See discussions, stats, and author profiles for this publication at: https://www.researchgate.net/publication/265550188
Lo splendore della forma
Data · September 2014
CITATIONS
READS
0
617
33 authors, including:
Mauro Felicori
Nicoletta Cardano
39 PUBLICATIONS 35 CITATIONS
20 PUBLICATIONS 0 CITATIONS
University of Bologna
SEE PROFILE
Sovrintendenza ai beni culturali di Roma Cap…
SEE PROFILE
Guido Zucconi
Laura Baratin
11 PUBLICATIONS 2 CITATIONS
32 PUBLICATIONS 33 CITATIONS
Università Iuav di Venezia
SEE PROFILE
Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo"
SEE PROFILE
All content following this page was uploaded by Mauro Felicori on 11 September 2014.
The user has requested enhancement of the downloaded file.
luca
sossella
editore
Numerus
Lo splendore della forma
La scultura negli spazi della memoria
a cura di Mauro Felicori e Franco Sborgi
La scultura nei cimiteri europei non è una
disciplina minore. Anzi, per due secoli vi hanno
lavorato i migliori artisti, sicché non si può
scrivere la storia della grande scultura
contemporanea senza mettere al centro questi
musei a cielo aperto, caposaldi del nostro
patrimonio culturale. Ma solo negli ultimi anni
si è affermata questa consapevolezza.
Il volume presenta la più completa e aggiornata
rassegna degli studi di storia delle arti plastiche
in corso nel continente.
Mauro Felicori
Franco Sborgi
Francisco Queiroz
Carlos Reyero
Roger Bowdler
Ray Bateson
Liisa Lindgren
Ioana Beldiman
Daina Glavocic
Sonia Žitko
Régis Bertrand
Christian Charlet
Werner Kitlitschka
Sibylle Schulz
Marcel M. Celis
Cristina Beltrami
Nicoletta Cardano
18,00 euro
Christina Huemer
Camilla Bertoni
Emanuela Bagattoni
Alfonso Panzetta
Susanna Zatti
Leo Lecci
Graziella Cirri
Laura Dinelli
Giovanna Ginex
Cristina Rovere
Sandra Berresford
Ornella Selvafolta
Guido Zucconi
Anna Maria Fiore
Franziska Bollerey
Laura Baratin
ISBN 978-88-97356-04-2
2012 luca sossella editore srl
www.lucasossellaeditore.it
©2012 agli autori
Finito di stampare
nel mese di marzo 2012
Art director
Alessandra Maiarelli
In copertina
Giulio Monteverde, Tomba Oneto
Cimitero di Staglieno, Genova
fotografia
Vittorio Scarselli
Collaborazione redazionale
Valentina Lanza
Ringraziamenti
Agec - Azienda Gestione Edifici Comunali
del Comune di Verona
www.agec.it
Association of Significant Cemeteries in Europe
www.significantcemeteries.org
I testi di questo volume sono stati presentati
al convegno Lo splendore della scultura nei cimiteri europei
che si è tenuto a Verona dal 28 al 30 settembre 2006
per iniziativa di AGEC e ASCE.
In taluni casi le bibliografie possono essere dunque
aggiornate a quella data.
ISBN 978-88-97356-04-2
Lo splendore della forma
La scultura negli spazi della memoria
a cura di Mauro Felicori e Franco Sborgi
Indice
9 Meraviglia e fine del cimitero moderno
Mauro Felicori
13 Per una riflessione complessiva sulla funzione
e sulla forma della scultura funeraria in Europa
Franco Sborgi
LE REGIONI
33 La scultura nei cimiteri del Portogallo (1835-1910)
Francisco Queiroz
46 Più vivo che morto. La morte come realtà nella scultura
funeraria spagnola (1870-1940)
Carlos Reyero
58 La scultura funeraria nel Regno Unito dall’età vittoriana
alla “New Sculpture” e al Modernismo
Roger Bowdler
71 Tra scultura e simboli nei cimiteri irlandesi
Ray Bateson
79 Scultura funeraria in Finlandia (1880-1930)
Liisa Lindgren
88 La scultura cimiteriale a Bucarest e in Romania
Ioana Beldiman
99 La scultura sepolcrale secessionista in Croazia
Daina Glavocic
108 La scultura funeraria nella Slovenia
Sonja Žitko
LE CITTÀ E LE REGIONI
121 La statuaria del Cimitero Saint-Pierre di Marsiglia
Régis Bertrand
132 L’evoluzione della scultura nei cimiteri parigini
Christian Charlet
141 Arte scultorea nei cimiteri di Vienna
Werner Kitlitschka
153 La scuola di scultura di Berlino
Sibylle Schulz
162 Il laboratorio degli scultori Ernest Salu I, II e III a Laken:
centro di sculture commemorative nella regione di Bruxelles
Marcel M. Celis
ITALIA
175 Il Cimitero Central e il Cimitero del Buceo: due “giardini”
di scultura italiana in Uruguay
Cristina Beltrami
187 Per una storia della scultura a Roma: il Cimitero del Verano
Nicoletta Cardano
204 La scultura nel Cimitero acattolico di Roma
Christina Huemer
215 Dall’ideale al vero e ritorno: passeggiata tra le opere
scultoree del cimitero monumentale di Verona
tra Ottocento e Novecento
Camilla Bertoni
229 Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca neoclassica:
dal prevalere della pittura all’affermazione della scultura
Emanuela Bagattoni
244 Scultura italiana tra Neoclassicismo e anni Trenta nei
cimiteri dell’Emilia-Romagna
Alfonso Panzetta
251 La città del silenzio: arte funeraria a Pavia tra Ottocento
e Novecento
Susanna Zatti
259 Un modello per la scultura funeraria internazionale:
il cimitero genovese di Staglieno
Leo Lecci
270 Scultura tra Ottocento e Novecento al cimitero
delle Porte Sante di Firenze
Graziella Cirri
277 La scultura nei cimiteri delle comunità nazionali di Livorno
Laura Dinelli
286 L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino (1830-1930)
Giovanna Ginex
306 Tre tombe ottomane nella Trieste dell’Ottocento
Cristina Rovere
TEMI E PROBLEMI
317 La Metamorfosi e la Vergine nella scultura liberty: alcune
implicazioni di questo tema nel cambiamento di ruolo
dello scultore funerario
Sandra Berresford
331 Arte funeraria e identità sociali fra Ottocento e Novecento:
soggetti, biografie, virtù del ricordo
Ornella Selvafolta
351 Sacrari e ossari italiani della Prima guerra mondiale
Guido Zucconi e Anna Maria Fiore
363 Sobrietà senza retorica in alcuni progetti europei
per comunicare l’Olocausto
Franziska Bollerey
384 Il rilievo delle sculture con tecniche laser scanner: uno
strumento di conoscenza tra realtà virtuale e rigore scientifico
Laura Baratin
394 Gli autori
Lo splendore della forma
Meraviglia e fine del cimitero moderno
di Mauro Felicori
Questo volume è il primo in lingua italiana a dare
conto in modo esteso della ricchezza della scultura
cimiteriale in Europa.
Come risulta agevolmente dalla sua lettura, i manufatti
destinati alla commemorazione dei defunti, nella
“grande stagione” dei cimiteri fra l’inizio dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale, non sono opere
minori di artisti minori realizzate con poveri mezzi.
All’opposto, sono incarichi affidati da una borghesia
prosperosa ai migliori scultori del loro tempo, perchè
realizzassero opere destinate a tramandare per l’eternità il ricordo delle virtù terrene di uomini laboriosi,
mogli e madri esemplari, soldati senza paura, bambinetti innocenti.
Non pare dunque credibile una storia della scultura del
XIX e XX secolo che non abbia al centro quel museo
all’aria aperta che è diventato, nel tempo, il moderno
cimitero di origine illuministica, reso regola da Napoleone. E anzi appare strano, proprio in questi anni che
sono stati di ripresa degli studi e delle ricerche sui cimiteri, come la grande comunità degli storici dell’arte si
9
Lo splendore della forma
10
sia per lungo tempo distratta, ritratta, dalla necessaria
osservazione di questi luoghi così centrali per le discipline plastiche. È pur vero che l’Ottocento ha in Italia il
destino infelice di venire dopo Tiepolo, termine ultimo
della storia dell’arte secondo tanti e autorevolissimi storici dell’arte, confessi o meno che siano. Ed è altresì
vero che la scultura è spesso sorella minore della pittura, soprattutto nella comune sensibilità, meno allenata
a cogliere la specificità delle tre dimensioni. Epperò
resta una colpa della comunità scientifica il lungo
tempo in cui essa ha voltato le spalle ai camposanti,
forse vittima di sentimenti “popolari” come la superstizione, o di complessi “accademici” come il timore di
finire fuori dalla dimensione aulica dell’arte.
Sia quel che sia, è un fatto che, dopo il lavoro pionieristico di pochi, come Franco Sborgi e Ornella Selvafolta, negli ultimi dieci anni è cresciuta notevolmente l’attenzione per i cimiteri storico-monumentali, quella
della ricerca, quella dei media, quella delle istituzioni,
anche grazie all’azione dell’ASCE, Association of Significant Cemeteries in Europe, che non a caso ha meritato nel
2006 la medaglia di Europa Nostra per il servizio reso
al patrimonio culturale del continente, mentre più di
recente il Consiglio di Europa ha indicato le moderne
necropoli come uno dei suoi principali itinerari.
Fu grazie all’ASCE e al Comune di Genova che ebbe
una lettura a grandangolo il ruolo dei cimiteri nella
storia dell’architettura moderna, partendo da Fernando Fuga, Joseph Paxton e Edward Kemp, passando per
Carlo Barabino, Herman Bollé, Rodolfo Vantini, Giuseppe Barbieri, per arrivare a Lewerentz e Asplund
(autori del Cimitero nel Bosco di Stoccolma, Patrimonio dell’Umanità), Max Hegele, Jože Plečnik fino ad
Aldo Rossi. Si dimostrò senza tema di smentita che i
cimiteri più interessanti in Europa fanno parte dell’architettura più alta, tanto più quando inserita appieno
nel ridisegno urbano ottocentesco delle città.
Se questo vale per l’architettura, tanto più per la scultura si può reclamare la centralità dei cimiteri, che sono in
tutte le città le più ricche raccolte d’arte plastica, i musei
di scultura più stupefacenti, “foreste di marmo” come
qualcuno li ha definiti. In questo caso a fare nomi si fa
Meraviglia e fine del cimitero moderno
torto ai tanti non citati, ma bastino per tutti gli scultori
presenti nei cimiteri italiani: Giacomo De Maria, Lorenzo Bartolini, Augusto Rivalta, Vincenzo Vela, Giulio
Monteverde, Medardo Rosso, Pietro Canonica, Leonardo Bistolfi, Giorgio Kienerk, Giuseppe Graziosi, Lucio
Fontana, Giacomo Manzù, Arnaldo Pomodoro.
Un convegno tenuto a Verona nel 2006, ospitato dall’AGEC, ha permesso una prima generale ricognizione
di questa ricchezza. I materiali allora raccolti, oggi
opportunamente aggiornati, costituiscono il prezioso
contenuto di questo volume, che si offre dunque come
gemello del precedente, e fornisce allo studioso, ma
ancor più ai tanti turisti che intelligentemente non trascurano di visitare il cimitero per capire l’anima di una
città, una guida ragionata, con le principali chiavi per
leggere la scultura e i modi con cui si rappresenta la
vita spezzata, la bellezza e il tempo che fuggono, il
memento mori, il dolore, la disperazione, la pietà, il lutto,
le figure delle religioni.
Ci si chiederà, prendendo atto che veniamo da decenni di modeste architetture affollate di anonime pietre
tombali: la grandezza di un tempo, lo splendore della
scultura dei cimiteri europei, potrà tornare?
La mia risposta è no. Non che non veda tanti segni
positivi, sia nell’architettura (Portela a Finisterre,
Schultes a Berlino, Chipperfield a Venezia, Monestiroli
a Voghera, episodi interessanti a Napoli, a Imola, in
Umbria), sia nella scultura.
Ma la sensazione è che non esistano più né i presupposti culturali né le necessità funzionali che fecero grande la stagione cimiteriale nei centocinquanta anni che
seguono Napoleone.
Da un punto di vista culturale, la morte appare un passaggio che perde significato, sia per i processi di rimozione tipici dell’edonismo contemporaneo; sia per la
tendenza a ricondurla in un ambito naturale, un
momento del fluire del tempo nel cosmo, nel contesto
di una emergente sensibilità antiretorica, che si spinge
fino a preferire la sepoltura anonima o la dispersione.
Da un punto di vista funzionale, la crescente diffusione
della cremazione ha cancellato la necessità di nuovi
spazi, e perciò di nuovi progetti, mentre i comuni sono
11
Lo splendore della forma
affaticati dai costi crescenti della conservazione dei
grandi complessi monumentali ereditati dal passato. Le
sepolture del domani non basteranno nemmeno a
mantenere attivi gli spazi cimiteriali di oggi. Dove la
cremazione è diffusa, molti cimiteri stanno chiudendo,
spazi cimiteriali sono convertiti in giardini, ovunque ci
si orienta verso il riuso dei sepolcri storici piuttosto che
alle espansioni.
Il cimitero, se si accettata l’espressione ellittica e vagamente sfrontata, è morto. Almeno in Italia, i grandi
campi costruiti dopo la seconda guerra mondiale per
le tumulazioni e le inumazioni di massa, saranno convertiti in spazi verdi; le parti storiche ospiteranno le
urne di una umanità che, se proprio si deve morire,
desidera scomparire, o disturbare il meno possibile,
chiedere poco o niente ai successori, non rubare spazio a chi verrà.
Liberi dal compito di nuove sfide progettuali, saremo
civili se sapremo conservare la memoria di una stagione splendida.
12
Per una riflessione complessiva sulla funzione e sulla
forma della scultura funeraria in Europa
di Franco Sborgi
Il convegno di Verona, che aveva come titolo emblematico Lo splendore della scultura nei cimiteri europei,
aveva rappresentato indubbiamente un ampio
momento di riflessione complessiva sulla funzione che
la scultura funeraria ha avuto nella conformazione e
nella definizione dei cimiteri europei fra la fine Settecento e i primi decenni del Novecento e, soprattutto,
di come essa si sia caricata di significati e caratteri
comunicativi specifici e variamente rilevanti, a seconda dei paesi in cui si è proposta.
La presenza di studiosi specialisti che coprivano pressoché l’intera estensione europea, dalla Finlandia all’Italia (quest’ultima, naturalmente rappresentata con
una particolare articolazione attraverso cimiteri che
hanno avuto importanti ruoli storici come, ad esempio, quelli di Bologna, Roma, Genova, Verona, Milano) permetteva infatti di proporre una riflessione
approfondita sulle dinamiche con cui la scultura funeraria ha saputo dare risposte diverse alle esigenze di
memoria, in un’epoca come quella contemporanea in
cui memoria pubblica e privata si sono spesso stretta-
13
Lo splendore della forma
Leonardo Bistolfi,
Tomba Bauer,
1904, Genova,
Cimitero di Staglieno
14
mente intrecciate, rispondendo a comuni valori di
comunicazione e di autorappresentazione sociale.
Lo spirito che ha guidato l’impianto del Convegno
organizzato dall’ASCE è stato soprattutto quello di
rendere evidente la qualità e l’estensione del fenomeno, proponendo una nuova riflessione che rimettesse
la scultura funeraria al centro dei processi generali
della storia della scultura europea, ponendo fine al
pregiudizio ricorrente che ha confinato per decenni
tale forma rappresentativa in una sorta di dimensione
“minore”, di pura ufficialità e accademismo, escludendola dai processi di ricerca operati dal linguaggio
plastico di questi ultimi due secoli: anche se tracce
interpretative più aperte erano state talvolta proposte
peraltro per epoche precedenti: basti citare per tutti
il fondamentale saggio di Erwin Panofsky, Tomb Sculpture, 1 che tuttavia concludeva la propria riflessione
con l’epoca barocca.
Tale marginalizzazione nasceva, almeno sino agli anni
Ottanta del Novecento, sia dalla limitata conoscenza
del fenomeno della scultura ottocentesca e di primo
Novecento nella sua effettiva rilevanza e articolazione
(pochi erano del resto, sino a quel tempo, gli studi
d’insieme aggiornati criticamente e per lo più indirizzati soprattutto alle aree anglo-americane e francesi) e
di quella funeraria nello specifico. Del resto la scarsa
Per una riflessione complessiva
coscienza del ruolo effettivo che essa aveva rivestito
nell’esigenza di memoria espressa, con particolare
urgenza, dalla società contemporanea, 2 non aveva
certo aiutato nella comprensione del fenomeno: forma
rappresentativa, questa, che l’aveva connotata a partire
dall’epoca illuministica, lungo tutto il XIX secolo, in
corrispondenza dell’affermarsi di una cultura positivista e progressivamente borghese: questa, affidava gran
parte della propria identità tanto al ricordo delle proprie imprese, quanto dei propri valori anche quotidiani, considerandoli esemplari sia per il comportamento
presente, sia per il futuro.3
Intorno agli anni Settanta del Novecento gli studi sulla
scultura incominciarono a incrementarsi e ad articolarsi problematicamente, come si avverte, ad esempio, nel
noto testo di Maurice Rheims, La Sculpture au dixneuvième siècle4 che, pur in termini divulgativi, metteva ben in
evidenza le diverse problematicità sociali e culturali
della scultura ottocentesca.
Horst W. Janson – certamente una delle figure più
importanti in questo processo di riperimetrazione
degli studi sulla scultura fra Ottocento e Novecento5 –
proponeva una riflessione sulle ragioni della sfortuna
degli studi sulla scultura.
Tale riflessione è ancora nella gran parte valida. Essa è
particolarmente condotta nell’introduzione del volume dedicato alla scultura in occasione del XXIV congresso del CIHA (Comité International d’Histoire de
l’Art)6 tenutosi a Bologna nel 1979.
Quando il CIHA decise di dedicare una delle dieci sezioni
del XXIV Congresso alla scultura, esso lo fece sotto la rubrica delle “aree trascurate o insufficientemente esplorate”.
Non c’era dubbio che il campo era stato trascurato sino a
pochissimo tempo prima; vent’anni prima sarebbe stato
quasi impossibile riunire un gruppo di venticinque studiosi
come quelli i cui saggi sono riuniti in questo volume. Molti
di questi, abbastanza significativamente, hanno meno di
quarant’anni e molto pochi hanno più di cinquant’anni.7
Segno certo del nuovo atteggiamento e della nuova
attenzione critica per la scultura funeraria è la presenza
15
Lo splendore della forma
16
nella sezione di ben tre saggi sull’argomento, a opera di
Fred Licht, Nicolas Penny e Rossana Bossaglia.8
Janson sottolineava inoltre come in circa un decennio
la situazione stesse decisamente cambiando e come la
scultura divenisse un vero e proprio nuovo campo di
ricerca e si stesse iniziando a colmare il divario rispetto
agli studi sulla pittura.
Ugualmente notava come l’ambito degli studi sostanzialmente si fosse un tempo riduttivamente focalizzato
sui contesti che da una parte facevano centro su Canova e dall’altro su Rodin: ossia sui due momenti di
modernizzazione all’inizio e alla fine del XIX secolo.
Tutto quanto stava in mezzo era visto rispettivamente
come una conseguenza della lezione canoviana o, per
contro, come una anticipazione, attraverso la figura di
Rodin, di quanto sarebbe avvenuto nelle avanguardie
di primo Novecento.
Questo, naturalmente, metteva in secondo piano tutto
il resto, ma anche impediva di comprendere l’ampiezza e la qualità della diffusione della scultura nella
realtà del tempo.
Diversi altri elementi emergevano dall’analisi di Janson: innanzitutto la messa in evidenza di un certo disagio culturale da parte della storia dell’arte del Novecento nei confronti di un’esperienza artistica come
quella della scultura in cui i fattori tecnici e di moltiplicazione (visti come processo di industrializzazione e
non come segno dell’ampio interesse dei contemporanei nei confronti di questa forma d’arte) sembravano
contrastare coll’idealizzazione del gesto artistico come
fattore prettamente individuale: idea presente ancora
negli anni Sessanta del Novecento in molta della critica
formalistica, poco attenta alla collocazione dell’opera
d’arte nel suo specifico contesto socio-culturale.
Ma un’altra riflessione che oggi, in una prospettiva storica, risulta particolarmente convincente è quella che Janson deriva da Hans-Gerhard Evers (1966): “La scultura
dell’Ottocento è ancora così poco familiare che il nostro
primo compito è quello di raccogliere il materiale e la
sua documentazione dalla vasta quantità disponibile”.9
Janson finiva per concludere che ciò che valeva nel
1966 era altrettanto valido, di massima, per gli anni
Per una riflessione complessiva
Santo Saccomanno,
Tomba Erba,
1883, Genova,
Cimitero di Staglieno
Settanta; anche se, a dire il vero, intorno alla metà del
decennio motivi diversi si stavano proponendo, insieme a nuove e più ampie riflessioni, nuovi approcci critici alle problematiche della scultura: specialmente in
area anglosassone e francese.
Emblematica di questo incrocio fra cultura americana
e francese (anche perché dà una nuova lettura problematica della scultura funeraria nel saggio di Fred Licht
che è compreso nel catalogo),10 è la mostra curata da
Peter Fusco e dallo stesso Horst W. Janson: The Romantics to Rodin. French Nineteenth-Centur y Sculpture from
North American Collections.11
Particolarmente in area francese numerosi studi – pur
traguardati soprattutto sulla riscoperta del tessuto
nazionale – danno l’avvio a più generali riflessioni
metodologiche: di particolare interesse, in proposito,
la mostra tenutasi nel 1986 al Grand Palais di Parigi,
La sculpture française au XIX siècle,12 sotto la direzione
generale di Anne Pingeot – allora Conservatrice del
Musée d’Orsay –, in cui si affrontano problematiche
tecniche e sociologiche della scultura, dal funzionamento dei Salons e degli ateliers, alle committenze
pubbbliche e private, fino al trasformarsi progressivo
dei linguaggi lungo il corso del secolo.
Il saggio introduttivo della Pingeot 13 è di particolare
interesse perché fa il punto sulla situazione degli studi:
anche se la rassegna bibliografica ha ovviamente un
17
Lo splendore della forma
Fritz Wotruba,
Tomba di Selma
von Halban-Kurz,
m. 1933, Vienna,
Zentralfriedhof
punto di vista prevalentemente francese, presenta tuttavia ampi riferimenti alla letteratura internazionale, in
particolare con la messa in evidenza della scuola americana e del ruolo fondamentale di Janson.
All’interno di questa ampia analisi non poteva mancare, naturalmente, una riflessione sulla scultura funeraria, nel saggio De la mort paisible à la mort tragique, curato da Antoinette Le Normand Romain.14
18
Ci parevano necessarie queste pur minime considerazioni preliminari, perché se esse sono particolarmente
valide per la scultura in generale, diventano imprescindibili per contestualizzare una qualsiasi riflessione sulla
specifica esperienza della scultura funeraria.
Infatti, se le problematiche della scultura ottocentesca
e di primo Novecento incontravano un limitato favore
tanto negli studi,15 quanto nel gusto e nello stesso mercato, ancora minore era l’interesse per ciò che concerneva quella funeraria.
Studi sistematici se ne vedono ben pochi dagli anni
Venti/Trenta fino agli anni Settanta del Novecento, e
non frequenti sono del resto quelli dedicati ai singoli
complessi funerari, oppure quelli, pur suggestivi, di
carattere tipologico o iconologico: volti, questi ultimi,
soprattutto a una conoscenza storica e, talvolta, allo
studio di nuove possibili forme per i cimiteri contemporanei. Esemplare fra questi, a nostro avviso, è il volume di Robert Auzelle, Dernières demeures del 1965 (data
piuttosto precoce per questo tipo di studi), che intrec-
Per una riflessione complessiva
cia gli elementi storici con quelli tecnici e progettuali e
correda lo studio di una ricca bibliografia tematica.16
Alle linee di rimozione nei confronti della scultura
funeraria evidenziate da Janson, si devono senz’altro
aggiungere altre motivazioni fondamentali, sia di tipo
linguistico sia di tipo socio-culturale: anch’esse oggi da
rimuovere per comprendere appieno il fenomeno
della scultura funeraria e recuperarne l’effettiva importanza, come del resto i diversi contributi al convegno di
Verona ben documentano.
La scarsa storicizzazione induce spesso – come è stato
per anni non solo nel senso comune, anche da parte
degli studiosi – a ritenere erroneamente che quelle
della scultura funeraria siano esperienze accademiche
che seguono linee di sviluppo diverse dalle linee di
ricerca che confluiranno nelle vicende di avanguardia
del Novecento.
Altro elemento che nuoce è peraltro la sostanziale
incomprensione dell’originario forte valore comunicativo – sia come elemento emblematico-sociale, sia di
memoria tanto pubblica che privata – della scultura,
man mano che essa perde storicamente, nel corso del
XX secolo, il ruolo sociale, sostituita da altri tipi di
monumentalità.17
Ciò avviene progressivamente dopo la Prima guerra
mondiale, quando a un’idea di memoria individuale si
sostituisce in parte una sorta di memoria collettiva che
allontana il ricordo del singolo: proponendo per contro una sorta di silenzio collettivo, di volontà di anonimato di fronte alla morte, che ritualizza, attraverso il
simbolo generale, le memorie singole, stemperandole,
si fa per dire, nella comune condivisione drammatica
della incommensurabilità della catastrofe. Si veda qui il
contributo di Zucconi e Anna Maria Fiore sui mausolei
della Prima guerra mondiale.18
La morte non è più soltanto del singolo, ma di tutti e
alla statua – ricordo di memorie tanto private che pubbliche, si va sempre più sostituendo il mausoleo o il
memoriale, pur di dimensioni retoriche diverse, a seconda delle comunità coinvolte che lo promuovono: dall’enorme silenzio di Redipuglia che, nella sua astrazione
formale, riesce in parte ad allontanarsi dalla più abituale
19
Lo splendore della forma
20
retorica del regime; al progetto, non a caso non realizzato per volontà governativa, della “Via Crucis laica” di
Eugenio Baroni per il ricordo del Fante sul Monte San
Michele, in cui la scultura tenta ancora di trovare una
sua logica di memoria, inserendosi in quello stesso paesaggio che ha visto lo svolgersi comune della catastrofe.19
Il dissolversi nella memoria collettiva20 è in sostanza la
fine di una storia della scultura funeraria e, più generalmente, di una scultura di commemorazione sociale
e individuale che aveva trionfato per oltre un secolo e
mezzo nella cultura occidentale, diffondendosi fra XIX
secolo e primi decenni del XX non solo in Europa, ma
ben oltre i suoi stessi confini: esportando modelli simbolici oltre che di gusto e comportamentali che, pur
modificandosi a seconda dei contesti culturali e territoriali, creano spesso un linguaggio che ha molte più
forme comuni di quanto si pensi.
Tutto ciò non vuol dire, peraltro, che la scultura funeraria sparisca nei decenni successivi alla guerra, ma sta
di fatto che tendono a prevalere forme architettoniche
spesso banali, contenitori della morte familiare, piuttosto che espressione di una concezione profonda del
rapporto fra la morte e la vita.
Contemporaneamente si sviluppa la standardizzazione
delle immagini più che non il loro uso personalizzato.
Non a caso, ritornano forme consuete e banalizzate
della pietas religiosa (la pietà più o meno derivata da
quella michelangiolesca vaticana, Cristi variamente
benedicenti ecc., in forte contrasto con quelle forme di
laicizzazione della morte che avevano caratterizzato gli
anni precedenti la Grande guerra e avevano spesso coinvolto e trasformato le stesse icone religiose. Il banale
della commemorazione sembra sempre più associarsi
all’assenza di commemorazione.
Anche tutto questo, forse, determina la perdita dell’interesse e il fraintendimento della scultura funeraria.21
Tutto ciò ha peraltro delle eccezioni nella continuità
di una scultura d’artista che offre profonde anche se
non frequentissime testimonianze nel corso del XX
secolo, peculiarmente quando il tema della morte e
della memoria si incontrano con le realizzazioni delle
avanguardie: è questa, del resto, una delle problema-
Per una riflessione complessiva
tiche tuttora da approfondire, rimossa anch’essa
com’è dagli studi sulla scultura contemporanea.
Basterebbe qui ricordare anche solo pochi esempi che
mostrano come persista intenso il rapporto fra scultura
e memoria. Una delle opere più note, ad esempio, di
Brancusi è Il bacio, conservata nel Cimitero di Montparnasse (lo stesso artista aveva dato un altro alto esempio
nel cimitero Bellu di Bucarest con La Preghiera).22 Scultori come Epstein,23 Arp,24 Laurens,25 Victor Brauner,26
Alberto Giacometti27 fino a Niki de Saint-Phalle28 hanno
operato nei cimiteri francesi, proponendo opere innovative. In Italia Adolfo Wildt, Francesco Messina, Lucio
Fontana, Arturo Martini, Arnaldo Pomodoro; al Zentral
Friedhof di Vienna sono presenti opere di Fritz Wotruba, fra cui la Tomba della cantante d’opera Selma von Halban-Kurz, solo per citare alcuni esempi di una permanente continuità fra arte contemporanea e memoria
funeraria, pur con valenze diverse rispetto a quanto
avveniva nel corso del XIX e con una più stretta relazione concettuale fra artista e committente (talvolta lo stesso artista è il committente di se stesso).
Il ritorno a una nuova attenzione per gli studi sulla
scultura funeraria avviene, come si diceva, intorno agli
anni Settanta del Novecento.
In seguito a motivi diversi che non sono sempre facili
da definire, in quanto incrociano il più generale ritorno di interesse per la scultura da parte degli studiosi, di
cui si è detto, con quello per un nuovo mercato che
coinvolge sempre più la scultura e soprattutto quella di
piccolo-medio formato così ampiamente sviluppatasi
nel corso del XIX secolo.
Ma, nello specifico della scultura funeraria entrano in
gioco senz’altro ulteriori motivazioni di carattere più
ampio e non solo prettamente artistico. E non è certo
un caso se, contestualmente, si va diffondendo sempre
più, per definire il cimitero, il termine di “museo di
scultura all’aperto”, innescando allo stesso tempo il
concetto di “conser vazione” di questo imponente
materiale artistico e culturale.29
Accanto alle progressive ricognizioni sulle realtà della
scultura europea e americana, fra anni Sessanta e Settanta, studi socio-antropologici, genealogici, oltre che
21
Lo splendore della forma
22
tecnico-produttivi,30 pongono l’attenzione, pressoché
nello stesso periodo, su quelli che si incominciano di
nuovo a considerare (qualitativamente e quantitativamente) luoghi “privilegiati” della scultura: ossia i grandi cimiteri monumentali, non più mentalmente rimossi, ma visti per contro come una grande raccolta di
immagini capaci di restituire, pur con qualità diverse,
le chiavi di lettura di una cultura e di una ideologia
della morte ancora fortemente radicata nel presente.31
Il lavoro di studiosi come Philipe Ariès, 32 Michel
Ragon33 e, particolarmente Michel Vovelle,34 ridanno
forte rilievo all’analisi problematica della morte e della
sua rappresentazione, mettendo in evidenza il forte
valore testimoniale della scultura funeraria nella più
generale analisi storico-sociale del problema.35
La stringente successione di forme e di linguaggi ripercorreva l’immaginario e il comportamento di una
società in forte evoluzione, che soprattutto nella concretezza del realismo36 trovava il suo momento più forte
di espressione e di rappresentazione e alla durevolezza
del marmo e del bronzo, oltre che alla forma e all’organizzazione monumentale del cimitero, aveva affidato
sempre più i propri processi di autorappresentazione.
Allo stesso modo, fra fine XIX secolo e i primi del XX,
ancora agli stessi materiali affida, pur attraverso l’indeterminatezza simbolista, lo stato di pervadente inquietudine che attraversa l’epoca, fino al dissolversi delle
sue certezze.37
Data ormai per scontata, sul finire del Novecento, l’importanza storica e artistica del cimitero e delle sue
immagini, diveniva sempre più importante ampliare
anche quantitativamente gli studi, allo scopo di verificare qualità, specificità ed estensione dei fenomeni.
Nonostante l’intensificarsi degli studi nell’ultimo quarto del XX secolo, restavano comunque ancora molte
questioni di fondo da chiarire.
Innanzitutto quella della qualità della scultura funeraria e soprattutto il suo rapporto con la scultura accademica e l’artigianato plastico.
Non mancava infatti di stupire il permanere di giudizi
classificatori sommari di fronte a fenomeni che dovevano essere considerati soprattutto nella loro estensio-
Per una riflessione complessiva
Constantin Brancusi,
Il bacio,
Tomba Tatiana Rachevski,
1907-1908, Parigi,
Cimitero di Montparnasse
23
ne e nella loro capacità di diffondersi, oltre che per la
singola qualità tecnica.
Del resto era ormai accertato l’impegno dei grandi
scultori in questo ambito, spesso strettamente legato
alla volontà di dare un’interpretazione personale
della morte e della memoria, rifiutando una visione
convenzionale.
Ciò è avvenuto in diversi paesi, soprattutto Francia e
Italia dove, dietro a una rappresentazione funeraria c’è
soprattutto un forte pensiero sulla morte. Basti pensare
agli innumerevoli casi che si riscontrano al PèreLachaise o nei principali cimiteri parigini come Montmartre o Montparnasse o nei numerosi italiani, da Staglieno alla Certosa di Bologna, dal Vantiniano di Brescia al Monumentale di Milano, al Verano di Roma,
solo per citarne alcuni: e gli interventi nel convegno
ancora una volta lo confermano.
Lo splendore della forma
24
Molte di queste opere sono largamente note e pienamente riconosciute come parte dei processi di avanguardia della scultura: basti pensare ai modelli canoviani e al loro valore emblematico per oltre un secolo, nel
determinare l’idea stessa di morte: come ad esempio
nella tomba di Maria Cristina d’Austria agli Agostiniani di
Vienna, dove si inventa una originale idea laica della
morte, con chiara allusione al tempo e alle età dell’uomo, oltre che alle virtù della defunta.38
Basterebbe del resto pensare, in un contesto del tutto
diverso, a opere come il Cavaignac di François Rude, di
cui si riconosce abitualmente la qualità, ma di cui non
si sottolinea mai abbastanza la precocità con cui uno
scultore romantico, di fronte alla volontà di restituire
l’assolutezza della morte, si trasforma in un realista,
anticipando di circa un lustro alcune delle opere più
importanti di Courbet.
La presenza, più di quanto non si sottolinei abitualmente, in molti cimiteri europei di opere dovute a
grandi e noti scultori – particolarmente in Francia, Italia, Germania, Austria, Inghilterra – testimonia del
resto come la committenza si affidasse abitualmente ad
artisti non accademici, e solo la grande richiesta di
scultura funeraria, soprattutto dopo la metà del XIX
secolo, con il sempre maggiore impulso dato dalla borghesia, mettesse in gioco, in parallelo, una moltitudine
di artisti di minore capacità innovativa, fino a una diffusa operatività di qualità artigianale.
Diventava quindi quasi consequenziale che, proprio
per il rilievo assunto, i modelli “alti” di questa rappresentatività fossero largamente ripresi sia dagli artisti
stessi, sia da uno stuolo di imitatori di diversa qualità:
anche se, quasi paradossalmente, non bisogna dimenticarlo, la qualità stessa della formazione accademica
garantisse una “media” qualità anche alle repliche e
alle numerose derivazioni che costellano i cimiteri
monumentali europei e non solo.
Moltissimi sono i casi che si potrebbero citare. Addirittura spesso tali modelli divengono scelte culturali di
area: l’oscillazione fra modelli neobarocchi e neoclassici guidano spesso le immagini delle aree germaniche:
anche se qui spesso prevale il carattere naturalistico su
Per una riflessione complessiva
quello monumentale, come del resto avviene anche in
parte in Inghilterra. Per quanto riguarda la Germania
si veda la tipologia del Waldfriedhof di Monaco di
Baviera e lo stesso Zentralfriedhof di Vienna: pur nella
presenza di opere di grande pregio fino al Novecento,
sembra darsi grande spazio all’ambiente naturale oltre
che alle realizzazioni monumentali.
Ma un’altra considerazione nasce dalle riflessioni condotte dai diversi studiosi: ossia che se il linguaggio della
scultura funeraria europea propone certo specifiche
connotazioni, a seconda delle aree di sviluppo o delle
caratteristiche confessionali, esso mostra spesso una consonanza di pensiero sulla morte e sulla memoria, che si
concreta nell’ampio diffondersi di tematiche, simboli e
forme di un immaginario che va ben oltre i confini
regionali e che diviene spesso proposta forte, accolta
anche nelle aree extraeuropee (particolarmente le Americhe), come alcuni degli interventi ben testimoniano,
evidenziando una circolazione dei modelli e dei valori
ben più ampia di quanto non si pensi abitualmente.
Un evidente esempio dell’amplissima diffusione di
modelli considerati “alti” attraverso repliche sia originali
dell’artista sia copie di qualità diverse è il famosissimo
angelo della Tomba Oneto, a Staglieno, di Giulio Monteverde, diffuso in tutta Europa e nelle Americhe (rimandiamo qui al contributo di Leo Lecci),39 o al quasi altrettanto famoso angelo della Tomba Story al cimitero Acattolico di Roma (si veda il saggio di Christina Huemer),40
che si diffonde particolarmente nell’area americana.41
Ma questi non sono che due fra gli esempi più noti. Particolarmente nel caso della tipologia dell’angelo le copie
e le variabili sono davvero infinite e si adattano spesso
alle aree culturali in cui si propongono, con trasformazioni dovute talvolta al gusto e all’artigianato locale.42
Se i due casi appena citati sono indubbiamente rappresentativi per la loro diffusione, lo sono ancora di più
perché testimoniano una problematica che coinvolge
più strutturalmente le vicende della scultura del XIX
secolo e dei primi decenni del XX e, in modo particolare quella funeraria che della diffusione dei modelli fa
un fenomeno fisionomico, particolarmente per certe
aree culturali. Fra gli interventi presenti nel volume, si
25
Per una riflessione complessiva
Lo splendore della forma
26
veda in particolare quello di Cristina Beltrami che
dimostra quale rilievo il problema abbia in un paese
dell’America Latina come l’Uruguay.43
Ciò vale particolarmente per la scultura funeraria italiana che ha una capacità di diffusione ben più ampia
di quanto non abbiano avvertito le stesse storicizzazioni
nazionali.44 Altrettanto si può dire per quella spagnola
e francese, in un intreccio di linguaggi che proprio nell’ambito della scultura funeraria si fa particolarmente
stretto, creando una internazionalizzazione delle esperienze che si modella particolarmente sulle scelte di
gusto dei committenti che si rispecchiano in forme e
stili: ben oltre, talvolta, della rilevanza ufficiale degli
esempi proposti. Anche queste problematiche di interscambio sono oggetto recente di ricerche che hanno
permesso di ricollocare progressivamente la posizione
storica della scultura al di là delle sommarie definizioni
degli studi anteriori agli anni Settanta del Novecento,
in una progressione di analisi che hanno caratterizzato
soprattutto gli ultimissimi decenni e di cui questo volume è buon esempio.
La graduale attenzione al valore intrinseco della scultura presente nei cimiteri europei ed extraeuropei e la
progressiva convinzione che essa non fosse una forma
minore di rappresentazione, portò, come si è detto, fra
fine anni Settanta e anni Ottanta a uno studio più
capillare della scultura funeraria in se stessa e, di conseguenza, del suo contesto.
L’interesse sembra porsi, almeno all’inizio, su situazioni complessive, quasi rassegne generali del mondo
cimiteriale, talvolta orientate al pittoresco (come del
resto le prime, pur non frequenti, monografie sui singoli cimiteri). 45 Ricordiamo ad esempio il testo di
Edmund V. Gillon JR., Victorian Cemetery Art (1972),46 E.
Bacino, I Golfi del silenzio (1979),47 o quello più specifico di Chabot, Érotique du cimitière (1989),48 che affronta,
con particolare attenzione, una delle tematiche più
intriganti e spesso maggiormente rimosse della scultura funeraria fra Ottocento e Novecento.
A queste rassegne generali, sostanzialmente a carattere
informativo, incominciano a susseguirsi ben presto
studi d’area o tipologici, in cui si propone con sempre
maggiore rilievo l’importanza della scultura funeraria
accanto a quella dell’architettura.
I diversi contributi raccolti seguono spesso questa linea
di analisi territoriale, con un’ampia diversificazione di
aree: dal Portogallo alla Spagna, alla Gran Bretagna,
all’Irlanda, alla Francia, alla Romania, alla Slovenia,
all’area danubiano-balcanica, al Canton Ticino fino alla
Finlandia, quando non affrontano la specificità contestuale di singoli cimiteri europei (Vienna, Berlino, Milano, Bologna, Roma – Verano e Cimitero acattolico –,
Staglieno, Marsiglia, Firenze, Bruxelles): tali diversi
interventi hanno indubbiamente aperto ulteriori strade
di lettura, proponendo nuove problematiche specifiche
e, soprattutto, chiarendo significative aree di identità
della scultura funeraria al di là di stereotipi identificativi, evidenziando nuove se non addirittura inedite fisionomie rappresentative.
La crescita dell’ASCE e della sua rete di relazioni europee ed extraeuropee si può dire che abbia contribuito
non poco all’ampliamento della conoscenza della cultura funeraria e, particolarmente della sua complessità
geo-culturale: oltre che, soprattutto, della necessità di
una più profonda coscienza delle esigenze conservative
di questo immenso patrimonio artistico e storico, coinvolgendo, oltre che gli studiosi, le stesse amministrazioni a cui competono i compiti conservativi.
1
2
E. Panofsky, Tomb Sculpture. Four Lectures on Its Changing Aspects from
Ancient Egypt to Bernini, Harry N.
Abrams, Inc., New York 1964.
C. Brooks, in Mortal Remains, Wheaton
Publisher Ltd, Exeter, 1989, riflette
come gran parte della fortuna dei
nuovi cimiteri, come ad esempio quello
del Père-Lachaise, nascesse dalla
garanzia di una memoria pressoché
3
perpetua attraverso una tomba – per
chi avesse la capacità economica per
costruirsela. Il prestigio e l’evidenza
della tomba era naturalmente amplificata dalla presenza della scultura,
come del resto era evidenziato, soprattutto dopo il 1850, in complessi come
il londinese Kensal Green.
Si veda F. Sborgi, La théâtralisation de
la mort dans la sculpture funeraire au
27
Per una riflessione complessiva
Lo splendore della forma
4
5
6
7
8
28
9
10
11
12
13
14
15
XIX siècle, in Les Narrations de la Mort,
Actes du Colloque International, Aixen-Provence, 20-22 novembre 2003,
Publications de Université de Provence,
Aix-en-Provence 2005. F. Sborgi,
Immagini della modernità nella scultura funeraria fra Ottocento e Novecento,
in C. De Carli - F. Tedeschi, Il presente
si fa storia. Scritti in onore di Luciano
Caramel, Vita & Pensiero, Milano 2008,
pp. 36-49.
M. Rheims, La Sculpture au XIXe siècle
Paris, 1972.
Si ricorda in particolare H.W. Janson,
19 th Century Sculpture, Harry N.
Abrams inc., New York 1985.
H.W. Janson (a cura di), La scultura nel
XIX secolo, Atti del XXIV Congresso
C.I.H.A., Bologna 10-18 settembre
1979, vol. VI, Clueb, Bologna 1984.
H.W. Janson (a cura di), La scultura nel
XIX secolo, C.I.H.A., Atti del XXIV Congresso Internazionale di Storia dell’arte, Bologna 1979, vol. 6, Clueb, Bologna 1984. Il tema era già stato occasione di riflessione in H.W. Janson,
Rediscovering Nineteenth Sculpture, in
“The Art Quarterly”, XXXVI, n. 4, pp.
411-414.
N. Penny, Symbol and Style in English
nineteenth century sepulchral sculpture; F.S. Licht, Italian funerary sculpture
after Canova; R. Bosssaglia, Scultura
cimiteriale a Milano tra Scapigliatura e
Simbolismo.
Propyläen-Kunstgeschichte, Die Kunst
des 19. Jahrhunderts, Bd. 11, Propyläen
Verlag, Berlin 1966.
F. Licht, Tomb Sculpture, in P. Fusco e
H.W. Janson, The Romantics to Rodin.
French Nineteenth- Century Sculpture
from North American Collections, Los
Angeles County Museum – George
Braziller Inc., Los Angeles 1980, pp.
96-108.
Fusco e Janson, The Romantics to
Rodin cit.
AA.VV., La sculpture française au XIX
siècle, Paris, Galeries nationales du
Grand Palais, Editions de la Réunion
des musées nationaux, Paris 1986.
Ibidem, pp. XI-XXI.
La studiosa, oltre a numerose altre
opere sulla scultura, pubblicherà nel
1995 Mémoire de Marbre. Sculpture
funéraire en France 1804-1914, Mairie
de Paris, Bibliothèque historique de la
Ville de Paris, Paris 1995.
Studi innovativi per alcuni paesi euro-
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
pei incominciano anche in questo caso
fra anni Settanta e Ottanta. Ricordiamo per la Gran Bretagna B. Read, Victorian Sculpture, Yale University Press,
New Haven–London 1982 (Read dedica
un capitolo alla scultura funeraria); S.
Beattie, The New Sculpture, Yale University Press, New Haven–London
1983; B. Read, Victorian Sculpture,
Yale University Press, New Haven–London 1983.
R. Auzelle, Dernières demeures. Conception, composition realization du
cimetière contemporain, Imprimerier
Mazarine, Paris 1965.
Sull’argomento si veda anche J.J.
Young, The Texture of Memory, Yale
University Press, New Haven-London
1993.
Si parla di oltre sedici milioni di morti.
Si veda anche in G. Rossini e C. Masi (a
cura di), Da Baroni a Piacentini, Immagine e memoria della Grande Guerra a
Genova e in Liguria, catalogo della
mostra, Genova, Palazzo Reale, Skira,
Milano 2009. E Id., Da Baroni a Piacentini. Percorsi di approfondimento, Atti
del convegno, Genova, Palazzo Reale
2009, Sangiorgio editrice, Genova
2010. Sul problema si veda anche F.
Sborgi, Guardare la guerra, pp. 51-67.
Si veda F. Sborgi (a cura di), Eugenio
Baroni, catalogo della mostra, Bogliasco, De Ferrari Editore, Genova 1990.
Sul trasformarsi del concetto di monumento e memoria, si veda S. De Maria
e V. Fortunati (a cura di), Monumento
e Memoria, atti del convegno, Bologna
11-13 ottobre 2006, Bononia University Press, Bologna 2010.
Anche se, ancora negli anni Sessanta,
permane a livello popolare, almeno in
Italia, l’interesse per le nuove tombe,
testimoniato dalle rubriche che si
ripropongono sui giornali quotidiani
nell’occasione dei giorni di commemorazione dei morti.
Tomba T. Rachevskaia, Parigi, Montparnasse, 1909-1910.
Tomba Oscar Wilde, Parigi, PèreLachaise, 1912.
Tomba Pierre Loeb, Parigi, Montparnasse.
Il dolore, Tomba Laurens, Parigi, Montparnasse.
Signe, Tomba Victor Brauner, Parigi,
Montparnasse.
Tomba Gerda Taro, Parigi, Père-Lachaise.
Tomba di Richard Menon, Parigi, Montparnasse 1990.
29
30
31
32
33
34
35
36
Al principio della conservazione oltre
che alla valorizzazione si sono ispirati
progetti europei come quello Raphael
(S. Diéguez, Patao-Carmen Gjménez, a
cura di, Arte y Arquitectura funeraria,
Dublin, Genova, Madrid, Torino, Electa
España, Madrid 2000), oltre alla stessa
costituzione e l’attività dell’Ascee.
J.L. Wasserman (a cura di), Metamorphoses in Nineteenth-Century
Sculpture, Fogg Art Museum, Harvard
University Press, Harvard 1975.
Di particolare interesse per la molteplicità delle chiavi di lettura proposte contestualmente furono alcuni convegni
nel corso degli anni Novanta: ricordiamo in particolare Una Aquitectura para
la Muerte, I Encuentro internaional
sobre los cementerios contemporaneos,
Sevilla 4-7 junio 1991, a cura di F. Javier
Rodriguez Barberàn, Sevilla 1993.
L’Homme devant la mort, Paris, Seuil
1977 (L’uomo e la morte dal medioevo
ad oggi, trad. it. di M. Garin, Laterza,
Bari 1980).
Lo spazio della morte: saggio sull’architettura, la decorazione e l’urbanistica
funeraria, Guida, Napoli 1986.
La mort et l’Occident de 1300 à nos
jours, Paris 1983 (trad. it. La morte e
l’Occidente dal 1300 ai giorni nostri,
Laterza, Bari 1986). Si veda in particolare la parte VII, cap. XXXV. In questo
ambito culturale si muovono i diversi
studi problematici di Régis Bertrand.
A partire dagli anni Ottanta/Novanta
incominciano a organizzarsi convegni
sul tema che, partiti da letture socioantropologiche, danno progressivamente spazio alla forma architettonica
e alla scultura. Questo carattere misto
si riscontrava ad esempio in quello
organizzato a Torino nel 1992, Le Periferie della memoria (“Notiziario di Statistica”, Torino 1993, n. 2, pp. 7-26
dove, accanto a saggi sociologici,
antropologici (Lombardi Satriani) ecc.,
compariva il saggio specificamente
storico-artistico La rappresentazione
della morte nelle grandi configurazioni
cimiteriali urbane fra Ottocento e
primo Novecento, di chi scrive. Si veda,
più recentemente, R. Bertrand, A.
Carol, J.-N. Pelen, Les Narrations de la
mort, Université de Provence, Aix-eProvence 2005.
Si veda L. Nochlin, Realismo. La pittura
in Europa nel XIX secolo, Einaudi, Torino 1979 (Realism, Penguin Booksd Ltd,
37
38
39
40
41
42
43
44
45
46
47
48
Harmndsworth 1971) e in particolare il
capitolo La raffigurazione della morte
intorno alla metà dell’Ottocento.
S. Berresford (a cura di), Carrara e il
mercato della scultura II, Motta Cultura s.r.l., Milano 2007.
Per i significati diversi dell’opera, si veda
H. Honour, Neoclassicismo, Einaudi, Torino 1980, pp. 106-107 (prima ed. 1968).
Cfr. ivi pp. 250 e sgg.
Cfr. ivi p. 202.
Da Stanford a Columbus, a Oakland, a
Rochester, a Scottsville ecc.: solo per
citare alcuni dei numerosissimi esemplari.
Si veda, a titolo d’esempio, F. Sborgi,
Companions on the Final Journey.
Reflections on the image of the Angel
in funerary sculpture during the Nineteenth and Twentieth Centuries, in S.
Berresford (a cura di), Italian Memorial
Sculpture 1820-1940. A Legacy of Love,
Frances Lincoln, London 2004. Qui si
veda anche per le variazioni tipologiche in generale.
Cfr. ivi pp. 114 e sgg.
Ancora Janson (Nineteenth Century
Sculpture, Thames & Hudson, London
1985, p. 228, rilevava: “… un aspetto
peculiare della scultura italiana del XIX
secolo che non è mai stato sistematicamente affrontato [...] è l’esportazione
sia di sculture che di scultori…”. Si veda
anche F. Sborgi, Alcune note sulla diffusione della scultura italiana fra fine
Ottocento e inizi Novecento, in L’architettura dell’eclettismo. La diffusione e
l’emigrazione di artisti italiani nel
Nuovo Mondo, Atti del I Conv. internazionale L’altra Italia. Architettura dell’Eclettismo ed emigrazione colta nella
seconda metà dell’Ottocento, Jesi
1998, ed. Liguori, Napoli 1999, pp.
159-202.
Si veda, ad esempio, Grasso e Pellicci,
Staglieno, Sagep, Genova 1974 oppure
i suggestivi volumi fotografici di I.
Inhoffen (Uber Dem Tieferen Schlaft,
Bilder und Gedanken zu einem alten
Friedhofr, Karl Schillinger, Freiburg
1978), Isolde Olbaum (Denn alle Lust
will Ewigkeit, Munchen 1992 ecc.).
E.V. Gillon, Victorian Cemetery Art,
Dover Publications, Mineola, NY 1972.
E. Bacino, I Golfi del Silenzio. Iconografie funerarie e cimiteri d’Italia, A. Lalli
editore, Firenze 1979: il testo parte
dall’antichità e giunge al presente.
A. Chabot, Érotique du cimitière, Henri
Veyrier, Paris 1989.
29
LE REGIONI
La scultura nei cimiteri del Portogallo (1835-1910)
di Francisco Queiroz
I cimiteri portoghesi del diciannovesimo secolo mostrano più particolarità architettoniche che scultoree.
Spesso costituito solo da un muro e un’entrata con
un importante cancello in ferro battuto, il tipico
cimitero portoghese è caratterizzato da una gran
varietà di cappelle funerarie e mausolei di commercianti del posto, proprietari terrieri, aristocratici,
politici, dottori, giudici, insegnanti e altre persone
benestanti. Questa diversità tipologica si riflette inevitabilmente nella diversità delle sculture e questo
comporta che anche i livelli della qualità artistica
siano in certi casi diversi, anche tra gli stessi tipi di
lavori scultorei in un singolo cimitero.
Possiamo quasi dividere il Portogallo in due aree, corrispondenti ai due modelli precedenti di cimitero: una
rappresentata dal cimitero dos Prazeres a Lisbona, l’altra dal cimitero di Lapa a Porto. Entrambi sono diversi
dai modelli più comuni in Italia, Francia, Spagna e
Inghilterra. Nonostante ciò, nel nord del Portogallo
(modello del cimitero di Porto) possiamo trovare alcune somiglianze con l’Italia, specialmente tra i cimiteri
33
Lo splendore della forma
34
più piccoli, dove le cappelle funerarie più grandi sono
allineate alle mura esterne.
Dall’altra parte, il modello di Lisbona ha alcune somiglianze con il noto modello francese che consiste nella
distribuzione di vari tipi di monumenti lungo le strade
del cimitero, sebbene nei cimiteri di Lisbona la griglia
dei piccoli viali sia più geometrica.
Nonostante queste sfumature, non c’è un solo caso in
Portogallo in cui le cappelle private e i mausolei siano
costruiti sotto a dei porticati, come succede nei cimiteri più grandi del nord Italia. Le sculture nei cimiteri
portoghesi tendono a essere un ornamento degli imponenti monumenti funerari, il cui apparato è soprattutto architettonico o decorativo.
Conseguentemente, le sculture nei cimiteri portoghesi
sono per lo più allegoriche e collocate nelle facciate
delle cappelle e in cima ai mausolei più grandi. Le figure più comuni sono la Fede, la Carità e la Speranza, anche
se la Speranza è probabilmente la più usata tra le tre.
Nei cimiteri più grandi è facile anche trovare altre statue
allegoriche, come l’Industria e il Commercio. In alcune
delle tombe degli imprenditori più ricchi possiamo
anche trovare la statua del Brasile o della coppia Europa
ed America. Altre statue allegoriche, come l’Arte, l’Agricoltura e la Navigazione possono essere presenti in virtù della
biografia del defunto. Nei cimiteri più grandi possiamo
anche trovare le statue della Religione e dei santi patroni.
Tuttavia, le rappresentazioni religiose come l’Immacolata Concezione di Maria, il Sacro Cuore di Cristo e La Sacra
Famiglia spesso compaiono solo a partire dall’inizio del
ventesimo secolo.
Alcune delle prime statue rappresentano le tradizionali
donne piangenti e la Saudade, che rappresenta il sentimento della mancanza e può essere tradotto in maniera approssimativa con il termine “malinconia”. Alcune
di queste antiche statue sono molto fredde nella loro
espressione e posa: ciò è dovuto al fatto che sono basate rigorosamente sul modello neoclassico.
Si possono trovare anche immagini metaforiche connesse
alla morte, come l’Inverno o la Notte. Durante tutto il periodo del Romanticismo possiamo trovare facilmente nei
cimiteri portoghesi vari tipi di angeli e geni della morte.
La scultura nei cimiteri del Portogallo
Angeli della redenzione, angeli della preghiera e angeli
del silenzio erano le tipologie più diffuse di queste figure
celesti che spesso avevano un modesto valore artistico.
Abbiamo un buon numero di sculture belle e interessanti, generalmente sconosciute agli studiosi e difficilmente
studiate. Inoltre, per quanto riguarda il Portogallo, è
proprio il periodo romantico quello meno documentato
storiograficamente, spesso con studi storico-artistici
superficiali, e su cui c’è ancora molto da scoprire.
Le sculture veramente notevoli nei cimiteri portoghesi
sono rare. Bisognerebbe considerare che il Portogallo
è una nazione molto piccola e che prima della fine del
diciannovesimo secolo solo due città, Porto e Lisbona,
superavano i centomila abitanti e d’altra parte, in Portogallo non ci furono molti scultori famosi prima di
quel periodo.
Anche gli storici dell’arte lo riconobbero. Comunque
ci furono scalpellini portoghesi molto bravi, specializzati nello scolpire simboli iconografici e tutti i tipi di
decorazioni nei monumenti. Se non abbiamo molti
pezzi di scultura notevoli, sicuramente abbiamo però
molti esempi efficaci di decorazioni in pietra.
Ritratti in rilievo, busti e anche alcune statue di defunti
erano diffusi nei più importanti cimiteri del Portogallo
del Nord e anche nei cimiteri di Lisbona. Queste opere
scultoree erano soprattutto in marmo portoghese conosciuto come “lioz”, che è un ottimo materiale per i monumenti funebri e, a Lisbona, è l’unico tipo di pietra calcarea usata nelle opere scultoree e decorative (oltre ad alcuni rilievi e a qualche scultura in marmo di Carrara).
Nei cimiteri del Portogallo del Nord ci sono anche alcune sculture di terracotta (parte di esse poco rappresentative), realizzate soprattutto dagli artisti della “Fabrica
de Ceramica das Devesas”. Queste statue hanno spesso
una buona qualità e possono essere collocate tra le più
interessanti di questo tipo in Europa.
Le sculture in bronzo venivano realizzate molto raramente per i cimiteri portoghesi durante il diciannovesimo secolo e quasi tutti gli esempi erano degli ultimi
anni di quel secolo e dei primi del seguente. L’uso del
bronzo fu anche il segno di un manufatto più ricco e
di un monumento più colto.
35
Lo splendore della forma
36
L’evoluzione estetica della scultura nei cimiteri portoghesi non è tuttavia facile da ripercorrere, poiché alcuni esempi hanno bisogno di un’analisi più profonda,
anche se le influenze classiche erano molto chiare fino
agli anni Settanta dell’Ottocento.
“L’età dell’oro” della scultura funeraria portoghese si
situa probabilmente negli anni Ottanta dell’Ottocento,
ma non possiamo escludere un ritardo di dieci o più
anni se confrontiamo quello che andava di moda nei
cimiteri di Lisbona e di Porto piuttosto che nei cimiteri
più piccoli. Questo può essere spiegato prendendo
come esempio il cimitero di Evora, dove possiamo trovare una gran quantità di sculture, ma quasi tutte le statue religiose appartengono ai primi tre decenni del
ventesimo secolo e hanno una qualità piuttosto bassa.
La diminuzione della qualità dal 1900 in poi può essere
evidenziata con la crescente standardizzazione dei monumenti e la reazione antiromantica degli intellettuali e
delle classi più agiate. Tuttavia, alcuni dei più noti e
famosi esempi di scultura nei cimiteri portoghesi (soprattutto dal 1890 al 1920) possono essere considerati elementi di transizione tra la tradizione romantica e il gusto
Art Noveau, con le sue ben note caratteristiche sensuali.
I seguenti esempi illustreranno alcune delle nostre
affermazioni.
Figura 1
Cimitero dos Prazeres (Lisbona), particolare del mausoleo
di Palmela – il più grande mai costruito nei cimiteri portoghesi (1847-1849). In cima alla piramide è collocata la statua della Fede, con le chiavi di San Pietro, patrono del
primo duca di Palmela, Pedro de Sousa Holstein. II
modello della statua è attribuito allo scultore Francisco de
Paula Araujo Cerqueira (1805-1855), professore di scultura all’Accademia di Belle Arti di Lisbona. È una statua
piuttosto inespressiva e il suo aspetto freddo assomiglia ad
alcune altre statue dello stesso periodo realizzate da scultori di secondo piano e anche da alcuni scalpellini esperti.
Figura 2
Cimitero di Prazeres (Lisbona), particolare del mausoleo dedicato al conte di Antas (Francisco Xavier da
La scultura nei cimiteri del Portogallo
1. Francisco de Paula
Araujo Cerqueira (attrib.),
La Fede, Mausoleo di Pedro
de Sousa Holstein, duca
di Palmela, particolare,
1847-1849, Lisbona,
Cimitero dos Prazeres
Silva Pereira, 1793-1852), un eroe militare. II mausoleo
venne costruito grazie a una sottoscrizione pubblica e
finito nel 1859.
Nel 1858, Vitor Bastos scolpì la statua del conte, alta tre
metri. Vitor Bastos era stato fino ad allora un giovane
pittore che si era recentemente dedicato alla scultura.
Egli riuscì a diventare famoso in Portogallo soprattutto
grazie a questa statua, un fatto che dimostra chiaramente quanto fosse importante il cimitero. Il piedistal-
37
2. Vitor Bastos scultore,
Giuseppe Cinatti architetto,
Augusto Alves Loureiro
ornatista,
Mausoleo di Francisco
Xavier da Silva Pereira,
conte di Antas,
1856-1859, Lisbona,
Cimitero di Prazeres
Lo splendore della forma
3. Jose Joaquim
Teixeira Lopes (attrib.),
La Benevolenza e
l’Amicizia. Cappella
funeraria di Antonio Ribeiro
Moreira e Manuel Pereira
Pena, 1863,
Porto, Cimitero di Lapa
lo con i trofei militari venne precedentemente ideato
dal disegnatore e architetto Giuseppe Cinatti e realizzato da Augusto Alves Loureiro nel 1856 che fu uno dei
migliori scalpellini del diciannovesimo secolo.
38
Figura 3
Cimitero di Lapa (Porto), particolare della cappella
funeraria dedicata dal commerciante Antonio Ribeiro
Moreira al suo amico e benefattore Manuel Pereira
Pena (morto nel 1861). II monumento venne concluso
nel 1863. Fu probabilmente la prima cappella del cimitero di Porto ad avere due figure allegoriche che fiancheggiavano la porta d’ingresso. Sulla destra possiamo
vedere la Benevolenza e sulla sinistra l’Amicizia.
Queste statue inusuali possono essere spiegate con il
fatto, anch’esso anomalo, che questa cappella venne
dedicata da un uomo a un altro uomo che fu generoso,
gentile e che si comportò sempre da amico. Entrambe
le sculture sono in granito e si basano probabilmente
sul modello di Jose Joaquim Teixeira Lopes il quale fu
il padre di Antonio Teixeira Lopes e collaborò per
molti anni con lo scalpellino Antonio Almeida da
Costa. Assieme avevano fondato la “Fabrica de Ceramica das Devesas” di cui parleremo più avanti.
Figura 4
Cimitero di Lapa (Porto), particolare della cappella
funeraria dedicata da Maria Miquelina Moreira Barbosa a suo marito, il negoziante Antonio de Sousa Barbo-
La scultura nei cimiteri del Portogallo
4. Emidio Carlos Amatucci
(attrib.), Cappella funeraria
di Maria Miquelina Moreira
Barbosa e del marito
Antonio de Sousa Barbosa,
particolare, 1865 o 1866,
Porto, Cimitero di Lapa
5. Emidio Carlos Amatucci,
“Saudade”, Mausoleo di
Luisa Carolina Neves Braga,
particolare, 1871,
Braga, Cimitero municipale
sa (morto nel 1864). La cappella venne costruita probabilmente nel 1865 o nel 1866 e accoglie nella facciata la famosa trilogia delle tre virtù: la Fede in alto e la
Speranza e la Carità ai lati della porta d’ingresso alla
cappella. Quella nella foto è la Carità. L’autore di questo modello è sconosciuto, ma siccome lo scultore e
disegnatore di ornamenti Emidio Carlos Amatucci è
colui che ha decorato tutta la cappella, è probabile che
sia anche l’autore delle statue. Amatucci fu il miglior
scalpellino di opere in marmo stabilitosi a Porto nel
diciannovesimo secolo. Era il figlio di uno scultore di
Napoli e fu maestro del sopra menzionato Antonio
Almeida da Costa.
Figura 5
Cimitero municipale di Braga (precedentemente chiamato cimitero del Monte de Arcos), particolare del
mausoleo costruito su richiesta della vedova Luisa Carolina Neves Braga nel 1871. La statua è la tipica “Saudade” portoghese, uno degli ultimi capolavori di Emidio
Carlos Amatucci (morto nel 1872). In questo cimitero
possiamo trovare molte altre statue di discreta qualità.
Figura 6
Cimitero di Conchada (Coimbra), particolare del mausoleo dedicato a Maria Santa de Matos (1788-1877).
Non è noto l’autore del ritratto in bronzo, uno dei
pochi e dei più antichi realizzati in questo materiale
esistenti nei cimiteri portoghesi.
39
Lo splendore della forma
La scultura nei cimiteri del Portogallo
6. Mausoleo di Maria
Santa de Matos, Coimbra,
Cimitero di Conchada,
particolare, m. 1877
40
Figura 7
Cimitero di Prado do Repouso (Porto), due mausolei
con due statue dei loro proprietari, faccia a faccia, in
una chiara scena di rivalità. Se si guarda dal retro si può
vedere la statua di Antonio Moreira Vinha (1820-1879),
sicuramente realizzata dopo il 1880 e sistemata sotto un
baldacchino in modo da replicare all’altra statua di
fronte, che venne realizzata nel 1879 e rappresenta il
commerciante Francisco Martins e Castro (1808-1878)
stabilitosi in Brasile. II suo baldacchino è opera di Jose
Carlos de Sousa Amatucci, figlio del sopra menzionato
Emidio Carlos Amatucci. È opinione comune in Portogallo che coloro che emigrano in Brasile e poi ritornano avendo fatto fortuna siano più propensi ad avere
tombe fastose (quindi con più statue). Tuttavia, una
ricerca recente evidenzia casistiche molto differenziate,
tanto da non poter assumere tale regola come assoluta.
Figura 8
Particolare della Confraternita do Carmo nel cimitero
di Agromonte (Porto), all’interno della cappella di
Alves Costa, conclusa nel 1912, con i busti dei proprietari, probabilmente marito e moglie. Il primo busto
che venne collocato fu quello della moglie. Questa
soluzione fu abbastanza comune fino alla fine del
diciannovesimo secolo e nel primo decennio di quello
seguente, ma quasi solo nei cimiteri di Porto e nei
grandi cimiteri del Portogallo del Nord.
7. Tomba di Antonio Moreira
Vinha (d.1880) e Tomba
di Francisco Martins e
Castro, Jose Carlos
de Sousa Amatucci, scult.,
1879, Porto, Cimitero
di Prado do Repouso
41
Figura 9
Cimitero Municipale di Moura, particolare del mausoleo dedicate a Antonio Fialho Coelho (morto nel
1864) e a sua moglie Bernarda Joaquina Marques Escoval (morta nel 1863). Esso consiste in un baldacchino.
Nella parte inferiore del piedistallo e collocato un cane
8. Fratellanza do Carmo,
Cappella di Alves Costa,
particolare, 1912, Porto,
Cimitero di Agramonte
9. Germano José de Sales,
Mausoleo di Antonio Fialho
Coelho e Bernarda Joaquina
Marques Escoval, m. 1864,
particolare, Moura,
Cimitero Municipale
Lo splendore della forma
10. Josè Joaquim Teixeira
Lopes, attrib., “Saudade”,
Cappella numero 7, partic.,
Porto, Cimitero di Agramonte,
Parte della Fratellanza
di S. Francisco
11. Tomas Augusto Soller,
archit., Laurentino José da
Silva, Antonio Soares dos
Reis, scult., “Saudade”,
Commercio e Industria,
Mausoleo di Francisco
Antunes de Brito Carneiro.
1880 c., particolare, Porto,
Cimitero di Agramonte,
Sezione Municipale
42
sdraiato (rappresenta la Fedeltà della coppia). Nella
parte superiore c’e l’Angelo della Redenzione (conosciuto
anche come angelo indicatore, visto che indica in direzione del cielo) circondato da angioletti. All’interno
del baldacchino si trova una scultura inusuale: una
piantagione di cereali e vari utensili agricoli indicano
che i defunti erano importanti coltivatori nella regione
di Alentejo. Tutti i lavori scultorei vennero realizzati
sotto la direzione di Germano José de Sales, uno dei
migliori scalpellini che si stabilirono a Lisbona.
La rappresentazione degli utensili dell’agricoltura può
essere vista in molte cappelle di importanti coltivatori
dell’Alentejo. Tuttavia, spesso questi esempi sono in
rilievo e situati nel frontespizio delle cappelle. Per
quanto riguarda l’iconografia collegata ai mestieri, i
cimiteri portoghesi possono essere molto interessanti e
sorprendenti.
Figura 10
Sezione della Confraternita di S. Francisco nel cimitero di Agramonte (Porto), particolare della cappella
numero 7 con una “Saudade” in terracotta. Questo
prodotto venne realizzato nella già menzionata “Fabrica de Ceramica das Devesas” a Vila Nova de Gaia (vicino a Porto). Questa fabbrica di ceramica artistica e
industriale apparteneva al sopra menzionato Josè Joaquim Teixeira Lopes e ad Antonio Almeida da Costa. II
modello di questa statua probabilmente è di Josè Joaquim Teixeira Lopes.
La scultura nei cimiteri del Portogallo
Figura 11
Sezione Municipale nel cimitero di Agramonte (Porto),
particolare del mausoleo di Francisco Antunes de Brito
Carneiro. Venne progettato nel 1880 dall’architetto
Tomas Augusto Soller e costruito da Laurentino José da
Silva. Anche le tre statue – “Saudade” (in alto), Commercio e Industria (si veda la foto) vennero realizzate da
Laurentino Josè da Silva sulla base di modelli precedentemente ideati su richiesta dal suo maestro, lo scultore
Antonio Soares dos Reis, probabilmente il miglior scultore portoghese del diciannovesimo secolo che realizzò
molti modelli di statue per cimiteri.
Figura 12
Cimitero dos Prazeres (Lisbona), particolare di una
delle statue del mausoleo dedicato ad Antonio Augusto
de Aguiar (1838-1887), promotore della Associação
Industrial Portuguesa (Associazione Industriale Portoghese). Essa venne realizzata grazie a una sottoscrizione pubblica nel 1889. Tutte le statue vennero realizzate
da J.P. Lima Santos. È già chiara l’influenza dell’emergente gusto Art Nouveau, anche se la posa plastica e il
leitmotiv erano ancora sostanzialmente romantici.
43
Figura 13
Cimitero Municipale di Guarda, mausoleo dedicato al
popolare dottore Francisco da Cruz Sobral (morto nel
1888). La sua costruzione cominciò sicuramente dopo
il 1889, grazie a una sottoscrizione pubblica. Il cimite12. J.P. Lima Santos,
Mausoleo di Antonio Augusto
de Aguiar, 1889,
particolare, Lisbona,
Cimitero dos Prazeres
13. Josè Moreira Rato
Junior, scult.,
e Artur Sacadura,
La Fama e la Gloria,
Mausoleo di Francisco
da Cruz Sobral, m. 1889,
Guarda, Cimitero Municipale
Lo splendore della forma
14. Antonio Teixeira Lopes
e Jose Teixeira Lopes,
archit., Tomba di Emilia
Eduarda, m. 1908, Porto,
Cimitero di Agramonte,
Sezione Municipale
15. Joaquim Maria da Silva,
Saudade, particolare,
Porto,
Cimitero di Agramonte,
Sezione Municipale numero 1
44
ro venne ampliato in base alla richiesta di dare massima visibilità e magnificenza a questa piramide di dodici metri di altezza. La piramide è in granito, con
un’iscrizione su ardesia di Valongo, ma le due statue
sono in “lioz”, la ben conosciuta pietra marmorea
calcarea proveniente dalla regione di Lisbona. Le
statue rappresentano la Fama e la Gloria ed entrambe
tengono tra le mani un medaglione in marmo con il
ritratto del dottor Sobral.
Questo monumento venne disegnato dallo scultore
Josè Moreira Rato Junior, figlio di uno dei più importanti scalpellini di Lisbona, mentre Artur Sacadura si
occupò della realizzazione della piramide. Le sculture erano sensuali, ma alquanto rigide e convenzionali
nella loro posa plastica. Anche se le statue sono
molto diffuse verso la fine del Romanticismo, questo
tipo di opere ci rimanda ancora alle soluzioni delle
tombe di Canova.
Figura 14
Sezione Municipale del cimitero di Agramonte
(Porto): due neonati in bronzo giacciono nella tomba
dell’attrice e scrittrice Emilia Eduarda, morta nel 1908.
I neonati non rappresentano i suoi figli, ma semplici
bambini abbandonati, che Emilia Eduarda aiutò nel
corso della sua vita. I due neonati furono realizzati da
Antonio Teixeira Lopes, il miglior scultore portoghese
dell’inizio del ventesimo secolo. Nella realizzazione di
tutti i suoi monumenti ci fu la collaborazione del fratello, l’architetto Jose Teixeira Lopes. Entrambi studiaro-
La scultura nei cimiteri del Portogallo
no arte a Parigi ed erano figli del sopra menzionato
Josè Joaquim Teixeira Lopes.
Figura 15
Sezione Municipale numero 1 del cimitero di Agramonte (Porto), particolare di una “Saudade” realizzata
nei primi anni del ventesimo secolo. L’autore del
modello è sconosciuto, tuttavia, fu lo scalpellino Joaquim Maria da Silva colui che costruì il mausoleo.
Questa “Saudade” è molto simile a quella del mausoleo
Resende (Cimitero Prado do Repouso, Porto) che
venne realizzato intorno al 1896 e divenne il mausoleo
più fotografato in quel cimitero. Entrambe le statue
sono rappresentative del periodo Art Nouveau e, anche
se rappresentano una allegoria romantica, accenni di
Modernismo emergono chiari dal piedistallo.
Conclusioni
Tutti gli esempi illustrati sopra sono rappresentativi dei
cimiteri portoghesi, ma mentre alcuni possono essere
rinvenuti in diverse versioni, altri sono unici. Bisogna
fare attenzione nel pronunciare queste affermazioni,
poiché molte ricerche devono ancora essere concluse.
Due cose sono certe: in primo luogo non è possibile
capire veramente la scultura portoghese del periodo
Romantico senza uno studio approfondito dei cimiteri;
in secondo luogo, pur considerando le ridotte dimensioni del Portogallo e il suo limitato sviluppo urbano
nel diciannovesimo secolo, sicuramente i cimiteri ci
offrono interessanti esempi di opere d’arte.
45
Più vivo che morto. La morte come realtà nella
scultura funeraria spagnola (1870–1940)
di Carlos Reyero
46
Sebbene la Spagna abbondi di rappresentazioni trascendenti della morte, alcuni dei migliori esempi scultorei del periodo qui trattato si ispirano alla percezione
della morte come un fatto reale. Data l’abituale preferenza a considerare gli aspetti allegorici e spirituali, il
Realismo si rivela come un punto di vista di grande
interesse proprio perché tratta la morte da qui, dall'ambito della vita.
Dal corpo presente
La statua giacente di un defunto riporta in principio a
un modello storico, però gli elementi realisti si ritrovano abbastanza presto. A volte si è detto che le figure
giacenti sembrano immerse nel sonno con il fine di
insinuare 1’apparenza del corpo vivo, generalmente
con l’intenzione di esaltare l’abilità dell’artista nel
dotare di vita e sentimento animato la materia, come
se rappresentare l’inquietante presenza della morte
sia meno difficile.
In ogni caso nessuno dorme con tanta serenità, vestito
con un abito da gala e con tutte le decorazioni: per
Più vivo che morto
quanto riguarda la verosimiglianza rappresentativa,
questa tipologia si deve intendere piuttosto come un
lenzuolo mortuario. Inoltre, come accadeva anche nel
Medioevo, 1’abito penitenziario nella scultura funeraria era simbolo del “morire bene”, della preparazione
per 1’aldilà. 1 Il mantenimento dell’abbigliamento
usato nella vita terrena è da intendersi come un riconoscimento del ruolo rappresentato in questa vita,
lontano dalla trascendenza ultraterrena. Di conseguenza non c’è dubbio che davanti a un giacente del
XIX secolo, ci incontriamo con qualcuno che sta per
morire, con un cadavere.
È nei mausolei di personaggi illustri della politica
nazionale dove incontriamo per la prima volta rappresentazioni giacenti del defunto.
In questa sottolineata verosimiglianza rappresentativa,
verso cui si indirizza l’arte del XIX secolo, queste effigi
vanno interpretate come un modo di presentare il
corpo del defunto con l’intenzione che sia permanentemente omaggiato.
I mausolei dei politici e generali isabellini, quello di
Leopoldo O’Donnell (1868-70, Madrid, Salesas),2 di J.
Suñol,3 di Ramon Maria Narvaéz (1875-79, Loja) di A.
Moltó4 e quello di Prim (1875, Reus) di P. Zuloaga 5
(fig. 1) vanno considerati in questo senso.
47
1. Placido Zuloaga,
Tomba Prim, 1875 c.,
Reus, Cimitero Generale
Nel Pantheon degli Uomini Illustri di Madrid,6 si trovano alcuni dei migliori esempi della scultura funeraria
spagnola. Tre di questi rappresentano figure giacenti:
quello di Cánovas del Castillo (1890-1906) di A. Querol, i due di M. Benlliure,7 Sagasta (1904-1905) che si
Lo splendore della forma
presenta con una fisionomia decrepita (fig. 2) e l’Eduardo Dato (1922-1928) avvolto in un lenzuolo funebre, circostanza che torna a utilizzare nel sarcofago di
Blasco Ibáñez (1935, Valencia, Museo) (fig. 3).
2. Mariano Benlliure,
Tomba Sagasta, 1904-1905,
Madrid, Pantheon
degli uomini illustri
3. Mariano Benlliure,
Sarcofago di Blasco Ibáñez,
1935, Valencia, Museo
Nei cimiteri le rappresentazioni dei defunti si trovano
generalmente impregnate di un certo clima spiritualista o almeno di una malinconia intimista. Tra gli esempi più antichi troviamo la tomba della Famiglia Nadal
(1868, Barcellona, Poblenou)8 che colpisce comunque
per il suo realismo. Il fatto che siano rappresentate
delle donne introduce nel cimitero la poetica romantica della bellezza e della morte. In alcuni esempi questo
pensiero risulta evidente, come nella tomba Mirasol
(Granada); o nella tomba di Rosa Meana Medina (1895,
Santander) che è espressamente collegata al tema di
Ofelia.9 È significativo che molte di queste donne siano
nude, anche se parzialmente o totalmente coperte da
un lenzuolo o da un velo mortuario, che indubbiamente le allontana da una situazione reale. I defunti
Più vivo che morto
maschi, al contrario, appaiono comunemente vestiti, il
che li riconduce alla tipologia degli “uomini illustri”,
come se fossero l’ultima rappresentazione pubblica dei
loro resti prima di essere sepolti per sempre.
