B RU N I A N A & C A MPA NELLI A NA
Ricerche ilosoiche e materiali storico-testuali
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Eckhard Keßler, Inst. f. Geistesgesch. u. Philos. d. Renaissance, München
Jill Kraye, The Warburg Institute, London
Michel-Pierre Lerner, cnrs, Paris
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John Monfasani, State University of New York at Albany
Gianni Paganini, Università del Piemonte Orientale, Vercelli
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BRUNIANA
&
CAMPANELLIANA
Ricerche ilosoiche e materiali storico-testuali
anno xx
2014 / 2
PISA · ROMA
FABRIZIO SERRA EDITORE
MMXIV
« Bruniana & Campanelliana » is an International Peer-Reviewed Journal.
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SOMMARIO
E. C., G. E., Il ventennale di « Bruniana & Campanelliana »
367
una biblioteca dei destini incrociati :
aby warburg e frances a. yates
Eugenio Canone, Destini incrociati : Warburg, Yates e le immagini in
Bruno
371
Aby Warburg
Claudia Wedepohl, Mnemonics, Mneme and Mnemosyne. Aby Warburg’s Theory of Memory
Carmen Metta, Per una iconologia ilosoica. I Frammenti sull’espressione di Aby Warburg
385
403
Frances A. Yates
Lina Bolzoni, Le arti della memoria di Frances Yates
Guido Giglioni, Who is Afraid of Frances Yates ? Giordano Bruno and
the Hermetic Tradition (1964) Fifty Years Later
Ornella Pompeo Faracovi, Occasioni mancate : un dibattito su magia, ermetismo e rivoluzione scientiica
Armando Maggi, Frances Yates nel terzo millennio. Appunti sul suo lascito e la recezione nella cultura americana
415
421
433
443
Due testi
Aby Warburg, Manet and Italian Antiquity. Translated by Henriette
Frankfort. Introduced, edited and annotated by Claudia Wedepohl
Guido Giglioni, The « Horror » of Bruno’s Magic : Frances Yates gives a
lecture at the Warburg Institute (1952)
455
477
Un’immagine della memoria
Eugenio Canone, The secret of Shadows: un diagramma ‘bruniano’
disegnato da Frances Yates
499
studi
Luigi Guerrini, Pereira and Galileo : Acceleration in Free Fall and Impetus Theory
513
364
sommario
Eric MacPhail, Anthropology and Anthropocentrism in Giordano Bruno and Michel de Montaigne
Andrea Suggi, Ordine della natura, giustizia armonica, libertà di coscienza nel Colloquium Heptaplomeres di Jean Bodin
531
547
hic labor
note
Umberto Eco, Magia nel Rinascimento e oltre
Sara Bianchini, Montaigne e Popper. L’induzione e la scienza
Tiziana Provvidera, Kaspar Schoppe e Lipsio
Anna Lisa Schino, La scrittura obliqua dei libertini : interpretazioni ed
esempliicazioni
563
567
579
585
rassegne
Francesco G. Sacco, Telesiana : Old Texts and New Studies
595
cronache
Giovanni Pico della Mirandola e la dignità dell’uomo. Storia e fortuna di
un discorso mai pronunciato : Mirandola-Ferrara, 24-26 febbraio 2014
(Donato Verardi)
Francesco Patrizi Philosopher of the Renaissance : Olomouc, 24-26 aprile
2014 (Dominique Couzinet)
601
603
recensioni
Una coppia seducente in una contingenza tempestosa. A proposito di un recente libro di Paolo Galluzzi (Luigi Guerrini)
607
Calvin insolite. Actes du Colloque de Florence (12-14 mars 2009). Études
réunies par Franco Giacone (Simonetta Adorni-Braccesi)
610
Tommaso Campanella, Le Poesie, testo critico, introduzione e commento di Francesco Giancotti (Jean-Louis Fournel)
613
Ethical Perspectives on Animals in the Renaissance and Early Modern Period, ed. by Cecilia Muratori and Burkhard Dohm ; The Animal Soul
and the Human Mind, ed. by Cecilia Muratori (Armando Maggi)
615
Adriano Prosperi, Delitto e perdono. La pena di morte nell’orizzonte
mentale dell’Europa cristiana (Cesarina Casanova)
617
giostra
621
sommario
365
sphaera
Ornella Pompeo Faracovi, Una nuova edizione del Centiloquio
Lucia Bellizia, Valentin Naboth. Matematico, astronomo, astrologo
Luana Rizzo, Giovan Battista Abioso e il Dialogus in astrologiae defensionem
Carlo Piancastelli, Pronostici ed almanacchi. Studio di bibliograia romagnola, a cura di Lorenzo Baldacchini (Gian Luigi Betti)
Astrologia e magia nel Rinascimento. Teorie, pratiche, condanne (Gian Luigi Betti)
A Companion to Astrology in the Renaissance, ed. by Brendan Dooley
(Michele Rinaldi)
Il progetto Ptolemaeus arabus et latinus (O. P. F.)
666
671
Abbreviazioni e sigle
Indice dei manoscritti (2014)
Indice dell’ annata xx (2014)
673
679
681
641
645
655
663
664
Giostra
Altro non bramo, e d’altro non mi cale,
che di provar come egli in giostra vale.
L. Ariosto
Reid Barbour, Sir Thomas Browne. A life, Oxford, Oxford University Press,
2013, 534 pp.
T
homas Browne (1605-1682) ebbe una vita senza grandi eventi o avventure.
Figlio di un mercante londinese, restò orfano a otto anni, studiò a Winchester e a Oxford, passò tre anni a specializzarsi in medicina all’estero (Montpellier,
Padova e Leiden) e, dopo una breve parentesi nella remota Halifax, si trasferì a
Norwich nel 1637, dove abitò ino alla sua morte. Eppure, in una pagina della Religio medici, il trentunenne Browne deinì quella sua dimessa esistenza di medico
di provincia un « miracolo », un « brano di poesia », una « iaba ». Dall’apparente
contraddizione tra la percezione delle esperienze vissute e la ricostruzione dei
fatti accertabili prende le mosse Reid Barbour per la sua ricca biograia di Browne,
frutto di ricerche decennali e destinata a diventare un riferimento irrinunciabile
per gli specialisti o per gli appassionati di quel « brain with a twist », secondo la
deinizione che Coleridge diede di Browne. Barbour, lo precisa egli stesso nella
Introduzione, si colloca consapevolmente in un fertile ilone di studi che negli ultimi anni stanno riscoprendo e rinnovando la biograia come genere storiograico,
dimostrandone la vitalità. Al reperimento di materiali di archivio e di fonti primarie, aianca una sapiente ricostruzione dei contesti in cui Browne visse e intreccia
un continuo richiamo alle opere che scrisse. L’abilità dello studioso sopperisce
alla carenza di documenti riguardo al soggiorno continentale del medico – concluso con la dissertazione sul vaiolo a Leiden nel 1633 – che occupa la seconda delle tre sezioni in cui si articola il volume. Dopo avere minuziosamente passato in
rassegna gli insegnanti di Browne (Rivière, Vesling, Vorstius tra gli altri), Barbour
propone alcune congetture più generali sulle inluenze che i tre anni di apprendistato all’estero ebbero sul suo pensiero. Padova, ad esempio, diede un impulso
decisivo non solo per le rilessioni sullo scetticismo e la mortalità dell’anima presenti nella Religio medici : nella scelta di aiancare, in uno stesso volume, l’Hydriotaphia e il Garden of Cyrus (1658), quasi a suggerire la sovrapposizione tra giardini
e tombe, tra dissoluzione e rigenerazione, si può forse cogliere un’eco della contiguità del teatro anatomico con l’orto botanico nella città patavina (p. 347). Come
non si può fare a meno di notare con qualche rammarico, nel saggio di Barbour,
così abbondante di notizie e informazioni, manca qualsiasi riferimento ad autori come Campanella, Cardano o Sarpi, pur presenti nella biblioteca di Browne.
Nella terza parte del libro torniamo in Inghilterra, sconvolta dalle guerre civili.
