell’infinito, per il filosofo di Oldenburg, una volta rotta
l’unità razionale dell’Assoluto hegeliano, si apre la possibilità (ma è più
una pretesa) non di mantenere insieme finito e infinito, ma di coglierli
entrambi (di chiarificarli, di accertarsi di loro) nel momento –
inevitabilmente tragico – in cui il primo finendo, come è sua natura,
64
trapassa nel secondo che così, istantaneamente, si rivela .
62
« Potrà allora colui che pensa non già sommergersi nel vuoto di un’assoluta
inconsistenza, ma essere veramente aperto in modo che gli venga incontro l’essere
stesso » (VE, 91; 152).
63
« L’essere inteso come lo spazio vastissimo dell’abbracciante da cui si
muove incontro a noi ciò che di volta in volta per noi è l’essere » (EP, 12; 15).
64
L’operazione filosofica fondamentale del pensiero jaspersiano non pare, in
questo, differire di molto dal movimento onnicomprensivo, onnivoro e anamnestico del
professore di Jena – salvo che nella prospettiva fragile da cui si pone il filosofo
esistenzialista. Tanto la negatività del fallimento come motore dell’intero movimento,
quanto la tensione alla chiarificazione e all’accertamento di ciò che c’è di fronte (che altro
non è se non una dizione esistenziale dell’interiorizzazione hegeliana) sembrano
accomunare i due pensieri.
36
2. INCERTEZZA GNOSEOLOGICA E LA “FEDE
FILOSOFICA”
2.1. DELLA
FEDE.
SLITTAMENTO
SEMANTICO E RICERCA
DI
SIGNIFICATO
Il termine fede indica in filosofia la certezza di un tener-per-vero che
non trae il suo fondamento dall’evidenza di una dimostrazione razionale
valida universalmente, ma si connota come l’atto con il quale il soggetto
esprime un assenso razionale a una testimonianza di qualcuno che, nel
riferire riguardo ad un oggetto che non esibisce garanzie scientifiche
razionalmente indagabili, si presenta come attendibile. Tale definizione,
nel corso dei secoli, ha subito sensibili variazioni, venendo a contenere
ora qualcosa di più ora qualcosa di meno del semplice atto razionale. In
questo capitolo seguo quindi, brevemente, gli slittamenti di significato che
il termine ha subito nel corso del tempo ad opera degli autori principali che
l’hanno utilizzato. Si tratta di una sorta di circumnavigazione della nozione
di fede allo scopo di tracciare l’orizzonte entro cui si inscrive la
formulazione di un concetto, così ardito e apparentemente contraddittorio,
come quello di fede filosofica, sul quale successivamente si concentrerà il
mio approfondimento.
a) Il concetto di fede da Platone a Tommaso
Per il filosofo greco il termine fede (pístis, fides), vuol dire credenza,
ossia una forma di opinione che è sì conoscenza ma al secondo livello
della conoscenza sensibile (opinione, doxa, opinio), ossia quella rivolta
agli oggetti materiali. Tale conoscenza non ha in sé la garanzia della
propria verità e correttezza, ma rimane sospesa nell’incertezza, come è
sospeso il mondo sensibile cui si riferisce, se non interviene il
ragionamento causale a fondarla sull’Idea. Questo non vuol dire che la
fede non è veritiera, ma solo che essa – per il fatto di rivolgersi al mondo
65
della generazione e non a quello dell’essenza – può essere vera o falsa .
Una fede retta, quindi, non è meno veritiera di una conoscenza retta ma,
66
in quanto è copia e immagine della scienza della verità , essa staziona
67
intermedia tra ciò che è e ciò che non è e permane nel dubbio e
68
nell’incapacità di cogliere con sufficiente chiarezza l’essenza del Bene .
65
Cfr. PLATONE, Gorgia, 454d2; Menone, 97a e sgg.; similmente ARISTOTELE,
De Anima, Γ 3, 428a20.
37
66
67
68
Cfr. Timeo, 29c1 e sgg.
Cfr. PLATONE, Repubblica. V 478b e sgg.
Cfr. PLATONE, Repubblica. VI 505e3 e sgg.
38
La riflessione platonico-aristotelica pone la fede al livello della
storicità. Essa risulta radicata nel mondo della generazione e della
corruzione piuttosto che in quello dell’essenza e dell’idea. Se pertanto tale
forma di conoscenza può rivendicare un qualche valore veritativo, ciò è
condizionato dal suo essere immagine della conoscenza vera (che non è
a volte vera e a volte falsa, come l’opinione, ma sempre e certamente
vera) . Ora, con l’incontro della speculazione filosofica ateniese con la
tradizione ebraica prima e la cultura cristiana poi, la nozione di fede
subisce un’evoluzione in direzione del trascendente che acquista sempre
più i caratteri dell’elevazione che la porterà ad essere la forma di
conoscenza privilegiata. Già in Filone d’Alessandria, sulla base della
Sacra Scrittura, il termine acquista il significato di credenza in Dio e nella
sua Rivelazione: per Filone, infatti, la fede è la virtù suprema cui si riduce
69
la stessa virtù dianoetica della sapienza . Sesto Empirico poi, nei suoi
schizzi pirroniani, Pyrrhoneion hypotyposeon, riconosce alla fede lo
statuto di assenso razionale alle conclusioni di un ragionamento, non sulla
base della necessità delle sue premesse, ma in virtù della fede in Dio o in
una divinità, e in una sua rivelazione.
Trascendenza e storicità sono, quindi, i cardini della nozione di fede.
Trascendenza di un Dio che nella sua totalità eccede la ragione umana,
storicità di una Rivelazione quale fonte certa di autorità e di testimonianza.
L’affermazione dell’immanenza di Dio o la negazione della storicità della
Rivelazione comporterebbero irrimediabilmente, ognuna a suo modo, la
negazione della fede in quanto tale. Perché ci sia fede è necessaria,
quindi, la trascendenza (e di conseguenza il mistero) e un contatto che da
questa trascendenza sia venuto (cioè la Rivelazione, appunto, storica).
L’atto rivelativo si staglia in un ambito di doppia distanza,
un’anteriorità temporale e un’ulteriorità trascendente, e come tale richiede
un nesso. Tramite di questo contatto è la testimonianza: testimone è colui
che avendo visto un determinato evento ne può riferire conformemente a
verità. Qualora il dato evento fosse esperibile da chiunque, qualora cioè
esso fosse accessibile ad ogni intelletto nel suo uso normale, il valore del
testimone sarebbe nullo. Ora, per quel che riguarda l’evento della
Rivelazione di cui parla la fede cristiana, il testimone acquista una duplice
importanza: riguardo alla distanza temporale che separa l’evento dalla sua
trasmissione, e riguardo all’origine incondizionata e misteriosa dell’evento
stesso. Non un uomo qualunque potrebbe riportare la testimonianza della
fede rivelata – ché riporterebbe solo l’attestazione di un fatto storico – ma
Dio stesso, nella seconda persona della SS. Trinità, si presenta quale
interprete di se stesso e della sua Rivelazione. Non si attesta infatti
solamente un evento storico, ma un evento in cui la trascendenza e la
storicità si incontrano nell’unicità della pienezza dei tempi. La grandezza
39
del testimone attesta la grandezza nell’annuncio che da esso viene. Su tali
presupposti si fonda la fede cristiana.
b) Il dibattito nella modernità: da Kant a Kierkegaard
In seguito alla frammentazione della Scolastica, il termine fede
subisce un doppio slittamento: uno in senso pratico-normativo, l’altro in
senso speculativo-idealista. Il primo conduce dalla tarda scolastica (Duns
Scoto [ca. 1266-1308], Guglielmo da Ockham [1290 o 1295-ca. 1349]),
attraverso Baruch Spinoza (1632-1677) a Immanuel Kant; il secondo porta
dalla mistica tedesca (Maister Eckhart, ca. 1260-1327), ai cosiddetti
“filosofi della fede” (Johan Georg Hamann [1730-1788], Friedrich Heinrich
Jacobi [1743- 1819]) e infine all’idealismo tedesco.
1
2
Immanuel Kant nella sua Critica della ragione pura (1781 , 1787 )
tematizza lo slittamento semantico avvenuto fin qui nel corso dei secoli
formulando una nuova definizione del termine fede: «se il tener-per-vero è
sufficiente solo soggettivamente, ed al tempo stesso viene considerato
oggettivamente insufficiente, si tratta di un credere (Glauben)». Siamo nella
terza sezione del secondo capitolo della Dottrina trascendentale del metodo
(Transzendentale Methodenlehre), il capitolo si intitola Il canone della ragione
pura (Der Kanon der reinen Vernunft), la sezione Dell’opinare, del sapere e
del credere (Vom Meinen, Wissen und Glauben). In questo luogo Kant
afferma quanto segue. Il tener-per-vero (das Fürwahrhalten) si posa su
fondamenti sia oggettivi che soggettivi. La sufficienza oggettiva di tale tenerper- vero si chiama certezza (Gewissheit), quella soggettiva ma
universalmente esperibile da tutti i soggetti si chiama convinzione
(Überzeugung), quella soggettiva ma valida solo individualmente si chiama
invece persuasione (Überredung). Ora, dalle combinazioni del momento
oggettivo e di quello soggettivo riguardo al tener-per-vero derivano tre gradi:
l’opinare, il credere e il sapere. L’opinare (Meinen), tipico della persuasione, è
insufficiente sia oggettivamente che soggettivamente, in quanto manca di una
qualsiasi connessione con la verità, e pertanto sia al giudizio scientifico che a
quello morale non è permesso in alcun modo di abbandonarsi ad esso
(l’opinione è, quindi, semplice apparenza, mera illusione, ein bloßer Schein).
Il credere (Glauben) invece, tipico della convinzione, è sufficiente
soggettivamente ma è ritenuto oggettivamente insufficiente (è quindi una
convinzione valida soggettivamente, esperibile, sì, da tutti ma non applicabile
universalmente): la sua validità soggettiva ne consente l’applicabilità non
nell’ambito scientifico ma – come vedremo subito – solo in quello praticomorale. Il sapere (Wissen), infine, tipico della certezza, è sufficiente tanto
soggettivamente quanto oggettivamente (non solo convinzione, quindi, ma
convinzione che si basa su certezze comprovabili e comunicabili) e come tale
40
può sussistere quale fondamento di un giudizio scientifico. Conclude Kant:
«non mi soffermerò a spiegare concetti così facili»!
La fede risulta, quindi, una credenza teoreticamente insufficiente ma
praticamente atta a dirigere le azioni dell’uomo. Dice infatti Kant:
«pertanto, è semplicemente dal punto di vista pratico, che il tener-pervero, teoreticamente insufficiente (das theoretisch unzureichende
Fürwahrhalten), può essere chiamato fede». Essa è pertanto quella
credenza valida solo soggettivamente (e quindi, si noti bene,
incomunicabile) che, sebbene non in grado di fondare una scienza, è
comunque garante di quelle certezze morali che sono postulate
praticamente, anche se non trovano il loro fondamento nella chiarezza e
distinzione della conoscenza scientifica. Tutti gli uomini, dice Kant, in virtù
della loro razionalità possono giungere a certezze morali, le quali però non
sono tematizzabili scientificamente. Per quanto riguarda le norme di
conduzione della vita, infatti, l’opinare è certamente insufficiente (freilich
zu wenig), ma il sapere è troppo (auch zu viel). È nel determinare l’agire
che il tener-per-vero, valido soggettivamente, trova la sua applicazione
come guida e fonte dei giudizi pratici in vista di fini prossimi e accidentali
(abilità o fede prammatica, der pragmatische Glaube) o ultimi e necessari
(fede morale, der moralische Glaube). Per meglio chiarire le due tipologie
di fede – quella prammatica e quella morale – Kant interpone ad esse la
fede dottrinale, di cui peraltro l’intelletto comune (der gemeine Verstand)
ha maggiore esperienza.
Ora, la fede prammatica riguarda fini arbitrari o accidentali. Essa può
quindi esser verificata dalla scommessa (das Wetten), in quanto ammette
gradi di convinzione secondo la differenza degli interessi in gioco. Altra
cosa è, invece, la fede dottrinale (der doktrinale Glaube) per la quale
l’uomo, se avesse la possibilità di provarne l’oggetto, sarebbe pronto a
scommettere tutto senza paura di perdere. Questa riguarda, infatti,
l’esistenza di Dio e tutte le altre Verità per le quali l’uomo ritiene di avere
sufficienti motivi per scommettere, anche senza disporre di alcunché per
verificarne la questione mediante esperienza o conoscenza teoretica. Tale
credere dottrinale si muove nella direzione fornita delle idee della ragione
pura, prima tra tutte l’idea di unità del mondo che presuppone un saggio
creatore come sua unica condizione. «Il termine fede – afferma Kant –, in
tali casi, è un’espressione di modestia dal punto di vista oggettivo, ma al
tempo stesso di salda fiducia, dal punto di vista soggettivo».