Un’altra variante di figura defunta che si presta anch’essa alla poetica dell’aldilà, sebbene alla fine risponda a
una realtà oggettiva, è l’esposizione del cadavere infantile. Un esempio celebre è il ritratto della bambina Maria
Cristina di Borbone (1854) di J. Piquer. Nei cimiteri ci
sono immagini popolari come quella di Priego (Cordoba) nella quale il neonato sembra vivo; altre più sofisticate, come il bambino morto portato dagli angeli nella
Cappella della Famiglia Bosch (Arenys del Mar).
Il rituale di sepoltura: dal funerale alla fossa
Un’opera del francese Alfred Boucher intitolata À la
terre, premiata nel 1891 e fusa da Barbedienne,10 è stata
considerata il modello al quale si ispirò lo scultore catalano E. Clarasò per il suo Memento Homo, premiato con una
medaglia d’oro nel 1900 a Parigi e utilizzato poi in
monumenti funebri di Barcellona (fig. 4)11 e Saragozza.12
49
4. Enric Clarasó,
Memento Homo,
Barcelona, Montjuïc
Lo splendore della forma
50
L’opera rappresenta un uomo dal fisico atletico nell’atto di scavare una tomba a terra. Si tratta dunque di un
becchino e a esso è attribuita una forte carica allegorica. Il tipo umano non coincide con l’immagine sordida e funesta che, in seguito, topicamente, si associa al
becchino come è decritto, per esempio, in un racconto
coevo di Julio de Lemus.13 Ad ogni modo la posa è perfettamente comparabile con l’epica del lavoro che
caratterizza le sculture di un artista come Meunier.
Non sono questi in ogni caso gli unici “seppellitori” che
appaiono nei cimiteri spagnoli. Ce n’è uno nella Cappella della Famiglia Riba (1934, Barcellona, Sant’Andreu) e
un altro in quello della Famiglia Camps (1925, Sabadell).
Curiosamente questi due sono più vicini al modello di
Boucher che a quello di Clarasó, perché spostano la
terra invece di scavarla e ciò risulta meno epico.
In questo processo che tende a rendere popolari i
gesti relativi ai compiti prosaici di preparazione del
cimitero per i morti, è utile fare riferimento a un’altra
opera di una certa singolarità iconografica, la tomba di
Manuel Mendez Lopez (1936 Espinardo, Murcia), nella
quale si legge “maestro di opere” (fig. 5). Naturalmente la presenza degli strumenti da muratore fanno riferimento alla professione del defunto ma allo stesso
5. Tomba
Manuel Méndez López,
1936 c., Murcia,
Espinardo
Più vivo che morto
6. J. Bueno,
Monumento alla Fossa
comune, 1917-1919,
Zaragoza,
Cementerio de Torrero
tempo a quella di qualche capomastro nel cimitero.
Nella scultura funeraria di carattere rappresentativo, il
rituale funebre del seppellimento è rappresentato da
vari esempi memorabili come il Mausoleo di Canalejas
(1912-1915, Madrid) di Benlliure, dove l’iconografia
della sepoltura di Cristo assume “una dimensione quodidiana e secolare”;14 quello realizzato da J. Bueno per
il Monumento alla fossa comune (1917-1919; Saragozza)
(fig. 6) conosciuto con i nomi di Umanità o Infortunio,
che interpreta precisamente il carattere realista, sebbene i corpi si rifacciano alla tradizione classica. Il più
51
7. Mariano Benlliure,
Tomba di Joselito
detto “El Gallo”,
1921-1926, Siviglia,
Cimitero di San Fernando
Lo splendore della forma
8. Tomba di Ángel Carratalá,
Alicante,
Cimitero Municipale
famoso tra tutti questi è La tomba di Joselito detto “El
Gallo” (1921-1926, Siviglia) (fig. 7), dove Benlliure
evoca il rituale impiegato per la sepoltura del torero.15
Poeti hanno trasformato l’elegiaco cantico alla morte
di un torero in un climax drammatico che si presta
bene alla manifestazione del dolore, contaminato da
una sensibilità quasi religiosa. Su questa linea si inseriscono opere come la tomba del torero Jaime Ballesteros
“Herrem” (1915, Saragozza) opera di D. Ainaga, o la
tomba di Ángel Carratalá (Alicante)16 che ricorda una
Pietà con Cristo morto (fig. 8).
Vivi tra i morti
Allusioni alla vita quotidiana come una forma di resistenza alla scomparsa si incontrano con una certa frequenza nei cimiteri come la locomotiva che decora la
tomba di Onofre Viada i Balansó o le barche della Cappella della famiglia Patxot a Barcellona.17 È evidente che
tutti questi aspetti rispondono a un proposito creativo
eminentemente realista sebbene non stabilisca un dialogo con il fenomeno della morte: piuttosto sembrano
allontanarsi da essa come se non esistesse.
Più vivo che morto
9. Marcial Aguirre,
Tomba di Juan Luis
Goicoechea Lecea,
San Sebastián
Invece il dolore tende a rappresentare un elemento di
continuità tra il mondo dei vivi e quello dei morti
anche se, paradossalmente, per la sua attitudine e per
la sua spiritualità, poiché accarezza la morte con le dita
o con il cuore, tende a essere percepito più vicino da
quelli piuttosto che da noi, come nella Cappella della
Famiglia Marti (1902, Barcellona, Sant’Andreu).18
D’altra parte la donna pietosa che medita nel cimitero
davanti alla tomba del defunto può essere meglio colta
in termini realistici, potendo lei essere intesa come
madre, figlia o vedova del deceduto. In ogni caso incarna una risposta della vita davanti alla morte, come se il
ricordo o la compagnia dei morti volessero perpetuarsi
per sempre. Questo atteggiamento è evidente in una
scultura anonima del cimitero di Vegueta a Las Palmas
o nella tomba di Isabel Bardisa Fontanet ad Alicante. In
alcune di queste opere ci sono anche elementi reali che
rimandano inequivocabilmente a questo aspetto, come
nella tomba di Juan Luis Goicoechea Lecea (San Sebastiàn), che fa parte della tomba della Famiglia Aguirre
(fig. 9):19 la figura allegorica porta delle scarpe, segno
di indubbia appartenenza a questo mondo.
Figure sofferenti molto vincolate al realismo sono, per
esempio, i bambini della tomba della Famiglia di Emilio
Basagoiti (Guecho, Vizcaya) (fig. 10) opera di M. Garcia Salazar ispirata al Mausoleo di Gayarre di Benlliure.
53
Lo splendore della forma
10. M. García Salazar,
Tomba della famiglia Emilio
Basagoiti,
Guecho, Vizcaya
54
Molto più stereotipati, sebbene non meno interessanti,
sono i bambini della tomba della Famiglia Monte Escobar
(1928, Granada) di Navas Parejo o quelli della tomba
Maucci-Battistini (1937 Barcellona Montujic).20
Una curiosa figura sofferente molto differente dai
modelli abituali, anche se la si può interpretare come
una naturalizzazione di un modello canoviano, è la
figura del paralitico che sembra onorare la memoria di
Luisa Sancho Mata nella famosa Cappella Guirao (1908,
Madrid, San Isidro) di A. Querol (fig. 11).21
Morti tra i vivi
La personificazione più cruda della morte, come putrefazione del corpo o come allegoria che conduce al
sepolcro, doveva sembrare un argomento poco speranzoso per venir trattato con frequenza. I vivi solitamente
non hanno desiderio di incontrarsi faccia a faccia con la
morte. Forse l’opera più impressionante è lo scheletro
a grandezza naturale, coperto in parte da un sudario,
collocato sopra la tomba del dottore Farreras Framis (1888,
Più vivo che morto
11. Augustin Querol,
Tomba di Luisa Sancho
Mata o Panteón Guirao,
1908, Madrid, San Isidro
Barcellona, Montjuïc) opera di R. Nobar (fig. 12).
La maggior parte delle rappresentazioni della morte
sono allegoriche e non realiste anche se non si può
dire che manchino di queste ultime componenti, in
quanto irrompono senza alcuna trascendenza spirituale. È il caso per esempio della tomba della Famiglia Nicolau Juncosa (Barcellona, Montjuïc) (fig. 13). Risulta
imponente anche il gruppo intitolato La morte che bacia
l’agonizzante di J. Barba nella tomba di Llaudes Soler
(1930, Barcellona, Poblenou).
Come in altri cimiteri d’Europa, incontriamo anche
1’incarnazione della morte in una bella donna che
conduce i morti al sepolcro, come accade per esempio
nel Sepolcro della Famiglia Maestre (1928, Derio, Vizcaya).
55
12. Rossend Nobas i Ballbè,
Tomba del Dottor Farreras
Framis, 1888,
Barcellona, Montjuïc
Più vivo che morto
Lo splendore della forma
1
2
3
4
13. Tomba della Famiglia
Nicolau Juncosa,
Barcellona, Montjuïc
5
6
7
8
56
Una poetica simile è presente in un altro lavoro molto
meno conosciuto, ma comunque spettacolare per la
sua crudezza, la Cappella della Famiglia Cuesta Sanz
(Guadalajara) (fig. 14), dove uno scheletro che impersonifica la morte, avvolto in un lenzuolo dietro il quale
si vedono le protuberanze delle ossa, ordina ai vivi il
cammino verso le fosse.
Il suo inesorabile comando giunge a tutti.
9
10
11
12
14. Cappella della
Famiglia Cuesta Sanz,
Guadalajara
Múñez, M., La indumentaria como símbolo en la iconografía funeraria, in
“Fragmentos”, n. 10, 1987, pp. 73-84.
Pardo Canalis, E., El monumento sepulcral a O’Donnell, Goya, 1970, n. 95, p.
284.
Reyero, C., La escultura del eclecticismo en España. Cosmopolitas entre
Roma y París, 1850-1900, UAM, Madrid
2004, p. 534.
Llorens Barber, R., Vida y obra de un
escultor alteano. Antonio Moltó y Such
(Altea, 1841-Granada, 1901), Alicante,
Diccionario de Altea y sus cosas, 1992,
pp. 244-253.
Lafuente Ferrari, E., La vida y el arte de
Ignacio Zuloaga, Planeta, Barcelona,
1990, pp. 29-35.
Boyd, C.P., Un lugar de memoria olvidado: el Panteón de Hombres Ilustres de
Madrid, in “Historia y Política”, n. 11,
2004, pp. 15-40.
Montoliu, V., Mariano Benlliure, 18621947, Generalitat Valenciana, Valencia,
1996, p. 115.
Marti y Lopez, E., Un paseo por el
cementerio de Poblenou, Barcelona,
Ayuntamiento, 2004, p. 44, 107.
Bermejo Lorenzo, C., Arte y arquitectura funeraria. Los cementerios de Asturias, Cantabria y Vizcaya (1787-1936),
Universidad, Oviedo, 1998, p. 263.
Alcolea i Gil, S. (comisario), Escultura
catalana del Segle XI. Del Neoclassicisme al Realisme, Barcelona, Caixa de
Catalunya, 1989, p. 20.
Riera, C., Els cementiris de Barcelona
(Una aproximació), Barcelona, Edhasa,
1891, p. 196.
Rincón, W., Un siglo de escultura en
13
14
15
16
17
18
19
20
21
Zaragoza (1808-1908), Zaragoza, Caja
de Ahorros de la Inmaculada, 1984, p.
188; Hernández Latas, J.A., Lágrimas
de piedra: la escultura en los cementerios público, en Lacarra Ducay, M.C y
Giménez, C. (coords.), Historia y política a través de la escultura pública,
1820-1920, Zaragoza, Institución Fernando el Católico, 2003, pp. 129-120.
Lemus J., “El enterrador”, La Alhambra,
1905, tomo VIII, p. 353.
Pastor Mateos, E., El Panteón de Hombres Ilustres, Madrid, Ayuntamiento,
1970, pp. 12-13.
Rodriguez Barberan, F.J., Los cementerios en la Sevilla contemporánea. Análisis histórico y artístico (1800-1950),
Sevilla, Diputación, 1996, pp. 138-139.
Lopez Gallano, A., Monografías Alicantinas, 7: Cementerios, Alicante, Ayuntamiento-Caja de Ahorros Provincial,
1991, p. 167.
Freixa, M., La escultura funeraria en el
modernismo catalán, in “Fragmentos”,
1985, n. 6, pp. 40-54.
Arte funerario, “La Ilustración Artística”, n. 1140, 2 de noviembre de 1903,
pp. 716-717; Riera (1981), p. 133.
Ordonea Vicente, M., El romanticismo
funerario en Polloe (San Sebastián), in
“Ondare”, n. 21, 2002, p. 407.
Riera (1981), p. 220.
Saguar Quer, C., El Panteón Guirao de
Agustín Querol, en la Sacramental de
San Isidro, in “Anales del Instituto de
Estudios Madrileños”, 1986, vol. XXIII,
pp. 79-86: Diéguez Patao, S. y Giménez, C., Arte y arquitectura funeraria
(XIX-XX). Dublín, Génova, Madrid, Torino, Madrid, Electa España, 2000, p. 57.
57
La scultura funeraria nel Regno Unito dall’età
vittoriana alla “New Sculpture” e al Modernismo
di Roger Bowdler
La scultura funeraria nel Regno Unito
Nel diciassettesimo secolo, a poco a poco si cominciò
ad abbellire i monumenti funebri con elementi scultorei. Il sarcofago di Wateringbur y, nel Kent, tomba di
Henry Wood (m. 1635), ne è uno dei primi esempi,
con numerosi emblemi di morte, mentre il caso più
interessante è la tomba di John Tradescant il giovane
(m. 1672), botanico e collezionista, nel camposanto
della chiesa di Saint Mary a Lambeth, distretto londinese, con straordinari bassorilievi di paesaggi diroccati
e strane creature (fig. 1).
1. Tomba di
John Tradescant (m. 1672),
Londra, St Mary’s Church,
Lambeth
58
L’Inghilterra non nutre una particolare predilezione
nei confronti delle sculture all’aperto. In passato le
opere di scultura riguardavano solo gli interni e infatti
quella funeraria si poneva dentro le chiese e anche
quella privata veniva in linea di massima tenuta fra le
quattro mura. L’ineguagliata sontuosità dei monumenti delle chiese inglesi indica che si spendevano notevoli
energie nel commissionare monumenti funerari, mentre solo in secoli più recenti si ritrovano sculture degne
di nota in ambiente esterno. Il presente saggio intende
passare brevemente in rassegna i momenti più salienti
di questa storia.1 Pochissimi monumenti medievali,
quale che fosse il ceto del defunto, furono posizionati
all’aperto; la tomba a baldacchino tardo-trecentesca
con effigie interna che si trova ad Astbury, nel Cheshire, nota col nome di Ralph Brereton2 è un’importante
eccezione giunta fino a noi. È possibile, ma improbabile, che un tempo esistessero altri monumenti di questo
tipo. La stragrande maggioranza di chi apparteneva ai
ceti superiori preferiva essere sepolta all’interno delle
chiese e lì faceva erigere i propri monumenti funebri.
59
I camposanti georgiani sono ancora elementi di cui
l’Inghilterra può andare orgogliosa. In confronto con
molti altri paesi, non hanno subito grandi modifiche e
vantano tuttora un gran numero di monumenti funebri
della prima epoca moderna. La scultura riguardava in
massima parte le lapidi, sottili blocchi di pietra che contrassegnavano le tombe e che spesso mostravano ornamenti allegorici sotto forma di bassorilievi. Un esempio
su molte migliaia basterà: la Tomba di Samuel Cook (m.
1723) a Little Stanmore, nella zona nord-occidentale di
Londra (fig. 2). Le sculture tridimensionali sono rarissime e una eccezione poco nota è costituita dall’effigie
stile Agrippina della Signora Norris (morta nel 1779)
nel camposanto della chiesa di Finchley, nella zona
nord di Londra (fig. 3). Anzi, si potrebbe dire che è
l’eccezione che conferma la regola: come detto, le scul-
Lo splendore della forma
2. Tomba di
Edward Cook (m. 1723),
Londra,
St Lawrence’s Church,
Little Stanmore
3. Finchley,
Tomba di Mrs Norris
(m. 1779), Londra,
St Mary’s Church,
Finchley
ture sepolcrali stavano all’interno, non nel cimitero.
Fu solo con l’avvento dei cimitero-giardino ottocentesco
che la scultura cominciò ad apparire in misura apprezzabile nei luoghi di sepoltura. I camposanti tardo-georgiani
adiacenti alle chiese si riempivano sempre più di monumenti di grandi dimensioni di natura pressoché architettonica ma la scultura in quanto tale era ancora rara.
I cimiteri nacquero per diverse motivazioni storico- culturali e li si può vedere come espressione tardo-Romantica dell’illuminismo. Prima di tutto, all’inizio del
diciannovesimo secolo l’Inghilterra assiste a una crescita enorme delle proprie zone urbane, con relativo
aumento del tasso di mortalità, e le aree di sepoltura
esistenti non erano più in grado di sopperire alle necessità, in quanto venivano usate già da secoli. I pericoli
La scultura funeraria nel Regno Unito
sanitari legati alla decomposizione rendevano ancora
meno adatti tali sovraffollati camposanti e attorno al
1830 fu messa in cantiere un’apposita legislazione. In
secondo luogo, ebbero inizio una serie di attacchi contro il monopolio della Chiesa d’Inghilterra sul settore
delle sepolture: la Catholic Emancipation Act (legge
con cui veniva concessa piena libertà civile e politica ai
cattolici di Gran Bretagna e Irlanda) del 1829 riconosceva i diritti dei cattolici per la prima volta dopo la
Riforma del sedicesimo secolo. Seguirono altre importanti concessioni: per esempio, si pose fine a particolari
tasse ecclesiastiche. Le abitudini andavano rapidamente mutando. In terzo luogo, i ceti medi erano sempre
più disposti a pagare per il lusso e il comfort di un tranquillo luogo di riposo per i propri morti. Via via che i
cimiteri si sviluppavano, ci si ispirava con crescente
interesse al modello francese. Il cimitero ideale univa
in sé un paesaggio di tipo creativo, utilizzando al
meglio la topografia preesistente, una vegetazione
accuratamente disposta e la pianificazione di vialetti e
sentieri, mentre l’architettura forniva gli edifici principali – in questo nuovo spazio arcadico si inserì l’ingrediente funebre fondamentale, cioè i monumenti. Il
risultato fu un giardino dedicato alla morte. Dopo il
1820 nacquero alcuni cimiteri aconfessionali privati; in
genere si ritiene che il movimento abbia avuto inizio
con il Rosary Cemetery di Norwich ma fu solo nel terzo
decennio dell’Ottocento che vennero aperti un certo
numero di cimiteri privati.3
I monumenti uniscono alla mesta funzione di contrassegnare il luogo ove riposano i resti mortali dei defunti
l’obiettivo più sublime di ricordare ai vivi un’esistenza
ormai conclusa. Essi uniscono testi – attraverso gli epitaffi –, e forma e talvolta si trova anche l’immagine,
attraverso una iconografia e una decorazione scolpita.
È necessario sottolineare fin dall’inizio che i monumenti arricchiti da immagini erano decisamente una
minoranza, poiché per la maggior parte si trattava solo
di elementi in pietra con semplici iscrizioni con nome
e date. In area britannica, esibizioni elaborate dell’arte
di uno scultore avrebbero decisamente rappresentato
un’eccezione.
61
Lo splendore della forma
62
II più grandioso di tutti i cimiteri inglesi era, ed è tuttora, il cimitero di Kensal Green, inaugurato nel 1833.4 Vicinissimo al quartiere londinese di Notting Hill, nella
zona nord-occidentale della città, copriva circa 22 ettari
di terreno precedentemente adibito a pascolo. Vanta il
più bell’insieme di tombe all’aperto di tutto il paese e di
conseguenza è il primo sulla lista dei cimiteri inglesi
tutelato per legge.5 A dimostrare quanto fosse rinomato
nell’Inghilterra dei primi anni dell’epoca vittoriana non
è solo il fatto che gli aristocratici sceglievano di venire
sepolti in questo cimitero ma che anche due dei figli di
Giorgio III, Sua Altezza Reale Augustus, Duca di Sussex
(morto nel 1843) e Sua Altezza Reale la principessa
Sophia (morta nel 1848), rispettivamente zio e zia della
Regina Vittoria, chiesero di riposare in questo cimitero
borghese sorto da poco piuttosto che nella cripta della
Cappella di San Giorgio al Castello di Windsor. Un’occhiata approfondita alle tombe di Kensal Green è uno dei
modi migliori di passare in rassegna tutta la gamma di
stili della scultura funeraria inglese di metà Ottocento.
I busti erano una forma piuttosto comune di monumento neoclassico. II monumento al pittore Robert Smirke
(morto nel 1845), padre dei famosi architetti Sir
La scultura funeraria nel Regno Unito
Robert e Sydney Smirke, entrambi autori di alcuni edifici del British Museum, include un busto in marmo
molto rovinato dagli agenti atmosferici, che dimostra
come tale materiale sia inadatto all’aria aperta. Il bel
monumento al Generate Sir William Casement (morto nel
1844) consiste in un baldacchino poggiato sulle spalle
di quattro Atlanti indiani, dato che Casement aveva servito nell’esercito in India, dove era deceduto (fig. 4). II
monumento fu eseguito in pietra artificiale dallo scalpellino F.M. Lander e ha resistito molto meglio. A un
famigerato medico-guaritore, John St John Long
(morto nel 1834), è dedicato uno dei monumenti
funebri più famosi, composto da un tholos neoclassico
in cui è posizionata una statua di Igea, non particolarmente intaccata dal trascorrere del tempo (fig. 5).
I baldacchini sono quindi fondamentali perché le sta-
63
5. R.W. Sievier,
Tomba di John St John Long
(m. 1834), Londra,
Kensal Green Cemetery
4. F.M. Lander,
Tomba del Generale
Sir William Casement
(m. 1844), Londra,
Kensal Green Cemetery
Lo splendore della forma
6. Godfrey Sykes,
Tomba di William Mulready
(m. 1863), Londra,
Kensal Green Cemetery
64
tue possano sopravvivere. Forse il più bello tra tutti i
monumenti scolpiti dell’intero Ottocento è quello
neo-rinascimentale che si trova a Kensal Green, dedicato al pittore di genere William Mulready (morto nel
1863), progettato da Godfrey Sykes e realizzato in pietra artificiale (fig. 6). Design funzionale, saggia scelta
dei materiali, buona costruzione e decorazione creativa danno vita a un monumento di grande potenza.
Tuttavia, tali monumenti scolpiti erano solo eccezioni,
mentre molto più comuni erano i monumenti cimiteriali di natura architettonica e gli scalpellini creavano
tombe che riprendevano precedenti motivi classici,
come pilastri, obelischi, piedistalli e sarcofagi. L’elemento più diffuso in assoluto restava la lapide tradizionale. I bassorilievi continuarono a essere sempre meno
frequenti, con poche eccezioni. La maggior parte dei
cimiteri inglesi deve affrontare particolari difficoltà in
termini di degrado naturale e di inquinamento. Il
clima umido è molto dannoso e le sporadiche gelate
invernali a volte accelerano il processo di deterioramento della pietra resa umida.
Spesso i cimiteri venivano posizionati su pendii o sulla
cima delle colline per offrire una bella visuale, peraltro accrescendo l’esposizione delle tombe al vento e
alla pioggia battente, cui si aggiunge il fattore smog, e
le piogge acide non sono un fenomeno recente.
Tale era però il fascino del marmo italiano (sinonimo
di marmo di Carrara per quasi tutto il periodo in que-
La scultura funeraria nel Regno Unito
stione) che i clienti continuavano a richiederlo. Gran
parte della più bella statuaria funebre italiana rimane
riparata all'interno di chiostri, spazi semiaperti, coperti, che costituiscono gallerie protette sotto le quali si
potevano impiantare delicati elementi marmorei con
relativa tranquillità. Zone esposte di questo tipo sono
pressoché sconosciute in Inghilterra. A Kensal Green,
uno dei primi edifici progettati da John Griffiths fu un
colonnato posizionato lungo la parete confinaria settentrionale. I muri, oggi gravemente danneggiati da
vandali, erano rivestiti di targhe marmoree simili a
quelle che di solito si trovano all’interno delle chiese.
Nei chiostri annessi all’imponente Cappella Anglicana
in stile Schinkel si trovano due camere, ora senza tetto
a causa dei bombardamenti durante la seconda guerra
mondiale, all’interno delle quali si possono ammirare
due elementi monumentali di maggiori dimensioni.
Uno di essi è un bel gruppo scultoreo di Robert Sievier
per i suoi genitori, posizionato nei 1840 circa, che non
sfigurerebbe in un cimitero italiano. Questi gruppi
marmorei erano da interni ma nei cimiteri inglesi un
ambiente interno era difficilmente disponibile. E i
cimiteri inglesi sono, per questo, più spogli.
La scultura funeraria fu fortemente influenzata dal
neogotico. A partire dal quarto decennio dell’Ottocento, il rinnovato interesse nei confronti dei modelli
medievali di fede influì sulla conformazione di tutta
l’arte sacra, che comprendeva anche i monumenti
funebri. Tombe di diverse forme, come per esempio
le pietre tombali orizzontali sormontate da una cappa
(monumento basso, sollevato lungo il colmo centrale), la croce decorata e la tomba a baldacchino o a
tempietto tornarono in auge nell’ambito di una ricerca di ispirazione specificamente cristiana. La scultura
assunse un ruolo di secondo piano consistente in
figure allegoriche o particolari decorativi. I migliori
architetti dell’epoca produssero i relativi progetti. A
Kensal Green, la Tomba del capitano Ricketts (morto nel
1867), opera di William Burges, è gravemente danneggiata, ma gli elementi ornamentali scultorei contribuiscono in maniera fondamentale alla sontuosità
dell’effetto d’insieme.
65
Lo splendore della forma
7. E.M. Barry,
Tomba di Alexander Berens
(m. 1858), Londra,
West Norwood Cemetery
66
Il capolavoro funerario di Edward M. Barry fu la grandiosa Tomba di Alexander Berens (morto nel 1858), eretta
nel cimitero londinese di West Norwood (fig. 7), con
forti reminiscenze di stile veneziano, a dimostrazione
dell’interesse che Ruskin e altri provavano nei confronti del design in voga nell’Italia del nord. Com’era prevedibile, la figura drappeggiata di ispirazione classica
ebbe un calo di popolarità ma non scomparve mai del
tutto. La caratteristica più rilevante del cimitero vittoriano è il suo eclettismo.
Il neogotico influì sulla scultura cimiteriale anche promuovendo l’uso degli angeli. Il primo monumento
funebre in cui si ritrovano fu l’imponente sepolcro di
Lord Melbourne nella Cattedrale di Saint Paul che lo scultore Carlo Marocchetti eseguì attorno al 1853. A partire
dal 1880 circa, in numero sempre maggiore comparvero in zone all’aperto angeli ad ali spiegate che rimasero
in voga fino agli anni Venti. La versione inglese del
famoso angelo di Monteverde (o angelo della Resurrezione), nel cimitero di West Norwood, fu installato solo
nei 1923.6 Spessissimo questi angeli erano importati dall’Italia, dove il livello qualitativo della scultura figurativa
era di gran lunga più elevato di quello della maggior
parte dei cantieri degli scalpellini monumentali. Particolarmente diffusa era la versione dell’angelo inginocchiato. Un altro elemento statuario piuttosto comune
era l’effigie della Fede, raffigurata mentre abbraccia una
La scultura funeraria nel Regno Unito
croce. Pur non trascurando il loro carattere genuino e
il contributo visivo che apportano ai paesaggi cimiteriali, la maggior parte di queste strutture non suscita grande interesse se considerate nell’ambito della scultura.
Vi sono tuttavia opere scultoree interessanti. Una scoperta sorprendente, a Kensal Green, fu l’individuazione
di un monumento commemorativo scolpito da una
delle figlie della Regina Vittoria, la principessa Louise,
con un piccolo tondo raffaellesco raffigurante la Carità,
posto sulla Tomba di Mary Anne Thurston (morta nel
1896), bambinaia al servizio della famiglia reale (fig. 8).
8. Princess Louise,
Tomba di
Mary Anne Thurston
(m. 1897), Londra,
Kensal Green Cemetery
Uno dei punti di forza della scultura cimiteriale inglese è rappresentato da una serie di monumenti funebri
molto particolari realizzati verso la fine dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, tra cui pochi
ma qualitativamente apprezzabilissimi monumenti in
bronzo, spesso modellati da scultori di primo piano. Il
bronzo, fino ad allora materiale d’uso consueto per le
sculture pubbliche, fu utilizzato su scala sempre crescente nel corso del periodo vittoriano, dapprima in
rilievi a ritratto e busti (oggi, purtroppo, spesso trafugati), mentre le figure complete apparvero solo in un
secondo tempo. Il monumento funebre di John
Lo splendore della forma
La scultura funeraria nel Regno Unito
9. Sidney March,
Tomba di William Lancaster
(m. 1920), Londra,
East Sheen Cemetery
68
Goscombe in memoria della moglie Marte (morta nel
1924) nel cimitero londinese di Hampstead, è l’esemplare più rappresentativo.
Il punto culminante del monumento funerario in
bronzo si trova in un piccolo cimitero periferico, East
Sheen, nella zona sud-ovest di Londra, e commemora
William Lancaster (morto nel 1920) (fig. 9). Fu disegnato e realizzato da Sidney March, della famiglia di
scultori nota per il Canadian National War Memorial
(Monumento ai caduti) di Ottawa, che ha buone possibilità di rappresentare il canto del cigno della scultura tradizionalista del Novecento. L’angelo della morte,
con le sue ali imponenti, si accascia sul basamento con
epitaffio: la bellezza e la sofferenza dell’amore restano
in equilibrio e la perfetta realizzazione del gruppo
scolpito, insieme con la sontuosità cromatica del bronzo rivestito dal verderame, conferiscono a questo
monumento funebre una piacevolezza che rende
ancora più struggente il senso di un’esistenza perduta.
Questi monumenti, noti ai conoscitori, sono poco
pubblicizzati e talvolta trascurarli significa perderli: il
commovente monumento funebre in bronzo che William Goscombe John fece realizzare per la prima
moglie Marte nel cimitero londinese di Hampstead è
stato recentemente trafugato.
Il declino del culto dei defunti e della commemorazione era iniziato prima della Grande guerra, cosicché
modestia e convenzionalità divennero le principali
caratteristiche del monumento novecentesco. I monumenti funebri modernisti sono rarissimi. Si può intravedere un’ispirazione Art Déco nella Tomba Bianchi nel
10. Tomba di Mattie Bianchi
(c. 1935), Londra,
Hampstead Cemetery
69
cimitero di Hampstead (fig. 10), che un ristoratore italiano fece costruire per la moglie Mattie (morta nel
1930), mentre si coglie una scomposizione quasi vorticista nell’insolito rilievo scolpito da Bainbridge
Copnall sul tema della resurrezione dei morti, posto
sulla Tomba di Sir Percy Harris (morto nel 1948) nel
cimitero di Chiswick, nella zona occidentale di Londra. Nei decenni attuali si è arrivati al punto più basso
della qualità del design sepolcrale, ma vi sono chiari
segni di rinascita.
Harriet Fraser ha dato vita all’associazione Memorials by
Artists (Monumenti funebri realizzata da artisti) allo
scopo di incoraggiare chi ha subito un lutto a rivolgersi
ad artisti e artigiani piuttosto che ad aziende commerciali. I risultati sono spesso stimolanti e sempre interessanti. Esiste addirittura la dimostrazione che il riserbo
che ha caratterizzato i moderni monumenti funebri
inglesi a volte viene messo in discussione. Ed è sempre
Tra scultura e simboli nei cimiteri irlandesi
di Ray Bateson
Lo splendore della forma
il cimitero di Kensal Green a fornirne la prova: il monumento realizzato da Zebedee Helm per Joshua Compston, artista morto giovanissimo (1970-96), lo ritrae
reclinato all’interno di un vascello, mentre si prepara
al suo viaggio verso l’aldilà.
La scultura sta tornando nei cimiteri.
70
1
2
3
Per una panoramica dei monumenti
all’interno delle chiese, vedi Kemp,
Brian, English Church Monuments,
1983. La miglior monografia sul tema
dei sepolcri è con ogni probabilità
Penny, Nicholas, Church Monuments in
Romantic England, 1977.
Illustrato in Fred H. Crossley, English
Church Monuments AD 1150-1550
(1921), plate 69. Questo monumento
potrebbe essere stato spostato fuori
dalla propria iniziale posizione interna.
Vedi Brooks, Chris (a cura di), Mortal
Remains, Exeter, 1989, p. 8 ss.
4
5
6
Curl, James Steven (a cura di), Kensal
Green Cemetery, Chichester, 2001
L'elenco consta di 134 tombe e mausolei, garantendo così la loro salvaguardia contro demolizioni o modifiche secondo un sistema di pianificazione. Anche il paesaggio è catalogato, con le medesime modalità di tutela. L’ente locale lo ha dichiarato “zona
protetta”, e quindi ne vanno rispettate
le caratteristiche. È tuttora proprietà
privata.
Illustrato in Hugh Meller, London
Cemeteries, 1981, p. 219.
L’Irlanda non ha una grande tradizione di arte funebre. Una delle ragioni principali di questa carenza
furono le leggi penali introdotte nel 1695, che perseguivano la Chiesa cattolica e limitavano severamente i
diritti dei cattolici, che erano i tre quarti della popolazione. Furono quindi poche le chiese cattoliche
costruite prima dell’emancipazione cattolica, conseguita nel 1829. Secondo le leggi penali, i cattolici e altri
dissidenti potevano essere sepolti solo nei cimiteri
della Chiesa d’Irlanda o in altri luoghi di sepoltura
sotto il suo controllo, per di più senza il rito religioso.
Questa problematica giunse al termine nel 1823, quando il principale leader cattolico, Daniel O’Connell, iniziò il processo che portò nel 1829 all’apertura del
primo cimitero per cattolici e dissidenti.
Un’altra ragione del declino della tradizione funeraria fu l’Atto di Unione del 1800 che unificò il parlamento irlandese con il parlamento di Westminster,
ma che trasformò Dublino da seconda città dell’Impero britannico in una realtà provinciale. Gli scultori di
talento decisero così di lasciare Dublino e l’Irlanda,
71
Lo splendore della forma
alla ricerca di riconoscimenti più redditizi.
Non sorprenderà dunque quanto scrisse il Reverendo
James Graves nel 1857:
È impossibile non essere colpiti dal graduale decadimento dell’arte monumentale, come illustrano i resti del XVII secolo;
una regressione che continuò fino al XVIII secolo e alla
prima metà del XIX, quando raggiungemmo il punto più
basso. Gli emblemi pagani, come la fiaccola rovesciata e l’urna cineraria, usurparono il posto dei simboli della cristianità, mentre verbosi encomi del defunto prendevano il posto
della semplice frase 'Hie Jacet' dei nostri padri.
72
Nonostante ciò Dublino possiede due cimiteri che possono orgogliosamente far parte del gruppo dei maggiori cimiteri europei. Questi sono il cimitero di Mount
Jerome e il cimitero Glasnevin.
Il cimitero di Mount Jerome fu aperto nel 1836 ed era
destinato a essere non confessionale, sebbene solo nel
1920 questo carattere si poté manifestare pienamente.
Durante l’era vittoriana, era il principale luogo di
sepoltura per i professionisti protestanti, ricchi e di
successo e per la borghesia degli affari di Dublino.
Nel volume The Victorian Celebration of Death, il prof.
James Curl afferma che Mount Jerome era “uno dei
discendenti più naturali del Père-Lachaise”. Nessun
altro cimitero in Irlanda ha monumenti così splendidi
e diversi. Ci sono bellissime costruzioni neoclassiche,
1. Sandham Symes
(architetto), Tomba Cusack,
1863, Dublino,
Mount Jerome Cemetery
Tra scultura e simboli nei cimiteri irlandesi
obelischi, colonne, colonne spezzate, urne di varie
grandezze, figure di donne addolorate, angeli, croci
celtiche, catacombe, mausolei e addirittura un cane di
marmo che ulula per la morte del suo ultimo padrone.
Gli stili riflettono le tendenze dei cimiteri europei del
tempo, influenzati da Grecia, Roma ed Egitto. Alcuni
monumenti, come la Tomba Cusack, a forma di baldacchino con colonne toscane (fig. 1), sono chiaramente
modellati sui più famosi monumenti funebri dei cimiteri europei. Sono presenti anche molti di quei simboli
pagani e di quei fioriti epitaffi di cui aveva scritto il
Reverendo Graves.
73
2. George Papworth
(architetto),
Tomba Drummond,
1840, Dublino,
Mount Jerome Cemetery
Un altro notevole monumento (fig. 2) è quello di Thomas Drummond, sottosegretario del governatore d’Irlanda dal 1835 al1840. Drummond era anche un ingegnere: aveva inventato la lampada usata nei teatri e nei
fari. Lo straordinario monumento, che domina l’area
circostante, fu progettato da George Papworth.
Lo splendore della forma
74
Il cimitero Glasnevin aprì nel 1823 e può rivendicare di
essere la necropoli della nazione. O’Connell lo pensò
in modo che potesse provvedere a tutte le religioni e
non solo ai cattolici. Comunque, già dopo poco tempo
si vide che la gran parte dei suoi abitanti era cattolica.
Più di un milione di persone sono sepolte a Glasnevin,
incluse molte delle maggiori figure politiche irlandesi
del XIX e XX secolo, religiosi e personalità importanti
per la storia della città.
Anche Glasnevin ha una bella collezione di monumenti funebri, molto influenzati nei suoi primi vent’anni
dalla moda del tempo. Uno dei monumenti più grandiosi è il sarcofago di John Philpot Curran, che si basa
su quello di Scipio Barbatus a Roma, un tema molto
comune nei cimiteri europei.
Grazie alla crescente autoconsapevolezza della Chiesa
cattolica e della borghesia emergente, ci fu un passaggio dallo stile neoclassico, che era identificato con il
dominio protestante e inglese, verso il Gotico e il
Romanico, che era ritenuto più adatto a evocare i
tempi in cui la Chiesa cattolica aveva un ruolo dominante. Ci sono molti eleganti esempi di tombe, cappelle mortuarie ed edifici in questi stili.
C’è anche uno spostamento dai simboli pagani a quelli
cristiani, che rappresentano la Passione, scene dalla
Bibbia e dai Vangeli, mentre naturalmente si allarga
l’uso della croce come segno da porre sulla tomba. La
dettagliata Ultima Cena (fig. 3) è dello scultore inglese
James Pearse, padre di Patrick e Willie Pearse, i due
leader politici giustiziati nel 1916.
Ci fu inoltre un crescente uso sulle tombe dei simboli
dell’identità nazionale. Questi includono l’arpa, il
trifoglio d’Irlanda, la torre circolare, l’abbazia in rovina, il sole nascente e la croce celtica. Tutti questi sim-
3. James Pearse,
Ultima Cena,
Tomba John D'Alton,
c. 1870, Dublino,
Glasnevin Cemetery
Tra scultura e simboli nei cimiteri irlandesi
4. Tomba John Keegan Casey,
Dublino,
Glasnevin Cemetery
boli sono rintracciabili sulla tomba del poeta e scrittore
feniano John Keegan Casey (fig. 4).
La croce celtica, rifacendosi alle High Crosses del millennio precedente, forniva una splendida opportunità per
soddisfare insieme sia il bisogno dell’espressione religiosa sia la volontà di manifestare l’identità nazionale. La
High Cross aveva dei pannelli che illustravano scene
bibliche ed erano usati dal clero per educare i fedeli. Le
croci del XIX secolo avevano simili pannelli biblici
oppure avevano pannelli decorati con un elaborato
ornamento intrecciato simile a quello del libro di Kells e
di altri antichi manoscritti irlandesi (fig. 5). Le croci celtiche divennero così popolari che presto diventarono la
caratteristica dominante di ogni cimitero irlandese.
A Glasnevin la decorazione celtica trovo il suo esito più
alto nel mausoleo a baldacchino (fig. 6) del Cardinale
McCabe, morto nel 1885. In stile neoromanico, il
monumento propone la figura del Cardinale, coricato,
in mitra e in abiti talari, con angeli che reggono dolcemente il capo e i piedi. Ci sono pavimenti a mosaico
con le immagini dei Quattro Evangelisti circondate
dagli elaborati simboli celtici. Questi disegni coprono
in modo continuo le mura esterne, quelle interne e il
tetto. All’interno ci sono anche le figure scolpite delle
teste degli apostoli. Lo scultore fu Thomas Farrell.
I simboli dell’identità nazionale stimolavano non solo
l’orgoglio irlandese, ma riflettevano anche una profonda opposizione al dominio britannico in Irlanda. In
75
Lo splendore della forma
5. Croce celtica,
Dublino,
Deansgrange Cemetery
Tra scultura e simboli nei cimiteri irlandesi
si sia spostata nei cimiteri nel 1861, con il prolungato
funerale di Thomas Bellew McManus, da San Francisco
al cimitero di Glasnevin. Da quel momento fino ai giorni nostri, cimiteri, tombe e funerali divennero punti di
riferimento per coloro che si opponevano al dominio
britannico in Irlanda.
Dopo l’insurrezione feniana del 1867, venne formato
un Comitato per il Ricordo; uno dei suoi obiettivi era
quello di curare le tombe dei patrioti uccisi. Nel 1926 il
Comitato venne riconosciuto come Cumann Uaigheann
na Laochra Gaer o Associazione per i sepolcri nazionali,
nome che è stato mantenuto fino ai nostri giorni.
Il monumento più impressionante è il complesso di tre
figure connesse alla cospirazione feniana (fig. 7); le
figure rappresentano il Patriottismo, la Fedeltà e l’Irlanda e sono opera di Thomas Farrell, ma tale era il
clima politico che le statue non poterono essere collocate fino al 1933, più di trentacinque anni dopo. Infine, va rimarcata l’assenza nei cimiteri irlandesi di sta-
77
76
principio questi apparivano nelle tombe di coloro che,
politicamente o con altri mezzi, si erano più attivamente opposti all’autorità britannica, ma poi alla svolta del
secolo divennero così diffusi da perdere di efficacia.
Si potrebbe dire che l’opposizione alla Gran Bretagna
6. Thomas Farrell,
Tomba del Cardinale McCabe,
1887 m., Dublino,
Glasnevin Cemetery
7. Thomas Farrell,
Patriottismo, Fedeltà, Irlanda.
Fenian monument,
1887, Dublino,
Glasnevin Cemetery
Lo splendore della forma
Scultura funeraria in Finlandia (1880-1930)
di Liisa Lindgren
tue che raffigurano i defunti. Non ce n’è alcuna a
Mount Jerome e solamente poche a Glasnevin. Tra
queste, la bella statua di Berry Sullivan, l’attore shakespeariano che interpretava il molo di Amleto e il busto
di Lord John Gray (fig. 8) che, tra le altre cose, fornì a
Dublino l’erogazione di acqua potabile. Entrambi i
lavori sono dello scultore Thomas Farrell.
8. Thomas Farrell,
Tomba di Sir John Gray,
1880, Dublin,
Glasnevin Cemetery
78
Riferimenti bibliografici
AA.VV., Arte y Arquitectura funeraria (Arte e Architettura Funeraria. Funeral art and
Architecture (XIX-XX). Dublin, Genova, Madrid, Torino, edicion a cargo de Sofia Diéguez.
Patao y Carmen Gimenez, con el patrocinio Comisión Europea, Madrid, 2000.
Bateson, R., Dead and Buried in Dublin, Irish Graves Publications, 2002.
Curl, J., The Victorian Celebration of Death, Sutton Publishing, 2001.
O’Shea, S. et al., Death and Design in Victorian Glasnevin, Dublin Cemeteries Committee, 2000.
Potterton, H., Irish Church Monuments 1570-1880, Ulster Architectural Heritage
Society, 1975.
Nel XIX secolo la cultura cimiteriale in Finlandia ebbe
una funzione di distinzione sociale che servì alla crescita dell’autoconsapevolezza della borghesia e delle classi
istruite. La crescente popolarità delle tombe private
aveva portato alla costruzione di lapidi commemorative
per le tombe personali. Le croci tradizionali spesso
erano realizzate con materiali deperibili, come il legno.
A poco a poco le tombe acquisirono un carattere più
permanente, soprattutto nei cimiteri urbani. Lapidi in
ferro fuso di produzione nazionale apparirono negli
anni Quaranta dell’Ottocento. Decorazioni alla moda
furono importate anche dalla Russia, dalla Svezia, dalla
Polonia e dalla Germania. Le lapidi spesso contenevano
simboli classici come urne e torce capovolte, ghirlande
e raggi di luce. Forme monumentali neoclassiche, steli,
obelischi, urne e vasi per le tombe furono resi popolari
dal gusto romantico per l’immaginario classico.
L’insegnamento accademico della scultura iniziò in
Finlandia nella metà del XIX secolo e creò una condizione per la produzione locale della scultura funeraria.
Dopo aver imparato le basi della loro futura professio-
79
Lo splendore della forma
ne nella Scuola della Società dell’Arte finlandese gli
studenti dovevano completare il loro percorso di studi
all’estero. A Copenhagen, Roma e Parigi cominciarono
a muovere i primi passi nella loro carriera. Lì avevano
l’opportunità di usare i servizi professionali delle fonderie d’arte che ancora non esistevano in Finlandia.
Nei centri d’arte del continente essi adottarono anche
le nuove tendenze dell’arte funeraria.
In Finlandia, la cultura cimiteriale raggiunse l’apice
della sua varietà, elaborazione e popolarità tra il 1880 e
il 1930. Commissioni di monumenti funerari ebbero
un ruolo cruciale nell’opera di molti scultori come
Walter Runeberg, Ville Vallgren, Emil Wikström e Felix
Nylund. II Cimitero di Hietaniemi a Helsinki, con il
suo Antico Cimitero del 1829, il Nuovo Cimitero del
1858 e la sua estensione del 1929, è un esempio rappresentativo del XIX e degli inizi del XX secolo con
monumenti di questi importanti scultori.
80
Walter Runeberg
Walter Runeberg (1838-1920), figlio del poeta nazionale
della Finlandia Ludvig Runeberg, aspirava a diventare lo
scultore guida della sua madrepatria. Per raggiungere
questo obiettivo Runeberg studiò all’Accademia delle
Arti di Copenhagen. Dal 1862 Runeberg visse e lavorò a
Roma e nel 1876 si trasferì a Parigi con la famiglia.
Durante la sua vita fu ammirato e rispettato in tutte le
nazioni del Nord. La sua opera include dozzine di monumenti funerari nei cimiteri finlandesi. Nel 1893 Runeberg
lasciò definitivamente Parigi. Durante il suo soggiorno a
Copenhagen nel 1896 realizzò la Resurrezione. Più tardi,
nello stesso anno, Runeberg ritornò in Finlandia dove
trovò una ricca clientela desiderosa di comprare i suoi
lavori e di commissionargli monumenti funebri. La Resurrezione fu comprata da un ricco mercante, Uno Staudinger,
che la collocò nel giardino della sua nuova villa a Helsinki.
Dopo la morte di Runeberg nel 1920 fu trasferita presso la
tomba dell’artista nel Cimitero di Hietaniemi (fig. 1).
II tema popolare della resurrezione rappresenta “corpi
celestiali” che risorgono pieni di luce. La fonte biblica
è la prima lettera di San Paolo ai Corinzi. Come un
segno di invocazione e illuminazione, la posizione
Scultura funeraria in Finlandia
1. Walter Runeberg,
Resurrezione,
1896, Helsinki,
Hietaniemi Cemetery
(foto The Central Art
Archives)
delle mani volte verso il cielo potrebbe avere anche
un’interpretazione teologica.
Zacharias Topelius, scrittore finlandese molto amato,
morì nel 1898. L’Associazione delle Donne finlandesi
organizzò una gara artistica per commemorare il poeta
cantastorie, portavoce della casa e dei bambini. I racconti per bambini di Topelius erano serviti per l’istruzione religiosa e furono importanti anche per la formazione della visione del XIX secolo della morte e della
commemorazione.
Su verso la Luce di Walter Runeberg fu inaugurata nel
1905. La figura alata raffigura un angelo guardiano ma
con il suo petto nudo potrebbe anche essere vista come
la personificazione popolare della Fama nei monumenti del XIX secolo.
Il fiorente culto dei grandi uomini faceva parte di una
nuova vita pubblica borghese e il culto della memoria
delle persone istruite e importanti includeva la visita
alle tombe.
L’Antico Cimitero possiede un’area chiamata la Collina degli Artisti, riservata agli artisti più stimati. Su verso
81
Lo splendore della forma
Scultura funeraria in Finlandia
della Zarina prima del suo primo matrimonio con il
Maestro della Caccia della corte imperiale, Paul Demidov. Dopo la morte del suo secondo marito, il colonnello Karamzin, Aurora si trasferì a Helsinki. Era la donna
più ricca della Finlandia a quel tempo ed era generosa e
caritatevole. Il monumento funerario fu commissionato
da suo nipote, il Consigliere del Principe e del Legato
Elim Demidov, che viveva a Londra (fig. 3).
2. Walter Runeberg,
Su verso la Luce,
Tomba Zacharias Topelius,
1905, Helsinki,
Hietaniemi Cemetery,
(foto The Central Art
Archives)
3. Ville Vallgren,
Tomba Aurora Karamzin,
1905, Helsinki,
Hietaniemi Cemetery
(foto The Central Art
Archives)
82
83
la Luce è il monumento centrale di questo Pantheon
finlandese delle arti (fig. 2).
Ville Vallgren
Ville Vallgren (1855-1940) lavorò a Parigi dal 1877,
facendo apprendistato presso lo studio di Léon Bonnat
e all’Ecole des Beaux-Arts nello studio di Jules Cavelier.
Vallgren ebbe una parte importante nell’élite artistica
scandinava residente a Parigi. Nel 1889 Vallgren ricevette una medaglia d’oro nel Salon des Beaux Arts. Nelle
mostre internazionali del 1890 ottenne fama e una ricca
clientela con le sue urne cinerarie romantiche e quasi
religiose, lacrimatoi e donne piangenti.
All’alba del nuovo secolo Vallgren realizzò alcuni monumenti funerari molto elaborati con un bell’immaginario
figurativo come quello della filantropa Aurora Karamzin
(1808-1902). Aurora, nata Stjernvall, era stata damigella
Nella primavera del 1903, Vallgren aveva mostrato un
modello in gesso per la tomba di Karamzin al Salon di
Parigi. Originariamente, Vallgren aveva progettato una
stele eretta con un ritratto e un angelo dalle lunghe ali
che fuoriuscivano dal marmo. La base bassa doveva
essere fatta di steatite (talco) o granito e la figura piangente doveva essere fusa in bronzo.
La donna dai piedi scalzi, nel suo vestito lacero, rappresentava il popolo finlandese addolorato per il suo
benefattore. Il monumento, leggermente più piccolo
del modello originale, fu scoperto nel 1905 ed è oggi la
più grande scultura in marmo di Carrara bianco nell’Antico Cimitero.
Dopo il suo ritorno in Finlandia nel 1915 Vallgren realizzò un monumento funebre per un’altra donna, Axianne Cygnaeus, per l’Antico Cimitero di Helsinki. Aggiunse uno “Spirito” in bronzo all’obelisco di pietra che era
stato eretto vent’anni prima per decorare la Tomba di
Lo splendore della forma
4. Ville Vallgren,
Spirito della Tomba,
Tomba della Famiglia
Cygnaeus,
1914, Helsinki,
Hietaniemi Cemetery
(foto The Central Art
Archives)
Scultura funeraria in Finlandia
Dopo aver studiato alla scuola della Società dell’Arte
finlandese a Helsinki i suoi maestri lo inviarono a Vienna, dove studiò all’Accademia delle Belle Arti con il
Professor Edmund Hellmer. Nel 1885 cominciò i suoi
studi all’Académie Julian a Parigi dove più tardi prese
lezioni da Henri Chapu. Già come giovane artista Wikström vinse commissioni per importanti lavori che
garantirono il suo sostentamento per anni.
Wikström realizzò molti importanti monumenti pubblici nei primi decenni del nuovo secolo. Uno dei ricchi
committenti di Wikström fu 1’uomo d'affari e filantropo Uno Staudinger che collezionò le sue opere. Dopo
la morte di suo marito nel 1912, la moglie di Staudinger commissionò un monumento per la sua tomba,
eretto nel 1913. Esso rappresenta una famiglia idealizzata ma la ragazzina di fronte ai genitori è effettivamente la figlia della famiglia Staudinger. La base in
granito è decorata con una figura piangente e un Genio
della morte con la torcia rivolta verso il basso (fig. 5).
84
85
Uno Cygnaeus, teologo e capo ispettore delle scuole elementari. I figli di Uno e di Axianne commissionarono la
scultura in memoria della loro madre. Tuttavia, lo “Spirito” che sparge le rose sembra rendere immortale soprattutto la memoria dello stesso Cygnaeus, il padre della
scuola elementare finlandese (fig. 4).
Lo Spirito della Tomba porta una ghirlanda di rose della
vita eterna di fronte all’obelisco che celebra l’immortalità dell’anima. Lo “Spirito” di Vallgren è un angelo
moderno con un’acconciatura alla moda e un corpo
sensuale e terreno. Nella sua arte Vallgren aspirò a far
risorgere il sensuale nei regni della spiritualità.
Emil Wikström
Emil Wikström (1864-1942) dominò la scultura pubblica in Finlandia durante i primi decenni del XX secolo.
5. Emil Wikström,
Tomba Famiglia
Staudinger,
1913, Helsinki,
Hietaniemi Cemetery
(foto Liisa Lindgren)
La Finlandia divenne indipendente nel 1917. Ben presto Wikström perse il suo ruolo dominante nella scultura pubblica e fu sostituito dai colleghi più giovani.
Comunque, durante la sua lunga carriera realizzò circa
quaranta monumenti funerari privati. La maggior parte
Lo splendore della forma
Scultura funeraria in Finlandia
7. Felix Nylund,
Tomba Anton Karsten,
1925, Helsinki,
Hietaniemi Cemetery
(foto Liisa Lindgren)
6. Emil Wikström,
Tomba Santeri Ivalo,
1942, Helsinki,
Hietaniemi Cemetery
(foto Liisa Lindgren)
86
di questi sono lapidi composite con ritratti a rilievo.
Uno dei suoi ultimi lavori è il monumento funerario
allo scrittore e giornalista Santeri Ivalo (1942). Il giovane uomo del monumento può essere visto come un
Genio dell’arte (fig. 6).
Felix Nylund
Felix Nylund (1878-1940) studiò all’Accademia delle
Arti di Copenhagen e all’Académie Colarossi a Parigi
negli anni di passaggio fra XIX e XX secolo. Dopo aver
lavorato e vissuto molti anni a Copenhagen, Nylund
ritornò in Finlandia negli anni Venti. La Guerra civile
del 1918 aveva cambiato l’atteggiamento nei confronti
della morte e angeli e figure in lutto erano adesso considerati fuori luogo ed esagerati. La vistosità delle
forme fu vista come simbolo di ricchezza e di status, e
perfino di effeminatezza. I più bei monumenti funerari di Nylund sono quelli degli anni Venti e degli anni
Trenta. Le pietre diritte, che alludono alle pietre runi-
8. Felix Nylund,
Il portatore della Torcia,
Tomba Hannes Gebhard,
1936, Helsinki,
Hietaniemi Cemetery
(foto Liisa Lindgren)
che scandinave, erano popolari all’inizio del XX secolo
specialmente tra i finlandesi che parlavano svedese.
Attraverso questi monumenti essi sottolinearono la
loro consonanza con la cultura degli svedesi e delle
alleanze culturali. Nel monumento funerario del Dottor
Anton Karsten, Nylund (1925) usò un modello del
famoso monumento danese del Vichingo, il Jellingesten.
In ogni caso il guerriero sulla pietra proviene dalla
mitologia greca, il barcaiolo dell’Ade, Caronte (fig. 7).
II Classicismo diede a Nylund modelli per nuovi monumenti con figure maschili, privi di eccessiva decorazione. Fanciulle piangenti furono sostituite da giovani
uomini che recano i simboli dell’arte che legavano la
morte alla libertà spirituale e alla lotta per i grandi ideali. La ricerca della forza della vita cambiò l’immagine
della morte: nel monumento di Hannes Gebhard (1934),
Felix Nylund usò un giovane Prometeo che tiene la torcia rivolta verso l’alto come immagine della vittoria. II
portatore della torcia mostra chiaramente come la retorica
vitalistica della vita del modernismo del XX secolo rifiutava il modo melanconico della tematica della morte
come decadenza della fine del XIX secolo (fig. 8).
87
La scultura cimiteriale a Bucarest e in Romania
di Ioana Beldiman
La scultura cimiteriale a Bucarest e in Romania
1. Antonio Argenti,
Allegoria, Tomba Casimir,
1879, Iasi,
Cimitero Eternitatea
88
L’istituzione cimiteriale centralizzata creata fin dalla
metà dell’Ottocento nelle più importanti città dei Principati Uniti (province unificate nel 1859 e chiamate dal
1866 Romania), seguendo i modelli parigini o italiani
(fig. 1), sostituiva i piccoli cimiteri raggruppati intorno
alle chiese. Si creava così anche nei Principati l’occasione di onorare nel modo dovuto le grandi personalità
romene, gesto significativo nel “secolo delle nazioni”.
Era un aspetto dell’ampia riconfigurazione, secondo il
sistema europeo e prevalentemente francese, dei principali meccanismi istituzionali in un paese che era stato
una provincia dell’Impero Ottomano fino al 1878.
Nello spazio romeno, la scultura a tutto tondo è esclusa fino verso il 1830, da una parte a causa delle restrizioni imposte dalla religione ortodossa che, seguendo
alla lettera il testo sacro, non accetta il ritratto in bronzo o in pietra, dall’altra parte a causa di una persistente tradizione artistica della decorazione a rilievo, le cui
origini sono dovute all’appartenenza della zona all’area culturale bizantina e poi dell’arte post-bizantina.
È in tale contesto che si deve intendere anche la man-
89
canza di un’accademia di belle arti fino al 1864, quando
vengono inaugurate due istituzioni di questo tipo, con
programmi che seguono il modello francese, a Bucarest,
in Valacchia, e quello tedesco, a Iasi, in Moldavia.
Prima del 1800 la scultura funeraria colta dei Principati
romeni è rappresentata dalle lapidi sepolcrali dei boiardi – l’aristocrazia locale – decorate con bassorilievi in
méplat, una formula stilistica tardiva che discendeva dalla
scultura bizantina. Verso il 1830, nella decorazione delle
lapidi scolpite prevalentemente da artigiani stranieri si
impone un’iconografia di fonte occidentale: stemmi ed
elementi del vocabolario neoclassico che inquadrano
epitaffi a caratteri cirillici, greci o in francese.
L’inizio della scultura cimiteriale a tutto tondo è segnato
verso il 1830-1840 dai monumenti funerari collocati nei
cimiteri privati delle famiglie regnanti, accanto alla cappella del palazzo o della dimora signorile di campagna.
Lo scultore Franciscus Vernetta, che lavorava nella vicina Russia, è invitato a Iasi nel 1842 dal principe regnante moldavo, Mihail Sturdza (1834-1848), per realizzare
Lo splendore della forma
La scultura cimiteriale a Bucarest e in Romania
2. Franciscus Vernetta,
Monumento funerario di
Grigore Sturdza,
1842, Iasi,
Monastero Frumoasa
3. Auguste Préault,
La statua di Alexandrina
Falcoianu,
1871-1873, Bucarest,
Museo Nazionale d’Arte
della Romania
90
per la prima volta in questo paese un monumento funerario con statua che verrà collocato vicino a Iasi, nel
Monastero Frumoasa (fig. 2). L’allegoria della Morte,
l’urna e il sarcofago rappresentavano “un modello iconografico diffuso dalla Slesia alla Russia”,1 ma la purezza delle forme, l’atticismo della figura meditativa testimoniavano la buona formazione canoviana dello scultore che ha saputo imporre abilmente nell’Europa dell’Est le invenzioni dell’arte italiana coeva e onorare in tal
modo le committenze dell’aristocrazia russa e moldava.
La tomba in marmo era destinata non solo a conservare
la memoria di Grigore, il padre del principe regnante,
ma anche a consolidare l’idea di una possibile dinastia
sul trono moldavo.2 Per la prima volta in quello spazio
veniva percepito il significato sociale della scultura
funeraria moderna. L’esempio sarà seguito anche dall’aristocrazia di corte, a volte con monumenti funerari
modesti ma ambiziosi, di formula italiana.
Nella seconda metà dell’Ottocento, quando la Romania diventa paese di emigrazione per un certo numero
di italiani, a Iasi si stabiliscono alcuni scultori provenienti dalla Penisola. L’aristocrazia locale si rivolge a
questi artisti e artigiani per ornare le tombe in genere
91
con piccoli monumenti di fattura provinciale: Fabio
Celesti, professore presso la Scuola di Belle Arti di Iasi,
Federico Gaetano Villa, G. Franzoni. Molte sculture del
Cimitero Eternitatea di Iasi, un’istituzione inaugurata
nel 1876,3 sono firmate da questi nomi. Dei cimiteri
signorili della regione si possono segnalare la tomba di
George A. Sturza (a Miclauseni), firmata da Fabio
Celesti (1900), secondo un modello lombardo-toscano,
oppure il monumento a baldacchino con giacente
della chiesa di Miroslava, eseguito dallo scultore bucarestino Fritz Storck (1908) secondo il gusto del committente Alexandru Mavrocordat.
Lo splendore della forma
4. Pierre Granet,
Jeune fille roumaine jetant
des fleurs sur une tombe,
Tomba di Anton Don,
1877, particolare,
Cimitero Bellu,
Bucarest
92
A Bucarest invece i committenti si orientano prevalentemente verso i modelli francesi. Attorno al 1848 e oltre, più
desiderosi di un rinnovamento che voleva essere politico
prima di tutto, e implicitamente assecondato dal gusto per
un’arte più innovatrice del neoclassicismo, i giovani boiardi valacchi sono più direttamente influenzati da quello
che è il cuore della vita moderna e democratica, Parigi.
Questo fatto si riflette anche sull’arte funeraria, soprattutto nel cimitero SerbanVoda/Bellu (inaugurato nel 1859,
architetto Alexandru Orascu) dove si notano monumenti
funebri eseguiti da artisti romeni, francesi o italiani.
La statua di Alexandrina Falcoianu dovuta ad Auguste
Préault (fig. 3) era una committenza del colonnello
Stefan Falcoianu in memoria della moglie deceduta a
24 anni. Vecchi e saldi legami di amicizia politica e di
affinità personale univano lo scultore Préault e due
politici del 1848 romeno, C.A. Rosetti e Ion Bratianu.
Soprattutto Rosetti deve aver suggerito al committente
di rivolgersi allo scultore romantico francese.
La scultura cimiteriale a Bucarest e in Romania
È la prima statua importante del cimitero centrale
bucarestino (1873).4 Alquanto idealizzato dall’artista
attraverso la grazia del contegno e i tratti classici del
ritratto, il marmo reca anche l’impronta di Préault in
alcune soluzioni di eccezionale plasticità: lo scialle
avvolto intorno alla vita o la capigliatura, le pieghe
dello scialle che ruotano intorno ai polsi e cadono dietro a falde ampie.
Nel 1877, Pierre Granet esponeva al Salon des Artistes
Français un gesso registrato nel catalogo come Jeune
fille roumaine jetant des fleurs sur une tombe. Il bronzo,
oggi nel Cimitero Bellu (fig. 4), sarà ordinato dal giurista romeno Constantin Don in memoria di suo figlio
Anton, laureato in Giurisprudenza a Parigi e ivi deceduto nel1875. Ispiratosi a un tema prediletto nella
Francia di quegli anni, Granet immagina una graziosa
e funebre allegoria della Giovinezza prefigurando lo
stile Liberty con una ragazza in costume tradizionale
romeno che sparge petali di rose da un ramo rotto,
simbolo della violenta fine in tenera età.
A Paul Albert Bartholomé si rivolgono verso il 1910 i
coniugi Maria e Alexandru Callimachi, personaggi
appartenenti all’alta aristocrazia romena. Opera di
gusto simbolista, Pleureuse au pied d’une croix iscriveva in
una nuova sintassi un nudo ripreso dalla lunga schiera
di figure del Monumento dei Morti (Père Lachaise), le
quali si coprono il viso per paura del nulla. Realizzata
parzialmente a tutto tondo e parzialmente in rilievo,
La Pleureuse di Bucarest (fig. 5) è rappresentata nell’atto di abbracciare la croce mentre si nasconde il volto,
con un gesto drammatico, tipico della sensibilità fin-desiècle ossessionata dal tema di Thanathos.
Stabilito in Romania verso il 1890, lo scultore parigino Wladimir Hégél (1838-1918), è stato invitato a
Bucarest dalla committenza ufficiale per realizzare dei
monumenti pubblici, fondare una Scuola di Arte e
Mestieri e aprire la prima fonderia artistica. Un bronzo, la figura femminile grave ed emozionale, seduta su
un capitello corinzio accanto a una colonna rotta, La
Morte o La Malinconia, devastata dal furto di alcuni
dettagli, resta una delle sculture allegoriche di spicco
del Cimitero Bellu (tomba C. Angelescu, 1902).
93
Lo splendore della forma
La scultura cimiteriale a Bucarest e in Romania
6. Ion Mincu (arch.),
Frederick Storck (scult.),
Cappella Gheorghieff,
Bucarest,
Cimitero Bellu
5. Paul-Albert Bartholomé,
Pleureuse au pied
d'une croix,
Tomba Vernescu,
1910, Bucarest,
Cimitero Bellu
94
Un certo fascino esercitato dalla scultura fiorentina
coeva o dalle produzioni degli studi funerari milanesi5
si nota nel periodo 1880-1918. Il caso delle committenze rivolte al professore fiorentino Raffaello Romanelli è
forse il più significativo per le aspirazioni artistiche e
per l’orgoglio sociale dell’aristocrazia romena. Gli
oggetti che accompagnano il personaggio, i dettagli
degli abiti fedelmente resi per dare il senso dell’illusione, l’abilità nell’evocare i materiali organici attraverso
l’uso di quelli inorganici sono gli elementi del linguaggio tardo accademico di Romanelli. I lavori vengono
eseguiti a Firenze (Fonderia Vignali), come registrato
su ognuna delle sculture: l’imponente tomba di Eufrosina Poroinianu, 1902; il ritratto di Constantin Istrati ecc.
(Cimitero Bellu). Un monumento in marmo, con la statua in bronzo del personaggio commemorato, in piedi,
con cappello e bastone, fu commissionato a Romanelli
per il Cimitero Ungureni di Craiova dagli eredi di Gogu
Vorvoreanu, ricco latifondista, ex-sindaco della città.
Prima dalla fine dell’Ottocento si nota una produzione
costante di busti, “nature morte” (attributi della professione del defunto), allegorie, lavori forniti dagli artisti
locali che rispondono alle commissioni correnti della
7. F. Storck,
San Giovanni Evangelista,
Cappella Gheorghieff,
Bucarest,
Cimitero Bellu
ricca borghesia. Grazie al contributo significativo degli
scultori della famiglia Storck (Karl e due figli, Frederick
e Carol), il Cimitero Bellu diventa verso il 1900 un
“museo di sculture all’aperto”.6 Il gusto persistente per
le tradizionali formule dell’accademismo era una modalità di recupero della storia della scultura occidentale.
Questa preferenza stilistica continuò a essere presente
simultaneamente alle elaborazioni innovatrici che si
diffondevano alla vigilia della Grande guerra: la ricerca
di uno stile nazionale e la rottura con l’accademismo.
Un contributo romeno ben individualizzato si affermerà dopo l’inizio del Novecento, quando nella vita
artistica della capitale si impone un gruppo di scultori
formati a Bucarest, di varia portata artistica e di tendenze stilistiche diverse: Constantin Brancusi, Dimitrie Paciurea, Frederick Storck, Oscar Spaethe, Constantin Balacescu e altri.
Ion Georgescu, il primo scultore formato presso la
giovane Scuola di belle arti, è tra gli anni 1885-1895
l’autore di alcuni busti e medaglioni del cimitero
Bellu (ritratto del poeta Mihai Eminescu). Ma la più
evidente affermazione del contributo locale all’arte
cimiteriale avviene in occasione dell’elaborazione di
uno stile architettonico nazionale, una sfida lanciata
dagli architetti. Ion Mincu (1850-1912), l’ideatore di
un’architettura nazionale, realizza cappelle funerarie
in collaborazione con Fritz Storck (figg. 6 e 7) e con il
fiorentino Romanelli.
Contemporaneamente, appare un esercizio originale
del monumento funerario locale: la croce in pietra,
scolpita in bassorilievo con motivi ornamentali dell’e-
95
Lo splendore della forma
poca di Constantin Brancovan (Sei e Settecento), già
presenti negli edifici in stile nazionale. La croce della
tomba dell’architetto Grigore Cerchez riprende a scala
monumentale un’arte della lavorazione della pietra di
tradizione nell’area romena (fig. 8).
8. Constantin Dobrescu
(arch.),
Tomba dell'architetto
Grigore Cerchez,
c. 1930, Bucarest,
Cimitero Bellu
96
Un altro tipo di rielaborazione della tradizione bizantina, più complessa, è messa in atto da Dimitrie Paciurea
(1873-1934), forse il più personale degli scultori attivi in
Romania nella prima metà del Novecento. Egli si formò
a Bucarest e poi a Parigi, dove si trovava al momento
dello scandalo provocato dalla statua di Balzac realizzata da Rodin. Nel suo lavoro Il Transito della Madonna,
bronzo collocato nella nicchia oblunga della Cappella
Stolojan (fig. 9), Paciurea trasferisce il linguaggio della
pittura nell’arte del bronzo. Elegantemente calligrafico
e modellato in bassorilievo, il personaggio sacro è rap-
La scultura cimiteriale a Bucarest e in Romania
9. Dimitrie Paciurea,
Il Transito della Madonna
(Madonna Stolojan),
1912, Bucarest,
Cimitero Bellu
presentato allungato, quasi una derivazione dalle icone.
Soluzioni analoghe stilisticamente venivano a quella
data elaborate dal croato Ivan Mestrovic o dal francese
Paul Landowski. È ben probabile che Paciurea sia stato
influenzato anche da esempi del genere, ma in seguito
si orienterà verso un immaginario simbolista che corrisponde meglio alla sua fantasia creatrice.
Nel contesto generale ancora dominato dalle riprese
dei modelli tardo accademisti, un caso a parte per la
sua modernità è quello del monumento Stanescu, eseguito da Constantin Brancusi (1873-1957), pioniere
della scultura non figurativa, per il Cimitero “Dumbrava” di Buzau. Si tratta del gruppo funerario dedicato
alla memoria dell’avvocato Petre Stanescu,7 una committenza venuta dalla Romania. Si può pensare che la
modernità del monumento sia dovuta alla sua elaborazione a Parigi, centro dell’arte innovatrice.
Il complesso composto da due sculture – un personaggio femminile simbolico, La Preghiera e il busto del
defunto (figg. 10 e 11) – verrà concepito da Brancusi
nel suo studio di Impasse Ronsin dal 1907 fino al 1914.
Se l’idea basilare delle due sculture messe in dialogo
non si è modificata, invece la decantazione graduale
delle forme messe al servizio dell’idea si è concretizzata nella serie di varianti in cui la semplificazione delle
forme è sempre più evidente. Dagli studi di nudo eseguiti sul modello e attestati dalle foto fino alla sintetica
e pura silhouette della donna in preghiera, Brancusi
percorre infatti la sua propria strada: dalla scultura di
Rodin a una soluzione propria, fase di transizione
97
La scultura sepolcrale secessionista in Croazia
di Daina Glavocic
Lo splendore della forma
10. Constantin Brancusi,
La Preghiera,
Tomba di Petre Stanescu,
particolare, Bucarest,
Museo Nazionale d’Arte
della Romania
(da Barbu Brezianu,
Brancusi in Romania,
Bucarest, Alfa 2005)
11. Constantin Brancusi,
Tomba di Petre Stanescu,
Buzau, Cimitero Dumbrava
(da Barbu Brezianu, idem)
verso ciò che più tardi diventerà la geometria pura
della M.lle Pogany, dell’“Uovo”, dell’Uccello fatato.
Nell’arte cimiteriale, tra le due guerre mondiali, gli
scultori romeni si orienteranno prevalentemente verso
l’espressione del classicismo moderno, seguendo così
una linea stilistica di derivazione italiana.
98
1
2
3
4
Ispir, Mihai, Clasicismul in arta româneasca, Ed. Meridiane, Bucuresti 1984,
p. 95.
Esule nell’Occidente, Mihail Sturdza
ordinò anche altri marmi per la cappella funeraria che fece costruire a
Baden-Baden (1863, arch. Leo von
Klenze), rivolgendosi a Rinaldo Rinaldi
e a Gabriel Thomas (v. Ioana Beldiman,
Sculptura franceza in Romania (18481931), Bucuresti 2005, pp. 258-263).
Ostap, C., De la Gheorghe Asachi la
Scarlat Pastia…, in Cimitirul Eternitatea Iasi, Iasi 1995, pp. 10-12.
Nel 1957, l’originale, trasportato al
Museo Nazionale d’Arte, fu sostituito
nel cimitero da una sua copia. L’opera è
stata recentemente riportata all’attua-
5
6
7
lità della nota studiosa Antoinette
Romain, attraverso la mostra dedicata
all’artista (Musée d’Orsay 1997).
Così avviene con la tomba del medico
Paul Petrini, vegliata da un angelo firmato A. Rescaldani Milano, 1906, Fonderia Artistica/G.Piazza & Comp, o con
il mausoleo di George Assan, coronato
di una statua femminile in bronzo (E.
Cassi/Milano).
Verso 1870, Karl Storck apre con l’italiano Lepri un primo magazzino bucarestino dove si poteva commissionare e
acquisire il marmo di Carrara.
Attualmente, i due lavori che compongono il monumento del Cimitero
“Dumbrava” sono esposti al Museo
Nazionale d’Arte della Romania.
Il presente intervento rappresenta un breve riassunto
degli esempi più significativi della scultura Secessionistica dei cimiteri di Mirogoj a Zagabria, Cosala e Tersatto a Fiume, Sant’Anna a Osijek, nonché di alcuni cimiteri minori sulla costa e sulle isole dell’Adriatico (Abbazia, Bescanuova, Curzola, Lissa, Cavtat ecc.) in cui le
forme secessioniste sono appena intuibili o appaiono
in varianti rustiche. Bisogna sapere che la Secessione
ha lasciato in Croazia poche sculture pubbliche importanti e che molte città croate all’epoca si trovavano ai
margini degli influssi culturali e artistici europei, come
pure che essi vi penetravano con molto ritardo.
Al cimitero zagabrese di Mirogoj, massimo e più importante cimitero della Croazia, operarono i più celebri
scultori secessionisti croati formatisi a Vienna e Monaco di Baviera: Robert Frangeš-Mihanovic (1872-1940)
(fig. 1), Rudolf Valdec (1872-1929) e Ivan Meš trovic
(1883-1962), accanto ad alcuni meno noti (Oscar
Alexander, Branislav Deš kovic) (fig. 1), mentre nei
cimiteri minori delle piccole città venivano impiegati
scultori e scalpellini locali. Solo sporadicamente veniva-
99
Lo splendore della forma
1. Oscar Alexander,
Tomba Siebenschein,
Zagabria,
Cimitero Mirogoj
La scultura sepolcrale secessionista in Croazia
2. Tomba Kukovich,
Zagabria,
Cimitero Mirogoj
100
101
no invitati autori stranieri. Gli scultori più significativi
che operarono nelle suddette città, nelle loro creazioni, si riferirono specificamente alla Secessione, dato
che questa offriva alla scultura cimiteriale una ricca
gamma di temi e motivi iconografici adeguati, il repertorio era conforme alla funzione ed era ben accetto ai
committenti. Le figure femminili dalle forme dolci e
sinuose rappresentanti immagini funerarie patetiche,
addii, dipartite, pianti, corpi seminudi di donne in
balia all’impotenza della tristezza e allo stremo delle
forze, spesso vennero completati con dettagli simbolici
rappresentanti una fauna bizzarra (civette, pipistrelli,
serpenti) e una flora esotica (palma, alloro, edera,
rosa, papavero, campanellino, lappa) (fig. 2). Tutto ciò
favoriva lo specifico ambiente dell’isolamento del cimitero e della suprema meditazione legata a tali luoghi,
che lo stile secessionista mantenne sui monumenti
tombali croati dei territori marginali e periferici fino
alla Seconda guerra mondiale.
Il più vecchio e il primo scultore croato con titolo
accademico fu il dalmata Ivo Rendic (1849-1932) che
operò a cavallo dei secoli XIX e XX e trascorse la
maggior parte della propria vita lavorando presso l’atelier triestino per committenti italiani e croati. Si
specializzò nell’esecuzione delle sculture sepolcrali,
ma progettò pure tombe, cappelle e mausolei. Produsse le sue felici soluzioni, specie quelle in stile
Secessione (La Vestale addormentata, Credo, Meditazione,
Padre Nostro) in diverse varianti che troviamo in alcuni
cimiteri italiani (Sant’Anna a Trieste) e croati (Mirogoj a Zagabria, Cosala e Tersatto a Fiume, Abbazia,
Zara, Curzola, Orebic e altri). Abbracciò lo stile realista, naturalista, in alcuni momenti quello secessionista e, verso la fine dei suoi giorni, inventò una variante stilistica peculiare nel tentativo di creare uno stile
nazionale “jugoslavo”: “L’opera di Rendic è un museo
completo di ritratti e immagini e un cimitero intero
di monumenti sepolcrali”.1
Lo splendore della forma
3. Robert Frangeš,
L’Amore della madre,
Tomba Arko,
Zagabria,
Cimitero Mirogoj
102
Gli scultori zagabresi Robert Frangeš -Mihanovic e
Rudolf Valdec sono i rappresentanti della seconda
generazione di scultori croati a cavallo tra i secoli XIX
e XX che si inserirono direttamente nelle correnti allora più aggiornate della scultura europea, superando il
radicato accademismo locale e accettando la Secessione che dominava a Vienna e Monaco di Baviera, dove
studiavano. Frangeš (1872-1940) è il più convincente
nelle sue realizzazioni in stile Secessione perché, nei
suoi monumenti sepolcrali, rappresenta in rilievo
immagini che si fondono con lo sfondo (Amore materno,
sul Sepolcro della famiglia Arko (fig. 3) e La musa del poeta
su quello della Famiglia Tomic) o potenti figure maschili
simboliche, dai dolci volumi, influenzate da Rodin
(sepolcri Mayer, Miler e Vajda-Kulcar). La statua Tristezza
(1924/25) sulla tomba della famiglia Vajda-Kulcar è un
semplice personaggio inginocchiato con un gesto della
mano, mentre I due vecchi padri (1924) sulla tomba dei
La scultura sepolcrale secessionista in Croazia
Mayer è un capolavoro di monumento sepolcrale, pur
sempre simbolico, ma ancor oggi molto moderno per
il suo carattere sintetico.