L’autore descrive la compassionevole pratica medica di Browne, l’interesse per le
«bruniana & campanelliana», xx, 2, 2014
622
bruniana & campanelliana
malattie dei bambini, le amicizie (considerava l’amicizia il più nobile dei vincoli,
unione mistica di anime), compresa quella con l’alchimista Arthur Dee, la credenza negli spiriti e nelle streghe (nel 1664 fu consultato per un caso di stregoneria a
Bury St. Edmonds : le due imputate furono poi messe a morte), la fama oltremanica, grazie alle traduzioni della Religio medici, presto inite all’Indice, l’impronta
baconiana della Pseudoxia Epidemica (1646). Di particolare eicacia sono le pagine
dedicate al rapporto con i igli nati dal matrimonio con Dorothy Mileham, ricostruito grazie alle lettere scambiate con il primogenito Edward e con il più piccolo
Thomas e alle testimonianze di Elizabeth, che leggeva a voce alta al padre i libri
più disparati. In tutto il volume traspare l’empatia di Barbour verso il soggetto
del suo saggio, ed è meritorio, anche se talvolta si rischia la prolissità, il tentativo
di restituire al lettore l’incredibile congerie degli interessi di Browne, la sua ininita curiosità. Tutto lo appassionava : dalle felci alle pratiche di inumazione, dalle
maree ai gerogliici, dai sogni alle « strane e mistiche trasmigrazioni nei bachi da
seta ». Si capisce allora il signiicato del giudizio sulla propria vita con cui si apre
la biograia di Barbour : per Browne non c’è vita che non sia miracolosa, non c’è
essere troppo piccolo o umile da non destare immenso stupore perché « there is
all Africa, and her prodigies in us ».
C. P.
*
Interpretare e curare. Medicina e salute nel Rinascimento, a cura di Maria Conforti, Andrea Carlino e Antonio Clericuzio, Roma, Carocci, 2013 (« Frecce », 166), 436 pp.
L
e profonde modiicazioni che, negli ultimi decenni, sono intervenute a rideinire il settore degli studi storico-medici hanno prodotto un radicale ripensamento non solo nei metodi di ricerca e nella selezione degli oggetti di interesse,
ma anche nelle stesse inalità epistemologiche della disciplina. Trascinata dal tumultuoso rinnovamento veriicatosi nel corso del xx secolo in campo storiograico, la storia della medicina ha saputo a sua volta cogliere le suggestioni provenienti dagli studi sociologici e antropologici abbandonando una pratica di ricerca
fondata su un’interpretazione del progresso scientiico funzionale a far emergere
il percorso, lineare e privo di ombre, che avrebbe condotto all’afermazione della
medicina contemporanea. A tale tradizionale visione teleologica e presentista,
generalmente appiattita sullo studio della dimensione intellettuale del dibattito
medico, si è progressivamente sostituita una prospettiva più ampia e articolata,
attenta ai contesti culturali e alle dinamiche sociali in cui teorie e pratiche si sviluppano. Nel tentativo di ofrire visibilità ai risultati prodotti dal rinnovamento
della storiograia medica, la raccolta di saggi curata da Conforti, Carlino e Clericuzio presenta una signiicativa panoramica delle tematiche su cui negli ultimi anni si è focalizzata l’attenzione degli studiosi, privilegiando un’analisi comparativa
all’interno di una dimensione geograica ampia, attraverso un arco temporale che
va dal tardo Medioevo alla metà del Seicento. Le quattro parti in cui si articola il
giostra
623
volume isolano altrettanti nuclei tematici su cui la rilessione storiograica recente si è attentamente sofermata. La prima parte, dedicata agli usi della tradizione,
si apre con un saggio di V. Nutton che analizza i modi in cui la lezione ippocratica
si sostituisce a quella galenica ; segue il contributo di M. Nicaud, che prende in
esame l’afermazione del genere letterario dei regimina sanitatis, scorgendo nella
sua sempre più ampia circolazione i segnali di un incipiente processo di medicalizzazione della società ; i saggi di C. Pennuto e A. Carlino insistono rispettivamente sul ruolo delle dottrine astrologiche nella pratica terapeutica, e sui legami
tra conoscenza scientiica e sapere umanistico, analizzati attraverso la rideinizione dei rapporti tra Vesalio e il circolo intellettuale degli Iniammati. Nella seconda
parte, dedicata ai luoghi del sapere sanitario, E. Andretta analizza lo sviluppo del
sistema assistenziale e professionale romano attraverso lo studio delle carriere di
tre medici del tardo Cinquecento, mentre M. Conforti si soferma sul ruolo delle
istituzioni ospedaliere a Roma e Napoli, mettendone in luce la molteplice funzionalità di cui sono investite, al pari di quanto avviene nelle spezierie veneziane,
oggetto del saggio di F. de Vivo. Con la terza parte entriamo nel mondo delle
professioni sanitarie : S. Minuzzi indaga il vasto mercato dei segreti medicinali e
le molteplici igure sociali che ne determinano l’evoluzione ; M. Pelling illustra il
ruolo dei barbieri-chirurghi londinesi tra xvi e xvii secolo, mentre D. Gentilcore
si soferma sull’ambigua realtà dei ‘ciarlatani’, evidenziandone i rapporti con la
medicina uiciale ; inine, al caso speciico del chirurgo parigino Ambroise Paré è
dedicato il contributo di A. Pastore. L’ultima parte del volume è rivolta alla presentazione dei nuovi orizzonti che si afermano tra Cinque e Seicento in merito
alle possibilità terapeutiche (con i dibattiti – presentati da N. Siraisi – sul tema
del prolungamento artiiciale della vita), allo sviluppo di nuovi generi di scrittura
(come le observationes prese in esame da G. Pomata, che rivelano la sempre maggiore attenzione rivolta alla practica), alla forza di penetrazione del lessico medico
nella letteratura politica (analizzata da S. D’Alessio), agli sviluppi della medicina
paracelsiana (nel cui programma la cosiddetta ‘anatomia viva’ acquista un ruolo
via via più signiicativo, come mostra il saggio di A. Clericuzio).
Un volume quanto mai opportuno, che, mentre presenta un quadro per molti
versi nuovo del dibattito sulla salute e sulla malattia nella prima età moderna,
non rinuncia a segnalare la ricchezza e la fertilità di prospettive metodologiche,
ormai consolidate in tutta Europa, che consentirebbero di procedere anche in
Italia ad un radicale ripensamento delle politiche accademiche in ambito storicomedico.
M. R.
*
Luigi Lazzerini, Teologia del Miserere. Da Savonarola al Beneicio di Cristo.
1490-1543, Torino, Rosenberg & Sellier, 2013, 188 pp.
L
a crisi religiosa del Cinquecento italiano, le sue molteplici espressioni e la questione complessa delle sue origini continuano a essere stimolo inesauribile
624
bruniana & campanelliana
per nuove ricerche. Particolarmente originali gli studi che sulla Firenze dei primi
decenni del secolo Luigi Lazzerini è venuto conducendo negli ultimi vent’anni, e
che egli ha progressivamente concentrato sulla teologia di Girolamo Savonarola,
indagandola in una serie di saggi pubblicati tra 2003 e 2013 e ora raccolti nel volume qui recensito. I sei contributi possono essere divisi in due gruppi. I primi due
saggi e l’ultimo (Il santo e il peccatore, Rituale e interiorità, Dal Miserere al Beneicio)
mettono a fuoco quello che Lazzerini considera il nucleo essenziale dell’elaborazione teologica di Savonarola, deinito come la « teologia del Miserere ». I rimanenti tre (« Bizzarrissime fantasie », Machiavelli e Savonarola, Il mistero dell’iniquità)
rintracciano l’inluenza della spiritualità savonaroliana in alcune signiicative manifestazioni della cultura iorentina del tempo.