La semplice (bloß) fede dottrinale, seppur rivolgendosi ad oggetti
ultimi e necessari, mantiene sempre in sé qualcosa di instabile, per il suo
carattere puramente speculativo. Se invece tale fede si applica alla
41
determinazione dell’azione, la connessione dei fini appare necessaria e,
sebbene nessun uomo possa vantarsi di poter esibire un sapere riguardo
all’esistenza di Dio ed argomenti simili, tale fede morale è in grado di
fondare convinzioni che sono certezze non logiche, ma appunto morali, in
quanto si radicano su ragioni pratico-soggettive (il sentimento morale), le
quali non permettono di dire “é moralmente certa l’esistenza di Dio”, ma
“io sono moralmente certo dell’esistenza di Dio”.
Questo perché «dopo che sono state rese vane tutte le mire
ambiziose di una ragione che ama vagabondare al di là dei limiti di ogni
esperienza, ci rimane ancora abbastanza per aver motivo di essere
contenti dal punto di vista pratico». E sebbene il sentimento morale non
sia in grado di esibire leggi positive universalmente valide, poiché nessun
uomo potrà mai dirsi libero da qualsiasi interesse particolare, esso è in
grado di fornire una fede negativa (ein negativer Glaube) che se non è in
grado di creare buoni sentimenti, almeno può frenare il dilagare di quelli
negativi.
In conclusione, quello che potremmo chiamare il senso comune
(sensus communis di Vico o il common sense di Thomas Reid), ossia «
l’insieme organico delle certezze di fatto e di principio che sono comuni a
ogni uomo e precedono ogni riflessione critica », per Kant si chiama fede
ed è valido solo soggettivamente. Kant stesso, al termine della sezione qui
in esame, previene l’obiezione dell’uomo comune sulla presunta inutilità di
una filosofia che giunga ad affermare tesi che ogni intelletto comune
potrebbe da sé produrre. La risposta è paradigmatica: «la più alta filosofia
non può raggiungere un risultato migliore di quello cui porta la guida che la
natura ha concesso persino all’intelletto più comune (auch dem
gemeinsten Verstande)»!
La filosofia kantiana muove da una limitazione e, all’interno di
questa, pone una potenza. La limitazione delle pretese legittime della
ragione e la potenza della conoscenza umana all’interno di tali limiti. Ora,
fu la limitazione, più che la potenza, a impressionare i contemporanei di
Kant e i suoi discepoli. Già il concittadino di Kant Johann Georg Hamann
(1730-1788), il famoso mago del nord, aveva espresso dubbi sulla
categoricità del limite imposto da Kant e sull’assoluto predominio
concesso da questo alla sola ragione. Al contrario, sulla scorta di Hume
che aveva affermato la credenza (belief) l’unico fondamento della
conoscenza, Hamann riconosce nella fede e non nella ragione il carattere
predominante dell’umanità (cfr. principalmente la Metacritica del purismo
della ragione, scritto del 1784 ma pubblicato postumo nel 1788). Nella
42
stessa direzione si muoverà anche Johann Gottfried Herder (1744-1803)
nella sua Metacritica alla critica della ragion pura del 1799.
Ed è proprio muovendo da un ripensamento critico di Kant che
Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819) formula la sua originale teoria della
fede, o filosofia della fede. Va detto subito che tale teoria si basa un
allargamento anche al piano teoretico conoscitivo della validità, per Kant
solo pratica, della fede. L’opera più interessante a questo riguardo è il
dialogo David Hume, über den Glauben, oder Idealismus und Realismus
78
del 1787 .
Figura filosofica estremamente interessante, Jacobi instaura con i
suoi scritti occasionali (romanzi, lettere, dialoghi, saggi e discorsi) un
serrato dialogo con personalità di prim’ordine dello scacchiere filosofico
illuminista e romantico: Spinoza, Lessing, Goethe, Kant, Hamann, Herder,
Fichte, Schelling e lo stesso Hegel. Il filosofo di Düsseldorf incarna
pienamente tutto il travaglio del transito da una visione illuminista del
mondo a un sentire tipicamente romantico e, allo stesso tempo, si propone
come primo critico tanto della filosofia trascendentale di Kant (con il
saggio Sull’idealismo trascendentale, pubblicato in appendice allo stesso
David Hume) quanto del nascente idealismo tedesco (assai interessanti
sono gli interventi su Fichte e le critiche a Schelling, ne Le cose divine e la
loro rivelazione del 1811, a riguardo del quale Jacobi introduce il termine
“nichilismo”, che successivamente incontrerà grande fortuna nella
storiografia filosofica, per interpretare la vuota identità in cui l’idealismo
estetico risolve tanto Dio quanto la natura – contemporaneamente Hegel
usa la celebre espressione notte nera in cui tutte le vacche sono nere).
Filosofia della fede, si diceva. L’espressione appare a tutta prima
contraddittoria o quanto meno ambigua, ma è fondamentale per
comprendere il successivo utilizzo, da parte di Jaspers, dell’altrettanto
ambigua fede filosofica. Si tratta di impostazioni sostanzialmente diverse
ma che si stagliano in un comune orizzonte critico. Per il momento ci
soffermiamo su Jacobi. Prima di tutto una distinzione: la filosofia della
fede, pur rapportandosi alla religione e conseguentemente alla filosofia
della religione, non si identifica con essa. La filosofia della religione infatti,
per la sua stessa definizione, deve tener conto delle molteplici implicanze
derivanti dal suo rapportarsi alla religione: deve pertanto prendere in
esame la fede, la rivelazione, la storicità della rivelazione stessa, nonché
le relazioni che intercorrono tra le varie religioni storiche. Al contrario la
filosofia della fede concerne esclusivamente l’attività conoscitiva
dell’intelletto umano, le sue possibilità e i suoi fondamenti. Non si tratta
infatti, come si vedrà subito, della fede in una rivelazione trascendente,
43
bensì della fede nella rivelazione immediata e verace del sé, dell’esistenza
di Dio sopra di sé e del mondo fuori di sé.
Proprio allo scopo di chiarire la confusione tra filosofia della fede e
filosofia della religione e per rispondere alle critiche del pensatore ebreo
Moses Mendelssohn (1729-1786) suo contemporaneo, amico di Lessing e
celebre autore del Trattato sull’evidenza delle scienze metafisiche (1764)
che fu preferito dall’Accademia di Berlino alla Ricerca sulla chiarezza dei
principi della teologia naturale e della morale dello stesso Kant, Jacobi è
chiamato ad approfondire il concetto di fede. Anche Johann Wolfgang
Goethe (1749-1832) dal canto suo, in una lettera datata 21-X-1785,
avanza seri dubbi sulla tollerabilità dell’uso filosofico della parola glauben,
tipico dei Glaubensophisten, i sofisti della fede, coloro che mirano a
«oscurare ogni certezza del sapere e coprirla con le nuvole del loro
fluttuante regno etereo, non potendo scuotere le salde fondamenta della
verità».
In una lettera della prima edizione degli Spinoza-Briefe Jacobi dice:
« Caro Mendelssohn, noi nasciamo tutti nella fede e dobbiamo
rimanere nella fede; proprio come nasciamo tutti nella società e dobbiamo
rimanere nella società. Totum parte prius necesse est. Come potremmo
aspirare alla certezza, se non ci fosse già precedentemente nota? Come
potrebbe esserci nota se non mediante qualcosa che già conosciamo con
certezza? Si deve dunque ammettere il concetto di una certezza
immediata che non soltanto non ha bisogno di essere motivata, ma che
esclude assolutamente ogni motivazione, ed è unicamente la
rappresentazione stessa nel suo accordo con la cosa rappresentata
(dunque fondata in se stessa). La convinzione fondata su motivi è
certezza di seconda mano, e i motivi sono soltanto segni della somiglianza
con una cosa di cui siamo certi. La convinzione che essi producono deriva
da un confronto e non può mai essere del tutto sicura e perfetta. Se ogni
Fürwahrhalten (si noti, il termine usato da Kant nella sezione Von Meinen,
Wissen und Glauben) che non scaturisce da motivi razionali è fede, la
stessa convinzione fondata su motivi razionali deve necessariamente
venire dalla fede e ricevere soltanto da essa la sua forza».
Nella visione di Jacobi la fede è un sentimento dell’incondizionato, «
un atteggiamento preliminare, costituivo, condizionante e non
condizionato di ogni conoscenza ». Si tratta di qualcosa di connaturato
all’esistenza umana, che non possiede un oggetto determinato, come le
scienze, ma è una sorta di sapere originario del sé, del mondo e di Dio,
che l’uomo possiede prima di ogni sapere. « Ogni dimostrazione – dice
ancora Jacobi – presuppone qualcosa di dimostrato il cui principio è la
44
rivelazione » per cui « la fede è l’elemento di ogni conoscenza e di ogni
attività umana ».
Nella prefazione alla prima edizione del suo David Hume del 1787,
assente nell’edizione del 1815, Jacobi chiarisce ulteriormente che egli
utilizza il termine fede per rispondere a una certa filosofia che afferma:
« una duplice conoscenza dell’esistenza reale: una certa e una incerta.
Quest’ultima allora, a mio parere, può esser chiamata soltanto fede,
perché si è partiti dal presupposto che ogni conoscenza che non
scaturisca da motivi razionali sia fede. La mia filosofia non afferma una
duplice conoscenza dell’esistenza reale, ma soltanto una semplice,
ottenuta mediante la sensazione, e limita la ragione, considerata per sé
sola, alla pura facoltà di percepire distintamente dei rapporti, cioè di
formare il principio di identità e di giudicare in conformità ad esso. Ma io
devo ammettere che solo l’affermazione di proposizioni puramente
identiche può essere apodittica e implicare una certezza assoluta; e che
l’affermazione dell’esistenza in sé di una cosa fuori della mia
rappresentazione non può mai essere un’affermazione apodittica del
genere e implicare una assoluta certezza. Quindi l’idealista, in base a
questa distinzione, può costringermi a ammettere che la mia convinzione
dell’esistenza di cose reali fuori di me è soltanto fede. Ma come realista
devo allora dire che ogni conoscenza può venire soltanto dalla fede,
perché mi devono esser date delle cose, prima che io sia in grado di
scorgervi dei rapporti».
Come si vede, l’affermazione della necessità della fede, in Jacobi,
trova il suo fondamento nella negazione della possibilità di una
conoscenza puramente razionale-dimostrativa della realtà, propria
dell’imperante idealismo di matrice trascendentale. Già il Kant precritico
aveva del resto affermato che l’esistenza non può in alcun modo essere
un predicato (che è posto sempre in rapporto ad altro) o una
determinazione di qualche cosa, bensì una sua assoluta posizione. Ora,
una volta chiarito che non c’è conoscenza razionale (ossia scienza dei
rapporti) senza che gli oggetti siano primariamente dati alla conoscenza
stessa nell’immediatezza della sensazione, si tratta di comprendere che,
filosoficamente parlando, non c’è altro termine all’infuori di quello di fede
per indicare quel sapere immediato che con la sua inderivabile evidenza
fonda la certezza e la convinzione dell’io, del mondo e di Dio stesso. In
questo Jacobi si rifà agli scozzesi David Hume (1711-1776) (« in qualità di
maestro di fede ») e Thomas Reid (1710-1796). Quest’ultimo, negli
importanti Essays on the Intellectual Powers of Man del 1785, usa il
termine fede, belief, proprio allo scopo di indicare quel sentimento che
accompagna la percezione e che, garantendo la rappresentazione di un
oggetto esterno, è alla base del senso comune, common sense. «
45
Volendo adoperare i concetti filosofici nel loro senso rigoroso – si legge
nel David Hume – non è altro che una fede, dal momento che ciò che è
insuscettibile di una prova rigorosa può soltanto essere creduto, né
alcun’altra parola si trova nella nostra lingua per indicare questa
distinzione ».
Una tale posizione, pur muovendo da Kant, non trova però riscontro
nella filosofia del maestro di Königsberg. Lo stesso Kant si affretta, infatti,
a prendere le distanze dallo Jacobi e a ribadire – nel suo Che cosa
significa orientarsi nel pensare del 1786 – che la fede non è un originario e
incondizionato sentimento dell’incondizionato ma che essa può solo
fondarsi su di un postulato della ragione pratica e, come tale, non fornisce
alcuna certezza teoretica ma solo verosimiglianza sufficiente a
determinare la condotta morale. Ma lo slittamento in senso idealista
(sebbene Jacobi non sia idealista e sarà aspramente criticato da Hegel) è
ormai in atto. Continua, infatti, Jacobi a Mendelssohn:
« mediante la fede sappiamo di avere un corpo e che fuori del nostro
corpo ci sono altri corpi e altri esseri pensanti. Questa è una rivelazione
verace, miracolosa. Perché noi sentiamo soltanto il nostro corpo in questa
o quella sua disposizione; e in quanto lo sentiamo in questa o quella
disposizione ci accorgiamo non soltanto dei suoi mutamenti, ma anche di
qualcosa di completamente diverso che non è né semplice sensazione né
pensiero, e cioè di altre cose reali; e questo proprio con la stessa certezza
con cui ci accorgiamo di noi stessi, perché senza il tu non è possibile l’io.
Noi riceviamo quindi tutte le rappresentazioni soltanto attraverso le
disposizioni che assumiamo, e non c’è nessun’altra via della conoscenza
reale; perché quando la ragione genera oggetti, si tratta di fantasmi. Così
abbiamo una rivelazione della natura che non soltanto comanda, ma
costringe ogni uomo a credere e ad accettare attraverso la fede verità
eterne ».