Valdec (1872-1929) creò sculture e rilievi simbolici
modellati talvolta con forme realistiche ma anche
secessioniste (Amore - fratello della morte, 1897, Monumento Arco e Kugli nel cimitero di Mirogoj e L’angelo imprigionato, 1911 sulla tomba di S.S. Kranjcevic a Sarajevo).
Il misticismo e il pessimismo sono caratteristici delle
sue opere giovanili (Memento mori, 1898), ma proprio
nei monumenti sepolcrali raggiunse un’espressiva
decoratività secessionista. Sulla tomba di Franjo Racki
(1901) troviamo il ritratto del defunto in bassorilievo
“assoggettato a una ricca stilizzazione lineare e a un’unione generale con gli elementi decorativi vegetali,
come pure con la rappresentazione grafica delle lettere. In esse Valdec ha raggiunto lo spirito universale
ornamentalistico della Secessione in cui la linea, il
piano e l’arabesca diventano fenomeni affini”.2
Ivan Meš trovic (1883-1962), dopo aver terminato gli
studi a Vienna, al suo ritorno a Zagabria accelerò il
processo di acquisizione della nuova arte secessionista
in Croazia a cavallo tra i secoli, ma con la forza del suo
talento e l’intreccio delle varie esperienze (Secessione
viennese, Rodin, mitologia) riuscì a realizzare una propria via personale, una peculiare tradizione secessionista senza la quale non sarebbe esistito un ulteriore sviluppo della scultura croata. Egli fece propri gli elementi inconsueti e d’avanguardia del secessionismo: la
finezza, l’esoterismo dei simboli, la fusione delle forme
di Rodin e l’artificiosità delle decorazioni della Secessione viennese. Accettando solo una delle molteplici
tendenze del secessionismo, la stilizzazione sinuosa e la
forma piatta, nella sua opera ne sviluppò più tardi altre
raggiungendo alti traguardi nella scultura, che superarono di gran lunga i confini della Croazia.
Nonostante non si sia mai occupato di monumenti
sepolcrali su commissione, sono rimaste alcune sue
idee e opere in questo ambito (il monumento della famiglia Racic a Cavtat, 1920-1922, e il proprio mausoleo di
famiglia a Otavice, 1932). Alcune sue sculture minori
trovano posto nei cimiteri per la qualità o i temi d’oc-
103
Lo splendore della forma
104
casione. Malgrado la meravigliosa ubicazione del cimitero di Cavtat, sovrastante il mare, le pareti lucide, le
cariatidi e le decorazioni plastiche della cappella Racic
sono rilievi bidimensionali elaborati minuziosamente
con numerosi motivi piatti e zoomorfi in cui si riconosce la mano instancabile del grande maestro.
Agli inizi del XX secolo, nel periodo della Secessione, a
Fiume la situazione era diversa che nel resto della Croazia dato che, fino alla fine della Prima guerra mondiale,
la città si trovava sotto l’amministrazione ungherese,
seguita da quella italiana tra le due guerre, fino al 1945,
e la popolazione era orientata prevalentemente verso la
lingua e la cultura italiane. Gli influssi artistici penetravano dall’Italia più che da altri paesi limitrofi, come
pure gli autori che operavano accanto a numerosi scultori e scalpellini oggi sconosciuti. Da Trieste giungono a
Fiume gli scultori Giovanni Mayer, Ruggero Rovan, Giovanni Marin e da Milano Donato Barcaglia.
Ad eccezione di mausolei commissionati dai più
abbienti, la cittadinanza di ceto medio ordinava prevalentemente monumenti sepolcrali di dimensioni non
esagerate, dal punto di vista della forma, caratterizzati
da sculture a tutto tondo o con la lapide in rilievo.
Anche se nei tempi antichi era frequente la tradizione
di sistemare sulle tombe i busti dei defunti, il ritratto
venne scoperto in quanto adeguato tema sepolcrale
agli inizi del XIX secolo, quando la costruzione di
cimiteri cittadini venne regolata dalla legge. Si tentò
di rafforzare la neonata coscienza civica dei primi anni
del XX secolo e la posizione sociale raggiunta tramite
le attività proficue dei singoli, il lavoro e il guadagno
ottenuto in vita, per mezzo di busti o rilievi sulla
tomba, spesso accentuati da una lapide con scritta
relativa alla funzione, alla posizione sociale e alla professione del defunto. Alcuni busti furono completati
con rilievi narrativi in metallo o pietra (Chiopris, Belasich) che evidenziavano ulteriormente l'importanza
del defunto durante la sua vita e il suo status sociale
(tombe di Chiopris, Emilio Rupnik, Giovanni Ciotta). Fa
eccezione il grande mausoleo in pietra, in tre parti
(1900-1905) del produttore di siluri Robert Whitehead
realizzato, con l’arco di Olbrich, in stile Secessione
La scultura sepolcrale secessionista in Croazia
4. Giovanni Mayer,
Angelo della morte,
Tomba Steffula,
cimitero Cosala, Fiume
105
dall’architetto triestino Giacomo Zammattio e completato dal suo concittadino Giovanni Mayer con le sculture di una coppia di sposi distesi, in grandezza naturale, realizzata in marmo di Carrara.
La fiumana Ida Steffula, benestante ma senza eredi,
fece progettare il suo sepolcro al fiumano Giovanni
Randich, ma la soluzione stilistica liberty sulle orme
del Bistolfi è opera dello scultore triestino Giovanni
Mayer (fig. 4). Agli estremi del baldacchino supportato da due colonne fitomorfe (due tronchi dalle radici
nodose e i rami incurvati), sta seduto l’Angelo della
morte, in grandezza naturale, con le grandi ali abbassate. Si tratta di un’opera eccellente, dalla composizione inconsueta, di uno scultore esperto, anche se realizzata in pietra scadente.
Ivan Rendic realizzò in ambito fiumano più di venti
opere, solo alcune in stile Secessione, come ad esempio la Vestale addormentata (1914) (fig. 5) sulla Tomba
degli Smokvina a Cosala e sulla Tomba Tomašic ad Abba-
La scultura sepolcrale secessionista in Croazia
Lo splendore della forma
5. Ivan Rendic,
La Vestale addormentata,
Tomba Smoquina,
Cimitero Cosala,
Fiume
106
zia. Il motivo piacque tanto ai committenti dell’epoca
che lo dovette ripetere per ben sei volte. La koinè particolare degli elementi stilistici decorativi dello storicismo, ma con prevalenti caratteristiche secessioniste fu
applicata da Rendic a Cosala, unita a un uso accentuato del colore, in due mausolei con cupola (Manasteriotti e Kopajtich-Battaglierini).
Accanto a Rendic, a Cosala operarono anche altri scultori fiumani come Domenico Rizzo, Ugo Terzoli (fig. 6),
Edoardo Trevese, scalpellini e alcuni laboratori (Albertini, Grubisich) che introdussero e applicarono la
nuova tecnologia e l’elaborazione meccanica in serie
dei monumenti, causando la graduale sparizione della
lavorazione a mano dei monumenti sepolcrali, che
diventano sempre più semplici e senza decorazioni.
Dai restanti cimiteri croati è possibile estrapolare solo
qualche esempio di scultura secessionista, perché la
maggior parte dei monumenti è realizzata in serie, con
minime variazioni nelle dimensioni o nei dettagli. Ne è
un esempio il cimitero di Sant’Anna a Osijek nel cui
ambito vanno annoverati gli scultori Eduard Hauser,
Payerle, Franjo Hendrich che produssero alcuni monumenti tipici con il motivo della piramide tronca, nonché Ante Slabicek, autore della tomba della famiglia
Ogrizek, con la scultura marmorea della Fede.
6. Ugo Terzoli,
Angelo della morte,
Tomba Kucich,
Cimitero Cosala,
Fiume
107
In Croazia, piccola terra ai margini dell’impero austroungarico, situata nel territorio di confine in cui si
mescolavano i nuovi influssi artistici dei centri culturali
mitteleuropei, con una tradizione radicata di centri
urbani ed espressioni rustiche di quelli rurali, la Secessione giunse con ritardo, ma quando venne accolta,
con numerose varianti locali, durò a lungo, fino alla
metà del XX secolo. Si tratta di un fenomeno comune
a tutte le terre di confine, ma non dev’essere per forza
un fenomeno negativo: talvolta può far nascere delle
soluzioni del tutto nuove, originali e contribuire a una
nuova via di sviluppo della prassi artistica.
1
2
Gamulin, Grgo, La scultura croata dei
secoli XIX e XX, ed. Naprijed, Zagabria
1999, p. 63.
Klicinovic, Božena, Secessione nella
scultura Croata in La Secessione in
Croazia, catalogo della mostra, MUO,
Zagabria, 2003-2004, p. 139.
La scultura funeraria nella Slovenia
di Sonja Žitko
108
I cimiteri urbani dell’Ottocento in Slovenia, con le loro
tombe e monumenti funebri, conservano il ricordo dei
defunti e offrono un’immagine speculare della società
urbana-borghese e della sua cultura. L’evoluzione dell’arte cimiteriale in Slovenia è collegata al contemporaneo plasmarsi della borghesia, allo sviluppo delle città
e delle industrie. Sino agli ultimi trent’anni del XIX
secolo predominavano monumenti architettonici
sepolcrali piuttosto modesti e rara era pure la scultura
funeraria. Nella seconda metà dell’Ottocento la tomba
assunse progressivamente il ruolo sociopolitico di
monumento quale rappresentazione di una borghesia
che andava prendendo coscienza di sé.1 Il cimitero
diventa l’ambiente privilegiato in cui la borghesia può
rendere omaggio agli illustri rappresentanti del proprio ceto2 e si sviluppa in una sorta di pantheon, uno
spazio consacrato all’identità nazionale, un luogo di
memoria individuale e collettiva.
La tomba diventò il simbolo della posizione sociale ed
economica della borghesia; con esso la borghesia si
autorappresentava e autoaffermava, nonché venerava i
La scultura funeraria nella Slovenia
suoi maggiori rappresentanti. Nel periodo in cui gli Sloveni si stavano affermando come nazione nell’ambito
della monarchia austro-ungarica, le tombe di alcuni
personaggi meritevoli assunsero il significato di monumento pubblico. E qui la scultura aveva suo grande
ruolo: la caratteristica monumentale fu ottenuta per lo
più con il ritratto del defunto, sia in forma di busto sia
come medaglione in bassorilievo. Tra i personaggi “eletti” troviamo i leader politici nazionali, ma soprattutto,
come avveniva del resto per i monumenti pubblici,
poeti e scrittori. L’erezione di questi monumenti, che
in parte supplivano alla carenza di quelli pubblici, costituiva una manifestazione della borghesia slovena e della
sua coscienza nazionale sia sul piano culturale che politico. Il primo monumento funerario con funzioni di
monumento pubblico fu dedicato al poeta sloveno
France Prešeren, assurto verso la fine del secolo a mito
e poeta nazionale. Il monumento lapideo che riproduce un’edicola – elemento tipico del paesaggio culturale
sloveno, fu solennemente inaugurato nel 1852 nel cimitero di Kranj (oggi Prešernov gaj). Sempre lì, nel 1873,
un altro monumento funebre fu dedicato al poeta
Simon Jenko. Oltre a essere più grande del monumento a Prešeren, quest’opera si distingue perché, accanto
all’insostituibile lira, è ornata da un bassorilievo con il
ritratto del poeta. Tenendo conto del fatto che gli Sloveni alla fine del XIX secolo e nel periodo antecedente
la Prima guerra mondiale erano riusciti a realizzare i
progetti monumentali che si erano prefissati, avevano
assunto carattere di monumento pubblico soprattutto
le tombe dedicate a personalità considerate controverse
sul piano politico nazionale. Rispecchia proprio questa
tendenza il monumento al poeta Simon Gregorč ič , eretto
nel cimitero vicino alla sua località natale, Vrsno, e
inaugurato con una grande cerimonia e un imponente
concorso di popolo nel 1908. In quest’opera, realizzata
in marmo di Carrara, lo scultore Anton Bitežnik (18691949) di Gorizia ha combinato l’effige del poeta con la
trasposizione di una poesia di Gregorčič che simboleggia la lotta degli Sloveni per l’emancipazione.3
Verso la fine dell’Ottocento e nel periodo antecedente
la Prima guerra mondiale, l’arte borghese nei cimiteri
109
Lo splendore della forma
110
conobbe un periodo di notevole espansione e con essa
anche la scultura funeraria. Questa branca dell’arte visse
quindi un periodo di grande fioritura, diventando uno
dei campi creativi più importanti per tutti gli scultori
dell’epoca. Successe lo stesso anche per gli scultori delle
generazioni successive; molti tra loro hanno creato in
quest’area le opere migliori. Particolarmente ricca e rappresentativa fu la scultura funeraria nei grandi centri
che avevano vissuto una crescita economica, come ad
esempio Lubiana (Ljubljana), Maribor, Celje, Capodistria (Koper) e altre città. Nella scultura funeraria troviamo sia prodotti di serie (per esempio galvanoplastica) e
lavori di scalpellini e officine locali, sia molte opere d’arte e originali scultori sloveni in vista, sia infine le opere
degli scultori provenienti da diverse città e regioni dell’impero e dell’Italia (tra gli altri I. Rendić, V. Tilgner, R.
Kauffungen, G. Ciniselli). In questo periodo erano attivi
numerosi scultori accademici sloveni (A. Gangl, I. Zajec,
F. Berneker, S. Peruzzi), che avevano studiato a Vienna,
dove avevano potuto osservare esempi nel Wiener Zentralfriedhof, il cimitero centrale della città. A Vienna
erano venuti anche a contatto con i nuovi orientamenti
della scultura in Francia, Italia e Germania. Nella scultura funeraria si trovarono a convivere il tardo storicismo
con i suoi predominanti stilemi neobarocchi, il realismo
“borghese” (accademico) ovvero il naturalismo, il simbolismo, l’Art Nouveau e lo Jugendstil, il nuovo classicismo, la Secessione viennese e l’espressionismo. I temi
iconografici di scultura funeraria corrispondevano ai
valori (in particolare il valore della famiglia) della
società borghese dell’Ottocento.4 Troviamo raffigurati
vedove e familiari affranti, personificazioni del dolore e
della separazione, della beneficenza,5 la descrizione illustrata delle opere e dei meriti personali dei defunti.6
Oltre alle immagini femminili dolenti, alle allegorie, ai
geni e agli angeli, è tutto un susseguirsi di figure del Cristo e della Madonna. I ritratti dei defunti, come rappresentazione personale e venerazione dell’individuo, sono
molto diffusi. Verso la fine dell’Ottocento, i ritratti
diventarono rappresentativi, spesso affiancati da attributi che denotavano il mestiere, i meriti e l’importanza
della persona ritratta. Rare sono invece le combinazioni
La scultura funeraria nella Slovenia
di ritratti con allegorie, come anche composizioni sceniche raffiguranti coppie di coniugi. Nel periodo di prevalente realismo accademico si riscontrano, a cavallo del
secolo, ritratti più spirituali e meditativi. In questo periodo al posto delle raffigurazioni autocelebrative della borghesia, come avvenuto sino ad allora, nella scultura
sepolcrale prendono corpo le nuove istanze del simbolismo, dello Jugendstil e della Secessione viennese tendenti a una più profonda spiritualità. Agli inizi del Ventesimo secolo la scultura funeraria a mano a mano si
liberò dei vincoli che la legavano all’architettura sepolcrale. Così le statue a figura intera e i busti divennero
creazioni plastiche autonome, che sino al termine della
Prima guerra mondiale non fecero che accrescere il proprio impatto monumentale.7
Il secondo periodo di grande fioritura della scultura
funeraria si ebbe tra i due conflitti mondiali. Certe
aree di alcuni cimiteri urbani possono dirsi delle vere
“gallerie di sculture all’aria aperta”, in particolare il
cimitero centrale di Žale a Lubiana. Nelle figure e nei
rilievi predomina il realismo espressivo, che da un lato
si manifesta mediante forme chiuse semplificate, dall’altro invece con forme più dinamiche. Gli scultori
(tra gli altri L. Dolinar, F. Kralj, T. Kralj, B. Kalin, Z.
Kalin, P. Loboda, F. Gorš e, F. Smerdu, K. Putrih) si
attennero più o meno ai temi iconografici tradizionali.
Frequenti sono le raffigurazioni di Maddalena, oltre a
vari temi religiosi come l’Ascensione, la Crocifissione o
la Pietà, mentre si riscontrano meno figure di angeli. A
figure dolenti, come donne o fanciulle, si affiancano
anche figure maschili. Molti tra loro indicano i tratti
individuali. Tra frequenti ritratti dei defunti durante
l’intero Novecento si affermano accanto ai ritratti realistici anche soluzioni più moderne.
Pregevoli sculture destinate ai sepolcri sono state realizzate anche da famosi scultori contemporanei (ad
esempio J. Savinš ek, S. Batič, J. Boljka, J. Pirnat). Si
tratta di sculture con un marcato carattere intimistico,
in forme scultoree pure, benché si possano individuare
anche forme astratte, di spiccata raffinatezza. Si tratta
per lo più di opere di piccole dimensioni, mentre
forme imponenti sono riservate ancora solo ai monu-
111
Lo splendore della forma
112
menti dedicati alle vittime delle guerre. È da mettere
in evidenza come alcuni scultori abbiano creato per le
tombe delle proprie famiglie o le tombe proprie opere
d’alto valore artistico e di grande forza espressiva.
L’esponente più valido della vecchia generazione, lo
scultore Alojzij Gangl (1859-1935), tra l’altro anche
ottimo ritrattista, eseguì il monumento al poeta Valentin
Vodnik a Lubiana (inaugurato nel 1889). Nel rilievo
marmoreo del 1896 per il monumento sepolcrale di Marija
Murnik (nel cimitero di Radovljica) l’artista, avvalendosi del suo indirizzo neobarocco, ha saputo evocare l’illusione di una scena teatrale: ha rappresentato un vecchio mendicante e una giovane orfana che piangono
sulla tomba della benefattrice morta. Il monumento è
indubbiamente la più valida opera tardo storicistica
dell’arte funeraria monumentale di quel periodo. 8
Gangl visse a Praga dal 1917. Nel 1934, un anno prima
della morte, realizzò una delle sue ultime opere, il
modello per la statua a figura intera del Cristo. L’opera
venne poi fatta fondere in bronzo dai suoi conterranei
e nel 1939 collocata come cenotafio nel cimitero di
Metlika, sua città natale, luogo in cui è stato anche
1. Alojzij Gangl,
Cristo - Viandante solitario,
1934, particolare,
Metlika, Cimitero
(foto Barica Flajnik Koželj,
Metlika)
La scultura funeraria nella Slovenia
2. Ivan Zajec,
Resurrezione (modello),
1910/1911
(Fototeca del Museo
Nazionale di Ljubljana)
113
sepolto. La figura maschile in atto di camminare, che
in una mano tiene dell’uva e delle spighe e nell’altra
un bastone da pellegrino, è intitolata Cristo - il viandante solitario (fig. 1). Quello del viandante – metafora
della vita come pellegrinaggio – era il motivo privilegiato dell’arte sepolcrale del XIX secolo; nel caso specifico si trasforma in una figura penetrante ed espressiva,
intrisa di sofferenza e dolore.
Lo scultore Ivan Zajec (1869-1952) deve la sua fama
soprattutto al monumento nazionale al poeta France Prešeren
(inaugurato nel 1905 a Lubiana). Il principale orientamento dello scultore era il realismo accademico, che in
Lo splendore della forma
La scultura funeraria nella Slovenia
4. Lojze Dolinar,
Tomba J.E. Krek, 1920,
Ljubljana, Cimitero di Žale
(foto Valentin Benedik,
Ljubljana)
3. Svetoslav Peruzzi,
Tomba Jurca, 1909 ca.,
Postojna, Cimitero
(foto Sonja Žitko, Ljubljana)
114
alcuni casi rese più moderno ricorrendo agli stilemi
delle nuove tendenze artistiche. Tra gli anni 1910 e 1911
a Trieste, dove all’epoca aveva uno studio, realizzò il
modello in gesso della Resurrezione (fig. 2). Il rilievo in
marmo di Carrara, alto più di tre metri, fu poi collocato
nella cappella di Ivan Majdič nel cimitero di Kranj (oggi
Prešernov gaj). Nell’elaborare la dinamica composizione delle figure lo scultore si è richiamato in parte allo
stile della Secessione, che si riflette nella delicata distinzione tra i corpi, nei drappeggi e nello sfondo in rilievo,
e in parte anche al liberty mediante le linee curve e la
ritmicità delle eleganti figure allungate. Le figure salgono verso la luce, alcune già liberate, benedette e leggere.
L’estasi senza tempo della figura femminile centrale è
mutuata dal repertorio dei motivi tipici del simbolismo.
Per la cappella di Fran Jurca nel cimitero di Postumia
(Postojna) Svetoslav Peruzzi (1881-1936) ha raffigurato
la moglie e il figlio dolenti del defunto (fig. 3). I due
personaggi, ritratti a figura intera e in grandezza naturale, sono stati scolpiti in marmo di Carrara negli anni
1908 e 1909. L’artista era votato al nuovo classicismo,
che nel 1905 dalla Germania era approdato anche a
Vienna. Questo indirizzo stilistico aveva sostituito nella
scultura sepolcrale le scene patetiche neobarocche con
elementi e motivi nuovamente ripresi dall’arte classica,
rispettando nel contempo l’esigenza di una semplificazione delle forme. Sebbene per questo gruppo scultoreo Peruzzi abbia potuto riallacciarsi tra l’altro alla
scultura funeraria tedesca del tardo XIX secolo, la sua
opera è caratterizzata da una eccezionale delicatezza.
La giovane donna e il fanciullo in abiti che si richiamano all’antico sono compresi in un lutto silenzioso.
Lojze Dolinar (1893-1970) è stato una vera potenza in
campo scultoreo, un artista eccezionalmente fecondo,
considerato il principale rappresentante della scultura
monumentale realistica. Nel 1920 al cimitero di Žale a
Lubiana ci fu lo scoprimento solenne del monumento
funebre del Dolinar dedicato a Janez Evangelist Krek,
sacerdote e uomo politico, promotore del movimento
cattolico-sociale in Slovenia. Le due sculture in pietra
del Carso, che tra l’altro rispecchiano le istanze della
Secessione e del monumentalismo, per le loro grandi
dimensioni e la grezza lavorazione sono state chiamate
“i giganti” (fig. 4). Rappresentano il popolo sottomesso, liberato dal riformatore, e il compianto per il
defunto, di cui sottolineano il potere e l’importanza.9
A France Gorše (1897-1986), valente artista orientato
verso un moderato realismo, spetta un posto di rilievo
nel campo della scultura slovena. Probabilmente nel
1928 egli ha realizzato la statua marmorea della Maddalena quale monumento sepolcrale della famiglia Oražem
nel Cimitero di Žale a Lubiana. La figura femminile,
plasticamente essenziale ed espressiva, rivela il profondo sentimento religioso dello scultore (fig. 5).
115
Lo splendore della forma
La scultura funeraria nella Slovenia
6. Janez Boljka,
Monumento alla memoria
degli internati, 1965,
Ljubljana, Cimitero di Žale
(foto Valentin Benedik,
Ljubljana)
5. France Gorše,
Tomba Oražem, 1928 ca.,
Ljubljana, Cimitero di Žale
(foto Valentin Benedik,
Ljubljana)
116
In particolare nel cimitero centrale di Žale a Lubiana, ci
sono numerosi cimiteri militari dove sono sepolti soldati
sloveni, italiani, austriaci e tedeschi di entrambe le guerre. Gran parte dei monumenti eretti nei sepolcreti dei
soldati e delle vittime di guerra è stata consapevolmente
collocata in zone destinate a parco, il che attesta lo stretto rapporto di collaborazione intercorso tra architetto e
scultore. L’ampio Parco ricordo degli ostaggi, dove sono
sepolti combattenti e ostaggi caduti durante la Seconda
guerra mondiale, è stato concepito dall’architetto Nikolaj Bežek nel 1955. Dieci anni più tardi nella parte occidentale del parco l’architetto Fedja Košir ha fatto collocare due monumenti dello scultore Zdenko Kalin (19111990). Il primo è dedicato agli ostaggi ed è costituito da
una colonna in granito con raffigurate in rilievo tre coppie di persone impiccate, il secondo è la Fontana della
vita, di forma esagonale, sui cui bordi si trovano tre coppie in bronzo di bambini e bambine intenti a giocare. A
nord del Parco degli ostaggi, in un’altra zona verde, è collocato il Monumento alla memoria degli internati (fig. 6),
opera dello scultore Janez Boljka (nato nel 1931), mentre l’area è sistemata in base al progetto dell’architetto
Fedja Košir. Autore di un gran numero di monumenti
pubblici e statue, Boljka è noto anche per gli originali
bronzi di animali e figure umane. Su uno scheletro di
rete alto tredici metri sono imprigionati i corpi appesi
di uomini torturati. L’insieme allude alle torri di guardia e ai reticolati dei campi di concentramento.10 Si tratta di uno dei monumenti più espressivi di Žale, scoperto solennemente nel 1965.
1
2
3
4
Reiter, C., Die Sepulkralskulptur, in 19.
Jahrhundert (Geschichte der bildenden
Kunst in Österreich, 5), hgg. G. Frodl,
München-Berlin-London-New YorkWien 2002, p. 513.
Cfr. Le Normand-Romain, A., Mémoire
de Marbre. La sculpture funéraire en
France 1804-1914, Paris 1995, p. 56.
Cfr. Žitko, S., Das Grabdenkmal als
Hommage und europäische Friedhofskunst von der Mitte des 19. Jahrhunderts bis zum Beginn des I. Weltkrieges
am Beispiel der Slowenen, in “Ars”, IIII/2002, pp. 185-199.
Cfr. Sborgi, F., Staglieno e la scultura
funeraria Ligure tra Ottocento e
5
6
7
8
9
10
Novecento, Torino 1997, pp. 356-357.
Cfr. Sborgi, Staglieno cit., p. 341.
Reiter, C., Die Sepulkralskulptur cit., p.
513.
Kitlitschka, W., Grabkult & Grabskulptur in Wien und Niederösterreich, St.
Pölten-Wien 1987, p. 67.
Žitko, S., Historizem v kiparstvu 19. stoletja na Slovenskem [Historicism in
19th century Sculpture in Slovenia],
Ljubljana 1989, pp. 81-83.
Čopič, Š., Lojze Dolinar, Ljubljana 1985,
p. 23.
Čopič, Š, Prelovšek, D., Žitko, S., Outdoor sculpture in Ljubljana, Ljubljana
1991, pp. 146-147.
117
LE CITTÀ E LE REGIONI
La statuaria del Cimitero Saint-Pierre di Marsiglia
di Régis Bertrand
Il cimitero Saint-Pierre di Marsiglia, creato nel 1853, è il
cimitero “monumentale” della città nato in seguito ai
grandi lavori di urbanizzazione che trasformarono Marsiglia sotto il Secondo Impero. Esso era stato preceduto
dal cimitero Saint-Charles, il quale funzionò fino a metà
degli anni Sessanta del XIX secolo, venendo in seguito
smantellato perché circondato dalle abitazioni. Una
parte delle sue tombe venne allora trasferita al cimitero
Saint-Pierre, il quale vanta così la particolarità di conservare monumenti precedenti alla sua creazione.
Le fotografie di molti sepolcri scolpiti nel grande cimitero marsigliese sono state pubblicate da Michel Vovelle, Philippe Ariès e Franco Sborgi; tuttavia, l’inventario
della sua statuaria è lungi dall’essere completato. Si
tratta di un lavoro particolarmente difficile a causa dell’ampiezza dello spazio cintato – tra i più vasti di Francia, 66 ettari – e della quantità di sculture, la cui qualità
artistica è molto variabile: una parte considerevole di
statue deriva da una produzione di fusioni seriali o
dalla ripresa di modelli stereotipati (caso quest’ultimo
di buona parte della statuaria religiosa).
121
Lo splendore della forma
Tale statuaria ben rispecchia quella della città dei vivi
fra il 1840 e il 1930, con la sola differenza che nel cimitero non si trova l’equivalente delle commesse pubbliche fatte dalla municipalità o dallo Stato a celebri scultori parigini; la scultura funeraria è opera di artisti
marsigliesi e di artisti che a Marsiglia hanno soggiornato o si sono stabiliti. Fra il Secondo Impero e il periodo
fra le due guerre questi artisti lavorano contemporaneamente per la città dei vivi e dei morti, scolpendo le
tombe, le facciate delle case e delle chiese, realizzando
statue commemorative per piazze e giardini, ornando
di effigi le fontane ed eseguendo bassorilievi e statue
per i sepolcri del cimitero.
122
La statuaria del Cimitero Saint-Pierre di Marsiglia
uno scultore italiano che non avrebbe soggiornato a
Marsiglia se non per pochi anni; senza dubbio un
membro dell’omonima famiglia di artisti palermitani.
Stabilitosi in città nel 1850, si fa notare scolpendo tre
statue imponenti per la facciata della chiesa SaintThéodore-les-Récollets; realizza inoltre, nel cimitero,
gli altorilievi della Tomba Melchion. Quest’opera, di
grande qualità e d’ispirazione canoviana, pare sia stata
tenuta in alta considerazione dai contemporanei.
Alla fine del Secondo Impero, Pierre Travaux (18221869) – artista parigino venuto a Marsiglia per lavorare
alla decorazione del palazzo di giustizia – scolpisce per
la Tomba Barbaroux il gruppo La Religion consolant la
douleur (fig. 2), che fu molto ammirato all’inizio della
Terza Repubblica. Travaux muore subito dopo l’esecuzione del gruppo che viene così considerato il suo capolavoro. Come la precedente, l’opera costituisce una professione di fede dal valore pedagogico e contribuisce a
cristianizzare fortemente il paesaggio del cimitero.
Il cimitero sembra rappresentare in seguito una sorta
di sfida nella carriera di uno dei principali scultori pro123
1. Rosario Bagnasco,
Tomba Melchion
2. Pierre Travaux,
La Religione consola
il Dolore, Tomba Barbaroux
L’allegoria, dal neoclassicismo all’accademismo tardivo
Una prima generazione di scultori, fra il 1830 e il 1860,
è fortemente influenzata dall’arte neoclassica e ha
lasciato soprattutto allegorie femminili.
(fig. 1) Rosario Bagnasco sembra essere il primo artista
ad aver apposto il suo nome, in maniera abbastanza
visibile, sulle opere eseguite nel cimitero. Si tratta di
Lo splendore della forma
venzali di fine secolo, André Allar (1845-1926), grand
prix di Roma nel 1869, che lavora contemporaneamente a Parigi (viene eletto all’Académie des Beaux-Arts
nel 1905), a Marsiglia (fontane Cantini e Estrangin) e
Tolone (cariatidi del museo, fontana della Federazione). Forte della sua notorietà, Allar non realizza (o
quanto meno non firma in maniera evidente) che tre
opere al cimitero Saint-Pierre: eccezionali per materiale impiegato (marmo di Carrara), dimensioni e ubicazione. La migliore è senza dubbio l’altorilievo L’Âme à
Dieu (tomba di Lazare Bonnet, 1886), eretto su di
un’alta stele (fig. 3).
La statuaria del Cimitero Saint-Pierre di Marsiglia
4. Auguste Carli,
Tomba Famiglia
Pau St. Martin
124
125
3. André Allar,
L’Anima verso Dio,
Tomba Lazare Bonnet,
1886
Appartenente alla generazione seguente e secondo
grand prix di Roma è Augusto Carli (1868-1930): lo
scultore più ammirato a Marsiglia dai primi decenni
del XX secolo. Nel cimitero scolpisce molte opere di
maggior rilievo, in particolare Vers l’infini (fig. 4),
imponente effige femminile che s’invola verso i cieli e
che rinnova il tema dell’ascesa dell’anima. Sistemata
sulla Tomba Pau di Saint-Martin, essa fu innanzitutto
esposta al Salon del 1913. Negli anni Venti del Novecento, dopo la guerra, Augusto Carli e suo fratello
Francesco (1872-1957) eseguiranno delle patetiche
figure di donne dolenti, spesso associate a croci. La
fede nell’aldilà è resa in maniera esplicita in queste
opere di Allar e Carli, proprio nel momento in cui la
Francia conosce un periodo di lotte anticlericali e una
tendenza alla disaffezione religiosa.
La rappresentazione dei morti, dal realismo all’“iperrealismo”
Fino alla fine del XIX secolo, la rappresentazione dei
morti attraverso medaglioni o busti è stata prima di tutto
riservata a qualche notabile e, soprattutto, a scrittori e
artisti. A partire dagli anni Novanta dell’Ottocento busti
e medaglioni sono dedicati ai morti per cause oscure e
ai bambini, giungendo ad avere, insieme ai ritratti in
piedi, una grandezza fino ad allora inusitata.
Lo splendore della forma
5. Fratelli Carli (?),
Replica della Tomba Oneto
di G. Monteverde
La statuaria del Cimitero Saint-Pierre di Marsiglia
6. Buselli - Henri Reybaud,
L’ultimo bacio,
Tomba Antonin Lains
126
127
(fig. 5) La personalizzazione delle statue rimane tuttavia discreta quando, a ricevere i tratti di giovani defunti, sono le figure di angeli o di dolenti. Particolarmente
significativa è l’interpretazione marsigliese dell’angelo
con la tromba della Tomba Oneto, realizzata da Giulio
Monteverde (1882) nel cimitero di Staglieno a Genova;
essa differisce dall’originale nel viso. Questa bella
opera, apparentemente non firmata, potrebbe essere
attribuita all’atelier dei fratelli Carli; considerata l’origine ligure dei Carli, a essi potrebbero anche riferirsi i
due gruppi dell’Envol de l’âme, entrambi ispirati alla
celebre opera di Fabiani nel cimitero di Genova.
La rappresentazione realista così come quella iperrealista
del defunto si diffonde a partire dagli ultimissimi anni
del XIX secolo e giunge al suo apice dopo la guerra del
1914-1918, la quale determina la comparsa di qualche
statua in piedi (e, in un caso, equestre) dei combattenti.
Il monumento più celebre e più sovente riprodotto nel
cimitero è la Tomba Lains, detta Le dernier baiser. Sul
livello inferiore, troviamo la rappresentazione di una
giovane donna sul letto di morte, abbracciata con fervore da un uomo; sul registro superiore, la defunta è
accolta in cielo da un angelo. Il gruppo superiore è
opera di Henri Reybaud (1871-?), autore di molte
opere a Marsiglia e dintorni. Reybaud ha potuto subappaltare in Italia la realizzazione del gruppo inferiore,
che porta la firma discreta di Buselli (altrimenti sconosciuto a Marsiglia). Le dernier baiser non ha cessato di
essere criticato da alcuni visitatori del cimitero che lo
hanno giudicato shoccante (fig. 6).
La cappella neogotica della famiglia Joseph Gauthier
(figg. 7 a-b) è decorata agli angoli da quattro nicchie,
nelle quali si trovano le statue in piedi di un’anziana
donna, di un poilu* (soldato della prima guerra mondiale) e, sul lato posteriore, di due donne le cui figure
inquadrano il busto di un uomo d’età matura. La ricer* Letteralmente “villoso”: soprannome dato ai soldati francesi della Prima guerra
mondiale (N.d.T.).
Lo splendore della forma
7. Tomba della famiglia
Joseph Gauthier
La statuaria del Cimitero Saint-Pierre di Marsiglia
7a. Tomba della famiglia
Joseph Gauthier
(particolare)
128
129
ca di dettagli pittoreschi tende a rendere divertente
questa volontà d’immortalare nella pietra un’intera
famiglia. Una firma parzialmente leggibile ma poco
visibile sembra permettere l’attribuzione delle statue di
questo sepolcro a Louis Botinelly (1883-1962), autore
di numerose sculture nel territorio regionale. Non è da
escludere che egli abbia considerato tali lavori realisti
“di sussistenza” e dunque non necessariamente annoverabili nella sua opera.
La crisi della scultura funeraria
Gli anni 1920-1950 conoscono un forte sviluppo delle
effigi scolpite – in particolare realiste – ma esprimono
anche una certa crisi dell’arte funeraria, ben evidente
in due opere.
Les voix de la mer (1928), gruppo monolite che costituisce il sepolcro Nivière (fig. 8), è senza dubbio il capolavoro di Paul Gondard (1884-1953), l’opera nella quale
questo artista abile e dall’ineguagliabile ispirazione ha
meglio saputo infondere la sua ricerca di poesia. Ma si
tratta anche di un’opera d’arte, presentata come tale
(il titolo è inciso sulla cornice inferiore), dal senso
poco esplicito e personalizzata in modo poco felice dall’aggiunta del volto del morto a lato del gruppo.
La Tomba della famiglia Brachet (fig. 9), eseguita da uno
dei più importanti scultori marsigliesi di metà Novecento, Antoine Sartorio (1885-1988), testimonia l’impasse di
una rappresentazione rassomigliante, che può essere
associata alle ricerche ieratiche e di staticità tipiche del
periodo fra le due guerre. Sul sepolcro sono rappresentati due fratelli attorno alla sorella invalida. L’opera è
stata realizzata quando l’ultimo dei tre fratelli era ancora vivente. Alla fine della sua vita, Sartorio incluse questa tomba nella serie dei lavori che non si augurava di
veder ricordati nella propria opera artistica.
Dalla seconda metà del XX secolo, le ricerche dell’arte
statuaria “contemporanea” pongono, a quanto pare,
alcuni problemi ai committenti. I principali artisti marsigliesi di ultima generazione non lavorano che eccezionalmente ai sepolcri, come nel caso in cui debbano
Lo splendore della forma
La statuaria del Cimitero Saint-Pierre di Marsiglia
8. Paul Gondard,
Les voix de la mer,
Tomba Nivière
9. Antoine Sartorio,
Tomba della
famiglia Brachet
130
131
realizzare dei monumenti urbani. César (1921-1998)
non ne realizza nessuno per il cimitero, così come
François Boucher (1924-2005). Tuttavia, la rappresentazione dei defunti sotto forma di statua eretta sopravviverà quasi fino ai nostri giorni: celebrità locali pietrificate dalla pietà familiare (il boxeur Ray Grassi, 1953,
statua in piedi in marmo di Carrara), adolescenti o
anziani in pose familiari. L’attardato realismo esprime
qui il dolore davanti al dramma: l’epitaffio ricorda la
morte “sul ring” di Ray Grassi mentre altre iscrizioni
rivelano incidenti d’auto, di sci o d’aereo.
Ciò va sottolineato per il contrasto con la discrezione e
il quasi anonimato delle tombe della maggior parte
degli uomini illustri di Marsiglia, i quali però beneficiano per lo più di un monumento nella città dei vivi: è
così per il musicista E. Reyer, per lo scrittore E.
Rostand o per i pittori A. Monticelli e C. Camoin. Si
noterà anche che davvero poche, fra le grandi famiglie
di armatori e industriali, hanno ornato le proprie
tombe con statue colossali o con sculture artistiche. La
commissione di statue sembra piuttosto riguardare
marsigliesi agiati che avevano riser vato una somma
importante alla commemorazione di un defunto a loro
caro. Ciò che ne deriva è senz’altro la personalizzazione e l’espressività crescente della statuaria, che rappresenta spesso un morto o una defunta scomparsi prematuramente o in modo tragico.
Il cimitero di Marsiglia può essere rappresentativo dei
grandi cimiteri urbani francesi e e gli sviluppi che vi si
sono verificati sembrano poter essere riscontrati altrove. Si tratta anche di un buon riflesso della creazione
statuaria della città e della sua regione, cosa che
dovrebbe indurre ancor più a preservare le sue tombe
artistiche dai danni del tempo e degli uomini.
Traduzione Luca Bochicchio
L’evoluzione della scultura nei cimiteri parigini
di Christian Charlet
L’evoluzione della scultura nei cimiteri parigini
1. Tomba del Dragone,
Parigi,
Cimitero del Père-Lachaise
132
Attualmente, nei venti cimiteri di Parigi, si può contare
un numero elevato di opere d’arte a ornamento delle
tombe; tale proliferazione di sculture di ogni sorta (statue, personaggi seduti o stesi, figure giacenti, busti,
medaglioni ecc.), realizzate in diversi materiali
(marmo, pietra, bronzo ecc.), non è frutto di una
volontà d’introdurre l’arte scultorea nei cimiteri parigini al momento della loro creazione – all’inizio del 1800
– quanto il risultato di una lunga evoluzione sviluppatasi progressivamente nel corso del XIX secolo.
In effetti, la nascita dei cimiteri è conseguente alla
nuova legislazione funeraria entrata in vigore nel
1804. In virtù delle nuove regole i cimiteri sono
ormai municipali e laici e non confessionali e parrocchiali, come erano prima della Rivoluzione del 1789;
inoltre, accanto alle fosse comuni tradizionali nelle
quali, nel 1804, viene ancora seppellito l’80% circa
dei defunti, i nuovi cimiteri possono prevedere concessioni private sulla base delle quali i proprietari
hanno la possibilità di edificare monumenti.
I primi fra questi (qualcuno ancora esistente al St. Pier-
133
re di Montmartre e al Père-Lachaise) sono estremamente semplici: una pietra tombale o una stele con
iscrizioni che qualche anno più tardi si troveranno
abbinate. Non è ancora pensabile decorare i sepolcri
con sculture sontuose analoghe a quelle custodite nelle
chiese; queste opere caratterizzano le tombe di re e
personaggi celebri che un tempo, in Francia, venivano
sepolti nelle chiese, al contrario del popolo che trovava
posto nelle fosse comuni dei cimiteri parrocchiali
(necropoli reale di Saint-Denis, chiesa di Brou, cappelle d’Eu e d’Anet ecc.).
La più antica scultura funeraria conosciuta in un cimitero parigino risale al 1809. Si trova al Père-Lachaise, su un
monumento eretto in memoria di un sottufficiale dei
dragoni (fig. 1) morto nel 1807 durante le campagne di
Lo splendore della forma
L’evoluzione della scultura nei cimiteri parigini
2. Cappella Greffulhe,
Parigi,
Cimitero del Père-Lachaise
3. Tomba di Eloisa e Abelardo,
Parigi,
Cimitero del Père-Lachaise
4. Auguste Préault,
Il Silenzio,
Tomba Jacob Roblès,
Parigi,
Cimitero del Père-Lachaise
134
Napoleone I nelle pianure della Prussia orientale e della
Polonia. Si tratta di un cenotafio che glorifica il valoroso
soldato attraverso un lunghissimo epitaffio, con il defunto raffigurato in abiti militari entro un medaglione: l’uniforme, l’elmetto ecc. completati da sciabola e fucile,
sono raffigurati isolatamente in modo da circoscrivere la
figura di una donna in lacrime, raccolta con dolore su di
un’urna. Questa prima figura di dolente sarà seguita da
molte altre, fino all’epoca contemporanea.
Nel 1813 la morte di Alexandre Brongniart, architetto
della Borsa e del Père-Lachaise, presenta l’occasione
al figlio di far ornare la tomba del padre con diverse
sculture quando, dai disegni della cappella Greffulhe
(fig. 2) del 1810 e da quelli della tomba Delille risalenti a qualche settimana prima della sua scomparsa,
sappiamo che Alexandre Brongniart privilegiava
un’architettura funeraria grandiosa ma priva di sculture. La tomba di Brongniart, che unisce pietra tombale e stele, presenta su quest’ultima diverse sculture
di buona fattura, fra le quali la rappresentazione in
medaglione della Borsa di Parigi (il suo capolavoro),
alcuni simboli funerari come la clessidra e le fiaccole,
una lampada a olio e una gru pitagorica su un altare,
così come l’Architettura in lacrime che lascia cadere
il suo compasso.
Se si confronta quest’ultima allegoria con l’Architettura scolpita tre quarti di secolo più tardi da Barrias per
la tomba di Guérinot (Père-Lachaise), è possibile misurare la portata dell’evoluzione.
135
Fino alla fine dell’Impero (1814-1815), tombe come
quella del Dragon e di Brongniart resteranno eccezioni. Si può nondimeno citare quella del bronzista
Ravrio al Père-Lachaise, che introduce il primo busto
in metallo (1814).
In effetti, è il trasferimento dei resti (o supposti tali) di
Molière e di La Fontaine, così come anche di Eloisa e
Abelardo al Père-Lachaise (fig. 3) nel 1817, che darà il
via a composizioni architettoniche di una certa estensione, il più delle volte ornate da sculture per le quali
si ricorrerà ai più grandi artisti dell’epoca (fig. 4), fra i
quali David d’Angers, spesso chiamato a intervenire.
Sempre al Père-Lachaise, la famiglia di un ricco mercante chiamato Garreau ha appena fatto eseguire – o commissiona nello stesso periodo – allo scultore Milhomme
una splendida figura di dolente in marmo (fig. 5) che
servirà da modello a numerose composizioni future.
Il movimento era stato così lanciato: prestigiose tombe
inglobanti architettura e scultura si succedono al Père-
Lo splendore della forma
5. Milhomme,
Pleureuse, Tomba Gareau,
Parigi,
Cimitero del Père-Lachaise
136
Lachaise prima di diventare esempi imitati nei cimiteri
di Montparnasse e Montmartre, rispettivamente aperti
nel 1824 e 1825. Tombe in marmo con motivi militari
per il maresciallo Pérignon e suo genero – il generale
Rogniat – così come per il generale di Valence; statua in
bronzo per l’archeologo Vivant Denon, realizzata da
Cartellier, la cui tomba di marmo sarà a sua volta decorata da allegorie scolpite dai suoi allievi (Rude, Dumont,
Petitot…); in seguito, la tomba di Pradier, altro scultore
celebre, sarà ugualmente onorata da molti dei suoi allievi, fra i quali Etex; tombe grandiose dei marescialli Massena (obelisco con busto scolpito da Bosio), Lefevre e
Suchet (composizioni di David d’Angers) e dell’ammiraglio Decrès, con scene navali scolpite da Merlieux.
Sotto la Monarchia di Luglio e il Secondo Impero, il
Père-Lachaise si popola di sculture che gareggiano in
qualità artistica e, nel contempo, di monumenti di ele-
L’evoluzione della scultura nei cimiteri parigini
6. Tomba Bègue detto
Magloire, Charonne,
Cimitero
vata grandezza: tombe del Géneral Foy e Casimir
Perier, con sculture di Beaujour e Demidoff.
A Montparnasse e Montmartre, quando appaiono le
prime sculture, non esistono costruzioni di ampiezza
comparabile. Vi si trovano busti e medaglioni, bassorilievi (tomba Lisfranc a Montparnasse) sul modello del
sepolcro impressionante del Général Gobert al PèreLachaise, o ancora dei giacenti (Cavaignac di Rude,
Baudin di Millet, Kamienski di Franceschi a Montmartre) a imitazione di quelli di Eloisa e Abelardo.
Nella seconda metà del XIX secolo, mentre i bassorilievi
tendono a moltiplicarsi in misura minore, nelle sculture,
così come nei busti e nei medaglioni, il bronzo tende a
sostituire il marmo. Personaggi a grandezza naturale, in
piedi, seduti o giacenti, rimangono un’eccezione.
La moda delle cappelle favorisce la moltiplicazione dei
dolenti specialmente ad Auteuil (tomba Moiana) e al
Père-Lachaise (numerosi sepolcri fra i quali Menier e
Hautoy).
Nel 1860 molti piccoli cimiteri di centri storici collegati a Parigi iniziano a ricevere opere d’arte, in modo
particolare Passy, Auteuil, Saint-Vincent (a Montmar-
137
Lo splendore della forma
L’evoluzione della scultura nei cimiteri parigini
7. Auguste Clésinger,
La Musica piangente,
Tomba Chopin, Parigi,
Cimitero del Père-Lachaise
8. Cappella Yacouleff ,
Parigi,
Cimitero del Père-Lachaise
138
tre) e Batignolles. In alcuni casi, i sepolcri sono decorati con mosaici.
Fino alla guerra del 1914-1918, ciò che si può trovare
nei cimiteri parigini è una vera e propria collezione di
tutta la scultura del XIX secolo: medaglioni di Rodin
(César Franck a Montparnasse, Jehan de Bouteiller a
Passy), celebri giacenti di Dalou (Blanqui, Victor Noir al
Père-Lachaise) senza dimenticare i busti di David d’Angers (Balzac, Arago, Ledru-Rollin, al Père-Lachaise), il
sergente Hoff e gli Alsaziani di Bartholdi (Père-Lachaise
e Montparnasse), il fantasma di Madame Raspail e Géricault con la sua Zattera della Medusa eseguiti da Etex al
Père-Lachaise e via dicendo.
Occorre tuttavia segnalare un’opera eccezionale,
profondamente innovatrice: l’uomo-uccello dalla testa
di sfinge realizzato nel 1912 da Jacop Epstein per la
tomba di Oscar Wilde al Père-Lachaise.
L’art nouveau (Tomba Caillat decorata da Hector Guimard al Père-Lachaise) e l’art déco (la tomba del musicista Gabriel Pierné al Père-Lachaise) non sono assenti
dai cimiteri parigini ma il periodo fra le due guerre
non è molto propizio alla moltiplicazione delle opere
d’arte funeraria.
L’epoca contemporanea, che inizia all’indomani della
Seconda guerra mondiale, vede apparire nei cimiteri
parigini due categorie di opere d’arte ben differenti: da
una parte sculture destinate a ornare sepolcri individuali, sia d’ispirazione “classica” (Pietà di Francesco Messina per la Tomba Del Duca al Père-Lachaise o la copia
9. Tomba laotiana,
Parigi,
Cimitero del Père-Lachaise
139
della Pietà di Michelangelo per il sepolcro Pérény a
Passy), sia d’ispirazione risolutamente moderna come
le figurine di Brauner a Montmartre, tombe Zao-WouKi, César (centauro) e animali (uccello e gatto) di Niki
de Saint-Phalle (fig. 10) a Montparnasse; dall’altra
parte, sculture estremamente realistiche e al tempo stesso simboliche, riservate a monumenti alla memoria collettiva, come quello alla Deportazione (campi di concentramento e di sterminio) e quelli ai Combattenti
stranieri morti per la Francia (Père-Lachaise) (fig. 11).
Questi memoriali collettivi trovano un precedente, a
partire dal 1899, nel Monumento ai morti di Bartholomé
(Père-Lachaise) che afferma il carattere collettivo di
certe opere d’arte che non traducono più in maniera
fedele i primi monumenti ai caduti militari eretti dopo
la guerra del 1870.
Lo splendore della forma
Arte scultorea nei cimiteri di Vienna
di Werner Kitlitschka
10. Niki de Saint-Phalle,
Uccello, Parigi,
Cimitero di Montparnasse
140
Questa breve esposizione rende soltanto in minima
parte l’idea della ricchezza dei cimiteri parigini in
materia di arte funeraria, sculture e architettura. Per
questo, i tre più importanti fra di essi (Père-Lachaise,
Montparnasse e Montmartre) e, a un livello minore, il
cimitero di Passy, possono essere considerati come veri
e propri musei a cielo aperto.
Traduzione Luca Bochicchio
11. Memoriale ungherese di
Imre Nagy,
Parigi,
Cimitero del Père-Lachaise
Le tombe disegnate con finalità artistiche dagli artigiani e dagli scultori sono una parte essenziale del nostro
patrimonio culturale. Per tutto il XIX secolo, oltre ai
cambiamenti nei simboli e nelle statue usate per adornare le tombe, subirono un grande mutamento anche i
materiali impiegati.
Mentre all’inizio del secolo scalpellini e clienti preferivano l’arenaria gessosa e la silice – il che è ben documentato dai sepolcri nel cimitero di St. Marx – le
tombe in marmo iniziarono ad acquistare popolarità a
Vienna solo intorno al 1850. Le poche tombe in
marmo degli inizi del XIX secolo erano prerogativa di
una fascia molto selezionata della società, nobili prevalentemente. Dopo il 1820 iniziarono ad apparire a
Vienna le prime lapidi in marmo con iscrizioni, collocate su tombe realizzate con materiali più economici.
I solidi sepolcri in marmo così comuni dalla metà del
XIX secolo in poi non erano solo simbolo della ricchezza di un individuo o di una famiglia, ma esprimevano
anche una nuova, sfarzosa cultura funeraria e cimiteriale, quasi inesistente all’interno dei rigidi comportamen-
141
Lo splendore della forma
1. Viktor Tilgner (1875),
Allegoria della Scultura,
Cimitero centrale di Vienna
(foto MA 43)
2. particolare
142
ti religiosi che erano stati dominanti in precedenza. Nel
corso del XIX secolo un nuovo tipo di “venerazione dell’antenato” iniziò a svilupparsi, e la lapide del sepolcro
(che assumono sempre più importanza) e la tomba di
famiglia di nuova, monumentale concezione, ne divennero il solenne simbolo fisico. Oltre al marmo nero,
bianco e grigio venato, nell’ultima parte del XIX secolo
vennero utilizzati graniti multicolori e altre costose pietre calcaree. La fine del XIX secolo e gli inizi del XX
secolo sono caratterizzati anche dalla preferenza per
lussuose e, a volte, sofisticate combinazioni di materiali.
Le stele in pietra nera o grigia scura venivano spesso
combinate con figure in lutto realizzate in marmo bianco. Di sovente, per creare un’atmosfera e sentimenti di
lutto particolarmente profondi, si univa la pietra nera
con sculture in metallo scuro.
3. Monumenti,
Vienna, Zentralfriedhof
(foto Ingeborg Kitlitschka)
Johannes Benk
Friedrich Ritter
von Amerling
Stephan Schwartz
Rudolf von Eitelberger
Edmund von Hellmer
Hans Makart
Arte scultorea nei cimiteri di Vienna
4. Tomba Famiglia Matsch,
Vienna, Döblinger Friedhof,
1897/98
(foto Ingeborg Kitlitschka)
5. Tomba di Hans Makart,
m. 1884, Vienna,
Zentralfriedhof
(foto Ingeborg Kitlitschka)
Sontuosi tralicci, ornamenti e lampade votive venivano
impiegati per aumentare l’effetto dello scenario cimiteriale; di regola questi elementi erano realizzati in
ferro battuto e dipinti di nero. Dal 1870 circa ai primi
anni del XX secolo, durante l’ultimo periodo storicista
e lo jugendstil, le dimensioni e gli arredi dei sepolcri
iniziarono a crescere costantemente, secondo un processo guidato da una borghesia sempre più ricca e
prosperosa. Molti suoi membri erano interessati alla
costruzione di memoriali perenni e di epiche proporzioni per sé e per le loro famiglie per offrire una grande prova della ricchezza e dello stato sociale raggiunti
da tramandare ai parenti ancora in vita e al mondo
intero. Questo carattere monumentale dei sepolcri
risponde al desiderio di trovare l’immortalità attraverso ritratti scolpiti su medaglioni a mezzo rilievo, busti
tridimensionali, rilievi interi o statue.
Comunque già durante la Prima guerra mondiale questo tipo di sepolcro lussuoso e sontuoso venne gradualmente abbandonato. Si potrebbe considerare questo
fenomeno quasi una “riforma della tomba”, che fu
dovuta, e non in piccola parte, all’input di artisti come
l’architetto Josef Hoffmann e alcuni dei suoi discepoli e
colleghi insegnanti nella Scuola di Arte e Mestieri del
Museo Austriaco Imperiale e Reale di Arte e Industria a
Vienna. La produzione di massa del periodo tra le due
guerre fu largamente caratterizzata da tombe semplici e
di moderate dimensioni. Sono relativamente poche le
creazioni individuali e artistiche di alto livello che emer-
143
Lo splendore della forma
6. Carl Kundmann (1904),
Dr. Moriz Kaposi,
Cimitero di Döbling
(foto Ingeborg Kitlitschka)
7. Johannes Benk (1887),
Friedrich Ritter von Amerling,
Cimitero centrale di Vienna
(foto Ingeborg Kitlitschka)
144
gono dal vasto numero di manufatti meccanicamente
prodotti in serie. Quasi tutti i sepolcri artisticamente
importanti di questo periodo sono il lavoro di scultori,
giacché gli architetti e gli scalpellini più ambiziosi ovviamente ritenevano che tali tombe di dimensioni ridotte
non avessero più alcun interesse. Questa cambiamento
si riflette nelle tombe degli anni Venti che non sono più
singole emergenze all’interno di un disegno architettonico di chiaro ordine progettuale complessivo.
Piuttosto, questo periodo e quelli successivi sono
dominati da file monotone e uniformi di sepolcri praticamente senza uno stile individuale emergente,
senza tombe artisticamente importanti. Al contrario,
la qualità artistica data alle tombe del XIX e dei primi
anni del XX secolo, fece del cimitero una entità composta da diversi elementi capaci di offrire una grande
varietà di esperienze estetiche. Tra i motivi della scultura funeraria della seconda metà del XIX e dei primi
anni del XX, il preferito e quello più frequentemente
utilizzato era l’angelo. Intorno al 1850, gli angeli
assunsero una varietà di posizioni standard, vennero
dotati di attributi fissi e iniziarono a rimpiazzare gli
antichi geni del lutto e della morte, tipici del periodo
classicista Biedermeier. Come mostra la crescente
popolarità della croce come motivo dominante del
sepolcro, durante la prima parte del regno dell’Imperatore Francesco Giuseppe I, ci fu la moda di arricchire i sepolcri con simboli esplicitamente religiosi.
Le immagini che decorano innumerevoli sepolcri e
Arte scultorea nei cimiteri di Vienna
8. Franz Melhitzky,
Tomba Josef Melhitzky,
1860 c., Vienna, Ottakrin
(foto MA 43)
9. Fidelis Kimmel,
Tomba Christof Demel,
1856, Vienna, Dornbach
(foto MA 43)
tombe testimoniano la particolare venerazione dell’epoca per Gesù e Maria, sebbene solo raramente un
nuovo linguaggio artistico si facesse largo fra modelli
espressivi convenzionali. La maggior parte delle tante
statue di Gesù fu ispirata alla monumentale statua nella
chiesa di Nostra Signora a Copenhagen; tale opera, con
le immagini degli Apostoli, è stata disegnata ed eseguita
da Bertel Thorvaldsen intorno al 1820. Una delle più
voluminose e allo stesso tempo delle più impressionanti
figure di Cristo fu creata dallo scultore Franz Melhitzky
intorno al 1860 per la tomba di suo padre nel cimitero
di Ottakring (fig. 8). La statua in zinco battuto, che
benedice l’osservatore con la mano destra e regge il
Libro delle Rivelazioni con la sinistra sembra quasi prorompere dalla nicchia situata in un arco nella piccola
slanciata cappella di granito grigio chiaro.
Mentre fra le tombe della seconda metà del XIX e del
XX secolo erano moltissime le statue e i rilievi raffiguranti Cristo, la Madonna e gli angeli, ben poche sono
le figure di santi. Sembra che la più diffusa sia una produzione in serie, in ferro battuto, di una Sant’Elena
(altrimenti identificata come la Fede) che indica il cielo
mentre tiene nelle mani una croce e un libro dei Vangeli. Stilisticamente quest’opera appartiene al classicismo Biedermeier e infatti si usava per decorare tombe
già dagli anni Trenta dell’Ottocento. Anche la tomba
di famiglia del ricco pasticcere Christof Demel, costruita
145
Lo splendore della forma
10. Johannes Benk,
Tomba Gustav Reichert,
m. 1895, Vienna, Hietzing
(foto MA 43)
11. Johannes Benk,
Tomba famiglia
Beyfus-Jacues-Grtibl,
m. 1898, Vienna, Hietzing
(foto MA 43)
146
nel 1856 nel cimitero di Dornbach, è ornata da una di
queste statue in ferro battuto di Sant’Elena. Disegnata
da Fidelis Kimmel, è collocata su una tomba a forma di
sarcofago di granito grigio chiaro (fig. 9).
Uno dei soggetti più versatili e popolari della scultura
funebre era la figura del genio, che poteva essere femmina, maschio o androgino. Mentre un angelo indicava legami religiosi, il genio emanava un’aura di sacralità misteriosa, segnalava l’assenza di un’appartenenza
religiosa e intendeva sottolineare il mistero della morte
e, allo stesso tempo, far comprendere, nella aulicità
l’importanza dei defunti e delle loro famiglie.
Johannes Benk, uno degli artisti più produttivi nel
campo della scultura funeraria, esplorò le possibilità artistiche del motivo del genio in diversi lavori, tutti datati a
partire dagli anni Novanta, collocati nel cimitero di Hietzing. Per esempio il genio neoclassico della tomba di
Gustav Reichert (morto nel 1895), che si appoggia su una
colonna troncata, tiene una corona d’alloro nella mano
sinistra, ed è completamente coinvolto dal lutto. La struttura a forma di altare con i rilievi raffiguranti i genitori di
Reichert, Johann (morto nel 1895) e Josefa (morta nel
1891) è decorata con un genio androgino che porta ghirlande di fiori in marmo (fig. 10). Nel gruppo scultoreo
che incorona la tomba della famiglia Beyfus-Jacques-GrtibI,
Benk inventa un genio femmina decisamente erotico che
bacia in fronte il ritratto del pittore Hermann Beyfus (m.
Arte scultorea nei cimiteri di Vienna
12. Rudolf Weyr,
L’Austria in lutto,
Monumento alle vittime
dell’incendio
del Ringtheatre del 1881,
Vienna, Zentralfriedhof
(foto MA 43)
13. Stephan Schwartz,
Tomba di Rudolf
von Eitelberger, m. 1885,
Vienna, Zentralfriedhof
(foto Ingeborg Kitlitschka)
1898) (fig. 11). Come per i geni, che non esprimono nessuna religione o filosofia, alle allegorie può essere data la
forma di donne e ragazze graziose, influenzando così
non solo l’effetto prodotto da singole tombe, ma quello
di intere sezioni di cimiteri. Le allegorie femminili e le
figure in lutto dotano talvolta i cimiteri di una particolare attrazione e forse anche di un richiamo erotico per i
visitatori maschi. Furono soprattutto artisti uomini a produrre figure femminili per decorare le tombe di altri
uomini, perpetuare la cultura maschile e offrire oggetti
per il loro consumo estetico. I corpi di donne e ragazze
erano soggetti a un’appropriazione artistica senza limiti,
che solo recentemente ha iniziato a essere sottoposta a
una riflessione critica. Di fatto, nessun altro prodotto artistico rispecchia l’immagine della donna nella società
patriarcale del XIX e XX secolo così vividamente come
le centinaia di statue femminili presenti nei cimiteri. Una
delle allegorie psicologicamente più interessanti – la città
di Vienna in lutto – fu creata da Rudolf Weyr per il
monumento funebre eretto nel cimitero centrale di
Vienna per le oltre trecento vittime del disastroso incendio del Ringtheatre dell’8 dicembre 1881. Alcune donne
velate portano un sarcofago sul quale riposa seduta una
pittoresca figura con un cartiglio decorativo e una ghirlanda con stemma (fig. 12).
La personificazione in bronzo della Storia dell’arte
sulla tomba del fondatore e primo direttore del Museo
Austriaco di Arte e Industria, Rudolf von Eitelberger
(morto nel 1885) (fig. 13) può essere considerata un
prototipo di queste amabili e altamente versatili figure
147
Lo splendore della forma
14. Johannes Benk (scultore),
Otto Hofer (architetto),
Tomba di Karl
von Hasenauer, m. 1894,
Vienna, Zentralfriedhof
(foto Ingeborg Kitlitschka)
15. Eduard Charlemont,
Tomba di Nikolaus Dumbe,
m. 1900, Vienna,
Zentralfriedhof
(foto MA 43)
148
allegoriche di ragazza. Sembra che questa tomba nel
Cimitero centrale, creata da Stephan Schwartz, corrispondesse precisamente alle aspettative di un pubblico
in gran parte maschile, offrendo un mix di stilizzazione
pseudo-rinascimentale, triste malinconia e sensualità
giovanile. È probabile che lo specifico linguaggio artistico di questo lavoro abbia offerto un modello proposto per molte altre sculture funebri di successo.
Per la tomba dell’architetto della Ringstrasse Karl von
Hasenauer (morto nel 1894) (fig. 14), situata nella sezione delle tombe importanti del Cimitero centrale, il suo
più vecchio collaboratore, Otto Hofer, disegnò una
stele circondata da mezze colonne tuscaniche con un
timpano incrinato e lo stemma dell’architetto. Il busto
in una profonda nicchia ovale, così come l’allegoria del
lutto dell’Architettura collocata su un piedistallo, furono scolpiti da Johannes Benk. Tutti gli elementi della
tomba sono così finemente equilibrati per quanto
riguarda forma, misura e colore che possiamo con sicurezza indicare questo monumento come uno dei punti
più alti nella storia dell’arte funeraria austriaca.
Nei primi anni del XX secolo Eduard Charlemont,
Josef Engelhart ed Edmund von Hellmer crearono
diverse statue originali che introdussero le ultime tendenze nello sviluppo dell’arte funeraria. Il primo prodotto di questo gruppo di lavori fu probabilmente il
bronzo del giovane camminatore nudo per la tomba
Arte scultorea nei cimiteri di Vienna
16. Josef Engelhart,
Tomba Famiglia Engelhart,
1903, Vienna,
Zentralfriedhof
(foto MA 43)
17. Josef Engelhart,
Tomba del pittore Rudolf
von Alt, m. 1905,
Vienna, Zentralfriedhof
(foto media wien)
dell’imprenditore e patrono delle arti Nikolaus Dumbe
(morto nel 1900) (fig. 15). A destra dietro la statua,
che sembra dirigersi verso un nuovo mondo, un pavone simboleggia l’immortalità e la transizione nell’aldilà, mentre un serpente modellato secondo la maniera naturalistica, che rappresenta l’eternità, è posizionato dietro il piedistallo.
Nel 1903 a questa scultura seguì il giovane addolorato
disegnato da Josef Endelhart per la tomba della sua
famiglia (fig. 16) e, pochi anni dopo, un altro suo
lavoro, la Tomba del pittore Rudolf von Alt (morto nel
1905), adornata da una statua che regge un ramo di
fiori nella mano destra e richiama l’Auriga di Delphi,
una delle sculture in bronzo più importanti della Grecia antica (fig. 17). Theodor Charlemont dedicò una
donna velata in lutto alla tomba del fratello, il pittore
Eduard Charlemont (morto nel 1906) (fig. 18). Tutti
questi lavori si trovano al Cimitero centrale di Vienna.
Due lavori del 1929 forniscono un linguaggio contemporaneo e una prospettiva moderna alla tradizionale
immagine della persona in lutto seduta sulla tomba:
Josef Josephu rappresentò l’attrice Paula Kálmán in
maniera strettamente naturalistica con abiti degli
anni Venti (fig. 19). Ma il realismo di questa scultura
in marmo al cimitero Grinzing è decisamente superato dalla tomba di Edith Rodling von Amann (che morì
nel 1923 a soli ventisette anni) al cimitero Dobling.
Nel 1929, la scultrice svedese Ida Carolina Thoresen,
residente a Parigi, creò un ritratto estremamente realistico del defunto sotto forma di una figura nuda di
149
Lo splendore della forma
Arte scultorea nei cimiteri di Vienna
18. Theodor Charlemont,
Tomba del pittore Eduard
Charlemont, m. 1906,
Vienna, Zentralfriedhof
(foto Ingeborg Kitlitschka)
19. Josef Josephu,
Tomba di Paula Kálmán,
1929, Vienna, Grinzing
(foto MA 43)
150
suggestiva sensualità in pietra calcarea lucida e scura
(fig. 20). Già all’inizio del XX secolo e in particolare
negli anni Venti un’accentuata tendenza al realismo
iniziò a manifestarsi nelle sculture dei sepolcri nei
cimiteri di Vienna.
Gradualmente emergevano anche aspetti politici e
sociali, sicché importanti lavori vennero dedicati al
mondo del lavoro e alla figura del lavoratore. Per
esempio, la scultura di Richard Luksch per la tomba di
Josef Scheu (morto nel 1904) situata nel Cimitero centrale (fig. 21) rappresenta un gruppo di persone che
intonano l’Inno dei lavoratori su testo dello stesso
Scheu. Un monumento funebre di speciale rilevanza
per quel periodo storico è la statua in bronzo del leader socialdemocratico Franz Schuhmeier che venne assas-
20. Ida Carolina Thoresen,
Tomba di Edith Rodling von
Amann, 1929,
Vienna, Dobling
(foto Ingeborg Kitlitschka)
21. Richard Luksch,
Tomba di Josef Scheu,
m. 1904, Vienna,
Zentralfriedhof
(foto MA 43)
22. Tomba di Franz
Schuhmeier, m. 1913,
Vienna, Ottakring
(foto MA 43)
sinato il 1° febbraio del 1913 e si trova nel cimitero di
Ottakring (fig. 22); i gesti di Schuhmeier invitano i visitatori verso la propria tomba. II tema principale di questa scultura non è dunque il passaggio del defunto
all’altro mondo né l’invocazione a ricordarlo, quanto
piuttosto un’esortazione all’impegno politico.
Con la madre che soffre rappresentata nel monumento funebre commissionato dalla Città di Vienna nel
1925, Anton Hanak abbandona il lutto per individui e
famiglie cui è dedicata la maggior parte delle tombe
151
23. Anton Hanak,
La Madre che soffre,
Monumento ai caduti della
Prima guerra mondiale,
Vienna, Zentralfriedhof
(foto MA 43)
Lo splendore della forma
La scuola di scultura di Berlino
di Sibylle Schulz
24. Fritz Wotruba,
Tomba di Selma
von Halban-Kurz, m. 1933,
Vienna, Zentralfriedhof
(foto MA 43)
152
del XIX e XX secolo e commemora invece, in modo
monumentale eppure espressivo, la sofferenza di
milioni di persone durante la Prima guerra mondiale
(fig. 23). Influenzato da Anton Hanak, Friz Wotruba
optò per un concetto artistico particolarmente severo
scegliendo negli anni Trenta di tornare a un linguaggio formale arcaico per esprimere una profonda internazionalizzazione combinata con un nuovo concetto
di monumentalità della figura umana.
La figura femminile reclinata con gli occhi chiusi, scolpita per la tomba della cantante d’opera Selma von Halban-Kurz (morta nel 1933) (fig. 24) situata nel Cimitero centrale, sembra che formi parte di una nuova
realtà alla quale si può accedere solo tramite la morte.
Infine, ma non ultima per interesse artistico, va segnalata la scultura creata da Alfred Hrdlicka nel suo tipico
e potente stile per la propria tomba di famiglia nel
Cimitero centrale di Vienna, dove è sepolta sua moglie
(fig. 25).
25. Alfred Hrdlicka,
Tomba della famiglia
Hrdlicka, 1965, Vienna,
Zentralfriedhof
(foto Peter Hirsch)
L’opera degli scultori berlinesi tra il XVIII e il XIX
secolo raggiunse una fama mondiale ed è legata a
nomi come Andreas Schluter (1660-1714), Johann
Gottfried Schadow (1764-1850), Christian Daniel
Rauch (1777-1857), Reinhold Begas (1831-1911) e
Heinrich Pohlmann (1839-1917).
Nonostante le due Guerre mondiali, le divisioni politiche della città, i danni considerevoli dovuti alle condizioni climatiche e alle influenze ambientali, i cimiteri
ecclesiastici in special modo si sono preservati e numerose opere d’arte sono ancora in buone condizioni.
Questi lavori dimostrano l’abilità degli scultori, che
prende forma attraverso l’uso di vari materiali come la
pietra naturale, il ferro, il bronzo o lo zinco, oltre alla
galvanotecnica. Le tombe sono spesso situate in chiese o
porticati, nonché nei giardini delle chiese e nei cimiteri.
Nel patrimonio artistico di Berlino è evidente l’influenza del mondo antico, in particolare del Rinascimento e del Barocco. Tutti gli artisti, gli architetti, gli
scultori e i pittori visitarono l’Europa del sud, proprio
per studiarne l’arte. Fino a tutto il XIX secolo era
153
Lo splendore della forma
1. Andreas Schlüter,
Sarcofago per la regina
Sophie Charlotte, 1705 c.,
Hoenzollerngruft
Oberpfarr-und Domkirche
Berliner Dom
(foto Wolfgang Bittner)
154
impensabile una carriera artistica che non passasse
attraverso una lunga permanenza in Italia.
Le composizioni e la simbologia delle sculture mescolavano modelli antichi e barocchi che, insieme con le scelte architettoniche, ampliarono e diedero prova di una
determinazione artistica che fu caratterizzante dalla fine
del XVIII secolo. Le opere d’arte dei cimiteri di Berlino
lo testimoniano ancora oggi, mostrandosi come documentazione dell’opera di una vera e propria “Berliner
Bildhauerschule” (Scuola di scultura berlinese) e dell’arte funeraria berlinese. Lo sviluppo delle arti a Berlino si arricchì poi sia grazie alla fondazione della Akademie der Kunste (Accademia dell’Arte), della Bauakademie (Accademia di Architettura) e del “Gewerbeinstitut”
(Istituto del Lavoro), sia grazie al progresso industriale e
alle nuove possibilità di riproduzione.
I sepolcri barocchi di Andreas Schlüter rappresentano
un primo picco nell’arte funeraria e nella scultura a
Berlino. Gli esempi più famosi sono le sue sfarzose
tombe per la Regina Sophie Charlotte (morta nel 1705) e il
Re Friedrich I (morto nel 1712). Le figure si presentano
nella tipica espressione barocca con l’immagine simbolica della morte (figg. 1 e 2), conforme alla rappresentazione abituale nel XVII secolo. II ritratto dei defunti,
gli stemmi, le corone, le bandiere funzionano come
segno di gloria terrena, mentre la donna in lutto con il
Putto e Chronos che scrive nel “libro del passaggio”,
simboleggiano eternità, dolore e gloria. Inoltre servono come allegorie della pietà e del lutto. La donna in
lutto sulla tomba è uno dei motivi più diffusi nell’arte
funeraria fino all’inizio del XX secolo.
Dopo il 1750 prende piede il sepolcro a forma di urna,
La scuola di scultura di Berlino
2. Andreas Schlüter,
Sarcofago
per il re Friedrich I, 1712 c.,
Hoenzollerngruft
Oberpfarr-und Domkirche
Berliner Dom
(foto Wolfgang Bittner)
con una figura di donna in lutto e angeli, che associano scenari di dolore e vogliono mettere in risalto
1’angoscia nella sua forma simbolica. In quel momento non era consuetudine tra gli scultori firmare le proprie opere, sicché alcuni lavori non possono essere
identificati con sicurezza.
Sotto l’influenza della Rivoluzione Francese e della
sua architettura emersero nei cimiteri berlinesi, alla
fine del XVIII secolo, alcuni esempi rappresentativi
dell’arte classicista del periodo, per opera degli architetti David e Friedrich Gilly. Inoltre cominciarono ad
apparire modelli di tombe ricavate in nicchie nei
muri, con urne a mezzo rilievo nelle nicchie più
superficiali e intere in quelle più profonde. A volte la
nicchia nella parete accoglie una figura distesa e la
simbologia, di derivazione classica, veniva adattata alla
personalità del defunto.
II sepolcro a forma di urna va acquistando sempre piu
popolarità nella seconda metà del XVIII secolo. La
tomba dell’attore Johann Friedrich Ferdinand Fleck (fig. 3)
(morto nel 1803, Kirchhof I di Jerusalems e Neuen Kirchgemeinde in Berlino-Kreuzberg) mostra un allegro
155
Lo splendore della forma
3. Johan Gottfried Schadow,
Tomba per l’attore Friedrich
Ferdinand Fleck, d. 1803,
Berlin Kreuzberg, Kirchof I
der Jerusalems und Neuen
Kirchengemeinde
(foto Landesdenkmalamt
Berlin)
4. Johan Gottfried Schadow,
Tomba per Grafen von der
Mark, 1788-1790,
Berlin-Mitte Museuminsel,
Alten Nationalgalerie
(foto Landesdenkmalamt
Berlin)
156
viso baffuto a mezzo rilievo che simboleggia la Commedia, il cui contrario è rappresentato dalla Tragedia. Questa opera viene attribuita a Johann Gottfried Schadow, il
più eminente scultore del periodo classicista, che è considerato il principale rappresentante del primo periodo
della “Berliner Bildhauerschule” (fig. 4) cui diede la sua
personale impronta. Anche se la sua arte si basa sul
Barocco, le sue figure, proporzioni e composizioni ci
obbligano a collocarlo pienamente nel XVIII secolo.
La tomba del conte Von der Mark è una delle maggiori
opere di arte neoclassica in Europa. Jean Pierre Tessaert, l’insegnante di Schadow, era stato in origine
incaricato di questo lavoro dopo la sua morte. Schadow sviluppò ulteriormente l’opera, seguendo ancora i desideri del maestro. La nicchia ad arco sopra il
sepolcro mostra il ritratto del defunto, circondato
dalle tre Parche, figure vestite con abiti lunghi in una
scena in calmo movimento. I principali materiali sono
marmi di vario colore. In passato la tomba era situata
nella Dorotheenstätische Kirche, chiesa che fu
distrutta durante la Seconda guerra mondiale. Oggi
il monumento è esposto nella Alte Pinakotek nell’Isola dei Musei.
Fu Karl Friedrich Schinkel, il più eminente maestro del
periodo classicista, a dare 1’impronta determinante
all’arte funeraria berlinese. Egli continuò a produrre i
tradizionali tipi di tomba secondo lo stile rappresentativo dei monumenti di Berlino, tra i quali le stele, gli
obelischi, le colonne e le croci.
La scuola di scultura di Berlino
Insieme a Peter Christian Beuth, il capo dell’Istituto
per il commercio, intendeva commercializzare 1’uso e
allargare la diffusione delle tombe con l’intento di
abbellire complessivamente i cimiteri.
Molte di queste tombe si possono trovare al Dorotheenstatischer Friedhof (Berlino-Mitte, Chausseestraße), che
è diventato, nel periodo neoclassico agli inizi del XIX
secolo e ancora lo è, un cimitero di artisti, umanisti e
scienziati. “Come nella vita così nella morte”, la sistemazione delle tombe rende i defunti riconoscibili lasciando intendere alcuni aspetti della loro vita. Sotto raccomandazione di Beuth, la tomba di Schinkel fu progettata
come una stele con un “acroterion”, che inizialmente
era stata pensato per la tomba di Hermbstaedt.