La tesi centrale di Lazzerini è che la fonte d’ispirazione più importante per il
movimento riformatore italiano nella prima metà del secolo sia da individuare
proprio nel messaggio strettamente religioso di Savonarola, inora largamente
trascurato da studiosi molto più interessati ai suoi aspetti profetici e politici. L’autore osserva sotto la lente i commenti ai salmi li (l) Miserere mei, Deus, e xxxi
(xxx) In te, Domine, speravi, composti nel maggio del 1498 poco prima che Savonarola fosse messo a morte. Nelle sue due opere estreme, fra Girolamo sceglie di
rispondere alle accuse dei suoi nemici confessando di essere il peggiore di tutti i
peccatori. Disperato, come il resto dell’umanità, per il peso schiacciante del peccato, il domenicano trova una via nuova verso la salvezza : non le opere umane, e
nemmeno la sfarzosa, ma vuota ritualità della Chiesa, bensì l’ininita misericordia
di Dio, che raggiunge l’uomo grazie a Cristo e al suo sacriicio gratuito.
Attraverso un’attenta analisi testuale (condotta anche grazie alle possibilità offerte oggi ai ricercatori da strumenti come Google Books), Lazzerini ricostruisce
i contorni della rilessione teologica di Savonarola, seguendone poi la difusione
lungo percorsi ramiicati e spesso inattesi. La novità e la radicalità del messaggio savonaroliano dovettero apparire evidenti a contemporanei così diversi come
Machiavelli e Lutero. Mentre il Segretario iorentino dimostra, nella sua unica
opera di carattere religioso, di aver appreso dal ‘profeta disarmato’ molto più di
quanto facciano pensare le pagine del Principe, il riformatore tedesco, scegliendo
di pubblicare (nel 1523) i due commenti ai salmi, rivela di ammirarli in quanto
profonda meditazione sulla grazia divina, del tutto consona al messaggio della
Riforma.
Nell’ultimo saggio Lazzerini avanza la proposta più suggestiva, cioè quella di
individuare come nucleo fondamentale del Beneicio di Cristo (1543) – il testo capitale per la ‘via italiana alla Riforma’ – proprio gli elementi della teologia savonaroliana che informano i due commenti ai Salmi : un duro senso del peccato,
la svalutazione delle opere umane e dell’esteriorità del rituale ecclesiastico, la
iducia nella misericordia e nell’ampiezza del perdono di Dio. Secondo Lazzerini, attraverso l’intervento preminente di Marco Antonio Flaminio nella stesura
del celebre libretto, sarebbe giunta a piena espressione quella « linea evangelica
autonoma […] presente nella spiritualità italiana prima di Lutero », la cui origine
andrebbe rintracciata nell’opera di fra Girolamo. Si tratta di un’ipotesi – solidamente argomentata – che non mancherà di riaccendere il dibattito storiograico
giostra
625
sulle matrici della ‘fede italiana’ e che ha il merito indubbio di rimettere al centro
della discussione un protagonista assoluto, del quale si era dimenticato il contributo teologico, fortemente originale, alla crisi religiosa del Cinquecento.
M. D.
*
Frank Klaassen, The Transformations of Magic : Illicit Learned Magic in the
Later Middle Ages and Renaissance, University Park, Pennsylvania State
University Press, 2013, 280 pp.
C
on questo studio, l’A. intende occuparsi della illicit learned magic tra il xiv
e il xvi secolo in Inghilterra, ponendo sotto esame le origini, il contesto di
difusione e anche le ragioni che provocarono la proibizione di quelle pratiche.
Si include così nell’analisi un soggetto inora trascurato, il copista, autore della
trasmissione di queste opere e spesso fautore di un tentativo di riconciliazione
teologica tra magia e cristianesimo.
Attraverso un’analisi degli inventari delle biblioteche di monasteri inglesi, Klaassen mostra la vastissima difusione di questi testi presenti pressoché ovunque,
benché la loro fruibilità fosse riservata esclusivamente a coloro che frequentavano quei luoghi ed erano in grado di leggere il latino. Tali pratiche di magia alta
potevano persino essere considerate lecite qualora esse potessero rientrare tra i
naturalia, riprendendo anche la discussione avviata da al-Kindi. L’interrogativo
sulla liceità si riafaccia poi nella vicenda di due uomini, un farmacista e John of
Morigny, entrambi alle prese con il dilemma sull’origine della magia naturale o
demoniaca, casi ricostruiti con attenzione per dare al lettore una lente con cui
leggere le fonti e fornire una forte chiave interpretativa.
Nella seconda parte, si mette poi in evidenza la trasformazione delle pratiche
dovuta all’esperienza diretta che interveniva sul rituale e sulle sue modiicazioni. Diversamente da ciò che avviene alla ine del Quattrocento, per quello che
riguarda la magia, questi manoscritti non variano in maniera sostanziale e il confronto che Klaassen opera con i trattati di Ficino, Agrippa e John Dee evidenzia
come, con le loro peculiarità e modalità individuali, permangano ampiamente
nella tradizione tardo-medievale, pur apportando delle varianti pratiche nel creativo tentativo, basato sulla capacità ermeneutica del singolo, di conciliare aspetti
diversi. Così, in disaccordo con una parte della storiograia, lo studioso ipotizza
una linea di continuità molto forte tra magia medievale e rinascimentale, superando in questo modo il tradizionale binomio di magia e scienza o magia e religione. L’ipotesi della continuità appare decisamente interessante e da veriicare
approfonditamente, pur avendo un suo limite nel fatto che la trasmissione manoscritta, indagata per l’ambito inglese da Klaasen, rappresenta soltanto una parte
della difusione di queste opere.
M. V.
*
626
bruniana & campanelliana
Germano Maifreda, I denari dell’inquisitore. Afari e giustizia di fede nell’Italia moderna, Torino, Einaudi, 2013, xvi, 360 pp.
S
ull’Inquisizione romana e le implicazioni del suo operato si è indagato e si
continua a indagare. La maggior parte degli studi rilette sul proilo istituzionale del Sant’Uicio, sui contorni delle eresie e delle deviazioni che contrastò, e
sui protagonisti di un tribunale che caratterizzò indelebilmente la isionomia del
mondo cattolico. Pur con alcune eccezioni, di rado si è invece dato spazio agli
aspetti economici di una macchina complessa e ramiicata come l’Inquisizione.
Su quest’ultimo punto si concentra il volume di Germano Maifreda che, tenendo
sullo sfondo gli elementi politici e dottrinali dell’azione inquisitoriale, illustra i
risvolti gestionali e inanziari del Sacro Tribunale. L’indagine, condotta in ottica
storico-economica, consente di veriicare – come del resto fa l’autore – le ipotesi
interpretative avanzate da storici di altra formazione, giungendo ad alcuni rilevanti risultati. In primo luogo la constatazione che, anche sotto il proilo economico
e beneiciale, l’Inquisizione si pose come ostacolo alla piena afermazione della
giurisdizione vescovile. I ponteici e il Sant’Uicio non mancarono di scoraggiare i trasferimenti diretti di risorse dalla congregazione romana alle inquisizioni
periferiche, preferendo gravare le mense diocesane di pensioni a sostegno dei
tribunali locali. Per contribuire al loro mantenimento, si sottrassero ai vescovi risorse inanziarie e, in vari casi, si giunse alla collazione diretta di beneici da parte
delle autorità centrali. Ciò nonostante, gli uici dell’Inquisizione non furono né
eicienti né adeguatamente dotati, costringendo i loro titolari a procurarsi risorse
in altro modo, a partire dalle multe e dalle pene pecuniarie inlitte agli imputati
con ampi margini di discrezionalità. Se, pertanto, si confronta l’investimento inanziario della curia romana sulla macchina inquisitoriale con il parallelo investimento strategico (minimo il primo, assai maggiore il secondo), si deve registrare
un divario che solleva interrogativi. Le inquisizioni, secondo l’autore, furono mal
provvedute forse per favorire la loro dipendenza dalla congregazione romana
cui dovettero ricorrere per ottenere l’assegnazione stabile di beneici. Forse poté
contare una certa siducia dei ponteici nei vertici degli ordini mendicanti cui l’Inquisizione fu aidata, né è priva di fascino l’ipotesi secondo la quale « uno ‘scaglionamento’ degli obiettivi della repressione [prima gli eretici, poi le streghe, quindi
gli ebrei, i reati di natura sessuale, ecc.] fu forse [...] dovuto alla necessità di focalizzare le risorse a disposizione, e dunque di concentrare gli interventi giudiziari
su iloni persecutori ritenuti emergenziali » (p. 131). Quelle qui esposte sono solo
alcune delle sollecitazioni del testo che, nella seconda parte, si apre sulle ricadute
sociali dell’azione dei tribunali di fede, dotati di uno strumento incisivo come la
conisca. In ultima istanza, il testo di Maifreda pone al centro una necessità valida
non solo in tema d’Inquisizione : l’esigenza di riscontrare sul campo, attraverso
dati concreti e seriali, come i progetti – fossero di riforma o di repressione – si
calarono e trovarono applicazione nella vita di ogni giorno, e quanto categorie
storiograiche talora date per scontate si prestino a descrivere i fenomeni indagati.