Con l’idealismo tedesco si viene a completare quello slittamento dal
carattere normativo a quello teoretico della fede. Contemporaneamente si
opera, in Hegel, l’espulsione del termine fede dal vocabolario filosofico,
poiché esso appartiene alla tradizione religiosa che la filosofia assume in
sé e supera. In Hegel, infatti, la filosofia si trova a operare con lo stesso
oggetto della religione, ma anziché basarsi sulla rivelazione e sulla
credenza (momenti tipici della trascendenza, che in Hegel diviene solo il
per sé) si fonda sul concetto quale prodotto del lungo travaglio della
riflessione che, scindendo e analizzando, assume e sintetizza, in una
parola com-prende, il tutto. Se da un lato, quindi, Hegel critica la filosofia
della fede, dall’altro assume nella sua filosofia assoluta quelle
caratteristiche di incondizionatezza e onnicomprensività proprie della fede
46
– quale via privilegiata alla conoscenza –, nonché le sua pretesa di essere
via d’accesso alle «verità eterne».
« La verità dell’essere è l’essenza. L’essere è immediato. In quanto il
sapere vuol conoscere il vero, quello che l’essere è in sé e per sé, esso
non rimane all’immediato e alle sue determinazioni, ma penetra attraverso
quello, nella supposizione che dietro a quell’essere vi sia ancora
qualcos’altro che non l’essere stesso, e che questo fondo costituisca la
verità dell’essere. Questa conoscenza è un sapere mediato… ».
Questo è Hegel. All’inizio del secondo volume della Scienza della
logica intitolato La dottrina dell’essenza. Il cominciamento è l’essere. Ma
tale essere sarebbe nulla se non fosse verità, essere saputo, conosciuto e
detto. L’esser-vero dell’essere, dice Hegel, è l’essenza (Wesen) che in
tedesco deriva dal passato del verbo sein (gewesen, stato). Ciò vuol dire
che «l’essenza è l’essere che è passato, ma passato senza tempo».
Questo passare senza tempo è il rifluire dell’immediatezza dell’essere
nella mediazione del sapere. Ripeto: non saputo, l’essere sarebbe nulla.
Così come un essere non determinato è una notte nera in cui tutte le
vacche sono nere, allo stesso modo un oggetto non oggetto per un
soggetto, un dato cioè senza una coscienza, è vuoto nulla.
Di qui muove la grandiosa sintesi di Hegel, per il quale il paradigma
della mediazione totale rappresenta il motore della storia come del
pensiero. Si tratta dell’immane forza della dialettica, che nelle sue maglie
ingloba tutto l’essere e ne rielabora il senso globale in un dover-essere
superiore. Questo, del resto, è il compito della filosofia: quello di portare
alla coscienza ciò che le sta davanti, di rielaborarlo, ricordarlo, superarlo
assumendolo e mantenerlo come tolto. La filosofia è, quindi, come la
nottola di Minerva che si leva in volo al crepuscolo, coscienza di un reale
già dato.
È la vita dell’Assoluto, dello Spirito Assoluto (il termine Spirito, Geist,
è lo stesso usato per esprimere la terza persona della SS. Trinità: lo
Spirito Santo), che ha come contenuto la totalità – lo stesso contenuto
della religione – ma compresa ed espressa a un livello di mediazione
superiore, un livello di coscienza, appunto, assoluto. Il rapporto tra
religione e filosofia è quindi analogo, dice Hegel, a quello che intercorre
tra Vor-stellung e Dar- stellung, tra il porre di fronte a… e l’esporre da…,
tra rappresentazione e concetto. L’una ha il proprio oggetto fuori di sé,
l’altro ha il proprio oggetto in sé, ossia supera la divisione tra soggetto e
oggetto in una globale comprensione immanente. Comprensione che,
però, non è mai data immediatamente, ma al contrario emerge come
costante prodotto di se stessa, del suo venerdì santo speculativo.
47
In un tale contesto l’utilizzo del termine fede, per significare la
certezza sensibile di avere un corpo e dell’esistenza delle cose al di fuori
del soggetto ma anche la certezza dell’incondizionata esistenza di Dio,
viene stigmatizzato come astratto formalismo. Questo perché ogni fede
muore al sorgere della mediazione. Ed in Hegel non si dà immediatezza
del sapere che non sia inscindibilmente legata alla mediazione, tanto che
ogni immediatezza può essere considerata persino prodotto della
mediazione stessa. Come il risultato di un teorema è immediato, ma solo
dopo la grande fatica del processo di mediazione dimostrativa; o come la
conoscenza dell’America può essere oggetto di un sapere immediato, ma
solo dopo l’immane sforzo compiuto da Colombo, dai costruttori di navi, e
così via all’infinito; allo stesso modo la fede, in quanto immediata
apprensione di una evidenza, non è che un momento del processo
conoscitivo dello Spirito (la via crucis dello Spirito) che ha il suo
cominciamento nella certezza sensibile e che culmina nell’apoteosi
onnivora dello Spirito Assoluto. Essa è quindi solo il prodotto dell’azione
infinitamente mediatrice della filosofia speculativa, specchio della vita
dell’Assoluto.
Søren Kierkegaard (1813-1855) è, invece, l’autore che ci introduce
direttamente nel cuore delle tematiche jaspersiane della fede filosofica.
Con lo sfortunato filosofo danese si viene a realizzare, dopo la sintesi di
Hegel, la riunificazione delle due strade: della via alla trascendenza e della
via della normatività pratica.
La fede diviene atto esistenziale. Atto che instaura un rapporto senza
peraltro iniziarlo: il rapporto alla trascendenza. Instaurazione senza inizio,
dicevo, perché l’uomo stesso, nella sua singola esistenza storica, limitata
e dal limite proiettata verso ciò che sta oltre il limite, è rapporto con la
trascendenza. Un rapporto iniziato, ossia posto dalla trascendenza stessa
con l’atto creativo e di filiazione, e che l’uomo è chiamato in ogni momento
a re-instaurare responsabilmente in una esistenza autentica. Radice
pertanto dell’esistenza del singolo (Il singolo, è l’epitaffio che illumina la
tomba del filosofo danese) è la trascendenza che nella sua irriducibilità
irrompe nella storia dell’uomo squassandola e annichilendola,
contraddicendola, elevandola, anzi, a paradosso. Sì perché la logica
umana di fronte alla logica divina non è che paradosso. L’imperativo divino
rappresenta la sospensione teologica di qualsiasi legge umana, comprese
le leggi dell’etica (si veda il caso di Abramo chiamato a sacrificare suo
figlio Isacco in Timore e tremore, del 1843) in virtù di un rapporto assoluto
alla trascendenza cui è connesso il rischio esistenziale altrettanto
assoluto, il rischio del nulla.
Se nel mondo greco la fede era meno della scienza e nel mondo
cristiano la fede è divenuta più della scienza, con Kierkegaard essa è «la
48
coscienza dell’eternità, la certezza più appassionata che spinge l’uomo a
sacrificare tutto, anche la vita» (Diario, X, A 635). Coscienza d’eternità non
fondata su una certezza, ma sulla decisione e sul rischio. Certezza
angosciosa, in cui l’uomo è chiamato a scegliere una scelta in cui lui non
conta, in quanto Dio è tutto ed ogni iniziativa umana è esclusa. Non più
forma di conoscenza privilegiata che permette di giungere là dove i limiti
della ragione kantiana non permettevano quindi, ma certezza fondata sul
paradosso, a sua volta fondato sul incommensurabile rapporto tra
esistenza e trascendenza.
c) La fede filosofica
Coma abbiamo visto, la fede si dice in molti modi. La plurivocità del
termine, lungi dal disperderne il senso, ne rivela, al contrario, la ricchezza.
L’assenso razionale ad una testimonianza riguardo un argomento
scientificamente e razionalmente non indagabile; la certezza ritenuta
sufficiente solo soggettivamente; il sapere immediato che con la sua
inderivabile evidenza fonda la certezza e la convinzione del mondo, di Dio,
etc., sono aspetti diversi di un unico cammino fondamentale della ragione
indagatrice. Aspetti che rivelano l’esigenza originaria di un rapporto
conoscitivo che superi la semplice scissione tra soggetto e oggetto, tipica
delle scienze.
In un momento, quello attuale, in cui ogni scienza e ogni disciplina
hanno come primario scopo quello di giustificare se stesse, ossia di
ritagliarsi uno spazio vitale all’interno dello spazio frammentato del sapere
umano, anche la filosofia, se non vuole essere ridotta a mera riflessione
teorica su qualcosa (filosofia della scienza, della politica, della religione,
dell’arte…) ma se vuole essere filosofia in senso pieno, filosofia prima,
direbbe Aristotele, philosophia perennis, direbbe Jaspers… è chiamata a
dare ragione della propria peculiarità, prendendo le distanze
– ma allo stesso tempo gettando i ponti per un dialogo costruttivo – nei
confronti della scienza e della religione. Proprio dal dialogo con la scienza
e con la religione la filosofia può oggi prendere coscienza, ancora una
volta, del proprio valore e della propria funzione.
Ebbene questo è il compito che uno scienziato ha sentito con tanta
urgenza da abbandonare la sua professione di psicopatologo, rinunciare
alla direzione della clinica psichiatrica in cui lavorava, per esprimere un
qualcosa d’altro: il salto nel filosofico, ovvero il superamento della visione
scientifica a vantaggio di una visione più globale dell’umano.
In questo contesto Karl Jaspers parlerà di fede come di una certezza
e una convinzione di qualcosa che non esibisce il proprio fondamento
veritativo in quanto è oltre, ma che si annuncia per mezzo di cifre che
49
danno da pensare. Certezza, però, che rimane sospesa in quanto fondata
sul riconoscimento dei limiti della conoscenza scientifica – il naufragio – e
sulla coscienza della problematicità e del rischio di una conoscenza non
dimostrativa.
Vediamo ora come si inscrive la tematica della fede filosofica
all’interno del vastissimo orizzonte speculativo di Jaspers. Non si tratta
certo di un’argomentazione accessoria ma del punto di arrivo,
indubbiamente problematico e aperto a sempre ulteriori sviluppi, di una
ricerca unitaria – e forse titanica – finalizzata alla comprensione
dell’esistenza nel suo originario e fondante rapporto con la Trascendenza,
con l’Essere, ovvero la Verità.
2.2. LA FEDE FILOSOFICA NELLA SISTEMATICA JASPERSIANA
In un momento, quello attuale, in cui ogni scienza e ogni disciplina
hanno come primario scopo quello di giustificare se stesse, ossia di
ritagliarsi uno spazio vitale all’interno dello spazio frammentato del sapere
umano, anche la filosofia, se non vuole essere ridotta a mera riflessione
teorica su qualcosa (filosofia della scienza, della politica, della religione,
dell’arte…) ma se vuole essere filosofia in senso pieno, filosofia prima,
direbbe Aristotele, philosophia perennis, direbbe Jaspers… è chiamata a
dare ragione della propria peculiarità, prendendo le distanze
– ma allo stesso tempo gettando i ponti per un dialogo costruttivo – nei
confronti della scienza e della religione. Proprio dal dialogo con la scienza
e con la religione la filosofia può oggi prendere coscienza, ancora una
volta, del proprio valore e della propria funzione.
Ebbene questo è il compito che uno scienziato ha sentito con tanta
urgenza da abbandonare la sua professione di psicopatologo, rinunciare
alla direzione della clinica psichiatrica in cui lavorava, per esprimere un
qualcosa d’altro: il salto nel filosofico, ovvero il superamento della visione
scientifica a vantaggio di una visione più globale dell’umano.
In questo contesto Karl Jaspers parlerà di fede come di una certezza
e una convinzione di qualcosa che non esibisce il proprio fondamento
veritativo in quanto è oltre, ma che si annuncia per mezzo di cifre che
danno da pensare. Certezza, però, che rimane sospesa in quanto fondata
sul riconoscimento dei limiti della conoscenza scientifica – il naufragio – e
sulla coscienza della problematicità e del rischio di una conoscenza non
dimostrativa.
Vediamo ora come si inscrive la tematica della fede filosofica
all’interno del vastissimo orizzonte speculativo di Jaspers. Non si tratta
50
certo di un’argomentazione accessoria ma del punto di arrivo,
indubbiamente problematico e aperto a sempre ulteriori sviluppi, di una
ricerca unitaria – e forse titanica – finalizzata alla comprensione
dell’esistenza nel suo originario e fondante rapporto con la Trascendenza,
con l’Essere, ovvero la Verità.
Il termine “fede” ha assunto molteplici significati nel corso della storia. La
plurivocità del termine, lungi dal disperderne il senso, ne rivela, al
contrario, la ricchezza. L’assenso razionale a una testimonianza riguardo
un argomento scientificamente e razionalmente non indagabile (pensiero
medievale); la certezza ritenuta sufficiente solo soggettivamente (Kant); il
sapere immediato che con la sua inderivabile evidenza fonda la certezza e
la convinzione del mondo, di Dio (Jacobi), etc., non sono che aspetti
diversi di un unico cammino fondamentale della ragione indagatrice.
Aspetti che rivelano l’esigenza originaria di un rapporto conoscitivo che
superi la semplice scissione tra soggetto e oggetto, tipica delle scienze.