La cancellata appartiene a una serie di esempi che
furono creati da Schinkel e pubblicati in collaborazione con Beuth tra il 1821 e il 1837 in Vorbilder fur
Fabrikanten und Handwerker (Modello per Fabbricanti e
Artigiani) disponibile alla “technische deputation”
(deputazione tecnica). Questa è la ragione per cui si
può incontrare questo tipo di cancellata in altri cimiteri a Berlino e in tutta la Germania.
Queste tombe sono decorate con ritratti scultorei o
vari acroterion con geni. I putti e gli angeli del Barocco
divennero geni, alcuni femminili, alcuni maschili, alcuni neutri. I vari materiali come il bronzo, la pietra naturale e il ferro sono combinati in differenti modi e
mostrano un evidente intento commerciale (fig. 5).
157
5. Karl Friedrick Schinkel,
Tombe della Famiglia
degli Hofgoldschmiedes
Hossauer, 1833,
Berlin Mitte,
Dorotheenstadtischer
Friedhof, Chauseestrasse
(foto Landesdenkmalamt
Berlin)
Lo splendore della forma
6. Karl Friedrich Schinkel,
Tomba del Generale von
Scharnhorst
(m. 1813 vicino a Praga),
1824-33, Berlin-Mitte,
Scharnhorststraße,
Invalidenfriedhof
(foto Wolfgang Reuss,
Berlin, 2004)
158
L’Invalidenfriedhof che fu creato da Friedrich II in
connessione con le “guerre slesiane” nel XVIII secolo,
rappresenta un incomparabile documento per la storia
politica della Germania dalla fine del XVIII secolo agli
inizi della Guerra fredda e al cambiamento politico del
1989; un grande documento della guerra e della sconfitta, ma anche uno spazio di grande importanza per la
conservazione e per la scultura cimiteriale a Berlino. In
questo luogo si troveranno tutti i più importanti tipi di
tombe, inclusi molti esempi significativi e rappresentativi, come la tomba del generale Von Schamhorst, creata da
Schinkel, che rappresenta la più notevole opera dell’arte funeraria neoclassica in Germania e anche un
significativo monumento alle guerre di liberazione
(fig. 6). Sul piedistallo e sulla base sono situati due
pilastri che sorreggono la bara sulla quale dorme un
leone. Il rilievo che si sviluppa sui quattro lati del fregio mostra la storia della vita del defunto, che morì
durante la guerra di liberazione vicino a Praga. Questo
La scuola di scultura di Berlino
tipo di tomba è basato anche su esempi italiani, in cui i
riferimenti al mondo antico sono proseguiti fino a
tutto il Rinascimento. Vedendo il monumento si penserà subito al monumento tombale di Petrarca (13041374) vicino a Verona, ad Arquà Petrarca.
II marmo bianco del monumento fu danneggiato dalle
condizioni atmosferiche. Temporaneamente era stato
costruito un tetto di vetro per proteggere l’opera. Ma
dato che la protezione tendeva a cambiare la visione
originale e il panorama, il monumento venne smantellato e fu fatta una copia del fregio. L’originale è ora
conservato in un deposito all’“Isola dei Musei”.
Le croci e le tavolette sepolcrali rappresentano un altro
tipo di tomba molto popolare e largamente diffuso,
che può essere attribuito alle idee di Schinkel. Il proprietario poteva cambiare il disegno come desiderava,
giacché le cornici, il rilievo e la decorazione erano
variabili. Queste tombe sono lavori rappresentativi dell’arte della fusione del ferro di Berlino, uno stile di
produzione seriale veramente notevole, che non ha
pari in altri cimiteri europei.
Il sepolcro a urna con la donna in lutto nella nicchia
della tomba di Johann Gottlieb Ernst Kleinstüber (fig. 7) è
unico ed è una delle più straordinarie sculture erette
in ghisa nei cimiteri berlinesi. Esso è potuto ritornare
al suo colore originario attraverso la scoperta delle
tracce dell’antica doratura emerse durante il complesso restauro.
159
7. Anonimo,
Tomba di Johann Gottlieb
Ernst Kleinstüber (m. 1834),
Berlin-Pankow,
Greifswalder Straße,
Cimitero di
Georgen-Parochialgemeinde
(foto Katharina Geipel,
Berlin, 1993)
Lo splendore della forma
8. Gustav Stier, Tomba di
Joachim (m.1853) e
Rahel (m. 1857)
Liebermann,
Berlin Prenzlauer Berg,
Jüdischer Friedhof
(foto Landesdenkmalamt
Berlin)
160
Tradizionalmente le immagini di persone non sono
ammesse nei cimiteri ebraici. Qui la grandezza raggiunta nell’arte dell’ornamento e del rilievo è dimostrata
nella tomba a parete in ferro fuso di Joachim (morto nel
1853) e di Rahel (morta nel 1857) Liebermann, creata da
Gustave Stiel, un allievo di Schinkel. Il ferro fuso rivela
una triplice sistemazione tipica del XIX secolo, con una
parte centrale che risulta più imponente. La cosiddetta
“tomba a parete” era un popolare tipo di sepoltura
usata per famiglie e tombe dinastiche, eretta lungo le
pareti di un cimitero. La “tomba a parete” di Liebermann (fig. 8) affascina per la sua struttura tecnica.
Molti dei pezzi persi furono ritrovati nel terreno durante la preparazione del restauro. Questo rese possibile
un restauro quasi completo dell’originale.
Lo scultore Heinrich Pohlmann (fig. 9) capì come nessun altro della sua generazione il legame tra arte e
mercato. Grazie alla collaborazione con aziende di
riproduzione (WMF, Gladenbeck), Pohlmann riuscì a
diffondere i suoi lavori molto velocemente. È annoverato come il più giovane e ultimo rappresentante della
La scuola di scultura di Berlino
9. Heinrich Pohlmann,
Tomba Heinrich Roller
(m. 1916),
Berlin Prenzlauer Berg,
Friedhof der Freireligiosen
Gemeinde Pappelallee
(foto Landesdenkmalamt
Berlin)
161
“Scuola di scultura berlinese” del XIX secolo. Le sue
opere sono state create per differenti misure, materiali
e tecniche di produzione come la pietra naturale, il
bronzo o la galvanoplastica, il che spiega perché incontriamo le sue riproduzioni in molti cimiteri in tutta la
Germania e l’Europa. Le sue figure più popolari sono
le “donne in lutto”, create in un aggraziato barocco,
quasi Art Nouveau, elegante e classico, sempre erotico.
Riferimenti bibliografici
Bloch, Peter, Einholz, Sibylle e von Simson, Jutta, Ethos und Pathos, Die Bauten der Berliner Bildhauerschule 1786-1914, Ausstellungskatalog, Berlin 1990.
Fischer, Christoph e Schein, Renate, O ewich is so lanck, Die historischen Friedhöfe in
Berlin-Kreuzberg, Ausstellungskatalog: Berlin (West) 1987.
Fischer, Christoph e Welter, Volker, Frühlicht in Beton, Das Erbbegräbnis Wissinger
- Max Taut - in Stahnsdorf, Berlin 1989.
Der Invalidenfriedhof, Rettung in eines Nationaldenkmals, Förderverein Invalidenfriedhof, Landesdenkmalamt Berlin/Gartendenkmalpflege, Hamburg 2003.
Die Hohenzollerngruft und ihre Sarkophage, Landesdenkmalamt Berlin, Oberpfarr-und
Domkirche zu Berlin, München/Berlin 2005.
Il laboratorio degli scultori Ernest Salu I, II e III
a Laken: centro di sculture commemorative
nella regione di Bruxelles
di Marcel M. Celis
162
Nei diciannove comuni che costituiscono la Regione
della Capitale Bruxelles, ci sono dieci cimiteri maggiori, da quello della chiesa di Laken del XIII secolo al
cimitero di Schaarbeek del 1929. In alcuni di questi
luoghi di sepoltura c’è un numero impressionante di
sculture in pietra o in bronzo – di solito figure femminili in lutto – oltre a una grande varietà di busti, bassorilievi e medaglioni ritratto. Le ricerche hanno dimostrato che queste sculture sono state realizzate principalmente nel laboratorio degli scultori Ernest Salu a
Laken, o quantomeno create dagli scultori che lì si formarono o che appartenevano allo stesso circolo di
amici dediti all’arte. Per inquadrare le diverse figure, è
utile considerare il loro contesto culturale e storico.
Albert Carrier-Belleuse (1824-1887),
Auguste Rodin (1840-1917)
La guerra franco-tedesca del 1870 aveva portato al blocco di tutte le attività edilizie a Parigi. Seguendo l’esempio parigino del barone Haussman, il sindaco di
Bruxelles Jules Anspach aveva trasformato il centro
Il laboratorio degli scultori Ernest Salu I, II e III a Laken
della città in un luogo di gigantesche nuove costruzioni,
a partire dal 1868 con la copertura del fiume Zenne. Il
piano doveva essere completato con la costruzione dei
grandi viali centrali, naturale contesto architettonico
per la realizzazione dei palazzi destinati all’affitto e, nel
1868-1873, di un monumentale palazzo per la Borsa.
L’architetto era Leon Suys, il cui padre François Tilman aveva frequentato l’École speciale de Peinture,
Sculpture et Architecture con Charles Percier e Pierre
Fontaine, per laurearsi in seguito all’École des Beaux
Arts con un Grand Prix, e completare i suoi studi a
Roma all’Acadèmie de France. Egli volle assumere artisti francesi, come era tradizione da anni.
L’importante scultore francese Ernest Carrier-Belleuse,
era stato appena premiato all’Exposition Nationale des
Beaux-Arts con la sua opera Le Messie, per cui fu fatto
cavaliere dell’ordine di Leopoldo. Essendo praticamente senza lavoro in Francia, accettò con entusiasmo
1’incarico di dirigere l’enorme programma scultoreo
che Suys aveva pianificato per la Borsa. Il suo laboratorio provvisorio in via Montoyer a Bruxelles si arricchì
di scultori locali come Joseph Jacquet (n. 1822), Norbert Mewis (n. 1836), Antoine Van Rasbourgh (n.
1831), Juliaan Dillens (n. 1849), Ernest Salu (n. 1846).
Nel suo studio a Montmartre, Carrier-Belleuse aveva
precedentemente imparato ad apprezzare le qualità
del suo giovane collaboratore Auguste Rodin (n.
1840). Nel febbraio del 1871 Rodin si unisce al laboratorio di Bruxelles, dove il suo primo incarico è la produzione di modelli in gesso.
Questo piano di rinnovamento urbano, il più importante a Bruxelles dall’Indipendenza del 1830, si rivelò
determinante per questi giovani scultori. Ciò spiega
l’amicizia di lunga durata tra Rodin e Juliaan Dillens
da una parte, e tra Dillens e il suo compagno di studi
Ernest Salu dall’altra. Dopo il ritorno di Carrier-Belleuses a Parigi nell’estate del 1871, egli affida la
gestione del laboratorio di Br uxelles a Norbert
Mewis. Nel 1873, Rodin e Antoine Van Rasbourgh stipulano un contratto che prevede una collaborazione
di vent’anni, che viene rinnovato nel 1877 da Rodin.
Tutto quello che Rodin aveva prodotto in quel periodo
163
Lo splendore della forma
164
in Belgio, si ritrova grazie al Musée Rodin di Joseph
Dillen (1878-1935), un amante dell’arte, collezionista e
banditore di aste al Palazzo delle Belle Arti di Bruxelles. Nel 1927 questi ottenne una copia del Penseur di
Rodin, da installare sulla sua futura tomba nel cimitero
di Laken. Egli aveva avuto la possibilità di acquisirlo
per il Musée Rodin alcuni anni prima. Probabilmente
voleva seguire l’esempio dell’artista, la cui ultima dimora a Meudon è custodita da un simile Penseur.
Proprio nel cimitero di Laken, Carrier-Belleuse aveva
precedentemente lasciato un gruppo scultoreo in pietra francese, un’Allegoria dell’Educazione in stile neoPompeiano, realizzato in seguito alla morte nel 1864
all’età di 35 anni di Sophie Ghemar, un’insegnante di
origine franco-belga. Suo fratello, Louis Ghemar, si
sarebbe guadagnato la fama di pioniere della fotografia un anno dopo con la morte del re Leopoldo I, fondatore della dinastia belga, di cui realizzò un album
Funerailles de S.M. Leopold I er., Roi des Belges et avenement
de Leopold II au trone. La città di Bruxelles gli chiese poi,
nel 1867 (e nel 1870) di fare un reportage fotografico,
uno dei primi di quel genere, sui lavori di copertura
del fiume Zenne: ciò ci riporta al punto di partenza, la
costruzione della Borsa di Bruxelles.
Come la famiglia Ghemar incontrò Carrier-Belleuse
ancora non si sa, né è noto con esattezza quando
venne realizzato il monumento sepolcrale. La prima
richiesta di Ernest Salu per la costruzione di un semplice laboratorio di scultura accanto al cimitero di Laken
è datata 1874, anche se su una facciata del laboratorio
realizzata in seguito, il 1872 è segnato come data di
fondazione. Un album per schizzi contiene un disegnino di questo primo laboratorio, ma anche, poche pagine più avanti, uno schizzo del Mausoleo Ghemar in
costruzione. È troppo azzardato collegare ciò all’osservazione di Ernest Salu III, che suo nonno aveva ricevuto il suo primo incarico per un sepolcro sulle impalcature del palazzo della Borsa?
Ernest Salu I (1846-1923)
Ernest Salu apprese il mestiere di scultore all’Accademia Reale delle Arti a Bruxelles (1870), ma soprattut-
Il laboratorio degli scultori Ernest Salu I, II e III a Laken
1. Ernst Salu I,
Tomba Clara Siegerist,
1892, Laken
to nel laboratorio privato di un suo professore, Guillaume Geefs (1805-1883), frequentato da molti studenti. Nel 1874, due anni dopo l’inaugurazione della
chiesa neogotica di Laken con la cripta reale, progettata dall’architetto Joseph Poelaert, egli creò un suo
primo laboratorio, accanto al cimitero parrocchiale.
Sette anni dopo, nel 1881, ottenne l’autorizzazione
per realizzare nello stesso terreno un altro laboratorio collegato alla sua abitazione. Nel dicembre del
1882 viene aggiunto un laboratorio per la lavorazione
del marmo proprio dietro il primo, triplicando così la
superficie della compagnia. II grande, eclettico giardino d’inverno progettato dall’architetto Oscar
Lauwers è del 1912. Esso collega i laboratori, la casa e
la vetrina per esposizione, e divenne così l’ingresso
del complesso, esaltato dalla facciata monumentale
della serra (fig. 1).
Non è dunque sorprendente che la compagnia già
impiegasse quaranta persone nel 1900, tra cui non
meno di dieci scultori. Un contratto importante – quasi
permanente dal 1870 – prevedeva il loro contributo alla
costruzione delle gallerie di sepoltura sotterranee, progettate dall’ingegnere Emile Bockstael (1838-1920), che
doveva poi diventare sindaco di Laken.
La presenza nel laboratorio di Ernest Salu di alcuni
importanti modelli in gesso di Guillaume Geefs – tra
gli altri i bassorilievi per il Monumento dei Martiri in
memoria dei combattenti per la libertà del 1830 (18381849), e l’effigie a grandezza naturale del Conte
165
Lo splendore della forma
2. Guillaume Geefs,
Tomba Jacques Coghen,
1864 c., modello in gesso
Coghen (1864) (fig. 2) – mostra l’ammirazione di
Ernest Salu per il suo vecchio maestro, un’icona del
Neoclassicismo. Questi modelli furono probabilmente
acquistati durante l’asta pubblica del laboratorio di
Geefs, che fece seguito alla sua morte nel 1885.
166
Juliaan Dillens (1849-1904)
Un simile ambiente potrebbe spiegare la presenza nel
laboratorio di Salu di modelli in gesso del suo collega e
amico Juliaan Dillens, il cui soprannome era “Le poète
du triste” soprattutto per alcune toccanti statue e
medaglioni funerari.
L’opera di Juliaan Dillens, con le sue tipiche figure
aggraziate e il suo simbolismo a volte manierista, è per
diverse ragioni superiore a quella dei suoi contemporanei (fig. 3).
3. Juliaan Dillens,
Genio della Morte,
modello in gesso
Il laboratorio degli scultori Ernest Salu I, II e III a Laken
4. Ernst Salu II,
Tomba Famiglia Julien Mary,
1930, Laken
Ernest Salu II (1885-1980)
Statue tridimensionali autonome sono piuttosto rare
nei cimiteri di Bruxelles intorno alla fine del XIX secolo. Le sculture di tipo figurativo si limitavano ad angeli
e putti, ritratti a medaglione o busti in marmo di Carrara poco resistente alle avversità meteorologiche, dove
la firma dello scultore è raramente leggibile.
Anche se la maggior parte dei monumenti funebri in
pietra blu del Belgio nel cimitero di Laken quasi certamente furono realizzati nei laboratori di Ernest Salu, è
spesso in forse il suo contributo alle sculture in marmo.
Suo figlio, Ernest Salu II, si diplomò all’Accademia di
Bruxelles (1901-1909), con il Primo Premio. Tra i suoi
insegnanti c’erano Juliaan Dillens e Isidore de Rudder
(n. 1855), compagni di studi del padre. In coerenza con i
suoi studi egli si unì alla compagnia del padre, che rilevò
dopo la Prima guerra mondiale. La maggior parte delle
sue opere sono nel cimitero di Laken. Sotto la supervisione dello scultore Guillaume Desmaré, realizzò anche il
monumento per il Milite Ignoto francese, nella piazza tra
il cimitero e la chiesa di Nostra Signora a Laken (fig. 4).
Mathieu Desmaré (1877-1946)
A Laken, proprio a pochi passi dall’Atelier Salu, risiedeva anche lo scultore Mathieu Desmaré. Si era formato all’Accademia delle Arti sotto la guida di Charles
Van der Stappen (1883-1910) e di Constantin Meunier
(1831-1905). Di circa trent’anni più giovane di Ernest
Salu I, di otto più anziano di Ernest Salu II, mostra le
sue prime opere al pubblico alla Triennale di Anversa
167
Lo splendore della forma
5. Mathieu Desmaré,
Tomba Pierre Desmaré,
1905-1927, Laken
168
nel 1904. Tra i suoi più importanti progetti pubblici ci
sono le statue per il municipio di Laken (architetto
Paul Bonduelle, 1907-1912). Gli anni di attività presso
il laboratorio di Salu fanno sì che Desmaré sia famoso
come lo scultore par excellence di monumenti funebri,
con opere sparse in tutti i cimiteri di Bruxelles. (fig. 5)
Pierre Theunis (1883-1950)
Alcuni modelli in gesso nel laboratorio di Salu sono firmati da Pierre Theunis (n. 1883). Anche se c’è una
notevole differenza rispetto ai lavori dei Salu, soprattutto i bassorilievi mostrano segni di mutua influenza.
Pierre Theunis studiò all’Accademia di Bruxelles (18961906) come allievo di Joseph Jacquet, Charles van der
Stappen e di Juliaan Dillens. L’opera di Theunis consiste principalmente in busti e in un gran numero di
medaglie, spesso create all’interno della comunità
ebraica. Un’importante serie di sculture ha tuttavia
finalità funerarie. Poiché il suo laboratorio a Schaarbeek gli permetteva solo di creare modelli, lasciò che
quelle statue fossero realizzate in pietra nel laboratorio
di Salu, quasi sempre in marmo di Carrara (fig. 6).
Il laboratorio degli scultori Ernest Salu I, II e III a Laken
6. Pierre Theunis, Tomba
Vanderstraeten-Keteler,
1926 c., Laken
Sylvain Norga (1892-1968)
Un ultimo importante collaboratore del laboratorio di
Salu fu lo scultore Sylvain Norga, di Etikhove nelle
Fiandre Orientali. Ad appena nove anni, egli fu
ammesso in via eccezionale all’Accademia di Oudenaarde per otto anni di formazione. Fece il suo
apprendistato a Gent, nel laboratorio dello scultore
Aloïs de Beule (1861-1935), che doveva la sua fama
soprattutto all’arte religiosa. Più tardi fu assunto da
Ernest Salu II a Laken, dove realizzò sculture in
marmo di Carrara. Sposò Germaine Bataille (19001976), figlia del “monumentista” Emile Bataille, con il
suo laboratorio al cimitero di Bruxelles, e sorella dello
scultore Charles Bataille. Ernest Salu II offrì alla giovane coppia un appartamento nella sua grande casa a
Laken, dove vissero dal 1921 al 1924.
Fu lì che Sylvain Norga creò la famosa fonderia in
bronzo Norga che, nel 1997, sua figlia Marcelle descrisse come segue: “Fu lì a Laken che mio padre, notando
quanto difficilmente il marmo di Carrara resisteva al
nostro clima, cominciò a pensare di introdurre articoli
cimiteriali in bronzo. Dopo l’orario di lavoro nel labo-
169
Lo splendore della forma
Il laboratorio degli scultori Ernest Salu I, II e III a Laken
7. Sylvain Norga,
Tomba Dierickx-Desager,
1928, Evere
8. Ernest Salu III,
Tomba Vanhoof-Michiels,
1956 c., Mechelen
170
ratorio del Maestro Salu, cominciava a creare i suoi piccoli modelli in scala nel suo appartamento preparando
il gesso nei vasi e nelle terrine di mia madre!”.
Le decorazioni per tombe in bronzo ebbero un grande
successo commerciale. La serie era varia, grazie alla
grande produzione i prezzi erano ragionevoli, e i
modelli adatti ai gusti dei clienti: teste di Cristo, croci
di ogni genere, allori, rami di palma, vasi con scene
religiose, deposizioni, calvari e così via. Sylvain Norga
modellò anche un certo numero di statue a grandezza
naturale, che venivano riprodotte in bronzo su ordinazione. Queste erano quasi esclusivamente figure femminili in lutto, inginocchiate, sedute o distese sulla
tomba, con le spalle scoperte e fiori, mazzolini e allori.
Cronologicamente, datano tra il 1928 e il 1946 (fig. 7).
Ernest Salu III (Laken 1909-1987)
Come il padre e il nonno, Ernest Salu III frequentò
l’Accademia di Bruxelles dove ebbe come maestro Isidore de Rudder, uno scultore i cui capolavori sono il
gruppo Commencement et Fin (1887) e le statue per il
mausoleo dello statista Charles Rogier (1888).
Laureato con il massimo dei voti per il suo Studio di
nudo maschile in gesso, il nipote Ernest Salu si unì al
laboratorio del padre, che a sua volta gradualmente
rilevò dopo la Seconda guerra mondiale.
A causa del calo della domanda di monumenti funebri
originali e del loro alto costo, Ernest III progettò più
lapidi che sculture. Gradualmente si interessò di più ai
171
film documentari, come quello sulla costruzione dell’Atomium per l’Esposizione Universale del 1958 a
Bruxelles. Nel 1983 il laboratorio di Ernest Salu chiuse
definitivamente (fig. 8).
Si può concludere che il laboratorio di Salu è uno
degli ultimi laboratori conservati a Bruxelles, e l’ultimo di uno scultore del XIX secolo.
Dopo la morte di Ernest Salu III nel settembre del
1987, l’associazione Epitaaf prese in affitto per trent’anni il laboratorio degli scultori. L’obiettivo è conservare
e restaurare questo bene culturale, la creazione di un
Museo per l’Arte della Memoria con un Centro di
documentazione e informazione.
ITALIA
Il Cimitero Central e il Cimitero del Buceo:
due “giardini” di scultura italiana in Uruguay
di Cristina Beltrami
Questo breve intervento veronese nasce dal soggetto
del mio dottorato – La statuaria italiana a Montevideo
dalla metà dell’Ottocento al primo ventennio del Novecento –
con una particolare attenzione al patrimonio cimiteriale. È perciò possibile tracciare una parziale storia
della scultura italiana attraverso una selezione dei
sepolcri più significativi del cimitero Central e del
Buceo. I committenti furono sia quei connazionali
immigrati che trovarono fortuna in Sudamerica sia
chi, pur non avendo radici italiane, riconosceva alla
Penisola il primato dell’artisticità, giustificando così la
dicitura “verdadera obra de arte” che si incontra talvolta nei documenti d’archivio riferita a qualsiasi scultura di provenienza italiana.
A Montevideo, come in tutto il Sudamerica, la tomba
rappresenta dunque l’affermazione di uno status sociale e ribadisce la provenienza da un luogo geografico –
l’Italia in questo caso – da cui dipendono sia la scelta
dei modelli sia la rincorsa degli artefici.
Degli attuali quattro cimiteri di Montevideo,1 quello Central è il più antico e perciò, nel suo nucleo originario,
175
Lo splendore della forma
1. Giuseppe Livi, Pietà,
1863, marmo di Carrara,
Montevideo,
Cimitero Central
(foto Robert Freidus)
2. Giuseppe Livi,
Monumento ai Martiri di
Quinteros, 1866-68,
marmo di Carrara,
Montevideo,
Cimitero Central
(foto Robert Freidus)
176
anche il più coerente.2 La vendita dei primi lotti risale al
1859 e l’anno successivo è già documentato un primo
sepolcro – ormai perduto – mentre nel 1863 viene inaugurato il Panteon Nacional nella Rotonda.3
L’arredo scultoreo del Panteon è affidato al carrarese
Giuseppe Livi4 che diviene indubbiamente il protagonista della stagione decorativa degli anni Sessanta. Egli,
che è estremamente attivo anche in altri luoghi della
capitale, è il promotore di uno stile al limite tra un
tardo linguaggio neoclassico e la riproposizione di
modelli ampiamente noti in Toscana. Ne è una evidente testimonianza la Pietà (1863) del Panteon Nacional
(fig. 1) che, come ribadito anche dall’intervento di Ray
Bateson, è un prototipo carrarese che conosce numerose repliche in tutto il mondo. Naturalmente il General Lerena che commissiona l’opera a Livi già nel 1860
a nome della Junta Dipartamental del Cimitero5 non è
a conoscenza di tale prassi, egli anzi ritiene di investire
– 560 pesos – in un’opera di specchiata artisticità, capace di evocare il rinascimento italiano.
Cinque anni più tardi Livi svela la macchina commemorativa più imponente del Central: il Monumento ai
Martiri di Quinteros (1866-68) (fig. 2), in onore di coloro che si sacrificarono per l’indipendenza del “Pueblo
Oriental”.6 Contemporaneamente egli seguita a disse-
Il Cimitero Central e il Cimitero del Buceo
3. Lavarello,
Tomba Mussio, 1863,
marmo e ardesia,
Montevideo,
Cimitero Central
(foto Robert Freidus)
minare il cimitero di sepolcri di tardo sapore neoclassico – quello di Atanasio Lapido (1862), di Atanasio Sierra
(1863-1866), di Pedro P. Bermudez (1865 c.), di Leandro
Gomez (1865 c.) e di Venacio Flores (1866) – mentre iniziano a giungere dall’Italia le prime opere finite legate
alla più consolidata iconografia cimiteriale. Tra i primi
marmi in ordine di tempo a giungere a Montevideo vi
è la bimba pregante della Tomba Castellanos (1870), firmata dallo scultore genovese Carlo Rubatto e ripresa
dal fortunato modello che Luigi Pampaloni espose a
Genova nel 1868. Il capoluogo ligure, forte di una fitta
rete di artigiani e scultori nonché di un attivo porto, è
il fulcro di questo commercio marmoreccio e concorre
inevitabilmente alla diffusione di prototipi liguri come
la Tomba Mussio (1863) dei Lavarello (fig. 3) in cui un
uomo piange la scomparsa della moglie accanto alla
bara sulla quale lei giace. La messa in scena di uno
spaccato di vita borghese, la cura nella resa dei dettagli
della moda, i pizzi del lenzuolo, i tratti somatici più
morbidi e realistici, fanno di questa tomba quanto di
più innovativo per un pubblico uruguaiano ancora
legato ai rigidi prototipi tardo neoclassici. Non a caso
la Tomba Mussio è la prima di cui si occupi anche la
bibliografia locale che, non senza una digressione fantastica, narra persino le vicende private del vedovo.7 Al
di là della leggenda, la Tomba Mussio parrebbe la prima
opera scultorea giunta a Montevideo per acquisto di
177
Lo splendore della forma
4. Giacomo Moreno,
Tomba Gianelli, 1872,
marmo di Carrara,
Montevideo,
Cimitero Central
(foto Robert Freidus)
5. Enrico Butti,
Tomba Nicola (Il Minatore),
1888, marmo di Carrara,
Montevideo,
Cimitero Central
(foto Robert Freidus)
178
un privato e non per intervento di Azzarini. Nel 1879
approda infatti nella capitale lo scultore genovese Giovanni Azzarini (1853-1924 c.) che diviene il protagonista della seconda stagione decorativa del Central. Azzarini è un impresario ancor prima che un artista e organizza una massiccia importazione dall’Italia di marmi
“già finiti”, divenendo così il tramite tra gli scultori o i
laboratori italiani – liguri e carraresi in primis – e il
vorace mercato uruguaiano. Azzarini è ad esempio l’intermediario tra Giacomo Moreno (1835-post 1900) e
l’acquirente uruguaiano della Tomba Gianelli (1872)
(fig. 4) che presenta quello stesso gruppo della Carità
che lo scultore replicherà per la Tomba Borzino del cimitero di Staglieno (1884). Sia dunque il Central sia il
Buceo, come si vedrà in seguito, divengono il luogo in
cui la prima generazione di artisti nati in loco ha l’occasione di aggiornarsi, benché parzialmente, sul linguaggio scultoreo italiano.8
Oltre alla Ligura l’altra principale area di provenienza
fu Carrara; lo provano numerosi sepolcri tra cui la
Tomba Cachon (1875) con una riuscita figura di Padre
Tempo 9 elegantemente firmata da Carlo Niccoli e la
Tomba Escalada (1891) che, nonostante rechi la sigla di
Azzarini, è opera di Cesare Faggioni che ne pubblicò
la maquette su “Lo scultore e il marmo” col titolo di
Sonno eterno.10
L’opera di maggior interesse del Central è il Minatore
di Enrico Butti (fig. 5) che viene collocato sul sepolcro
Nicola nel 1888, poco dopo dunque la sua esposizione
all’Accademia di Brera dove, nonostante la perfetta
Il Cimitero Central e il Cimitero del Buceo
6. Felice Morelli,
Tomba Peirano, 1913,
bronzo e granito,
Montevideo,
Cimitero Central
(foto Robert Freidus)
modellazione, non ottiene il Premio Principe Umberto
per l’esplicito messaggio di denuncia. Aspetto questo
che al contrario deve aver attratto Juan Nicola, un
imprenditore di umili origini che proprio attraverso il
sacrificio del lavoro è riuscito a conquistarsi una piccola fortuna. Nicola deve essere stato al corrente dell’esistenza di una scultura che rappresentava in modo
tanto manifesto il concetto della fatica e, tramite i contatti di Azzarini, acquista il marmo in Italia.
Alla fine degli anni Ottanta il cimitero può contare su
un buon numero di sepolcri che lo consacrano a tutti
gli effetti come un giardino di scultura internazionale.
Nel 1894 infatti quando soggiorna a Montevideo lo storico di origine spagnola Fernandez Saldaña può notare
come il Central sia motivo d’orgoglio per la cittadinanza quanto la Recoleta lo è per Buenos Aires.11
Alla fine del secolo è ormai attivo a Montevideo anche
lo scultore napoletano Felice Morelli12 che, sbarcato in
città nel 1899 e sulla scorta del successo del Monumento
Muñiz (1898, Cimitero della Recoleta, Buenos Aires)
del conterraneo Ettore Ximenes, dà il via anche in
Uruguay alla tradizione del sepolcro in granito e bronzo.13 Morelli esordisce al Central con la Tomba Casalia
(1896-98) in cui un genio della morte in bronzo celebra il busto del committente posto in cima a un obelisco di granito; la sua seconda prova è la Tomba Navajas
(1904-1905) seguita infine dalla Tomba Peirano (1913)
(fig. 6) dove una donna dorme un sonno eterno.
179
Lo splendore della forma
Il Cimitero Central e il Cimitero del Buceo
8. Giovanni Azzarini,
Tomba Juansolo, 1908,
marmo di Carrara,
Montevideo,
Cimitero Central
(foto Juan Angel Urruzola)
7. Giovanni Azzarini,
Tomba di Juan Martinez,
m. 1893, marmo di Carrara,
Montevideo,
Cimitero Central
(foto Robert Freidus)
A causa di una lunga epidemia di colera (1873-1878)
Montevideo reclama un secondo cimitero per cui viene
immediatamente assegnata l’area alle spalle del porto
del Buceo. Anche il nuovo cimitero, attivo dagli anni
Ottanta, necessita di un arredo scultoreo e il primo
monumento d’importazione è la Tomba Ballefin (1885)
firmata dal genovese Giovanni Scanzi (1840-1915). Già
l’anno seguente giunge da Genova un monumento di
180
Gli ultimi marmi importati, siglati e collocati al Central da Azzarini, testimoniano un continuo compromesso tra il facile consenso, derivato da modelli consolidati come la Tomba Martinez (post 1893) (fig. 7) –
vero collage di prototipi estremamente noti – e un
aggiornamento al coevo linguaggio italiano. Testimone di quest’ultima tendenza è la Tomba Juansolo (1908)
(fig. 8) che proverebbe il viaggio di Giovanni Azzarini
a Genova attorno al 1907 per l’evidente ripresa della
Tomba Orsini di L. Bistolfi (1905-1907, cimitero di Staglieno, Genova). Ed è proprio di Bistolfi l’opera più
importante che compare al Central in anni piuttosto
tardi: la Tomba Martinez (ante 1927) (fig. 9) presenta
una versione del Cristo che cammina sulle acque che l’artista realizzò per il conte Camerini.14
181
9. Leonardo Bistolfi,
Tomba Martinez,
1927, bronzo,
Montevideo,
Cimitero Central
(foto Juan Angel Urruzola)
Lo splendore della forma
Il Cimitero Central e il Cimitero del Buceo
10. Leonardo Bistolfi,
Tomba Crovetto
(L’Olocausto), 1903-4,
marmo di Carrara,
Montevideo,
Cimitero del Buceo
(foto Robert Freidus)
12. A. Bassi,
Mausoleo Saint-Bois,
1920-26, marmo di Carrara,
Montevideo,
Cimitero del Buceo
(foto Robert Freidus)
182
matrice più marcatamente borghese, la Tomba Staricco
(1886) di Domenico Carli, riproposta in seguito dallo
stesso artista sia per la Tomba di G.A. Maineri a Varazze
che, con una piccola modifica, nella Tomba Ferrari a Staglieno.15
Il Buceo, che paga lo scotto di essere il cimitero meno
prestigioso, quello destinato alla borghesia di recente
affermazione,16 conserva due dei monumenti funebri
più importanti di Bistolfi. Nel 1905 infatti l’artista presenta alla Biennale il gesso de l’Olocausto (1903) destinato alla Tomba Crovetto (fig. 10) a Montevideo dove
11. Leonardo Bistolfi,
Tomba Giorello, 1913,
marmo di Carrara,
Montevideo,
Cimitero del Buceo
(foto Robert Freidus)
183
giunge già dal 190417 seguito nove anni più tardi dall’imponente Monumento Giorello (fig. 11). Il Funerale
dell’eroe sintetizza indubbiamente un momento di svolta a cui Bistolfi continua a riattingere anche in monumenti successivi; come la figura della Maternità del
Monumento Sepolcrale per la famiglia Hofmann (1921-25,
Cimitero di Torino).
Oltre a quelli già citati e al costante flusso di monumenti che Azzarini indirizza anche al Buceo, sono qui
attivi i carraresi Alessandro e Antonio Biggi e Giovanni
Del Vecchio, i liguri Achille Canessa, Pietro Capurro,
Demetrio Paernio, i Repetto e Santo Saccomanno, il
fiorentino Giorgio Rossi, il milanese Giovanni Ferrari, i
napoletani Amleto Cataldi e ancora Felice Morelli, il
romano G. Grocchelli e il cremonese Aristide Bassi.
Quest’ultimo si traferisce a Montevideo nel 1914 e qui
realizza numerosi monumenti pubblici e partecipa al
cantiere del Palazzo Legislativo progettato da Gaetano
Moretti. L’influenza del cantiere italiano, che offre un
confronto diretto con l’opera di Giannino Castiglioni,
Il Cimitero Central e il Cimitero del Buceo
Lo splendore della forma
184
si riflette sul Monumento Saint Bois (oggi Martinez) di
Bassi (fig. 12). Esso presenta una scena allegorica in
cui il virtuosismo della resa dei corpi avvitati in un evidente sforzo fisico sarebbe stato difficile da immaginare prima dell’arrivo in città dei bozzetti di Castiglioni
per il Palazzo Legislativo.18
Se il Central è il monumento all’antica oligarchia uruguaiana il Buceo, con i suoi ampi spazi, rispecchia l’allargamento demografico della capitale e l’affermarsi di
una generale borghesizzazione della sepoltura. Salvo
alcune opere di particolare qualità, le tombe si risolvono in riproduzioni meccaniche di angeli, angioletti e
cristi, molti provenienti anche da laboratori locali che
a partire dal secondo decennio del secolo sono in
grado di far fronte alle richieste del mercato. Benché il
monumento italiano continui a rappresentare uno status symbol, a partire dal secondo decennio del Novecento esso perde gradualmente il proprio valore; le tombe
infatti sembrano apprezzate più per la loro monumentalità – in concomitanza con un’esplosione decò dell’architettura cittadina – che per la loro provenienza o
la qualità della manifattura. A questo processo contribuì probabilmente anche il fatto che il Palazzo Legislativo venisse realizzato con marmi locali, il che frenò la
corrente d’importazione dei costosi blocchi italiani.
Infine va sottolineato come già dai primi anni del secolo Montevideo possa contare anche su una prima generazione di valenti artisti, formatisi in loco e spesso figli
degli stessi scultori emigrati o allievi di questi ultimi
nelle scuole e nei laboratori attivi in città.
1
2
Oltre al cimitero Central e a quello del
Buceo esistono anche il coevo cimitero
ortodosso, detto “de los ingleses”, e il
cimitero del Norte, di recentissima
costruzione.
Beltrami, C., La statuaria italiana a
Montevideo dalla metà dell’Ottocento
al primo ventennio del Novecento, relatori L. Puppi, G. Dal Canton e F. Fergonzi, Dottorato di ricerca in Storia dell’Ar-
3
4
te, I Ciclo/Nuova serie, 2004, Dipartimento di Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici “G. Mazzariol”,
Università Ca’ Foscari, Venezia.
Historia del Cementerio Central, in “El
Dia - Suplemento Dominical”, anno IV,
n. 107, 4 novembre 1934, p. 4.
G. Livi (Carrara 1828-Parigi 1890 c.)
stando alla tesi dello storico J.C. Pedemonte (J.C.P., Livi, Rosa Pittaluga y la
5
6
7
8
estatua de la “Libertad”, in “Dialogo”,
anno I, n. 2, febbraio 1959, pp. 15-20)
sarebbe giunto a Montevideo nella primavera del 1859 forte di una solida
formazione accademica. Livi entra da
subito in contatto con la comunità italiana presente nella capitale, in primis
con Bernardo Poncini architetto del
cimitero e tramite dei suoi primi incarichi: un Redentore in terracotta per la
cupola della Rotonda (andato distrutto) e le due lapidi dedicate a Francisco
A. De Figueroa e a Clemente A. Cesar
entrambe del 1862.
Pietracaprina, R., El artista italiano José
Livi. Precursor de la escultura en Uruguay,
in “El Dia - Suplemento Dominical”, anno
IV, n. 132, 5 maggio 1935, pp. 8-9.
Tra l’incarico del monumento e la sua
inaugurazione passano due anni
(1866-1868) in cui Livi ha l’occasione
di realizzare anche un apparato effimero in memoria della stessa vicenda
nella cattedrale Matriz. Egli opta per
una struttura piramidale che incontra
il consenso della stampa e che, in
alcuni dettagli, è ripresa anche nella
versione scultorea del monumento.
Esso si presenta infatti come una
struttura a base quadrangolare, sviluppata in altezza; l’architettura è in
costante dialogo con la scultura che
ha qui uno scopo decorativo-narrativo:
ogni facciata riporta due ovali con i
busti ad altorilievo degli otto martiri,
quattro figure allegoriche campeggiano agli angoli del primo ordine alternate da altrettanti bassorilievi con
scene epiche. Il monumento è coronato dall’allegoria della Patria che, mollemente adagiata a una colonna spezzata, piange la morte dei caduti.
Epitafios y monumentos de los cementerios de Montevideo, Montevideo,
1889, pp. 3-4: l’anonimo cronista
narra che Santiago Mussio s’imbarcò
per Genova con una foto della moglie
appena scomparsa alla ricerca di un
artefice sufficientemente capace da
immortalarne le fattezze.
Cementerios. Los dias clasicos, in “La
Semana”, anno II, n. 67, 12 novembre
1910, pp. 15-16: la Tomba Chucarro ad
esempio è indicata come modello a cui
rifarsi per la costituzione di un gusto
uruguaiano. Il monumento recupera in
realtà un’iconografia ormai vieta a
questa data in Italia, ovvero l’angelo
intento a scrivere gli estremi di morte
9
10
11
12
13
14
che Augusto Rivalta propose a Staglieno per la Tomba Bartolomeo Savi
ancora nel 1865. L’opera ha immediatamente un grande successo e come
bene dimostrato da Franco Sborgi
(Staglieno e la scultura funeraria ligure
tra Ottocento e Novecento, Artema,
Torino 1997, p. 124) trova ampia diffusione, anche a livello grafico, sia in
Italia sia all’estero.
Un grande Padre Tempo siede sopra la
roccia della Tomba di Tiburcho Cachon
che porta l’elegante firma di Carlo Niccoli, lo scultore carrarese che invia l’opera a Montevideo su contatto di G.
Azzarini a cui si deve probabilmente
anche il disegno di scarsa qualità che
accompagna la memoria descrittiva,
datata 1875 (A.I.M., D.N, C.C., busta
131, n. 257609). Nello stesso anno Niccoli è nominato professore onorario
all’Accademia di Carrara dove lascia in
dono il gesso del monumentale Silenzio,
inopinabile modello per il marmo della
Tomba montevideana (Cfr. Scultura a
Carrara. Ottocento, a cura di De Micheli, M., Carrara 1993, pp. 280-281).
Marchetti, T.A., 2 Novembre, in “Lo
scultore e il marmo”, anno V, nn. 6465, 30 ottobre 1908, p. 2.
Saldaña, J.N.F., El Cementerio Central,
in “El Dia-Suplemento Dominical”,
anno VII, n. 263, 23 gennaio 1938, p. 1.
Felice Morelli (1857-1922) ottiene fin
da subito incarichi prestigiosi e s’inserisce anche nel meccanismo didattico
della città; insegna infatti alla Escuela
de Bellas Artes e le sue sculture sono le
prime che si possano definire “uruguayas” a tutti gli effetti. Egli infatti
utilizza bronzo e graniti locali – non
materiali importati – e allestisce un
laboratorio in grado di fondere i metalli.
Il monumento al Dott. Francisco J.
Muñiz (1898) alla Recoleta di Buenos
Aires viene scolpito a Roma da Ettore
Ximenes nel 1898 e risulta tra i più
ammirati della necropoli porteña; nel
1910 è dichiarato monumento nazionale, poi dal 1928 è sicuramente noto
anche in Italia perché pubblicato in
Necropoli di Buenos Aires, in “Le vie d’Italia e dell’America Latina”, anno XXIX,
n. 6, giugno, 1928, pp. 1233-1240.
La vicenda del prototipo bistolfiano è
esaustivamente descritta da Sandra
Berresford in Bistolfi 1859-1933. Il
percorso di uno scultore simbolista,
catalogo della mostra a cura di Berre-
185
Lo splendore della forma
186
sford, S. e Bossaglia, R., Casale Monferrato 1984, p. 75. Il Cristo in bronzo
della Tomba Martinez Silveira è l’unica
opera di Leonardo Bistolfi del Cimitero
Centrale. La scarna figura incede a
mento alto indossando una veste
rigonfia che ne accentua l’imponenza
e il senso di dinamicità. L’unica pubblicazione in cui però – per altro molto
genericamente – si citino sculture del
maestro di Casale Monferrato anche
nel più antico cimitero di Montevideo
è Noticia sobre la escultura en el Uruguay di Walter Ernesto Laroche (1960,
p. 6). Naturalmente è Giovanni Azzarini a firmare la memoria descrittiva e il
disegno allegato al progetto del monumento funebre. Al contrario di quanto
accada per gli altri due pezzi di Bistolfi
nel Cimitero del Buceo l’opera non è
firmata e dai documenti dell’archivio è
possibile stabilire solamente il termine
post quem del 1927 che compare sulla
memoria descrittiva, dove si specifica
che saranno impiegati materiali di
qualità e che l’opera sarà realizzata dal
“Professor” Bistolfi, garante di una
“verdadera obra de arte” (A.I.M., D.N.,
C.C., busta 97, n. 437584). È probabile
però che in questo caso l’acquisto del
pezzo sia avvenuto in Uruguay e non
in patria, poiché il viaggio della Nave
Italia in America Latina nel 1923 tocca
anche Montevideo. L’impresa, sostenuta dal governo italiano, ha lo scopo di
promuovere nel continente sudamericano la cultura e soprattutto i prodotti
dell’artigianato e dell’industria nazionali e i Commissari per le Belle Arti
sono Leonardo Bistolfi e Giulio Aristide
Sartorio. La nave è organizzata come
una fiera ambulante, con sale tematiche tra cui la numero VI dedicata a
“Marmi, ceramiche ed affini” e con
buona probabilità anche alcune opere
di Bistolfi sono qui esposte in attesa di
acquirenti. Purtroppo non mi è stato
possibile rintracciare il catalogo della
Nave Italia e provare la mia ipotesi;
attualmente l’unico studio relativo alla
vicenda è il catalogo della mostra Sartorio, 1924 (Roma 1999).
15
16
17
18
Sborgi, Staglieno cit., pp. 139 e 311.
TAX, En los Cementerios del “Diario
Nuevo”, in “Arte y Ciencia”, anno I, n.
2, 8 novembre 1903, p. 21: “La aristocrazia montevideana se congregó á las
10 de la mañana en el Cementerio
Central, oyendo misas oficiadas por
sacerdotes de talento; mientras que en
el Cementerio del Buceó, las misas
eran dichas por padres modestos, á
quienes las muchedumbres, compuestas de personas humildes, apénas
atendian contemplativas en esa religión de lo infinito, que inspira el mar
al fondo del bosque oscuro. El Cementerio Central, dejaba oir los acordes de
una suite fúnebre, imponiendo á los
mortales visitantes cierto recogimiento
artistico”. Già però a partire dal 1910 la
stampa nota come anche il Buceo stia
subendo una “saludable transformación” (Cementerios. Los dias clásicos, in
“La Semana”, anno II, n. 67, 12 novembre 1910, p. 15).
L’Olocausto propone una giovane
donna, affiancata da due angeli e colta
nel momento di un simbolico sacrificio. L’opera è commissionata da Carlos
Luis Crovetto direttamente a Bistolfi
per la cifra di 27.000 lire ed è nota sin
dall’esposizione del bozzetto alla Biennale del 1905 (cfr. Berresford, Bistolfi
1859-1933 cit, pp. 87-89). I documenti d’archivio montevideani rivelano
molto poco sull’opera ma sono invece
ricchi di dettagli sulla vicende biografiche del committente tra cui il fatto
che s’assicurò l’opera molti anni prima
della propria scomparsa, avvenuta a
Parigi il 19 settembre 1924.
I quattro gruppi rappresentano altrettante figure allegoriche: la Giustizia, la
Legge, la Scienza e il Lavoro.
Un sincero ringraziamento a Robert
Freidus e Juan Angel Urruzola, autori
delle immagini che accompagnano
l’intervento.
Avvertenza: L’Archivo dell’Intendencia
Municipal di Montevideo è sempre
indicato con A.I.M.
Per una storia della scultura a Roma:
il Cimitero del Verano
di Nicoletta Cardano
L’architetto Corrado Cianferoni, autore di un’importante monografia edita nel 1915 e dedicata al Cimitero
del Verano, con sessanta tavole illustrative di cappelle,
tombe e lapidi, sottolinea nell’introduzione il carattere
del tutto particolare del camposanto romano.1
A differenza delle altre tipologie di cimiteri, infatti, il
Verano non si presenta secondo uno schema di “regolarità monumentale” con una disposizione simmetrica
di rampe, strade, porticati, recinti. Per le esigenze
legate alla particolare caratteristica orografica e alla
necessità di salvaguardare, almeno in parte, le preesistenze archeologiche delle catacombe, il cimitero si
sviluppa con ampliamenti successivi che esulano da
un piano unitario e conferiscono un carattere singolare in particolare nelle vaste zone delle sepolture private; qui si succedono monumenti ed edicole la cui
fisionomia è strettamente associata a elementi naturali in una fitta vegetazione di rose, edere e glicini, sullo
sfondo dei cipressi. È un carattere pittoresco, piuttosto che monumentale, scrive Cianferoni, sottolineando inoltre la peculiarità architettonica, anziché plasti-
187
Lo splendore della forma
188
ca, del cimitero, “dove sono poche opere figurali”.
Le osservazioni del Cianferoni sull’aspetto della limitatezza monumentale del Verano risalgono peraltro al
1915, un momento in cui si va concludendo per la scultura il periodo di maggiore creatività e produzione di
iconografie e opere funerarie all’interno dei cimiteri,
con un cambiamento di gusto e di linguaggio che porterà a breve, nel corso degli anni Venti, a una riduzione
qualitativa e quantitativa delle rappresentazioni in favore di una maggiore asciuttezza e di una rinnovata concezione del “monumentale”.
Vero è che rispetto allo “splendore” dei cimiteri, ad
esempio di Madrid o di Vienna, illustrati in questo stesso volume, il complesso delle testimonianze di scultura
esistenti nel Verano non presenta manifestazioni artistiche di pari eccezionalità; costituisce piuttosto un
mosaico variegato, anche con livelli di alta qualità,
della scultura a Roma e nazionale, ancora da ricostruire nella sua totalità. Non mancano apporti originali, di
qualità e di livello, ma la caratteristica del cimitero fa sì
che l’evidenza plastica delle singole sculture non emerga immediatamente e debba piuttosto essere individuata all’interno del contesto.
L’aspetto essenzialmente architettonico dato al cimitero sin dagli inizi con l’impianto del quadriportico, e al
tempo stesso il carattere discontinuo, dovuto ai successivi impianti urbanistici del sito, non ha favorito realizzazioni monumentali grandiose. Il Verano tra l’altro è
privo di un vero e proprio pantheon ideato per contenere le tombe di uomini illustri, una zona destinata ad
accogliere sepolture pubbliche e memorie celebrative.
Del resto le prerogative che il cimitero del Verano in
quanto cimitero della città di Roma doveva assumere, e
in particolare il carattere di monumentalità, sono stati
da sempre tema di preoccupazione. Vari testi descrittivi
del complesso sottolineano sin dall’inizio la necessità
del carattere insieme sacro e severo che il luogo doveva
assumere, un’impronta di autorevolezza cristiana che
marcava la distanza dal paganesimo voluttuoso e
romantico della maggior parte delle città d’Europa,
escludendo un’inventiva plastica e di rappresentazioni
discordante dal tono di sacralità diffusa. Seppure “pale-
Per una storia della scultura a Roma
1. Corrado Cianferoni,
architetto,
Targa “Lux Perpetua”
stra ove i più solenni scultori potran dar saggio della
loro valentia”, i monumenti saranno “severe rimembranze della morte”.2 “Se tu poni piede nel Campo
Verano tutto è solenne, tutto santo, tutto venerando; da
per tutto in ogni punto il santo terrore dell’ultimo giorno, congiunto alla dolce certezza della risurrezione e
alla consolante fiducia di raggiungere la vera patria del
Paradiso, ti si presenta e ti commuove in ogni fibra”.3
Le notazioni sulla mancanza di monumentalità del
Verano si ritrovano come opinione corrente sulla stampa a partire dal 1915 fino all’inizio degli anni Trenta. A
conclusione del periodo di maggiore sviluppo della
tipologia funeraria appare chiara la distanza con i cimiteri “monumentali” di Genova e Milano; negli anni
Venti si manifesta progressivamente l’esigenza di una
risistemazione che interessa la fisionomia del cimitero
troppo affollata di sculture e decorazioni, di memorie
spontanee e non coordinate. Grazie anche alla linea
critica portata avanti da Cianferoni e alle sue realizzazioni architettoniche4 (fig. 1) si tende a una maggiore
essenzialità di forme e decorazioni, a una modernità
che si esplica attraverso geometrizzazioni e forme stilizzate. Il Governatorato giunge a disciplinare le tipologie
dei semplici ricordi funebri posti come segni distintivi
delle tombe bandendo nel 1927 un concorso per edicole funerarie, che doveva individuare tipologie da
rendere poi obbligatorie.5 L’omologazione del dettaglio scultoreo o decorativo, che tende ad abolire
“angioletti oranti” fusi in serie, sculture anonime, di
poco pregio o “targhe di compianto molto meschine”6
189
Lo splendore della forma
190
rientra in un’azione complessiva, portata avanti dal
Governatorato, di riassetto e riammodernamento dell’impianto del cimitero ripensato in chiave monumentale, in linea con gli interventi che coinvolgono negli
anni del fascismo tutta la città. La sostanziale trasformazione della fisionomia del Verano è relativa all’introduzione di memorie celebrative pubbliche che consentono di accogliere riti collettivi nazionali: in primis
l’imponente architettura del Mausoleo Ossario di Raffaele De Vico (1928), ma anche il Ricordo agli avieri caduti,
il monumento funerario ai Martiri fascisti del giovane
architetto Aldo Mascanzoni con decorazioni di Giovanni Prini (1932), o il Monumento nazionale ai marinai periti nel naufragio del Sommergibile Sebastiano Veniero di
Publio Morbiducci (1930).7 Divenuto insufficiente per
le esigenze di sepoltura della città, il Verano viene
ripensato secondo una organica sistemazione monumentale in cui si prevede anche la costruzione del
Famedio per gli uomini illustri.
La possibilità di ricostruire almeno in parte il multiforme scenario della scultura del cimitero di Roma è data
dal lavoro di catalogazione di circa quattromila tombe
condotto dal 2000 dalla Sovraintendenza Comunale.8 Da
Albacini a Zocchi: così, dalla “a” alla “zeta”, può essere
sintetizzato il catalogo degli scultori, in via di redazione,
presenti al Verano dalla seconda metà dell’Ottocento
alla fine della Seconda guerra mondiale. La catalogazione, condotta a tappeto nella parte dell’ingresso monumentale, viale principale, quadriportico, Pincetto vecchio e nuovo, registra una produzione di “alti” e “bassi”
che si colloca spesso al di fuori degli “splendori” della
scultura. Alle realizzazioni scultoree si accompagna una
produzione seriale di manufatti corredati da elementi
decorativi e plastici che attestano, sin dagli inizi dell’istituzione del cimitero, l’intensa attività di marmisti e
decoratori, alcuni dei quali specializzati nell’arte funeraria. Il catalogo degli scultori va dunque integrato con
quello degli artigiani che elaborano e propongono tipologie funerarie, modelli iconografici, elementi decorativi
e di arredo che si trasformano nel tempo a seconda
delle variazioni di gusto e di linguaggio.
Tra gli apporti specifici e di maggior rilievo in questo
Per una storia della scultura a Roma
ambito va segnalato il marmista e ornatista Angelo Marochetti che nel 1878 stampa il suo catalogo con quaranta
tipologie funerarie: si tratta di riproposizioni della tradizione neoclassica o elaborazioni eclettiche di gusto
più aggiornato, che vanno dalla semplice croce alla
lapide, alla stele, all’urna, alla colonna spezzata, al
monumento scultoreo vero e proprio. Lo scopo
imprenditoriale del catalogo è quello di catturare attraverso una serie di modelli il desiderio dei possibili utenti dei ceti meno abbienti e popolari.9 La ditta Antonio
Desio, che ha la sua sede bene attrezzata sul piazzale
del Verano, costruisce dai primi anni del Novecento
numerose cappelle, cercando di venire incontro alle
esigenze di gusto ed economiche della media borghesia.10 Anche la ditta Medici, specializzata nelle realizzazioni in marmi antichi, riceve commissioni dal 1838 al
1925 per monumenti funebri e tombe del Verano.11 Tra
gli autori minori, la cui produzione è prevalentemente
dedicata all’arte funeraria e celebrativa con tipologie e
modelli variamente riproposti, è da segnalare lo scultore Giuseppe Ciocchetti che nel suo stabilimento sulla
via Tiburtina “L’arte funeraria” si dedica prevalentemente alla realizzazione di sculture funebri con varianti
di angeli e di meditazioni sulla morte, di sarcofagi in
granito, di cippi e di monumenti ai caduti.12
La storia della scultura del cimitero del Verano, tracciata attraverso gli esempi più rilevanti, registra nella fase
iniziale, ossia nel momento di passaggio dalla committenza dello stato pontificio alle realizzazioni del nuovo
stato unitario, alcuni episodi di particolare importanza
che contribuiscono a rafforzare il carattere sacro del
cimitero, e sono strettamente legati al progetto architettonico di Vespignani. Indicativi in tal senso sono il
concorso del 1873 per la realizzazione delle quattro
sculture collocate sopra l’ingresso monumentale e l’acquisto della statua del Redentore di Leopoldo Ansiglioni, posta a sostituzione di una preesistente croce in
legno, come elemento simbolico e di immediato riferimento visivo nella area del quadriportico.
Il progetto di caratterizzare con statue colossali gli archi
monumentali dell’architettura di ingresso di Virginio
Vespignani risale agli anni Sessanta quando viene indivi-
191
Lo splendore della forma
2. Luciano Campisi,
Monumento a Goffredo
Mameli
192
duato come tema iconografico quello dei “quattro Novissimi” (la morte, il giudizio particolare, il paradiso o l’inferno). Dopo una prima realizzazione di bozzetti e alcuni
cambiamenti relativamente al soggetto, fu bandito l’11
giugno 1873 il concorso per le statue della Speranza,
Meditazione, Preghiera e Silenzio. L’assegnazione avvenne in
due fasi successive con la commissione prima a Francesco Fabj Altini (La Preghiera e La Meditazione) e Stefano
Galletti (La Speranza) e in seguito (28 novembre 1873) a
Luigi Blasetti (Il Silenzio). Al concorso, riservato agli “artisti romani”, peraltro solleciti subito dopo l’unità nel
richiedere al Municipio l’attivazione di committenze
pubbliche,13 partecipò anche il giovanissimo Ettore Ferrari, allievo di Fabj Altini.14 Il tono generale della realizzazione è dato dalle figure simboliche di Fabj Altini, concepite come angeli che esprimono l’idealità dei sentimenti
e degli affetti attraverso la solennità di forme classiche.15
La definizione della scultura da porsi nell’area centrale
del quadriportico, di particolare rilievo per la fisionomia del cimitero, ha una lunga gestazione. Dopo una
primitiva idea di collocazione di un Crocifisso, tema di
un concorso andato deserto, si pensa, secondo la proposta dell’architetto Mercandetti che riprende una
idea di Vespignani, di realizzare una raffigurazione di
Cristo che sale al cielo. La vicenda dura dieci anni dal
1877 al 1887 e dopo varie ipotesi che prevedono un
nuovo concorso, mai realizzato, con il ritorno al tema
del crocifisso, e la possibile acquisizione di una scultura
di Rinaldo Rinaldi,16 si giunge alla acquisizione di un
modello già predisposto da Leopoldo Ansiglioni per il
Cimitero di Berlino.
Per una storia della scultura a Roma
Le difficoltà ad accogliere e rappresentare nella città
dei morti – così come nella città dei vivi, capitale del
nuovo Stato – memorie celebrative di valenza nazionale
e risorgimentale sono testimoniate dal concorso bandito dal Comune nel 1889 per la realizzazione del monumento al poeta e patriota Goffredo Mameli (fig. 2). Con questa iniziativa trova risoluzione la sepoltura dei resti del
poeta e patriota, depositati nel cimitero in via “provvisoria” dal 1872, dopo la riesumazione dai sotterranei della
chiesa delle Stimmate. Alla possibilità di sistemazione
all’interno del monumento a Garibaldi sul Gianicolo si
preferisce infatti, secondo anche il volere dei familiari
di Mameli, la realizzazione della memoria sepolcrale al
Verano.17 Il monumento fu realizzato dallo scultore siciliano Luciano Campisi, vincitore del concorso con un
bozzetto18 che prevedeva la raffigurazione in marmo di
Mameli, rappresentato sul letto di morte e avvolto nella
bandiera. La statua del “vate guerriero”, è inquadrata in
un fondale architettonico in peperino sormontato dalla
lupa capitolina disegnato da Ettore Bernich. Attraverso
un morbido naturalismo Campisi riesce a rendere in
modo composto ed efficace la figura del giovane eroe,
morto dopo lunghe sofferenze per le ferite riportate
combattendo per l’indipendenza.
Una vera e propria “galleria di sculture” del Verano è
raccolta nel quadriportico, elemento architettonico
distintivo del cimitero, concepito da Vespignani come
spazio unitario, destinato ad accogliere l’arte: il ciclo di
pitture nelle lunette19 e le sculture funerarie all’interno
delle arcate. Protetti dalla copertura i monumenti trovano qui la giusta ambientazione che permette, così come
viene sottolineato negli scritti coevi alla sua realizzazione,20 di valorizzare gli aspetti plastici e di cogliere, nella
continuità dello spazio, la varietà e la grandiosità delle
raffigurazioni. Come noto, allo stesso Vespignani fu affidato nel 1862 l’incarico di esaminare preventivamente
tutti i manufatti e i monumenti sepolcrali del Verano,
prima di sottoporli all’approvazione del Congresso.21
Riempito di opere funerarie in prevalenza tra gli anni
Sessanta e gli anni Ottanta dell’Ottocento, con interventi ulteriori di trasformazione e aggiunte fino agli inizi
del Novecento, il quadriportico presenta tipologie di
193
Lo splendore della forma
3. Ettore Ferrari,
Sarcofago con il ritratto
di Pietro Cossa
194
cappelle e gruppi statuari in gran parte ripresi dalla tradizione neoclassica e dai sepolcri delle chiese romane.
Sono noti i diversi esempi di scultura collocati in questa
parte del Verano,22 opere riconducibili a un ambito accademico, e che in generale testimoniano il passaggio da
un classicismo morbido a toni veristi; la stessa evoluzione
è visibile nelle trasformazioni di linguaggio di alcuni
artisti della generazione più matura. Fabj Altini, ad
esempio, realizza, nella fase conclusiva della sua attività,
il Monumento Vitali nel quadriportico, fondendo un tono
più classico con un’attenzione verista, evidente nella
descrizione degli abiti dei familiari raccolti attorno al
sarcofago della defunta. Anche Stefano Galletti nel
Monumento ad Erminia Fuà Fusinato – recuperato nella
sua piena leggibilità grazie al recente restauro – tratta
con vena naturalistica la figura della Fusinato, poetessa e
patriota, soffermandosi in un’accurata rappresentazione
della posa, della sedia e delle vesti. Il risultato è un
monumento funebre che riesce a restituire l’immagine
di vitalità intellettuale e di forza morale della Fusinato.
Per una storia della scultura a Roma
4. Ettore Ferrari,
Tomba
di Attilio Sammartin
e Natale Sacchi, 1883
Non è possibile trattare in questa sede, seppure sommariamente, gli autori e le peculiarità degli aspetti plastici
presenti nel quadriportico. Si ricordano soltanto tra le
opere più note e di maggiore fortuna il gruppo di Viktor Brodski per la Cappella Giordano Apostoli (1876), il
Sepolcro di Giovanni Battista Lombardi realizzato per
la moglie Emilia Filonardi Lombardi (1875), la statua
che ritrae il pittore Tommaso Minardi di Luigi Fontana
(1876). A parte va citata la Tomba di Primo Zonca, con la
presenza di Giulio Monteverde che ripropone il modello iconografico dell’Angelo del dolore (1895).
Esempi significativi della scultura del Verano, utili a
una comprensione ampia della trasformazione dei
fenomeni artistici e delle modifiche del gusto e del linguaggio, vanno ricercati oltre i prototipi del quadriportico. Si tratta di individuare, in particolare nel Novecento, quelle “poche opere figurali” del cimitero che si
rivelano innovative per il cambiamento di registro
rispetto alle iconografie consolidate di angeli, sepolcri,
busti, donne velate e rappresentazioni sacre.
Tra le rappresentazioni funerarie più rilevanti a partire
dalla fine dell’Ottocento si devono citare le opere di
Ettore Ferrari,23 figura di primo piano nell’ambiente
195
Lo splendore della forma
artistico e politico, che staccatosi dal romanticismo del
primo periodo caratterizza la sua produzione in senso
marcatamente realista, con un linguaggio plastico vigoroso ed efficace. Ne sono un esempio i numerosi monumenti funerari con i busti dei defunti, il sarcofago con il
ritratto di Pietro Cossa (fig. 3) e ancora la Tomba di Attilio Sammartin e Natale Sacchi (1883), del tutto originale
per la realizzazione: l’artista unisce a una semplice stele
in marmo una barca capovolta su una finta scogliera
(fig. 4), per ricordare il tragico evento in cui perirono i
due giovani uomini, in gita in barca a vela nei pressi di
Fiumicino; l’idea del naufragio è rafforzata dalla rappresentazione della giacca bagnata, realizzata in bronzo, e posta come appoggiata sulla barca. Il rilievo in
marmo di Elvira Poggesi Viola, del 1902, con il ritratto
della defunta all’interno di una stele floreale in cui è
delineata la figura di una dolente, è particolarmente
interessante e rivela l’apertura dell’artista a declinazioni
simboliste (fig. 5).24
Per una storia della scultura a Roma
6. Giovanni Granata,
Tomba Granata, 1909
196
5. Ettore Ferrari,
Tomba Elvira Poggesi Viola,
1902
197
Seppure il cimitero di Roma non accoglie in maniera
evidente le trasformazioni di linguaggio simboliste e
liberty tra fine Ottocento e primi del Novecento, sono
tuttavia diffuse le testimonianze, diversificate per produzione e livello qualitativo, che documentano l’abbandono di rappresentazioni realistico-classicheggianti
in favore di elaborazioni dalle forme più fluide e lineari, e di soggetti di ambito simbolista.
Ettore Ximenes, scultore fecondo e artista eclettico,
capace di stemperare la sua originaria componente
realista nelle cadenze liberty, realizza nel 1906 per la
Lo splendore della forma
sua stessa tomba – una architettura posta sul viale delle
Cappelle – un rilievo in marmo raffigurante la morte
che accoglie tra le braccia due giovani nudi.25
Di un classicismo neorinascimentale, unito a forme
aggraziate e a una linearità fluida, sono le sculture realizzate dallo scultore abruzzese Giovanni Granata. Nel 1909
esegue per la tomba della figlia morta prematuramente
la figura di un angelo in bronzo che raccoglie i petali di
fiori dal grembo per gettarli sulla tomba a terra, inquadrata da una stele in pietra con elementi floreali (fig. 6).
Vito Pardo, allievo di Monteverde, è particolarmente attivo al Verano con lavori monumentali: oltre alla nota
Tomba della Famiglia Sinigaglia (1903) esegue anche il
Monumento al generale De Rada (1905) e la Tomba Tortima
(1911).26 Quest’ultima ottiene un notevole riscontro sia
per il tema (l’angelo del dolore in bronzo raffigurato sullo
198
Per una storia della scultura a Roma
scoglio della vita, in peperino), sia per la realizzazione di
grande effetto, che riesce a suscitare nella sua semplicità
espressiva sentimenti di commozione e dolcezza (fig. 7).
La tendenza a una maggiore forza costruttiva e di solidità di forme si trova già nel 1909 nella Tomba Brenna,
realizzata da Ernesto Biondi, autore tra l’altro del
famoso gruppo dei Saturnalia conservato presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna. La versatilità di questo artista e la profonda adesione al tema sepolcrale,
data dalla sua amicizia con il defunto, contribuiscono
al carattere innovativo del monumento, sia sotto il profilo della sintesi formale, sia per l’originalità della composizione articolata nel gruppo del compianto sul Cristo morto in marmo bardiglio e nella figura in bronzo
della donna piangente accanto al sarcofago (fig. 8).27
Le realizzazioni di maggiore interesse e novità dopo la
Prima guerra mondiale appartengono a Dazzi, che
integra il Monumento a Fuà Fusinato con il busto di
Arnaldo Fusinato, a Giovanni Prini, Duilio Cambellotti,
Attilio Selva, Publio Morbiducci, Ermenegildo Luppi:
si tratta di opere di qualità che testimoniano l’apporto
specifico dell’ambiente romano alle vicende della scultura italiana degli anni Venti e Trenta.
Si precisa con l’opera critica di Cianferoni e grazie alle
realizzazioni, ad esempio di Duilio Cambellotti e di
Giovanni Prini (fig. 9), una nuova cura nel disegno e
nella plastica di ricordi di piccole dimensioni, lapidi o
7. Vito Pardo,
Tomba Tortima, 1911
8. Ernesto Biondi,
Tomba Brenna
199
Lo splendore della forma
9. Giovann Prini
200
steli, che costituisce un rinnovamento significativo
della concezione dell’arte funeraria a partire dal
primo dopoguerra. È il caso della lapide a Paolo
Zucca realizzata da Duilio Cambellotti (fig. 10),28 oggi
priva purtroppo della scultura con le rondini, o della
stele a muro lievemente ogivale con la stilizzazione di
un panneggio laterale da cui fuoriescono due mani
giunte del monumento Belsito Prini.
Della varia e rilevante produzione di Prini non possono
non essere nominati i Monumenti Fera, Trabalza, Trapanese; di Publio Morbiducci la scultura raffigurante una
Madonna della Tomba Giuliani (fig. 11), oltre al già citato Monumento ai marinai del sommergibile Sebastiano Veniero; di Ermenegildo Luppi va segnalato il Monumento
Per una storia della scultura a Roma
Ciolfi del 1924,29 e ancora si deve indicare il San Sebastiano di Alfredo Biagini, realizzato per lo stesso sepolcro dell’artista e della moglie. Di Attilio Selva, oltre al
monumento fascista ai patrioti dalmati Arturo Colautti
ed Ercolano Salvi (1930), va citato il sepolcro con una
sintetica forma di donna dolente in marmo.30
Le trasformazioni culturali e artistiche del secondo dopoguerra cambiano totalmente la concezione dell’arte
funeraria e il senso di rappresentazione della morte.
Pochi i segni della contemporaneità nel cimitero del
Verano, tra i quali, ad esempio, la scultura di Mirko,
quasi un ricordo privato sulla Tomba di Corrado Cagli.
In chiusura di questo excursus viene spontaneo interrogarsi sul ruolo odierno della scultura nel Verano e
più in generale nei cimiteri monumentali. La consapevolezza ormai acquisita negli ultimi anni dell’immenso valore storico e artistico delle “città dei morti”,
la tendenza alla conservazione e al restauro nel tentativo di restituire così come possibile le complesse relazioni originariamente esistenti tra spazio architettonico, manufatto plastico e natura, evidenziano la possibilità di intervento artistico: un intervento di lettura
nuova di luoghi e manufatti, progettato e realizzato
da artisti contemporanei nella scala urbana della città
dei morti; non una estemporaneità di affermazione
plastica o installativa che verrebbe soltanto a sovraccaricare un “troppo pieno”, ormai alterato; piuttosto la
progettazione per luoghi e temi, secondo un piano
unitario, di un nuovo rapporto con le aree dei cimiteri monumentali.
201
10. Duilio Cambellotti,
Tomba Paolo Zucca,
m. 1909
11. Publio Morbiducci
Per una storia della scultura a Roma
Lo splendore della forma
1
2
3
4
202
5
6
7
Cimitero del Verano in Roma (scelte
dall’arch. Corrado Cianferoni), Crudo e
C., Società italiana di edizioni artistiche, Torino, 1915.
Tancredi, G., Pensieri religiosi e morali
intorno i cimiteri, in “L’Album”, 7
dicembre 1861; tra i vari testi significativi per la definizione della fisionomia del cimitero cfr. anche Una visita
al campo santo di Roma fuori porta s.
Lorenzo, in “L’Album”, 1847; Gasparoni, F., Del cimitero e de’ monumenti
sepolcrali di Roma, in Arti e lettere.
Scritti raccolti da Francesco Gasparoni,
Roma, Tipografia Menicanti, 1863, pp.
312 e sgg.
Mencacci P., I cemeteri di Roma:
appunti storici, Tip. Salviucci, Roma
1865.
L’architetto Corrado Cianferoni è personaggio di rilievo per la storia del Cimitero del Verano a partire dal secondo
decennio del Novecento. Definito come
un eclettico libero da ogni accademia,
moda o tendenza rinnova in senso
modernista l’arte funeraria del cimitero,
senza tralasciare il rapporto con la tradizione cristiana e medioevale. Dopo la
cappella Barbavara di Gravellona del
1913 (Cardilli L., a cura di, Il Verano.
Percorsi della memoria, Fratelli Palombi,
Roma 1995, p. 43) che rielabora
influenze secessioniste, realizza nel
1921 il grande portico che si distende
lungo la rupe Caracciolo, ispirandosi
alle costruzioni paleocristiane e alla
basilica di San Lorenzo decorato con
frammenti architettonici provenienti
dall’Antiquarium. Tra le numerose cappelle da lui realizzate, e documentate
dagli articoli dei quotidiani, si ricordano
le tombe Celli e de Francesci, la Tomba
Giuliani con scultura di Morbiducci
(mess. 2 novembre 1924), la Tomba
Maoli con la scultura Madonna di Prini.
Cfr. Concorso per le edicole funerarie
pel cimitero del Verano in Roma, in
“Architettura e Arti Decorative”, marzo
1928, n. 7, pp. 326 e sgg.
Cfr. “Il Messaggero”, 30 ottobre 1928.
Cfr. Le nuove e monumentali opere al
Cimitero del Verano, in “Il Messaggero”,
28 ottobre 1930; sul monumento realizzato in seguito al naufragio del Veniero
cfr. Publio Morbiducci: 1889-1963; pitture, sculture, medaglie, catalogo della
mostra a cura di Cardano N., Accademia
Nazionale di San Luca, novembredicembre, Roma 1999, De Luca.
8
9
10
11
12
13
14
15
16
Il progetto di schedatura è stato svolto
nell’ambito delle attività di catalogazione in collaborazione con Zètema
Progetto Cultura. Attività di studio
sono state svolte dal 2005 al 2007 nell’ambito di stage condotti in collaborazione con il corso di Storia Sociale dell’Arte della prof.ssa Luciana Cassanelli,
Università di Roma La Sapienza. I risultati attuali sono stati raggiunti grazie
all’impegno e alla professionalità di
Laura Rendina, Michele Manucci,
Monica Capalbi, alla collaborazione di
Giuliana Renzella e di tutti coloro che
nei diversi anni hanno coadiuvato le
ricerche e gli studi.
Cfr. Specialità di Lavori per Camposanto esistenti nell’Opificio Lapidario di
Angelo Marochetti Marmista ed Ornatista, Con Laboratorio proprio, Litogr.
Ribero, Roma 1878. In copertina viene
specificato che “si accordano pagamenti a rate mensili da convenirsi”. Nel
catalogo è inoltre pubblicata una circolare in cui si prevede come modalità
di pagamento, oltre alle rate, la possibilità di offerte di generi di consumo
(olio, vino, carbone, cerali…).
Notizie sull’attività di Antonio Desio si
ricavano dalle cronache dei giornali e
in particolare in “Il Messaggero”, 1
novembre 1903; 2 novembre 1904; 3
novembre1906; 2 novembre 1908; 3
novembre 1921; 2 novembre 1922.
Medici, marmorari romani, a cura di
Priscilla Grazioli Medici, Tipografia
Poliglotta Vaticana, 1988, p. 592.
Cfr. Cav. Giuseppe Ciocchetti scultore
direttore proprietario degli stabilimenti
L’arte funeraria - S.l.: s.n., 1928; notizie sull’attività di Ciocchetti sono
anche in “Il Messaggero”, 2 novembre
1919; 3 novembre 1922.
Vedi Gnisci S., La politica culturale e
artistica del Municipio romano dal
1870 al 1927, in Il Giardino della
Memoria, p. 53.
Sono documentati due bozzetti della
Meditazione (cfr. Mantura B., Ettore
Ferrari scultore tra il 1867 e il 1880, in
“Capitolium”, 1974 (XLIX), n. 7-8, pp.
45-46 e uno del Silenzio.
Cfr. la relazione presentata al concorso
da F. Fabj Altini, ASL, vol. 136, n. 95.
Proposta dello scultore Rinaldo Rinaldi
di collocare al centro del quadriportico
una statua di marmo rappresentante
Gesù Cristo (ASC Titolo 61 post
unitario, b. 1 fasc. 37).
17
18
19
20
21
22
23
Le spoglie di Mameli furono traslate
nel 1941 nel mausoleo Ossario del
Gianicolo. Sul monumento del Verano
cfr. AC, Atti del Consiglio Comunale,
16 agosto 1890, Repertorio n. 547;
Titolo 12, b. 12, fasc. 492, prot. 65560
1891.
Ora conservato presso il Museo dei
Bersaglieri in Roma.
Cfr. Bencini L., Il ciclo di affreschi, in
Percorsi della memoria. Il Quadriportico
(…) cit., pp. 42-66.
Cacchiatelli P. e Cleter G. (a cura di), Le
scienze e le arti sotto il pontificato di
Pio IX, Stab. tip. G. Aurelj, Roma 1865,
vol. I, s.p.
AC, Congressi di magistratura 1862;
Tit. 61, b. 8 fasc. 466.
Cfr. Cardilli L. e Cardano N. (a cura di),
Percorsi della memoria. Il Quadriportico
del Verano, Fratelli Palombi, Roma
1998.
Alberi P. e Passalalpi Ferrari E., Le scultura romane di Ettore Ferrari, Firenze
Libri, Firenze 1992. Ettore Ferrari 1845
- 1929 catalogo della mostra (a cura di
Mantura B. e Rosazza Ferraris P.),
24
25
26
27
28
29
30
Palazzo della Cultura, Latina, 19881989, Mondadori, Milano 1988.
La stele è stata inserita all’interno
della cappella realizzata nel 1922 da
Corrado Cianferoni, cfr. Cardilli, Il
Verano cit., pp. 31-32.
Cfr. Cardilli, Il Verano cit., pp. 54-56.