M. A. K.
giostra
627
Polish culture in the Renaissance. Studies in the arts, humanism and political thought, a cura di Danilo Facca e Valentina Lepri, Firenze, Firenze University
Press, 2013, 142 pp.
P
ensato come un’introduzione alla complessa e speciica esperienza del Rinascimento polacco, il volume raccoglie sette interventi che furono presentati nel corso dell’annuale conferenza organizzata dalla Renaissaince Society of
America a San Diego nel 2013. Scopo dei redattori è quello di ofrire agli interessati una rassegna su diversi aspetti del fenomeno rinascimentale in Polonia tra i
secoli xv-xvii, toccando una rosa di temi che vanno dall’originale ricezione dei
modelli culturali occidentali nell’arte, nella letteratura e nella ilosoia, al dibattito sull’idea di Europa e i suoi conini orientali. Fine non secondario è anche
quello di favorire l’interpretazione di declinazioni ‘locali’ di Rinascimento, sottraendo così le varie realtà culturali del fenomeno alla ormai difusa visione italocentrica. La compresenza di vari stili artistici all’interno del variegato territorio
polacco è ben descritta nell’articolo di apertura di R. Craren, dedicato alla città
di Cracovia, capitale e importante snodo commerciale e culturale. Inlussi gotici
provenienti dalla vicina Germania si fondono, infatti, a nuove correnti classiciste di fattura italiana, che proliferano a partire dal xvi secolo, sotto il regno di
Sigismondo i Jagellone. M. Kozłowska illustra, attraverso l’analisi comparativa
dell’opera erasmiana Lingua con la sua versione polacca, la strategia divulgativa
di un editore e la celere afermazione dell’invenzione della stampa in Polonia
alla metà del xvi secolo. Lo scritto di C. Keenan intorno alla tolleranza religiosa
tocca invece un aspetto focale nella peculiare facies politico-sociale della res publica polacca. La Confederazione di Varsavia del 1573 s’impegnava a garantire la
pace religiosa al ine di mantenere l’unità politica ed evitare pericolosi abusi, ma
attirava inevitabilmente su di sé la strenua opposizione della Chiesa Cattolica,
interessata soprattutto a contrastare il dilagare del protestantesimo. Dell’antica
questione dei conini orientali dell’Europa si occupa l’intervento di K. N. Piechocki, che delinea lo sviluppo del toponimo Sarmatia a partire dall’antichità ino
alle interpretazioni rinascimentali. Nel confronto si coglie un progressivo spostamento verso est della porzione di territorio che era chiamata Sarmazia dagli
antichi ; esso viene inteso come una translatio imperii frutto delle conquiste militari polacche. La speciale conigurazione geograica e politica della monarchia
elettiva di Polonia può certamente spiegare il successo delle opere di Machiavelli sul suo territorio : V. Lepri approfondisce la igura di Krzysztof Warszewicki
e della sua institutio indirizzata agli ambasciatori. Warszewicki, descrivendo le
qualità del un buon legato, adatta alla contingente situazione politica concetti
machiavelliani, arricchendoli, tra l’altro, con la rilessione degli umanisti italiani. Similmente vengono adattate anche le aini opere di Łukasz Górnicki, traraduttore del Cortegiano di Castiglione, e di Wawrzyniec Gos´licki, come apprendiamo dall’intervento di M. Wojtkowska-Maksymik. Nella res publica polacca,
dove si realizzava in una certa misura l’idea politica della ‘costituzione mista’,
era comprensibilmente notevole l’interesse per la ilosoia pratica aristotelica. A
628
bruniana & campanelliana
testimonianza dei vari orientamenti che questa assumeva, l’articolo di chiusura
di D. Facca esamina le diferenti ed emblematiche posizioni di Bartłomiej Keckermann, di Danzica, erede della tradizione protestante tedesca, e di S. Petrycy,
uomo di corte e di fede cattolica.
R. P.
*
Pietro Pomponazzi, Le incantazioni, introduzione, traduzione e commento a cura di Vittoria Perrone Compagni, Pisa, Edizioni della Normale,
2013 (« Hermes. Classici tradotti », 1), 364 pp.
L
a prima edizione a stampa del De incantationibus, a cura di Guglielmo Gratarol,
vede la luce a Basilea nel 1556, oltre trent’anni dopo la scomparsa del ilosofo.
La messa all’Indice segue di appena un ventennio (1576) la data di pubblicazione
dell’opera, sanzionandone la radicalità degli esiti teorici : cosa della quale Pomponazzi doveva essere ben conscio al momento di rinunciare alla sua pubblicazione. Ma è soprattutto la precoce circolazione di numerosi esemplari manoscritti a
documentare lo sviluppo di una rilessione che, con buona probabilità, si estende
anche al di là dal limite cronologico indicato nella data di sottoscrizione (16 agosto
1520). Come suggerisce Vittoria Perrone Compagni nel suo saggio introduttivo,
le peculiari modalità di difusione dell’opera lascerebbero dunque trasparire la
progressiva deinizione di un progetto teorico che, per un verso, si pone in ideale
continuità con le conclusioni stabilite nella Quaestio an actio realis del 1515 e, per
altro verso, inaugura un’impresa più ambiziosa, i cui risultati si presentano inevitabilmente discontinui.
Sono appunto queste le due direttrici teoriche del De incantationibus : da una
parte, l’intenzione di ricondurre l’intero orizzonte dei mirabilia entro la cornice di
una spiegazione razionale e ‘aristotelica’ della natura, secondo « una concezione
generale del divenire dominata dalla provvidenza impersonale e universale dei
corpi celesti » ; dall’altra, la volontà di portare a segno un attacco diretto contro la
demonologia cristiana, ritenuta non suscettibile di un’autentica legittimazione ilosoica. Tuttavia, nel passaggio dal punto di vista ‘isico’, che caratterizza i primi
otto capitoli dell’opera, a quello ‘metaisico’ della seconda sezione, le due linee
del progetto pomponazziano si sovrappongono in maniera problematica. L’ipotesi demonologica, discussa già nella prima sezione ma mai esplicitamente riiutata, almeno in relazione a fenomeni più complessi (oracoli, apparizioni, animali e
statue parlanti), viene completamente a cadere nella seconda parte del testo, con
conseguenze prevedibili per quanto concerne l’ortodossia religiosa (pp. 54-65). Il
progetto di ricondurre a un ordine naturale autonomo i mirabilia risponde alla
precisa volontà di « contrapporsi a una visione del mondo e delle vicende dell’uomo che appunto su questi fatti straordinari basa la sua legittimazione e costruisce
il suo potere » (p. 74). La credenza difusa e la superstizione alimentano un dispositivo di controllo ‘politico’ consegnato interamente nelle mani della Chiesa.
Contro di esso deve misurarsi l’impegno civile del ilosofo, attraverso l’espressio-
giostra
629
ne di un « disagio comune » che sottintende altresì « l’urgenza di un intervento di
riforma moralizzatrice » (p. 81).
Questa nuova traduzione del De incantationibus, a cura di Vittoria Perrone
Compagni, adotta l’edizione latina stabilita in collaborazione con Laura Regnicoli sul testo di sedici esemplari manoscritti e delle successive edizioni a stampa
(Firenze, Olschki, 2011). Completano il volume un’ampia Introduzione (Maghi, demoni, profeti : alcuni temi del De incantationibus, pp. 9-84), una sezione dedicata alle
fonti dell’opera (pp. 329-342) e la Bibliograia.