Il pensiero di Jaspers è uno di quei luoghi filosofici che
rappresentano una stazione di transito più che di soggiorno. La sua
lettura, suggestiva quanto impegnativa, richiede pazienza e continuo
approfondimento, ma non delude colui che, superata la mole dei suoi testi
e la lentezza del suo procedere (lentezza, peraltro, rotta ogni tanto da
illuminanti salti e lucide intuizioni), segue la lunga via indiretta alla Verità,
fatta di orientazione, chiarificazione e decifrazione. L’originalità del
pensiero di Jaspers risiede proprio nel suo non richiedere un soggiorno
quanto, piuttosto, un transito. Un lettore scolastico (nel senso deteriore del
temine) troverebbe poca soddisfazione nelle pagine di uno Jaspers. Al
contrario è sul piano teoretico che lo stimolo si fa sentire in tutta la sua
forza.
Da un breve sguardo alla letteratura secondaria risalta subito
evidente che, nonostante la vastità dell’orizzonte, il pensiero jaspersiano
ha ben pochi critici a fronte di molti lettori. Il caso italiano è paradigmatico.
Gli studi espressamente dedicati alla filosofia di Karl Jaspers non sono più
di una dozzina mentre la storia della sua influenza nei pensatori a lui
contemporanei e successivi è ben più cospicua. Questo perché il suo
sistema filosofico (e non si può infatti parlare che di sistema) non è un
complesso chiuso, ma ha nell’apertura il suo punto di forza. Apertura che
fa del sistema una struttura aperta (una sistematica aperta) fatta di
pensieri che sono circoli, di affermazioni che sono contraddizioni e
paradossi, di cifre e simboli che nel dire quel che dicono significano più di
quel che dicono. Apertura, infine, che stimola ad andare oltre, come del
resto il filosofare stesso non è che un continuo andare oltre, un
trascendere.
51
2.3. IL FILOSOFARE COME ESERCIZIO DI LIBERTÀ
Il filosofare di Jaspers nel suo continuo trascendere, ossia nel suo
continuo rapportarsi a un altro che è costantemente al di là, è un concreto
esercizio di libertà. Seguendo l’insegnamento kierkegaardiano, il filosofo
tedesco propone e si cimenta in una serie di possibili esistenze, nella
coscienza che tale esercizio non si riduce ad un gioco virtuale ma che
rappresenta un serissimo tentativo di rinvenire, tra le innumerevoli
possibilità, quelle che realizzino l’io nella sua autenticità. Si tratta di un
tentativo cui è connesso il rischio della dispersione, della riduzione
dell’esistenza a mero esserci, della perdita cioè dell’io stesso
nell’inautenticità. Tale rischio che pende costantemente come una spada
di Damocle sull’esistenza filosofante è ciò che, paradossalmente, rende
autentica l’esistenza stessa. Una vita, infatti, che non mette in questione
se stessa, che rimane al riparo da ogni pericolo, e principalmente dal
pericolo di perdere se stessa, non è una vita autentica; al contrario è
proprio la possibilità dello smarrimento del sé, del fallimento esistenziale,
che pone le basi per un autentico rapporto a sé dell’io e pertanto di una
sua piena realizzazione in quanto esistenza.
Nella sua opera – unitaria nelle sue infinite sfaccettature – Jaspers
intraprende vari cammini differenti che nella loro complementarità
delineano, come si è detto, una sistematica aperta. La prolissità
dell’esposizione, l’attenzione quasi maniacale per le classificazioni, il
procedere lento e sempre ritornante su se stesso, infatti, non scrivono un
mondo chiuso ed autoreferenziale ma, al contrario, aprono uno spazio in
un costante esercizio che è il filosofare: si tratta dello spazio della libertà
nel quale l’io – libero da vincoli dogmatici, ossia dalle cristallizzazioni
intellettuali che paralizzano la ricerca – può veramente essere se stesso e,
ciò che è più importante, diventare se stesso.
Non filosofia, quindi, ma filosofare. Non sistema ma sistematica
aperta, rivolta alla comprensione di una totalità che per la natura stessa
della ricerca è una totalità relativa, il cui orizzonte muta costantemente
con il mutare della situazione della singola esistenza filosofante in
cammino (una totalità assoluta, infatti, sarebbe incomprensibile nel senso
letterale del termine: non potrebbe essere com-presa, abbracciata
dall’esistenza filosofante; e d’altro canto una visione sub speciae
aeternitatis, dopo Hegel, non è più praticabile, in quanto risulterebbe
violenta e onnivora nella sua assolutezza, astratta e bisognosa di
realizzazione nella sua idealità). Le articolazioni di questa sistematica
aperta sono i punti di attrito, di cesura, dove si evidenziano
52
contrapposizioni insolute in cui il venir meno degli schemi sotto i colpi
della contraddizione, lungi dal far fallire l’intero filosofare, contribuisce a
far scorgere, oltre i limiti del filosofare stesso, un orizzonte ultimo di là da
ogni orizzonte, una totalità ultima oltre ogni totalità relativa: l’Essere.
Scopo della filosofia in questo contesto è quello di rendere
trasparente l’orizzonte particolare. Ciò vuol dire chiarificare la situazione
esistenziale ed evidenziarne l’intrinseco sbilanciamento verso un oltre
trascendete e, allo stesso tempo, mostrare i limiti della ragione e con ciò
additare il non-possesso-dell’essere in vista dell’essere stesso che si
annuncia oltre ogni essere particolare.
Laddove la scienza e la tecnica, così come una religiosità dogmatica
e irriflessa, ritengono, secondo Jaspers, di possedere l’esclusiva sulla
totalità dell’essere e come tali si negano qualsiasi forma di ricerca ulteriore
e di dialogo, la filosofia si propone, invece, come costante esercizio di
ricerca della verità nella tensione che unisce il singolo nella sua esistenza
alla trascendenza che nell’esistenza solo si annuncia. Per questo Jaspers
parla di concreto esercizio di libertà: perché il filosofare consiste proprio in
un costante atto di liberazione da quei vincoli propri della conoscenza
scientifica e di qualsiasi altra forma di sapere dogmatico e universalmente
valido, allo scopo di consentire all’esistenza la sua realizzazione secondo
quella che è la sua stessa natura, quella appunto di e-sistere (nel senso di
emergere , uscire da sé, sbilanciarsi oltre sé per rapportarsi ad altro) nel
momento stesso in cui è con-sistere (nel senso di essere esistenza tra le
esistenze, in comunicazione, in dialogo, in intenzione di intesa).
Inaccessibilità moltiplicata, scacco diversificato e sempre ritornante,
contraddizione fruttuosa, naufragio controllato, nichilismo metodologico.
Saranno queste le tappe della via jaspersiana all’essere che passa
attraverso il naufragio di ogni possibile ontologia (dove per ontologia si
intende una dottrina codificata e cristallizzata dell’essere come oggetto)
per giungere quindi all’acquisizione di una nuova coscienza critica e una
nuova metafisica (intesa appunto nel senso di un sapere che ha
nell’andar-oltre, nel trascendere, la sua essenza).
Jaspers nella sua opera delinea pertanto un soggetto che, nel suo
continuo ricercare, fallisce (non fallibile in teoria, ma che fallisce nella
pratica) e mostra come l’anelito proprio di ogni filosofia (la totalità
dell’Essere, la Verità e la sua comprensione) sia raggiungibile solo
attraverso la via lunga e faticosa della problematicità e del pensare
sempre ulteriore. Una via fatta di concetti che sono circoli, di paradossi
elevati a contraddizioni, di interpretazioni e fraintendimenti. Il tutto sullo
sfondo della decisione del singolo – dove per singolo Jaspers intende il
53
soggetto vitale, che desidera, nasce e muore tra la gioia di vivere e la
miseria del suo essere effimero, nella coscienza della propria capacità di
emergere fuori da sé, oltre sé, e di scorgere l’incomprensibile totalità
comprensiva (l’Umgreifende) che è l’essere che si annuncia
nell’insoddisfazione della ricerca che, a sua volta, deriva
dall’incompiutezza di ciascuno e dalla non totalità di tutti i modi dell’essere
stesso che noi siamo. Incompiutezza, non totalità e non possesso sono
quindi i modi di dire lo scacco che però non è mai definitivo (Jaspers non
vuole cadere mai nel nichilismo, ma vede in un nichilismo metodico l’unica
via praticabile che conduce all’Essere autentico) ma propedeutico, grazie
alla fede.
2.4. L’EMERGENZA DELL’ULTERIORITÀ: L’ESISTENZA
Punto di partenza di ogni riflessione, nell’ottica della filosofia
dell’esistenza, è appunto l’esistenza. Essa di per sé non è definibile né
oggettivabile, in quanto non è un dato ma un nesso. Il dato o viene
appreso, elaborato e codificato sì da diventare un prodotto del soggetto
(prospettiva idealistica), o viene assunto quale criterio di autorità
vincolante cui adeguarsi nel cammino della ricerca scientifica (prospettiva
realistica). In entrambi i casi, sia nella prospettiva idealistica sia in quella
realistica, il dato risulta essere qualcosa di afferrabile: è oggetto. Al
contrario, l’esistenza non è comprensibile con i criteri dell’universale
validità né con i metodi vincolanti dell’intelletto scientifico, in quanto è un
nesso relazionale, ossia una presenza intenzionale. Qualora l’esistenza
fosse un semplice dato oggettuale, l’uomo sarebbe una cosa tra le altre,
con tutti i caratteri dell’utilizzabilità e della maneggiabilità propri della cosa
(e qui, nota Jaspers, il nazismo troverebbe una sua giustificazione teorica!
E con esso ogni forma di conoscenza invasiva nei confronti dell’oggetto ad
opera di un soggetto forte e violento). Al contrario l’esistenza è un nesso:
un contatto che si realizza nella separazione, un’identità nella differenza,
un rapporto. Rapporto a sé, primariamente, quindi rapporto ad altro, ed
infine alla trascendenza. L’esistenza, infatti, non è pura presenza (o mero
esser-ci) ma ha la propria peculiarità nel carattere riflessivo che la fa
essere chiusura in sé (o in-sistenza) per l’apertura all’altro (o consistenza), ossia intima eccentricità (appunto, e-sistenza), presenza
interessata, intenzionale. Per questo esistere coincide con trascendere, la
presenza è tensione, l’immanenza è trascendenza, l’esistenza è
emergenza di un’ulteriorità.
Ma come dire la coincidenza di autorelazione ed eterorelazione, di
esistenza e trascendenza, di presenza e tensione? Ebbene, il filosofare
jaspersiano si rivolge proprio a ciò che non si può cogliere con i criteri
universalmente validi della conoscenza intellettiva e la cui dicibilità risulta
54
pertanto problematica: l’essere, l’esistenza, la trascendenza. Del resto è
proprio l’indicibile quell’implicito che dall’interno del filosofare emerge
come ciò che è oltre il filosofare stesso, non semplice sottinteso da
svelare ma implicito da rivelare in quanto, allo stesso tempo, ne è
all’origine e ne fonda il senso.
Jaspers intende pertanto chiarire l’essere, l’esistenza e la
trascendenza nella loro inoggettivabilità non direttamente, ma nel
reciproco intreccio di relazioni che instaurano in un comune ambito: il
tempo. Il tempo è infatti il luogo dell’essere, dell’esistenza e della
trascendenza. Esso è il supporto della manifestazione dell’essere, il luogo
della realizzazione dell’esistenza e l’ambito della rivelazione della
trascendenza. È nel tempo infatti che l’essere si dà alla conoscenza e
viene alla parola per il soggetto; è, ancora, nel tempo che l’io in-siste
come con-sistenza tra gli altri uomini ed e-sistenza, ossia emergenza dalla
singola situazione in intenzione di trascendenza; allo stesso modo è nel
tempo che la trascendenza irrompe kierkegaardianamente nella storia
squassandola e dandole senso. È pertanto nel tempo che il trascendere si
presenta come essenza e destinazione dell’uomo, che però non trova di
fronte a sé un oggetto in quanto tale, ma un altro che si dice e si lascia
dire solo mediante simboli che per la loro stessa definizione rimangono in
sospensione, aperti al fraintendimento, alla multivocità, all’interpretazione.
Questi simboli sono le cifre, segni presenti di un significato assente,
significati comprensibili di un senso altro, manoscritti di qualcos’altro che
nella loro opacità costitutiva lasciano trasparire l’essere che di per sé è
incomprensibile (se comprendere significa abbracciare, afferrare, begreifen) in quanto è l’inafferrabile abbracciante onnicomprensivo
(periéchon, Umgreifende), per sua natura ritraente in quanto sempre
ulteriore.