Sull’opera di Vito Pardo cfr. Piccioni, A.,
Vito Pardo (scultore): critica, autobiografia, riproduzione delle principali
opere, Soc. Tip. Ed. Taddei di A. Neppi e
C., Ferrara 1922; per il monumento
della famiglia Sinigaglia, cfr. Cardilli, Il
Verano cit., pp. 78-80; per il Monumento al generale De Rada, cfr. “L’Illustrazione Italiana”, 1905, II, p. 41; per
la tomba Tortima cfr. “Il Messaggero”,
1 novembre 1911.
Rusconi, J.A., Un monumento funebre
di E. Biondi, in “Emporium”, Vol. XXXI,
1910, n. 183, pp. 239-240.
Cfr. Cianferoni, op. cit., ripr.
Cfr. “Il Messaggero”, 2 novembre 1924.
Nel catalogo della recente mostra di
Attilio Selva (Trieste 1888-Roma 1970)
scultore a Villa Strohl-fern altre preziose indicazioni.
203
La scultura nel Cimitero acattolico di Roma
di Christina Huemer
La scultura nel Cimitero acattolico di Roma
1. Funerale
di Jonas Åkerström, 1795,
Stockholm, Riksarkivet,
Kart-och ritningssamlingen,
Biographica,
Akerström m. form.
(riprodotta
con autorizzazione)
c’erano molti protestanti ma anche diversi cattolici, ed
essi appartenevano a una scala sociale troppo elevata
per essere sepolti con le prostitute.
Poco dopo il 1702 questi protestanti cominciarono quindi a essere sepolti vicino alla Piramide di Caio Cestio,
subito dentro le mura e non lontano dal Monte Testaccio. Quest’area era allora un pascolo comune. La Pira-
204
Il Cimitero acattolico di Roma, noto anche come il
“Cimitero protestante”, non è il più antico di questo
genere in Italia, ma è quello che offre il più lungo spettro cronologico di monumenti, dal XVIII secolo a oggi.
Del resto, il cimitero è usato ancora oggi, e offre un
luogo di riposo eterno non solo ai cristiani protestanti,
ma anche ai cristiani ortodossi greci e russi, ebrei,
musulmani, e a persone di tante altre fedi e filosofie.
Prima del XVIII secolo, i protestanti e gli altri “eretici”
che morivano a Roma di solito venivano sepolti fuori le
mura, spesso in un luogo chiamato il Muro Torto,
assieme a prostitute, criminali, e altri “peccatori” o persone indesiderabili. 1 Ai protestanti era proibito dal
diritto canonico di essere sepolti in terra consacrata.
Nell’epoca del Grand Tour, quando un numero crescente di ricchi europei del Nord venivano in Italia,
divenne necessario provvedere a un luogo di sepoltura
che non avesse tali associazioni negative. Un importante fattore fu il fatto che la corte britannica degli Stuart
fosse in esilio a Roma, dove Giacomo III Stuart trovò la
protezione del Papa, poiché nell’ambiente degli Stuart
205
2. Giovanni Battista Piranesi,
Monumento
James MacDonald
(m. 1766)
Lo splendore della forma
La scultura nel Cimitero acattolico di Roma
3. Erik Gustav Goethe,
Monumento
Eliza Watson Temple
(m. 1809), 1810
206
mide, con le sue evidenti connotazioni funerarie e la sua
bella e semplice forma, e le adiacenti Mura Aureliane
avevano già suscitato una grande attrazione fra gli artisti.
Durante gli ultimi anni del XVIII secolo, i protestanti
venivano sepolti qui in tombe generalmente senza alcun
segno, poiché le regole funerarie del tempo vietavano
epitaffi e monumenti. La sepoltura di solito avveniva di
notte (fig. 1), per evitare di dare nell’occhio e, più tardi,
durante le epidemie di colera, per evitare il contagio.
Nel 1765, semplici monumenti ed epitaffi cominciarono a essere permessi, anche se il loro contenuto era
ancora sottoposto a regole molto strette. Le croci, simbolo cristiano, e ogni riferimento all’aldilà erano scoraggiati (a quel tempo perfino per i Cattolici) e infatti
sono molto rari. I primi monumenti furono approvati
dal Papa in persona. Per il monumento funebre di
James MacDonald,2 giovane membro della corte degli
Stuart che morì nel 1766, Giovanni Battista Piranesi
scelse un’antica colonna romana, e aggiunse un’iscrizione in cui è presente anche il suo nome come autore
della tomba (fig. 2). La semplicità di questa tomba è
solo apparente, poiché combina due motivi antichi: la
colonna spezzata è un antico simbolo dell’interruzione
della vita con la morte, mentre la forma dell’iscrizione
è simile a quella di un’antica pietra miliare romana.3
Una singola colonna fu anche la scelta nel 1807 per il
figlioletto di Wilhelm von Humboldt, ambasciatore
prussiano presso la Santa Sede, che fu il primo a ottenere il permesso per una tomba di famiglia. Per l’importanza di questa concessione, i tedeschi assunsero le mag-
4. Monumento
a John Keats
(m. 1821)
207
giori responsabilità nella cura del cimitero per tutto il
XIX secolo, anche se il cimitero era (e ancora lo è tra gli
italiani) comunemente noto come “il Cimitero Inglese”.
Tre tipi di monumenti, tutti ispirati all’antichità classica, erano popolari prima del 1810: la colonna, il sarcofago, e il piedistallo (o altare). Se c’è qualche scultura
in rilievo è di solito limitata all’immaginario araldico o
a motivi molto semplici, come la brocca e il disco come
riferimento al rito delle libagioni funerarie.
Anche i primi esempi di altorilievo nel cimitero sono
neoclassici. Il primo fu la bella lapide eretta in memoria dell’americana Elisa Watson, Lady TempIe (17711809), moglie amata e madre di quattro figli. Essa è
modellata sull’esempio dei rilievi degli altari romani,
con scene di dipartita e di lutto (fig. 3). Lo scultore fu
Erik Gustav Goethe, uno svedese.
Il poeta John Keats, come molti altri sepolti nella parte
Lo splendore della forma
5. Richard Westmacott II,
Monumento Rosa Bathurst
(m. 1824)
208
più antica del cimitero, non era né ricco né famoso
quando morì nel 1821. Non volle il suo nome sulla
lapide, ma solo il verso: “Qui giace colui il cui nome è
scritto nell’acqua”.4 Chiese anche l’immagine di una
lira greca, con una corda spezzata, simbolo del silenzio
della voce del poeta (fig. 4). Questo motivo, unico nel
cimitero, è ispirato alla poetica di Keats, specialmente
al suo Endymion, ma le sue radici sono nell’antichità.5
L’anno dopo la morte di Keats, fu costruito un muro
attorno alla parte più antica del cimitero, poi nota
come la Parte Antica, e una nuova sezione fu creata
verso occidente, con terrazze regolari. Non furono più
permesse altre sepolture nella Parte Antica, anche se
questa regola fu occasionalmente violata.
Nel 1824 Rosa Bathurst all’età di 16 anni annegò nel
Tevere dopo essere scivolata durante una festa ippica.
Sua madre, che aveva già perso il marito in circostanze
misteriose, riversò tutto il suo dolore in una lunga iscrizione sia in inglese che in italiano. I rilievi dello scultore
inglese Richard Westmacott II mostrano un genio che
La scultura nel Cimitero acattolico di Roma
consola una figura femminile piangente (su un lato, fig.
5) e che tiene una torcia capovolta (sull’altro). Era
quanto di più vicino alla rappresentazione della speranza cristiana di una vita dopo la morte a quel tempo fosse
immaginabile, ma il tema era ancora rigorosamente sviluppato in stile neoclassico. Questa tomba fu resa famosa da Henry James, il quale la vide per la prima volta nel
1871 e la descrisse nel suo libro Italian Hours.6
I ritratti a rilievo si diffusero alla fine degli anni Venti
del XIX secolo. Alcuni dei primi furono realizzati da
Bertel Thorwaldsen, un danese, uno degli scultori più
famosi della sua generazione. Il suo rilievo di August
Goethe, il quale morì nel 1830 ed era l’unico figlio di
Johann Wolfgang Goethe, era originariamente in
marmo ed è stato sostituito da una copia in bronzo.7
Lo scultore inglese John Gibson, sepolto nel cimitero,
fu l’autore dei ritratti del collega Richard Wyatt e del
proprio fratello Benjamin. La lapide anonima del pittore russo Karl Brjullov (1799-1852) combina il ritratto
di Brjullov con vari altri simboli, inclusi i pennelli e le
tavolozze dell’artista con una classica scena di lutto.
I ritratti veri e propri sono molto più rari. Devereux
Plantagenet Cockburn, un soldato scozzese che morì nel
1850 all’età di 21 anni (fig. 6), fu rappresentato come
una figura distesa, con il suo cane preferito e un’iscrizione che loda le sue “rare doti intellettuali e fisiche”. Lo
scultore era Benjamin Edward Spence (1822-1866), di
Liverpool, che studiò con Richard Wyatt a Roma.
209
6. Benjamin Edward Spence,
Monumento
Devereux Plantagenet
Cockburn (m. 1850)
Lo splendore della forma
Quando nel 1870 si perfezionò l’Unità d’Italia con l’inclusione di Roma, i Protestanti furono autorizzati a
esercitare il culto liberamente e cominciarono a
costruire le loro chiese dentro le mura di Roma. Le
vecchie restrizioni sulle forme dei monumenti funebri
nel cimitero furono cancellate. Croci e altri simboli cristiani furono accettati. Nuovi monumenti furono
costruiti per persone che erano morte molto tempo
prima, come la croce celtica eretta nella Parte Antica
per John Bell, un chirurgo scozzese, morto nel 1820, la
cui tomba era segnata solo da una semplice lastra.
Anche le sculture a tutto tondo divennero più comuni.
La diciassettenne Maria Obolensky (1855-1873), per
esempio, fu rappresentata come un’allegoria della
210
La scultura nel Cimitero acattolico di Roma
malinconia, seduta davanti alla porta semi aperta della
camera della tomba, persa nei suoi pensieri o nel suo
dolore. Lo scultore americano Richard Greenough
(1819-1904) eresse la sua splendida Psiche che si spoglia
della mortalità sulla tomba di sua moglie nel 1886. Questa tomba fu descritta da Gabriele D’Annunzio nel suo
romanzo Il Piacere come appariva nella prima luce della
sera: “La statua di Psiche in cima al viale centrale aveva
assunto un pallore di carne”.8
L’immaginario classico prevalse anche nella tomba del
mecenate finlandese Victor Hoving (1846-1876), scolpito dal suo compatriota Walter Runeberg che realizzò
un genio alato che solleva un ramo di palma, e in
quella del pittore tedesco Hans von Marees (18371887), con una scena allegorica dell’artista incoronato
dalla Musa (fig. 7).
Nell’ultimo decennio del XIX secolo ci fu una significativa diffusione degli angeli, specialmente nei monumenti americani.9 Forse il più noto è l’Angelo del dolore
dello scultore William Wetmore Story per la tomba
della moglie Emelyn, morta nel 1895 (fig. 8). Franklin
Simmons (1839-1913), anche lui americano, creò il suo
Angelo della Resurrezione come monumento per la sua
seconda moglie, Ella, morta nel 1905. Il monumentale
bronzo di Hendrik Christian Andersen, l’Angelo della
Vita (1912), non domina più il cimitero come fece dal
1918 al 1933, ma si può vedere nel suo museo a Roma.10
211
7. Monumento
Hans van Marees (m. 1887)
8. William Wetmore Story,
Monument Emelyn Story
(m. 1895)
La scultura nel Cimitero acattolico di Roma
Lo splendore della forma
9. Ettore Ximenes,
Monumento
Thomas Jefferson Page
(m. 1899)
In ogni tappa della storia del cimitero, comunque, e
specialmente nel corso del XIX secolo, se si confrontano i monumenti del cimitero non cattolico con i
monumenti contemporanei del Campo Verano o di
ogni altro cimitero cattolico italiano, l’impressione
generale è di sobrietà e di un certo ritegno nella decorazione scultorea. È stato spesso detto che tale estetica
fu determinata dalle restrizioni imposte dal governo
papale, ma è più probabile che la causa sia stata una
sorta di autocensura da parte dei protestanti stessi.
Inoltre, nell’estetica delle sculture si riflette quanto sia
durata l’attrazione verso lo stile neoclassico tra gli
europei del nord e gli americani. Del resto, proprio la
collocazione del cimitero accanto alla Piramide condizionò la scelta dei monumenti. Soltanto alla soglia del
XX secolo, nelle parti del cimitero più distanti dalla
Piramide, si nota un’estetica più libera, basata sul movimento internazionale dell’Art Nouveau, che però durò
per un periodo comparativamente più breve.
213
212
L’Art Nouveau è rappresentata in vari monumenti
nelle parti più recenti del cimitero. Una delle tombe
più belle fu realizzata dallo scultore italiano Ettore
Ximenes per Thomas Jefferson Page, comandante
navale americano, morto nel 1899 (fig. 9). Il pittore
Elihu Vedder creò una figura femminile in lutto, con la
testa coperta, per sua moglie e i suoi figli.11 Un’opera
tarda, poco conosciuta, dello scultore maltese Antonio
Sciortino per Violet May Court (1915) è la figura di un
angelo chino che raccoglie fiori.
Dopo la Seconda guerra mondiale il cimitero fu posto
sotto il controllo di un comitato internazionale di
ambasciatori di nazioni non cattoliche, una situazione
che permane ancora oggi. Le scelte estetiche venivano
di solito assunte dai rappresentanti delle varie accademie scientifiche straniere in Italia, che per quasi tutto il
XX secolo favorirono un approccio omogeneo ai problemi della conservazione.12
1
Per la storia del Cimitero vedi: CarI
Nylander et al., The Protestant Cemetery in Rome: the “Parte Antica” pubblicato da Antonio Menniti Ippolito e
Paolo Vian (Unione Internazionale
degli Istituti di Archeologia, Storia e
Storia dell’Arte in Roma, Roma 1989);
Wolfgang Krogel, All’ombra della Piramide: storia e interpretazione del Cimitero acattolico di Roma (Unione internazionale degli istituti di archeologia
storia e storia dell’arte in Roma, Roma
1995); CarI Nylander, “The people at
the pyramid: notes on the Protestant
cemetery in Rome”, in: Suecoromana. /. Docto peregrini: Roman studies in
honour of Torgil Magnuson (Istituto
Svedese di Studi Classici, Stockholm
1992), pp. [221]-249; Catherine Payllng, The Non-Catholic Cemetery in
Rome: a history, “Keats-Shelley
Review” 20 (2006), pp. 52-57.
2
3
4
Il primo nome presente nei documenti
(William Ellis) è datato 1732, mentre i
resti della prima sepoltura possono
essere datati 1738: George Langton, un
inglese, il cui nome è noto grazie a uno
scudo in piombo che copre i suoi resti.
Cfr. Roberta Battaglia, Giovanni Battista Piranesi e il monumento funebre: la
tomba MacDonald, Prospettiva 73/74
(1994):, pp. 169-179.
Per la storia della morte di Keats e su
come la sua tomba divenne la più celebre nel cimitero, un magnete per gli
amanti della poesia e un’icona del
movimento romantico, vedi Keats and
Italy: a history ofthe Keats-Shelley
House in Rome (Il labirinto, Roma 2005)
e Catherine Payling, “An Echo and a
Light unto Etemity: the Founding ofthe
Keats Shelley Memorial House” (with
Italian translation) in Spellbound by
Rome: The Anglo-American Community
Lo splendore della forma
5
6
214
in Rome (1890-1914) and the Founding
ofthe Keats-Shelley House (Palombi,
Roma 2005), pp. 23-36.
Cfr. John Curtis Franklin, “Once more
the poet: Keats, Sevem, and the Grecian
Iyre”, Memoirs of the American Academy in Rome, 48 (2003), pp. 227-239.
Henry James, anche se non è sepolto a
Roma, è presente spiritualmente in
questo cimitero, grazie al suo Daisy
Miller e ai suoi numerosi amici della
vita reale che furono sepolti qui. Egli
riassunse la speciale intensità del
luogo in ltalian Hours: “... the most
touching element of all is the appeal of
the pious English inscriptions among
all those Roman memories; touching
because of their universal expression
of that trouble within trouble, misfortune in a foreign land” (H. James, ltalian Hours, Grove Press, New York
1959, p. 159, originariamente pubblicato nel 1909).
7
8
9
10
11
12
Il rilievo in marmo originale di questo
monumento e quello di Heinrich
Reinhold (1825) furono rimossi nel
1962 e si trovano ora al Museo
Thorwaldsen di Copenhagen.
In G. D’Annunzio, Prose di romanzi, a
cura di E. Bianchetti, Milano 1968, I:
357.
Cfr. Regina Soria, “American artists in
the Protestant Cemetery” (with Italian
translation) in Spellbound by Rome cit.,
pp. 65-77.
Museo Hendrik Christian Andersen, via
Pasquale Stanislao Mancini 20, Roma.
Sebbene Vedder avesse precedentemente perduto due figli, la costruzione
della tomba di famiglia risale probabilmente al 1909, anno idella scomparsa
della moglie Caroline. Vedder morì nel
1925 ed è sepolto nella stessa tomba.
Il presente studio considera solo le
fasi fino all’inizio della Prima guerra
mondiale.
Dall’ideale al vero e ritorno: passeggiata
tra le opere scultoree del cimitero monumentale
di Verona tra Ottocento e Novecento
di Camilla Bertoni
Se nel XIX secolo è stata così lenta la conquista della rappresentazione del vero in opposizione alle istanze idealizzanti di matrice neoclassica, in maniera speculare è stato
difficile nel XX secolo il superamento della celebrazione
della memoria attraverso la mimesi del reale. Solo negli
anni ’80 del Novecento compaiono nel cimitero monumentale di Verona soluzioni che si avventurano nel
regno della simbologia più o meno astratta della morte,
del compianto e del ricordo. Questa passeggiata tra le
tombe monumentali del sepolcreto veronese intende
ricostruire alcuni passaggi di questa vicenda artistica.
In ritardo rispetto ad alcune città come Faenza, Brescia e Vicenza che tra le prime mettono in atto i progetti dei nuovi cimiteri secondo il decreto napoleonico, ma in anticipo rispetto a molte altre (a Milano la
costruzione del nuovo cimitero inizia nel 1860), Verona vede prolungarsi la realizzazione del maestoso edificio disegnato da Giuseppe Barbieri dal 1829 fino agli
albori del nuovo secolo. Fino al 1855 sono molto
pochi i monumenti eretti in cimitero, la maggior parte
delle realizzazioni avverranno infatti nella seconda
215
Lo splendore della forma
216
metà del secolo. Il primo monumento significativo è
quello per la Tomba Emilei di Innocenzo Fraccaroli
(Castelrotto, VR 1805-Milano 1882) del 1836 circa:
una semplice edicola, conclusa in alto da un timpano
di classica memoria, con i simboli della vita che si spegne, le fiaccole rovesciate, e della vita eterna dell’anima, la lucerna. L’artista veronese, dal 1825 trasferito a
Venezia e dal 1836 a Milano, aveva già a queste date
modellato la statua destinata a renderlo universalmente celebre, l’Achille ferito, e riceverà a Verona committenze per diversi altri monumenti funerari, alcuni
scomparsi sotto i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, altri tuttora esistenti come quello per la
famiglia Bonomi del 1838. È proprio in questo monumento che si inizia ad affrontare in maniera “moderna” la possibilità che la scultura possa glorificare l’uomo e la sua esistenza reale nel tempo attuale, senza
tradire i grandi modelli del passato. Una questione
ideologica, questa del rapporto tra vero e ideale, alla
base del dibattito artistico per tutto il secolo, con riferimento particolare alla scultura.
Allievo di Fraccaroli, Grazioso Spazzi (Verona 18161892) si riferisce direttamente al maestro quando realizza il Monumento Dalla Riva, del 1842 (fig. 1), che gli
fece guadagnare un discreto successo. Si riconosce
l’insegnamento neoclassico, gli elementi della compo-
1. Grazioso Spazzi,
Tomba Dalla Riva,
particolare, 1842-45 c.
Dall’ideale al vero e ritorno
2. Giovanni Spazzi e altri,
Monumento a
Angela Erbisti, 1852
sizione sono gli stessi utilizzati da Fraccaroli nel Monumento Bonomi, ma l’atmosfera è cambiata con l’introduzione di un maggiore realismo nella figura della
madre ritratta in età senile.
Dopo il classicissimo del monumento con il ritratto clipeato del marchese Carlo di Canossa, morto nel 1844,
di Lorenzo Muttoni (Verona 1798 ca.-1882), a dominare la scena artistica cittadina, e a ricevere le più impegnative committenze pubbliche, saranno i membri della
famiglia Spazzi. Distrutto il Monumento Sacchetti del
1850, le loro capacità innovative volte verso un sempre
maggiore realismo si leggono soprattutto nel Monumento ad Angela Erbisti (fig. 2) commissionato nel 1852 dai
figli Paolo e Antonio Brenzoni a Giovanni Spazzi, fratello di Grazioso, con il concorso di altri artisti veronesi.
Appartenente a una nobile famiglia cittadina, Paolo
aveva sposato la poetessa e patriota Caterina Bon: mentre Caterina alla morte (1856) lasciò una cospicua eredità alla città destinata al mantenimento dei poveri, il
marito, morto nel 1869, lasciò invece i suoi beni a favore dell’arte, destinando le ricchezze alla fondazione di
217
Lo splendore della forma
3. Ugo Zannoni,
Monumento
a Maria Smania, 1880
218
una scuola gratuita di pittura e scultura. La rappresentazione del momento del distacco dalla famiglia sul
letto di morte era innovativa destinata a lasciare il
segno. Bisognerà aspettare però ancora fino al 1880,
con il Monumento a Maria Smania (fig. 3) scolpito da
Ugo Zannoni, perché la scena familiare acquisisca
dimensioni reali. I tempi per un vigoroso realismo a
Verona non erano ancora maturi, la posizione vincente,
in bilico tra istanze classiche e aperture veristiche, sarà
a lungo ancora quella di Grazioso Spazzi che ottenne al
cimitero gli incarichi più impegnativi e prestigiosi: nel
1843 per eseguire le diciotto metope con Storie del Vecchio e Nuovo Testamento per il frontone della chiesa – la
cui costruzione era stata terminata nel 1844 –, mentre
nel 1855 aveva consegnato le tre figure dedicate alle
virtù teologali Fede, Speranza e Carità1 da collocarsi sopra
il medesimo frontone al centro del quale compare l’iscrizione Piis Lacrimis. In questo caso il soggetto seguiva
delle precise disposizioni lasciate da Barbieri, mentre
per i due pantheon laterali, Ingenio claris e Beneficis in
Dall’ideale al vero e ritorno
patriam, Barbieri non aveva fatto in tempo a definire il
progetto: questo comportò la ripresa della questione a
partire dagli anni ’60 con lunghi strascichi.
Innocenzo Fraccaroli, ormai considerato milanese a
tutti gli effetti, ricevette ancora qualche incarico per il
cimitero di Verona: si può documentare il Monumento
Tessari (anche questo oggi non più esistente, ne resta
un disegno) del 1853 circa. Quanto Paolo Brenzoni
aveva spinto il giovane scultore Giovanni Spazzi verso
un maggiore realismo, tanto invece Fraccaroli restava
qui, forse anche per influenza del committente, legato
a una composizione neoclassica a figure simboliche,
classicamente panneggiate, destinata a non avere alcun
seguito nella seconda metà del secolo.
Tra gli anni ’50 e ’60, sono di Grazioso e Giovanni
Spazzi le firme più ricorrenti al cimitero scaligero: Giovanni scolpisce nel 1852, per il piccolo Giulio Bassani,
l’Angelo danneggiato dai bombardamenti del 1944; con
una romantica infrazione alle regole degli spazi cimiteriali concessi alla scultura, Giovanni Spazzi faceva “volare” il suo angelo al di sopra del cornicione, collocandolo nella vela del soffitto voltato dell’ambulacro a colonne. Al 1853 risale invece la possente figura togata dell’avvocato Giovan Battista Cressotti che campeggia
gigantesca nell’angolo tra i due colonnati. Nel 1854
un’apparizione del più puro classicismo della vecchia
scuola con il Giovanni Spazzi faceva Monumento Peccana
di Alessandro Puttinati (Verona 1801-Milano 1872),
unico da lui firmato al monumentale di Verona.
Intanto entrava sotto il colonnato la prima realizzazione tra le poche “forestiere”, quella dell’Angelo della
Carità per la Tomba di Teresa Muselli Vela del 1853 con i
due realistici “straccioni” a piedi nudi del veneziano
Luigi Ferrari (1810-1894). Al 1862 risale la statua di
Caterina Bon Brenzoni, poetessa e benefattrice, effigiata come Santa Elisabetta d’Ungheria, con corona d’alloro e lira ai piedi, dal viterbese Pio Fedi (Viterbo 1825Firenze 1892), ma collocata nel pantheon Ingenio claris
solo nel 1923, dopo infinite discussioni in merito alle
onorificenze da riservarsi ai cittadini illustri. Nel caso
dell’Immacolata per la Cappella Canossa (1864) era stata
forse l’origine toscana della famiglia che aveva fatto
219
Lo splendore della forma
4. Giovanni Duprè,
Monumento Monga, 1871
220
optare per uno scultore di Firenze, Aristodemo Costoli
(Firenze 1808-1871), mentre nel caso del Monumento
Monga, inaugurato nel 1871, la morte prematura del
veronese Torquato Della Torre aveva portato a coinvolgere il senese Giovanni Duprè (Siena 1817-Firenze
1882) (fig. 4). L’insegnamento purista di Costoli si
sposa, anche nelle sculture dell’allievo Duprè, con un
equilibrato e composto naturalismo.
Al cimitero di Verona gli Spazzi furono ancora autori
insieme del Monumento Gandini Morelli Bugna - Bottagisio in marmo bianco di Carrara, con il manierato Angelo della Giustizia inserito nella classica nicchia a candelabre. Morto Giovanni nel 1866, nel 1867 Grazioso
ricevette ancora qualche incarico, e gli toccherà
soprattutto l’onore di lavorare al completamento della
facciata del cimitero all’inizio degli anni ’80, scolpendo le due Prèfiche nella lunetta posta sopra l’ingresso,
opera in cui sarà coadiuvato dal figlio Carlo. Ma i maggiori protagonisti dei lavori in facciata saranno però
Giuseppe e Cesare Poli insieme a Giacomo Grigolli.
Ormai la fama di Spazzi, al suo vertice tra gli anni ’50
e ’60 (nel 1862 fu premiato all’esposizione di Firenze), aveva iniziato la sua discesa: il testimone passerà ai
figli Carlo e Attilio, mentre splendeva ormai l’astro di
Ugo Zannoni (Verona 1836-1919).
Dall’ideale al vero e ritorno
Vincitore del concorso per il Monumento a Dante, inaugurato nel 1865 ancora sotto dominazione austriaca,
Zannoni ebbe grandissimo successo alle esposizioni
internazionali con una ricchissima produzione di statuine di genere, ma quando la committenza glielo consentiva lo scultore, in breve trasferitosi a Milano dove
lavorò al cantiere del Duomo, divenne un grande interprete della realtà. La sua prima grande opera al cimitero veronese è il Monumento Trezza del 1877 per il quale
venne subito evocato un – giustificato – parallelo con il
Napoleone morente di Vincenzo Vela che aveva fatto furore all’Esposizione Universale di Parigi di dieci anni
prima. Ma la morte eroica dell’imperatore veniva qui
ricondotta a una dimensione borghese. Zannoni metteva in campo il suo caratteristico stile eclettico, definito all’epoca “bizantino”, giocato sugli eleganti cromatismi e sui virtuosismi tecnici.
Nel 1886 Zannoni stupiva ancora con il Monumento Erbisti Smania per il coraggio di rappresentare una realtà
famigliare intima, con i figli raccolti intorno alla madre
morente. Zannoni fu tacciato di eccessiva leziosità, di
indulgere un po’ troppo all’eleganza, ma fece clamore
la capacità dell’autore di tradurre nel marmo la qualità
tattili di stoffe e pizzi.
La facciata del cimitero fu completata con l’Angelo della
Risurrezione realizzato da Giuseppe Poli, maestro di scultura all’Accademia Cignaroli a partire dal 1877 fino al
1890 o 1891 che formò la nuova generazione di scultori
nati tra gli anni ’50 e ’60 come Giacomo Grigolli, il
figlio Cesare Poli, Pietro Bordini, Luigi Marai e Romeo
Cristani, che infine gli succederà nella carica accademica. L’iconografia “dell’angelo ritto con la tromba”,
accompagnato dalla legge e dalla storia, era già stata
suggerita a suo tempo nei disegni di Barbieri, mentre
alcuni dubbi sorsero sulla figura da porsi sul lato interno, che si credette di poter interpretare come quella
del Profeta Ezechiele che pronuncia le parole per la risurrezione (“ossa arida audite verbum domini”). Il relativo
concorso fu bandito nel 1878, i lavori furono conclusi
dagli artisti selezionati all’inizio del 1882: Giacomo Grigolli, che lavorava in società con i Poli, veniva pagato
11.500 lire per il gruppo sul frontone esterno (rifatto
221
Lo splendore della forma
222
negli anni ’60 del Novecento dal veronese Gino Bogoni); Carlo Spazzi, figlio di Grazioso, riceveva 9.000 lire
per l’Ezechiele; Grazioso e Carlo Spazzi 5.000 lire per il
gruppo con le “donne piangenti”; gli scultori Poli e Grigolli 4.000 lire per i tre bassorilievi dell’ingresso; Angelo Pegrassi 1.260 per i due vasi funerari sotto l’atrio,
infine Francesco Pegrassi (Verona 1838-1899), figlio di
Salesio, 4.675 lire per i due leoni sulla gradinata, copia
da quelli canoviani del Monumento a Clemente XIII. Questa citazione canoviana diventa quasi uno stereotipo
cimiteriale: due felini gemelli compaiono infatti, fin
dalla fine degli anni ’20, anche all’ingresso del cimitero
vantiniano di Brescia, scolpiti per mano dello scultore
bolognese Democrito Gandolfi. Il leone, scelto da
Canova come simbolo della potenza spirituale e terrena del papa, aveva anche una valenza simbolica legata
al tema della resurrezione, quindi la citazione assumeva
il doppio valore simbolico con l’omaggio al “divino
scultore”. Isolati dal contesto originario, incrementano
la loro valenza naturalistica rispetto all’idea neoclassica
che stava alla base del monumento a Clemente XIII.
Ugo Zannoni intanto, dopo aver vinto il concorso per
il Monumento Aleardi, in un momento storico in cui
cominciava a scemare l’entusiasmo ottocentesco per le
celebrazioni scultoree, nel 1886 firma un altro dei suoi
capolavori cimiteriali, il Monumento a Calisto Zorzi, un
capomastro che con le sue mani si era costruito una
grande ricchezza, ricordato per la generosità e la munificenza verso la classe sociale dalla quale proveniva,
virtù che vennero effigiate nella scena del monumento
funebre. Dopo una committenza al Monumentale di
Milano, Zannoni realizza a Verona nel 1894 l’ultimo
grande monumento cimiteriale veronese per la famiglia Allegri-Zorzi (fig. 5). Gli elementi sono quelli consueti: il “bizantinismo” dell’inquadratura architettonica, la profusione di marmi, bronzi e dorature, l’estremo realismo della lavorazione marmorea, la costruzione di una scena reale, l’inserimento di un rappresentante delle classi umili secondo il credo positivista della
classe alto borghese di cui l’autore si fa portavoce. Da
questo momento Zannoni ripeterà i suoi stilemi funerari senza trovare più i danarosi committenti di un
Dall’ideale al vero e ritorno
5. Ugo Zannoni,
Monumento Allegri Zorzi,
1894
223
tempo, limitandosi quindi a lavorare più in piccolo,
dimensione che evidentemente meno gli si confaceva.
L’epoca grandiosa era per lui ormai terminata.
Coetanei di Cristani e Bordini, Carlo e Attilio Spazzi,
nati rispettivamente nel 1854 e nel 1859, formatisi
probabilmente alla scuola del padre Grazioso, oltre a
eseguire i gruppi per i frontoni del cimitero, firmarono insieme molte sculture al cimitero di Verona, tra
le quali la più significativa è quella per la Tomba Pindemonte-Moscardo del 1898 (fig. 6). Il tema dell’angelo
che accoglie l’anima della morente era stato felicemente affrontato da Giulio Monteverde al cimitero di
Ferrara alla fine degli anni ’70. Il pittoricismo e gli
effetti luminosi di superficie ottenuti dai due Spazzi
denotano un aggiornamento dei due giovani scultori,
anche forse sull’esempio di Monteverde, ma i due
autori restano nel campo di un persistente verismo e
non si può ancora parlare di simbolismo. Carlo Spazzi ebbe molto successo a Vicenza dove nel 1893 fu
Lo splendore della forma
Dall’ideale al vero e ritorno
7. Loculo Umberto Boccioni,
1916
6. Carlo e Attilio Spazzi,
Monumento
Pindemonte-Moscardo,
1898
224
molto elogiato il Monumento Zanella; nel cimitero di
quella città ottenne di conseguenza diversi incarichi.
Con la morte di Giulio Camuzzoni nel 1886, si chiude
un’epoca: il sindaco di Verona, presidente per anni
dell’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere e
della Società di Belle Arti, era stato uno dei principali
protagonisti delle vicende legate alla scultura monumentale veronese, soprattutto al di fuori della cinta del
cimitero. Con il suo monumento funebre scolpito da
Romeo Cristani, divenne protagonista anche all’interno: Cristani cercò un tema originale, quello di Verona
riconoscente rappresentata come giovane donna operosa, che ricama il nome del defunto, con il capo coronato dall’Arena, e diede il massimo di sé nella resa dei
morbidi modellati. Ma la simbologia non fu apprezzata, e l’opera venne molto criticata. Cristani insomma si
era mosso a disagio tra vecchio e nuovo secolo, tra rappresentazione realistica e traduzione in chiave simbolica, e vedrà nascere nuove polemiche e incomprensioni
anche all’inaugurazione dell’Umberto I nel 1906 mentre
nel 1899 aveva perso la cattedra di scultura all’Accademia Cignaroli. Se anche Bordini, Cristani e i giovani
Spazzi2 continueranno a lavorare nel nuovo secolo,
ormai la stagione della scultura monumentale ottocentesca si era chiusa e il Novecento apriva le porte a un
linguaggio a loro non più comprensibile.
Il nuovo secolo non vede la scultura funeraria godere
di quell’interesse che l’aveva vista al centro della vita
culturale cittadina nel XIX secolo. Il dispendio per la
conclusione dell’edificio cimiteriale, nel quale le principali famiglie nobiliari e alto borghesi avevano già
fatto realizzare i propri monumenti, le difficoltà economiche legate anche ai conflitti mondiali che causarono
la distruzione in parte dell’edificio, le trasformazioni
culturali che avevano fatto progressivamente perdere
fiducia e interesse verso gli atti commemorativi, atti
che ripresero temporaneamente vigore nella “monumentomania” che esplose, non senza critiche, alla fine
della Prima guerra mondiale in ricordo dei caduti,
furono tra le cause del declino della scultura monumentale funeraria. Ciononostante si possono ancora
elencare alcuni episodi degni di nota nel corso del XX
secolo, che vide anche l’ampliamento della fabbrica
cimiteriale che ne risultò quasi raddoppiata.
225
Lo splendore della forma
Dall’ideale al vero e ritorno
8. Tullio Montini,
Monumento Fedrigoni,
1916
9. Ruperto Banterle,
Monumento Galtarossa,
1924
226
In questo nuovo settore la produzione di lapidi istoriate a motivi vegetali e floreali, spesso con ritratti in rilievo, in generale risalenti al secondo e terzo decennio
del Novecento, rappresenta la parte di maggior interesse. Tra queste lapidi si trovano quelle di molti artisti
protagonisti della vita culturale cittadina del nuovo
secolo, come Angelo Dall’Oca Bianca, i Trentini, o
anche quella del pittore e scultore futurista Umberto
Boccioni, originario di Reggio Calabria ma morto a
Verona nel 1916 (fig. 7).
Anche alcuni episodi scultorei sono degni di nota, in
particolare quello del Monumento Fedrigoni di Tullio
Montini (Verona 1878-1964) (fig. 8). Un episodio questo che però si pone ancora in linea con la tradizione
10. Mario Salazzari,
La cacciata
Cappella Pomari, 1964
11. Pino Castagna,
Tomba Carlini, 1989
celebrativa ottocentesca, come in generale accade
anche con le molte opere di Egidio Girelli (Verona
1878-1972). Curiose e diverse le citazioni, più o meno
fedeli all’originale, del Pensatore di Rodin, come quella
di Francesco Modena (Verona 1878-1972) o di Ruperto
Banterle (Verona 1889-1968). Quest’ultimo nel Monumento Galtarossa (fig. 9) si dimostra però capace di
aggiornamenti novecenteschi, dove evidentemente
anche la committenza lo consente. Nel Monumento Falceri degli anni ’20 di Emilio Prati (Verona 1889-San
Paolo del Brasile 1979) si incontra invece una mescolanza di citazione neogotica e gusto liberty secondo la
moda in auge a cavallo tra i due secoli.
Bisogna attendere gli anni ’60 del Novecento per incontrare un episodio che resta purtroppo piuttosto isolato,
che si distacca dagli altri per la capacità di conciliare il
compito commemorativo o i temi biblici ed evangelici
con l’aggiornamento del linguaggio e con la forza innovativa dell’invenzione formale. Si tratta delle parti scultoree firmate dal veronese Mario Salazzari (Verona 19041993) nella Cappella Pomari del 1964 (fig. 10): le formelle bronzee, chiaramente ispirate al portale della basilica
di San Zeno, ma libera e notevole interpretazione di
quell’esempio, o anche l’Anima dolente bronzea per la
Cappella Paini dello stesso autore. Salazzari utilizza qui
ciò che lui stesso definisce il linguaggio del “vuoto per il
pieno” e rilegge la scultura romanica del portale di San
Zeno creando un insieme di grande qualità.
Nella Cappella Carlini, realizzata nel 1989 dallo scultore
veronese Pino Castagna (Verona 1932), l’autore opta
227
Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca
neoclassica: dal prevalere della pittura
all’affermazione della scultura
di Emanuela Bagattoni
Lo splendore della forma
12. Riccardo Cassini
(scultore),
Gilberto Barbesi
(architetto),
Tomba Bonazzi, 1981
228
per un’elaborazione quasi astratta dello spazio, definito
anche attraverso la vegetazione, ricorrendo a simboli
molto “leggeri” come le pietre su cui sedersi a meditare
sul ricordo (fig. 11). Infine ancora un autore veronese,
Riccardo Cassini (Verona 1945), firma le opere scultoree della Cappella Bonazzi del 1981, la cui architettura si
deve a Gilberto Barbesi (fig. 12). L’idea scultorea si
svolge intorno allo scorrere del tempo rappresentato
attraverso le quattro pagine scolpite a bassorilievo sulle
quali un bocciolo vive le sue quattro stagioni.
1
Il gruppo, non più esistente, si intravede in una foto le cui lastre originali
sono conservate al Museo civico di
Castelvecchio di Verona. In una foto
nella fototeca della Biblioteca Civica
di Verona, e risalente ai rifacimenti
degli anni ’50 successivi ai bombardamenti, si nota il gruppo evidentemente
sopravvissuto alla guerra, ma nessuno
dei quattro gruppi posti sui frontoni
dal lato interno al cimitero fino a oggi
è stato reperito.
2 Cristani morì l’11 gennaio 1920, Bordini
il 28 aprile del 1922, Attilio Spazzi sotto
le bombe del 1915 mentre il fratello
Carlo continuò a lavorare fino al 1936.
* Per le fonti e le citazioni bibliografiche
cfr.: Bertoni, C., La scultura monumentale 1836-1896, in Ottocento a Verona,
a cura di Marinelli, S., Milano, 2001.
Con l’apertura del cimitero comunale nel soppresso
monastero della Certosa, avvenuta nel 1801,1 in netto
anticipo rispetto all’editto napoleonico di Saint-Cloud
(promulgato in Francia nel 1804 ed esteso all’Italia
nel 1806) e alla realizzazione dei primi cimiteri nei
più importanti centri urbani italiani ed europei, Bologna rivestì un ruolo pionieristico relativamente ai
nuovi usi sepolcrali che si sarebbero imposti nell’età a
venire. Un tema, quello relativo all’importanza dei
sepolcri e alla necessità di cambiarne l’ubicazione che,
in quel tempo, fu oggetto di interesse internazionale
sia per le fondamentali implicazioni sociali e culturali,
sia per quelle igieniche.
Il moderno cimitero bolognese fornì infatti una risposta
di straordinaria modernità alle più aggiornate e indifferibili istanze sanitarie di matrice illuministica, così come
all’acceso dibattito filosofico-letterario incentrato sull’importanza del culto della memoria e sull’opportunità
di realizzare moderni sepolcreti extra-moenia al fine di
estinguere i problemi igienici causati dal plurisecolare
uso di inumare le salme all’interno dei centri abitati.2
229
Lo splendore della forma
1. Flaminio Minozzi,
Monumento a Tarsizio
Rivieri Folesani, 1801,
Cimitero Comunale,
Chiostro della Cappella
230
Fin dalla sua fondazione, il nuovo sepolcreto di Bologna fu opportunamente suddiviso in due spazi distinti
tra loro non solo dal punto di vista strutturale, ma
anche da quello concettuale: le persone comuni,
secondo una logica illuminista-giacobina, vennero
sepolte in vasti campi dove l’unica distinzione attuata
era quella per età e per sesso; al contrario le classi
sociali più elevate ebbero il privilegio di inumare i
loro familiari in sepolcri monumentali ricavati nelle
arcate del Gran Chiostro dell’antico monastero, ciascuno di essi destinato ad accogliere un unico defunto
che in vita si fosse distinto in ambito civile o professionale e fosse, quindi, ritenuto meritevole di una memoria che ne rendesse immortale il ricordo.
Già nel 1801, sulla tomba del giovane medico e docente
universitario Tarsizio Rivieri Folesani, il pittore bolognese Flaminio Minozzi dipinse il primo monumento sepolcrale realizzato nel Cimitero Comunale della Certosa
(fig. 1). Ben presto gli interventi artistici andarono moltiplicandosi in maniera esponenziale, facendo dell’ex
monastero dei certosini di Bologna “la collection la plus
complète de sculptures et de peintures funeraires néo-
Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca neoclassica
2. Pietro Fancelli
e Luigi Busatti, Monumento
a Vincenzo Martinelli,
1808 ca.,
Chiostro della Cappella
classiques de l’Italie”,3 una sorta di museo d’arte contemporanea in continuo divenire che, in conformità
con le finalità didascaliche della cultura neoclassica, si
connotava come un exemplum virtutis cittadino, suscitando l’interesse e l’ammirazione non solo dei bolognesi
ma anche di letterati e di colti viaggiatori italiani ed
europei, in quel tempo in visita nella città emiliana.4
L’arte funeraria bolognese di età neoclassica costituisce
un unicum nell’ambito della storia dell’arte cimiteriale,
non solo per la precocità della realizzazione ma soprattutto per ciò che concerne l’evolvere delle scelte relative
alla tecnica esecutiva dei monumenti: se, infatti, nel
corso dei primi tre lustri del secolo furono i pittori ad
avere quasi l’esclusiva delle commissioni per la decorazione dei sepolcri,5 nel 1815/16 si assistette a una improvvisa inversione di tendenza in favore della scultura.6
Non deve stupire l’iniziale predilezione del mezzo pittorico a Bologna, dove la pittura classico-naturalistica e
quadraturista vantava una più celebre e radicata tradizione rispetto alla scultura – anzi alla plastica, poiché
nella città felsinea al marmo, materiale scultoreo per
eccellenza, da sempre si preferivano materiali da
231
Lo splendore della forma
3. Giacomo De Maria,
Monumento a
Giuseppe Vogli, 1811-13,
Recinto dei Sacerdoti
232
modellare di più agevole reperimento locale come la
terracotta, il gesso o lo stucco – che da secoli occupava
un ruolo di subordinazione e di completamento nei
confronti dell’arte pittorica.
Le cause dell’improvviso prevalere della scultura nel
cimitero felsineo, alla metà del secondo decennio del
XIX secolo, vanno individuate sia nella tardiva, quanto
ineludibile, affermazione a Bologna delle istanze estetiche neoclassiche di matrice internazionale, sia nella
3a. Giacomo De Maria,
Monumento a Giuseppe
Vogli (particolare)
Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca neoclassica
4. Giovanni Putti, Flaminio
Minozzi, Giacomo Savini,
Monumento a Carolina
Baldi Comi,
poi Ottani, 1815-1816,
Sala della Pietà
necessità di ovviare ai rilevanti problemi di conservazione che i monumenti dipinti della Certosa – per la
maggior parte situati all’aperto – presentavano.
Sebbene il Neoclassicismo, negli ultimi decenni del
XVIII secolo, si fosse affermato in tutta Europa e godesse di particolare fortuna nell’ambito delle commissioni
sepolcrali, agli inizi degli anni ’10 dell’Ottocento esso
faticava ancora a imporsi nella città emiliana, dove un
peculiare e radicato attaccamento alla tradizione artistica locale scoraggiava sia il superamento della pittura
classico-naturalistica e quadraturista, sia quello degli
stupefacenti effetti scenografici che costituivano una
sorta di elemento di continuità rispetto agli apparati
effimeri polimaterici tanto diffusi in epoca barocca.
Nella prestigiosa Accademia di Belle Arti (ex Clementina), ufficialmente riformata dai francesi nel 1804,7 gli
esponenti della vecchia guardia ancien régime, arroccati
su posizioni passatiste, erano ancora numerosi in età
napoleonica e le più aggiornate idee classiciste riuscirono a imporsi solo negli ultimi tempi dell’Impero,
grazie soprattutto all’impegno del letterato piacentino
Pietro Giordani, notoriamente schierato su posizioni
233
Lo splendore della forma
4a. Monumento a
Carolina Baldi Comi,
poi Ottani (particolare)
234
d’avanguardia neoclassica e divenuto, nel 1808, prosegretario dell’Accademia.8
Un ruolo di primario, se non decisivo, rilievo va riconosciuto a Giordani anche per ciò che riguarda l’interessamento e l’impegno profusi dall’Accademia e dalla
Municipalità di Bologna relativamente al prosieguo
dell’arricchimento artistico del cimitero felsineo nell’età della Restaurazione. In proposito vanno ricordati
due fondamentali discorsi che egli pronunciò in Accademia: il Compendio all’Orazione Panegirica pel Canova e il
Panegirico ad Antonio Canova9 nel 1810 e l’orazione Delle
sculture ne’ sepolcri nel 1813, due anni in anticipo rispetto alla vicenda che portò ai rivolgimenti relativi alla
tecnica dell’arte sepolcrale bolognese. In particolare in
quest’ultimo discorso, sorvolando opportunamente sui
monumenti della Certosa bolognese, il prosegretario
auspicò un duplice aggiornamento – iconografico e stilistico – dell’arte sepolcrale che, in linea con i principi
neoclassici, privilegiasse temi di valore didascalico
coniugati a una rigorosa essenzialità compositiva. A tal
fine egli indicò, quali incontrastati modelli, le opere
funerarie canoviane, avvalorando, in tal modo, l’assoluto primato della scultura nell’ambito cimiteriale.
Gli accorati indirizzamenti giordaniani ebbero seguito, anche se parzialmente, solo a partire dal 1815,
anno in cui si concretizzò l’interessamento congiunto
dell’Accademia e della Municipalità verso i monumenti che sempre più numerosi andavano riempiendo il nucleo monumentale del cimitero felsineo.
Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca neoclassica
Il primo significativo episodio in tal senso va individuato nella seduta accademica del 2 gennaio 1815 quando
l’incisore e docente Francesco Rosaspina, non senza
esagerare, denunciò “un disordine che fa gran danno
alle Arti e gran disonore alla città: ed è che nel cimitero della Certosa, dove concorrono tutti i forestieri, non
si vedono altro che goffissime opere d’inettissimi artisti
e niune de’ più valenti” e, interpretando le sempre
maggiori mire di controllo e d’azione degli accademici
sullo sviluppo artistico del sepolcreto bolognese, prospettò l’opportunità di “proporre al Municipio che nel
vendere gli Archi del Cimitero si aggiungesse la condizione di far fare i monumenti ad Artisti abili, e presentarne prima un disegno alla Municipalità, che potrebbe consultare l’Accademia”.10
Conseguentemente, il 22 gennaio, a nome dell’Accademia, i docenti Leandro Marconi e Francesco Rosaspina
– anch’essi, come Giordani, esponenti della corrente
classicista – consegnarono al Podestà una missiva in cui
il prosegretario specificava: “Il Cimitero Comunale, che
è riputato un ornamento singolare di questa Città, e
come tale visitato ed invidiato da tutti i forestieri, si faccia sempre più adorno e riguardevole per monumenti
di Belle Arti, le quali in questi tempi hanno pochi altri
luoghi od occupazioni da esercitarsi. Sarebbe perciò
convenevole che a operare nel Cimitero si chiamassero
sempre Artisti noti e riputati e i cittadini ricchi, riserbandosi una maggiore libertà circa l’ornare a lor genio
l’interno delle private abitazioni, avessero più particolarmente riguardo al pubblico decoro in luogo sì illustre. E quindi non parrebbe inconveniente che la Municipalità nel vendere gli Archi aggiungesse questa condizione, che i monumenti si dessero a fare ad Artisti di
conosciuto merito. E se nella scelta degli autori e dei
disegni delle opere fosse ricercata del suo avviso l’Accademia, ella volentieri si presterebbe a questa causa, che
può molto contribuire all’onore della Città.”11
Nella sua minuziosa risposta, inviata all’Accademia il
10 febbraio, il podestà riconobbe l’esigenza di tutelare
il prestigio di cui godeva il cimitero comunale e, oltre
ad accogliere le istanze di collaborazione degli accademici, propose dettagliate norme circa la realizzazione e
235
Lo splendore della forma
236
la conservazione delle opere monumentali. Tra l’altro,
egli prospettò l’istituzione di una commissione, composta di accademici, deputata al controllo della qualità
artistica dei monumenti e richiese all’Accademia la stesura di un elenco di artisti “di più che mediocre riputazione” cui affidare la realizzazione delle decorazioni
sepolcrali, prevedendo ulteriori garanzie da parte accademica nel caso in cui artisti “forestieri” fossero stati
chiamati a operare alla Certosa. Una disposizione, quest’ultima, che costituì, negli anni successivi, un importante fattore di consolidamento del monopolio della
locale scuola artistica nell’ambito funerario.
Il duplice ruolo – esecutivo e di controllo – che nei
decenni successivi gli accademici bolognesi puntualmente esercitarono sull’arricchimento artistico del cimitero,
favorì il peculiare e anacronistico strascico della tradizionale plastica felsinea di gusto popolare e di ascendenza
tardobarocca che perdurò fino a Ottocento inoltrato.
Poche settimane più tardi – precisamente il 20 marzo –
l’Accademia inviò al Podestà una lunga e incisiva relazione giordaniana in cui, contemporaneamente al compiacimento degli accademici per le proposte avanzate dal
podestà, venivano enunciate importanti riserve a tutela
degli artisti operanti alla Certosa, in particolare relativamente alle proposte municipali di proibire ai pittori e
agli scultori di avvalersi di aiuti e di imporre loro di
garantire l’inalterabilità delle opere per tre anni (facendosi carico, nel corso di questo tempo, dei necessari
restauri o rifacimenti). Riguardo a quest’ultimo punto
gli accademici, pur trovando “prudentissimo che l’artista debba garantire la durata del lavoro”, auspicarono la
diminuzione del tempo di responsabilità degli artisti a
un solo anno, sufficiente “a sperimentare gli effetti di
tutte le quattro stagioni, e a giudicare la bontà di qualunque opera”12 e proposero che, a partire dal secondo
anno, il ripristino o il rifacimento dell’opera deteriorata
gravasse, pena il decadimento di proprietà, unicamente
sul proprietario del sepolcro. Tali istanze dell’Accademia, accettate e successivamete inserite nella normativa,
unitamente agli aggiornati indirizzamenti stilistici, iconografici e tecnici giordaniani, dovettero senza dubbio
incoraggiare i committenti bolognesi a optare per la rea-
Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca neoclassica
5. Giacomo De Maria,
Monumento
a Carlo Caprara,
1817 ca.,
Chiostro della Cappella
lizzazione di monumenti in scultura, sicuramente meno
deteriorabili rispetto a quelli dipinti.
Per comprendere la portata delle idee di Giordani e
l’influenza che esse esercitarono nell’ambito cimiteriale felsineo della Restaurazione, occorre ritornare alla
missiva accademica del 20 marzo 1815 in cui il prosegretario, superate le diffidenze degli accademici più
conservatori capeggiati dal presidente dell’Accademia
Carlo Filippo Aldrovandi, poté asserire: “I monumenti
che nel Cimitero la pietà de’ ricchi cittadini vorrà fare
a’ suoi defunti saranno o di Scultura o di Pittura che
imiti il rilievo, cioè rappresenti quelle sole cose che
ragionevolmente mostrerebbe la Scultura. Perché i
monumenti dipinti si ammettono solamente per minorare la spesa degli scolpiti. E quindi la ragionevolezza
insegna a escluderne i paesaggi, le prospettive di
profonda pianta, e di punto di veduta fuori del quadro,
le figure colorite nelle carni e nelle vesti a imitazione
del vero: e vuole che il fondo della nicchia sia continuato senza alcuna apertura: le figure che ivi si dispongano, imitino statue di bronzo o di marmo: il tutto insieme abbia del grave e malinconico; e non colla sfacciata
e saltellante varietà di colori renda l’aspetto di una
237
Lo splendore della forma
238
scena teatrale”.13 Poche righe più avanti, supponendo
che i committenti bolognesi non avrebbero facilmente
rinunciato alla tradizione dei monumenti dipinti, Giordani aggiungeva: “non dovranno con bizzarro e confuso arbitrio succedersi l’uno all’altro i monumenti: ma a
uno di scultura seguiranno due o tre o quattro di pittura, e quindi un altro di scultura, e così con ordine
costante. I cittadini nell’acquistare gli Archi, eleggeranno quelli di Pittura e di Scultura, secondo la propria
loro volontà, e l’intenzione che avranno di spendere
nel monumento”. Così non fu: evidentemente anche la
cultura bolognese – tanto fiera della propria tradizione
artistica da risultarne talvolta succube – era ormai
pronta ad avvicinarsi all’essenzialità neoclassica e a
rinunciare alle notevoli possibilità narrative del mezzo
pittorico in favore della più sintetica scultura.
I modelli iconografici canoviani, infatti, si imposero
alla Certosa, almeno parzialmente e soprattutto per ciò
che riguardava lo schema compositivo dei monumenti,
ma tale aggiornamento convisse ancora a lungo con
una peculiare riproposizione della locale tradizione
plastica di derivazione barocca, caratterizzata da ormai
anacronistici effetti scenografici.
Tale complessità stilistica e iconografica connota la
maggioranza dei monumenti eseguiti alla Certosa nell’età della Restaurazione, tra i quali vanno ricordati
almeno pochi esempi riferibili ai due maggiori scultori
attivi a Bologna in quel tempo: Giacomo De Maria e
Giovanni Putti.
Il Monumento Caprara (fig. 5), prima opera sepolcrale
realizzata in marmo alla Certosa di Bologna, scolpita
da Giacomo De Maria attorno al 1817, costituisce un
significativo esempio della combinazione di moderni
motivi canoviani e di elementi di retaggio barocco: il
corteo funebre chiaramente ispirato al monumento a
Maria Cristina d’Austria convive, infatti, con reminiscenze passatiste, evidenti nel virtuosismo tecnico che
contraddistingue la bella figura velata, elegante omaggio all’esuberanza illusiva tipica dell’arte bolognese settecentesca. Un motivo, quello della velata, che fu ripreso in altri importanti monumenti sepolcrali felsinei
nell’arco di almeno un decennio.
Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca neoclassica
6. Giovanni Putti,
Monumento a Giovanni
Fornasari, 1822,
Chiostro d’ingresso
6a. Giovanni Putti,
Monumento
a Giovanni Fornasari
(particolare)
Egualmente connotato da ambivalenza stilistica e iconografica, in bilico tra neobarocco e neoclassico, appare il
Monumento Casali, modellato da Giovanni Putti nel
1817.14 La continuità con la tradizione appare evidente
nella Piangente, avvolta in un amplissimo manto che le
lascia scoperti solo il profilo e le mani intrecciate, inginocchiata e atteggiata in un disperato ed enfatico gesto
di preghiera. A questa figura si accompagna un elegante Genio della morte di rigorosa impostazione neoclassica
che con la mano sinistra solleva, scoprendo l’epitaffio,
un abbondante tendaggio di forte valenza scenografica
che ricorda i sipari teatrali e, al contempo, le coltri
funebri barocche. Il richiamo è rivolto sia alla grande
tradizione scenografica felsinea, sia a quella degli apparati polimaterici effimeri (generalmente apparati funebri eretti in occasione di importanti esequie e “sepolcri
pasquali” realizzati nelle chiese durante la Settimana
santa) eseguiti in gran numero in antico regime e che a
Bologna continuavano a essere saltuariamente realizzati
ancora a Ottocento inoltrato.
L’imprescindibile legame della scultura funeraria bolognese con gli apparati effimeri tradizionali si esplicitava
infatti, oltre che in un peculiare stile neoclassico contrastato e abbondantemente rispettoso della ricchezza
materica e del virtuosismo tecnico di matrice barocca,
anche nella singolare scelta dei materiali in cui i monumenti venivano realizzati: gesso, stucco, scagliola e terracotta, la cui facile deteriorabilità si opponeva all’idea
neoclassica di arte sepolcrale finalizzata a durare nel
tempo e a perpetuare il ricordo degli estinti. Una contraddizione tutta bolognese a cui, per altro, singolar-
239
Lo splendore della forma
7. Giovanni Putti,
Monumento a
Giuseppe Levi, 1826,
Chiostro Maggiore
Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca neoclassica
è dato qualche esempio, sovente sono presenti figure
allegoriche alludenti a encomiabili virtù possedute dal
dedicatario del monumento o, più concretamente, alla
professione esercitata dallo stesso. Un repertorio, quello relativo alle allegorie delle professioni, che andò
progressivamente ampliandosi, costituendo una significativa espressione delle coeve evoluzioni sociali: dalle
prestigiose professioni alto borghesi raffigurate in
epoca napoleonica, fino ad arrivare, attorno alla metà
del terzo decennio del secolo, a comprendere anche
più umili e ordinarie occupazioni lavorative. Inusitate
invenzioni iconografiche come la singolare Allegoria del
Commercio (modellata da Putti nel 1826 per il Monumento Levi)15 (figg. 7-7a) costituivano infatti una sorta di
celebrazione della piccola borghesia di recente arricchimento e, al contempo, anticipavano motivi iconografici di marca realista che pochi decenni più tardi,
attraverso la profusione in ambito artistico di soggetti
comuni e di scene di vita quotidiana, avrebbero
improntato l’arte cimiteriale italiana ed europea.16
241
240
mente corrispondevano quella straordinaria modernità
e quella lungimiranza in campo sociale e igienico-sanitario che, in anticipo rispetto alle altre realizzazioni
cimiteriali italiane ed europee, avevano determinato l’istituzione del grande cimitero di Bologna.
Per quanto concerne il repertorio iconografico delle
tombe neoclassiche della Certosa, accanto a espressionistiche Piangenti e a scenografici Genî della Morte di cui si
1
2
7a. Giovanni Putti,
Monumento a
Giuseppe Levi
(particolare)
3
Sul cimitero della Certosa di Bologna si
vedano i volumi La Certosa di Bologna.
Immortalità della memoria, a cura di G.
Pesci, Bologna 1998 (con bibliografia
precedente); La Certosa di Bologna. Un
libro aperto sulla storia, catalogo della
mostra a cura di R. Martorelli, Bologna
2009; Luce sulle tenebre. Tesori preziosi
e nascosti dalla Certosa di Bologna,
catalogo della mostra a cura di B.
Buscaroli e R. Martorelli, Bologna 2010.
Tra i vari studi sull’argomento si vedano
almeno L. Sozzi, I Sepolcri e le discussioni francesi sulle tombe negli ultimi
anni del Direttorio e del Consolato, in
“Giornale Storico della Letteratura Italiana”, CXLIV, 1967, pp. 567-588; P.
Aries, L’uomo e la morte dal Medioevo
ad oggi, Roma-Bari 1980; J. McManners, Morte e Illuminismo. Il senso della
morte nella Francia del XVIII secolo,
Bologna 1984; M. Vovelle, La Morte e
l’Occidente, Roma-Bari 1886.
G. Hubert, La sculpture dans l’Italie
napoléonienne, Paris 1964, p. 272.
4
Fin dai primi decenni del XIX secolo il
cimitero della Certosa di Bologna e i
suoi monumenti acquisirono fama
internazionale e furono oggetto di particolare interesse da parte di artisti,
letterati ed editori che pubblicarono
disegni e incisioni, guide e descrizioni a
uso turistico che avevano per oggetto i
sepolcri bolognesi e i loro illustri dedicatari. In proposito, cfr. E. Bagattoni,
Un luogo di rappresentanza nella Bologna di primo Ottocento, in La Certosa di
Bologna cit., pp. 123-129 e, soprattutto, D. Camurri, Il tema del cimitero
come soggetto letterario nella Bologna
dell’Ottocento, in All’ombra de’ cipressi
e dentro l’urne… I cimiteri urbani in
Europa a duecento anni dall’editto di
Saint Cloud, atti del convegno internazionale (Bologna, 24- 26 novembre
2004), Bologna 2007, pp. 291-299; E.
Bagattoni, Neoclassicism and local artistic tradition in the sepulchral monuments of the Certosa Cemetery in Bologna during the Napoleonic Era and the
Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca neoclassica
Lo splendore della forma
5
6
242
7
8
Restoration, in “Conservation Science
in Cultural Heritage” n. 11, 2012.
Sui sepolcri bolognesi decorati in pittura si vedano i fondamentali saggi di
Anna Maria Matteucci: Monumenti
funebri di età napoleonica alla Certosa
di Bologna, in “Psicon”, II, 4, 1975, pp.
71-78; Fantasia dei decoratori bolognesi nei monumenti ad affresco della Certosa, in La Certosa di Bologna cit., pp.
183-195; I monumenti funebri d’età
napoleonica nella Certosa di Bologna.
La rimozione del macabro, in All’ombra
de’ cipressi cit., pp. 261-289. Cfr. anche
V. Lucchese, Memoriae pictae, in Luce
sulle tenebre cit., pp. 29-33.
Dal 1801 al 1815 furono realizzati cinquantasei monumenti dipinti e tredici
in scultura. Dal 1816 al 1826 furono
eseguiti cinquantacinque monumenti
in scultura e sedici in pittura. Pochissime furono le tombe decorate a tecnica
mista (pittura e scultura insieme). Questi dati sono ricavati da A. Mampieri, In
tema di scultura funeraria neoclassica:
Giacomo De Maria alla Certosa di Bologna, in “Arte a Bologna”, n. 1, 1990, p.
80 (da rilevare che per la datazione
delle opere è stata considerata la data
di morte del dedicatario del monumento come termine post quem, sulla base
di quanto pubblicato in G. Zecchi, Collezione dei monumenti sepolcrali del
Cimitero di Bologna, Bologna 18251842). Sui monumenti ottocenteschi in
scultura si vedano S. Tumidei, La scultura dell’Ottocento in Certosa, in La
Certosa di Bologna cit., pp. 197-217
(cui seguono le schede delle opere a
cura di E. Bagattoni, A. Mampieri e S.
Tumidei, pp. 218-245); R. Martorelli,
Aristocrazia e borghesia. Evoluzione
della scultura in Certosa nell’Ottocento,
in Luce sulle tenebre cit., pp. 35-41.
Sulla trasformazione dell’Accademia
Clementina in Accademia Nazionale di
Belle Arti, avvenuta nel 1804, si veda E.
Farioli e C. Poppi, Bologna 1804-1813:
un’Accademia napoleonica fra tradizione e rinnovamento, in “Ricerche di Storia dell’Arte”, 33, 1988, pp. 49-70.
Dal 1808 al 1815 Pietro Giordani fu
prosegretario della Regia Accademia di
Belle Arti di Bologna. Egli fu chiamato
a sostituire il segretario e scultore Giacomo Rossi gravemente ammalatosi
nel 1808. Il presidente dell’Accademia
Carlo Filippo Aldrovandi (allineato su
posizioni tradizionaliste e antitetiche
9
10
11
12
rispetto a quelle giordaniane) in una
lettera del 1808, riferendosi a Giordani
asserì: “sa il greco, il latino e l’italiano
e la storia avendo memoria prodigiosa;
è poi l’uomo più incomodo dell’universo” (cit. in S. Tumidei, La scultura dell’Ottocento cit., p. 197).
Il Compendio all’Orazione Panegirica pel
Canova fu letto da Giordani in Accademia il 2 giugno 1810. Poche settimane
più tardi, il 28 giugno, egli pronunciò il
Panegirico ad Antonio Canova. Ambedue i discorsi compaiono in Scritti editi
e postumi di Pietro Giordani, pubblicati
da A. Gussalli, vol. II, Milano 1856, pp.
9-81. La Lettera al celebratissimo Antonio Canova per l’arrivo suo sperato in
Bologna (pubblicata in Scritti editi e
postumi cit., vol. I, 1856, pp. 337-343)
risale invece al 10 novembre 1809.
Cfr. P. Giordani, Lettere ed atti per l’Accademia di Belle Arti in Bologna, a cura
di L. Scarabelli, Bologna 1874, p. 84
dove è attestato che il 6 agosto 1813,
in Accademia, Pietro Giordani pronunciò il discorso Sulle sculture ne’ sepolcri (pubblicato in Scritti editi e postumi
cit., vol. II, pp. 294-302).
Atti dell’Accademia dal 1809 al 1815,
ms., pp. 75-76 (Archivio dell’Accademia di Belle Arti di Bologna).
Lettera del prosegretario dell’Accademia
P. Giordani e del presidente C.F. Aldrovandi al Podestà di Bologna, ms., 22
gennaio 1815 (Archivio Storico Comunale di Bologna, Carteggio amministrativo, Titolo XV, Rubrica 2, anno 1817).
L’inconfondibile paternità giordaniana di
questa missiva e di quella citata alle
note 14 e 16 è confermata anche dalla
pubblicazione in P. Giordani, Lettere ed
atti per l’Accademia cit., p. 110 e sgg. (va
comunque segnalato che quest’ultimo
testo presenta alcune inesattezze relative a firmatari e date rispetto agli originali delle lettere e degli Atti dell’Accademia conservati presso l’Archivio dell’Accademia di Belle Arti e l’Archivio Storico
Comunale di Bologna). Sul carteggio
intercorso tra l’Accademia di Belle Arti e
la Municipalità di Bologna nel 1815
relativamente ai monumenti sepolcrali
della Certosa, si vedano anche E. Bagattoni, Un luogo di rappresentanza cit.; S.
Tumidei, La scultura dell’Ottocento cit.;
A. Mampieri, Il ruolo dell’Accademia di
Belle Arti nella costituzione del cimitero
monumentale della Certosa di Bologna,
in All’ombra de’ cipressi cit., pp. 249-
13
14
15
16
17
18
259; A. Mampieri, Arte in Certosa: i rapporti tra l’Accademia di Belle Arti e il
Comune di Bologna, in “Arte a Bologna”,
n. 6/2007, 2008, pp. 73-89 (con trascrizioni documentarie).
Lettera del Podestà di Bologna all’Accademia di Belle Arti di Bologna, ms., 10
febbraio 1815 (Archivio Storico Comunale di Bologna, Carteggio amministrativo, Titolo XV, Rubrica 2, anno 1817).
Lettera di P. Giordani e C.F. Aldrovandi
al Podestà di Bologna, ms., 20 marzo
1815 (Archivio Storico Comunale di
Bologna, Carteggio amministrativo,
Titolo XV, Rubrica 2, anno 1817).
Carlo Filippo Aldrovandi fu presidente
dell’Accademia di Belle Arti di Bologna
dal 1807 al 1822. Sulla sua figura e
sul suo pensiero si veda A.M. Matteucci, Carlo Filippo Aldrovandi e Pelagio Pelagi, in “Atti e Memorie della
Accademia Clementina di Bologna”,
XI, 1974, pp. 87-95.
Lettera di P. Giordani e C.F. Aldrovandi
al Podestà di Bologna, ms., 20 marzo
1815 (cit. supra, nota 14).
Giacomo De Maria, il più “neoclassico”
tra gli scultori bolognesi del tempo,
aveva perfezionato e aggiornato la propria formazione durante un lungo soggiorno nella capitale pontificia tra il
1787 e il 1789 e, dopo aver ricevuto
alcuni incarichi accademici negli anni a
cavallo tra i due secoli, tenne la cattedra di scultura all’Accademia di Bologna dal 1804 al 1831, improntando la
formazione di generazioni di scultori
locali. Su G. De Maria si vedano A.
Mampieri, In tema di scultura funeraria
neoclassica cit., e S. Zamboni, Giacomo
De Maria: contributi e materiali inediti,
in “Accademia Clementina. Atti e
Memorie”, n. 27, 1990, pp. 105-135.
Giovanni Putti, nonostante i contatti
cosmopoliti e le prestigiose commissioni
pubbliche cui attese a Milano negli ultimi anni dell’Impero, non si distaccò mai
dalla tradizione artistica felsinea, giungendo a proporre, ancora nella seconda
metà degli anni Venti, eccentriche
opere di gusto neobarocco che rivelano
il superamento di qualsiasi retaggio di
essenzialità e chiarezza compositiva di
marca neoclassica in favore di valenze
espressionistiche ante litteram (ad es. i
monumenti funerari Ferlini (1826) e
Billi Cavazza (1829), rispettivamente
ubicati nel Chiostro Maggiore e nel
Chiostrino delle Madonne) le cui radici
19
20
21
22
23
24
vanno ricercate nel furore preromantico
delle opere tardosettecentesche di Luigi
Acquisti e Giacomo Rossi. Su G. Putti si
vedano i miei studi: Giovanni Putti tra
Antico Regime e Impero. Dalla formazione all’affermazione di un protagonista
bolognese della scultura neoclassica, in
“Arte a Bologna”, n. 6/2007, 2008, pp.
56-72; Tra pathos e allegoria. I monumenti funerari di Giovanni Putti alla
Certosa di Bologna, Cesena 2008.
Sul monumento Caprara si veda la
scheda dell’opera a cura di A. Mampieri, in La Certosa di Bologna cit., pp.
122-123.
Il tema della figura velata fu affrontato,
con straordinaria enfasi ed esuberanza
fino a un eccesso di matericità, da Giovanni Putti nei monumenti Fornasari
(1822) e Levi (1826), rispettivamente ubicati nel Chiostro d’Ingresso e nel Chiostro
Maggiore. Cfr. E. Bagattoni, Tra pathos e
allegoria cit., pp. 114-119, 164-168.
Cfr. Ibid., pp. 66-71.
Agli artisti impegnati alla Certosa era
chiesto di tramandare, seguendo il concetto illuminista e romantico al contempo che percepiva la vera morte solo nell’oblio, il ricordo dei defunti, della loro
posizione sociale (soprattutto se nobili)
e della loro professione (se aristocratici).
Sulle tombe dei nobili sovente comparivano lo stemma gentilizio e figure allegoriche alludenti a virtù attribuite all’estinto o genericamente alla morte (Genî
funebri), mentre nei monumenti dedicati
a esponenti della borghesia venivano
molto spesso rappresentate allegorie di
professioni “illustri” (di carattere intellettuale o militare) esercitate dai defunti. Solo in pochi e prestigiosi casi vennero rappresentati simboli e allegorie di
professioni meno prestigiose e di più
recente elevazione sociale (come la pratica artistica) che, in antico regime, solo
eccezionalmente avevano assunto una
dignità che le collocasse oltre il modesto
livello artigianale. Ciò è riferibile prevalentemente nei casi di monumenti dedicati a uomini, in quanto a quel tempo le
donne, salvo rarissime eccezioni, non
svolgevano attività professionali e sulle
loro tombe per lo più comparivano figure simboleggianti generiche virtù.
Cfr. supra, nota 22.
Sulla scultura funeraria italiana, si veda
il fondamentale testo a cura di S. Berresford, Italian memorial sculpture 18201940: a legacy of love, London 2004.
243
Scultura italiana tra Neoclassicismo e anni Trenta
nei cimiteri dell’Emilia-Romagna
di Alfonso Panzetta
Scultura italiana tra Neoclassicismo e anni Trenta
1. Giovanni Putti,
Tomba Ferlini
(particolare), 1812,
Certosa, Bologna
244
La generazione più recente degli studiosi sta oggi ottimamente lavorando nella direzione del corretto recupero critico e storico della scultura del XIX secolo nel
più ampio panorama dell’arte del periodo, facendo
propria quella definizione di “Cimitero=Museo all’aperto” di scultura che iniziò a comparire verso la fine
degli anni Ottanta. Una generazione che ha preso sul
serio tale definizione, lavorando con passione precisa e
puntuale al censimento delle opere d’arte presenti nei
cimiteri, componendo così veri e propri cataloghi delle
“collezioni museali”.
Il censimento, la presa di coscienza di quanto esiste e si
possiede, è il primo passo per la valorizzazione e la tutela di un patrimonio che, se proviamo a ragionare in termini nazionali, risulta di enorme entità e importanza.
Solo attraverso tale capillare censimento sarà realmente
possibile studiare l’Ottocento restituendo alla scultura
quella centralità che ebbe in Italia, una centralità ormai
riconosciuta dalla comunità internazionale degli studi.
Personalmente tendo a rifuggire e a rinnegare la dicitura di “scultura funeraria” che continuamente viene uti-
245
lizzata dalla critica contemporanea quando ci si occupa
di cimiteri monumentali, quasi che la destinazione
commemorativa della scultura costituisca un genere a
parte, in qualche misura minore. La scultura funeraria
è sempre, anche se a livelli differenti di qualità e importanza, scultura prima di tutto. Sarà sufficiente riflettere
sulla scultura dei secoli precedenti per rendersi conto
di quanto fuorviante e riduttiva possa essere la dicitura
“scultura funeraria”, come del resto quella di “scultura
religiosa”: non ci sogniamo minimamente di definire in
tal modo né la Margherita di Brabante di Giovanni Pisano, né il Mosè o le Cappelle Medicee di Michelangelo,
eppure furono opere eseguite in modo specifico per
monumenti funerari; sono sculture, pura espressione
della creatività dell’artista. È allo stesso modo che dobbiamo rapportarci alla scultura del XIX secolo.
Già nel 1989, nell’introduzione alla prima edizione del
Dizionario degli Scultori Italiani dell’Ottocento edita da
Lo splendore della forma
2. Alessandro Franceschi,
Tomba Ercole BevilacquaAldobrandini,
1827, Certosa, Ferrara
246
Allemandi, auspicavo l’organizzazione di visite guidate
all’interno dei cimiteri monumentali e la necessità di
allestire progetti di tutela e conservazione specifici.
Dopo oltre tre lustri, l’attenzione per questo patrimonio plastico è sensibilissima e, in parallelo alle visite
guidate che oggi vengono organizzate nelle singole
realtà cittadine, è ora possibile ipotizzare una fase successiva, una fruizione più globale di questo immenso
patrimonio artistico progettando percorsi di visita trasversali e sovralocali. Se all’interno di ciascun cimitero
monumentale è possibile, infatti, a diversi livelli, cogliere il disegno della scultura italiana dal neoclassicismo
al Novecento, come riflesso locale di un più ampio
panorama, tale disegno apparirà più chiaro se si valuta
globalmente il patrimonio di una intera regione, con
in più l’opportunità di cogliere l’entità e l’originalità
del contributo degli scultori attivi nella regione al più
ampio disegno storico della scultura del XIX e XX
secolo. In un’ottica così allargata sarà possibile riflettere sulla presenza di opere di artisti extra-regionali,
Scultura italiana tra Neoclassicismo e anni Trenta
apportatori di linguaggi culturali e modelli formali di
differente provenienza, ma anche rilevare l’esistenza di
opere di artisti nativi nella regione che però hanno
svolto gran parte della loro attività fuori da questa,
comunque mantenendo con essa un legame profondo
tramite le committenze più illuminate. È il caso del ferrarese Stefano Galletti (1832-1905) attivo a Roma, ma
che per il cimitero di Cento, sua città natale, ha eseguito una notevole serie di capolavori in marmo; ma è
anche il caso di un altro ferrarese, Gaetano Galvani
(1868-1945), sempre attivo a Roma, che nel cimitero
della nativa Bondeno colloca numerose opere tra le
quali sono da indicare alcuni dei suoi capolavori, di un
realismo purissimo venato di impegno sociale.
Sul filo dell’idea di individuare un ideale percorso di
visita storico-critico che possa dipanarsi in una scala
almeno regionale, negli ultimi tempi è stata condotta
e completata una schedatura a tappeto, con relativa
campagna fotografica, sui cimiteri monumentali dei
più importanti centri dell’Emilia Romagna. Così, partendo da Castel San Giovanni nel piacentino e concludendo a Rimini sull’Adriatico, passando per Piacenza,
Fiorenzuola, Fidenza, Parma, Reggio Emilia, Correggio, Modena, Mirandola, Vignola, Carpi, Bologna,
Imola, Ferrara, Argenta, Bondeno, Cento, Comacchio,
Ravenna, Lugo, Faenza, Forlì e Cesena, si è presa
coscienza di una parte di quel macro-museo di scultura che è il nostro territorio nazionale incontrando,
accanto a quelle degli artisti emiliano romagnoli,
opere di capitale importanza di artisti di prima grandezza nel contesto del XIX e XX secolo.
La sequenza che emerge dalle diverse centinaia di
opere che compongono questo percorso, mette poi in
luce una fisionomia culturale della ragione che è risultata, sino a ora, assolutamente inedita e ignorata.