M. C.
*
Sébastien Castellion : des Écritures à l’écriture. Etudes réunies par Marie-Christine Gomez-Géraud, Paris, Classiques Garnier, 2013, 568 pp.
C
om ’ è noto, con il De haereticis an sint persequendi, un’antologia di brani di diversi autori che negavano la possibilità e la liceità di coercizione delle coscienze, nel 1554, in seguito al rogo di Miguel Servet, Sebastiano Castellione costrinse i
dotti europei ad avviare una profonda rilessione sulla tolleranza religiosa.
Tuttavia, il percorso intellettuale di Castellione è molto complesso e non può
essere limitato al De haereticis : per dar conto di questa complessità, da qualche
tempo si comincia a ricostruire l’intera attività di dotto del savoiardo al ine di
porre in rilievo le diverse tessere del mosaico. Dopo i lavori di Buisson e di Guggisberg, testimoniano questo nuovo interesse alcune recenti monograie (Maria
d’Arienzo e Stefania Salvadori, tra le ultime) ed edizioni di opere (dopo il De arte
dubitandi a cura di E. Feist, nel 1981 e le varie versioni e traduzioni del De haereticis, La Genèse (1555), éditée, introduite et annotée par Jacques Chaurand, Nicole
Gueunier, Carine Skupien Dekens, 2003 ; Dialogues sacrés, introduction par David
Amherdt ; établissement du texte et annotation par David Amherdt et Yves Giraud, 2004 ; Les livres de Salomon, édités, introduits et annotés par Nicole Gueunier
et Max Engammare, 2008), cui ora si aggiunge questo volume miscellaneo. Così
l’immagine di Castellione è esaminata criticamente a partire dal ritratto di Stephen Zweig, senza trascurare il proilo che ci ha consegnato Pierre Bayle nel Dictionnaire e poi tutte quelle ricostruzioni che, tra Ottocento e Novecento, hanno
costituito la base di un mito. Accanto all’analisi dell’immagine, gli studiosi stanno
sempre più ponendo in rilievo come, attraverso lo scrupoloso lavoro di esegesi e
traduzione della Bibbia, si dipani il percorso di formazione del savoiardo, accanto
a quello di moltissimi dotti coevi.
Nella prima parte, ventuno saggi coprono l’opera di Castellione ino al Conseil
à la France désolée (Ménager). Nella sezione dedicata alla fortuna, molto interessante è il saggio di Millet sulle annotazioni manoscritte conservate su un esemplare strasburghese del Contra libellum Calvini, così come quello di Roessli sugli
Oracula Sibyllina. Di rilievo anche il contributo sull’incontro tra cultura classica e
Scritture così come sviluppato da Amherdt : Castellione dominava il testo sacro
e sapeva sfruttare al meglio anche le fonti classiche, come le Bucoliche virgiliane.
630
bruniana & campanelliana
Nella sezione dedicata all’ermeneutica biblica, si indagano le soluzioni ipotizzate
da Castellione per quanto riguarda le diicoltà esegetiche delle Scritture, ino a
giungere alla presa di posizione in favore della tolleranza religiosa, con l’approdo
al De arte dubitandi. La seconda parte è invece un’antologia di testi castelloniani,
dalle Préfaces alle sue traduzioni ; chiude il volume una bibliograia generale degli
studi dedicati a Castellione.
M. V.
*
Tatiana Ragno, In coniecturis ambulantes. Verità e conoscenza nel pensiero di
Niccolò Cusano, Roma, Aracne, 2013, 280 pp.
I
l libro di Tatiana Ragno rappresenta un’ottima introduzione alla complessa
teoria della conoscenza del cardinale Nicola Cusano. Il testo consiste in un’analisi espositiva delle principali tematiche gnoseologiche del Cusano, trattate sulla
base dei suoi principali testi ilosoici, soprattutto il De coniecturis e i quattro libri
dell’Idiota. La struttura logica della ricostruzione di Ragno è ben riconoscibile sin
dalla suddivisione in capitoli : anzitutto viene esaminata la dottrina della dotta
ignoranza, sottolineando come essa porti con sé l’impossibilità ontologica per
l’uomo di attingere alla verità assoluta. La « inattingibile precisione della verità »
è rappresentata dal cardinale mediante la celebre immagine del poligono inscritto in un cerchio, che vuole indicare come la conoscenza precisa della verità resti
distante dall’uomo : la verità è infatti la circolarità della circonferenza del cerchio,
che resta al di là di qualsiasi poligono inscritto, perché la linea spezzata del poligono – per quanto se ne moltiplichino i lati – non potrà mai aderire pienamente alla
linea curva del cerchio. Tale idea non è nuova nella storia della ilosoia e perciò
Ragno si soferma a ricostruire la genesi di questa particolare forma di « sapere di
non sapere », individuandone le fonti nella tradizione neoplatonica e soprattutto
in Proclo. Ma è bene ricordare che – ancora nello spirito degli antichi – la dotta
ignoranza non deprime le capacità teoretiche dell’uomo bensì apre ad un tipo di
ricerca ilosoica in speculo et aenigmate, che l’autrice analizza nel terzo capitolo
del libro. Qui Ragno fa una precisa scelta di campo perché tratta quasi esclusivamente gli enigmi matematici, lasciando in secondo piano gli enigmi teologici o
ilosoici benché abbondino nelle opere del cardinale. La studiosa motiva questa
scelta sostenendo – in parte a ragione – che per Cusano è proprio nei signa mathematicalia che va cercata la strada più certa per avvicinare la mente poligonale
alla circonferenza del cerchio (la verità) e non nei signa naturalia, perché i secondi
sono meno formali dei primi e dunque meno certi. Qui trovano ragion d’essere i
lavori del cardinale sulla quadratura del cerchio, a cui viene dedicato un interessante paragrafo. Il capitolo conclusivo presenta « l’attività ‘creativa’ della mens »,
ma ancora con un occhio particolare al numero e alla possibilità umana di raggiungere, in maniera positiva, una certa verità congetturale, nella quale muoversi
alla ricerca di una conoscenza sempre più vicina alla verità, che resta comunque
inattingibile. Sarebbe necessaria una quadratura del cerchio, sarebbe necessario
giostra
631
che la nostra mente poligonale divenisse cerchio. Ma ciò è, appunto, impossibile
in questo mondo. Però – ammonisce il cardinale – pur essendo ‘edotti’ sull’impossibilità di giungere alla conoscenza precisa, in quanto uomini siamo sempre in
cammino e non possiamo che sforzarci di formulare le nostre congetture ‘poligonali’ : essere in coniecturis ambulantes nel costante sforzo di avvicinare il poligono
della nostra mente al cerchio della verità ininita.
A. F.
*
Henry Cornelius Agrippa (attributable to), De arte chimica (On Alchemy).
A critical Edition of the Latin Text whit a Seventeenth-Century English Translation, by Sylvain Matton, Paris-Milan, s.é.h.a.-Archè, 2014, 110 pp.