2.5. LA CIFRA, MANOSCRITTO DI QUALCOS’ALTRO
La teoria jaspersiana delle cifre è divenuta un topos della filosofia del
Novecento. La riassumo brevemente. Nonostante l’inafferrabilità della
trascendenza (che come tale è l’abbracciante e il ritraente, ciò che
circonda e allo stesso tempo sopravanza), per il pensiero che ricerca nel
mondo vi sono manoscritti leggibili di questa intima alterità: le cifre,
decifrabili solo esistentivamente. Ora, la lettura delle cifre cui il pensiero
metafisico si dedica non è l’apertura di un senso fondante e pacificante,
quasi fosse una soluzione della ricerca filosofica, quanto l’ulteriore
55
sfondamento di una prospettiva che nel tempo, in cui non c’è pace, si
scopre doppiamente fallibile: da un lato la trasparenza del significante –
sarebbe meglio dire l’opacità dell’indicante – è il fallimento dell’oggettività
dell’oggetto-cifra, poiché l’oggetto colto non è ciò che si vorrebbe cogliere,
e dall’altro il fallimento della significanza del significante-cifra, in quanto il
significato non è in alcun modo oggettivabile. Nella constatazione di
questo doppio naufragio la metafisica rimane pertanto sospesa, salvo poi
recuperare un senso positivo grazie alla dialettica dell’implicanza (di
matrice barthiana) per la quale, come accade nella lingua tedesca, due
negazioni affermano, e quindi, proprio in questa doppia fallibilità, trovare
infine il senso nella propria positività: alla fine il tempo tace e il resto è
silenzio.
Siamo nel silenzio della verità dell’essere nella trascendenza. Di
quell’essere che noi non siamo e che in fondo non è (un essere che fosse
sarebbe qualcosa e il qualcosa è già una determinazione, che cercando di
afferrare l’essere lo perde; cfr. P, III 44; 980). Il percorso della riflessione
jaspersiana è il seguente: l’esistenza è formata, strutturata, supportata
dalla temporalità la quale segna ogni sua realizzazione, anzi è la sua
realizzazione; allo stesso modo però la temporalità segna anche la Verità
quale ambito della sua manifestazione, per cui non si dà Verità assoluta
ma solo verità nella comunicazione; ma la comunicazione, a sua volta,
fallisce nella volontà d’infinito e si sospende nel silenzio. Per contro la
trascendenza, come limite contro cui urta ogni tentativo del pensiero – non
Grenze (confine) oltre cui guardare ma Schranke (barriera) contro cui
franare – non ha tempo, non ha verità, non ha tensione, né ricerca, né
pensiero… in essa il pensiero, come il tempo, tace. Le celebri parole di
Jaspers che seguono sintetizzano paradigmaticamente tale situazione:
« Il silenzio dell’essere della verità nella trascendenza [...] ecco il
limite nel quale per qualche istante può risplendere ciò che è il tutto senza
divisioni; ma nel mondo esso scompare, per quanto influisca decisamente
sull’essenza dell’uomo, ed è incomunicabile, perché la comunicazione lo
attirerebbe nei modi dell’essere onnicomprensivo nei quali sarebbe
frainteso. La sua esperienza è assolutamente storica: nel tempo eppure al
di là del tempo. È per esso che si può parlare, ma non si può parlare di
esso. Per il pensiero come per la comunicazione il punto d’arrivo è il
silenzio » (VE, 74; 125).
Nel tempo quindi, ma al di là dal tempo, si danno dei manoscritti di
qualcos’altro, ossia dei documenti, dei monumenti, delle testimonianze di
un autore assente, attraverso cui traspare un’ulteriorità che, in quanto
manoscritto, è sì leggibile e decifrabile ma solo da chi ne possieda la
chiave. L’autore è l’originario, la trascendenza. La testimonianza non è
però necessariamente un testo o un messaggio: può essere un fatto, un
56
evento, una persona… qualsiasi cosa o evento che possa significare e
allo stesso tempo avere un significato differente da quello di cui è
portatore, o meglio qualsiasi cosa che nel significare quel che significa, nel
dire quel che dice, dica più e oltre, lasciando trasparire un’ulteriorità di per
sé indicibile, un senso inafferrabile, ma pur sempre in un certo senso
comprensibile. Il lettore infine è l’esistenza. Colui che per il fatto di
esistere, ossia di essere un essere nel modo dell’esistenza, situato
temporalmente e intimamente sbilanciato verso la trascendenza
dell’essere stesso, ovvero per il fatto di essere un singolo nella sua
storicità, possiede la chiave di decodificazione della cifra. Tale chiave è
costituita dall’esistenza stessa, ossia da quel legame originario che è
causa dello scarto interiore che, a sua volta, muove il tempo e la storia.
Ebbene, questo manoscritto di qualcos’altro è, suo malgrado,
un’oggettività. La trascendenza infatti non può che manifestarsi in
un’oggettività. Ma tale oggettività, come si diceva, deve fallire il suo
carattere oggettivante, perché la sua missione è quella di veicolare
l’esistenza verso la Trascendenza e ciò è possibile solo se l’oggettività (di
cui peraltro né il mondo, né il pensiero, né l’esistenza stessa possono fare
a meno) si fa trasparente e si dissolve per l’esistenza: «l’oggettività in cui
appare la trascendenza è trasparente solo per l’esistenza e, come
oggettività, si dissolve» (PH, I 49; 163).
Solo l’esistenza, quindi, ha in mano la chiave dello scrigno della cifra.
Questo perché non si tratta di una conoscenza da comunicare in termini
cristallizzati e universalmente validi, ma di una conoscenza di tipo
totalmente nuovo che ha bisogno di un linguaggio suo, di una logica
propria: il linguaggio dell’essere e la logica della trascendenza. A questo
scopo Jaspers elabora la sua metafisica che non conosce la trascendenza
ma crea lo spazio – in un trascendere logico, in un linguaggio
dell’oggettività che è presente e si dissolve allo stesso tempo – per la
lettura dell’oggettività dissolventesi per l’esistenza nella cifra. Risultano
illuminanti pertanto le seguenti parole di Jaspers:
«L’esistenza può captare risposte solo quando si autocomprende in
riferimento all’essere; queste risposte sorgono dalla profondità del
fondamento trascendente e si presentano in immagini e in concetti che,
come oggetti di volta in volta finiti, sono simboli. Nella problematizzazione
dell’oggettività il simbolo, afferrato dalla coscienza, diventa cifra, ossia
manoscritto di qualcos’altro che, illeggibile coi criteri dell’universale
validità, è decifrato esistenzialmente » (PH, I 33; 146).
La cifra è quel manoscritto che può esser letto e decifrato solo
esistenzialmente, a partire dall’esperienza del mondo, per poi giungere al
salto, non condivisibile né ripetibile, che ciascuno nella sua singolarità è
57
chiamato a decidere per sé (il singolo nel suo rapportarsi autenticamente
a se stesso «vuol giungere al limite, dove il mondo come esserci si
dissolve, per spiccare il salto», dice Jaspers; cfr. PH, I 44; 158). La
metafisica è pertanto quell’indagine che rende consapevole della lettura
delle cifre. Essa filosofa col concetto e crea costruzioni analoghe a miti ma
con una forma di penetrazione più piccola e una chiarezza maggiore
(«Essa – dice ancora Jaspers – legge i miti, l’arte, la poesia come
manifestazioni della trascendenza e, mediante concetti, si appropria di ciò
che sta sopra di essa»; PH, I 58; 173). Ne risultano pensieri non
logicamente vincolanti – la trasparenza verso la trascendenza, del resto,
non può che risultare opacità per una mente orientata nel mondo –, circoli,
paradossi che naufragano dissolvendosi nel «silenzio dell’essere della
verità nella trascendenza» (VE, 74; 125). È solo nel silenzio dell’essere
che la ricerca trova pace: «l’esserci si fa trasparente quando è originario
essere-se -stesso in cui per un istante si annulla l’inquietudine; allora il
tempo tace, il ricordo si risolve nell’essere» (PH, I 39; 152).
Come si vede, l’esito della metafisica, nel suo superare le
cristallizzazioni dell’intelletto, consiste nell’apertura all’uomo che filosofa a
partire dalla propria esistenza di una prospettiva di ulteriorità che, nella
sua trascendenza (la trascendenza dell’essere -non-oggetto) non può che
dirsi con il silenzio. Una sorta di mistica laica, quindi, in cui però il silenzio
non ha il senso dell’annullamento totale della soggettività indagante, ma è
solo un modo altro di dire ciò che con il linguaggio della conoscenza
scientifica non sarebbe che contraddizione e paradosso. Un tale silenzio
quindi non vuole essere vuoto, assenza di parola, ma al contrario nella
prospettiva di Jaspers vuole essere gravido di significato e affermare con
forza il suo legame con la Verità nel momento in cui non può che mostrare
il fallimento di quella realtà, peraltro imprescindibile per l’uomo, che è la
coscienza scientifica. Il cammino verso la Verità si rivela quindi un
cammino fatto di negazione e di fallimento. Sarà proprio nel fallimento (nel
naufragio) che la trascendenza dell’Essere assolutamente inafferrabile per
l’intelletto si rivelerà in tutta la sua abbacinante verità. Ma – il procedere di
Jaspers non si cristallizza mai in una posizione stabile – tale verità sarà
valida solo per l’esistenza singola nel suo atto di relazionarsi alla sua
ulteriorità. E questo solo in rari momenti. All’uomo quindi, e intendo
all’uomo in generale, non restano che i continui fallimenti di un discorso
che vuole dire ciò che non può e che si traduce in un anelare che
sperimenta solo il proprio naufragio. In una tale prospettiva il linguaggio
scientifico-razionale abdica a favore di un altro linguaggio: il linguaggio
della fede.
2.6. LA TESTIMONIANZA DELLA CIFRA: LA FEDE
58
Il fallimento intellettivo (naufragio scientifico nell’opacità della
trasparenza della trascendenza) e l’insoddisfazione esistentiva (naufragio
della comunicazione in intenzione d’infinito nel tempo), esperiti all’interno
della struttura temporale, aprono la crisi nella quale nascono, per il singolo
che filosofa, la questione della Verità, la domanda, il rischio, e in fine il
silenzio. È il silenzio del non-sapere che deriva dall’irruzione dell’eterno
nel tempo. Un’irruzione che sconnette il tempo (« The time is out of joint »!
dice Amleto citato più volte da Jaspers; Hamlet, I, 5, 188-189, ad es. in W,
937) e che a sua volta apre al silenzio come luogo ultimo, puntuale, del
filosofare nel tempo nel quale solo è possibile il trascendere per il
pensiero. Veicolo di tale trascendere è la cifra quale manoscritto di
qualcos’altro, testimonianza omogenea solo all’esistenza in quanto
radicata in quella trascendenza che è l’ultimo e il primo per l’esistenza, in
quell’estraneità interiore che fonda l’esistenza stessa nella sua valenza esistenziale. Ambito di tale trascendimento per la testimonianza della cifra è
il salto della fede che non è mai universale o comunicabile ma sempre
personale («è la mia fede come realizzazione originaria e come rischio ad
esso connesso»; PH, I 57; 171).
Ora, dice Jaspers, se per lo spirito (il modo di esser-io aperto
all’intelligibilità) l’essere coincide con il pensiero, per l’esistenza (il modo di
esser-io aperto alla propria possibilità e quindi alla libertà) l’essere
coincide, kierkegaardianamente, con la fede che si sostituisce al pensiero
inglobante come unica espressione del senso. Proprio la fede infatti – nel
suo slittamento semantico che l’ha portata dall’essere un assenso
razionale a una testimonianza (per la filosofia classica), poi una credenza
sufficiente solo soggettivamente (in Kant), poi ancora un sapere
immediato che con la sua inderivabile evidenza fonda la certezza e la
convinzione di realtà (in Jacobi) – è in Jaspers la certezza di qualcosa che
non esibisce il proprio fondamento veritativo in quanto è oltre, ma che si
annuncia per mezzo di cifre che danno da pensare; certezza che rimane
sospesa in quanto fondata sul riconoscimento dei limiti della conoscenza –
il naufragio intellettivo – e sulla coscienza della problematicità e del rischio
di una conoscenza non dimostrativa e vincolante. Si tratta pertanto della
filosofia stessa di Jaspers, del pensiero che, immerso nell’orizzonte
temporale, opera il trascendimento tra pienezza estatica e silenzio
espressivo: «immersa nella realtà del tempo, la filosofia conosce la
presenza e la contemporaneità del vero essenziale proprio della
philosophia perennis che, in ogni tempo, estingue il tempo» (PG, 131;
179).
59
2.7. IL CONCETTO DI FEDE FILOSOFICA
A questo punto Jaspers si sente in dovere di dare ragione del suo
ricorso al termine fede per indicare il senso più proprio della sua filosofia.
Ebbene, dice Jaspers in un’opera tanto monumentale quanto pedante
nell’infinita volontà di ricapitolazione (Der philosophische Glaube
angesichts der Offenbarung del 1962), la fede è una prerogativa dell’uomo
inteso come soggetto conoscente. Tale peculiarità si inserisce all’interno
delle facoltà umane non come qualcosa di esterno né come qualcosa di
opzionale e accessorio. Qualora il soggetto possedesse la pienezza della
conoscenza della Verità, infatti, si troverebbe nella reale impossibilità di
sperimentare una fede, in quanto non troverebbe di fronte a sé
(angesichts) alcuna barriera che nel limitare le sue capacità conoscitive
allo stesso tempo innalzi queste alla possibilità della fede, intesa come
atto razionale di accoglienza di una testimonianza riguardo a verità
razionalmente non dimostrabili. Allo stesso modo, però, un soggetto
incapace di ricercare, perché fermo al semplice livello dell’esser-ci, non
aperto cioè alla dimensione dell’ulteriore, dell’e -sistenza, non potrebbe in
alcun modo tendere verso un oggetto che possiede e non possiede ad un
tempo, ovvero possiede nella forma del cercarlo ulteriormente. Solo
l’uomo – che come Eros è sinolo di pienezza e povertà – si trova nello
stato della ricerca e quindi della possibilità della fede.