Nell’attuale definizione della fisionomia nazionale
della scultura tra XIX e XX secolo si tendono a individuare sinteticamente quattro macro aree di influenza
culturale: la Lombardia, la Toscana, Roma e, genericamente, il meridione. Ma questa sintesi non rende merito al ruolo che ebbe l’Emilia Romagna, e Bologna in
particolare, per un periodo ben più ampio di quello in
247
Lo splendore della forma
Scultura italiana tra Neoclassicismo e anni Trenta
3. Alessandro Cavazza,
Tomba Bonaccini, 1860,
Cimitero di San Cataldo,
Modena
4. Giovanni Collina Graziani,
Tomba Francesca Rossi,
1876, Cimitero, Faenza
248
esame e che sarebbe da far partire almeno dagli anni
’20 del XVIII secolo con l’attività della sua Accademia
Clementina prima, poi Nazionale, Pontificia e infine
Reale. Bologna, con i suoi oltre due secoli di premi
dedicati alla scultura – dall’importantissimo Marsili,
poi Marsili-Aldrovandi, seguito dal premio Curlandese
e dal premio Baruzzi, che terminerà la sua attività alle
soglie del secondo conflitto mondiale – sarà un reale
punto di riferimento nazionale ancora tutto da indagare in modo analitico. Mediante tali premi di scultura
saranno infatti presenti o legati in qualche modo a
Bologna – come concorrenti, membri delle commissioni d’esame o referenti – tutti i più bei nomi della scultura del periodo, rendendo la città un effettivo crocevia di incontro culturale ad altissimo livello: da Antonio Canova a Lorenzo Bartolini, da Giovanni Duprè a
Tito Sarrocchi, da Adriano Cecioni a Vincenzo Vela, da
Antonio Dal Zotto a Giulio Monteverde, per citarne
solo alcuni, non emiliani.
La straordinaria ricchezza e varietà del patrimonio plastico esistente e conservato nei cimiteri monumentali
dell’Emilia Romagna, non sarebbe infatti comprensibile e giustificabile senza riflettere sul fatto che questo
possa essere, di fatto, il riflesso evidente dell’importanza che quest’area geografica ebbe per oltre un secolo.
Nell’ottica di un percorso di visita attraverso il patrimonio plastico delle Certose emiliano romagnole è possibile quindi individuare almeno due sequenze: quella
composta dalle opere realizzate da artisti extra regionali, parallela all’altra, ricchissima, frutto dell’attività
degli scultori emiliano romagnoli.
5. Giacomo Zilocchi,
Tomba Luigi Marchesi,
1906, Cimitero, Piacenza
Nella prima filza, tra neoclassicismo e Novecento, si
collocano i capolavori di Pietro Tenerani a Bologna;
Bartolomeo Ferrari a Ferrara; Lorenzo Bartolini a
Bologna e Ferrara; Carlo Finelli a Bologna; Santo Saccomanno a Cesena; Antonio Rossetti, Augusto Rivalta,
Carlo Chelli, Giovanni Battista Lombardi, Vincenzo
Vela, Giovanni Duprè e Salvino Salvini a Bologna;
Giulio Monteverde a Ferrara; Giovanni Strazza a Bologna; Cesare Zocchi a Cesena e Ravenna; Giovanni Battista Cevasco a Piacenza; Enrico Astorri a Castel San
Giovanni; Vincenzo Consani a Ferrara; Aristodemo e
Leopoldo Costoli a Bologna e Cesena; Francesco Confalonieri a Castel San Giovanni; Tito Sarrocchi a
Modena; Dante Sodini a Rimini; Francesco Bonola a
Bologna; Paolo Testi a Forlì; Giorgio Kienerk a Bologna; Francesco Jerace a Forlì; Achille Canessa a Faenza e Fiorenzuola; Ettore Zocchi a Rimini; Gino Nicoli
e Pietro Arcangioli a Ferrara; Cesare Aureli a Cesena;
Leonardo Bistolfi a Ferrara e Bologna; Bernardino
Boiafava a Forlì; Libero Andreotti a Ferrara; Sirio
Tofanari a Forlì; Giuseppe Mancini a Parma; Oreste
249
Lo splendore della forma
250
Chilleri a Bologna; Annibale De Lotto a Lugo e Marta
Sammartini a Bologna.
Nel medesimo arco temporale, l’impegno e la creatività degli scultori emiliano romagnoli si manifesta a un
livello di qualità altissimo. Impossibile citare tutti gli
scultori variamente attivi in questa sede, ma almeno
bisogna sottolineare il purissimo neoclassicismo di Giacomo De Maria, Giovanni Putti (fig. 1), Cesare Gibelli,
Giovanni Battista Ballanti Graziani, Raimondo Trentanove, Luigi Antonio Acquisti, Alessandro Franceschi
(fig. 2), Cincinnato Baruzzi, Innocenzo Giungi o Giuseppe Ferrari, il purismo romantico di Alessandro
Cavazza (fig. 3), Massimiliano Putti, Giovanni Collina
Graziani (fig. 4), Apollodoro Santarelli, Luigi Maioli e
Gaetano Saviotti, il realismo di primissima mano di
Prudenzio Piccioli, Carlo Parmeggiani, Luigi Legnani,
Enrico Pazzi, Carlo Monari, Diego Sarti, Domenico
Randi, Enrico Barberi e Mauro Benini, il verismo di
impegno sociale di Tullo Golfarelli, Alessandro Massarenti, Gaetano Galvani e Pasquale Rizzoli, il nuovo ed
elegantissimo linguaggio liberty di Gaetano Samoggia,
Arturo Orsoni, Fedele Toscani, Giuseppe Romagnoli,
Silverio Montaguti, Arrigo Minerbi, Pietro Veronesi,
Domenico Baccarini, Pier Enrico Astorri, Mario Sarto e
Domenico Rambelli, e le solidità novecentesche di Giuseppe Graziosi, Armando Minguzzi, Ercole Drei,
Venanzio Baccilieri e Farpi Vignoli.
La città del silenzio: arte funeraria a Pavia
tra Ottocento e Novecento
di Susanna Zatti
A Pavia, come in altre città italiane ed europee, il cimitero rappresenta la più ampia e importante raccolta
pubblica di opere pittoriche e scultoree locali (e non
solo) dei decenni tra Otto e Novecento: luogo per
eccellenza della conservazione di memorie private e
collettive attraverso il linguaggio delle arti figurative,
costituì la testimonianza eloquente di una cultura artistica che permeò di sé, allo stesso modo, la città dei
morti così come quella dei vivi.
Proprio in quegli ultimi decenni dell’Ottocento in cui il
Cimitero veniva edificato in stile neo romanico lombardo, su progetto degli architetti Vincenzo Monti e Angelo Savoldi, e si dotava di buona parte dei monumenti
più significativi sotto i porticati del quadrilatero originale, a Pavia conosceva la sua stagione più vitale e felicemente feconda la Civica Scuola di Pittura, la gloriosa
Accademia dove insegnarono i maestri e si formarono
gli artisti e abili artigiani e decoratori che in gran numero contribuirono a caratterizzare la veste ornamentale
degli edifici comuni del recinto monumentale, là dove
avrebbero trovato ospitalità le sepolture perpetue.
251
Lo splendore della forma
252
In città, fino ad allora, erano scarseggiati per gli artisti
incarichi e occasioni di mostrare in pubblico il loro
mestiere e l’abilità nel dar forma ed evidenza plastica a
contenuti rappresentativi e simbolici, se si escludono i
pochi concorsi per monumenti di carattere risorgimentale. Il Cimitero, almeno nel primo cinquantennio della
sua vita, è dunque palestra e banco di prova per i talenti
locali, luogo del confronto con artisti “forestieri” di consolidata fama – a partire da Vincenzo Vela fino ad arrivare a Mario Rutelli –, occasione di acceso dibattito civico
tra laici e clericali sulla funzione dell’arte, sul valore del
monumento, sull’iconografia e simbologia funeraria.
Mentre la classe medio borghese aveva affidato il ricordo di vite operose per lo più a formelle in maiolica di
produzione locale, murate sul fronte interno del perimetro, dove sono effigiati gli strumenti del mestiere (il
macellaio, lo speziale ecc.), i professori universitari e i
professionisti – prima nei porticati dell’Università, poi
nel vecchio camposanto, anteriormente alla riforma
architettonica – avevano commissionato monumenti
scultorei di pregio: così Giovanni Gorini, docente universitario, sepolto in un sarcofago di gusto greco-romano affiancato dalla figura femminile dolente e pensierosa; così il professor Cesare Ferreri noto incisore, così
Giuseppe Carganico, l’inventore di apparecchiature
mediche, e ancora il notaio G.B. Adami, che nel 1844
aveva fatto realizzare da Vincenzo Vela il monumento
per la giovane moglie scomparsa (fig. 1), monumento
che Carlo Tenca aveva illustrato sulla “Rivista Europea”
quale fulgido esempio di plastica verista del Romanticismo, elogiando soprattutto l’uso del costume contemporaneo (quello del marito in particolar modo) e la
forte comunicatività emotiva (specie la figura della
figlia maggiore, che esprime il melanconico presentimento del dolore). È un modello plastico cui s’ispirarono altri artisti ancora per tutto l’ultimo quarto del
secolo: da esso deriva infatti l’iconografia dei personaggi ottocenteschi addobbati con i loro migliori vestiti, e
con i capelli ben agghindati e intrecciati, che si congedano con affettuosità e trattenuto dolore dai loro cari.
È una scultura di tipo realistico e descrittiva che traduce il concetto della morte in una dimensione terrena e
La città del silenzio: arte funeraria a Pavia
1. Vincenzo Vela,
Tomba Maddalena Bozzi
Adami, 1844
2. Francesco Sala,
Progetto Cappella
Luigi Nocca, 1885
(Pavia, Archivio Storico
Civico)
quotidiana che, nella versione più modesta a opera di
artigiani locali, si esplicita in una nutrita serie di figure
di bambine, o giovanette, o mogli afflitte e recanti
fiori, o personaggi virili paludati, descritti con forbitezza di particolari per gli abiti e gli attributi: – tra gli altri
– è il caso della tomba per Oliviero Modesti (1895), con la
bella figura femminile sopraffatta dal dolore e accasciata sulla tomba del marito.
Si diceva che nel cimitero molto si rispecchia della cultura figurativa cittadina: la classe imprenditoriale e del
colto professionismo tende a riprodurre nella cappella
funeraria quei modelli di rappresentatività formale già
utilizzati al di fuori; semmai nella città silenziosa sono
accolte in maggior misura libertà stilistiche e aperture
in senso moderno, trasgressioni all’accademismo di
maniera. La destinazione funeraria favoriva, infatti, l’adozione di una maggiore varietà di stili, con preferenza
per quelli non classici e con recupero dei linguaggi che
il formulario dell’Eclettismo considerava “mistici” e
adatti al raccoglimento, quali il bizantino e il gotico: di
qui le tante edicole ornate con motivi di archetti acuti,
cuspidi, pinnacoli, colonnine tortili, rosoni a traforo
(edicola Moro, cappella Nocca) (fig. 2). Mentre ragioni
legate al recupero del bagaglio culturale e artistico
locale pavese (e alla pratica del restauro delle basiliche
medievali) suggeriscono l’adozione di formule architettoniche e scultoree decorative d’eco longobardo o
neoromanico: è il caso delle edicole Pizzocaro e Pellegrini,
che ripropongono cornici con motivi di girali e tralci
253
Lo splendore della forma
La città del silenzio: arte funeraria a Pavia
4. Enrico Cassi,
Tomba Ernesto Cozzi,
Lavoro e riposo, 1897
3. Enrico Cassi,
Tomba Cairati, 1890
254
di vite tratti dal San Michele, restaurato nel 1860/70.
Tra le prime edicole a dotarsi di ornamenti artistici vi è
quella di Carlo Cazzani (1882), con gruppo statuario di
Giulio Branca, professore dell’Accademia di Brera, che
rivisitava il modello classico della figura giacente sul
sarcofago, con angelo sul fondo e figura allegorica
inginocchiata a fianco.
Nel 1888 esordisce nel campo della scultura cimiteriale
il pavese Enrico Cassi (nato nel 1863), discendente di
una rinomata ditta locale di marmorai, formatosi nello
studio di Rasetti a Viggiù e diplomatosi nel 1886 a Brera
con Francesco Barzaghi ed Enrico Butti: da questi maestri aveva derivato la tendenza a unire all’accuratezza
della resa naturalistica una speciale attenzione per l’indagine psicologica, tradotta in un modellato vibrante e
sensibile, dagli effetti luministici e pittorici. Nel monumento Cairati (del 1890) aveva dato prova della perizia
tecnica – nella resa virtuosistica dello scialle di trina e
del serto floreale – e insieme della capacità di sottolineare, senza enfasi retorica, la rievocazione del dolore,
secondo un modello ripreso da Edoardo Tabacchi nella
tomba Omodeo del Cimitero milanese (fig. 3).
Pure in un cimitero laico, dove mancavano emblemi
confessionali delle zone ed edifici comuni, acceso
dibattito avevano suscitato alcuni monumenti dall’iconografia pagana quali il gioioso e fortemente profano altorilievo marmoreo Lavoro e riposo di Cassi ispirato al monumento Castiglioni di Enrico Butti del Cimitero di Milano e dedicato a un allegoria dell’Agricoltura (fig. 4).
Tra i pittori pavesi chiamati a decorare le principali
sepolture, destinate per lo più a professori universitari
e illustri clinici, è Pacifico Buzio, allievo prediletto di
Trecourt alla Scuola di Pittura, compagno di corso sia
di F. Faruffini sia di T. Cremona: suo il decoro pittorico
delle tombe Pollini (fig. 5), Cairati, Lunghi, dell’edicola
del prof. Orsi – che realisticamente rappresenta una visita al malato da parte del noto chirurgo – e ancora del
monumento Maggi, dove l’affresco dal titolo Al di qua e
al di là della vita è già percorso da una vena simbolista.
Negli anni a cavallo del secolo, infatti, anche a Pavia
non tardano a farsi largo le istanze simboliste, connesse
con il dominante orientamento spiritualista e antinaturalistico che punta sull’ideale svalutando la cura veristica oggettiva. Grazie all’eclettico Enrico Cassi (che,
peraltro, nel 1900 aveva vinto il concorso per il monumento alla Famiglia Cairoli, con un bozzetto d’impronta
accademico-realistica, preferito alla più innovativa proposta di Leonardo Bistolfi) si afferma un nuovo stile –
più sinuoso e morbidamente plastico, con predilezione
per andamenti asimmetrici e decori fitomorfi – e una
nuova iconografia, meno descrittiva e più intensamente
espressiva. Banditi i temi dell’omaggio dei congiunti
255
Lo splendore della forma
5. Pacifico Buzio,
Bozzetto Cappella Pollini,
1890
6. Enrico Cassi,
Tomba Pietro Chiesa,
1909
256
alla tomba, del ritratto, della rievocazione di episodi
della vita terrena, si aspira a rendere i concetti della
sopravvivenza dello spirito e del perpetuarsi dei valori
ideali: si rifiuta perciò il costume alla moda e la tipizzazione fisionomica per rappresentare personaggi senza
tempo, languide sembianze vestite di pepli e veli, sospese tra il sogno e la morte (si vedano, in particolare, il
monumento Pietro Chiesa, molto simile al sepolcro Barelli
del Monumentale di Milano, fig. 6, e quello della famiglia Rolandi). L’idea della continuità tra vita e morte è
resa attraverso l’accostamento di parti naturalistiche a
tutto rilievo, ben tornite, e di immagini evocative, trattate a basso rilievo schiacciato o solo graffite, che alla luce
rispondono con effetti diversi di fremente animazione.
Anche Antonio Oberto, poliedrico artista formatosi
alla Civica Scuola di Pittura, pittore, grafico e scenografo presso il Teatro cittadino, si propone nel Cimitero nella veste unitaria di ideatore di elementi architettonici, scultorei e decorativi, contribuendo a impartire
un omogeneo aspetto Jugendstil e poi déco alle cappelle che disegna e orna con pitture, graffiti, encausti,
bronzetti, stucchi e ferri battuti, secondo quel concetto di “arte totale” diffuso in esordio del Novecento
(tombe Anelli, Ricotti).
Maestro di Oberto – così come di altri artisti operanti
al Cimitero quali Antonio Villa, Filippo Tallone, Emilio
Testa – è Giorgio Kienerk, direttore della Scuola Civica
per un trentennio, grafico di fama internazionale, pittore d’avanguardia e anche autore di sensibili e innova-
La città del silenzio: arte funeraria a Pavia
7. Alfonso Marabelli,
Tomba Rossi Dositeo,
1911
8. Alfonso Marabelli,
Piangente,
Tomba Famiglia Vivanti,
1933
tive sculture a tutto tondo e a rilievo, presentate con
successo in esposizioni europee. A lui si rivolge la committenza più colta e altolocata, in particolare il mondo
accademico e delle cliniche universitarie: suoi i monumenti funebri per Camillo Golgi, il primo premio Nobel
italiano per la medicina nel 1906, e per Roberto Rampoldi, medico oculista (è raffigurato mentre opera assistito
dalla Scienza e al cospetto della Cecità) e senatore del
regno, per i quali egli, peraltro, si attiene ai modelli
plastici più tradizionali.
Ultimo – in ordine di tempo – protagonista della scultura cimiteriale pavese entro il primo trentennio del
secolo è Alfonso Marabelli, il più dotato scultore pavese del tempo, allievo di Butti all’Accademia braidense e
autore nella città dei vivi del monumento agli studenti
universitari caduti nel I conflitto mondiale e della statua a
Golgi nel cortile così detto “delle statue” dell’Ateneo.
Realizzando la suggestiva figura dolente della tomba
Rossi Dositeo, che col capo reclinato sembra meditare
sul mistero della morte, Marabelli inaugura una cospicua serie di personificazioni femminili di grande efficacia plastica, che poco o nulla concedono all’enfasi oratoria così come alla facile emotività o alla piacevolezza
decorativa, imponendosi per una sorta d’intensa e
silenziosa presenza etica e morale (fig. 7).
Segue di poco la delicata e forte immagine femminile
della tomba Rossi, un’altrettanto forte e concentrata
figura di guerriero posto a guardia dell’edicola De Filippi del 1914, quando già incombeva la minaccia del con-
257
Lo splendore della forma
258
flitto: ogni residua cadenza e ritmo liberty hanno ceduto al disegno stilizzato e sintetico della maschera e dell’armatura, della spada dalla grande elsa a croce e della
cornice in pietra appena sbozzata.
E se ancora in diverse lastre e monumenti prevale il
linearismo vitalistico dell’Art Nouveau nel disegnare
sembianze femminili dalle chiome fluenti e dalle membra appena velate, o efebici cristi crocifissi, non immemori del monumento a Segantini di Bistolfi, negli anni
successivi alla parentesi bellica Marabelli esibisce una
diversa cifra stilistica, progressivamente più sobria, d’anelito purista, che lo conferma artista di squisita sensibilità, capace di rinnovare l’iconografia funeraria,
interpretando le inquietudini del suo tempo. La composizione plastica della Piangente ideata per la tomba
Vivanti – una donna in bronzo si appoggia con le braccia e il capo a un’alta parete in granito, nascondendo a
chi transita il volto e il dolore – è di intensa espressività
per il rimando al muro del pianto e per l’originalità
della soluzione “di spalle”, che affida il messaggio
non al volto e alla mimica delle mani, ma al gesto trattenuto, alla postura del corpo di grande compostezza
(fig. 8). Anche nel monumento Prelini – due figure femminili che si confortano e si abbracciano nello sfondo
di una quinta di serizzo – Marabelli sa interpretare le
istanze delle contemporanee correnti scultoree dei
Novecentisti di raffinata ieraticità, di mortificazione
dell’oratoria, di monumentalità castigata.
Un modello per la scultura funeraria internazionale:
il cimitero genovese di Staglieno
di Leo Lecci
Questo studio ha origine da uno dei campi maggiormente indagati da Franco Sborgi nell’ambito delle
ricerche sulla scultura che lo impegnano ormai da
diversi anni: quello della diffusione della scultura italiana all’estero e, nello specifico degli approfondimenti
su Staglieno, quello della diffusione internazionale
della scultura italiana attraverso i modelli presenti nel
monumentale cimitero genovese.1
Lo studio è stato portato avanti, e ancora procede,
seguendo due binari paralleli: una mappatura quantitativa – di per sé già interessante e per molti aspetti
significativa – nei cimiteri italiani e stranieri di repliche
autografe o di copie di sculture presenti a Staglieno o
di opere a esse ispirate, e la ricerca dei motivi di tale
diffusione, siano essi cause contingenti, quali la presenza di uno scultore in un dato contesto, oppure ragioni
di carattere ideologico o sociali.
In effetti, come lo stesso Sborgi ha più volte sottolineato, il caso della scultura funeraria è uno degli esempi
più rilevanti della circolazione di modelli a livello internazionale e del costituirsi di un linguaggio che talvolta
259
Lo splendore della forma
260
assume caratteri locali, ma più spesso trova un riferimento generale in una committenza che si riconosce in
valori rappresentativi comuni: gioca un ruolo fondamentale l’internazionalizzazione delle borghesie emergenti fra la seconda metà del XIX secolo e i primi
decenni del XX, divenendo il maggiore tramite di tale
diffusione. Al di là delle specifiche culture, infatti, i processi autorappresentativi mostrano caratteri collettivi.
La fortuna che, tra gli ultimi decenni del XIX secolo e i
primi del XX, incontra il “realismo borghese”, fortemente caratterizzato da una rappresentazione analitica,
risponde alla mentalità positivista di una committenza
che affida la perpetuazione della propria memoria alla
concretezza del fatto, alla propria storia personale, al
proprio riconoscibile ruolo nel contesto sociale ed economico. In questo quadro d’insieme alcune immagini si
diffondono ad ampio raggio e il cimitero di Staglieno,
seguendo con perfetto parallelismo storico e culturale
le vicende, gli ideali, l'idea stessa della vita di una borghesia in piena ascesa come quella genovese, si configura come una sorta di “laboratorio” dell'immaginario
borghese della morte – tra i più descrittivi che si riscontrino in Occidente – e diviene una vera e propria raccolta di prototipi replicabili in altri contesti cimiteriali.
Genova, è noto, è uno dei principali porti europei e tra
XIX e XX secolo rappresenta uno dei più importanti
scali per le rotte transoceaniche e per l’emigrazione.
Le visite di diplomatici, imprenditori e commercianti, i
frequenti ritorni in patria di quei migranti liguri che
avevano fatto fortuna in Italia o più spesso all’estero,
particolarmente nell’America del Sud, contribuiscono
in maniera decisiva alla circolazione delle immagini.
Inoltre le repliche, autorizzate o meno, sono abitualmente realizzate in centri come Carrara o Pietrasanta,
dove gli scultori liguri inviano le loro opere per la sbozzatura o proprio per l'esecuzione dal modello.
Le riproduzioni vengono anche eseguite da fotografie, il
che spiega la spesso non ottima qualità delle copie e i
cambiamenti che sovente compaiono nelle diverse repliche. Oltre alle fotografie realizzate da professionisti, esistevano quelle fatte o volute dagli stessi artisti e da essi utilizzate come strumento promozionale del proprio lavoro:
Un modello per la scultura funeraria internazionale
un fenomeno molto diffuso, come rivelano gli archivi
fotografici delle accademie o scuole d’arte e, per il contesto ligure, quello dell'Accademia Ligustica di Genova.
Per Staglieno non esistono repertori come quelli relativi al Père Lachaise di Parigi realizzati da Roger e figli
(1828)2 e da Ferdinando Quaglia (1834);3 tuttavia alcune pubblicazioni dovevano avere analoghe funzioni di
diffusione: ad esempio, quelle di Partecipazio (al secolo G. Minuto), Staglieno. Album Ricordo e Staglieno.
Guida del visitatore, entrambe pubblicate nel 1883, e
quella di Ferdinando Resasco (figlio di Giovanni Battista, l’architetto responsabile del progetto esecutivo del
cimitero),4 La necropoli di Staglieno. Opera storica descrittiva illustrata, del 1892, più volte riedita nel corso del
secolo seguente e nel 1926 anche in lingua francese.
Sandra Berresford ha recentemente pubblicato un
Album degli Angeli, databile al 1925 e conservato all’Istituto del Marmo Pietro Tacca a Carrara, che raccoglie
fotografie in bianco e nero di angeli, ma anche di sculture di diverso genere (monumenti ai caduti, piangenti
e altro) destinato agli studenti della Scuola del marmo,
nel quale è presente, tra le molte altre, la fotografia di
una replica del celebre Angelo del Giudizio (fig. 1) realizzato nel 1882 da Giulio Monteverde (Bistagno 1837 Roma 1917) per la tomba del ricco commerciante e
banchiere Francesco Oneto a Staglieno.5
Proprio quest’ormai celeberrima scultura costituisce
un caso particolare di riproduzione di un modello del
261
1. Giulio Monteverde,
tomba Oneto, 1882,
Genova, Cimitero di Staglieno
(foto Piera Tambuscio)
2. Giulio Monteverde,
tomba Monteverde, 1890,
Roma, Cimitero del Verano
Lo splendore della forma
262
cimitero genovese che non si può spiegare solo con la
pur estesa diffusione delle immagini o la reputazione
di uno scultore, ma impone di tener in conto anche
l’affermazione di un nuovo clima culturale.
Come ancora Sborgi ha più volte indicato, la statua scolpita da Monteverde – allora uno degli autori più rappresentativi della scultura ufficiale italiana della seconda metà del XIX secolo, la cui opera conoscerà un crescente successo internazionale per l’indiscutibile capacità di coniugare tradizione e modernità – propone,
verosimilmente per la prima volta nell’ambito della
scultura funeraria, un’enigmatica immagine femminea6
dell’angelo del giudizio che rappresenta il passaggio
verso un nuovo clima simbolista-decadente. Se dal
punto di vista stilistico la scultura mostra l’influenza dell’ambiente romano in cui cominciava a diffondersi la
“cultura del mistero” dei Preraffaelliti inglesi, la commissione di un monumento funebre così carico di
ambiguità da parte di un ragguardevole esponente
della borghesia testimonia come la crisi delle certezze
positiviste coinvolgesse proprio la classe sociale che
aveva con decisione contribuito alla loro affermazione.
La scultura di Monteverde favorirà, con altre all'incirca coeve, il successo di un’iconografia angelica sempre
più sensuale e vicina alla femme fatale che tanta parte
ha nella letteratura e nella pittura del tempo; un’iconografia che, tra la fine del secolo e l’inizio del successivo, arriverà a portare, non senza polemiche, il tema
del nudo nella scultura cimiteriale, o comunque l’immagine di un’esplicita figura femminile quale compagna dell’ultimo viaggio.7
L’angelo della tomba Oneto diviene così, per molti
anni, una vera e propria icona della scultura funebre,
riprodotta in moltissimi cimiteri italiani e stranieri in
repliche autografe e non – dall’Italia alla Francia, dalla
Spagna all’Inghilterra, fino alle Americhe – e replicata
dallo stesso Monteverde per la sua cappella funeraria
nel cimitero monumentale del Verano a Roma (fig. 2).
Il rilevamento nei cimiteri internazionali della presenza
di questa scultura, tra le più note e affascinanti del cimitero di Staglieno, o di varianti a essa ispirate, non è
ancora completo, ma già conosciamo numerosissime
Un modello per la scultura funeraria internazionale
3. Tomba Gianelli, 1912 c.,
Piacenza, Cimitero comunale
(foto Laura Putti)
4. J.A. Lorenzi,
tomba Vermeulen, 1903 c.,
Principato di Monaco,
Cimitero di Monaco
(foto Francesco Colombi)
statue da essa derivate con o senza specifiche variazioni.
A Genova e in Liguria se ne trovano alcune repliche
non autografe nei cimiteri di Voltri (tomba Verruggio,
1926; tomba Bottino; tomba Gaggero) e Pegli (tomba
Remaggi, 1902) e in quelli di Rapallo (tomba Giovanni
Croce, 1887) e della Spezia; ancora in Italia, ricordiamo
la riproduzione realizzata nel 1890 da Vittorio Rossi
per la tomba Lunghi nel cimitero monumentale di
Pavia, 8 le copie non autografe del Verano di Roma
(tomba Del Vecchio) e del cimitero comunale di Piacenza (tomba Gianelli, 1912 c., fig. 3), quest’ultima dal
volto particolarmente somigliante alle figure femminili
del preraffaellita Dante Gabriele Rossetti.
L’esemplare milanese pubblicato da André Chabot in
Erotique du Cimetière9 non trova invece riscontro nella
capillare guida del cimitero del capoluogo lombardo
scritta da Giovanna Ginex e Ornella Selvafolta.10
In Francia conosciamo la replica non firmata del cimitero di Saint-Pierre di Marsiglia, che in questo stesso
volume Régis Bertrand propone di attribuire ai fratelli
Auguste e François Carli.11 Nel cimitero del Principato
di Monaco se ne trovano tre diverse varianti; due di
queste sono state eseguite dall’atelier Lorenzi della confinante cittadina di Beausoleil: una (tomba Vermeulen,
1903 c., firmata “J.A. Lorenzi / marbres Beausoleil”,
fig. 4), è di grande formato, vicino a quello originale,
263
Lo splendore della forma
5. Lorenzi, tomba Allavena,
1928 c., Principato di
Monaco, Cimitero di Monaco
(foto Francesco Colombi)
6. Tomba Pallanca, 1936 c.,
Principato di Monaco,
Cimitero di Monaco
(foto Maria Rebecca Ballestra)
264
ma dal modellato piuttosto rigido, tanto che il viso dell’angelo ha assunto evidenti connotazioni maschili; l’altra (tomba Allavena, 1928 c., firmata Lorenzi / Beausoleil, fig. 5), è più tarda e di minori dimensioni, ma di
più morbida esecuzione, iconograficamente più vicina
al prototipo genovese. Una terza scultura non firmata
(tomba Pallanca, 1936 c., fig. 6), dalle sembianze femminili più marcate, la cui immagine è combinata con
quella dell’angelo che sparge i fiori sulla tomba, presenta un altro curioso cambiamento rispetto al modello di
Monteverde, indicativo delle trasformazioni che la figura originale assume nel tempo attraverso le diverse
mediazioni: la lunga tromba che connota la creatura
celeste quale Angelo del giudizio si è trasformata in un
approssimato e irrigidito panneggio.
Altri angeli funebri evidentemente ispirati a quello
della tomba Oneto si trovano in diverse città europee:
Barcellona (cementerio de Montjuïc), Madrid (tomba
Iriarte, Cementerio de Nuestra Señora de La Almudena) Londra (tomba King, 1923, Norwood Cemetery;
tomba Lyras, Putney Vale Cemetery), Monaco di Baviera; 12 negli Stati Uniti, a New York City (Woodlawn
Cemetery, Bronx e Green-Wood Cemetery, Brooklyn),
nel Texas, a Galveston (Old Town Cemetery), nel Missouri, a Saint Louis, dove la vicenda della replica del
noto angelo genovese nel cimitero di Bellefontaine è
Un modello per la scultura funeraria internazionale
7. Tomba Llambi Campbell,
1912, Buenos Aires,
Cimitero della Recoleta
(foto Franco Sborgi)
8. Tomba Di Paola,
Buenos Aires,
Cimitero della Recoleta
(foto Luca Bochicchio)
avvolta nella leggenda che la vuole commissionata a
Monteverde da un facoltoso personaggio, Herman
Luyties (1871-1921), innamoratosi della modella dello
scultore italiano durante un viaggio in Italia compiuto
sul finire dell’Ottocento.13
Ma il maggior numero di repliche e varianti si registra
in America centrale e meridionale dove, a Buenos
Aires, Monteverde ha anche eseguito, su commissione
della comunità italiana, il Monumento a Giuseppe Mazzini (1878). Proprio nei principali cimiteri della capitale
argentina non si contano copie, repliche e d’après
dell’Angelo di Staglieno.
Per quanto riguarda la Recoleta, conosciamo una replica probabilmente autografa solo attraverso fotografie
d’epoca (tomba Vincente Ocampo),14 mentre è stata rintracciata una copia ornata da una cintura di gusto esotico (tomba Llambi Campbell, 1912, fig. 7), oltre a una serie
di angeli liberamente ispirati a quello Oneto che sormontano cappelle funebri più o meno imponenti
(fig. 8), i quali si ritrovano, pur in numero minore,
anche nel cimitero di Chacarita.15 Altri esemplari centrosudamericani si trovano a Cuba, all’Avana (tomba Castellanos, tomba Marinello e cappella José Manuel Cortina,
Cementerio de Cristóbal Colón), in Costa Rica, a San
Jose (Cementerio General), in Perù, a Lima (Mausoleo
Fernández Concha Mavila, autore L. Luisi, e tomba Guillermo Rey, Cementerio Presbítero Matías Maestro) e in Cile.
Anche se artista di minore popolarità rispetto a Giulio
265
Lo splendore della forma
9. F. Fabiani,
tomba Parpaglioni, 1884,
Genova,
Cimitero di Staglieno
(foto Massimo Palazzi)
10. F. Fabiani e
Pere Bassegoda,
Barcellona,
Cimitero di Poblenou
266
Monteverde, Federico Fabiani (Alessandria 1835 Genova 1914), scultore di origine piemontese che vive
e opera a Genova, dove frequenta l’Accademia di Belle
Arti, incontra analogo successo grazie al carattere fortemente rappresentativo delle sue immagini: nelle sue
sculture funebri egli raffigura preferibilmente l’accompagnamento dell’anima (tombe Rocco Piaggio, 1876;
Castello, 1882; Parpaglioni, 1884) (fig. 9), un tema che,
personalizzando il rapporto tra la figura angelica e il
defunto, è particolarmente caro alla committenza e
trova notevole apprezzamento nel clima dell’intimismo
tardo romantico e decadente, non senza tangenze con
la cultura preraffaelita. Il prototipo di questo soggetto
è la scultura di Giulio Bergonzoli (1822-1868) L’amore
degli angeli, esposta con grande successo all’Esposizione
Universale di Parigi del 1867 – il cui gesso preparatorio
è oggi conservato all’Accademia di Belle Arti di Ravenna – ispirata all’omonimo poema scritto da Thomas
Moore nel 1823 e tradotto in Italia nel 1836.16
Grazie anche al loro virtuosismo compositivo le opere di
Fabiani, che raffigurano il defunto e l’angelo in volo – e
che, per questo motivo, non mancheranno di suscitare
anche l’ironia dei critici che parleranno di “figure per
aria” o di “alpinismo angelico” –,17 incontrano il gusto
della committenza straniera, soprattutto sudamericana,
tanto che lo scultore deve soggiornare all’estero per soddisfare le numerose richieste, come ricorda Ferdinando
Resasco: “Per eseguire speciali commissioni egli si recò
in Spagna e in America. Dalla Venezuela gli venne anzi
una commenda”.18 Opere funebri di Fabiani si trovano,
Un modello per la scultura funeraria internazionale
infatti, a Barcellona (fig. 10), dove nel cimitero di Poblenou esiste una riproduzione autografa pressoché identica alla tomba Parpaglioni, a Madrid e a Caracas (tomba
Maria Eraso, 1887), ma anche nel Regno Unito, a Allerton nel Lancashire (tomba Mrs John Bibby); mentre sculture non autografe si trovano in Francia, a Marsiglia, nel
cimitero di Saint-Pierre (tomba Chiarelli e tomba
Nappi)19 e a Besançon e in Portogallo, a Lisbona (tomba
Maria Pais Nogueira Quadrio, Cemitério dos Prazeres).
In Italia, una delle riproduzioni più riuscite è quella
scolpita da Giovanni Collina Graziani per la tomba
Francesca Rossi (1876) nel cimitero di Faenza.20
I casi appena considerati, di Monteverde e Fabiani, sono
evidentemente macroscopici, per l'esteso ambito di diffusione che la loro opera ha avuto, superando i confini
del continente europeo. Tuttavia altre opere di Staglieno hanno suscitato ammirazione e interesse a livello
internazionale, soprattutto nell’America centro-meridionale, dove era numerosa le comunità italiana e ligure,
come in Messico, Argentina, Venezuela, Uruguay e Perù.
È il caso, per citare solo qualche esempio, della Tomba E.
A. Piaggio (1876) di Santo Saccomanno (Genova 18831914) il cui severo angelo barbuto, personificazione del
Tempo, ritroviamo nell’articolata cappella funebre della
Famiglia Gomez alla Recoleta di Buenos Aires; della
Tomba Carlo Erba (1883), ancora di Saccomanno, la cui
sensuale figura femminile, simbolo del Sonno Eterno, sarà
riprodotta dallo stesso scultore per la Tomba Miguel Horta,
nel cimitero di Paysandù, in Uruguay;21 della tomba eseguita da Giovanni Battista Villa (Genova 1832-1899) per
Antonio Montanaro (1888), ricco mercante che aveva
fatto fortuna con i traffici nel Sud America, integralmente replicata dallo stesso Villa nel cimitero della Recoleta
di Buenos Aires (Tomba Dorrego Ortiz Basualdo).
Per le comunità italiane e liguri in particolare, guardare
a Staglieno significava non solo mantenere un forte legame, anche culturale, con il paese di origine, ma anche
scegliere modelli rappresentativi prestigiosi e aggiornati.
Del resto, già poco dopo la metà XIX secolo Staglieno,
inaugurato il primo gennaio 1851 e presto sviluppatosi
con grande intensità rappresentativa, è considerato uno
dei luoghi d’arte più importanti del capoluogo ligure.
267
Un modello per la scultura funeraria internazionale
Lo splendore della forma
268
Mark Twain (1835-1910) nel suo libro di viaggio The
Innocents Abroad, pubblicato a Londra nel 1869 scrive:
“Our last sight was the cemetery (a burial place intended to accommodate 60,000 bodies,) and we shall continue to remember it after we shall have forgotten the
palaces. It is a vast marble colonnaded corridor extending around a great unoccupied square of ground; its
broad floor is marble, and on every slab is an inscription
– for every slab covers a corpse. On either side, as one
walks down the middle of the passage, are monuments,
tombs, and sculptured figures that are exquisitely wrought and are full of grace and beauty. They are new and
snowy; every outline is perfect, every feature guiltless of
mutilation, flaw, or blemish; and therefore, to us these
far-reaching ranks of bewitching forms are a hundred
fold more lovely than the damaged and dingy statuary
they have saved from the wreck of ancient art and set up
in the galleries of Paris for the worship of the world”.22
Ancora quasi un secolo dopo, un altro celebre scrittore, Evelyn Waugh (1903-1966), arriverà ad affermare:
“It is a museum of mid-nineteenth-century bourgeois
art in the full, true sense, that Campo Santo of Genoa
stands supreme. If Père Lachaise and the Albert
Memorial were obliterated, the loss would be negligible as long as this great repository survives”.23
1
Di F. Sborgi si vedano in proposito: Le
culture figurative, in Storia d'Italia. Le
Regioni dall'Unità ad oggi. La Liguria,
Einaudi Torino 1994, pp. 337-414; Staglieno e la scultura funeraria ligure tra
Ottocento e Novecento, Artema, Torino
1997; Alcune note sulla diffusione della
scultura italiana tra fine Ottocento e inizi
Novecento, in L. Mozzoni e S. Santini (a
cura di), L’architettura dell’Eclettismo. La
diffusione e l’emigrazione di artisti italiani nel Nuovo Mondo, Liguori, Napoli
1999; Il cimitero monumentale di Staglieno a Genova, in Arte y Arquitectura
funeraria / Arte e Architettura funeraria /
Funeral Art and Architecture (XIX-XX).
Dublin, Genova, Madrid, Torino. Electa
Spagna, Madrid 2000 (schede di L. Lecci
e Paola Valenti); Difusion de la Escultura
Italiana in Iberoamérica, in R. Gutierrez,
R. Gutierrez Vinuales, Historia del Arte
Iberoamericano, Lunwerg, Barcelona
2000; Companions on Final Journey, in S.
Berresford, Italian Memorial Sculpture
1820-1940. A Legacy of Love, Frances
Lincoln, London 2004; Considerazioni
sulla diffusione della scultura italiana in
America Latina, in Migrazioni liguri e italiane in America Latina e loro influenze
culturali, Atti del Convegno internazionale a cura della Fondazione Casa America, Genova, 26 febbraio 2004, Aracne,
Roma 2005, pp. 121-134; La diffusione
della scultura italiana nei paesi andini e in
iberoamerica fra il XIX e il XX secolo, in
Patrimonio Cultural en los Pases andinos:
perspectivas a nivel regional y de Cooperación. Encuentro entre la cultura de los
2
3
4
5
6
7
8
Países andinos y la tradicion umanista
italiana. Atti del convegno, Cartagena de
Indias (Colombia), 26-28 aprile 2005,
IILA, Roma 2005. pp. 233-244; La théâtralisation de la mort dans la sculpture
funeraire au XIX siècle, in Les Narrations
de la Mort, Atti del convegno internazionale, Aix- en-Provence, 20-22 novembre
2003, Publications de Université de Provence, Aix-En-Provence 2005; Percorsi
del marmo in America Latina, in S. Berresford (a cura di), Carrara e il mercato
della scultura, Federico Motta, Milano
2007, pp. 248-253; Immagini della
modernità nella scultura funeraria fra
Ottocento e Novecento, in Il presente si fa
storia. Scritti in onore di Luciano Caramel,
Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 37-49.
Roger père et fils, Le champ du repos,
ou, Le Cimetière Mont-Louis, dit du
père Delachaise, Paris 1816.
F. Quaglia, Le Père Lachaise, ou Recueil
de dessins au trait et dans leurs justes
proportions des principaux monumens
de ce cimetière, Paris 1934.
Il progetto originale, del 1835, si deve
all’architetto civico Carlo barabino (Genova 1768-1835) la cui improvvisa morte
nello stesso 1835 determinerà l’intervento
del suo allievo e collaboratore Giovanni
Battista Resasco (Genova 1789-1871) il
cui progetto sarà approvato nel 1840.
S. Berresford, Arte funeraria, in S. Berresford (a cura di), Carrara cit., Milano
2007, pp. 198-199. Sulle vicende della
committenza si veda la scheda di R.
Vitiello in C. Olcese Spingardi (a cura
di), Ottocento in salotto. Cultura vita
privata e affari tra Genova e Napoli,
cat. mostra (Genova), Maschietto editore, Firenze 2006, pp. 128-131.
Per le sue fattezze femminili Partecipazio, nella citata Guida del visitatore,
non esita a definirla “un’angela”.
Cfr. F. Sborgi, Companions cit., London
2004 che giustamente porta ad esempio la tomba Bauer (1902-04) di Leonardo Bistolfi a Staglieno.
Cfr. S. Zatti, La città del silenzio. Scultura e
pittura nel Cimitero Monumentale di Pavia
(1889-1940), Edizioni Cardano, Pavia
1996, p. 80, ill. 19. Zatti, che pubblica il
progetto del monumento conservato
all’Archivio Storico Civico di Pavia, scrive
che nell’angelo di Rossi “la stampa locale
riconosce prototipi di Vincenzo Vela ma
che con più puntualità si ispira al monumento Braida Fontanella di Leonardo
Bistolfi nel cimitero torinese…”; in realtà
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
esso è una puntuale replica dell’angelo
della tomba Oneto di Monteverde.
A. Chabot, Erotique du Cimetière, Edition Henri Veyrier, Paris 1989, p. 146.
Cfr. G. Ginex, O. Selvafolta, Il Cimitero
monumentale di Milano. Guida storicoartistica, Silvana editoriale, Cinisello
Balsamo (Mi) 1996.
Cfr. il testo di R. Bertrand qui pubblicato a p. 121 e la relativa immagine.
Come si rileva dal libro fotografico di
Isolde Ohlbaum, Aus Licht und Scatten.
Engelbilder, Knesebeck, München 1994,
p. 101 (e oggi anche nel suo sito personale www.ohlbaum.de), anche se una
ricerca nei principali cimiteri della città
tedesca da parte di Franco Sborgi e Paola
Valenti non ha dato alcun riscontro.
Cfr. www.thegravehunter.com e
http://northstargallery.com/pages/Mon
33story.htm
Cfr. F. Sborgi, Alcune note cit., Napoli
1999, p. 190, fig. 14, che ne pubblica
una foto tratta da E. Zuccarini, El trabajo italiano en la Republica Argentina,
Buenos Aires 1910, p. 89.
Una prima ricognizione sul campo è
stata condotta da Luca Bochicchio per
la sua tesi di dottorato in via di svolgimento: La scultura italiana nelle Americhe fra ‘800 e ‘900. Studio di un modello
generale di diffusione in America Latina,
Dottorato di ricerca in Arti Spettacolo e
Tecnologie Multimediali, XXIII ciclo,
Università di Genova, Facoltà di Lettere
e Filosofia, Dipartimento di Italianistica,
Romanistica, Arti e Spettacolo.
Cfr. Gli amori degli angeli. Poema di Tommaso Moore, prima traduzione italiana
del Cav. Andrea Maffei, Livorno 1836;
Sborgi 1997, pp. 352-353; A. Panzetta,
Gli Amori degli Angeli. Un capolavoro
ritrovato di Giulio Bergonzoli 18221868, Galleria Giordani, Bologna 1999.
Cfr. Sborgi 1997, p. 332 e Sborgi 2000,
p. 245 (scheda di P. Valenti).
Cfr. F. Resasco cit., Genova 1892, p. 159.
Cfr. ancora il testo di Bertrand in questa sede a p. 121.
Se ne veda l’immagine nel saggio qui
pubblicato da A. Panzetta a p. 244.
Citata da Sborgi al convegno di Genova 2004 (pubblicato in Considerazioni
cit., Roma 2005, p. 128) su segnalazione di Cristina Beltrami.
M. Twain, The Innocents Abroad, The
American Publishing Company,
Hartford (Conn.) 1869, p. 170.
E. Waugh, A Tourist in Africa, London 1960.
269
Scultura tra Ottocento e Novecento
al cimitero delle Porte Sante di Firenze
di Graziella Cirri
Scultura tra Ottocento e Novecento a Firenze
1. Antonio Frilli,
Tomba Bellini, 1874
270
Il cimitero monumentale di Firenze detto delle “Porte
Sante” è posto sul colle di San Miniato al Monte. La
stretta relazione con la Basilica romanica ne ha determinato, fin dai primi anni, l'importanza. Nel 1854,
anno della sua istituzione, il cimitero consisteva solo in
un appezzamento di terreno, racchiuso tra le mura
rinascimentali, usato dall’Opera Pia dei Ritiri Spirituali
per seppellire i propri fratelli; in seguito il lavoro di
diversi architetti fiorentini quali Niccola Matas, Mariano Falcini, Tito Bellini ed Enrico Dante Fantappiè,
portarono al complesso e articolato sviluppo monumentale del cimitero.
Le statue più antiche del cimitero risentono del gusto
romantico caratteristico del secondo Ottocento fiorentino, come ad esempio nel monumento Bellini, realizzato attorno al 1874 da Antonio Frilli. Lo scultore ha
posto sui gradini di una “falsa” cappella una statua raffigurante una figura femminile, coperta da un’ampia
veste che lascia intravedere solo le estremità del corpo
(fig. 1). Anche il volto rimane celato dal cappuccio e
in parte dalle mani. Le dimensioni reali della scultura
271
e il forte realismo caricano l’opera di un intenso
pathos. Il dolore inconsolabile è riassunto nell’atteggiamento della donna rannicchiata su se stessa, mentre il
senso di oscurità e di smarrimento è dato dalla porta
socchiusa, allusione a un passaggio obbligato tra il
mondo dei vivi e quello dei morti. L’autore, di cui purtroppo ancora non sappiamo molto, pochi anni dopo
ha realizzato un’altra versione di quest’opera in un
altro cimitero fiorentino, Trespiano.
La suggestione e l’allusione romantica al trapasso, unita
a una ricerca attenta verso le nuove simbologie legate al
concetto di Eros e Thanatos, hanno poi portato alla realizzazione di numerose versioni di “angeli della morte”,
e tra quelle più suggestive emerge il monumento realizzato da Emanuele Caroni. Un angelo in marmo bianco
si frappone con il corpo e le ali al passaggio tra il
mondo dei vivi e quello dei morti. La statua per la sua
verosimiglianza e la ricerca introspettiva sembra quasi
cercare un dialogo con l’osservatore. Il panneggio flui-
Lo splendore della forma
272
do dell’abito arriva fino a terra, lasciando appena intuire il corpo sottostante. Le mani, forse più di altri dettagli, esemplificano la tensione psicologica e l’atteggiamento di cesura verso quella che è la strada che non
offre possibilità di ritorno. Intorno alla fine del secolo
la figura dell’angelo presenta anche altre varietà tipologiche, come ad esempio nel monumento della famiglia
Pellas De Maillane dove, su di un’alta base in pietra, è
collocata una statua bronzea raffigurante un angelo in
ginocchio, ideata nel 1890 dallo scultore Augusto Rivalta, fiorentino d’adozione, e realizzata nello stabilimento
della stessa famiglia committente. L’atteggiamento prostrato della figura, lo sguardo verso il cielo e le mani
giunte sono un chiaro riferimento all’accettazione della
volontà divina. Il realismo delle forme è filtrato dalla
candida e pudica bellezza del giovane rappresentato.
Il cimitero delle Porte Sante, destinato fin dalla sua istituzione alla sepoltura di personaggi illustri, ospita
numerosi monumenti come quello del musicista Emilio
Koppel, realizzato attorno al 1893 dallo scultore Paolo
Testi. In questo caso la commozione intima dei familiari e la commemorazione pubblica sono state riassunte
da una statua allegorica raffigurante La Musica, che ai
piedi della grande croce con il capo reclinato e gli
occhi socchiusi piange la grave perdita subita dall’arte.
La figura femminile rappresentata non è altro che la
moglie dell’artista, Leopoldina. Lo scultore ha reso
abilmente la consistenza materica dell’abito, così come
altrettanto realisticamente ha caricato di pathos l’espressione del volto. Gli strumenti musicali e gli spartiti
richiamano idealmente l’attività del defunto, mentre la
ghirlanda di fiori rimanda a un ambito più intimo e
familiare, il ricordo doloroso dei congiunti.
Oltre alle figure allegoriche, il cimitero delle Porte Sante
offre anche numerosi esempi di ritrattistica borghese di
stampo accademico, tuttavia ci sono anche delle variazioni al tema, come ad esempio il monumento delle sorelline
Bianca ed Emma Marchesini. Il gruppo scultoreo fu realizzato da Michele Auteri Pomar, nel 1874, dopo il decesso
della seconda figlia. Bianca è ritratta a mezzo busto e
con il volto celato da un velo. La statua è un alto basamento adornato da rose scolpite, mentre Emma è rap-
Scultura tra Ottocento e Novecento a Firenze
2. Michele Auteri Pomar,
Tomba delle sorelline
Bianca ed Emma
Marchesini, 1874
presentata a figura intera, mentre si appresta a correre
incontro alla sorellina, scavalcando il confuso accatastamento di giochi, libri e oggetti disposti lungo il sarcofago (fig. 2). In questo caso lo scultore ha cercato di
ricreare uno spazio domestico, descrivendo in modo
puntuale i dettagli decorativi di stoffe e balocchi. Il forte
realismo della rappresentazione scultorea è riscontrabile
da qualsiasi punto di vista la si osservi, soprattutto nell’abbigliamento, dove è percepibile la consistenza delle
trine e dei merletti che lo caratterizzano.
Il realismo, la ritrattistica, lo studio della fisionomia e
della psicologia sembrano caratterizzare l’evoluzione
dello stile a cavallo tra i due secoli, quando gradualmente fu abbandonato il topos della ritrattistica borghese di matrice accademica. Raffaello Romanelli, uno fra
i maggiori innovatori della scultura fiorentina, realizzò
per il cimitero delle Porte Sante un monumento in
bronzo fuso che più di altri esemplifica il nuovo atteggiamento artistico. La defunta, Dina Manetti, rappresentata in dimensioni reali, sembra sorpresa in un
atteggiamento domestico, mentre coglie un fiore. Il
gioco di reale e realistico è accentuato anche dalla presenza di aiuole attorno al basamento della statua. In
questo caso, l’abbigliamento non è ricercato, ma è
273
Lo splendore della forma
3. Libero Andreotti,
Tomba Luigi Bertelli
(Vamba),
Cimitero delle Porte Sante,
Firenze
274
quello consueto delle donne borghesi durante le mansioni domestiche. Non c’è ricerca di un ideale aulico,
anzi l’autore ha cercato di cristallizzare un momento
assolutamente reale della vita della defunta, senza
lasciare spazio neanche a richiami simbolici. Con il passaggio al nuovo secolo anche le rappresentazioni sacre
tendono verso un marcato realismo, come si può
riscontrare nella scultura bronzea del Cristo Benedicente,
realizzata da Dante Sodini, per il monumento del Lord
inglese Joan Teample Leader. Il Cristo sembra incedere
verso l’osservatore con passo deciso, ma allo stesso
tempo calmo, con la mano in atto di benedire. In quest’opera non sono presenti eccessi decorativi, ma un’elegante e posata sobrietà.
Il gusto cambia drasticamente dopo il primo conflitto
mondiale. Dagli anni ’20 del Novecento gli scultori
della nuova generazione cercano di dare un significato
nuovo alle loro opere, dal realismo alla sintesi delle
forme, e da questo al simbolo e alla trascendenza. A
tale proposito, all’interno della zona del cimitero dedicata in origine alla sepoltura dei bambini emerge la statua di Luigi Berteli (Vamba), scrittore e giornalista,
nonché autore del famoso Giornalino di Gianburrasca. Il
monumento, realizzato da Libero Andreotti, sintetizza
nei gesti e nelle espressioni dei personaggi il contributo
che Vamba aveva dato alla pedagogia (fig. 3). L’opera
in bronzo è caratterizzata da un impianto a tutto tondo
Scultura tra Ottocento e Novecento a Firenze
4. F. Vannucci,
Tomba Mario e
Maria Mazzone,
1945 c., Cimitero delle
Porte Sante, Firenze
che permette all’osservatore di apprezzarne tutti i punti
di vista. Le due figure formano un’unica unità spaziale.
La serenità dei volti, il tono calmo dei gesti rende l’opera un unicum nel cimitero delle Porte Sante. Dello stesso autore nel cimitero troviamo anche la statua del Cristo risorto realizzato in bronzo nel 1928 e collocato nel
1935 dalla moglie al momento del suo decesso. Quest’opera realizzata nella fonderia Vignali è una replica
di quella del Monumento alla vittoria di Bolzano. Il corpo
idealizzato, la compostezza della posa e la ieraticità del
volto, sono il manifesto dello stile dell’autore che è riuscito, attraverso l’essenzialità delle forme, a rievocare il
momento della resurrezione del Cristo.
Tra i numerosi scultori del primo Novecento che
hanno realizzato opere funerarie per questo cimitero
troviamo anche Alimondo Ciampi. In questo caso ben
due statue adornano il suo sepolcreto. La tomba, collocata nel 1939 dalla moglie dello scultore, è composta
da l’Autoritratto e dalla statua di San Giovannino in preghiera. Ambedue le opere sono cariche di sentimentalismo, ma prive di patetismo. Alimondo è rappresentato in abiti da lavoro, con il mazzuolo in mano, mentre
il San Giovannino è colto nel momento della preghiera,
durante il dialogo più intimo e fraterno con Dio. Tra le
opere della prima metà del Novecento, emerge per originalità il Monumento funerario ai due fratelli Mario e
Maria (fig. 4), realizzato attorno al 1945 dallo scultore
fiorentino Vannucci. Mario fu ucciso durante la Seconda guerra mondiale e solo dopo un’assidua ricerca dei
resti venne traslato dalla madre in questo cimitero.
275
Lo splendore della forma
Maria invece era deceduta nel 1946, prima di poter
convolare a nozze. I genitori in questa statua volevano
celebrare il ricongiungimento dei due fratelli, uniti per
l’eternità da un infausto destino. I volti non esprimono
dolore o rabbia, ma solo serenità, stato d’animo o di
chi è morto per la patria e di chi è stato chiamato a
miglior vita e ha accettato senza remore la volontà divina. Una croce sul petto della fanciulla sembra suggellare questo messaggio di infinita spiritualità e devozione.
Le due statue sono collocate in una zona del cimitero
per lo più destinata alle semplici sepolture a sterro,
prive quindi di imponenti monumenti, fattore che esalta ancora di più lo sviluppo verticale di quest’opera.
Molte delle opere scultoree presenti nel cimitero non
sono visibili poiché sono custodite all’interno delle
cappelle private, tuttavia ci sono anche le eccezioni
come un’opera di Giuliano Chiari, L’Abele con l’agnello,
realizzata nel 1854 per la famiglia Tassinari e collocata
nel 2003 da Carlo Malvani – attuale proprietario della
cappella – nella cripta della Basilica affinché possa
essere visibile al pubblico.
276
La scultura nei cimiteri
delle comunità nazionali di Livorno
di Laura Dinelli
Durante la signoria dei granduchi Cosimo I e Ferdinando I de’ Medici, la città di Livorno ebbe un’espansione territoriale e demografica che, fra il 1590 e il
1603 – anni dell’emanazione dei bandi di popolamento e delle così dette “Leggi livornine” – e i primi
trent’anni del XVII secolo, attirò nel porto labronico
una popolazione eterogenea proveniente dal bacino
del Mediterraneo e dai paesi del centro e nord Europa.
L’invito rivolto a “tutti quelli forestieri [...] quali siano
Manifattori di sartie, Calafati, Maestri d’Ascia,
legnaiuoli d’ogni sorte, Muratori, Maràgoni, Scarpellini, pescatori, marinari, Fabri”, successivamente esteso a “mercanti di qualsivoglia natione, Levantini,
Ponentini, Spagnoli, Portoghesi, Greci, Todeschi et
Italiani, hebrei, Turchi, Mori, Armeni, Persiani et
altri”, con il quale Ferdinando si rivolgeva ai futuri
abitanti di Livorno, convinse ben presto centinaia di
commercianti, marinai e artigiani di diverse nazionalità a trasferirsi stabilmente nella nuova città medicea
attratti dall’immunità granducale che garantiva loro
“amplissimo salvacondotto” di non essere molestati
277
Lo splendore della forma
278
per i debiti contratti nei paesi di provenienza e libertà
di lavorare e commerciare.
A tale privilegio si aggiungeva poi un’altra importante
concessione: la possibilità di professare liberamente la
religione dei propri padri garantendo inoltre agli acattolici di disporre di propri luoghi di culto e di aree riservate per seppellire i correligionari defunti. La piena “tolleranza”, enunciata formalmente dai Granduchi di Toscana nei loro atti normativi, fu di fatto messa in pratica se
pur con qualche difficoltà e, nel volgere di qualche
decennio, le comunità ebraica, anglicana e protestante
ottennero luoghi di culto frequentabili liberamente.
L’apertura dei cimiteri fu, in ogni modo, oggetto di
complesse trattative fra le autorità civili e i rappresentanti delle nazioni estere, trattative che si prolungarono in alcuni casi per anni e che, inizialmente, portarono a semplici concessioni a inumare le salme in terreni non perimetrati fuori dalla cinta muraria. Successivamente recintati, i cimiteri acattolici accolsero le spoglie dei labronici e dei tanti stranieri che morivano a
Livorno o in Toscana.
Nel corso dei quattro secoli che sono trascorsi dalla
fondazione di Livorno, in città, assieme ai cimiteri
“pubblici” – in tutto cinque – e ai camposanti delle
varie confraternite cattoliche, sono stati edificati quattro cimiteri della Nazione ebraica, due di quella inglese, tre degli olandesi-alemanni, due dei greci ortodossi,
uno degli armeni, uno valdese, tre musulmani e due
tempi cinerari. A essi sono infine da aggiungere i quattro cimiteri, cattolico, eterodosso, ebraico e musulmano, che funzionarono all’interno del lazzaretto di San
Leopoldo, stabilimento dove i passeggeri delle navi
provenienti da zone infette trascorrevano i periodi di
quarantena e dove, spesso, si verificavano decessi.
A causa delle necessarie chiusure delle aree sepolcrali
che con il tempo sono state inglobate nell’area urbana,
a oggi a Livorno restano due cimiteri pubblici – che
accolgono gli appartenenti a qualsiasi confessione religiosa – quelli ebraico, greco-ortodosso, olandese-alemanno, i cinque cattolici e il tempio cinerario, tutti
questi ancora aperti alle inumazioni, oltre ai tre cimiteri
interdetti: i due inglesi e quello ebraico ottocentesco.
La scultura nei cimiteri delle comunità nazionali di Livorno
Vicende legate alla loro gestione, spesse volte resa difficile dalle precarie condizioni economiche delle comunità nazionali proprietarie – con gli anni sempre meno
numerose se non del tutto estinte – i danni dovuti ai
bombardamenti dell’ultima guerra mondiale e qualche
intervento di ammodernamento un po’ troppo incisivo, hanno purtroppo disperso parte del patrimonio
artistico cimiteriale labronico, ma grazie al trasferimento di alcune tombe da un cimitero a quello successivo,
pratica seguita soprattutto dalla comunità ebraica, da
quella greca e dalla Nazione olandese-alemanna, nei
cimiteri acattolici è ancora oggi possibile incontrare
tombe del XVII e XVIII secolo.
Attualmente interventi volti alla salvaguardia e alla
valorizzazione dei cimiteri livornesi sono messi in atto
dall’Amministrazione Comunale che da tempo programma, in accordo con la Soprintendenza di Pisa del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali, campagne
di inventariazione informatizzata delle tombe; dalle
singole comunità proprietarie delle aree cimiteriali e
dalla Fondazione Cassa di Risparmi di Livorno che
finanzia interventi di restauro nei cimiteri olandesealemanno, greco-ortodosso ed ebraico.
Considerate l’eterogeneità dei culti e delle tradizioni
delle diverse confessioni religiose presenti a Livorno e
l’ampiezza dell’arco temporale coperto, la trattazione
del patrimonio scultoreo cimiteriale livornese ha
richiesto una preliminare scelta di sintesi che è stata
279
1. Tomba di Rafael Crespin,
1695, Cimitero ebraico
moderno, Livorno
Lo splendore della forma
280
individuata nella presentazione, in ordine cronologico, di alcuni esempi di tombe prescindendo dal cimitero di appartenenza.
Ciò ha restituito una visione generale, in questa occasione presentata in maniera necessariamente sintetica,
che mette in evidenza la diffusa adozione, in epoche
contemporanee o di poco successive, di medesime
tipologie di tombe in cimiteri diversi, spesso anche in
forma di evoluzione stilistica, ma anche, più raramente, di unicum mai ripetuti.
Per esempio, la tipologia a tumulo delle tombe ebraiche della fine del XVII secolo, decorate da arabeschi
d’ispirazione fitomorfa e iscrizioni che ricoprono completamente le superfici disponibili, si ritrova, pochi
anni dopo, nel cimitero inglese adorna di elementi ad
alto rilievo, quali lo stemma e gli emblemi riferiti al
defunto, che costituiscono già la parte decorativa preminente rispetto agli ornati delle cornici e all’iscrizione
(fig. 1). La lapide posta nel cimitero della Nazione olandese-alemanna a ricordo di Beniamin Major (fig. 2) racconta invece, per mezzo di una ricercata cura narrativa
che non si ripeterà in alcuna altra tomba labronica, la
vita e le nobili battaglie condotte contro i turchi di un
uomo d’armi svizzero al servizio delle potenze europee.
La tipologia a sarcofago accomuna invece il Sepolcro di
Maria Michel (fig. 3), impreziosito da un altorilievo raffigurante una giovane donna addormentata assieme ai
suoi due figli, con la cassa eseguita un secolo dopo, e
2. Lapide in memoria
di Beniamin Major, 1719,
Cimitero olandese-alemanno,
Livorno
La scultura nei cimiteri delle comunità nazionali di Livorno
3. Tomba di Maria Michel,
1721, Cimitero vecchio
degli Inglesi, Livorno
oggi conservata nel cimitero ebraico, nella quale gli
specchi sono riccamente decorati con foglie e girali di
acanto a rilievo e ornati da simboli funebri come la
falena, l’airone e il globo alato. Anche per onorare la
memoria di Adolfo Romanovic, morto a Livorno nel
1830 e sepolto nel cimitero della comunità greco-ortodossa (che, tradizionalmente, ospitava i correligionari
russi), fu scelta una tomba a sarcofago dove due geni
funebri piangenti si asciugano gli occhi con il medesimo gesto del genio alato che decora il fronte principale del monumento, oggi nel camposanto della Purificazione, eretto in memoria di Teresa Sanchez (fig. 4), deceduta nel 1837 all’interno del lazzaretto San Leopoldo.
Rilievi con figure di chiara ispirazione neoclassica si
ritrovano poi nella Tomba di William John Crosbie eretta
nel 1824 nel cimitero inglese, nella quale compare
anche il simbolo funebre dell’ouroboros, spesso presente nelle tombe dell’epoca, mentre pietose figure
femminili, ancora di derivazione neoclassica, esortano
a deporre una corona di fiori sulla Tomba di Anne Marie
Hall, sepolta nel 1843 nel cimitero della Nazione olandese-alemanna.
Negli stessi anni il cimitero greco-ortodosso andava
arricchendosi di ricordi funebri costituiti da alti basamenti decorati, sulla cui sommità era posta una statua
a tutto tondo come l’angelo genuflesso che, stringendo
al petto una croce, ricorda ai vivi la contessa Annette de
Vierre morta nel 1842.
Solo due tombe livornesi, che fanno parte di ciò che
rimane del cimitero ottomano, oggi inglobato in quel-
281
Lo splendore della forma
La scultura nei cimiteri delle comunità nazionali di Livorno
5. Tomba di
Badaravi Barada, 1847,
Cimitero comunale della
Cigna, Livorno
4. P. Vanelli,
Tomba di Teresa Sanchez,
1839, Cimitero
della Purificazione,
Livorno
282
lo comunale della Cigna, e che furono erette alla fine
degli anni ’40 dell’Ottocento, appartengono alla rara
tipologia “a culla” (fig. 5), non più replicata nei cimiteri cittadini. In quel periodo nei recinti sepolcrali iniziarono invece a comparire opere dei maggiori scultori
locali come Giovanni Paganucci, Giovanni Puntoni
(fig. 6) e Temistocle Guerrazzi. Di quest’ultimo sono
da ricordare almeno il Monumento a Thomas Lloyd
(1867), nel cimitero anglicano e, nel camposanto della
Misericordia, il Monumento Marassi (1871).
Particolarmente fortunata fu la figura del riccioluto
Angiolo con le mani giunte al petto (1859) del livornese
Enrico Mirandoli (fig. 7) che venne replicata più volte nel
camposanto di Salviano e in quello della Misericordia.
Una tarda versione dell’angiolo, rappresentato con le
mani giunte in preghiera, si trova nel cimitero greco-ortodosso. Per quanto riguarda le repliche di sculture celebri,
anche i cimiteri di Livorno si affollarono di duplicati del
Putto orante di Luigi Pampaloni e di figure ispirate alla
Fiducia in Dio di Lorenzo Bartolini, la cui nudità originale
veniva coperta da una veste più o meno castigata.
Anche una delle tipologie classiche dell’arte funeraria,
una bassa colonna tuscanica scanalata, si incontra
durante l’Ottocento in tutti i cimiteri labronici (Tomba
di Catherine de Lacy, 1810 nel cimitero anglicano). La
colonna spezzata mutò quindi nelle imponenti colonne erette nel 1888 nel cimitero ebraico in memoria di
283
6. Giovanni Puntoni,
Tomba della famiglia
Canessa, 1878, Cimitero
della Misericordia, Livorno
7. Enrico Mirandoli,
Angelo,
Cimitero greco-ortodosso,
Livorno
Lo splendore della forma
Albertina Coen Salmon e Amelia Tagiuri (fig. 8) per poi
tornare all’originaria semplicità nella contemporanea
tomba del giovane di origine greca Enrico Tossizza,
sepolto nel camposanto della Purificazione.
Tombe decorate da un vaso cinerario coperto da un
drappo si incontrano contemporaneamente nel cimitero ebraico – Monumento a David Lumbroso (1880) –, in
quello inglese e nel camposanto della Purificazione,
Sepolcro di Giovanni Gambini. Anche la variante con l’urna che sostituisce il vaso è presente nel cimitero della
Cigna sulla tomba, contraddistinta anche da simboli
massonici, di Oreste Vernassa (1906) e nel cimitero
ebraico nelle tre tombe, collocate fra il 1887 e il 1915,
in ricordo dei componenti della famiglia Cave Bondi.
284
La scultura nei cimiteri delle comunità nazionali di Livorno
Con il progressivo assottigliamento delle comunità estere
livornesi, a esclusione di quella ebraica tutt’oggi numerosa e proprietaria di un cimitero in attività, l’esigenza di
disporre di appositi cimiteri acattolici è, dal secolo passato, man mano venuta meno e poiché nel cimitero comunale della Cigna non esistono zone distinte per la sepoltura degli acattolici, pochi metri separano il candelabro a
sette fiamme che orna la Tomba di Ida Baccetti (1931) dal
Cristo posto al centro del Monumento della famiglia Soriani
(Giacomo Zilocchi, 1917) e dai simboli massonici che
compaiono sulla Tomba di Jacopo Sgarallino, maggiore dei
Mille di Garibaldi (Lorenzo Gori, 1882).
Esemplari della singolarità della società livornese sono
poi i Sepolcri dei soldati francesi (fig. 9) cattolici e musulmani morti a Livorno durante la Prima guerra mondiale. Poste una accanto all’altra nel cimitero della Cigna,
differenziate solo da una croce o da un arco orientaleggiante, le semplici tombe allineate dimostrano il carattere di una città aperta e tollerante e capace di far convivere per quattro secoli culture e religioni diverse, così
come recitava il motto impresso nell’unghero d’oro
coniato nel 1655 dal granduca Ferdinando II de’ Medici: Diversis gentibus una.
285
8. Tombe di Albertina Coen
Salmon e Amelia Tagiuri,
1888, Cimitero ebraico di
viale Ippolito Nievo, Livorno
9. Giancarlo Palanti,
Quadrato dei Francesi,
1941, Cimitero comunale
della Cigna, Livorno
L’opera funeraria degli scultori
del Canton Ticino (1830-1930)
di Giovanna Ginex
L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino
1. Francesco Somaini,
Monumento al
cav. Gaudenzio de Pagave,
1838, marmo, Brescia,
Cimitero Vantiniano
2. Francesco Somaini,
Monumento
Torriani-Missori, 1854,
marmo, Gentilino,
Cimitero di Sant’Abbondio
286
Nel 1805 Grazioso Rusca (Rancate 1757-Milano 1829)
subentrava a Carlo Maria Giudici nella carica di protostatuario della Fabbrica del Duomo di Milano, un incarico di grande prestigio conseguente alla disposizione
napoleonica per un rapido compimento dei lavori, e
che poneva il ticinese alla guida del maggiore cantiere
di scultura attivo in area cisalpina: nel 1807 sarà approvato il progetto di Carlo Amati per il completamento
architettonico della facciata della cattedrale milanese.1
Negli anni della dominazione francese, dal 1796 al
1814, e quindi in quelli della restaurazione asburgica
fino al 1848, sia sul versante della scultura di soggetto
sacro, sia su quello delle commissioni civili, anche private, furono numerosi gli esempi fuori dal Cantone
della produzione di artisti ticinesi, volta al compimento
e al rinnovamento dell’apparato scultoreo di diverse
fabbriche del Lombardo-Veneto e del Piemonte; tra
questi, il lavoro di Francesco Somaini (Maroggia 1795Milano 1855) è tra i più notevoli e documentati.2
A questa articolata tradizione di vicinanza tra gli artisti
del Cantone e le regioni settentrionali della futura Italia
unita, dobbiamo alcuni importanti aspetti della scultura
presente nei cimiteri del Ticino. Gli scultori ticinesi
furono infatti largamente partecipi dello svolgimento
dell’arte funeraria nelle aree in cui furono attivi. Il
cenotafio classicheggiante per l’architetto Luigi Cagnola fu affidato a Francesco Somaini; 3 inoltre, l’opera
dello scultore è documentata nel cimitero “Vantiniano”,
progettato per la città di Brescia dall’architetto Rodolfo
Vantini nel 1815. Nella Rotondina Municipale è tuttora
collocato il neoclassico Monumento al cav. Gaudenzio de
Pagave commissionato nel 1834 a Somaini dalla città di
Novara e ultimato con il bassorilievo in marmo di Carrara nel 1838,4 anno in cui secondo la consuetudine fu
esposto all’annuale di Brera prima di approdare alla
definitiva collocazione cimiteriale (fig. 1).
Anche in Ticino Somaini realizzò diverse sepolture tra
cui lo splendido Monumento Torriani-Missori presentato
a Brera nel 1854,5 un anno prima che l’artista morisse
(fig. 2). Si tratta di una delle ultime opere di Somaini,
che vi lascia il segno più vivo della svolta in senso
romantico della sua plastica funeraria. Il monumento
è collocato nel cimitero di Sant’Abbondio dei comuni
di Montagnola e Gentilino, edificato nel 1842 e
descritto come monumentale già nel 1863.6
Nel 1849 Alessandro Rossi, già allievo di Pompeo Marchesi a Brera, lascia nel Gentilino la stele tombale
ornata da un altorilievo di puro stile neoclassico collo-
287
Lo splendore della forma
3. Alessandro Rossi,
Monumento
a Carlo Bernardino Fè,
1851, Gentilino,
Cimitero di Sant’Abbondio
4. Vincenzo Vela,
Monumento a Vincenzo
Dalberti e Giovanni Martino
Soldati, 1852, marmo,
Cimitero, Olivone
288
cata sulla tomba di Franceschina Gilardi, unica figlia dell’architetto Domenico Gilardi al quale con ogni probabilità si deve il progetto dello stesso cimitero.7
È datato invece 1851 uno dei capolavori dello stesso
Rossi che si offre al visitatore di fronte alla stele Gilardi: il Monumento per Carlo Bernardino Fè, commissionato
dalla moglie e dalle figlie del defunto (fig. 3). Nella
figura femminile in preghiera inginocchiata davanti a
una croce Rossi accoglie appieno le istanze del naturalismo e in particolare la lezione di Vincenzo Vela, di
cui il Gentilino conserva uno dei capolavori: La preghiera su una tomba eseguita per la famiglia Boffa dopo il
ritorno dello scultore a Ligornetto nel 1867.
Vela è presente anche nel piccolo cimitero di Olivone
con il Monumento a Vincenzo Dalberti e Giovanni Martino
Soldati, del 1852 (fig. 4), e nel più vasto ma meno anti-
5. Alessandro Rossi,
Busto maschile,
Monumento Enderlin,
1857 c., Lugano, Cimitero
6. Ignoto, Monumento
Famiglia Brentani,
1860 c., Lugano, Cimitero
L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino
7. Ignoto, Cappella
della Famiglia Polar,
1860 c.,
Breganzona, Cimitero
co cimitero di Lugano (1897) che raccoglie anche
alcune opere in precedenza collocate sia nell’antico
cimitero in zona “Madonnetta”, consacrato nel 1835,
sia nel cimitero degli acattolici sul colle di Loreto.8
Nel cimitero di Lugano sono da segnalare inoltre la
Cappella per la famiglia Enderlin, del 1857, con opere di
Vela e Alessandro Rossi (fig. 5), la Cappella Weissenbach
e il Monumento Pietro Riva firmato e datato da Pietro
Lucchini nel 1849, sobria composizione neoclassica
ornata dalle figurazioni della Fede e della Religione,9 e il
Monumento Famiglia Brentani, opera d’ignoto, del 1860
circa (fig. 6).
Ancora di Vincenzo Vela, infine, il poco conosciuto
Monumento all’architetto Carlo Frasca eretto nel 1869 nel
cimitero di Breganzona, piccolo camposanto dominato
dall’imponente edicola della famiglia Polar (figg. 7, 7a)
arricchita da opere scultoree di grande qualità plastica la
maggior parte delle quali attribuibili ad Alessandro Rossi.
289
7a. Ignoto, Cappella
della Famiglia Polar,
particolare
Lo splendore della forma
290
Nel corso della seconda metà dell’Ottocento anche in
Ticino la sepoltura riconoscibile, arricchita da un
segno plastico o architettonico, divenne un’imprescindibile forma di rappresentanza sociale.10 In questi
decenni, oltre al cimitero di Lugano, sono notevoli per
la scultura in Ticino quelli già ricordati di Ligornetto,
del Gentilino e quello di Bellinzona. Altri recinti minori racchiudono inoltre sculture di grande interesse,
come i cimiteri di Chiasso e Morcote.
Nel 1895 il canonico Pietro Vegezzi dedica gran parte
del suo volumetto intitolato I nostri morti alla monumentalità recentemente sancita anche per legge del
recinto cimiteriale luganese, nel quale dal 1° settembre
1891 per collocare lapidi o monumenti era ormai
obbligatorio – su modello della normativa già in vigore
nei cimiteri monumentali italiani – presentare agli uffici preposti un progetto “colla misura precisa dello spazio da occuparsi”. 11 Il canonico apre la descrizione
delle opere d’arte raccolte nel recinto cimiteriale con i
lavori del massimo esponente degli scultori ticinesi,
Vincenzo Vela, insostituibile punto di riferimento per
gli scultori ticinesi anche in ambito funerario.
Vegezzi presenta quindi gli altri autori, di cui il primo è
Raimondo Pereda. Nato nel 1840, fino al 1893 docente
alla Scuola di disegno di Lugano, Pereda appartiene
alla prima generazione cresciuta sotto l’influenza di
Vela. Il rimando al maestro si evidenzia in una delle
prove più convincenti di Pereda, il delicato Monumento
Amelia De Filippis, fanciulla morta quindicenne nel
1887, raffigurata come anima in preghiera avvolta in
una lieve tunica panneggiata alla base (fig. 8). La scultura, che si innalza da uno scabro masso appena sgrezzato a simboleggiare il distacco della defunta dalle
durezze terrene, con al suo fianco il realistico busto del
padre Battista eseguito dallo stesso Pereda nel 1887, è
collocata all’interno di un tempietto classicheggiante
circondato da un recinto in ferro battuto. Tale tipologia sepolcrale, ripetuta fino agli anni ’80 dell’Ottocento nei cimiteri monumentali, è oggi rara nel suo aspetto originario, qui ancora conservatosi.
Ugualmente rari nei cimiteri ticinesi sono gli esempi
del monumento funerario per eccellenza: la piramide.
L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino
8. Raimondo Pereda,
Monumento
ad Amelia De Filippis,
1888 c., marmo, Lugano,
Cimitero
9. Antonio Chiattone,
Monumento
Famiglia Rezzonico,
1900, marmo, Lugano,
Cimitero
Ripresa con grande fortuna nella stagione neoclassica
europea, la tipologia della piramide non è affatto frequente neppure nei massimi cimiteri monumentali italiani, inauguratisi come i ticinesi in un’epoca in cui la
cultura architettonica dell’eclettismo già percorreva
altri revival stilistici. Essa diviene motivo architettonico
suggerito con una resa bidimensionale nel Monumento
Famiglia Carlo Vella di Antonio Chiattone, eretto attorno al 1895 nel cimitero di Faido e nel Monumento famiglia G. Rezzonico, sempre di Chiattone, artista sul quale
torneremo in seguito, collocato al cimitero di Lugano
nel 1900 (fig. 9).