N
el 1572 fu pubblicata a Basilea, per i tipi di Pietro Perna, la raccolta Auriferae artis, quam chemiam vocant, antiquissimi authores, sive turba philosophorum
contenente quel Liber de arte chimica incerti authoris che, a partire dalla ine del
Cinquecento, fu attribuito a Marsilio Ficino. L’edizione critica, ora pubblicata
nella preziosa collana « Textes et Travaux de Chrysopoeia », di questo piccolo,
ma signiicativo trattato d’alchimia è curata da Sylvain Matton e arricchita dalla
trascrizione di una traduzione inglese del xvii secolo (London, Ms. Sloane 3638,
f. 129-188). Nella densa introduzione lo studioso francese ricostruisce le vicende
editoriali del De arte chimica, proponendo, inoltre, una paternità di non poco rilievo : Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim. Le vicende editoriali di questo
testo si intrecciano fortemente a quelle dell’attribuzione. All’edizione di Basilea
del 1572 seguiranno, sempre all’interno della stessa raccolta pubblicata, arricchita
di altri testi, altre due edizioni (1593 e 1610) nelle quali di nuovo non verrà indicato l’autore. La prima attribuzione a Ficino del De arte chimica si deve a Theobald
van Hogelande, che nel suo De alchemiae diicultatibus (Colonia, 1594) cita abbondantemente il trattato come opera dell’umanista iorentino. È tuttavia solo
in seguito che il De arte chimica sarà pubblicato come opera di Ficino, nel 1667 a
Norimberga in traduzione tedesca (nella raccolta Dreyfaches Hermetisches Kleeblat)
e qualche decennio più tardi, ma questa volta nella versione originale latina, da
Jean Jacques Manget nella sua Bibliotheca chemica curiosa (Ginevra, 1702). Matton
sottolinea, tra l’altro, che « two Paracelsians, however, usurped the work more or
less obviously » ; in particolare nel 1606 Martin Ruland edita, lasciando supporre
che lui stesso potesse esserne l’autore, il trattato (diaskeyis lapidis philosophici nova) utilizzando una copia indipendente da quella a stampa e per questo utilizzata
da Matton nell’apparato critico. Per quanto riguarda l’attribuzione a Ficino, Paul
Oskar Kristeller nel Supplementum Ficinianum respinge categoricamente questa
ipotesi, da un lato perché l’autore scrive di essere vissuto in Germania e dall’altro
perché le tesi contenute nel trattato non sono in accordo con il pensiero dell’umanista iorentino. La prima obiezione di Kristeller è, ovviamente, accettata senza
riserve da Matton, diventando la prima argomentazione per la sua ipotesi di attribuzione ; infatti quella frase « Ego quum adhuc essem in Agripp[in]a civitate »
632
bruniana & campanelliana
non può non far pensare ad Agrippa che visse a Colonia ino al 1507, « a city he
considered as his homeland and from which he borrowed his name ». Per quanto
concerne invece i contenuti del De arte chimica, Matton è in disaccordo con l’autore del Supplementum Ficinianum, « because the alchemical doctrine exposed in that
treatise not only does not clash at all with Ficino’s philosophy – in opposition to
what Kristeller thought –, but on the contrary proceeds directly from it », e questo
soprattutto rispetto alla tesi iciniana dello spiritus mundi. Per questo lo studioso
francese ha cercato l’autore del trattato anonimo tra quegli alchimisti le cui tesi si
ispiravano a Ficino, e tra questi Agrippa. Una serie di elementi interni al testo, riconducibili soprattutto al confronto tra il De arte chimica e il De occulta philosophia
di Agrippa, sembrerebbero confermare l’attribuzione proposta da Matton. Tutti
indizi, quelli raccolti dallo studioso francese che, presi singolarmente non possono essere sicuramente decisivi, ma – come egli stesso sottolinea – « together they
form […] a convincing body of evidence ».
A.P.
*
Giovanni Botero, De la raison d’Etat (1589-1598), Édition, traduction et notes de Pierre Benedittini et Romain Descendre, Paris, Gallimard, 2014,
424 pp.
N
on stupisce che la migliore edizione commentata del trattato Della Ragion di
Stato di Giovanni Botero giunga ora, in traduzione francese, grazie al lavoro di Romain Descendre (con la collaborazione di Pierre Benedittini). Con il suo
volume L’État du monde. Giovanni Botero entre raison d’État et géopolitique (Genève,
2009), Descendre aveva avviato un ripensamento integrale dell’opera del Benese,
del suo pensiero e della sua fortuna. Quel lavoro di scavo fa da corredo a questo
volume dedicato alla celebre opera politica di Botero. Più che opportuna appare
la concomitante pubblicazione della traduzione dell’altro trattato Delle cause della
grandezza delle città (Des Causes de la grandeur des villes, a cura dello stesso Descendre, Paris, 2014), la cui storia è peraltro legata alla ragion di Stato. Entrambi i volumi sono corredati da due ampi saggi ; due vere e proprie monograie dedicate
all’evoluzione del lessico politico italiano nel ’500. L’introduzione della Ragion di
Stato, in particolare, rimette in discussione gli schemi interpretativi con cui l’opera è stata letta comunemente. I tempi erano maturi per una ricerca etimologica,
indispensabile per sgomberare il campo da molti pregiudizi cresciuti col tempo
intorno al testo boteriano. Si è trattato innanzitutto di fare i conti con un’interpretazione che ha svalutato l’originalità del processo di composizione dell’opera
(ben noto a questo proposito il giudizio di Federico Chabod). Quindi di leggerla
al di fuori della stanca e supericiale disputa tra machiavellismo e antimachiavellismo, o quanto meno di chiarire quale fosse la reale incidenza del pensiero e della
lingua di Machiavelli nel dibattito e nella pubblicistica politica europea al declinare del secolo. Troppo spesso associata unicamente con il principio di ‘deroga’
al diritto e alla morale per ragioni di pubblica utilità, la formula boteriana, così
giostra
633
come presentata nell’introduzione, rivela un universo concettuale e ideale assai
più profondo e complesso. Come ricorda Descendre, Botero ha come principale
obiettivo l’elaborazione di un trattato politico, capace di concorrere, sul terreno
« de la dimension théorique de la construction de l’État », con la produzione a
stampa dei giuristi francesi di ine ’500 e in particolare con le opere di Bodin (p.
11). In tal modo, si può notare che in dal titolo la sua opera presenta per la prima
volta e in modo esplicito il termine ‘Stato’, privo di speciicazioni. Lo scritto boteriano si pone come un momento cruciale della storia dello Stato ; della « genèse
du mot et […] de la formation historique consciente d’elle-même et rendiquant
une dénomination propre » (p. 12). È un dato dunque che questa storia si presenti
in quel frangente come consapevole formulazione di una teoria politica nuova
« christiana e giovevole » – sono le note parole di Minuccio Minucci – che insieme « con le ragioni politiche o ragioni di Stato » intendeva infondere « ad altri il
gusto suavissimo della legge di Christo e della fede cattolica » nell’Europa di ine
secolo che sperimentava gli efetti dirompenti della Riforma in ambito politico.
Le guerre di religione costituiscono « plus qu’un contexte, un creuset » per l’opera di Botero, così come per quella di un Bodin del resto : sono per entrambi ciò
che le guerre d’Italia erano state per il pensiero iorentino di inizio secolo (p. 15).
Anche allora si trattò di recuperare tradizioni giuridiche e politiche precedenti, di
ripensarle in termini nuovi dinanzi all’eccezionalità del momento per deinire e
comprendere in che modo fosse possibile governare gli stati, quando era in gioco
la loro stessa sopravvivenza. Botero in tal modo, come ricorda bene il curatore, si
muove attingendo a una concezione patrimoniale del potere, il dominio, che era
stata rigettata dalla giuspubblicistica francese, poiché non permetteva « d’opérer
une distinction nette entre les rapports de juridiction et les rapports de propriété
sur les biens, les espaces et les personnes » (p. 17). Ecco che « la grande afaire » del
volume, più di quel che si pensi, non è tanto la « deroga » ma l’afermazione « de
l’indistinction du politique et de l’étatique », che è anche un’identità tra politico e
dominazione sul popolo, esercitata da una sola istituzione centrale legittima (p.
57). L’opera propone così un complesso di conoscenze e saperi, che oggi costituiscono l’oggetto delle scienze politiche e sociali, inalizzati al mantenimento dello
Stato. Anche per questa aspirazione, la Ragion di Stato di Botero si pone come
momento fondamentale della scienza politica moderna. Ci voleva però questo
lavoro, di grande equilibrio e profondità, per renderle deinitivamente giustizia.
P. C.
*
Machiavelli on International Relations, edited by Marco Cesa, Oxford, Oxford
University Press, 2014, 240 pp.