Certo, non ogni ricerca ha come suo punto d’arrivo la fede. Ma ogni
ricerca ha in sé la possibilità della fede come disposizione interiore ad
andare oltre e allo stesso tempo a criticare e a ritenere non concluso né
conclusivo ciò che possiede. La fede sorregge la ricerca, quindi, ma solo
la ricerca autentica, ossia quella che nella sua radicalità osa spingersi sino
alle estreme possibilità offerte dalla natura stessa del conoscere umano
che è in primis, ma non solo, un conoscere scientifico.
Ora, tale riflessione preliminare, nel limitare all’ambito della ricerca
umana la possibilità della fede, permetta a Jaspers di riconoscere come
prerogativa di ogni uomo la possibilità della fede, senza per questo
identificare necessariamente l’uomo con il credente. La possibilità della
fede, cioè, è insita in ogni uomo. Ma oggi, osserva Jaspers, il potenziale
credente che ogni uomo è per natura si trova a lasciar sopire la sua fede,
sopraffatto da quella naturale e universale tensione alla comunicazione e
all’intesa umana che è radice e stimolo della storia del mondo. «La
possibilità della fede è oggi, in innumerevoli uomini nascosta», si legge
nella prefazione alla monumentale opera del 1962 (PGO, trad. it. p. 11).
Questa situazione (l’assopimento del potenziale fideistico insito in ogni
uomo) non è dovuto, secondo Jaspers, a una esplicita negazione di ogni
credo, ma alla volontà di intesa con l’altro che l’uomo sente innata e che la
60
fede, intesa kantianamente come credenza valida solo soggettivamente,
non è in grado di soddisfare. Gli uomini cioè, come l’insieme dei soggetti
conoscenti in ricerca, tendono per natura verso l’unanimità, verso l’intesa.
Tale tensione universale non appare però soddisfatta dalla fede, che nella
sua valenza soggettiva è sostanzialmente incerta, ma al contrario dalla
conoscenza scientifica.
La fede, con un processo del quale abbiamo brevemente tratteggiato
le tappe, si è venuta strutturando nel procedere del pensiero filosofico
sempre più come una fonte veritativa e normativa valida solo
soggettivamente, individualmente. Al contrario, nel corso dei secoli, la
conoscenza scientifica è venuta assurgendo al ruolo di attore protagonista
e il suo linguaggio a koinè dell’umano sapere. Proprio il sapere scientifico,
con i suoi vincoli matematici riscontrabili oggettivamente, con la sua
esattezza logica, con la sua universale validità, può rappresentare, per il
filosofo moderno, il terreno di intesa tra gli uomini. Esso infatti, dice
Jaspers, nel suo incessante progresso finirà per unificare tutti i tipi
dell’umano in un’universale chiarezza in intenzione di Verità. Ma tale
chiarezza « è, paradossalmente, l’oscuramento dell’essenziale » (PGO,
trad. it. p. 12). Più la scienza procede, infatti, nella sua opera di
chiarificazione, più essa viene a perdere l’oscuro fondamento del tutto,
che è l’eterna origine, l’essere umgreifende. Questo perché il metodo
scientifico, approfondendo sempre più le determinazioni, viene ad
affermare sempre più il regno della differenza e della scissione tra
soggetto e oggetto. Con il suo lume, quindi, si allontana sempre più
dall’oscuro e unico fondamento del tutto, quale è l’Essere inteso non come
questo essere particolare e determinato (oggetto della scienza) ma come,
appunto, l’essere originario che fa sì che tutto sia e in cui tutto è uno.
Certo, l’uomo nel suo cammino di ricerca non può che muoversi nella
scissione tra soggetto e oggetto, e quindi tale allontanamento dall’origine
è necessario e necessitato proprio dalla struttura della conoscenza
umana. Ma – e qui interviene l’opera del filosofo Jaspers – proprio a
partire dalla chiarezza oscurante del metodo scientifico è possibile per
l’uomo che ricerca, ossia per l’uomo autentico, ripercorrere a ritroso il
cammino della chiarezza oscurante della scienza per rinvenire l’eterna
origine, l’essere al di là di ogni essere determinato. Questo in virtù del
fatto che il pensiero che opera nella scissione tra soggetto e oggetto, il
pensiero nel particolare cioè, è un pensiero riduttivo, limitato, oggettivo,
ma allo stesso tempo è «il luogo in cui si annuncia una verità che
s’avverte irriducibile a contenuto-pensato e si pone perciò come un
creduto (Geglaubtes)». Qui si apre l’immane impresa del filosofo Jaspers:
leggere nel mondo della scissione tra soggetto e oggetto ciò che è al di là
di ogni scissione e che per sua stessa definizione si sottrae a ogni
definizione, l’incomprensibile totalità comprensiva, l’Essere umgreifende.
61
Una tale lettura non può avvalersi del « linguaggio della chiarezza
razionale », che lungi dall’unire gli uomini li limita e li lega (dal latino
religare) con la costruzione di sempre nuove barriere, nuove
determinazioni e nuove negazioni, derivanti dalle necessarie
cristallizzazioni con cui opera il linguaggio razionale.
Ora un tale pensiero, che ha come oggetto ciò che non può essere
oggetto di pensiero, non può che avere il nome di “fede”. Il saputo non
compreso è il creduto, dice Jaspers. Se da un lato la verità scientifica,
relativamente ai suoi metodi, è universalmente valida e come tale può
pretendere di fornire una spiegazione del suo oggetto, la verità filosofica
risulta assoluta per colui che vive in essa e allo stesso tempo si mostra
nella molteplicità non universalizzabile delle enunciazioni soggettive.
Certo, una tale impresa è possibile per l’uomo che filosofa
autenticamente, che non si limita ad esserci, ma che, muovendo dalla non
compiutezza di una chiarificazione che procede all’infinito, riesce a
mantenere libero lo spazio per una vera realizzazione della ricerca e di
conseguenza riesce a mantenere se stesso nella libertà.
La libertà è, infatti, il punto focale dell’analisi di Jaspers: «Solo nella
libertà gli uomini possono divenire uomini » (PGO, trad. it. p. 11). La
libertà e la chiarificazione infinita possono, quindi, aprire lo spazio per
un’intesa umana, anche se nella coscienza dell’impossibilità di ogni
determinazione esauriente e definitiva. All’interno di tali riflessioni si
inseriscono le lezioni sul concetto di fede filosofica del 1947.
2.8. LE LEZIONI SULLA FEDE FILOSOFICA
Nel luglio del 1947, su invito della libera fondazione accademica
dell’Università di Basilea, Jaspers tiene un ciclo di sei lezioni
espressamente dedicate alla chiarificazione del concetto di “fede
filosofica” (Il concetto di fede filosofica; I contenuti della fede filosofica;
L’uomo; Filosofia e religione; Filosofia e antifilosofia; La filosofia nel
futuro). Sempre il 1947 è l’anno della pubblicazione di Von der Wahrheit,
la prima parte della monumentale opera di Logica filosofica rimasta
incompiuta. Entrambe presentano un approfondimento della Verità in
rapporto alla situazione temporale nella quale viene a manifestarsi e
all’incomprensibile orizzonte comprensivo che è l’essere stesso di cui può
parlare solo un linguaggio diverso da quello scientifico. Tale linguaggio è,
per Jaspers, la fede filosofica, ossia una forma di conoscenza che – unica
– superando la scissione tra soggetto e oggetto, è capace di rivolgersi
all’Essere umgreifende attraverso il medio paradossale delle cifre.
62
La filosofia nasce dalla ricerca di senso, dice Jaspers. Se tale ricerca
trova la sua risposta in una acritica accettazione di una fede rivelata, la
filosofia muore sottomessa alla teologia. Se invece rinviene la risposta
all’interno delle possibilità dell’intelletto scientifico, la filosofia perde ogni
sua giustificazione, riducendosi, al massimo, a teoria della conoscenza.
Ancella della teologia ovvero ancella della scienza. In entrambi i casi la
filosofia non ha più senso di esistere. Deve forse abdicare? Si domanda
Jaspers. Certamente no. O, detto altrimenti: in un’epoca dominata
dall’estrema frammentazione del sapere e in cui si rifugge o si predica
l’integrazione dei saperi, il compito primario della ragione filosofica
consiste nella giustificazione di se stessa come possibilità antropologica
alla luce di quelle altre possibilità che si presentano con sempre maggiore
insistenza e coinvolgono con sempre maggiore forza: principalmente cioè
la fede nella scienza e la fede nella religione.
La filosofia si presenta quindi, per Jaspers, in contrapposizione, o
almeno in dialogo, con la scienza e con la religione. Un dialogo costruttivo,
se basato sul comune intento di rinvenire punti di contatto e ambiti di
applicazione specifici. Un dialogo che, invece, diviene viva
contrapposizione qualora una delle parti in campo avanzi la pretesa di
estendere la sua sfera di applicazione oltre dei propri limiti. Non si tratta,
quindi, della scienza e della religione tout court, ma di una certa fede nella
scienza e di una certa fede nella religione, che Jaspers identifica con il
termine di superstizione. Si tratta cioè di quelle forme di pensiero che
intendono fondare il loro stesso sapere su un’affermazione dogmatica e
deresponsabilizzante in campo politico, economico, scientifico, religioso,
etc., e che, sulla base di tale presupposto, non consentono alcun dialogo
con altre forme di sapere ma, al contrario, si muovono ponendo
costantemente semplici (o semplicistiche) alternative preconcette che, in
quanto tali, privano l’uomo della propria libertà, della libertà cioè di
realizzarsi pienamente come soggetto in ricerca, come esistenza nel
cammino della vita.
2.9. CONTRO LA SUPERSTIZIONE
La perversa atque impia religio di Cicerone, ovvero la superstizione
(Aberglaube), è per Jaspers la pigrizia della ragione che nella costante e
naturale tensione alla Verità cede alla tentazione di eludere il rischio –
sempre personale e mai delegabile ad altri – della ricerca, scegliendo
invece l’adesione a surrogati preconfezionati e, per di più, accettati
acriticamente. Questi surrogati, dice Jaspers, a prescindere dal possibile
contenuto veritativo, sono da rifiutare in quanto snaturano l’essere stesso
63
dell’uomo che è un essere in cammino, in ricerca, e lo sottraggono alla
responsabilità che egli ha verso se stesso e che, continua il filosofo
tedesco, gli deriva da Dio stesso. Queste affrettate alternative «
collocando le possibilità umane in opposizioni così radicali, le dilacerano,
facendo così naufragare la realizzazione dell’essere umano autentico »
(PG, 10; 56). Si tratta del cattivo naufragio che conduce alla perdizione
esistenziale, alla perdita cioè di quella categoria di santità esistenzialistica
che è l’ autenticità. Come vedremo, a questo primo “cattivo” naufragio
Jaspers opporrà un secondo naufragio, kierkegaardiano e “virtuoso”, in cui
il momento dello scacco viene a coincidere con il momento della piena
realizzazione dell’uomo nel suo rapporto alla Trascendenza.
L’arroganza della scienza (“o la scienza o l’illusione”) e l’esclusività
della fede rivelata (“o Cristo o il nulla”) sono alternative che, secondo
Jaspers, gettano l’uomo nell’angoscia e nella disperazione, laddove questi
sente chiaramente di essere altro, anzi, oltre . Dice Jaspers: « noi,
filosofando preferiamo il rischio, preferiamo restare aperti alle possibilità
che si dischiudono alla condizione umana. La filosofia non deve abdicare.
Oggi meno che mai » (PG, 10; 56).
Per comprendere adeguatamente il discorso di Jaspers è fondamentale
notare come questi accosti scienza e fede nella comune tendenza alla
superstizione. Egli quindi non critica la religione e la scienza, come del
resto non si pone né come teologo né come scienziato, ma mette in luce
la deviazione filosofica di certa scienza e certa religione, che ha la sua
radice proprio nella pigrizia della ragione che, non volendosi assumere il
rischio della fatica del concetto, si abbandona a schemi e ideologie
deresponsabilizzanti. Anziché estraniarsi dal dialogo tra scienza e fede e
proporre una terza via, lo Jaspers filosofo dialoga costantemente con
entrambe accomunandole nella loro possibile valenza filosofica. Questo è
il motivo per cui la filosofia non deve in alcun modo abdicare. Perché,
nella sua peculiarità e autonomia, permane come orizzonte – anche – di
un corretto ricorso alla scienza e alla religione.
2.10. LA FILOSOFIA NON DEVE ABDICARE
« La filosofia non deve abdicare. Oggi meno che mai » (PG, 10; 56).
Essa non deve dimettersi proprio in vista del baratro verso cui l’Occidente
tecnologico corre sempre più rapidamente (ricordo che siamo nel 1947!).