Lo scultore di Chiasso Antonio Soldini è ancora privo
di uno studio che ne restituisca il giusto ruolo nella
storia della plastica ticinese. Nato nel 1854, fu allievo
a Brera di Lorenzo Vela al cui insegnamento si deve
con ogni probabilità non solo l’abilità scultorea, ma
anche quella particolare maestria progettuale e
soprattutto decorativa che Soldini dispiega nelle commissioni funerarie, specie degli anni Ottanta. Si veda
il precoce ma complesso Monumento per la Famiglia
Valsangiacomo collocato in un’arcata del cimitero
Comunale di Chiasso (fig. 10), non firmato ma
senz’altro attribuibile a Soldini per le strette assonanze stilistiche sia con l’attiguo e firmato Monumento per
la Famiglia Pedroni (fig. 11), sia con la figura angelica
dei monumenti Dandrea e Bernasconi.
291
Lo splendore della forma
10. Antonio Soldini,
Monumento Funebre
Famiglia Valsangiacomo,
1881-1887,
Chiasso, Cimitero
11. Antonio Soldini,
Monumento
Famiglia Pedroni,
1889, Chiasso, Cimitero
292
I fratelli Chiattone
Nell’area ticinese la vicenda artistica dei fratelli Chiattone12 offre il massimo esempio di qualità coniugata alla
serialità di “bottega” e alla riconoscibilità di uno stile.
Ancora poco conosciuta, l’attività di Antonio Chiattone
– fratello maggiore del più noto Giuseppe, anch’egli
scultore – si snoda tra monumenti commemorativi,
funerari e opere di genere, su cui si tornerà in seguito.
Di formazione braidense – nel 1875 si iscrive all’Accademia milanese per poi frequentare l’atelier di Francesco Barzaghi – Antonio si muove nell’ambiente della
Scapigliatura lombarda. Nel 1881 apre un proprio studio a Milano, chiamandovi a lavorare Giuseppe, il fratello più giovane. Secondo le biografie più recenti rientra quindi a Lugano nel 1886.13 Certamente i rapporti
con la città natale non si erano interrotti nel corso
della permanenza milanese; ne fa fede la realizzazione
del Monumento funebre a Elvira Greco, datato 1883, collocato al cimitero di Lugano. La stretta collaborazione
tra i due fratelli – attestata anche dalla firma “Fratelli
Chiattone Lugano” apposta su molti lavori – continua
almeno fino al 1897. Alla bottega dei Chiattone è assegnato da Vegezzi14 il Monumento a Carlo Fumagalli eseguito nel 1886 per il Cimitero di Lugano, seguito nel
1887 dal Monumento al pittore Carlo Bossoli.
Nel 1892 lo scultore incontra a Lugano l’imperatrice
Elisabetta d’Austria, dalla quale otterrà prestigiose
committenze: nel 1894 per un mausoleo commemorativo dell’arciduca Rodolfo da collocare a Corfù,15 a
Villa Achilleion, quindi per altre opere all’interno
L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino
12. Antonio Chiattone,
Monumento
Famiglie Rava-Molo,
1896, marmo,
Lugano, Cimitero
della villa e un lavoro “per onorare la memoria dell’arciduca Alberto”, 16 infine un monumento alla stessa
imperatrice. Nel 1902 lo scultore sarà insignito di
un’alta onorificenza imperiale.
Dagli anni Novanta alla morte Antonio Chiattone attraversa dunque il suo periodo maturo e di maggiore prestigio. Lo attestano anche la menzione speciale ottenuta all’Esposizione universale di Parigi del 1900 con il
marmo de Il riposo – il cui modello in gesso era stato
presentato a Milano nel 1881 – e, in ambito funerario,
alcuni capolavori collocati al cimitero di Lugano.
Dall’ultimo decennio dell’Ottocento sino agli anni
Venti inoltrati, anche nel Cantone si diffonde nella
scultura funeraria il gusto e il linguaggio simbolista,
che predilige simbologie di gusto letterario o religioso
tradotte plasticamente in uno stile nuovo, più armonioso e fluido, preludio al trionfo del Liberty che
segnerà con maggiore decisione il primo decennio del
Novecento: a questi nuovi modi si uniforma anche la
plastica di Antonio Chiattone. Si veda il Monumento
famiglie Rava Molo (fig. 12) eseguito nel 1896, dove
nella figura femminile in meditazione accanto a un’urna su un sepolcro ricoperto da un prato fiorito lo scultore recepisce la maniera della scultura simbolista
internazionale, esplicitata nell’essenzialità delle linee
fluide e nella purezza del modellato. Qualche anno
dopo, nel già ricordato Monumento famiglia Davide
Enderlin,17 riprogettato nel 1900 in memoria della fanciulla Pia, lo scultore accoglie a pieno nella sontuosa
base a motivi vegetali il gusto liberty ormai diffuso,
293
Lo splendore della forma
13. Antonio Chiattone,
Monumento Pia Enderlin
(Nicchione Famiglia Davide
Enderlin),
1900, marmo,
Lugano, Cimitero
14. Giuseppe Chiattone,
Monumento
Aristide Bergès,
1904, Tolosa, Cimitero
monumentale di
Terre-Cabade
294
inserendo virtuosistici motivi floreali scolpiti come un
pizzo nel marmo (fig. 13).
Per Antonio Chiattone, modello esplicito per queste
assai richieste sepolture a nicchia collocate sotto i porticati dei cimiteri monumentali ticinesi, caratterizzate
dalla ridondanza degli elementi decorativi, furono le
opere funerarie realizzate da Leonardo Bistolfi e da
Edoardo Rubino, dagli anni ’90 dell’Ottocento, soprattutto per il cimitero Generale torinese. Proprio con la
ricchezza degli elementi decorativi policromi in
marmo, a fresco, ferro battuto, ceramica, mosaico e
altro ancora Chiattone “firma” le sepolture monumentali della sua bottega, progettate come un unico manufatto artistico a più voci. Si tratta di uno stile immediatamente riconoscibile che sarà reso ancora più esuberante dal fratello Giuseppe che dalla morte di Antonio,
nel 1904, diresse la bottega familiare.18
Risale a questa data di passaggio un monumento funerario che arricchisce l’ancora incompleto censimento
dell’opera di Giuseppe Chiattone, confermandone al
contempo la versatilità stilistica. Il cimitero monumentale di Terre-Cabade a Tolosa accoglie la sepoltura monumentale per Aristide Bergès (1835-1904),
industriale cartaio e innovatore nella tecnologia dell’energia idraulica (fig. 14), firmata nel 1904 da Chiattone. Il monumento di gusto neoclassico è costituito
da un imponente tholos a pianta circolare raffigurata
simbolicamente in rovina, arricchita alla base da un
bassorilievo che descrive la fabbrica del defunto.19
Allievo a Brera dal 1880 al 1886, Giuseppe Chiattone è
L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino
15. Giuseppe Chiattone,
Fragilità della vita.
Monumento famiglia
D’Ambrogio (dettaglio),
1905, marmo e bronzo,
Lugano, Cimitero
senz’altro una delle personalità artistiche ticinesi di
maggior valore, e non solo in ambito funerario. Proprio all’interno di questo specifico settore egli lascia il
segno più incisivo; le sue opere furono infatti per i contemporanei dei modelli cui guardare, per gli studiosi
di oggi esempi di una produzione personale e riconoscibile. Nei primi anni del secolo egli riprende nelle
sepolture dei cimiteri ticinesi la policromia caratterizzante le ultime opere del fratello Antonio esasperandone la perfezione tecnica, quasi a voler stupire per la
maestria della resa dei particolari, nelle sculture come
in ogni ambito delle arti applicate. Bastino come esempi i marmi, il bronzeo – segantiniano – albero fiorito e,
sulla volta e sul fondale, le complesse decorazioni simboliche in gesso policromo della Fragilità della vita per
il Monumento famiglia D’Ambrogio collocato nel 1905,20
(fig. 15) lo stupefacente manto damascato trasferito
nel marmo di Carrara per la fanciulla angelicata posta
nella nicchia del Monumento famiglia Bianchi-Raposi
(Fides mistica pacis), del 1908 (fig. 16), completato in
alto da una schiera di angeli musicanti inserita in una
falsa architettura di gusto eclettico.
La critica ha spesso sottolineato l’adesione dell’artista
ai modi del simbolismo, specie per i temi funerari; si
tratta comunque di un’affinità di superficie e di forma
più che di profonda condivisione di una poetica. Si
vedano a questo proposito opere come il rilievo per il
Monumento Leopoldina Beretta del 1909, al cimitero di
Chiasso e il pur notevolissimo doppio gruppo sculto-
295
Lo splendore della forma
16. Giuseppe Chiattone,
Fides mistica pacis.
Monumento Famiglia
Bianchi-Raposi, 1908 c.,
Lugano, Cimitero
296
reo allegorico per il Monumento Moroni-Stampa del
1911, al cimitero di Lugano, coronato da un bassorilievo intitolato Vita Somnium Breve raffigurante il motivo
bistolfiano dei Funerali di una vergine (fig. 17).
Dal decennio successivo lo stile di Chiattone si fa più
greve insistendo su un’iconografia di matrice simboli-
17. Giuseppe Chiattone,
Vita somnium breve.
Monumento Famiglia
Giovan Battista
Moroni-Stampa,
1911, marmo, Lugano,
Cimitero
L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino
sta tradotta in una plastica dal modellato appesantito e
di facile lettura. Se infatti gli elementi iconografici di
questa più tarda produzione rimandano direttamente a
opere come L’Ave Maria del 1898 presentata in quell’anno a Basilea, suo precoce capolavoro, o al gruppo
Pace domestica per il Monumento Famiglia Fedele del
1906,21 alberi, pecorelle, giardini, brani di paesaggio
montano accostati a figurazioni spesso a tutto tondo in
esso inserite appaiono ora svuotati da ogni tensione
poetica, mera formula compositiva coniugata a un
sobrio realismo, dove l’intento narrativo è talora di
assoluta evidenza. Le sue pastorelle in preghiera accanto a piccole croci, i salici piangenti che ombreggiano i
sepolcri, i massi scabri su cui si muovono i personaggi
rimandano a modelli d’antica e illustre tradizione
devozionale popolare quali i gruppi scultorei delle cappelle dei Sacri Monti. A tale ascendenza si possono riferire anche la policromia delle pietre utilizzate che
caratterizza le realizzazioni dell’artista e l’inserimento
non secondario di altri materiali nel manufatto artistico – ferri battuti, maioliche, vetri – con una sapienza
che per decenni ha fatto identificare Chiattone e la sua
bottega con lo stile dell’intero Cantone.
Luigi Vassalli
Con il luganese Luigi Vassalli, nato nel 1867, è ormai
compiuta la svolta generazionale che porterà i giovani
artisti nel Novecento. Dal 1884 Vassalli è a Milano
all’Accademia di Brera, allievo di Lorenzo Vela, Francesco Barzaghi e Ambrogio Borghi; a Lugano apre un
suo studio attorno al 1887, anno in cui si diploma e
nel quale il giovane avrebbe iniziato la sua attività eseguendo il Monumento Brocca per il cimitero di Lugano.22 Da allora la carriera di scultore sarà premiata dai
massimi riconoscimenti anche istituzionali, mentre
come insegnante alla Scuola di disegno di Lugano
avrà modo di formare molti degli scultori ticinesi della
generazione successiva.23
L’opera di Vassalli percorre diligentemente e spesso
con alti esiti formali il succedersi degli stili affermatisi
nel corso degli oltre quattro decenni della sua attività
artistica. Dai primi anni del Novecento, l’impegno e la
297
Lo splendore della forma
18. Luigi Vassalli,
Monumento Famiglia
Gaudenzio Somazzi,
1903, bronzo,
Lugano, Cimitero
19. Luigi Vassalli,
Monumento
Famiglia Rutishauer,
1903, marmo,
Lugano, Cimitero
298
fortuna nella plastica funeraria favorirono certamente
l’apertura dello scultore verso un moderato simbolismo che rimase tuttavia caratterizzato da forti componenti descrittive e narrative che spesso appesantiscono
la composizione. Crudo realismo e linguaggio evocativo si coniugano nel fondale bronzeo ad altorilievo del
nicchione del Monumento Somazzi (1903) (fig. 18) in
cui Vassalli raffigura una processione funebre iconograficamente molto vicina a due dipinti allora molto
noti di Pietro Anastasio, Le vestali che lasciano il tempio
(1890-1891) e Requiem (1891).24 Più convincente è l’altorilievo per il Monumento Rutishauser (fig. 19), del
1903, tra i capolavori dello scultore ticinese, nel quale
la fanciulla protesa verso i gigli della purezza, quasi
scavata nella nicchia che rimanda all’altra vita, rinvia
direttamente alle composizioni funerarie di Leonardo
Bistolfi, evocato anche in Spasimo, del 1910. Allo stesso
20. Luigi Vassalli,
Continuità della vita,
Monumento Famiglia
Castagnola,
1908 c., marmo,
Lugano, Cimitero
21. Luigi Vassalli,
Monumento Scala-Solari,
1904, Lugano, Cimitero
L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino
22. Luigi Vassalli,
Adolescente piangente,
Monumento
Famiglia Widmer,
1927, bronzo,
Lugano, Cimitero
23. Leone Pandolfi,
Monumento funebre
Angelo Spreafico,
1910, marmo,
Lugano, Cimitero
ascendente va riferita la struttura compositiva e architettonica del Monumento Castagnola (Continuità della
Vita) (fig. 20), mentre la misurata figura femminile
dolente recante la corona della Riconoscenza, in
meditazione accanto al sepolcro, scolpita per il Monumento Scala-Solari (1904) (fig. 21), riprende con poche
varianti la grande figura femminile del già citato
Monumento Rigamonti, qui declinata da Vassalli accogliendo con parsimonia i suggerimenti dell’“Arte
Nuova”, e impaginando la figura contro uno sfondo di
gessi policromi decorato a serti di rose.25
Il prestigio istituzionale dello scultore verrà in certo
modo consacrato nel 1913, quando per cura della
Sezione ticinese della Società dei pittori, scultori e
architetti svizzeri di cui era presidente egli organizzerà
la Prima esposizione di belle arti della Svizzera Italiana26 nella quale espose diverse opere tra cui Continuità
della vita27 e il marmo Cristo morto;28 misura dell’apprezzamento della sua opera, sarà infine la fortuna che
incontrerà fino agli anni ’20 del Novecento il suo stile,
improntato a un sobrio simbolismo ancora ben sostenuto dal confronto con il “vero” (fig. 22), in una fitta
schiera di allievi o semplici imitatori. In ambito funerario è questo il caso di Leone Pandolfi, scultore privo di
qualsiasi supporto bibliografico o documentario, di cui
si segnala l’intensa figura femminile in preghiera collocata al cimitero di Lugano sulla sepoltura di Angelo
Spreafico, del 1910 (fig. 23).
Di ben altra fortuna e qualità si presenta l’opera di
Giuseppe Foglia (Lugano 1888-1950), che frequenta i
299
Lo splendore della forma
24. Giuseppe Foglia,
Monumento Famiglia Ender,
1924-1925 c.,
bronzo e granito,
Castagnola, Cimitero
300
corsi di Luigi Vassalli alla Scuola d’arte e mestieri di
Lugano e prosegue la formazione alla Scuola libera del
nudo annessa all’Accademia di Roma. Rientrato a
Lugano allo scoppio della guerra, si dedica al giornalismo d’arte e nel 1920 e 1926 espone alla Biennale di
Venezia; nel 1925 partecipa alla Mostra d’arte svizzera di
Karslruhe. La sua produzione si estende alla scultura
monumentale, al disegno e alla pittura. La radice realista di Foglia affonda nella classicità e si traduce in chiave fortemente espressiva, soprattutto nella scultura a
carattere monumentale, e in ambito funerario ricordo
almeno la statua intitolata Silenzio (1923-1924) per la
sepoltura Salvioni al Cimitero comunale di Bellinzona,
il Monumento Ender (1924-1925) (fig. 24) al Cimitero
comunale di Castagnola, e Risveglio per la sepoltura
Vicari (1948), sempre a Castagnola.
Scultori e marmorini
La produzione di Luigi Piffaretti, nipote di Vincenzo
Vela, appare strettamente legata all’influenza del grande scultore ticinese. Artista la cui carriera si svolse prevalentemente a Torino a contatto con l’ambiente del-
L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino
25. Luigi Piffaretti e
Gottardo Induni,
Monumento sepolcrale a
Vincenzo Vela,
1891, Ligornetto, Cimitero
l’Accademia Albertina, in Ticino Piffaretti lascia la sua
massima testimonianza nel Monumento Vincenzo Vela
eretto con la collaborazione di Gottardo Induni nel
cimitero di Ligornetto (fig. 25); nell’opera – dove per
volere dello stesso Vela è collocata una copia di scuola
del suo Ecce Homo scolpito nel 1870 per l’edicola dei
conti Giulini a Velate Brianza (fig. 26) – l’acuto realismo dei particolari – si veda la resa del materasso su cui
è adagiato il defunto – è accostato alla struttura compositiva di misura classicheggiante.
Ampelio Regazzoni presentò alla Terza Esposizione
Triennale di Belle Arti di Brera tenutasi a Milano nel
1897, una “statua in gesso” dal titolo Cristo alla colon-
301
26. Vincenzo Vela,
Ecce Homo,
Edicola Giulini Della Porta,
1868, Cimitero di Velate
27. Ampelio Ragazzoni,
Cristo legato alla colonna,
Monumento Famiglie Pietro
e Antonio Bernasconi,
1896, bronzo,
Chiasso, Cimitero
Lo splendore della forma
L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino
29. Pietro Andreoletti,
Monumento alle vittime del
San Gottardo,
1889, marmo,
Göschenen, Cimitero
30. Pietro Andreoletti,
Monumento alle vittime del
traforo del San Gottardo,
1886, marmo, gneiss,
Airolo, Cimitero
28. Ignoto,
Stele funeraria
per due coniugi,
1870 c.,
Cureglia, Cimitero
302
na,29 bene accolta dalla critica. Una fusione in bronzo
dell’opera è collocata al cimitero di Chiasso nella nicchia dell’arcata monumentale concessa alle famiglie
Pietro e Antonio Bernasconi (fig. 27).
La scultura, firmata e datata 1896, rivela un artefice
sensibile di cui purtroppo si sono finora rintracciate
poche notizie, e un segna un momento alto della plastica ticinese dell’ultimo Ottocento, che qui appare
strettamente legata agli esiti della scultura realista lombarda. Alla stessa matrice va riferito anche il brano di
verismo offerto dal Tagliapietre presentato da Regazzoni
a Berna nel 1894 e recensito da Luigi Chirtani.30
Altri artefici di minore incisività qualitativa, seppure di
notevole interesse per un inquadramento generale della
plastica ticinese del tempo, sono Michelangelo Marchesi
e il padre Gerolamo, dei quali sono state rintracciate
sepolture di un certo interesse caratterizzate dalla particolare attenzione per l’apparato decorativo e simbolico
sul quale spicca, a coronamento della doppia centina, il
pellicano che sfama i suoi piccoli; simbolo raro in ambi-
to funerario originato dalla leggenda secondo la quale
esso stesso fa sgorgare il sangue dal suo petto in un atto
di amore per nutrire i suoi piccoli, il pellicano divenne
nella tradizione ecclesiale simbolo di Cristo dal cui fianco squarciato uscì sangue e acqua per la riconciliazione
e la divinizzazione di tutta la Chiesa.31
Al cimitero di Cureglia si veda la stele d’autore anonimo
con due ritratti affrontati di coniugi, che rimanda a una
tra le più antiche iconografie funebri (fig. 28).
Nei cimiteri, non solo ticinesi, e nella committenza
sacra è infine racchiusa anche l’attività principale di
Pietro Andreoletti (Porto Ceresio, 1860) e della sua
bottega d’arte funeraria attiva a Faido (figg. 29 e 30).
1
2
Per una visione d’insieme delle sculture
ottocentesche del Duomo di Milano
rimando a R. Bossaglia, L’Ottocento: fra
neoclassico, purismo, romanticismo e
floreale, in Il Duomo di Milano, Cassa di
Risparmio delle Provincie Lombarde,
Milano 1973, pp. 134-165. Per un’analisi della scultura ticinese del tempo si
veda G. Ginex, Scultura ticinese. Committenza e mutamenti del gusto, in R.
Chiappini, a cura di, Arte in Ticino.
1803-2003. La ricerca di un’appartenenza. 1803-1870, catalogo della mostra,
Museo di Belle Arti-Lugano, Salvioni
Edizioni, Lugano 2001, pp. 221-244.
Per una contestualizzazione dell’opera
di Somaini a Milano, si veda M.T. Fio-
3
rio, a cura di, Le Chiese di Milano, Electa, Milano 1985, p. 163. Tra le principali commissioni fuori città ricordo
almeno le due statue Fede e Speranza
per l’altare sinistro della chiesa barocca di Santa Maria del Sole a Lodi e le
due statue in marmo di san Gioachimo
e san Giuseppe, presentate a Brera nel
1842 per la fabbriceria di Spirano. A
Torino Somaini eseguì il grande bassorilievo sul frontone della chiesa dedicata alla Gran Madre di Dio e a Novara
gli Angeli colossali per la cattedrale.
Il legame tra Somaini e l’architetto
Cagnola risale alla chiamata dello
scultore all’impresa della decorazione
dell’Arco del Sempione a Milano
303
L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino
Lo splendore della forma
4
5
6
7
304
8
9
10
11
(1806-1838) ed è confermato dalla
partecipazione alla decorazione degli
ambienti della villa che l’architetto
progettò ed eresse per se stesso a
Inverigo (La Rotonda, che oggi ospita
la Fondazione don Gnocchi) nel 1813,
ultimata nel 1833.
Cfr. V. Terraroli, Il Vantiniano. La scultura monumentale a Brescia tra Ottocento e Novecento, Grafo, Brescia
1990, p. 38, fig. 8.
Monumento sepolcrale in marmo di
commissione della signora Anna Torriani e della di lei figlia Agnese vedova
Missori da collocarsi nel cimitero del
comune di Gentilino presso Lugano
(catalogo Brera, n. 423, p. 56).
Lavizzari, Escursioni nel Canton Ticino,
1863 (ed. 1988), p. 167. Sul cimitero di
Gentilino si veda inoltre P. Vegezzi, in
“Gazzetta Ticinese”, 18 settembre
1885 e M. Agliati, Storia e storie della
Collina d’oro, Gaggini-Bizzozzero,
Lugano 1978, pp. 82-107.
Domenico Gilardi (Montagnola 17851845 Milano) deve la sua fama all’attività svolta a Mosca, alla cui ricostruzione seguita alle devastazioni e gli
incendi causati dalle campagne napoleoniche egli contribuì massicciamente.
Gilardi lasciò la Russia nel 1832. La
progettazione del cimitero di Gentilino
è documentata da una lettera del 14
agosto 1839 (Lettera di Pasquale Lucchini alla Municipalità del Comune di
Gentilino, 14 agosto 1839. Gentilino,
Archivio Comunale, scatola 367, 333.7).
Cfr. G. Pasqualigo, Manuale ad uso del
forastiere in Lugano, Lugano 1855, p.
181 e Lavizzari, Escursioni cit., p. 80.
Sulle vicende dei cimiteri luganesi vedi
anche P. Vegezzi, I nostri morti. Il camposanto di Lugano ed i suoi principali
monumenti, Tip. Traversa, LuganoMenrisio 1893 (2° edizione); P. Vegezzi-A. Tamburini, Il vecchio Camposanto
di Lugano e le iscrizioni dei principali
Monumenti, Tip. Traversa, LuganoMendrisio 1901.
Per il Monumento Pietro Riva si veda
Pasqualigo, Manuale cit., p. 136.
Si veda G. Ginex, Scultura ticinese: un
percorso tra temi e artefici, in R.
Chiappini, a cura di, Arte in Ticino.
1803-2003. L’affermazione di un’identità. 1870-1914, catalogo della mostra,
Museo di Belle Arti-Lugano, Salvioni
Edizioni, Lugano 2002, pp. 141-166.
In Cronaca di Lugano, in “Gazzetta
12
13
14
15
16
17
18
19
Ticinese”, 18 agosto 1891. Allo stato
attuale delle ricerche archivistiche i
progetti presentati per le sepolture non
sono stati rinvenuti.
“Scultori che godono meritata fama fra
noi e all’estero, sono gli intelligenti e
distinti fratelli Chiattone”, così in Canonico [Pietro] Vegezzi, I nostri morti. Il
camposanto di Lugano ed i suoi principali monumenti, Tip. Traversa, LuganoMendrisio 1895, p.12.
Per i Chiattone, si vedano i testi di C.
Sonderegger in Opere d’Arte della Città
di Lugano. Donazione Chiattone, catalogo della mostra, Lugano-Museo Civico di Belle Arti. Villa Ciani, 13 ottobre
2006-15 aprile 2007, Lugano 2006.
Ringrazio Sonderegger per avere fornito le riproduzioni delle opere presenti
nei cimiteri ticinesi utilizzate in questo
saggio e nella presentazione in Powerpoint realizzata da chi scrive per il
Convegno (scansioni eseguite da Anahi
Traversi).
P. Vegezzi, I nostri morti cit., p. 12.
Da “Gazzetta Ticinese”, 9 marzo 1895.
In “Gazzetta Ticinese”, 25 marzo 1895.
Si segnala la decorazione a fresco del
muro di sfondo, oggi quasi completamente illeggibile, che completava la
composizione scultorea con un paesaggio e un volo di angeli; inoltre è da
ricordare la presenza nel nicchione del
busto di Giuseppe Enderlin realizzato
nel 1884 da Vincenzo Vela.
L’artista aveva iniziato a operare autonomamente in ambito funerario anche
prima della morte del fratello maggiore. All’Esposizione svizzera del 1897
figurava D’içi bas ils n’ont connu que
les fleurs!, “modello di monumento
sepolcrale in memoria di Zisette e
Francis Wanner, Ginevra” (Esposizione
Svizzera di belle arti di Lugano. Catalogo, catalogo della mostra [esposizione
circolante], Tip. Traversa, Lugano 1897,
n. 2, p. 25).
Sul monumento si veda anche G.
Foletti, Arte nell’Ottocento. La pittura e
la scultura del Cantone Ticino (18701920), Locarno 2001, p. 208, nota 15.
Altre informazioni, in particolare su
Aristide Bergès sono state tratte dal
sito web del Comune di Tolosa, Francia. Il cimitero di Terre-Cabade [terra
scavata, argilla] di Tolosa fu aperto nel
1844 su progetto dell’architetto Urbain
Vitry che lo ideò in uno stile ispirato
all’antico Egitto.
20
21
22
23
24
25
Con ogni probabilità si tratta di Vie
brisée esposta a Losanna nel 1904.
Inaugurato al cimitero di Lugano nel
novembre del 1906, il monumento fu
recensito nella rubrica Cose d’arte del
“Corriere del Ticino” (10 novembre
1906) dando peculiare rilievo alla particolare iconografia dell’opera.
J. Belloni, Luigi Vassalli, Società ticinese per le belle arti, Lugano 1932, s.p.
Per Vassalli, tra i più documentati degli
scultori ticinesi del suo tempo, si veda
in G. Foletti, Arte nell’Ottocento cit.,
pp. 473-483.
A differenza di quanto finora pubblicato, Requiem è sicuramente databile
al 1891 ante quem, essendo stato
presentato a Lugano nel 1891. Si veda
in Esposizione artistica svizzera in
Lugano. Catalogo delle opere esposte,
catalogo della mostra (esposizione
circolante), Tip. Traversa, Lugano
1891, n. 32, p. 27 (Requiem). Alla
stessa mostra fu presentato anche Le
vestali che lasciano il tempio (ibidem,
n. 51, p. 28).
A una di queste sepolture va forse rife-
26
27
28
29
30
31
rita Requiescant in pace presentata a
Losanna nel 1904.
Prima esposizione di belle arti della
Svizzera Italiana. Catalogo ufficiale,
catalogo della mostra (Villa CianiLugano), Tip. Luganese, Lugano 1913.
Si veda anche in G. Foletti, Arte nell’Ottocento cit., p. 35.
Prima esposizione cit., n. 6, p. 11.
ibidem, n. 5, p. 17.
Terza Esposizione Triennale di Belle
Arti. Brera 1897. Catalogo illustrato
(Milano, Palazzo di Brera), F.lli Treves,
Milano 1897, n. 327, p. 41. Regazzoni,
che compare in catalogo come abitante a Milano in via Montebello 3, esponeva anche In ascolto (n. 282, p. 35).
L. Chirtani, Il tagliapietre. Statua al
vero in marmo di Ampelio Regazzoni, in
“Natura e arte”, gennaio 1896, p. 336.
Giovanni, 19, 33-34. Il tema è ripreso
da San Tommaso d’Aquino nell’inno
Adoro te devote: “Pie pellicane, Jesu
Domine / me immundum munda tuo
sanguine / cuius una stilla salvum
facere / totum mundum quit ab omni
scelere”..
305
Tre tombe ottomane nella Trieste dell’Ottocento
di Cristina Rovere
Tre tombe ottomane nella Trieste dell’Ottocento
1. Il lavacro
con copertura a cupola
ficazioni nella società, distinguendo le diverse persone
e le diverse funzioni.
Per trovare a Trieste dei “veri” turbanti ottocenteschi,
cioè dei turbanti che portino in sé una connotazione
distintiva di status sociale, bisogna recarsi al cimitero
chiamato turco o ottomano. In questo cimitero si conservano tre lapidi antropomorfe, tre lapidi che imitano
la sagoma umana, portando nella parte apicale della
stele un copricapo.
306
Un viaggiatore ottocentesco di passaggio a Trieste annotava come in città ci fossero “italiani, turchi, ebrei, spagnoli […] parlanti ciascuno nella propria lingua […]
gente eterogenea per patria, costumi, fisionomia […]”.1
Oggi le uniche solide tracce di quel fecondo periodo
di scambi e intrecci si conservano nella zona cimiteriale di Trieste, dove accanto al cimitero cattolico – entrato in uso nel 1825 – si trovano una serie di cimiteri acattolici (ebraico, greco ortodosso, ottomano ecc.).
Questo mosaico cimiteriale è l’ipostatizzazione della
società triestina multiculturale del XIX secolo, quella
delle millet – le comunità religiose – che convivevano
una a fianco all’altra in una continua dialettica di vicinanza/distanza.
Le millet a volte si mescolavano per fare affari insieme,
si contaminavano sotto il profilo della moda, al punto
che le signore triestine “andavano a teatro col turbante
alla turca, all’armena, alla persiana, [turbante] composto di due mezzi scialli di cachemire [...]”.2
I turbanti che le triestine indossavano hanno sempre
avuto nei mondi islamici la funzione di tracciare strati-
307
Il cimitero ottomano
Il cimitero turco o ottomano è ancora oggi in uso, e
sarebbe più esatto definirlo semplicemente islamico,
perché strettamente confessionale. Venne istituito dal
Governo Austriaco nel 1842 e dato in cessione formale
nel 1849 al Console Generale dell’Impero Ottomano
presente in città.
Dall’esterno del muro che lo circonda si scorge una
cupola sormontata da una mezza luna orientata secondo
la qibla, la direzione che indica la città di Mecca (fig. 1).
La cupola copre un piccolo edificio che in passato è
stato erroneamente identificato come una moschea,3
ma che nella realtà è un lavacro. Al suo interno, infatti,
si trova un piano di marmo su cui la salma viene deposta per essere lavata e preparata (fig. 2). La morte dei
musulmani è accompagnata da un rito che si svolge
secondo norme ben definite e codificate in quattro
fasi: il lavaggio del corpo, il suo avvolgimento in sudari,
la preghiera corale per lui/lei e infine il seppellimento
nella nuda terra.4
Lo splendore della forma
Tre tombe ottomane nella Trieste dell’Ottocento
3. La lapide del pellegrino
2. Il piano di marmo
su cui la salma
viene preparata
per l’inumazione
308
Le lapidi antropomorfe
Per i musulmani la morte è un passaggio dalla “dimora
terrena” (dār ad-dunya) all’“ultima dimora” (dār alakhı¯ra).
In linea di principio per le lapidi si raccomandava – e si
raccomanda – sobrietà e semplicità, se non addirittura
forme di anonimato, anche per prevenire eventuali
espressioni di idolatria. Ma all’interno dell’Impero Ottomano, a partire dal XVI secolo e fino quasi alla metà del
XIX, si assiste invece all’individualizzazione delle sepolture attraverso la comparsa delle lapidi antropomorfe.
Le tre lapidi antropomorfe di questo cimitero sono un
unicum, perché questa tipologia funeraria fu presente
sempre e soltanto entro i confini dell’Impero Ottomano. Queste tombe sono l’unico esempio di lapidi antropomorfe nell’Europa Occidentale, e mentre simili
sepolture divennero sempre più desuete in Turchia
entro la prima metà dell’Ottocento, nel cimitero triestino permangono ben oltre la metà di tale secolo.
Uno scrittore russo parlando di lapidi dice “se scruto a
lungo la lapide che per qualche motivo mi ha emozionato, mi
sembra di vedere la persona che è qui sepolta […] la sento
4. Particolare del copricapo
persino raccontarmi la sua vita”.5 In questo caso lo sforzo
immaginativo dell’osservatore è ridotto, perché queste
lapidi si raccontano nell’iscrizione funeraria – che
riporta molti dati personali del defunto, come la professione – e nel copricapo.
Nell’Impero Ottomano gli abiti erano regolamentati
con registri di etichetta che ne stabilivano fogge, colori
e dimensioni. Anche i copricapi – parte integrante dell’abbigliamento – erano codificati e dunque indicativi
dello status di chi li indossava.
I turbanti, quindi, così come erano distintivi in vita, lo
diventano pure nella rappresentazione sulle lapidi.
Con questo tipo di lapidi si assiste a un fenomeno di
stratificazione sociale della morte. Gli uomini decidono di lasciare traccia di sé, escono dall’anonimato.
El-hāgg, il pellegrino
Questa lapide appartiene a Muhammad Beg Čārı̄k
Bosna, un bosniaco, morto nel 1291 del calendario islamico, che corrisponde al 1874-75 del calendario gregoriano.6 È un prisma a base quadrangolare, con all’interno l’iscrizione e sopra un cilindro su cui poggia il
copricapo (fig. 3).
Nella stele, oltre al nome del defunto e alla data di
morte, compaiono un’invocazione a Dio e la richiesta
di recitare per lui una preghiera, una Fātiha. Questa
309
Lo splendore della forma
Tre tombe ottomane nella Trieste dell’Ottocento
7. Particolare del turbante
5. La lapide del capitano
6. La lapide del mistico
L’iscrizione – in sei cartigli obliqui – è più esplicativa.
Prima del nome del defunto – Muhammad Ben Hāgı̄
Huseı̄n Bilālı̄ – viene infatti indicata la professione,
qapudān, ovvero capitano. Si deduce quindi che anche
Huseı̄n Bilālı̄ era un militare, sepolto nel cimitero di
Trieste nel 1279 H./1862-63.
310
formula di iscrizione, seppure con ordine differente,
sarà presente anche nelle altre due sepolture.
“L’abitatore della tomba” viene definito el-hāgg, cioè il
pellegrino, titolo che veniva – e viene – assegnato a chi
abbia compiuto il pellegrinaggio a Mecca, e che diventa titolo distintivo, onorifico.
Il copricapo è un kalāh, un berretto di feltro o lana con
al centro un cono o un cilindro. Questo copre le orecchie e parte del collo e, in corrispondenza del viso, si
vedono delle incisioni verticali a indicare una griglia di
protezione. All’altezza del collo un decoro dentellato
imita una striscia di passamaneria, mentre all’altezza
delle orecchie sono incise una borchia e una piuma (fig.
4). Borchie, piume e passamaneria erano decori preziosi, riservati agli ufficiali. Questi elementi permettono di
identificare Muhammad Beg Čārı̄k Bosna come un militare che apparteneva ai quadri superiori dell’esercito.
Al-qapudān, il capitano
La lapide è un parallelepipedo sormontato da un turbante di fattura poco elaborata, che nella sua semplicità non dà molti dati sul defunto (fig. 5).
Gül, la rosa mistica
L’iscrizione della lapide comincia con la data – 1262
H./1845-46, è la più antica – e dopo la lunga invocazione a Dio, compare il nome del defunto ‘Abdallāh Ben
Sālih Ülgünlı̄, “originario di Ülgün”, Dulcigno, in Montenegro (fig. 6). Vista l’origine montenegrina, si può
supporre che anche egli fosse un militare delle eterogenee truppe balcaniche che prestavano servizio nelle
zone adiacenti a Trieste.
Il turbante – di semplice fattura – porta nell’angolo
sinistro un particolare significativo: una rosa (gül, fig.
7). Se piume, passamaneria e borchie erano simboli
caratterizzanti degli ufficiali, le rose invece erano
distintive dei sufi, i mistici. ‘Abdallāh Ben Sālih apparteneva a una confraternita mistica (tāriqa). Due furono le confraternite più capillarmente diffuse nei Balcani: i bekhtashı̄ e i mevlevì. I bekhtashı̄ furono molto
presenti nelle zone rurali dei Balcani, mentre l’ordine dei mevlevì – noto soprattutto per il rito della
danza roteante, da cui il nome di “mistici danzanti” –
ebbe “monasteri” disseminati all’interno di tutti i
domini ottomani.
311
Tre tombe ottomane nella Trieste dell’Ottocento
Lo splendore della forma
Dal tipo di rosa, e dal raffronto con altre lapidi, si
può identificare il defunto come un affiliato all’ordine dei bekhtashı̄.
Lapide 3: gül, la rosa mistica
Lui [Dio] è l’Eterno
Anno 1262 (1845-46)
Mi fu concessa per grazia di Dio
la professione di fede.
O mio Dio, concedimi la felicità
per questo possa io trovare l’intercessione del Tuo Inviato.
Originario di Ülgün ‘Abdallāh ben Sālih.
[Si reciti] per il suo spirito una Fātiha.
Vita/morte
I cimiteri islamici nell’Ottocento, come ancora oggi,
erano luoghi “pieni di fiori, di vigne e di arbusti”,7 venivano vissuti come dei giardini, scelti quali “prediletti e
spessi passeggi”.8 Questo fatto aveva colpito molti viaggiatori tra i quali Théophile Gautier, che così raccontava il binomio vita/morte nel grande cimitero di
Costantinopoli: “Qui non è la solitudine che si estende
sull’oblio, ma la vita che riprende il posto concesso
temporaneamente ai morti”.9
God is the Eternal
Year 1262 (1845-46)
I was granted for the grace of God
The profession of faith.
Almighty God, grant me happiness
That I may find for this the intercession of Your Envoy.
From Ülgün ‘Abdallāh ben Sālih.
Recite a Fātiha for his spirit.
Lapide 1: el-hāgg, il pellegrino
312
Egli è il Creatore, l’Eterno.
Il bisognoso della Misericordia
del Suo Signore
Che concede il perdono.
Debole, lontano
l’abitatore della tomba
El-hāgg Muhammad Beg Čārı̄k Bosna
confida nella benevolenza di Dio.
[Si reciti] una Fātiha.
Anno 1291 (1874-75).
He is the Creator, the Eternal.
The one who needs the mercy of
His Master
Weak and far away is the one who
inhabits the tomb.
El-hāgg Muhammad Beg Čārı̄k Bosna
He trusts in the goodness of God
Recite a Fātiha (for his spirit).
Year 1291 (1874-75).
Lapide 2: al-qapudān, il capitano
Egli [Dio] è Il Vivente.
Anno 1279 (1862-63).
Mi fu concessa per grazia di Dio
la professione di fede.
O mio Dio, concedimi la felicità
per questo possa io trovare
l’intercessione del Tuo Inviato
il capitano
Muhammad Ben Hāgı̄ Huseı¯n Bilālı̄.
[Si reciti] per il suo spirito una Fātiha.
God is the Living.
Year 1279 (1862-63).
I was granted for the grace of God
The profession of faith.
Almighty God, grant me happiness
That I may find for this the intercession of Your Envoy.
The captain
Muhammad Ben Hāgı̄ Huseı¯n Bilālı̄.
Recite a Fātiha for his spirit.
313
1
2
3
4
Da un articolo di un anonimo praghese
contenuto in Gasparini, L., 21 autori.
Impressioni su Trieste 1793-1887, Trieste 1951, pp. 37-39.
Caprin, G., Tempi andati: pagine della
vita triestina (1830-1848), Trieste
1891, p. 218.
“Vedi da lontano una cappella turca, su
cui scintilla dorata la mezza luna, è una
moschea […]”, De Drago, V., Una passeggiata alle tombe. Pensieri e descrizioni sui Monumenti ed Epitaffi dei Cimiteri
di Trieste, Trieste 1870, p. 211.
Per una disamina dei rituali che
accompagnano la morte e della storia
del cimitero, rimando a un mio precedente lavoro Tracce islamiche nella
5
6
7
8
9
Trieste dell’Ottocento, Trieste 2005.
Akunin, B. e Tchakhartichvili, G., Le
città senza tempo, Milano 2006, p.
117.
Da qui in avanti si indicherà l’anno del
calendario islamico seguito da una
“H.”, abbreviazione che corrisponde
all’Higra – l’Egira – l’anno zero per i
musulmani.
Eberhardt, I., Heures de Tunis cit. dal sito:
http://sufi.it/Islam/nisa/Isabelle1.htm.
De Drago, V., Una passeggiata alle
tombe cit., pp. 211-212.
Gautier, T., Una passeggiata, in Guadalupi, G. (a cura di), Orienti. Viaggiatori scrittori dell’Ottocento, Milano
1989, p. 73.
TEMI E PROBLEMI
La Metamorfosi e la Vergine nella scultura liberty:
alcune implicazioni di questo tema
nel cambiamento di ruolo dello scultore funerario
di Sandra Berresford
Leonardo Bistolfi, il “poeta della morte” (Casale Monferrato 1859-1933), essendo il più importante scultore
funerario simbolista d’Italia, necessita di una piccola
introduzione.
Della lunga descrizione di Bistolfi sul concetto riguardo La bellezza della morte, il suo monumento a Sebastiano Grandis (fig. 1), capo ingegnere del Tunnel del
Frejus, un particolare della frase colpisce la mia mente:
“… se in noi, viventi, vive un atomo dell’anima del
mondo, e quest’atomo vivrà dopo di noi, la Morte non
può essere il fenomeno crudele e spaventoso che ha
turbato tante generazioni”.1
Sembra incongruente che un artista che non possiede
specifiche conoscenze scientifiche possa riferirsi nel
1895 a “un atomo” anche se il linguaggio scientifico
viene moderato da un riferimento più letterario “all’anima del mondo”. Dal 1890 la Tavola Periodica di Mendeleev era nota da circa venticinque anni e sebbene la
prima pubblicazione di Einstein sulla relatività risalisse
al decennio successivo, Torino era già attiva con discussioni scientifiche e filosofiche specialmente tra i Lom-
317
Lo splendore della forma
1. Leonardo Bistolfi,
La Bellezza della Morte,
Monumento a Sebastiano
Grandis, particolare, 1895,
Borgo San Dalmazzo
(Cuneo), Cimitero
(foto Robert Fichter)
318
brosiani e nei Circoli Universitari, dove intellettuali
come Arturo Graf e Giovanni Cena stavano volgendo il
loro interesse verso il socialismo.
Bistolfi descrisse la sua idea come “un’intuizione spontanea” ma non ci sono dubbi sul fatto che fu influenzato dall’ambiente a lui vicino. Analogamente il suo commento letterario lo pone al centro del dibattito contemporaneo sul ruolo dell’arte e della letteratura. Inoltre, il riferimento all’inconscio onirico della sua creatività ricorda che le religioni alternative (Buddismo,
Teosofia e Spiritualismo in generale) facevano parte
del complesso Zeitgeist della fin de siècle europea.
Nella sensuale figura femminile La bellezza della morte lo
scultore ha affermato: “La rappresentazione plastica
della bellezza immortale e perpetuamente giovane
della sua idea nella figura spirituale della fanciulla che
emana dalla tomba, fremente d’ansia di vita rinovellata
e come inebriata di profumi esalati di quella candida
rinascenza di fiori ideali”.2
La mancanza di definizione era intenzionale e il turbolento senso di vitalità nei drappeggi nella parte più bassa del
monumento fu progettata per attirare la mente verso l’al-
La Metamorfosi e la Vergine nella scultura liberty
to, verso la spiritualità. Il lavoro fu elogiato nei circoli d’avanguardia come rappresentativo di un nuovo tipo d’immaginazione funeraria: l’incarnazione della metamorfosi
e, per associazione, il rifiuto del concetto cattolico di resurrezione del corpo, furono visti come una giustificazione
della relativamente nuova pratica di cremazione. Non è
una coincidenza che la maggior parte delle sculture sul
tema delle metamorfosi fu eseguita nel nord Italia, dove i
crematori furono costruiti negli anni ’70 e ’80 dell’Ottocento e dove queste idee erano meglio accettate rispetto al
sud, prevalentemente agricolo e più conservatore.
Paola Lombroso, figlia di Cesare, usò di nuovo una terminologia scientifica per descrivere un concetto implicito del monumento Grandis: “La Morte non è in fondo
che il laboratorio della vita. La materia circola continuamente e la morte non è che una fase transitoria, necessaria per passare al rinnovamento della vita, perché le scorie della decomposizione si trasformino in linfe vitali. Non è
più la ribellione contro la morte, ma l’intuizione di un
eterno mistero, di una legge di venusto equilibrio”.3
Alla luce di questa nuova filosofia lo scultore sostiene
che la morte non deve più essere “il crudele e spaventoso fenomeno che ha addolorato tante generazioni”.4
In verità quando si considera la scultura del periodo
realista, si intuisce che la nuova società borghese, tutto
sommato, ha provato a cercare un compromesso abbastanza equo con la morte. Il messaggio che la scultura
realista spesso trasmette, sia con parole sia in immagini, è che se si è condotta una vita giusta e morale si
ottiene un posto garantito in Paradiso.
Il ruolo dei fiori scolpiti qui è importante ma non vitale:
sono portati come corone o bouquet da familiari in
lutto e fanno parte dello “scenario della Morte” del Realismo; in quanto tali essi poterono perfino diventare
importanti status symbol: più ostentati i fiori, più importante il defunto. In ogni caso esisteva già una stretta
associazione tra i fiori, simboli di purezza ma anche di
effimere e premature morti: le tombe dei bambini raramente sono prive di decorazioni particolari e ricchi tributi floreali, sia reali sia scolpiti (fig. 2).
Mentre la nuova scienza metteva in dubbio le certezze
della religione e l’arte cercava nuovi ideali spirituali, la
319
Lo splendore della forma
2. Michele Auteri-Pomar,
Emma e Bianca Marchesini,
1874, Firenze,
Cimitero delle Porte Sante
(foto Robert Freidus)
3. Leonardo Bistolfi,
La Sfinge,
Tomba Famiglia Pansa,
1890-92, Cuneo, Cimitero
(foto Robert Fichter)
320
morte divenne un mistero e, lungi dall’essere consolatorio, una minaccia. Il Monumento alla Famiglia Pansa di
Bistolfi, a Cuneo, ideato nel 1890 e conosciuto come
La Sfinge fu uno dei primi monumenti simbolisti in Italia, sulla scia dell’Angelo Oneto di Monteverde, ad
affrontare ed esprimere i nuovi sentimenti di inquietudine e disagio nei confronti dell’Aldilà (fig. 3).
Qui la cascata di fiori intricati scolpita e parzialmente
stilizzata (crisantemi, papaveri e gigli dai lunghi steli)
rappresenta la resurrezione e inizia a integrarsi con
la figura.
Mentre Bistolfi si impegnava in prima persona a realizzare il modello in argilla, la traduzione di questi dettagli
floreali in duro marmo bianco richiedeva una particolare abilità da parte dello scultore e dei suoi assistenti.
Poco dopo, nella tomba del piccolo Arnaldo Pugliese,
figlio del suo amico Clemente Pugliese-Levi, pittore divisionista, i fiori scolpiti di Bistolfi, crescendo dal suolo,
arrivarono a coprire la tomba di marmo bianco quasi
dotati di vita propria.5 Le tombe ebraiche non potevano
contenere immagini, ma un’eccezione generale fu fatta
per i fiori e i motivi ornamentali. Infatti, la passione per
il Liberty colpì anche la comunità ebraica, come tutti,
negli anni ’90 dell’Ottocento, e si riflesse in tombe principalmente floreali come la Zamorani a Bologna.6 In quel
periodo, il fascino legato alla morte e alla sepoltura fu
evidenziato anche nella pittura italiana del Nord.
Un esempio è ben rappresentato dal Piccolo bambino
morto o dal Fiore raccolto (1903-06 Musée d’Orsay a Parigi)
dell’amico di Bistolfi, il divisionista Giuseppe Pellizza.
La Metamorfosi e la Vergine nella scultura liberty
4. Giovanni Lomazzi,
Tomba Antonietta Risi
Pogliani, 1902, Milano,
Cimitero Monumentale,
da Arte Funeraria Italiana,
serie V, tavola 16
5. Cesare Reduzzi,
Tomba Augusta Schumacher,
1899, Torino,
Cimitero Monumentale
Inoltre, Mentessi, e Previati eseguirono I funerali della
Vergine, mentre Giovanni Segantini trattò la malattia, la
morte e la sepoltura in diverse occasioni.
L’albero della Vita e il ciclo della Natura
Il tema del ciclo della Natura, sebbene non nuovo nell’arte funeraria, fu particolarmente popolare negli
anni ’90 dell’Ottocento, ancora nel Centro-nord, perché rappresentava un’inclinazione più scientifica e
laica nei confronti della morte.7 Esso era anche molto
adatto a rappresentare gli ideali socialisti attraverso la
figura del Seminatore/Contadino/Mietitore.
Nel 1902 Giovanni Lomazzi, proprietario di una fonderia milanese di successo, propose questo tema per Antonietta Risi Pogliani, che voleva significativamente essere
ricordata “come donna di fede mazziniana” (fig. 4). L’albero della vita diede inoltre allo scultore liberty un’ampia
possibilità di utilizzo delle sue capacità ornamentali nel
trattamento della vegetazione lussureggiante (fig. 5).
La Morte e la Vergine 8
Tuttavia, la vera personificazione del tema della metamorfosi/fanciulla avvenne con la Purificazione di Bistolfi,
la simbolica incarnazione della ventiseienne Emma
Rocca Hierschel De Minerbi in una cappella privata a
321
Lo splendore della forma
6. Leonardo Bistolfi,
Purificazione, Cappella
Hierschel De Minerbi,
interno, 1899-1903,
Belgirate
7. Leonardo Bistolfi,
Il Sogno, Tomba Erminia
Cairati Vogt,
1900, Milano,
Cimitero Monumentale
(foto Robert Freidus)
322
Belgirate, uno dei gioielli della scultura liberty italiana
(fig. 6). Realizzata nel periodo in cui Bistolfi stava diffondendo l’“Arte decorativa moderna”, l’opera fu progettata
in ogni dettaglio (perfino l’epigrafe e i caratteri delle
scritte) dallo scultore in quattro anni, dal 1899 al 1903.
Esternamente si trova il bassorilievo del Funerale della
Vergine mentre all’interno la figura di candido marmo
bianco si solleva da un trionfo di gigli e rose verso altri
gigli che scendono dall’alto, attesa da una schiera di
angeli. Per Bistolfi il culmine della donna “in metamorfosi” è la statua chiamata Il sogno, realizzata nel 1900
per Emilia Cairati Vogt (cimitero di Milano), moglie del
suo amico architetto e pittore Gerolamo Cairati (fig. 7).
Qui, in un vortice di drappeggi e di fiori, apparentemente dotati di vita propria, l’Anima è nel suo stato
finale di trasformazione: solo i bei piedi, una mano e il
suo viso nascosto sotto il frusciante lenzuolo funebre
sono visibili. Bistolfi non era proprio in sintonia con i
Divisionisti a lui contemporanei: guardava al passato. Gli
scultori sono meno preoccupati dei pittori nell’ostentare citazioni, forse perché gli insegnamenti accademici
per la scultura erano basati sulla copia. Quale miglior
fonte per una donna trasformata in vegetazione dell’Apollo e Daphne (1622-1625, Galleria Borghese, Roma) di
Bernini? Il fatto che Daphne fugga per preservare la sua
castità può aver rinforzato il suo fascino subliminale.
L’ammirevole Monumento De Daninos di Enrico Cassi
(Cimitero ebraico, Milano, 1906) (fig. 8), guarda
anch’esso a questo modello, così come Materno Giribaldi nel suo Monumento a Francesco Zo (Asti 1911) (fig. 10).
La Metamorfosi e la Vergine nella scultura liberty
8. Enrico Cassi,
Monumento De Daninos,
1906, particolare, Milano,
Cimitero Monumentale,
Settore Ebraico,
foto da Il Cimitero
Monumentale di Milano.
Edicole funerarie isolate
e contro muro. Tombe, C.
Crudo & Co Soc. Italiana
di Edizioni Artistiche s.d.,
Torino
Anche il Ratto di Proserpina (1621-1622, Roma, Galleria
Borghese) di Bernini servì da modello: qui le forze
opposte della donna e dell’uomo lottano quando Proserpina/Persefone prova a liberarsi dalla stretta di Plutone e l’intensa carnalità delle figure è per un attimo
catturata nel marmo.
Tuttavia, con la fine del XIX secolo, gli scultori italiani
avevano ugualmente familiarità con l’interpretazione
del mito di Persefone da parte di Dante Gabriel Rossetti, come rinnovamento del ciclo della vita. La sensualità di molte loro figure è in parte derivata dai modelli
dei Pre-Raffaelliti e potrebbe aver stimolato un certo
voyeurismo da parte dell’osservatore: giovani fanciulle
sottratte dalla Morte al loro destino, ossia la realizzazione dell’amore carnale.
L’arte di Bistolfi prese una nuova svolta dopo il 1900, e
il suo modello diventò Michelangelo, gli Schiavi, in particolare: la forma ora deve emergere dalla pietra piuttosto che essere scavata in essa. Tuttavia, la metamorfosi
323
9. Enrico Pancera,
Tomba Famiglia Prada
Corielli, 1920, Milano,
Cimitero Monumentale
(foto Robert Fichter)
La Metamorfosi e la Vergine nella scultura liberty
Lo splendore della forma
10. Materno Giribaldi,
Tomba Francesco Zo,
1911, Asti, Cimitero
(foto Robert Fichter)
11. Cesare Reduzzi,
Tomba Teresa Moriondo
Franzini, 1906-1908, Torino,
Cimitero Monumentale
(foto Robert Fichter)
324
continuò a ispirare molti altri scultori funerari liberty,
spesso, ma non sempre, quando avevano a che fare con
morti premature: in nessun caso in maniera più esplicita che ne Il Puro Spirito sorge fra le Rose (Milano, Tomba
Prada Corielli, 1920)9 di Enrico Pancera (fig. 9).
Eros e Thanatos, la Morte e la Vergine (Plutone e Proserpina), invadono i cimiteri italiani con incongrua sensualità. L’esalazione dell’ultimo respiro diventa sempre più orgasmica. L’eterna lotta è spesso accompagnata da fiori e dalla lussureggiante vegetazione
liberty. I cardi selvatici e gli spinosi rovi rappresentano il dolore delle premature morti delle giovani
“spose mancate” e delle madri morte di parto, casi in
cui i tradizionali ruoli della donna sono destinati a
rimanere tragicamente incompiuti. Gigli e boccioli di
rose fioriscono in promessa della resurrezione (fig.
11). Il genere divenne così popolare che non fu usato
esclusivamente nelle tombe delle giovani donne.
Il letto di rose
Bajo las rosas tibias de la cama los
muertos gimen esperando turno
Garcia Lorca
La scena del letto di morte ha una lunga tradizione
nell’iconografia funeraria, ma negli anni ’90 dell’Ottocento il letto, spazio della Morte ma anche della Nascita e della Procreazione, divenne una celebrazione della
carnalità, mentre le donne esalavano l’ultimo respiro e
noi, voyeur, stiamo a guardare.
12. Leonardo Bistolfi,
Tomba Fanny Lacroix,
1901-1905 c., Milano,
Cimitero Monumentale,
da Il Cimitero Monumentale
di Milano. Edicole funerarie
isolate e contro muro. Tombe,
C. Crudo & Co Soc. Italiana
di Edizioni Artistiche,
Torino, n.d.
325
Bistolfi nella sua tomba per Fanny Lacroix a Milano10
collegò il letto di morte di una giovane vergine con il
simbolo della rosa (fiore ambivalente che rappresenta
sia la Vergine sia la Passione carnale) (fig. 12). Una
parte delle migliori sculture liberty venne realizzata su
questo tema, spesso sviluppato verticalmente, se il
luogo lo richiedeva, ed esteso inoltre ai giovani uomini
e alla celebrazione dell’amore coniugale.
Quando la vergine non era circondata da rose sul letto
di morte, esse venivano richiamate altrove: in una delle
collaborazioni più proficue tra scultori e architetti
liberty, Edoardo Rubino scolpì delle rose nei capelli
della bella Amalia Porcheddu Dainesi (Torino, 1912)
mentre l’architetto Giulio Casanova basò il suo mosaico su un disegno ripetuto di rose stilizzate, molto simili
a quelle di Charles Rennie Mackintosh (i cui capolavori vennero esposti con grande successo a Torino e
Venezia a cavallo del secolo).11
Il tema venne esplicitamente utilizzato in pittura ed
esteso all’arte decorativa. Alcuni esempi possono essere
Lo splendore della forma
13. Quarantelli,
I Funerali di Legda,
da L’Artista Moderno,
Torino, 1907,
n. 7, p. 96
326
trovati nel periodico quindicinale “L’Artista Moderno”,
pubblicato a Torino dal 1905 e diffuso nelle scuole
d’arte, che dedicò particolare attenzione ai Pre-raffaelliti e ai modelli dell’Estetismo (fig. 13). In particolare il
periodo fu caratterizzato dal mescolarsi di molti stili e
tipi di manufatti. Il linguaggio delle sculture dei cimiteri spesso differiva molto poco da quello degli ornamenti architettonici delle città.
Le figure scolpite del monumento di Ferdinando Bocconi, alto venti metri, in marmo bianco, per la sua famiglia a Milano, avrebbero potuto facilmente decorare la
facciata del suo emporio. Il monumento venne eseguito
nel laboratorio di Carrara di Alessandro Lazzerini, un
artista che lavorava anche in proprio (fig. 14).
La Metamorfosi e la Vergine nella scultura liberty
15. Varie fonti dell’inizio
del XX secolo,
Esercizi per le classi
di Ornato, Massa,
Istituto d’Arte Palma
da gerarchia dei ruoli: il modellatore, l’autore e il realizzatore del modello, il bozzattore o cesellatore che
abbozza la statua in marmo usando il pantografo attraverso un sistema di punti, il decoratore (spesso specializzato in drappeggi, capelli, fiori ecc., esperto nell’uso
del violino), il rifinitore e colui che fonde il bronzo,
spesso esterno alla bottega.
Era cosa abituale per gli artisti come Bistolfi andare a Carrara per finire i propri lavori anche se fino a che punto
venissero aiutati è sempre stato oggetto di discussione.
In seguito alla crescita delle scuole di tecnica e arte
15a
Lo scultore e l’artigiano
L’economia di Carrara è sempre dipesa dai suoi laboratori di scultura dove da lungo tempo esisteva una rigi-
14. Orazio Grossoni,
Crocefisso del Monumento
Bocconi, 1901-1914,
Milano, Cimitero
Monumentale,
nel laboratorio di
Alessandro Lazzerini,
Carrara.
Collezione privata,
Carrara
15b
15c
15d
327
Lo splendore della forma
15e
La Metamorfosi e la Vergine nella scultura liberty
16. Luca Beltrami,
Giuseppe Mentessi,
Tomba della madre
di Mentessi, 1910,
già Cimitero Monumentale
di Milano, ora nel Cimitero
di Ferrara,
foto da Arte Funeraria
Italiana, serie V, tav. 10
328
329
alla fine del Diciannovesimo secolo, i ruoli degli artigiani, degli scultori, dei costruttori e degli architetti
divennero incredibilmente fluidi. L’istituto d’arte di
Massa (da dove provengono i documenti illustrati,
figg. 15 a-e) fu fondato prima del 1850 e venne riformato verso la fine del Diciannovesimo secolo, ma
materiale simile può essere trovato nelle scuole d’arte di Pietrasanta, Carrara e in ogni parte del nord
dell’Italia.
Il giovane apprendista intagliatore/scultore poteva ora
consultare le più recenti cappelle e sculture funerarie
in una serie di libri illustrati messi in vendita da case
editrici artistiche del nord Italia (Bestetti e Tuminelli,
Crudo & Co., Antonio Vallardi ecc.) (fig. 16). Le scuole d’arte stesse insegnavano non solo gli ornamenti
attraverso una serie di esercizi, ma introdussero anche
lo studio della storia degli stili.
Il decoratore preparato a quel punto era più che capace di realizzare monumenti funebri. Forse proprio a
causa di ciò, gli Scultori (con la S maiuscola), iniziarono per la prima volta a firmare i propri lavori dandosi
il titolo di “Professori”.
Come conseguenza della ripresa del Rinascimento e dell’influenza di Rodin, nel primo decennio del Ventesimo
secolo gli scultori italiani si stavano dedicando sempre
più a uno stile puramente figurativo e realista, lasciando
agli artigiani il campo della decorazione liberty.
La Natura e l’Arte erano giustapposte: non solo a livello teorico ma anche a livello pratico.
La vegetazione reale arrivò a giocare un ruolo fondamentale nello schema complessivo, ponendo oggi problemi conservativi di non poco conto. In molti casi è
iniziato un processo inverso di metamorfosi e la Natura ha rapidamente rivendicato il suo ruolo (fig. 17).
Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento
e Novecento: soggetti, biografie, virtù del ricordo
di Ornella Selvafolta
Lo splendore della forma
17. Leonardo Bistolfi,
Monumento a un
Eroe del Lavoro,
Tomba Angelo Giorello,
1907-1913, Montevideo,
Cimitero del Buceo
(foto Robert Freidus)
330
1
2
3
4
5
6
7
8
Corsivi miei. L. Bistolfi, lettera a Cobalto nella “Gazzetta del Popolo della
Domenica”, 10/11/1895.
Ibidem.
Corsivi miei. Lombroso, P., Artisti Contemporanei, Leonardo Bistolfi in
“Emporium”, gennaio 1899, pp. 2-17,
p. 12.
L. Bistolfi, Id.
Riprodotto in Berresford S. e Bossaglia
R., Bistolfi: 1859-1933: il percorso di
uno scultore simbolista, Piemme, Casale Monferrato 1984, p. 222.
Riprodotto in Berresford S. (ed.), A
Legacy of Love, Italian Memorial Sculpture 1820-1940, Frances Lincoln, London 2004, p. 195.
Per l’interpretazione di questo tema di
Bistolfi, vedere Signora Treves c. 1903
nel settore ebraico del cimitero
monumentale di Torino, Ripr. ibid. p.
232.
Per un’analisi più dettagliata di questa
e degli altri temi iconografici nelle
sculture funebri italiane della seconda
metà del Diciannovesimo secolo e dell’inizio del Ventesimo si veda Berresford, A Legacy of Love cit.
9
10
11
Il titolo originario dello scultore fu
invece “figura d’angelo che nasce da
un cespo di rose”.
Non più esistente. Simbolo dell’effimero (Rosa similfluori et statim perit),
le rose sono associate anche al mito di
Persefone e al ciclo della natura: si
dice che le prime rose rosse siano fiorite dal sangue di Adone, amante di
Afrodite ma anche di Persefone. Ciò ha
un significato sia pagano sia cristiano:
nel primo secolo a.C., al banchetto di
Rosalia, le tombe vennero ornate con
rose, ma la rosa rossa è anche il fiore
del sangue di Cristo, simbolo della
Passione e della Resurrezione, e venne
sparso sulle teste dei comunicandi alla
Pentecoste. Nel tardo Diciannovesimo
secolo sia la letteratura sia la pittura
di Stefan George e Alma Tadema avevano celebrato Eliogabalo che soffocò
fino alla morte nei petali di rosa;
anche d’Annunzio fu affascinato dalla
storia. Ashyxia del 1884 di Angelo
Morbelli mostra un presunto suicida in
mezzo a tante rose.
Riprodotto in Berresford, A Legacy of
Love cit., pp. 180-181.
Tra i molteplici aspetti che connotano l’arte funeraria,
un posto di rilievo spetta alla sua caratterizzazione in
senso identitario, cioè al rapporto che essa intrattiene
con i diversi soggetti sociali dei quali riflette le tipologie, le inclinazioni, le attività.1
Un esempio particolarmente calzante a tale riguardo è
rappresentato dai Modèles de marbrerie (figg. 1, 2) repertorio di manufatti in marmo a uso di artisti e artigiani,
uscito a Parigi attorno alla metà degli anni 1830, dove
tra caminetti e altari, pavimenti e piedistalli, vasi e
balaustre, compaiono anche le “appliques pour inscriptions de tombeaux”, vale a dire le “lastre” destinate alle
iscrizioni funerarie: una voce apparentemente poco
rilevante che non identifica propriamente i monumenti, bensì solo una loro porzione: ovvero gli spazi dove
apporre le scritte, i nomi, le date, gli eventuali epitaffi.2
L’autore Jean-Baptiste Bury precisa di voler fornire
suggerimenti a una branca dell’arte passibile di proficui risvolti commerciali. Poiché, egli sottolinea, “ci si è
dimenticati di dare alle iscrizioni delle tombe le forme
variate di cui esse sono suscettibili, e soprattutto di
331
Lo splendore della forma
1., 2. Différentes formes
d’inscriptions pour des
tombeaux, pyramides,
pierres, tumulaires, cippes,
ec., da Bury, Modelés de
Marbrerie, Bance Editeur,
Paris, s.d. (1835 ca.),
tav. 69 e tav. 71
332
imprimere loro un carattere di decorazione che richiami la vita del defunto, la sua situazione nella società, i
suoi motivi di speranza nella vita celeste, i rimpianti
che egli lascia dopo di lui”.3 In una parola, di fissare la
sua identità anche nelle campiture per le iscrizioni.
I trentadue modelli di “appliques” che affollano le ultime quattro tavole del volume, presentano quindi motivi in bassorilievo da scolpire sulle lastre a ricordo di un
musicista o di un pittore, di una madre o di un padre
di famiglia, di uno storico o di un istitutore, di un giudice o di un prelato, di un massone o di un architetto,
di un proprietario o di un negoziante, di un sergente
di polizia o di un guerriero illustre.4 Per tutti costoro
Bury ha inventato speciali raffigurazioni, ma, prima
ancora, ha dovuto vestire i panni del sociologo, per
determinare ruoli e professioni, stabilire analogie e differenze, interpretare gesti e costumi, estrapolare simboli ed emblemi, al fine di raffigurare, egli scrive, gli
“attributi analoghi al lavoro, alla posizione sociale, ai
ricordi che ciascuno ha potuto lasciare”.5
Con risultati forse artisticamente poco rilevanti, ma storicamente di grande interesse, Bury compie un affondo
nella Francia della prima metà del secolo mostrandoci
la madre di famiglia con gli attrezzi del lavoro domestico femminile (le forbici, la conocchia, il filo); il commerciante tra cornucopie e medaglie dei quattro continenti; l’istitutore vegliato dallo sguardo acuto e sapiente delle civette; l’architetto con gli strumenti del disegno dai quali affiora la pianta di un edificio a metà tra il
Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento
Pantheon e la rotonda di Palladio; l’esiliato per cui il
cane aspetta fedele sotto un salice piangente; fino al
generale-legislatore in allusione esplicita a Napoleone,
al suo trono e all’epica delle sue campagne vittoriose.
Tutto questo entra in sintonia anche con diverse testimonianze letterarie sui cimiteri e, in particolare, con il
Père-Lachaise descritto da Balzac negli stessi anni dei
Modèles de marbrerie come doppio della città: luogo eterogeneo e inclusivo che è riflesso della grande Parigi e
ammette tutte le “coloriture” del tessuto sociale con la
sua trama di identità e differenze.6
È bene d’altronde ricordare che fin dalle disposizioni
dell’editto di Saint-Cloud (1804), vigente in Italia dal
1806, era stata prevista una prima classificazione delle
sepolture comprendente sì fosse comuni e tombe tutte
uguali, ma anche “posti distinti in concessione”, ammettendo una forma di possesso individuale e di personalizzazione dei monumenti.7 Così che, nonostante le famose invettive di Ugo Foscolo ne I sepolcri (1807) contro la
legge che contendeva “il nome a’ morti”, l’editto non
aveva proibito le sepolture personalizzate, né aveva
impedito l’erezione di quei segni della memoria considerati in grado di suscitare pensieri elevati, di mantenere gli affetti, di tramandare il ricordo dei defunti e di
risarcire del dolore della perdita.8
Testimonianza significativa è il monumento per Francesca Galbiati, eretto a Milano nel cimitero pubblico di
San Rocco nel 1820: quarant’anni prima, quindi, dell’apertura del Cimitero Monumentale.9 Per la moglie
Francesca, Domenico Angiolini commissiona un progetto di monumento all’architetto-scenografo Paolo
Landriani e prepara un’epigrafe che trasmette i tratti
essenziali di una biografia al femminile: si parla di una
giovane bella e virtuosa, morta di parto a vent’anni alla
quale il marito rende omaggio non dimenticando di
qualificarsi come avvocato, cioè nella rispettabilità
della sua professione e del suo status.10 Egli fa poi pubblicare a proprie spese un’incisione del monumento
(fig. 3) corredandolo di un testo esplicativo dove il
senso dei sepolcri connesso alla memoria di vite illustri
trasmigra in questo caso a quello di un’esistenza condotta nella normalità del quotidiano, ispirato dallo
333
Lo splendore della forma
3. Fuori di Porta Romana nel
Camposanto. Monumento a
Francesca Galbiati,
incisione, 1820. Milano,
Civica Raccolta di Stampe
Achille Bertarelli
334
stesso intento di “tramandare […] con opere durevoli
alla memoria dei posteri le domestiche virtù di quell’esimia Donna”.
“Opere durevoli” per eternare “le virtù” dei propri
morti: è qui, in fondo, che si concentrano le principali
istanze dell’arte funeraria, la cui rapida crescita nei
cimiteri, proprio a partire dai primi decenni del secolo
XIX, è, come ben sappiamo, anche il segno di una
nuova forma di affettività verso i defunti e verso se stessi: di una maggiore coscienza di sé e del rapporto che
si instaura tra le persone, la storia e il destino. Tanto
che i cimiteri, dove tale rapporto si compone e acquista il senso dell’estremo approdo, rivelano attraverso le
sepolture un legame spesso esplicito tra la morte e le
biografie dei singoli come se, paradossalmente, il
decesso diventasse il momento in cui le particolarità di
ciascuna vita appaiono in piena luce.
Negli stessi anni, quando le piazze d’Italia accoglievano
i monumenti destinati agli eroi, ai patrioti, ai politici, ai
Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento
4. Luigi Strazza,
Monumento Francesco
Lucca, 1876, Milano,
Cimitero Monumentale
(foto F. Papetti, 2006)
letterati e agli artisti, le cui effigi e le cui esistenze dovevano contribuire a illustrare e costruire l’identità del
paese, molte sepolture ne ripetevano così gli schemi
per celebrare le virtù di singoli percorsi biografici, attraverso la narrazione più o meno esplicita delle professioni, delle attività e dei contesti.11
È il caso, nel Cimitero Monumentale di Milano, della
sepoltura per Francesco Lucca (dello scultore Giovanni
Strazza, datata 1876) (figg. 4, 5) a ricordo di un’interes-
335
5. Luigi Strazza,
Monumento Francesco
Lucca, 1876, Milano,
Cimitero Monumentale,
dettaglio di un’epigrafe
(foto O. Selvafolta, 2006)
Lo splendore della forma
336
sante figura di editore musicale che, da semplice operaio della Ricordi, era arrivato a fondare un proprio stabilimento e acquisire grande notorietà soprattutto quale
sostenitore della musica di Wagner.12 A lui la moglie Giuseppina Strazza dedica un monumento che, per la struttura compositiva e gli aspetti formali della celebrazione,
potrebbe agevolmente stare in una piazza cittadina:
Francesco Lucca, “esempio all’operajo e al facoltoso”, è
raffigurato seduto in poltrona sotto la quale si impilano i
libri (sul dorso di un volume si legge il titolo Lohengrin);
ai suoi piedi quattro amorini raffigurano lo “Studio”, la
“Composizione”, la “Musica” e la “Riconoscenza”, mentre le epigrafi si infittiscono in una sorta di accanimento
letterario volto a celebrarne la vita operosa.
La sua biografia in ascesa sembra uscita dalle pagine di
Volere è potere del naturalista ed educatore Michele Lessona, pubblicato nel 1869 e costruito attorno alle vite
esemplari di quegli italiani che, partiti da condizioni
sfavorevoli, erano approdati ai vertici della gerarchia
sociale. Manifesto del self-help italiano, lo scritto aveva
propugnato l’etica del lavoro e della perseveranza, della
determinazione e dell’integrità quali agenti principali
della propria fortuna, diventando un punto fermo della
pedagogia post-risorgimentale.13
Nelle sue pagine trova posto anche un personaggio
come Ambrogio Binda, nato poverissimo, orfano a soli
sette anni, divenuto un facoltoso industriale che assommava le virtù dell’“intelligente operaio, attivo imprenditore, onesto commerciante, cittadino integrerrimo”.14
6. Metello Motelli,
Monumento
Ambrogio Binda,
1876 Milano,
Cimitero Monumentale
(foto O. Selvafolta, 2006)
Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento
7. Luigi Panzeri,
Monumento Eugenio
e Luigi Villoresi, Milano,
Cimitero Monumentale,
1904, veduta con la diga
e l’edificio di presa sul Ticino
(foto O. Selvafolta, 2006)
337
Per la sua sepoltura al Monumentale di Milano l’artista
Metello Motelli (fig. 6) scolpisce nel 1876 un bassorilievo dove la figura del defunto, al centro di due gruppi
simmetrici, riceve l’omaggio degli operai e delle loro
famiglie, rifacendosi ai modelli della composizione classica, ma attualizzando i rituali dell’onore, della riconoscenza e del serto di alloro, nell’accenno al lavoro e agli
ambienti di fabbrica, ai condotti e alle cinghie di trasmissione che muovevano i macchinari dei grandi stabilimenti Binda: bottonifici e cartiere considerati capisaldi del tessuto produttivo milanese pre-unitario e avamposti della successiva, intensa, industrializzazione.15
I meriti legati all’imprenditorialità e a un fortunato
Lo splendore della forma
338
accumulo di ricchezze sono certamente tra i più rispettati ed esibiti, sia attraverso i ritratti onorifici dei defunti e le lunghe epigrafi dedicatorie, sia attraverso la raffigurazione del lavoro, sia attraverso gli effetti benefici
sul tessuto sociale. Questi possono esprimersi negli
atteggiamenti caritatevoli del defunto o nel tributo che
a lui recano figure emblematiche che, al di là delle singole biografie, rispondono anche a una sorta di omologazione nelle forme della memoria e rivelano una
regola non scritta, tuttavia operante, di rispettabilità
sociale e professionale basata sull’attività e sulla concretezza dei risultati raggiunti.16
La figura del lavoratore agricolo, in un paese in cui
contemporaneamente ai processi di industrializzazione permangono i valori contadini, è presenza ricorrente e trova anche specifica destinazione nei monumenti che onorano gli autori di interventi tecnici sul
territorio: al Verano di Roma un contadino con la
falce esprime riconoscenza all’ingegnere Alessandro
Brisse (scultore Arnaldo Zocchi, 1894) che era riuscito
nella difficile impresa della bonifica del lago Fucino;17
mentre a Milano lo scultore Luigi Panzeri (nel 1904)
(fig. 7) sceglie a sua volta un vecchio contadino per
ricordare gli ingegneri idraulici Eugenio e Luigi
Villoresi, artefici di importanti lavori di riassetto territoriale e del canale di irrigazione chiamato con il loro
nome che, derivando le acque dal Ticino e dal lago
Maggiore, aveva recato grande vantaggio all’agricoltura dell’alto milanese. 18 Entrambi i monumenti, di
Roma e Milano, onorano insigni ingegneri attraverso i
risultati della loro opera e, nello stesso tempo, rimandano alle grandi opere territoriali dell’Italia post-unitaria e all’emergere dei saperi pratici e delle professioni tecniche tra gli attori della costruzione nazionale.
Nel monumento Villoresi si va però oltre l’evocazione e la
raffigurazione simbolica, rappresentando una situazione precisamente ancorata al tempo e allo spazio. Il
monumento costituisce infatti un’efficace sintesi interpretativa del canale Villoresi e del paesaggio tecnico da
lui generato: dall’alto al basso si legge il percorso che,
captando l’acqua mediante la grande diga di sbarramento sul fiume evidenziando l’edificio di presa al
Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento
8. Enrico Butti, 1912,
Edicola Besenzanica,
modello in gesso,
Milano, Archivio
del Cimitero Monumentale
9. Enrico Butti,
Edicola Besenzanica,
1912, Milano,
Cimitero Monumentale
(foto F. Papetti 1995)
Panperduto, giunge alle bocche di derivazione e si
dirama nelle campagne fino ad arrivare alla piccola
chiusa della roggia di irrigazione nel campo del contadino, in una sorta di sistema a caduta che porta benefici a tutti e a tutte le scale territoriali.
Il rapporto con la terra e, per traslato, il lavoro agricolo,
si rivela un modo durevole di rappresentare e insieme
omaggiare l’operosità dei defunti. Nei Modèles de marbrerie per la tomba di un non meglio precisato “lavoratore”
era stata prevista l’immagine di un contadino e dei buoi
all’aratro, secondo un’iconografia che appare quindi in
grado di attraversare le epoche e le espressioni artistiche.19 In tutt’altro contesto un esempio eclatante è rappresentato dalla famosa sepoltura milanese dell’impresario edile Gaetano Besenzanica (1912), dove lo scultore
Enrico Butti (figg. 8, 9) sceglie di rappresentare il lavoro
senza riferimenti specifici all’attività del defunto. La sua
storia individuale di costruttore è infatti assorbita nella
sfera di una storia universale che, secondo le intenzioni
e spiegazioni stesse dell’artista, si riassume nell’idea del
“soffio vitale della Natura” che anima costantemente l’esistenza, l’attività, la fatica dell’uomo e imprime il suo
vigore ai contadini e ai buoi intenti ad arare. È quindi il
lavoro nella sua “manifestazione primigenia” a contatto
con la terra-madre a essere onorato.20
E non è forse un caso che nello stesso cimitero milanese si riscontrino intenzioni non dissimili nell’edicola
progettata nel 1940 dall’architetto Piero Portaluppi per
Umberto Girola (fig. 10), a sua volta costruttore edile,
famoso per la realizzazione di edifici civili e industriali,
grandi infrastrutture territoriali e centrali idroelettriche. Le scritte in rilievo sulla facciata raccontano di un
339
Lo splendore della forma
10. Piero Portaluppi,
architetto,
Edicola Girola,
modello del progetto,
1940, Milano,
Cimitero Monumentale.