C
on questo lavoro Cesa mette ine al paradosso del Machiavelli negletto nella
gran parte degli studi sulle relazioni internazionali. Il volume, infatti, esamina il ruolo di queste nel pensiero del Segretario iorentino, traducendo in inglese
un’antologia di brani tratti da Principe, Discorsi, Arte della guerra, Istorie – e brilla
634
bruniana & campanelliana
per l’innovativa profondità, dovuta all’analisi che prende in considerazione anche
gli scritti minori, legazioni e la corrispondenza privata del Machiavelli. Il volume
si concentra sulle « cose di Stato » (p. 2) – ossia la politica estera – che dominano
il Principe nel costante riferimento e timore per le minacce esterne, e che nelle Istorie hanno quasi l’identico rilievo della politica interna. Se all’interno dello
Stato buone leggi e buone armi sono in connubio, come nel caso degli svizzeri,
portati a paradigma di organizzazione nella lettera al Vettori del 10 agosto 1513 (p.
130), dall’elogio del Valentino e di Cosimo il Vecchio emerge l’importanza delle
guide dello Stato e delle loro strategie. Cesa, inoltre, ricostruisce la pluralità delle dimensioni che caratterizzano la politica estera stessa, evidenziandone gli elementi antropologici, quali l’ambizione e la paura, in perenne tensione tra loro, e
che si rivelano determinanti nelle scelte politiche, seppur sia la paura a prevalere
come fattore ultimo. La politica estera deve puntare alla salvaguardia dello Stato – attraverso il binomio dinamico di forza e prudenza –, davanti al pericolo di
sopravvivenza per lo Stato (Discorsi iii, 41-2) vengono meno gloria, disonore, giustizia. Conseguita la sicurezza (Istorie Fiorentine v, 9-10), gli Stati, come gli uomini,
desiderano possedere di più e mirano alla conquista. Ma gli esiti di ogni sforzo
umano sempre risulteranno sottoposti al vaglio della fortuna, implacabile arbitro
delle cose umane. L’ultima sezione del volume, History and Analysis, propone
tre casi esemplari della visione machiavelliana delle relazioni internazionali : dalla
missione alla corte di Luigi XII nel 1510, emerge l’impossibilità di mantenere una
posizione equanime nei conlitti : il tentativo di Firenze, davanti alla richiesta di
sostegno della Francia, di rifugiarsi in una neutralità illusoria, alla ine della guerra l’avrebbe resa preda dei vincitori. Poi, nella lettera al Vettori del 10 dicembre
1514, Machiavelli analizza le possibilità d’azione del papa, soppesando le sue forze
e quelle dei suoi nemici, sollecitando una scelta di campo. A chiudere il volume,
la missione al Guicciardini presso il campo della Lega di Cognac. Machiavelli analizza la debolezza degli Stati italiani, miopi nel non coalizzarsi per estromettere
l’esercito spagnolo alla vigilia del sacco di Roma. Davanti ad un nemico malpagato e non coeso, i principi italiani, divisi dalle reciproche ostilità, non riescono
a opporre una politica comune, gettando così le basi per la sconitta e inendo
per diventare pedine del gioco delle grandi potenze straniere, vere padrone della
« penisola diforme ».
S. C.
*
Craig Martin, Subverting Aristotle. Religion, History, & Philosophy in Early
Modern Science, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2014, 262 pp.
I
n questo ambizioso libro Craig Martin ofre un afresco della storia dell’aristotelismo che copre all’incirca cinque secoli di storia, dagli inizi del Duecento alla
ine del Seicento. La tesi principale è che la ilosoia aristotelica, a partire dalla sua
reintroduzione nell’Occidente latino nel dodicesimo secolo, fu sempre il teatro di
aspre lotte dottrinali e di conlitti con l’autorità religiosa e che per questo motivo,
giostra
635
in diversi tempi e luoghi, fu variamente criticata o condannata. La ricostruzione
storiograica inizia dalla riappropriazione medievale del corpus aristotelico alla
quale seguì per Martin un’immediata, sebbene non paciica, istituzionalizzazione
nei corsi universitari. Secondo Martin, i contrasti che si crearono a quell’epoca
avevano due ragioni principali di fondo : una toccava il rapporto fra ragione e
fede e l’altra alcune speciiche dottrine ilosoiche, ad esempio quella dell’unicità dell’intelletto, dell’eternità del mondo e della mortalità dell’anima. Alcuni
distinsero nettamente la ilosoia aristotelica dalla religione (ad esempio Alberto
Magno), altri cercarono una conciliazione fra aristotelismo e cristianesimo (ad
esempio Tommaso), ma altri ancora sostenevano ilosoicamente tesi che non
erano in accordo con la verità rivelata. Per questo motivo si susseguirono condanne nel 1210, 1215, 1228, 1270 e nel 1277, tutte esaminate e contestualizzate nel
libro di Martin. Un punto di svolta viene individuato nel Concilio di Vienne (13111312) nel quale le dottrine aristoteliche, in particolare quelle di interpretazione
tomista, entrano a pieno titolo fra i dogmi del cristianesimo, sancendo un’unione
fra aristotelismo e Chiesa. Un’altra minaccia però già avanzava agli inizi del quattordicesimo secolo contro l’aristotelismo : la critica dell’Umanesimo. In generale
Martin individua tre caratteri distintivi degli attacchi che subirono gli aristotelici.
In primo luogo l’aristotelismo veniva associato con l’averroismo e quindi con
una posizione empia già condannata nel secolo precedente. A questa associazione
concorreva anche l’identiicazione della ilosoia averroista con quella scolastica
che di fatto portò ad un’avversione verso la ilosoia universitaria. Gli altri due
aspetti peculiari sono l’attaccamento degli aristotelici a soisticherie e problemi
inutili e l’insana venerazione per l’autorità dello Stagirita. Inine, gli umanisti attaccarono gli aristotelici per il loro ‘barbaro’ stile che male si accordava che gli
ideali umanistici di retorica ed eloquenza. In reazione all’ofensiva degli umanisti,
sorse così per Martin un movimento che volle distinguere l’aristotelismo puro
dall’averroismo e dalle eventuali contaminazioni scolastiche. Il protagonista di
quest’epoca è Pietro Pomponazzi, il quale sarebbe inoltre il rappresentante di un
più largo movimento di aristotelici (per esempio Francesco Vimercati, Simone
Porzio, Jacopo Zabarella), i quali dichiararono fondamentalmente incompatibili aristotelismo e religione cristiana, senza volere però per questo voler sminuire l’autorità di quest’ultima. In questa tendenza a scindere aristotelismo e dottrina cristiana, Martin vede l’ineicacia del v Concilio Lateranense e della bolla
Apostolici regiminis (1513), che di fatto a suo avviso non diminuì l’inluenza delle
interpretazioni di Alessandro d’Afrodisia o di Averroè. Anzi proprio da questa
scissione nacque per Martin una corrente aristotelica naturalistica che si rifaceva direttamente all’averroismo e che ebbe un certo impatto non solo sui ilosoi, ma anche su medici come Girolamo Mercuriale, Giovanni Battista da Monte
e Girolamo Cardano. A contrastare l’ofensiva dell’aristotelismo naturalistico di
derivazione averroista furono principalmente i Gesuiti i quali, privilegiando la
metaisica, cercarono una riconciliazione tra ilosoia e teologia. Non solo i Gesuiti avanzavano critiche contro l’aristotelismo naturalistico, ma anche i nuovi
approcci alla ilosoia naturale di Giordano Bruno, Bernardino Telesio, Pietro
Ramo e Francesco Patrizi cercavano di demolire il tradizionalismo aristotelico.