Solo la filosofia, infatti, è depositaria di quella relazione con la sorgente
originaria dell’umano (l’Essere quale incomprensibile totalità comprensiva,
in tedesco: Umgreifende), che non è oggetto delle scienze esatte e che
non può essere oggetto di una acritica accondiscendenza religiosa, non
tanto per i presunti limiti intrinseci di una scienza cieca (inesauribilità della
ricerca) e di una religione dogmatica (cristallizzazione di un rapporto
64
unico, personale ed irripetibile), quanto piuttosto proprio a causa
dell’inoggettivabilità derivante dall’inesauribilità dell’Essere stesso.
Relazione all’originario, quindi, che è anch’essa originaria e che in ultima
istanza è l’uomo stesso.
L’uomo è esistenza. E non si dà esistenza senza trascendenza, anzi
proprio nella definizione dell’esistenza è contenuta la natura emergentiva
dell’io, che è originariamente relazionalità, intenzionalità, e-mergenza.
Relazione primariamente a sé e, mediante questa, relazione ad altro:
autorelazione ed eterorelazione. L’uomo è, quindi, naturalmente
sbilanciato (emergente) verso l’altro e verso l’oltre, verso cioè un altro che
è al di là del semplice esser-ci e che nella sua assenza si rivela più
fondante di ogni presenza (è da ricordare che il termine Da-sein,
diversamente che in Heidegger, in Jaspers ha un senso riduttivo, di
semplice presenza, mero qui e ora, irriflesso e irrelato). Compito della
filosofia oggi è, pertanto, la scoperta e la messa in evidenza di questa «
relazione con la sorgente originaria dell’umano» (PG, 10; 56). Non si tratta
di un impegno secondario o accessorio, in quanto si sofferma su quella
relazione – alla trascendenza – che fonda tutte le altre relazioni umane (la
relazione a sé, all’altro, a Dio) e che in ultima istanza è l’uomo stesso. Per
esplicita ammissione di Jaspers, infatti, «si tratta di un tema illimitato »
(PG, 11; 57) affrontando il quale si abbraccia l’intero ambito dell’umano.
Questa è, del resto, la peculiarità del sapere filosofico.
Muovendo da tali basi Jaspers delinea un fitto parallelo con le altre
forme di sapere sopra citate: la scienza e la religione. È paradigmatico,
come si è detto, che scienza e religione vengano da Jaspers accomunate
nella loro differenza dalla filosofia: entrambe infatti, pur nelle loro
reciproche diversità, si presentano come forme di sapere che nella loro
naturale tensione all’universalità, alla comunicazione e alla condivisione,
in definitiva all’unanimità, divengono sostanzialmente estranee
all’esistenza del singolo e, in un certo senso, indifferenti all’uomo. Solo la
verità filosofica è omogenea all’esistenza. Essa infatti, secondo Jaspers, si
affida a tal punto all’uomo da morirne nella ritrattazione. Al contrario, la
verità scientifica si affida al rigore della logica e dalla matematica e la
verità religiosa si affida all’autorità della Rivelazione e della Chiesa che ne
perpetua il messaggio. Proprio il rigore scientifico e l’autorità della Chiesa
sono, quindi, oggetto di critica da parte di Jaspers, non in quanto tali, ma
se utilizzati per soppiantare la ricerca filosofica – costante, irripetibile,
sempre personale e mai cristallizzabile in forme concettuali valide
universalmente. E questo non per eliminare la scienza e la religione, ma
allo scopo di evidenziare la forza unitiva della filosofia rispetto ad
65
entrambe. Tale forza si fonda nel suo radicarsi nell’umano autentico,
nell’esistenza come coincidenza di relazione a sé e relazione alla
trascendenza.
2.11. DUE TESTIMONI: BRUNO E GALILEI
A ragione sono celeberrime le seguenti parole: «La fede è diversa
dal sapere. Giordano Bruno credeva, Galilei sapeva » (PG, 11; 57). Cui
segue:
« Qui sta la differenza: c’è una verità che, ritrattata, muore; e c’è una
verità che nessuna ritrattazione è in grado di estinguere ». E ancora: « La
verità dalla quale io traggo la mia esistenza vive solo se io mi identifico
con essa; storica nel suo apparire, non possiede una validità universale
pari alla sua enunciazione oggettiva, ma è incondizionata. La verità che io
posso dimostrare, può sussistere anche senza di me, essa è
universalmente valida, non è storica, non dipende dal tempo, ma non è
neppure incondizionata, perché dipende dalle premesse e dai metodi della
conoscenza in connessione ai fini »; e di seguito: « Voler morire per
qualcosa di esatto e di dimostrabile è fuori luogo. Al contrario, il pensatore
che crede di aver penetrato il fondamento delle cose non può ritrattare le
sue proposizioni, senza con ciò attentare alla verità stessa, questo è il suo
segreto» (ib.).
Come si vede, Jaspers pone l’accento sul rapporto personale alla
Verità e all’Essere che vede salvaguardato solo dalla filosofia, e che,
invece, la scienza e la religione, fissate nella loro dogmaticità sembrano
annullare. È questo il grido di genuino amore per il sapere (filo-sophia) di
chi vive l’esperienza di masse di uomini che si conformano a ideologie
spersonalizzanti o che si affidano ciecamente al progresso tecnologico. È
da notare come l’unione di incondizionatezza e storicità, nella sua
paradossalità, richiami la grande sintesi kantiana dei giudizi sintetici a
priori. In questi il maestro di Königsberg riusciva ad unire
l’incondizionatezza del conoscere con la condizionalità del dato
dell’esperienza. Allo stesso modo, la verità una vive nel mondo affidata
alle testimonianze sempre uniche che le singole esistenze sanno darne.
La verità filosofica – così proclama il messaggio di Jaspers inviato
all’umanità intera nel momento della ricostruzione di una sua identità, il
1947 – vive della testimonianza da parte di un’esistenza capace di mettere
a rischio se stessa per il riconoscimento del suo fondamento, per la verità
appunto. Essa si presenta quindi nella sua fragilità che, lungi dal
66
rappresentarne la negazione del valore universale, è, al contrario,
l’affermazione della sua validità al di sopra sia dei semplici vincoli logicomatematici delle scienze sia delle autorità di qualsiasi tipo. La forza della
Verità risiede proprio nel suo affidarsi all’esistenza ed aprirsi quindi alla
possibilità tanto della conferma quanto del rinnegamento. Si tratta infatti di
qualcosa che tocca il cuore del singolo, non come un mero contenuto
oggettivo, bensì come un appello che richiede risposta, testimonianza e,
se necessario, martirio (ché poi è la traduzione greca di testimonianza).
2.12. LA FEDE COME SAPERE
Nessuna evidenza accolta universalmente può pretendere il
sacrificio, nota Jaspers (cfr. PG, 11; 58). La peculiarità della verità
scientifica è infatti quella di non essere mai in debito nei confronti di chi se
ne fa portatore, in quanto la sua validità è dettata dall’autorità che il
metodo matematico universalmente valido le fornisce, a prescindere da
ogni sua enunciazione particolare. Essa è pertanto al riparo da ogni
rischio di fallimento ed un eventuale rinnegamento non la intaccherebbe
se non marginalmente. Ma questa sua forza si traduce, per l’uomo che
ricerca il fondamento del tutto, in un astratto universalismo che oscura il
senso, anziché rivelarlo. Il non-fallire della scienza è il suo reale fallimento,
laddove non è in grado di rivolgersi all’esistenza del singolo nella sua
libertà, ma sa solo vincolarne le possibilità. Allo stesso modo la verità
religiosa, nel suo radicarsi nell’autorità della Chiesa, si presenta –
secondo Jaspers – come un dato inequivocabile cui conformarsi.
Nell’ottica jaspersiana la verità scientifica e la verità religiosa
sembrano costringere. Esse, infatti, sono accomunate ed interpretare
come forme di sapere kantianamente patologiche, ossia estranee ed
invasive nei confronti dell’esistenza, la quale viene così a trovarsi di fronte
a principi trascendenti, sì, ma di una trascendenza data fuori di sé, e
quindi essenzialmente estranea ed impersonale (proprio l’essere di fronte,
angesichts, rivela l’estraneità e in un certo senso – questa volta hegeliano
– la negatività: si pensi al titolo dell’opera del 1962, La fede filosofica di f r
ont e alla Rivelazione). La verità filosofica invece libera: nell’atto di
svincolare la ricerca da principi eteronomi, essa consente l’accertamento
all’interno della ragione stessa di quell’originario radicamento emergentivo
che fonda la possibilità del trascendimento della situazione particolare e,
quindi, la possibilità dello stesso rapporto alla Trascendenza. La verità
filosofica pertanto rivela una “immanente trascendenza” nel rinvenire la
propria ragion d’essere nel filosofare ulteriore, non solidificato e sempre
aperto alle possibilità dell’esistenza. Essa apre al rischio e al sacrificio che
è possibile solo « dopo una lunga e combattuta vittoria riportata su di sé »
67
(PG, 11; 58) riguardo a ciò che ha un valore assoluto ma non universale.
Solo in questo caso si può parlare di fede autentica, in quanto « certezza
della verità che non si lascia dimostrare » (PG, 11; 58).
Tale fede filosofica si raccoglie in enunciati che hanno la forma di
una professione di fede, senza però essere accettazione acritica di una
rivelazione: mentre la scienza si presenta come un organismo di pensieri
che penetrano la vita nella sua totalità, la fede è la facoltà dell’originale
rapporto all’originario. Questo non vuol dire che la fede autentica sia
irrazionalità. Essa, infatti non si realizza negli « attacchi gratuiti condotti
contro tutto, nella distruzione di quei valori verso cui massimamente si
aspirava, e a cui era riconosciuta una certa efficacia realizzatrice, nella
dispersione del patrimonio della tradizione, accompagnata da una
mancanza assoluta di serietà mascherata sotto il nome di libertà,
nell’esaltazione dell’incoerenza e dell’irresponsabilità » (PG, 12; 59). Al
contrario la fede è volontà di sapere. Ancor più: « essa vuol sapere cosa è
possibile sapere » (PG, 13; 59) e in questa ricerca chiarisce se stessa
(come si vede, più si approfondisce il senso del ricorso al termine fede e
più si comprende come la fede filosofica sia distante dalla fede intesa in
senso classico).
Nella fede filosofica il sapere riguardo a verità non dimostrabili
scientificamente si traduce in volontà di chiarire e di approfondire il nesso
che lega (religare, ma ora nel senso di ancorare) l’uomo a queste verità.
Tale nesso, nella chiarificazione delle possibilità del sapere, si mostra non
estrinseco ma a tal punto connaturato all’uomo in ricerca che risulta
essere la sua stessa esistenza. Dalla coscienza della propria esistenza
come nesso e rapporto alla trascendenza inoggettivabile sorge, per l’uomo
che filosofa autenticamente, la convinzione e la chiarezza, ovvero
l’evidenza della propria fede. Si tratta di un’evidenza diversa da quella
della scienza in quanto la fede si situa nell’inscindibilità di soggetto e
oggetto, fides qua creditur e fides quae creditur, sorgente della fede e
contenuto della fede stessa. Qualora si scinda il momento soggettivo da
quello oggettivo si cadrebbe nella credulità o nel dogma. Credulità di una
fede valida solo soggettivamente; dogmaticità di una fede abbandonata
acriticamente all’oggetto: in entrambi i casi si perderebbe il rischio e la
problematicità di un impegno personale. Quando Jaspers parla di fede
autentica, invece, intende riferirsi a « ciò che abbracciando circoscrive
(umgreift) il soggetto e l’oggetto » (PG, 14; 60). Tale fede ha il primato
dell’autenticità in quanto è l’unica rivolta all’essere autentico che in sé non
è né oggetto né soggetto (cioè non determinato), ma si situa prima di ogni
determinazione nell’originaria solidarietà di esistenza e trascendenza. La
radice kantiana di una tale concezione è evidente: la grande scoperta di
Kant, il suo pensiero fondamentale, consiste secondo Jaspers nella
68
comprensione della la fede non come atto né come contenuto, ma come
orizzonte umgreifende essa stessa, in cui si può dare, per l’esistenza, la
relazione all’Essere cui ogni azione e ogni sapere si riferiscono come
sorgente da cui il filosofare trae origine e fine a cui tendere.
È questo l’originale salto nella fede che Jaspers propone: dal cattivo
religare
(così Cicerone: trahit Hectorem ad currum religatum Achilles) all’origine
del positivo religare (così Cesare: naves ad terram religare); dalla
cristallizzazione ideologica all’ancoramento alla Verità.
2.13. GLI ENUNCIATI DELLA FEDE FILOSOFICA
La fede è l’espressione di un sapere dell’esistenza che, in quanto
coincidenza di autorelazione ed eterorelazione, realizza un sapere
omogeneo all’Essere il quale, nel suo non lasciarsi dimostrare, si pone
quale presupposto per ogni possibile sapere. Gli enunciati teoretici di una
tale fede sono i seguenti:
La fede è la dialettica del rischio o il rischio di una dialettica che nel
suo procedere non annulli i poli in una sintesi onnivora, ma al contrario
viva, nella tensione, l’autenticità del rapporto. Anzi, nel fallimento della
sintesi, nell’impossibilità di un reale rapporto alla Trascendenza, la fede
vuole cogliere la Verità nel suo darsi per l’esistenza. Come tale essa è la
verità dell’esistenza nel rapporto con la Trascendenza. Esprime infatti un
modo di relazionarsi alla trascendenza che non implica un’oggettivazione
ma che, nel suo fallire l’acquisizione di un dato, apprende di più e oltre,
per l’esistenza. Ciò però è possibile solo in un contesto di costante
sospensione, in un divenire senza sosta, dove il soggetto in ricerca
possiede l’oggetto sempre solo nella forma del cercarlo ulteriormente. La
fede è quindi l’attesa dell’Essere nell’esistenza che sperimenta la
Trascendenza. Nella coscienza della non totalità della situazione storica e
della precarietà della finitudine umana, l’esistenza sperimenta il proprio
fallimento – il fallimento della comprensione totale e il fallimento della
comunicazione universale – e di conseguenza non le rimane che porsi in
attesa di un’irruzione dell’eterno nel tempo, di una rivelazione. Irruzione
però che non è estrinseca, bensì necessitata dalla natura dell’esistenza
stessa (natura, come detto, emergentiva), irruzione che è l’esistenza
stessa. La fede è, pertanto, l’imprevedibile vicinanza dell’assenza, del
Deus absconditus. Proprio la radice emergentiva dell’esistenza è infatti
l’espressione della presenza di quella Trascendenza che per definizione si
ritrae, ed è assente. Si tratta di una presenza connotata secondo i
69
caratteri della negatività. E negativa è anche la forma del sapere possibile
per l’uomo: la fede è lo slancio nella pienezza del non-sapere. Proprio il
non-sapere – come l’Eros platonico – è il motore della vita e della storia,
della ricerca filosofica che per essere autentica deve prender coscienza
dei propri limiti e deve emanciparsi dalle catene di un sapere dogmatico e
vincolante. La fede è quindi la coscienza della libertà del finito nella
finitezza. Dove per libertà Jaspers intende appunto il salto da un religareimprigionare negativo ad un religare-ancorare positivo. Il tutto, comunque,
sempre nel regno della possibilità e dell’esistenza possibile. La fede è
infine la problematicità della possibilità che nella sua incondizionatezza
fonda la certezza della Verità nella sospensione sul naufragio.
3. CONCLUSIONE: INCERTEZZA ESISTENZIALE
Quanto fin qui detto non esaurisce le questioni del filosofare
jaspersiano, ma ne evidenzia la rilevanza speculativa. Non si tratta infatti
di un tema di una specifico settore della ricerca filosofica (quale può
essere la religione, anche se hegelianamente si confronta con gli stessi
contenuti della fede religiosa) ma di una particolare tonalità della ricerca
filosofica, la quale assume su di sé il rischio dell’incertezza e si dà il nome
di “fede” per meglio chiarire il carattere non sistematico e
fondamentalmente personale (ma non soggettivo) dell’appello alla Verità
che è radicato originariamente nell’esistenza umana. Non quindi un
contesto di dogmi o ideologie da trasmettere, né un sistema di
proposizioni strutturate in un sapere chiuso. La fede filosofica è un
pensiero aperto, in movimento e forse anche evanescente – laddove si
presenta come difficile sintesi di ricerca scientifica e credo religioso. Ma la
verità che ne emerge non è paradossale (credo quia absurdum). Al
contrario, il paradosso è l’espressione particolare di una situazione di
sospensione nel problematico, laddove alla contraddizione inerte si
sostituisce il rischio non solidificato che tiene costantemente desta
l’inquietudine e la perplessità, fonti del continuo filosofare ulteriore. Certo,
il cammino della filosofia – così delineato – non può essere il percorso di
un sapere ( Wissen) ma il sentiero tortuoso di una fede (Glaube). Non
quindi la via solare del sistema hegeliano, ma il cammino più oscuro e
notturno della ricerca che non annienta la Verità (magari sostituendovisi)
ma la tutela e la preserva nel gioco degli oltrepassamenti, dei rimandi,
delle cifre.
La mediazione globale hegeliana, del resto, è oggettiva e
“ontologica”: comprende l’essere, riducendo la Verità a un tutto detto.
Quella di Hegel è pertanto una fede nella mediazione globale della
70
ragione conciliante. Al contrario Jaspers delinea una fede nel tempo della
povertà estrema (in dürftiger Zeit) che fa proprio il momento del paradosso
(di Kierkegaard) ed il rischio nichilistico (di Nietzsche) per far naufragare il
sapere nel mare della contraddizione e, in tale naufragio, rivelare
un’ulteriorità in grado di salvare il tutto: basta che l’essere sia, dice
Jaspers in conclusione del suo lungo e oscuro cammino metafisico (PH, III
236; 1183).
Se la contraddizione hegeliana risulta rovinosa per la Verità – essa
infatti sotto l’apparenza di salvarne la realtà (Wirklichkeit) ne accelera
l’annientamento – quella jaspersiana vuole essere fruttuosa e feconda:
nell’accelerare il naufragio della finitezza, ne vuole manifestare la verità,
ovvero l’originario legame alla Trascendenza. La fede di Jaspers non è
quindi una fede mediatrice, bensì rivelatrice. Di qui la tolleranza
provvisoria del momento tragico-nichilistico del naufragio allo scopo di
permettere la rivelazione (anche qui uno slittamento semantico!)
dell’ulteriorità dell’Essere. Rivelazione, questa, che non ha certo un’origine
patologica, in senso kantiano. Essa risulta infatti da quella dialettica
interna alla ragione stessa che sfugge ad una facile determinazione
terminologica e che in Jaspers ha il nome di fede filosofica.
Terminato il discorso, rimangono comunque molti interrogativi: cosa
è realmente la Trascendenza, se non è Dio ma la condizione di possibilità
della sua manifestazione? In fondo non è poi così trascendente, se si
colloca all’interno dell’esistenza stessa: si tratta forse di una «
91
trascendenza immanente », come dice Cornelio Fabro? E ancora, nel
gioco dei rimandi e degli oltrepassamenti cosa resta della Verità? Essa è
forse solo trascendimento e cifra? E infine, Jaspers è veramente contra
Hegel? La necessità del momento nichilistico non è la riaffermazione di
quel principio dialettico del reale, riproposto in una dialettica
dell’esistenza?
Si tratta di interrogativi che non chiudono la ricerca della Verità, né
per il solo fatto di rimanere aperti annullano lo sforzo di una vita di ricerca.
Al contrario, esattamente come pensa Jaspers, rappresentano stimoli per
un filosofare ulteriore.
Comunque, per quel che riguarda la presente ricerca, una volta
chiarito il senso del ricorso al termine fede, comprendiamo bene che
Jaspers non ha certo bisogno della fede. Quella di Jaspers è una filosofia
problematica dell’esistenza, non certo una fede religiosa. Ma solo una
fede può salvare dal naufragio, solo la fede infatti ripiega nella difesa di
quel minimum che è ai confini del nulla e da lì può bruscamente illuminare
un’ampiezza senza limiti. Solo ammaestrata dall’esperienza e dalla
71
possibilità del nulla e della negazione di ogni fede, nonché dall’esperienza
dei limiti, l’esistenza può infatti affidarsi al salto nello spazio in cui si
chiariscono i modi dell’Umgreifende che l’esistenza stessa è e in cui si
trova. «Certo – dice Jaspers –, la fede filosofica passa attraverso il nulla,
ma quando è originaria non nasce dall’assenza di terreno e non prende le
mosse dal nulla. “Perché tu credi?”. Perché mio padre mi ha detto di
credere. Questa risposa di Kierkegaard, trasposta, vale anche per la
filosofia» (PG, 22; 69).
Personale come la risposta a un padre ma sconvolgente come
l’abisso del nulla su cui si sporge, la fede è quella prospettiva che riesce,
per Jaspers, a dare ragione del finito e del nulla, del dubbio e del
pessimismo e, allo stesso tempo, è proprio il parallelo con la fede religiosa
che consente il recupero finale della salvezza: « Es ist genug, daß Sein ist
», basta che l’essere sia.
La “fede filosofica” è l’espressione della genuina volontà della
ragione di assumere in sé, di assimilare (aneignen), anche quel contesto
di ricerca e di provvisorietà, di rischio e di sospensione, di affidamento, di
naufragio e di testimonianza, che traccia l’orizzonte di una verità fragile nel
suo affidarsi al consenso o al tradimento da parte della parola dell’uomo.
È la fragilità del silenzio, che non vuole però essere nulla, anche se, per
essere autentico, si afferma di fronte
(angesichts) e attraverso il nulla.
« La verità è il nostro cammino », dice Jaspers all’inizio del suo Von der
Wahrheit (W, 1). Un cammino scandito dalla temporalità quale supporto
della ricerca, ma anche quale ambito della sua incompiutezza. Il tempo
della ricerca è quindi lo specchio dell’umano in cui il finito si relaziona a se
stesso e si comprende nel rapporto originario alla Trascendenza.
Trascendenza che qui non è propriamente Dio (Jaspers parla della cifraDio, della cifra delle cifre) ma quell’intima ulteriorità che fonda ogni
possibile relazione ad altro (al sé, al prossimo, a Dio), come una sorta di
genio benigno che squassa la chiusura dell’esistente trasformandone la
forza centripeta in forza centrifuga, in apertura, in intenzione di Verità.
Proprio la Verità, quindi, diviene, più che l’oggetto di un credo, l’ambito di
realizzazione del singolo oltre le proprie barriere e i propri vincoli. La
Verità come cammino quindi, sempre da scrivere come un impegno,
sempre fragile come una possibilità, ma sempre presente nel trascorrere
del tempo, sempre una nella molteplicità delle sue possibili dizioni.
91
Cfr. C. FABRO, Introduzione all’ateismo moderno, Studium, Roma 1969, pp. 931-943.
72
BIBLIOGRAFIA
Riporto solo le monografie espressamente dedicate al pensiero
dell’autore. Per una più ampia bibliografia rimando a G. CANTILLO,
Introduzione a Jaspers, Laterza, Roma-Bari 2001
AA.VV., Karl Jaspers - Filosofia Scienza Teologia, a cura di Giorgio
Penzo, Morcelliana, Brescia 1983.
AA.VV., Karl Jaspers e la critica, a cura di Giorgio Penzo e Maria Luisa
Basso Vetri, Morcelliana, Brescia 1985.
AA.VV., Karl Jaspers 1883-1969. Celebrazioni nel primo centenario
della nascita. 1983, a cura di Giovanni Santinello, Istituto
culturale italo-tedesco, Merano 1985.
AA.VV., Karl Jaspers. Esistenza e trascendenza, a cura di Rosa
Brambilla, Biblioteca Pro Civitatae Christiana, Assisi 1989.
AA.VV., Filosofia, Esistenza, Comunicazione in Karl Jaspers, a cura di
Donatella Di Cesare e Giuseppe Cantillo, Loffredo, Napoli 2002.
M.L. BASSO, Filosofia dell’esistenza e storia. K. Jaspers e N. Berdjaev,
CLUEB, Bologna 1994.
A. CARACCIOLO, Studi jaspersiani, Marzorati, Milano 1958.
P. CATTORINI, Il trascendere formale in Karl Jaspers: strumenti ed esiti
di una metafisica non-oggettiva, Vita e Pensiero, Milano 1986.
R. CELADA BALLANTI, Fede filosofica e libertà religiosa. Karl Jaspers nel
pensiero religioso liberale, Morcelliana, Brescia 1999.
F. FERGNANI, Mondo, esistenza, trascendenza nella filosofia di K.
Jaspers, Unicopli, Milano 1980.
U. GALIMBERTI, Heidegger, Jaspers e il tramonto dell’Occidente,
Marietti, Torino 1970.
A.M. LICCIARDI, Karl Jaspers: il naufragio dell’esistenza, Atheneum,
Firenze 1994. S. MARZANO, Aspetti kantiani del pensiero di Jaspers,
Mursia, Milano 1974.
G. MASI, La ricerca della verità in K. Jaspers, Zuffi, Bologna 1953.
O. MEO, Psicopatologia e filosofia in K. Jaspers, Le Monnier, Firenze
1979
73
F. MIANO, Etica e storia nel pensiero di K. Jaspers, Loffredo, Napoli
1993.
B. NEGRONI, Jaspers e la metafisica, Solfanelli, Chieti 1981.
L. PAREYSON, Karl Jaspers, Marietti, Casale Monferrato 1983.
G. PENZO, Essere e Dio in K. Jaspers, Sansoni, Firenze 1972; poi
riedito in:
I D., Dialettica e fede in K. Jaspers, Patron, Bologna 1978.
ID., Il comprendere in K. Jaspers e il problema dell’ermeneutica,
Armando, Roma 1985.
ID., Jaspers. Esistenza e trascendenza, Studium, Roma 1985.
ID., La metafisica di Jaspers e l’ermeneutica scientifico-filosofica in
rapporto al problema della libertà, Paravia, Torino 1992.
P. RICCI SINDONI, La lettura cifrata nella problematica di Karl Jaspers,
Badiali, Arezzo 1972.
ID., I confini del conoscere. Jaspers dalla psichiatria alla filosofia,
Giannini, Napoli 1980.
ID., Arte e alienazione. Estetica e patografia in Jaspers, Giannini,
Napoli 1984. C. SANSONE, La fede filosofica in Karl Jaspers,
Atheneum, Firenze 1994.
74