636
bruniana & campanelliana
Le controversie non diminuirono nemmeno agli inizi del Seicento. Martin sottolinea come lo sviluppo degli studi storici e la pubblicazione di edizioni critiche
contribuirono a fornire una nuova immagine di Aristotele. Queste nuove letture
sottolineavano lo sfondo pagano dell’aristotelismo e le controverse circostanze
in cui il pensiero aristotelico fu prima combinato con i dogmi cristiani durante
il Medioevo e poi combattuto dal Concilio di Trento. In Francia, in particolare,
gli aristotelici che sostenevano l’impossibilità di dimostrare dogmi di fede per
via razionale venivano considerati eretici alla stregua dei nuovi scettici, atei e
deisti. Critiche all’aristotelismo provennero anche dall’Inghilterra essenzialmente per due ragioni. La prima è l’associazione dell’aristotelismo con la Scolastica
e quindi con le posizioni legate alla confessione cattolica. La seconda riguarda il
riiuto di certe tesi aristoteliche non più sostenibili dopo le nuove scoperte della
ilosoia sperimentale. In conclusione, la ricerca di Martin rivaluta l’eterogeneità
e la pluralità di forme dell’aristotelismo, al di là della stereotipata immagine di un
peripatetismo scolastico, tradizionalista e conformista e mostra come esso fu una
corrente continuamente sotto attacco, non solo dalle nuove emergenti ilosoie,
ma anche dalla Chiesa.
M. S.
*
Thomas F. Mayer, The Roman Inquisition on the Stage of Italy, c. 1590-1640,
Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2014, 392 pp.
C
on questo secondo volume (dopo The Roman Inquisition : A Papal Bureaucracy and Its Laws in the Age of Galileo, 2013), Thomas Mayer intende occuparsi
ancora di inquisizione, ma sottolineando le procedure e il completo accordo raggiunto tra ponteice e Sant’Uizio, una tesi contraria a quella sostenuta da Massimo Firpo, anche nel recente La presa di potere dell’Inquisizione (Roma-Bari, 2014).
Mettendo in luce i continui conlitti giurisdizionali tra Sant’Uizio e Stati italiani, in particolar modo Napoli, Venezia e Firenze, l’analisi si muove sul palcoscenico italiano attraverso l’esame di alcuni casi (Campanella per Napoli ; Bruno,
Cremonini e De Dominis per Venezia ; Rodrigo e Mariano Alidosi per Firenze).
Emerge così la dimensione politica di questi scontri e come gli esiti fossero fortemente orientati e poi deiniti dalle scelte politiche dello Stato : si tratta di casi
che hanno in comune « the degree to which politics determined the outcome » (p.
219). Tuttavia, ciò che accadeva nella penisola italiana era a sua volta spesso una
ricaduta di quanto succedeva sullo scenario europeo e del sempre aperto scontro
tra Francia e Spagna. Leggere i processi trascurando, o non dando il necessario
risalto, a una cornice più ampia rischia di porre sotto silenzio alcune questioni
essenziali (non ultime, quelle dottrinali, teologiche o ilosoiche che ne sono presupposti indiscutibili) e di sfumare interrogativi rilevanti. Risulta infatti diicile
immaginare che le scelte di un ponteice come Urbano VIII non fossero fortemente inluenzate dallo sguardo europeo e dalle note vicende che dilaniavano
l’Europa di quegli anni. Mayer sembra deciso a correre questo rischio, avendo
giostra
637
deciso di basarsi sui Decreta, quindi sui documenti che registrano le decisioni del
Sant’Uizio, una scelta metodologica che schiaccia la prospettiva lasciando in sottofondo i dubbi, le perplessità, per non dire l’aspra conlittualità esistente all’interno della Congregazione. Inoltre, altre serie documentarie hanno posto in luce
gli orientamenti divergenti o critici rispetto alle decisioni romane, o anche l’assoluta noncuranza dei tribunali periferici rispetto alle indicazioni provenienti da
Roma. Mayer ne rende conto parzialmente quando sottolinea il crescente ruolo
dei nunzi nella persecuzione dell’eresia. Una delle sezioni più convincenti è quella
dedicata al caso Alidosi ricostruito sulla base di una documentazione più ampia,
che consente di dare voce alle trame complesse delle varie decisioni e opzioni in
campo. Certamente è innegabile (e prezioso) il contributo critico e documentario
di Mayer che propone una prospettiva diversa. Lo studioso poi annuncia l’intenzione di completare la trilogia con un volume sul processo a Galilei, di cui aveva
anticipato la traduzione dei documenti (The Trial of Galileo, 1612–1633, Toronto,
2012), ma purtroppo non potrà mantenere il suo impegno. A poche settimane
dalla pubblicazione del saggio qui discusso, infatti, Thomas Mayer si è spento dopo una strenua battaglia privata, ma di certo discuteremo ancora a lungo dei suoi
lavori e delle ipotesi che ha avanzato.
M. V.
*
The Roots of International Law / Les fondements du droit international. Liber
Amicorum Peter Hagenmacher, edited by Pierre-Marie Dupuy and Vincent
Chetail, Leiden, Brill, 2014, 764 pp.
I
l volume di studi in onore di Peter Haggenmacher ofre una straordinaria ricostruzione analitica delle radici del diritto internazionale e delle sue evoluzioni.
La prima sezione tratta dell’eredità groziana e dei suoi antesignani ed è aperta dal
contributo di Koskenniemi sul rapporto tra diritto internazionale ed il nascente
capitalismo mercantilista. Blom analizza il concetto di ides – inscindibile da quello di libertà – negli scritti groziani, disegnando una costruzione basata sul triangolo aequalitas-ides-libertas. Silvestrin afronta gli echi groziani nel Two treatises of
Government lockiano, mentre Alberico Gentili è il perno attorno al quale ruotano
i lavori di Wijfels e Panizza. Il primo si occupa delle considerazioni sull’Hansa nel
De iure belli ; Panizza, attraverso antinomie concettuali, mostra il ruolo fondante
del Gentili nella genesi del moderno diritto internazionale. Dofour, analizzando
de Skarbimierz, arricchisce il respiro culturale sui precursori di Grozio ; Todescan
poi rileva la concezione dello jus gentium nella seconda Scolastica. La seconda
sezione del volume analizza l’inluenza della tradizione positivista : Halpérin si interroga sulla compatibilità del positivismo con il diritto delle nazioni, Nef e Wyler si concentrano sui tre momenti dottrinali – sintetizzati nello Stato – e sul ruolo
di volontarismo ed oggettivismo. Chetail presenta Vattel alla luce del suo impatto sulla cultura politica statunitense, in particolare, sui padri fondatori e sulla
diplomazia. Origine ed evoluzione dell’ordine internazionale sono l’oggetto della
638
bruniana & campanelliana
terza sezione : le origini storiche caratterizzano i lavori di Dupuy, David e Laghani ; Viñuales scrive sul fondamento della legittimità giudiziaria ; Allot prospetta la
necessità di un nuovo Illuminismo davanti ai contemporanei « four leviatans » (p.
430). Arcidiacono mostra come Campanella, Sully e Crucé avessero già messo in
discussione – ben prima che fossero afermati dai trattati di Westfalia – i princìpi del nuovo ordine europeo. Anne Peters afronta la tensione tra democrazia e
tecnocrazia nelle organizzazioni sovranazionali, a partire dal trattato di Versailles
e dalla nascita della Società delle Nazioni. La sezione conclusiva del volume si
occupa delle tradizioni non occidentali. Onuma evidenzia la trasformazione del
sistema dell’ordine internazionale in sistema globale, mentre Rigaux muove da
Vitoria, dalla conquista dell’America e dalla terminologia adottata dal domenicano e Tourme-Jouannet si occupa delle origini coloniali del diritto delle Nazioni
nel xviii secolo. Il diritto pubblico tra le nazioni nelle culture non occidentali
sono l’oggetto dei contributi di Kolb, di Hamamoto e di Distefano. Il volume si
presenta quindi di estremo interesse per l’analisi delle fonti e per gli sviluppi che
hanno dato nel lungo periodo.
S. C.
*
Le schede del presente fascicolo sono state redatte da : Matteo Al Kalak, Paolo
Carta, Massimiliano Chianese, Stefano Colavecchia, Matteo Duni, Andrea Fiamma, Roberto Peressin, Amalia Perfetti, Chiara Petrolini, Massimo Rinaldi, Marco
Sgarbi, Michaela Valente.
c omp osto in car atter e dan t e mon ot y p e d al l a
fabrizio serr a editor e , p i s a · r oma .
s tamp ato e rilegat o n e l l a
t ipog r afia di agn an o, agn a n o p i s an o ( p i s a ) .
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Dicembre 2014
(cz 2 · fg 3)
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