Fondazione
Piero Portaluppi, Milano
340
costruttore capace di dominare le acque per moltiplicare la folgore (cioè per produrre energia elettrica),
ma le sculture rappresentano da un lato un minatore e
dall’altro un contadino all’aratro, entrambi legati alla
terra, associando quindi l’epica delle grandi trasformazioni tecnologiche ai luoghi più archetipi e le fatiche
del lavoro ai gesti più antichi.21
Tra le virtù ottocentesche più rappresentate vi sono
quelle della famiglia, vero e proprio articolo di fede per
la borghesia in ascesa, e sorta di “emblema totale” per
un secolo evoluzionista che affida la sua durata anche
al concatenarsi delle generazioni. Non si possono
dimenticare a questo proposito i numerosi monumenti
dove i congiunti si raccolgono attorno al letto del moribondo, raccontandoci primariamente l’identità e la
solidarietà di un gruppo e affermando nel marmo il
carattere perenne del clan.
Uno dei più famosi è il monumento Carlo Raggio dello
scultore Augusto Rivalta nel cimitero di Staglieno
Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento
(1872) dove la raffigurazione dettagliata di uomini e
cose intende fissare nell’intensità del vero il momento
più difficile e angoscioso dell’esistenza e nello stesso
tempo traduce in termini visivi il senso della stirpe.22
Sono documenti preziosi che non solo attestano lo
stato dell’arte, ma recano anche straordinarie testimonianze della cultura materiale, dei costumi e dei riti
sociali connessi al cerimoniale di una morte che Philippe Ariés, in Storia della morte in occidente, ha definito
“addomesticata”, osser vando che nel secolo XIX il
decesso avviene quasi sempre in casa, riservando l’ospedale a chi è privo di denaro, di famiglia e di affetti e
considerando le stesse cliniche, seppure destinate alle
classi abbienti, aridi luoghi d’esilio.23
A partire dalla raffigurazione di Carlo Raggio attorniato dai famigliari si possono avviare anche alcune considerazioni sulle derivazioni dai modelli, sulla loro persistenza, trasformazione, rinnovamento. 24 Proprio il
tema del letto di morte è iconografia che ha alle spalle
un lungo percorso: dalle Kline nelle Necropoli etrusche, dalle figure adagiate sui sarcofagi rinascimentali,
dai catafalchi degli apparati funebri barocchi esso
approda nell’Ottocento al “letto di casa”. Trova una
pregevole e famosa declinazione tra il 1837 e il 1843
nel monumento funebre per la contessa Sofia Zamojska
in Santa Croce a Firenze di Lorenzo Bartolini, dove il
letto en désordre, i lineamenti emaciati e sofferenti, l’espressione tranquilla, presentano uno straordinario
amalgama di classicismo e verismo che ispirerà numerose derivazioni, irradiandosi dalle pareti della chiesa
fiorentina ai porticati e ai campi aperti dei cimiteri.25
Tra le più belle di fine Ottocento è la sepoltura
apprestata dallo scultore Enrico Butti a Milano per
Isabella Casati (figg. 11, 12), morta di parto nel 1890:
un’opera d’arte che va ben oltre il dettato verista per
accogliere le maggiori raffinatezze di forme e significati del simbolismo, così da sublimare il trapasso nel
sogno e la morte nella bellezza. Ma i cuscini e i drappeggi delle coperte suggeriscono comunque che l’evento tragico ha avuto luogo tra le pareti domestiche;
e, del resto, la concezione della morte non è affatto
slegata da quella dell’abitazione.26
341
Lo splendore della forma
Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento
12. Enrico Butti,
Monumento Isabella Casati,
1890, Milano,
Cimitero Monumentale
(foto F. Papetti 1995)
11. Enrico Butti,
Monumento Isabella Casati,
1890, Milano,
Cimitero Monumentale
(foto F. Papetti 1995)
342
“Ti fabbricai la stanza del riposo” aveva scritto l’avvocato Antongini a proposito del monumento funebre per
la moglie Francesca e basta leggere i galatei domestici
e persino certi repertori di arredamento del secondo
Ottocento per trovare frequenti accenni alla camera da
letto, non solo come spazio del riposo e dell’intimità
affettiva, ma anche come quel “santuario”, dove si compie il miracolo della vita e dove “un giorno si offrirà
riparo all’agonia”.27
Questa sfera intima e familiare così presente nella cultura del secolo, ha modo di esprimersi appieno nella
raffigurazione dei personaggi femminili. Se l’identità
maschile si costruisce soprattutto sulla competenza professionale, l’ideologia politica, il gruppo sociale di
appartenenza: in altri termini, su una rete di rapporti
pubblici e con il mondo esterno, l’identità femminile
appartiene infatti quasi esclusivamente al privato e alle
prospettive dell’interno domestico. L’identità positiva
che viene riconosciuta alle donne è soprattutto quella
di mogli e di madri, ed è in base a questi ruoli virtuosi
che vengono ricordate e onorate nei testi delle epigrafi.
Esse sono d’altronde le custodi di una morale privata
che si affianca alla morale pubblica maschile e ne costituisce, per così dire, il lato complementare in termini
psicologici e di manifestazione dei sentimenti. Alle
donne spetta il compito di elaborare il lutto e, quindi,
di svolgere un ufficio significativo nell’equilibrio dei
sentimenti; poiché se agli uomini, tranne poche eccezioni, è concesso di porsi davanti alla morte in atteggiamenti di composto cordoglio o di profonda meditazione, alle donne è invece permesso di esprimere tutta la
traiettoria delle emozioni legate al dolore: la pietà, la
tristezza, l’afflizione, lo sconforto, la disperazione.
Anche il dolore appare quindi come il portato dell’educazione e in quanto tale si addice maggiormente alle sepolture dominate dalle espressioni, dai gesti e posture delle
figure femminili. Il loro diverso atteggiarsi avrà nel corso
del secolo XIX un andamento in crescendo leggibile nei
monumenti attraverso le trasformazioni subite dalla
“dolente”: una delle più diffuse iconografie funerarie.
All’origine sta un modello alto, anzi, il modello per
eccellenza: la stele Volpato di Antonio Canova, in Santi
Apostoli a Roma, datata 1807: lo stesso anno della pubblicazione de I Sepolcri e forse il monumento più in sintonia con il tributo foscoliano alla memoria e all’eredità degli affetti. La donna seduta in triste meditazione
davanti al cippo su cui posa il ritratto del defunto è
stata matrice di moltissime derivazioni a opera dello
stesso Canova e di altri più o meno noti e valenti sculto-
343
Lo splendore della forma
13. Gaetano Matteo Monti,
Monumento Ottaviano Tosio
Avogadro, 1854, Brescia,
Cimitero Vantiniano (da V.
Vicario, La scultura bresciana
dell’Ottocento, Cremona 1995)
14. François-Dominique
Milhomme, Monumento
Pierre Gareau, 1815, Parigi,
Cimitero Pére-Lachaise (da A.
Le Normand-Romain, Mémoire de marbre , Paris 1995)
344
ri al Pére-Lachaise come a Staglieno, a Verona e al Vantiniano di Brescia. Interessante in quest’ultimo il
monumento per Tosio Avogadro dello scultore Gaetano
Matteo Monti (1852) (fig. 13): una replica tarda che,
pur in adesione all’iconografia classica, mostra un sensibile cambiamento rispetto alla scarna scena canoviana, rarefatta, intellettuale, trascendente la particolarità
dell’evento luttuoso. Monti addensa invece i rimandi
simbolici (le muse, i fiori e frutti del papavero), infittisce le pieghe delle vesti, arricchisce il cippo di bassorilievi, aggiunge colonnette e poggiapedi, entra nel dettaglio del sedile, allunga il testo dell’epigrafe. Il gusto
più analitico e circostanziato che esso manifesta è già il
sintomo del legarsi delle emozioni a una dimensione
più personale, quindi del loro intensificarsi e, in nuce,
del loro maggiore esibirsi agli sguardi.
Dalla compostezza neoclassica che nel 1815 possiamo
ancora trovare al Père-Lachaise sulla tomba di Pierre
Gareau dello scultore François-Dominique Milhomme
(fig. 14), si arriva nel 1892 al compianto estremo per il
15. Domenico Trentacoste,
Monumento AlexandreEmile Herbillon, 1892
(da A. Le Normand-Romain,
Mémoire de marbre,
Paris 1995)
Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento
16. Angelo Galli,
Monumento
Paolina Piantelli Canfori,
Milano, Cimitero
Monumentale 1919
(foto F. Papetti, 1995)
colonnello Herbillon nel cimitero di Montmartre (a opera
dello scultore Domenico Trentacoste) (fig. 15) o all’afflizione ultima della tomba Piantelli Canfori (fig. 16) del
1919 al Monumentale di Milano: il dolore ha progressivamente acquisito un’espressione fisica, si piega in
posture drammatiche quasi teatrali, come se la figura
della dolente si sia infine scossa dal suo pianto controllato per soccombere alla disperazione senza speranza,
alla prostrazione assoluta, all’annientamento.28
Soltanto alle donne è dato esprimere tanta angoscia, e
anche per questo diventano soggetto prediletto dell’arte. Gioca a loro favore la possibilità di indagare un
ampio spettro di sentimenti che dalla rassegnazione
giunge alla desolazione più cupa, nonché di dare forma
a una suggestione estetica della morte intrisa di bellezza
e di abbandono sensuale. Le sepolture dove domina la
figura femminile spesso non raccontano molto sulle loro
identità individuali, ma raccontano parecchio sull’identità della donna nel secolo scorso, sul suo ruolo nella
famiglia e nella società, sui rapporti di potere tra i sessi.
Come vedove, ed è questo uno dei ruoli femminili più
rappresentati, le donne piangono la perdita dei loro
consorti e ne custodiscono i sepolcri; come madri, in
un’epoca segnata da un’alta mortalità infantile, devono
soggiacere anche al dolore insopportabile della perdita
dei figli. Non c’è nessuna morte che, come questa,
esprima la fragilità della vita e la crudeltà del fato; la
culla vuota che era stata preparata per il bimbo Emilio
Rigamonti (fig. 17) al Monumentale di Milano è uno dei
più bei monumenti che rappresentano lo sgomento e la
345
Lo splendore della forma
Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento
19. Monumento Mario Piva,
1913, Milano,
Cimitero Monumentale
(foto O. Selvafolta, 2006)
17. Ernesto Bazzaro,
“La culla vuota”, Monumento
Emilio Rigamonti,
1890, Milano, Cimitero
Monumentale
(foto F. Papetti 2006)
346
stupefazione davanti all’assenza da parte di una giovane
donna che solo uno scultore anticonvenzionale come
Ernesto Bazzaro sa mostrare senza lacrime; mentre il
monumento Falconi Negri dello scultore Alessandro Lafôret (fig. 18) del 1906 esprime in altro modo, ma con
altrettanta intensità, lo strazio di un ultimo abbraccio.29
Se per i bimbi domina la commozione, per le giovani
esistenze che già hanno espresso aspirazioni, desideri e
progetti, domina spesso il rimpianto. Il desiderio di
18. Alessandro Lafôret,
Monumento Adelaide
Falconi Negri, dettaglio,
1906, Milano,
Cimitero Monumentale
(foto O. Selvafolta 2006)
ricordare e l’attitudine alla narrazione che contrassegna il XIX secolo fanno qui progressivamente abbandonare la simbologia allegorica (si pensi alla colonna
spezzata) per raffigurare invece ambiti riconoscibili di
pensieri e azioni. Nel Monumentale di Milano i genitori del giovane ingegnere Mario Piva (1913) precisano che
egli aveva collaborato per cinque anni con l’Azienda
elettrica municipale e lo fanno rappresentare mentre
medita progetti di impianti idroelettrici sullo sfondo di
uno scenario alpino (fig. 19), mentre i genitori di
Milan Mitzko Conforti (1919, scultore Attilio Prendoni)
raccontano il sogno del figlio di diventare medico nelle
scene di cura ai malati e nel disegno di un ospedale
modello che sarebbe stata sua ambizione realizzare30
(fig. 20). Attraverso la rappresentazione dei ruoli che i
due giovani avrebbero ricoperto nella società, si prolunga la loro esistenza, la loro personalità si rafforza e
il ricordo si intensifica nella sfera del desiderio.
Presentando la sua raccolta senza pretese di modelli in
marmo Bury aveva sottolineato che essi mostravano gli
emblemi di identità reali e di identità ideali: di quelle
cioè che si “possono richiamare alla mente”.31 E che,
proprio per questo, potevano meglio assolvere alla funzione della memoria proiettando le circostanze transitorie dell’esistenza nello spazio sempre presente dell’immaginazione: là dove, aveva affermato Goethe “la
vita dopo la morte può ben apparire una seconda vita,
alla quale si giunge attraverso un’immagine, attraverso
un’epigrafe e in cui si indugia più a lungo che nella
vita da vivi”.32 È un brano delle Affinità elettive, scritto
347
Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento
Lo splendore della forma
9
20. Attilio Prendoni,
Monumento Milan Mitzko
Conforti, 1919, Milano,
Cimitero Monumentale
(Foto O. Selvafolta, 2005)
10
11
348
tra il 1808 e il 1809, all’indomani dell’editto di SaintCloud e all’indomani de I Sepolcri, appena all’inizio
dello straordinario sviluppo dell’arte funeraria.
1
2
3
Alcune considerazioni in questo senso
sono già state sviluppate da chi scrive
in Identità pubblica e identità privata
nei cimiteri dell’Ottocento, in Baroni R.
(a cura di), Sette racconti ottocenteschi. Percorsi tra arte e storia del XIX
secolo, Museo Bagatti Valsecchi, Milano, 1997, pp. 31-46.
Cfr. Bury, Modelés de Marbrerie, Bance
Editeur, Paris, s.d. [1835 ca.]. Il sottotitolo recita: Recueil d’ouvrages relatifs
aux Arts et Métiers dans lesquels on
trouve tout ce qui peut être utile aux
Architectes et Ingénieurs, aux Entrepreneurs des bâtiments, aux Ornementistes, aux Peintres et aux Sculpteurs,
aux Menuisiers, Serruriers, Marbriers,
Peintres de décorations, aux Orfèvres,
Bijoutiers, etc., etc.
Ibidem, p. 16.
4
5
6
7
8
Si vedano in Ibidem le tavv. da 69 a 72,
raggruppate sotto il titolo Différentes
formes d’inscriptions pour des tombeaux, pyramides, pierres, tumulaires,
cippes, etc.
Ibidem, p. 16.
Cfr. soprattutto il romanzo Ferragus¸
primo del ciclo Histoire des Treize
(1833); edizione utilizzata: Balzac, La
Comédie humaine, vol. V, Bibliothèque
de la Pléiade, Paris 1977, pp. 897-898.
Cfr. per l’editto di Saint-Cloud, Bertrand R., La nouvelle législation funéraire, in Le Père-Lachaise, a cura di
Healey, C. Bowie, K. Bos, A., Paris,
Action Artistique de la Ville de Paris,
1998, pp. 57-60. La disposizione per le
sepolture private si trova all’articolo 10.
Per la questione foscoliana e il significato de I Sepolcri, cfr. il recente Dei
12
13
14
sepolcri di Ugo Foscolo, a cura di G.
Brabarisi e W. Spaggiari, Atti del convegno, “Quaderni di Acme”, n. 80,
Milano 2006.
Si ricorda che prima della costruzione
del Cimitero Monumentale (aperto alle
inumazioni nel 1866), Milano disponeva di sette cimiteri ubicati fuori della
cinta dei Bastioni in corrispondenza
delle porte di entrata in città; cfr.
Tedeschi, C., Origini e vicende dei Cimiteri di Milano e del servizio mortuario,
Milano, Giacomo Agnelli, 1899. Per il
monumento Galbiati (non più esistente) cfr. l’incisione corredata di testo
Fuori di Porta Romana nel Camposanto.
Monumento a Francesca Galbiati,
Paolo Landriani inv., Sergent Marceau
inc. 1820, Gioacchino Guelfi scolpì in
marmo. Acquatinta, Pirola, Milano,
1820. Milano, Civica Raccolta di Stampe Achille Bertarelli.
Fuori di Porta Romana cit.: “Qui di
Francesca Galbiati donna per forme e
per virtù da suoi tutti desiderata cui
prima prole nascendo tolse sul quarto
lustro la vita, l’avvocato Domenico
Angiolini marito dolentissimo pose le
amate spoglie l’anno 1818”.
Per le piazze, i monumenti, la celebrazione dell’identità e delle glorie nazionali, rimando agli studi di M. Isnenghi,
tra i quali L’Italia in piazza. I luoghi
della vita pubblica dal 1848 ai giorni
nostri, Mondadori, Milano 1994. Cfr.
inoltre Fantasmi di bronzo, Torino,
Marteno, 1978; Corgnati, M., Mellini,
G., Poli, F. (a cura di), Il lauro e il bronzo. La scultura celebrativa in Italia
1800-1900, catalogo della mostra,
s.n., Torino, 1990; per Milano: Petrantoni, M. (a cura di), Memorie nel bronzo e nel marmo, Milano, Federico
Motta, 1997.
Ginex, G. e Selvafolta, O., Il Cimitero
Monumentale di Milano. Guida Storico
artistica, Milano, Silvana Editoriale,
19961, p. 104.
Cfr. Lessona, M., Volere è potere, Firenze, G. Barbera, 1869; il volume ebbe
ben quattordici edizioni; mi riferisco
qui alla ristampa anastatica (Roma,
Studio Tesi, 1990). Il testo di Samuel
Smiles basato sulla teoria del Selfhelp (1859) fu tradotto in italiano nel
1865 (titolo Chi s’aiuta il ciel l’aiuta) e
vendette 150.000 copie.
Ambrogio Binda, in Lessona, M., Volere
è potere cit., pp. 339-348.
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
Ginex, G. e Selvafolta, O., Il Cimitero
Monumentale cit., p. 30. Per gli stabilimenti cfr. Ambrogio Binda e C. Cartiera, Ambrogio Binda. Fabbrica di Bottoni, in Trevisani, E, Rivista Industriale e
Commerciale di Milano e Provincia,
Milano, Stabilimento Tipografico Cesana, 1894, pp. 36-39.
Sulle forme di omologazione della
memoria in base a criteri stabiliti dalla
società, cfr. gli studi di M. Halbwachs,
tra i quali La memoria collettiva, nuova
edizione critica a cura di P. Jedlowski e
T. Grande, Milano, Unicopli, 2001.
Per il monumento Brisse, Cfr. Berresford, S., Italian Memorial Scupture,
1820-1940. The Legacy of Love, London, Frances Lincoln, 2004, p.119. Per
la bonifica del Fucino, cfr. Parisi, R. e
Pica, A., L’impresa del Fucino. Architettura delle acque e trasformazione
ambientale nell’età dell’industrializzazione, Napoli, Athena, 1996.
Per il monumento Villoresi, cfr. Ginex,
G. e Selvafolta, O., Il Cimitero Monumentale cit., p. 130. Per l’opera idraulica dei Villoresi cfr. P. Morachiello,
Ingegneri e territorio nell’età della
Destra (1860-1875), Officina, Roma
1976, il capitolo I canali per l’irrigazione dell’alta Lombardia, pp. 114-151.
Bury, Modelés de Marbrerie cit., tav. 69.
Cfr. Ginex, G. e Selvafolta, O., Il Cimitero Monumentale cit., pp. 58-59.
Ibid. p. 143. Sull’attività costruttiva di
Umberto Girola cfr. Selvafolta, O., “Fulgura multiplicavit”: le centrali idroelettriche di Ettore Conti, Umberto Girola e
Piero Portaluppi, in Giorgi, A. e Poletti,
R. (a cura di), Accoppiamenti giudiziosi.
Storie di progettisti e costruttori, Milano, Skira, 1995, pp. 23-63.
Per questo specifico monumento, ma
soprattutto per Staglieno e per la scultura funeraria nel suo insieme, cfr. lo
studio fondamentale di Sborgi, F., Staglieno e la scultura funeraria ligure tra
Ottocento e Novecento, Artema, Torino,
1997 (monumento Raggio p. 125).
Ariès, Ph., Storia della morte in occidente. Dal Medio Evo ai giorni nostri,
Milano, Rizzoli, 1978.
Anche su questi temi sono fondamentali gli studi di Franco Sborgi, si veda
in particolare in Staglieno e la scultura
funeraria cit., il capitolo La diffusione
di un modello al di fuori dell’ambito
regionale, pp. 319-339; e Id., Alcune
note sulla diffusione della scultura ita-
349
Sacrari e ossari italiani della Prima guerra mondiale
di Guido Zucconi e Anna Maria Fiore*
Lo splendore della forma
25
26
27
28
350
liana tra fine Ottocento e inizi Novecento, in Mozzoni L. e Santini, S. (a
cura di), L’architettura dell’Eclettismo.
La diffusione e l’emigrazione di artisti
italiani nel Nuovo Mondo, Atti del Convegno Internazionale, Jesi 1998, Liguori Editore, Napoli 1999, pp. 159-202.
Cfr. Sborgi, F., Staglieno e la scultura
funeraria cit., pp.125-127; cfr. inoltre.
De Micheli, M, La scultura dell’Ottocento, Torino, Utet, 1992, il paragrafo
sulle opere di Lorenzo Bartolin: “La
fiducia in Dio” e il monumento alla
contessa Zamojska, pp. 70-74.
Ginex, G. e Selvafolta, O., Il Cimitero
Monumentale cit., pp. 49-50.
La citazione si riferisce a uno scritto
del 1875 dell’abate francese Chaumont
ed è riportata, senza altra indicazione,
da Martin-Fuger, A,. I riti della vita privata nella borghesia, in Perrot, M. (a
cura di), La vita privata. L’Ottocento,
Bari, Laterza, 1988, p. 205. Per i galatei, cfr. Botteri, I., Nuovi e buoni comportamenti nei galatei ottocenteschi
italiani, in Sette racconti ottocenteschi
cit. pp. 19-30.
Il tema della stele Volpato e delle sue
29
30
31
32
33
34
diverse derivazioni è ampiamente trattato dalla storia della scultura; per le
considerazioni e gli esempi apportati
in questo saggio, cfr. soprattutto Le
Normand-Romain, A., Mémoire de
marbre. La sculpture funéraire en France de 1804 à 1914, Paris, Bibliothèque
historique de la Ville de Paris, 1995,
pp. 142-145.
Alla concezione del monumento partecipa anche il pittore Luigi Basiletti, cfr.
Terraroli, V., Il Vantiniano. La scultura
monumentale a Brescia tra Ottocento e
Novecento, Brescia, Grafo Edizioni,
1990, pp. 65-66.
Per i due monumenti parigini cfr. Le
Normand-Romain, A., Mémoire de
marbre cit, pp. 144-146, 160; per il
monumento Piantelli Canfori del Cimitero Monumentale, cfr. Ginex, G. e Selvafolta, O., Il Cimitero Monumentale
cit., p. 125.
Ibidem, pp. 105-106, p. 98.
Ibidem, p. 192.
Bury, Modelés de Marbrerie cit., p. 16.
Goethe, J.W., Le affinità elettive (1809),
trad. di Cusatelli, G., Garzanti, Milano
1975, p. 151.
I monumenti ai caduti dopo il 1918
Il tema del monumento ai caduti si configura in Italia
secondo una cronologia legata agli eventi nazionali: le
guerre risorgimentali prima, il grande conflitto mondiale poi. In quest’ultimo contesto, con maggior vigore, il tema del sacrario si afferma dinnanzi all’opinione
pubblica nazionale come oggetto di alto contenuto
artistico e simbolico.
È soprattutto durante il ventennio fascista che emerge
l’aspirazione a inserire il monumento commemorativo
in un sistema di rappresentazione unitario: un codice
comune che intende evocare una serie di riferimenti
condivisi su base nazionale.
Già nella torre ottocentesca di San Martino della Battaglia, l’apporto delle diverse località italiane all’unificazione nazionale doveva essere riassunto in un’anagrafe
dei caduti, divisa per province e per comuni.
Non era dunque nuova l’idea di rappresentare globalmente lo sforzo sostenuto dalla comunità nazionale,
articolandolo secondo precise partiture geograficoamministrative.
351
Lo splendore della forma
352
In Italia come altrove, soltanto dopo il 1918 il modo di
rappresentare il sacrificio dei soldati riesce a essere realizzato nell’ambito di un intero sistema territoriale. Per
arrivare a questo obiettivo, il culto dei caduti in guerra
doveva però perdere quel carattere selettivo e, in parte
individuale, che aveva avuto fino a quel momento; la
mise en scène della terribile ecatombe doveva essere
corale e generalizzata in ognuno dei paesi coinvolti nel
conflitto. A ricordo dei 450.000 morti per la patria, si
voleva che ogni provincia, ogni comune, così come
ogni categoria di lavoratori, potesse dare vita a una
propria, concreta testimonianza.
Compiuta nel ventennio successivo alla Grande guerra,
la campagna di realizzazioni si articola nella totalità
dello spazio nazionale, lasciandoci un cospicuo patrimonio di testimonianze in pietra: una vasta rete di monumenti celebrativi, di parchi delle rimembranze, di templi votivi e
di sacrari extraurbani. Già da questo breve elenco di possibili topoi commemorativi si evince un ampio ventaglio di
significati attribuibili alla parola architettura: il termine è
da intendersi come materializzazione di un’idea che
può assumere le sembianze di un edificio per il culto, di
un gruppo scultoreo, di una sistemazione di uno spazio
significativo, di un sacrario collocato fuori dall’abitato.
Fin dagli inizi, il monumento ai caduti aveva chiamato
in causa il rapporto tra scultura e architettura ma, specialmente all’indomani della Grande guerra, appare
evidente il ruolo educativo che l’architettura deve svolgere in forme dichiaratamente enfatizzate. Ed è così
che, a differenza di altre fasi commemorative, il monumento ai caduti della Grande guerra diventa parte di
un sistema di rappresentazione omogeneo che coinvolge l’ambiente urbano nel quale va a collocarsi.
Noi oggi parliamo forse in modo un po’ astratto di
sistema commemorativo capillarmente articolato,
come se si trattasse di qualcosa rigorosamente pianificato. In realtà la questione apparve dopo il 1918 come
complessa e controversa, dominata da interessi e da
enti non coordinati tra di loro: accanto alla presenza
conflittuale del governo centrale e degli enti locali,
assistiamo al sovrapporsi di una serie di comitati e di
commissioni nate ad hoc.
Sacrari e ossari italiani della Prima guerra mondiale
Ai contemporanei, la campagna per la costruzione di
monumenti commemorativi appare fin dall’inizio
come fenomeno incontrollato i cui esiti sembrano ben
lontani dagli obiettivi. Monumentomania è allora termine ricorrente; il deputato Ettore Janni parla già alla
fine del 1918 di “invasione monumentale”.1
Oltre alle lapidi e alle stele sparse nei seimila comuni
d’Italia, vi sono i simboli di carattere nazionale: a
Roma si costruiscono i monumenti commemorativi di
intere categorie (i dipendenti dei ministeri, i poliziotti,
i ferrovieri, i vigili del fuoco…).
Viene da chiedersi se, in quella fase di grande intensità
realizzativa, l’architettura abbia saputo rispondere alla
domanda di un nuovo culto laico dei caduti in guerra. Il
tema è stato affrontato soprattutto sul piano simbolico,
in relazione a una serie di avvenimenti politici.2 Sul fronte dell’architettura mancano repertori completi, come
abbiamo notato, a differenze di quel che comincia ad
accadere nel campo della scultura: fanno eccezione le
province di Roma e del Lazio, più alcune aree del Piemonte dove sono stati realizzati studi di tipo sistematico.3
353
La prima generazione di sacrari monumentali
Nella maggior parte delle città-capoluogo, il monumento ai caduti assume sembianze diverse, associandosi spesso a temi e tipi tra loro differenti: il faro come a
Trieste, il tempio votivo come a Padova o a Modena, il
gruppo scultoreo come a Milano. Quasi ovunque e in
particolare nei centri del Triveneto, l’episodio acquista
un decisivo rilievo urbanistico collocandosi spesso
come nuovo epicentro della futura espansione edilizia
o di quella in corso di realizzazione.
Poi mano a mano che ci si addentra nei centri minori,
le testimonianze dell’immane contributo di sangue
vanno sempre più riducendosi: una lapide o un cippo
commemorativo, oggetti di dimensioni modeste ma
non per questo necessariamente provviste di scarso
significato simbolico.
Nei comuni più piccoli, i monumenti ai caduti della
prima guerra mondiale finiscono così per perpetuare
una tradizione di arte funeraria che coinvolge e dà
lavoro a una serie di scultori locali.
Lo splendore della forma
354
In buona parte dei casi ritroviamo un ben riconoscibile
legame di continuità con i monumenti costruiti per celebrare le guerre d’indipendenza: vi possiamo infatti riconoscere quel mix di realismo e di astrattismo concettuale
che ha caratterizzato i primi cinquanta anni di storia
patria. Anche dopo il 1918 compaiono steli, colonne,
piramidi, obelischi e cippi sormontati da fanti in armi o
da vittorie alate e spesso appoggiate su di una sfera.
Contemporaneamente inizia a farsi strada l’idea di
monumentalizzare i luoghi prossimi ai campi di battaglia: è il caso del Monumento al Fante che non sarà mai
realizzato, nonostante le buone intenzioni e i tanti sforzi compiuti a partire dal 1920, quando fu bandito il
concorso d’idee.4
L’ipotesi di realizzare un colossale manufatto sulla collina di San Michele al Carso (Gorizia) si era fatta strada
già all’indomani dell’Armistizio. Si trattava, al tempo
stesso, di un ossario situato al centro del più sanguinoso
teatro di guerra e di un monumento commemorativo
legato a quella categoria – il Fante – che aveva pagato il
più alto tributo alla patria in termini di sangue.
I primi sacrari extra-urbani che commemorano la
Grande guerra non si allontanano di molto da quegli
schemi di ossario realizzati nel corso dell’Ottocento;
nella maggior parte dei casi si tratta di riproposizioni
di quei modelli che sono già stati largamente impiegati
in occasione delle guerre d’indipendenza.
Solo successivamente, con il varo del piano Faracovi,
ha inizio la campagna per la costruzione di grandi
sacrari nazionali e si registra il progressivo allontanamento del “tipo” legato ai precedenti modelli.5
È il caso delle prime realizzazioni dei sacrari di Fagarè,
Nervesa della Battaglia, Tonale, Asiago, Casteldante di
Rovereto e altri ancora sorti tutti accanto ai principali
teatri di guerra, dei quali ha scritto in modo dettagliato
Anna Maria Fiore.6
Essi rientrano in un vero e proprio programma di
monumentalizazione voluto dallo stato fascista, e in
particolare da Mussolini, deciso a dare una degna cornice celebrativa ai luoghi che furono teatro della prima
guerra mondiale. Lo scopo iniziale è quello di dare
sistemazione definitiva alle salme dei soldati caduti,
Sacrari e ossari italiani della Prima guerra mondiale
sepolti, sino ad allora, in cimiteri provvisori. È in questa fase che l’ossario viene ripensato: da grande e anonima tomba si trasforma in un luogo in cui l’individualità del caduto viene salvaguardata.
Il programma Faracovi definisce la realizzazione di una
serie di grandi ossari militari, da collocarsi lungo i principali fronti di battaglia: sul corso dell’Isonzo, del
Piave, e sulla linea montana. Le grandi concentrazioni
di salme divengono la soluzione più razionale per contenere i costi degli interventi e dotarsi di architetture
altamente celebrative.
La seconda generazione di sacrari monumentali
Anche per quanto riguarda l’affidamento delle commesse vengono introdotte non poche novità: inizialmente i
progetti sono assegnate a professionisti locali. Ancora
negli anni Venti, l’ossario del Pasubio è disegnato dall’architetto vicentino Ferruccio Chemello che lo concepisce
secondo il tradizionale schema della torre commemorativa, già impiegato a San Martino e a Custoza; negli stessi
anni Chemello progetta una lunga serie di chiese parrocchiali nel Vicentino, non molto dissimili dall’ossario
nel rapporto tra elemento verticale e orizzontale.
Soltanto in una seconda fase che coincide con l’arrivo
di Giovanni Faracovi, la scelta dei professionisti andrà
ben al di là dell’ambito geografico legato alla singola
opera. Soprattutto da Roma e da Milano provengono
gli architetti incaricati di disegnare la nuova generazione di sacrari monumentali.
Il tentativo di unificare le indicazioni di tipo progettuale provengono dallo stesso piano Faracovi il quale rappresenta forse l’espressione più compiuta di un intento
dichiaratamente accentratore.
Le sperimentazioni architettoniche intorno al tema del
memorial post-bellico condurranno, intorno alla metà
degli anni Trenta, alla messa a punto di nuovi e imponenti impianti commemorativi: tra questi spiccano i
sacrari di monte Grappa, di Caporetto e di Redipuglia.
Tra questi, emerge il complesso monumentale di Redipuglia che rappresenta il più grande sacrario militare italiano e nel contempo il punto d’arrivo delle sperimentazioni architettoniche condotte sul “tipo”.
355
Lo splendore della forma
1. Sacrario del Monte Grappa,
pianta, 1935
(Archivio del Commissariato
Generale per le Onoranze ai
Caduti in Guerra, Roma,
Sezione Tecnica,
Monte Grappa)
356
La sua vicenda progettuale è legata a due professionisti
lombardi, lo scultore Giannino Castiglioni e l’architetto
Giovanni Greppi; su committenza dell’allora incaricato
dal governo Ugo Cei, i due professionisti avviano le loro
ricerche a partire dal sacrario del monte Grappa nel 1933.7
I due definiscono alcuni dati sull’assetto plani-volumetrico che si ritrovano nella quasi totalità delle realizzazioni legate a questa nuova serie di sacrari monumentali: si veda la presenza di una “via eroica”, della “pareteossario”, del percorso ascensionale di tipo iniziatico
che sfrutta l’andamento irregolare del terreno – sempre è presente una cappella, che spesso corrisponde a
un preesistente edificio di culto e che sovente costituisce il centro di un cannocchiale visivo.
Il rapporto con il sito diventa un dato costante: il complesso si apre e si dispone nell’ambiente naturale traendo, da questa relazione spaziale, un elemento decisivo
della propria, marcata fisionomia architettonica.
Per il grande complesso del monte Grappa, Greppi e
Castiglioni utilizzano un impianto planimetrico a cerchi
concentrici con cinque gradoni: le pareti-ossario scendono ad avvolgere lo sperone roccioso sulla cui sommità
2. Sacrario
del Monte Grappa,
veduta
Sacrari e ossari italiani della Prima guerra mondiale
3. Sacrario
del Monte Grappa,
veduta della “via eroica”
e del “portale di Roma”
sorge il santuario della Madonnina del Grappa, concepito in forma di tempietto circolare, sovrastato da una
cupola metallica e da una grande croce (figg. 1-2).
Realizzata in forma di grande viale lastricato in pietra
bianca, la “via eroica” è fiancheggiata da due file di
grandi cippi su cui sono incisi i nomi delle località legate alle battaglie più significative della zona; il percorso
parte dal piazzale, ove sorge il tempietto, e si conclude
con il “portale di Roma”. Si tratta di un massiccio edificio
realizzato in blocchi di pietra in forma di enorme sarcofago, donato dalla città di Roma e in origine pensato
come accesso all’ossario ipogeo preesistente (fig. 3).8
Dopo l’esperienza del sacrario del monte Grappa i
due artisti adottano un impianto ottagonale nel sacrario di Caporetto; sfruttando il forte dislivello, il complesso digrada verso l'alto mediante due gradoni concentrici, realizzati in pietra sbozzata e impostati su un
alto basamento. 9 Un sistema di scalinate a doppia
rampa immette alla sommità della collina dove si trova
la chiesa di S. Antonio ovvero l’elemento visivamente
dominante dell’intero complesso (fig. 4).
357
4. Sacrario di Caporetto,
veduta
Lo splendore della forma
In questa circostanza uno dei principali problemi posti
a Greppi e Castiglioni è l’inserzione dell’edificio religioso e la necessità di porlo in rapporto con l’insieme;
da questa esigenza nasce, infatti, la teoria di arcate libere. Posta alla sommità del complesso, questa racchiude
l’edificio religioso pur lasciandolo intravedere in modo
da smorzare l’eccentricità della sua collocazione.
Inizialmente il tema del sacrario era stato riproposto
attraverso oggetti architettonici capaci di segnalare un
luogo significativo: è un compito di norma affidato torri,
piramidi, complessi dotati di campanile. In seguito, grazie alla svolta impressa da Greppi e Castiglioni, l’insieme
architettonico acquisisce una valenza ben più complessa:
gli viene attribuito il carattere di percorso en plein air ove
l’articolazione della massa volumetrica contribuisce a
restituire l’immagine di un monumento in movimento.
358
Redipuglia
Il compito di dimostrare tutto questo sarà assegnato al
gigantesco sacrario di Redipuglia che sarà inaugurato
quasi alla vigilia del secondo conflitto mondiale.
Il punto d’arrivo dei concetti espressi nei precedenti
sacrari è sicuramente Redipuglia (fig. 5).10 Qui sono
custoditi i resti di centomila caduti dei quali sessantamila risultano ignoti. La costruzione sorge sul gradone
occidentale del Carso e, da una posizione elevata,
domina il paesaggio pianeggiante che si estende verso
ovest: per chi proviene dalla penisola, la vista è immediatamente catturata dagli enormi gradoni che occupano il ciglio dell’altopiano carsico.
Nel suo carattere di dichiarato fuori-scala, il gigantesco
sacrario estremizza quel concetto di archi-scultura11 che
è andato sviluppandosi soprattutto negli anni precedenti alla Grande guerra, ma che ha trovato opportunità di realizzazione soprattutto nel dopoguerra.
5. Sacrario di Redipuglia,
pianta
(Archivio del Commissariato
Generale per le Onoranze ai
Caduti in Guerra,
Roma, Sezione Tecnica,
Redipuglia)
Sacrari e ossari italiani della Prima guerra mondiale
6. Sacrario di Redipuglia,
veduta
Inaugurato a venti anni di distanza dalla fine della
Grande guerra, il monumento è nato da un bozzetto
dello scultore Giannino Castiglioni, sviluppato insieme
all’architetto Giovanni Greppi.
In questo caso, la rappresentazione di tipo realista ha
ceduto il passo a una visione geometrico-elementare:
in uno scenario minimalista, per non dire astratto; la
statuaria è del tutto scomparsa, sostituita dall’accostamento e dalla contrapposizione di grandi masse volumetriche che vengono a configurasi come una imponente scalinata monumentale.
Lastricato in pietra del Carso, il piazzale è attraversato
lungo la sua linea mediana dalla “via eroica” la quale
corre tra due file di lastre di bronzo: disposte in numero di diciannove per ciascun lato, le lastre portano inciso i nomi della località teatro di combattimenti (fig. 6).
In fondo alla “via eroica” si elevano i ventidue gradoniossario che custodiscono le spoglie dei quarantamila
caduti identificati. I loro nomi sono incisi in bronzo
sulle singole lapidi, secondo un ordine alfabetico che
procede dal basso verso l’alto della gigantesca scalinata.12 Ciascun gradone è concluso nella parte superiore
da una fascia in pietra sulla quale è incisa e ripetuta
innumerevoli volte la parola “Presente” (fig. 7).
359
7. Sacrario di Redipuglia,
veduta di uno dei gradoni
con l’iscrizione “Presente”
Sacrari e ossari italiani della Prima guerra mondiale
Lo splendore della forma
8. Sacrario di Redipuglia,
veduta delle tombe del
Duca d’Aosta e
dei suoi cinque Generali
360
Il rimando al rito militare dell’appello è inequivocabile
ed è forse la testimonianza più eloquente di quella
identificazione tra caduti della Grande guerra e martiri
fascisti. Tanto rigida quanto complessa, la disposizione
planimetrica riproduce lo schieramento di un intero
corpo d’armata costituito da centomila soldati: le
tombe dei caduti sono allineate secondo una progressione che vede sorgere, isolata alla base, il sepolcro del
Duca d’Aosta comandante della Terza Armata. Questo,
a sua volta, risulta fiancheggiato dalle urne dei Generali caduti in combattimento (fig. 8).13
L’effetto di fuori-scala ci suggerisce un approccio più
scultoreo che architettonico alla definizione del volume: sul monte Grappa e soprattutto a Redipuglia,
Castiglioni e Greppi sembrano avere infatti elaborato
un modello tri-dimensionale calato, in un secondo
tempo, sulle necessità funzionali e distributive.
La volontà di attribuire monumentalità al sacrario non
esclude anche l’utilizzo di artifici illusionistici ricorrendo a un uso sapiente dello strumento prospettico
come accade a Redipuglia. La gradonata si restringe
verso l’alto, seguendo l’andamento delle linee di fuga
richiamando una soluzione già utilizzata da Greppi e
Castiglioni nella realizzazione della “via eroica” del
sacrario del Grappa.14
In conclusione resta da chiedersi se l’architettura di
Greppi e Castiglioni sia riuscita a convogliare, verso
esiti significativi, il bisogno di rappresentare il culto dei
caduti; specialmente nella fase in cui il problema è al
centro dell’attenzione del regime fascista.
Sicuramente, alcuni capi d’opera della seconda generazione (e in primis Redipuglia e monte Grappa) riescono
a raggiungere risultati originali; interpretano a pieno la
volontà da parte del fascismo di appropriarsi della vittoria nella Grande guerra e della memoria dei suoi caduti.
In quanto meta di pellegrinaggio, la sacralità del
luogo è sempre sottolineata da grandi scalinate laterali
o centrali che permettono di accedere ai vari ripiani
dei gradoni; questi ultimi, grazie al loro andamento
oscillante, evocano i percorsi iniziatici dei grandi santuari dell’antichità.15
Al di là degli aspetti ideologici, il sacrario apparirà
come interprete di una nuova forma di monumentalità
che proprio la forzatura del contesto naturale rende
più efficace. Il carattere complessivo dell’opera contribuisce così a infondere nel visitatore un’immagine non
convenzionale dell’immane tragedia.
1
2
3
Cfr. Janni, E., L’invasione monumentale,
in “Emporium”, L (1918), p. 249. Si
veda anche, dello stesso autore le considerazioni contenute in Memorie di
deputato, Mondadori, Milano 1922, pp.
98 sgg.
In questo ambito, si veda Monteleone,
R. Saracini, P., I monumenti italiani ai
caduti della grande guerra, in La grande guerra: esperienza, memoria, immagini, a cura di D. Leoni e C. Zadra, Il
Mulino, Bologna 1986. Cfr. anche l’articolo di Canal, C., La retorica della
morte: monumenti ai caduti della
Grande guerra, in "Rivista di storia
contemporanea", n. 4, ottobre 1982,
pp. 659-669.
La memoria perduta: monumenti ai
caduti della Grande guerra a Roma e
nel Lazio, a cura di V. Vidotto, B. Tobia,
C. Brice, Nuova Argos, Roma 1998;
Francolini, S., Monumenti ai caduti in
guerra nella provincia di Novara e nella
provincia del Verbano-Cusio-Ossola,
Litopress, Borgomanero 2006; Campagnolo, C., Monumenti ai Caduti della
prima guerra mondiale nel Biellese,
Biella, s.d.; Salvagnini, G., La scultura
nei monumenti ai caduti della prima
guerra mondiale in Toscana, Opus libri,
Firenze 1999.
4
5
6
7
8
Espletato da un apposito Comitato
nazionale nel luglio 1920, il concorso
ebbe importanti esiti sul piano architettonico. Cfr. Papini, R., Il Concorso
per il Monumento al Fante, in “Emporium”, LII (1920), pp. 89-96.
Sul Programma generale per la sistemazione definitiva delle sepolture militari italiane messo a punto dal generale Giovanni Faracovi nel 1928 si veda
Fiore, A.M., La monumentalizzazione
dei luoghi teatro della Grande Guerra: il
sacrario di Redipuglia di Giovanni
Greppi e Giannino Castiglioni, in
“Annali di Architettura” n. 15, 2003,
pp. 233-234.
Fiore, A.M., La monumentalizzazione
cit., pp. 233 sgg.
Sulla collaborazione tra Greppi e Castiglioni, si veda: Fiore, A.M., La monumentalizzazione cit., pp. 235-236.
Sul sacrario del Grappa inaugurato nel
settembre del 1935 e sulla storia dell’ossario preesistente si veda: Fiore,
A.M., La monumentalizzazione dei luoghi teatro della Grande guerra: i sacrari
di Giovanni Greppi e di Giannino Castiglioni (1933-1941), tesi di dottorato,
relatori proff. G. Zucconi - H. Burns,
IUAV, Venezia 2001, pp. 88-110; Vanzetto, L.. e Manesso, A., Cima Grappa.
361
Lo splendore della forma
9
10
362
Luogo conteso dalle memorie, Grafica
6, Zero Branco >2001; Zagnoni, S., Dal
monumento al Fante ad una nuova
tipologia monumentale. Appunti per
un’iconologia, in “Parametro”, XXVII,
213, 1996, pp. 62-64; Commissariato
Generale Onoranze Caduti in Guerra (a
cura di), Sacrari militari della Prima
Guerra Mondiale. Monte Grappa ed
altri vicini, Arti Grafiche Francesco
Garroni, Roma 1980.
Sul sacrario di Caporetto, realizzato tra
il 1935 e il 1938 e inaugurato da Benito Mussolini nel settembre dello stesso
anno, si veda: Fiore, A.M., La monumentalizzazione cit., pp. 151-156.
Cfr. sull’argomento. Fiore, A.M, La
monumentalizzazione cit., pp. 233 e
sgg. Inoltre sul sacrario di Redipuglia
si veda: Bortolotti, M., Progetti e realizzazioni in Friuli Venezia Giulia,
1931-1938, in “Parametro”, cit., pp.
33-40; Nicoloso, P., Settembre 1938:
Mussolini nella Venezia Giulia. Indirizzi totalitari e architetture per il
fascismo, in Torviscosa: Esemplarità
11
12
13
14
15
di un progetto, a cura di E. Biasin, R.
Canci, S. Perulli, Forum, Udine 2003,
pp. 23-25.
Cfr. Mangone, F., La morte e l'eroe:
archiscultura monumentale in Italia,
1890-1922, in "La Nuova Città", n. 9,
settembre-dicembre 1995, pp. 53 sgg.
Si veda anche Zucconi, G., Gli anni
dieci tra riscoperte regionali e aperture
internazionali, in Storia dell'architettura italiana. Il primo Novecento, a cura
di G. Ciucci e G. Muratore, Electa,
Milano 2004, pp. 38-55.
Commissariato Generale Onoranze
Caduti in Guerra (a cura di), Sacrari
militari della Prima Guerra Mondiale.
Redipuglia, Franco Ricci-arti grafiche,
Roma 1999, p. 2.
Ibidem.
Fiore, A.M, La monumentalizzazione
cit., p. 241.
Ivi, pp. 241-242.
Sobrietà senza retorica in alcuni progetti europei
per comunicare l’Olocausto
di Franziska Bollerey
* Le parti sui sacrari monumentali sono
opera di A.M. Fiore, le altre parti di G.
Zucconi.
Questo libro tratta dello “Splendore della Scultura nei
cimiteri d’Europa”. All’interno di questo contesto
ammetto di sentirmi un po’ come un’estranea.
La scultura sepolcrale o l’architettura dei cimiteri non
possono essere l’oggetto del mio testo: devo occuparmi
per prima cosa di assassinî e assassinati, genocidi di
proporzioni inimmaginabili.
Per introdurvi a questo tema, sarebbe meglio partire
dai sopravvissuti all’Olocausto: “Avevamo un canarino.
Dopo l’emanazione del decreto che proibiva agli Ebrei
di tenere animali domestici (15.5.1942), mio marito
non riuscì ad abbandonarlo. Quando il sole splendeva,
metteva la gabbia alla finestra. Qualcuno deve aver riferito ciò alla polizia. Gli fu detto di andare alla ‘Gestapo’, la Polizia Segreta tedesca. Dopo molte settimane
di angoscia ricevetti l’ordine di andare alla stazione di
polizia portando con me tre marchi del Reich come
prezzo da pagare per poter prendere l’urna che conteneva le ceneri di mio marito”.1
II tema della memoria dell’Olocausto causato dalla Germania non tocca solamente l’aspetto del ricordo colletti-
363
Lo splendore della forma
364
vo, bensì fa sorgere inevitabilmente sentimenti intensi di
corresponsabilità, vergogna e di colpa. È la consapevolezza di non aver resistito a ciò che fu psicologicamente
introdotto con abilità in una procedura che avanzò a
piccoli passi e venne progettata con cura (come viene
mostrato in modo impressionante nei cartelli dei pali
della luce del “Bayerisches Vierte” di Berlino),2 che sarà
sempre presente per una certa generazione.
Ernst Bloch così commentò questo abile processo per
far considerare queste crescenti atrocità come cose
normali nella mente della gente: “Questa è una dimostrazione ancora più violentemente coercitiva dello
stesso esercizio del potere, nella misura in cui agisce
incessantemente e meno pateticamente, paralizzando
la coscienza della contraddizione, abbassando la soglia
per le occasioni di mostrare coraggio”.3 Probabilmente
se il fascismo, immediatamente dopo la sua salita al
potere, avesse cominciato a deportare gli Ebrei, si
sarebbe verificata una assai più effettiva resistenza. Ma
fu proprio questa progressiva alienazione dai valori
umani, morali ed etici che rese possibile ciò che il fascismo tedesco chiamò Endlösung (Soluzione finale).
Oltre che su di una diffusa mancanza di coraggio individuale, l’Olocausto poteva contare sul supporto di un
gran numero di istituzioni oltre che di branche dell’industria: ovviamente era abbastanza naturale che i produttori dei forni crematori, le ditte di “Topf'” (pentole
e indumenti), lavorassero costantemente per il miglioramento dell’efficienza dei loro prodotti per i campi di
concentramento.
“Quando milioni di esseri umani vennero uccisi ad
Auschwitz e in altri campi di concentramento e sterminio tedeschi, gli assassini dovettero fronteggiare molti
problemi tecnici. L’uccisione e la sistemazione dei cadaveri dovevano avvenire in maniera continua, economica
ed efficace, e lasciando meno tracce possibili.
Per realizzare un simile sistema, le SS si rivolsero a
esperti civili che non si fecero scrupoli a progettare un
meccanismo adatto a risolvere i problemi relativi allo
sterminio. L’azienda di Erfurt Topf & Sons esercitò un
ruolo determinante in questo processo.
Per venire incontro alle richieste delle SS, l’ammini-
Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto
1. Hirsch, Lorch e Wandel,
Memoriale
del “Binario 17”,
Berlino,
quartiere di Grunewald,
1998
365
strazione della ditta e gli ingegneri progettarono sia i
forni crematori per l’eliminazione dei cadaveri sia le
camere a gas. A tale scopo, dovevano inizialmente fare
attenzione al peso dei corpi che uccidevano e bruciavano nei forni crematori. Per fare questo hanno dovuto
verificare per prima cosa le prime uccisioni di massa e i
primi utilizzi dei forni crematori. I tecnici che partecipavano a questo processo utilizzarono l’esperienza in
modo da ottimizzare i macchinari per lo sterminio.”4
Lo splendore della forma
366
II fascismo tedesco poteva contare su una molteplicità
di aiuti industriali e istituzionali. Allo stesso modo,
per esempio, divenne un normale aspetto del lavoro
della Deutsche Reichsbahn (la Ferrovia del Reich
tedesco) organizzare i trasporti di massa delle vittime
verso il loro sterminio. Proprio nel centro di Grünewald, uno dei più tranquilli e privilegiati quartieri
di Berlino, è stato trovato uno dei maggiori centri di
deportazione ferroviaria. Per molto tempo la Reichsbahn, così come più tardi la Deutsche Bundesbahn
(Ferrovia Federale), ha negato di aver mai collaborato con il regime nazista.
Nel 1985, in occasione del centocinquantesimo anniversario delle ferrovie tedesche dell’Est e dell’Ovest,
l’amministrazione ebbe molti problemi nell’includere
questo capitolo della loro storia nelle proprie esposizioni commemorative. Solo dopo la riunificazione dei
due sistemi ferroviari nel 1990 venne presa la decisione
di costruire un monumento che ricordasse le deportazioni durante il regime nazista.
II luogo commemorativo a Berlino-Grünewald oggi
ricorda ognuna delle passate funzioni del “Binario 17”.5
Venne così bandito un concorso a inviti. Tra i membri
della giuria c’erano Ignatz Bubis, presidente del Consiglio Centrale Ebraico della Germania, Heinz Dürr,
direttore del Consiglio Management della Deutsche
Bahn (Ferrovia Tedesca) AG, il prof. Gunther Gottmann, direttore del Museo del Traffico e della Tecnica
(oggi Museo della Tecnologia Tedesca), Jerzy Kanal,
capo della Comunità Ebraica di Berlino e il Dr. Salomon Korn , architetto di Francoforte.
La giuria assegnò il primo premio agli architetti Hirsch, Lorch und Wandel, di Saarbrürcken e Francoforte
sul Meno. Il nucleo centrale era costituito da 186 gri-
2. Karol Broniatowski,
Memoriale alla
deportazione,
Berlino,
quartiere di Grunewald,
1991
Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto
glie in acciaio, sistemati cronologicamente e immersi
nella ghiaia lungo il bordo della piattaforma ferroviaria. In ognuno si può leggere la data di ogni singolo
viaggio, il numero dei deportati, il luogo di partenza e
la destinazione (fig. 1). La vegetazione che si formò
spontaneamente nel corso degli anni nel binario 17
venne mantenuta. Oggi, come parte stessa del memoriale, serve come simbolo del fatto che nessun treno
partirà mai più da questo binario.6
Collegata a questo monumento, c’è la scultura di Karol
Broniatkowski, commissionata dallo Stato Federale di
Berlino, che indica il cammino verso la rampa della
deportazione (fig. 2). Gli elementi commemorativi del
genocidio e delle deportazioni di massa creano qui un
memoriale che sembra più autentico e commovente
del monumento ufficiale commissionato anni più tardi
dopo un lungo dibattito dal Deutsche Bundestag.
Esso non riesce a essere – e qui non mi riferisco al Centro di documentazione sotterraneo aggiunto all’area
sovrastante – un vero memoriale commovente del
ricordo di milioni di Ebrei uccisi.
Il monumento alla memoria dell’Olocausto che si trova
a Berlino venne progettato da Peter Eisenman, che
nella fase iniziale collaborò con Richard Serra.7 Serra,
che aveva ricevuto questa commissione dopo l’impressionante lavoro svolto per l’antica sinagoga di Pulheim,
vicino a Colonia, si ritirò dall’incarico dopo un paio di
richieste di modifiche provenienti dall’ufficio della
Cancelleria tedesca. Egli temeva che “alla fine un progetto manipolato risultasse solo indirettamente collegato al concetto originate, ma non costituisse un’opera
d’arte in se stessa”.8
La dimensione dell’opera (un’area di 19.073 metri
quadrati contenente 2.711 stele alte tra 95 centimetri
e oltre 4 metri) colloca questo progetto in un gruppo
di monumenti di larga scala che incontriamo nel
periodo successivo all’Illuminismo, attraverso i progetti degli “Architetti Rivoluzionari” come per esempio il
Cenotafio dedicato a Isaac Newton nel 1784, opera di
Etienne-Louis Boullée. Più tardi, questo tipo di monumento lo troviamo nel Nord Italia nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, durante il regime di
367
Lo splendore della forma
3.1. Louis Etienne Boullèe,
Cenotafio per Isaac Newton,
1784
3.2. Giovanni Greppi,
Memoriale di Redipuglia,
1938
368
Benito Mussolini (vedere il contributo di Guido Zucconi in questo libro) (figg. 3.1, 3.2).
Questa tarda commemorazione dei morti della Prima guerra mondiale trovò un’espressione di magnificenza e allo
stesso tempo una propria qualità estetica nel dettaglio.9
L’organizzazione delle scale di Redipuglia, per esempio, sembra anticipare il successivo progetto di Carlo
4. Giovanni Greppi,
Memoriale del Redipuglia,
1938,
dettagli delle scale
Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto
5.1. Giovanni Greppi,
Memoriale
del Monte Grappa,
1935
5.2. Jakow S. Belopolski,
Memoriale sovietico,
Berlino, Parco di Treptow,
1946-1949
Scarpa (fig. 4). Lo splendido isolamento del memoriale del Monte Grappa d’altra parte sottolinea ancora
una volta il concetto – se lo si può dire celebrando la
morte – di grandeur maestosa.
Tornando a Berlino: il monumento commemorativo
della Seconda guerra mondiale a Treptow,10 innalzato
dai Russi in onore dei soldati dell’Armata Rossa morti
combattendo la Germania fascista, mira allo stesso
effetto ma appare tuttavia quasi confrontabile con la
sua controparte nel Nord Italia (figg. 5.1, 5.2).
Preferirei comunque tornare al mio soggetto originale:
dagli anni Cinquanta i Tedeschi realizzarono memoriali in pietra e installarono lapidi commemorative in
molti luoghi. Essi promossero centri di informazione e
di ricerca, luoghi commemorativi.11 In un periodo successivo molti campi di concentramento vennero aperti
al pubblico come luoghi attraverso i quali ricordare la
storia sotto il regime di Hitler. Solo dal 1980, tuttavia,
c’è stato un aumento di incarichi ad architetti e artisti
per la realizzazione di opere commemorative.12
In Giappone, all’inizio degli anni Cinquanta, noti
architetti come Kenzo Tange (Monumento alla memoria
369
Lo splendore della forma
6.1. Kurt Schwitters,
Collage, 1919
6.2. Daniel Libeskind, Museo
ebraico, Berlino, 1998/2000
6.3. Enrique Miralles e
Benedetta Tagliabue
Cimitero di Igualada,
Catalogna,
370
dei morti di Hiroshima e la Sala della Pace) e Ryoito Fukuda (Monumento alla memoria dei morti in guerra di Okinawa) si occuparono di questo soggetto.13
In Germania, la decisione di fondare un Museo Ebraico seguì questa linea di sviluppo.14 Nel 1999 il museo
venne aperto; Daniel Libeskind, nella sua moderna
addizione al precedente palazzo barocco che per anni
ricoprì il ruolo di Museo Storico di Berlino, prese
spunto da una parte dalla ferita provocata dall’Olocausto nel corso della storia, dall’altra dall’Espressionismo, che fu in sé una reazione agli effetti disastrosi
della Prima guerra mondiale. Libeskind optò per un
linguaggio di decostruzionismo ottenendo quindi
quello che otto anni prima era stato proposto nel progetto del cimitero monumentale di Enrique Miralles e
Benedetta Tagliabue a Igualada in Catalogna (figg.
6.1, 6.2, 6.3).15
Per quanto riguarda il monumento berlinese alla
Memoria dell’Olocausto, senza dubbio Serra ed Eisenman si ispirarono in parte al progetto di Libeskind
(figg. 7.1, 7.2).
7.1. Daniel Libeskind,
Museo ebraico,
Berlino, 1998/2000
7.2. Peter Eisenman,
Memoriale dell’Olocausto,
Berlino, 2005
Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto
Oggi, appena sotto la Porta di Brandeburgo, troviamo II
Monumento alla Memoria degli Ebrei d’Europa uccisi. L’iniziativa risale al 1989, anno della caduta del muro di Berlino.
Nel 1994/95 venne bandito un concorso che vide la partecipazione di 528 concorrenti. Seguendo un dibattito
pubblico nell’estate del 1997 venne lanciato un nuovo
concorso a inviti per architetti e artisti. Dopo l’approvazione dell’innalzamento del monumento alla memoria
da parte del Deutscher Bundestag, nella primavera del
2003 vennero eseguiti i lavori. La sua inaugurazione
avvenne il 12 maggio del 2005. L’intero lavoro venne
accompagnato da una vivace discussione e da molte critiche contro il singolo monumento centrale e contro l’esclusione di tutte le altre vittime del fascismo.
La documentazione relativa all’intero processo è contenuta in un libro di almeno milletrecento pagine che
riflettono la problematicità del soggetto.16
Rimane la domanda se il ricordo collettivo può essere
più di un gesto rituale riguardante il passato, un passato che non passerà mai.17
“A cosa serve un opprimente ed enorme monumento
nel centro della città con una estensione di quarantamila metri quadrati”, chiese Gyorgy Konrad nella
“Frankfurter Allgemeine Zeitung”.18 Nello stesso giornale, E. Young scrive: “Una nuova generazione di pensosi artisti tedeschi già da tempo aveva espresso con
chiarezza le riserve su quel tipo di monumento commemorativo. La sua logica didattica e la rigidità demagogica, la presunzione conformista con cui questi
monumenti si impadroniscono della storia furono collegati al fascismo in più di un aspetto [...] e com’è possibile commemorare le vittime del fascismo con una
forma d’arte autoritaria [...]?”19
“... Sarebbe stato molto meglio spendere i soldi per la
conservazione dei molti e diversificati memoriali dell’Olocausto [...] Poiché un singolo posto non può parlare a nome di tutte le vittime, non può nominare tutte
le vittime e i colpevoli, la nazione deve invitare ripetutamente i suoi cittadini a visitare i tanti luoghi commemorativi esistenti e i centri d’informazione: il magnifico centro di documentazione nel ‘Wannsee-Villa’ e l’esposizione molto istruttiva sulla ‘Topografia del Terro-
371
Lo splendore della forma
372
re’ (torneremo su questo tema) in quelli che erano i
quartieri berlinesi della Gestapo, lo storico paesaggio
oppressivo di Buchenwald, la cura dedicata alla costruzione di un museo nel campo di concentramento di
Dachau, la molteplicità di lapidi commemorative che
in ogni zona della Germania evidenziano i punti di
partenza delle deportazioni e i molti spazi vuoti dove
originariamente erano situate le sinagoghe – per non
parlare dello spazio per la riflessione tra tutti questi”.20
Anche Gyorgy Konrad oppone una specie di pars pro toto:
“Eccellenti e importanti artisti tedeschi affrontarono la
sfida, ma divenne evidente che nessuno era all’altezza
dell’incarico. Si tratta forse di un fatto inevitabile che
deve essere accettato. Le proposte (del monumento
commemorativo dell’Olocausto) fin qui mostrano kitsch
didattici e spietati, con delle allusioni, dei simboli contorti, idee, concetti e arroganza nei confronti dei visitatori e dei vicini della porta accanto. Non c’è bisogno di
un monumento commemorativo che rifletta l’enorme
dimensione della Germania. Sarebbe molto meglio un
monumento commemorativo che rappresentasse la triste sorte subita da ogni bambino ebreo incenerito”.21
Walter Jens ha recentemente detto che non si poteva
“piangere eccessivamente” e che il contrario del pianto
era il sussurro. Lo spazio sotterraneo di Micha Ullman
e Ramat Hasharon riempito con scaffali vuoti in Bebelplatz costituiva, per esempio, un monumento commemorativo di questo tipo.
Nonostante tutti questi discorsi il monumento alla
memoria dell’Olocausto di 19.000 metri quadrati
venne realizzato e aperto nel 2005. Due anni più tardi
grandi problemi sorsero in relazione alla qualità fisica
di più di quattrocento delle stele così come alcune
scritte sui muri.
Per quanto riguarda il carattere suggestivo dell’opera, si
può almeno dire che un monumento alla memoria
della tragedia dell’Olocausto dovrebbe offrire una possibilità di contemplazione e di riflessione per quanto
riguarda il proprio atteggiamento nei confronti del razzismo e della xenofobia. Tuttavia la disposizione architettonica, come si può osservare già dall’imaugurazione
del monumento induce i visitatori, all’interno di quella
Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto
8. Peter Eisenman,
Memoriale dell’Olocausto,
Berlino, 2005
373
struttura simile a un labirinto, a “giocare a nascondino”, a correre, gridare, arrampicarsi e saltare, nonostante tutto questo sia ufficialmente vietato. Nel parlato
comune, il monumento è chiamato “Holo-Hop”.
Dall’estate del 2006 il margine sud del monumento è
fiancheggiato da una serie di locali fast-food. Adesso i
turisti saltano fuori dai loro pullman, si godono i loro
hamburger e passeggiano lungo le strade interne del
monumento, senza visitare il centro di documentazione
dell’Olocausto, una sorta di ripetizione di ciò che potrebbero apprendere al Museo Ebraico di Berlino (fig. 8).
Cosa c’è veramente da ricordare? Dal 19 settembre del
1941 gli Ebrei vennero obbligati a indossare la “stella
gialla”. II lungo processo delle esclusioni e delle discriminazioni sempre più estreme cominciò nel marzo del
1933. Quello che è possibile portare alla nostra attenzione di quei dodici anni, i sei senza guerra e i sei con
la guerra, e le riflessioni che scaturiscono da così tante
ingiustizie e umiliazioni – come Konrad e Gyorgy specificarono – saranno dimostrati di seguito.
Lo splendore della forma
Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto
10.1. Memoriale
della Topografia del Terrore,
Berlino, 1992
9.1. Tessuto giallo con la
Stella di Davide, 1941
10.2. Micha Ullman,
Memoriale dei libri bruciati,
Berlino, 1995
9.2. Vista dall’aereo di
Berlino bombardata, 1945
9.3. Via Lewandowsky,
Tappeto rosso nella sede
centrale del Ministero della
Difesa tedesco, 2002
374
375
Nel 1945 il Reich crollò e Berlino, la sua capitale,
cadde totalmente in rovina. Circa sessant’anni più tardi
è sorprendente vedere come, in conseguenza della
decisione del governo rossoverde del periodo, nel 2003
sia stato steso un tappeto sul pavimento della sala principale del Ministero Nazionale della Difesa vicino al
Landwehrkanal, un canale urbano, in cui la polizia del
Reich gettò nel 1919 i cadaveri di Karl Liebknecht e
Rosa Luxemburg.
Questo tappeto mostra la riroduzione di una foto aerea
della città di Berlino totalmente distrutta nel 1945.22
Così qui le forze armate di una nazione contemplano le
conseguenze dell’azione militare nerll’epoca della guerra meccanizzata proprio nel loro quartier generale (figg.
9.1, 9.2, 9.3). Viene naturale confrontare un simile atteggiamento con il fatto che durante il famoso discorso di
Colin Powell prima del Consiglio delle Nazioni Unite a
New York il 5 febbraio 2003, in cui venne dichiarato che
gli Stati Uniti d’America erano decisi a dichiarare guerra all’Iraq, la copia dell’opera pittorica di Picasso Guernica – rappresentazione delle conseguenze della guerra
– fosse stata coperta durante il discorso ufficiale.
Ci sono però anche vie più drastiche e allo stesso
tempo più sottili per mettere a confronto la società con
la storia del fascismo e del militarismo e le loro rispettive conseguenze.
Nel 1992 venne aperta la mostra la Topografia del
terrore.23 In maniera sicuramente meno spettacolare
rispetto al monumento commemorativo di larga scala
Lo splendore della forma
376
di Eisenman, le celle che precedentemente venivano
impiegate per le torture nel quartier generale della
Gestapo vennero rese accessibili al pubblico che ora
può guardare materiale documentario nelle condizioni
ambientali originali.
Le tracce commemorative più impressionanti sono tuttavia quelle che vengono chiamate “contromemoriali”,
che si trovano nel tessuto urbano e nelle strade comuni
della città di Berlino, in cui avvennero molte delle atrocità commesse dal Terzo Reich.
C’è la già menzionata libreria sotterranea di Micha Ullman sotto Bebel Platz, nella zona vicina all’Università
Humboldt nell’Unter den Linden. Con i suoi scaffali
vuoti, la cavità sotterranea bianca, che è visibile da
sopra attraverso il vetro, ser ve a ricordare l’infame
rogo a opera degli studenti nazisti dei libri messi al
bando, il 10 maggio 1933.
L’ingresso al centro è fiancheggiato da una decorazione in bronzo contenente una citazione di Heinrich
Heine, che dice “dove si bruciano libri, il rogo degli
esseri umani non è lontano” (figg. 10.1, 10.2).24
In un’altra località, salendo le scale della stazione della
Metropolitana di Hausvogteiplatz in direzione della
Museumsinsel o del Ministero degli Affari Esteri, si può
notare nella parte verticale di ogni gradino il nome
delle antiche aziende ebraiche che lavoravano nel
campo dell’abbigliamento e che una volta erano situate lì. In cima ai gradini si trova, come ostacolo per il
proseguimento, il monumento Denkzeichen, Modezentrum, Hausvogteiplatz (Centro commemorative e della moda
di Hausvogteiplatz): tra le diverse lapidi si può leggere la
seguente: “I proprietari e i dipendenti Ebrei delle
Industrie di abbigliamento berlinesi ready-to-wear vennero obbligati a emigrare dal Nazionalsocialismo,
11. Rainer Görz,
Memoriale del Centro di
Moda di Hausvogteiplatz,
Berlino, 1995/2000
Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto
12. Christian Boltanski,
Progetto delle case perdute
(Missing House Project),
Berlino, 1990
377
oppure vennero deportati nei campi di concentramento e uccisi” (fig. 11).25
In un’altra parte della città, nella Große Hamburger
Straße, un quartiere tradizionale ebraico a Berlino,
vicino alla grande sinagoga nella Oranienburger
Straße, si può trovare un vuoto tra due palazzi che risale ai bombardamenti del 1940 e non è mai stato riempito: qui, su un muro bianco, si possono leggere i nomi
degli inquilini che vivevano nelle costruzioni distrutte
e le date della durata della loro permanenza negli
appartamenti dietro il muro.
Qualunque fosse stata la data d’inizio, i soggiorni terminarono tutti nel periodo tra il 1943 e il 1945.
Questo è il Missing House Project di Christian Boltanski
del 1990. I muri si presentano come una sorta di libro
leggibile come il passaggio del libro di Rainer Maria
Rilke Malte Laurids Brigge, che descrive un muro spoglio confinante con un palazzo demolito a Parigi che
fornisce molte tracce sulle quali l’immaginazione si
può soffermare (fig. 12).26
Lo splendore della forma
13. Renata Stih e
Frieder Schnock,
Luoghi del ricordo,
Quartiere bavarese,
Berlino, 1991/1993
Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto
14. Steli commemorative,
1995,
Gunter Demnig,
Berlino, Kreuzberg
378
379
Lo stimolo al passante a osservare e leggere è evidente
anche nel già menzionato Bayerisches Viertel a Berlin-Schöneberg. Nel 1988 una persona che viveva lì decise di scoprire quanti Ebrei erano divenuti preda della graduale
“arianizzazione”. Dopo la sconvolgente scoperta che non
meno di seimila abitanti ebrei del solo quartiere erano stati
perseguitati e successivamente uccisi, il comune di BerlinSchöneberg nel 1991 bandì un concorso per il progetto di
un monumento commemorativo. Venne scelta all’unanimità la proposta di Renata Stih e Frieder Schnock.27 La
loro idea consisteva in ottanta cartelli fissati sui lampioni e
sui pali stradali che portassero da una parte segni grafici e
dall’altra i decreti nazisti che riguardavano gli Ebrei.
La commemorazione riproduce così a livello verbale e
pittorico la violenza sociale che, procedendo gradualmente, era entrata a far parte della vita di tutti i giorni
in quel periodo. Ci mostra che lo sterminio non fu un
avvenimento irreversibile e improvviso, ma fu piuttosto
un processo lento che consistette in una serie successiva di privazioni minori ma determinanti.
Parallelamente alla riproposizione del passato all’interno del presente veniva assegnato un ruolo importante
a chi percorre i quartieri berlinesi. I cartelli (fig. 13)
sono disseminati nel tessuto urbano di oggi nello stesso
modo in cui i sentimenti antisemiti e i decreti contro
gli Ebrei vennero instillati nella coscienza comune cinquant’anni prima.
Di fatto presentando le azioni contro i cittadini Ebrei
in un contesto di abituale e sicuro ambiente moderno,
ai fruitori degli ubiqui cartelli è chiesto di assumere il
ruolo di potenziale collaborazionista o “Mitläufer”
(come si diceva nel dopoguerra). La realizzazione dell’estensione di questo “Mitlaufertum” tra i precedenti
abitanti del quartiere ha come conseguenza la domanda contemporanea relativa a come ognuno di noi
avrebbe reagito, di come si sarebbe vissuto in quei
tempi e, conseguentemente, quale reazione c’è oggi
nei confronti della xenofobia. Qui possono proporsi
importanti effetti provocatori e una proposta di identificazione che molto probabilmente non possono emer-
Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto
Lo splendore della forma
380
gere di fronte all’ufficiale e gigantesco labirinto commemorativo realizzato da Eisenman vicino alla Porta di
Brandeburgo.
Infine è opportuno citare un altro esempio di onnipresente e decentrato counter memorial, come quello chiamato Stumbling Stones.28
L’idea nacque nel 1992. Il suo creatore, Gunter Demnig, inserì dei blocchi di bronzo di dieci centimetri per
lato lungo le vie della città, nei marciapiedi di fronte
alle case abitate precedentemente da Ebrei con scritti
sopra i loro nomi, le date delle deportazioni e quelle
della loro morte. Essi ricordano in maniera semplice ma
autentica ogni particolare dello sterminio delle migliaia
di Ebrei berlinesi (fig. 14) e si possono trovare anche in
altre città tedesche come per esempio Bonn, Essen, Freiburg, Amburgo, Colonia, Leipzig, Münster, Neuruppin,
Stuttgart, e Zittau.29 Nella loro semplicità formano un
notevole contrasto con l’imponenza dell’ufficiale Monumento Statale alla Memoria dell’Olocausto che venne
realizzato sotto il governo del cancelliere cristianodemocratico Helmut Kohl circa vent’anni fa.
Così oggi abbiamo l’opportunità di confrontare il gesto
superimposto con l’approccio che si è sviluppato da un
denso contesto, per confrontare la ricerca di creare
compassione e comprensione – anche una autoriflessione piena di speranza – con l’attitudine impositiva dello
Stato che tende al monumentalismo.
Si potrebbe credere che il Monumento Statale alla
Memoria dell’Olocausto di Berlino abbia corso il rischio
di diventare un gesto privo d’importanza se si osservano
i progetti presentati al concorso che vennero esposti nel
1995 nello Staatsratsgebaude, che in precedenza era la
sede del governo della DDR. Alcuni di essi diedero davvero l’impressione che, per citare di nuovo Walter Jens,
“un pianto sarebbe stato eccessivo”; a proposito di questo James E. Youngs pose appunto la domanda: “Come è
possibile commemorare le vittime del fascismo attraverso una forma d’arte autoritaria?”.
Oggi a Berlino, come probabilmente in nessun’altra
città della Germania, è possibile osservare entrambe le
possibilità e fare un confronto secondo il proprio
punto di vista.
1
2
3
4
5
Berliner Geschichtswerkstatt (ed.):
Fundstucke, Fragmente, Erinnerungen:
Juden in Kreuzberg (Edition Hentrich),
Berlin 1991, p. 187
Stih, Renata e Schnock, Frieder, Orte des
Erinnerns. Ausgrenzung und Entrechtung, Vertreibung,Deportation und
Ermordung von Berliner Juden in den
Jahren 1933 bis 1945. Places of Remembrance. Isolation and deprivation of
rights, expulsion, deportation and murder of Berlin Jews in the years 19331945. Denkmal/Memorial in Berlin Schoneberg 1993, Haude & Spenersche Verlagsbuchhandlung GmbH, Berlin 2002.
Gli stessi autori nei 2007 progettarono
la Town-Map-Carpet per il museo
ebraico di Monaco di Baviera, così
come la carta topografica pieghevole
La città come testo. La Monaco ebraica,
Monaco di Baviera 2007.
Techniker der “Endlosung”. Topfvnd
Sohne - die Ofenbaner von Ansclwitz,
catalogo della mostra, Stiftung
Gedenkstatten Buchenwald and Mittelbau-Dora, Ruhrlandmuseum Essen,
5. Marz-27. August 2006.
Frase tratta dalla brochure di accompagnamento Techniker der Endlosung cit.
II 27 gennaio 1998 Deutsche Bahn AG
inaugurò il monumento alla memoria
del “Binario 17” dedicato ai deportati
nel periodo 1941-1945 trasportati dai
treni delle Ferrovie dello Stato tedesco
verso i campi di concentramento.
Deutsche Bahn AG fino a poco tempo
fa si oppose a ulteriori manifestazioni
di commemorazione per il trasporto
dei bambini verso i campi di concentramento.
Nel frattempo tuttavia, venne concesso dalla Deutsche Bahn un “Treno del
Ricordo” per commemorare le molte
decine di migliaia di bambini che vennero deportati durante il periodo nazista. Tuttavia la generosità della Deutsche Bahn non fu abbastanza da
garantire agli organizzatori libero
accesso al treno: devono pagare per
ogni miglio che viene percorso sulla
linea dal loro “Treno del Ricordo”. II
primo treno lasciò Würzburg il 27 gennaio 2007 per commemorare le deportazioni nella regione Franconia. II
“Treno del Ricordo” consiste in alcuni
vagoni in cui viene raccontata la storia
delle deportazioni con proiezioni video.
La tratta percorsa dal treno attraversa
molte grandi città tedesche: Amburgo,
6
7
8
9
10
11
Colonia, Francoforte e Dresda. Nelle
stazioni ferroviarie, l’attesa dei passeggeri sembra essere cresciuta dopo la
visione di questi treni di morte. Come
mostrano le foto realizzate in molte
città tedesche, le deportazioni avvenivano durante le ore di luce e nelle
immediate vicinanze del traffico ferroviario quotidiano. Fra i binari ferroviari
vennero trovati messaggi lasciati dai
deportati, tra i quali c’erano molti
bambini: singole preghiere d’aiuto,
frammenti di lettere e cartoline. Queste testimonianze sono andate perdute. Difficilmente possono essere trovati
un singolo binario ferroviario che ci
ricorda la sorte dei deportati o qualche
stazione ferroviaria dove si trovi un
monumento alla memoria.
Cfr. www. Zug-der-erinnerung.eu.
Pagina Internet Deutsche Bahn AG,
2006. Position: Unternehmen, Konzern,
Geschichte. Mhnmal Gleis 17"
http://www.db.de/site/bahn/de/unternehmen/konzern/geschichte/themen/m
ahnmal/mahnmal.html).
Su Richard Serra cfr. la retrospettiva
del Museo d’Arte Moderna di New
York, estate 2007, Lacayo, Richard, Size
does matter. Richard Serra’s artwork is
huge. Inoltre cfr. “Time Magazine”, 30
luglio 2007, pp. 51-52.
Schulz, Bernhard, Nur Kompromiß, in
“Der Tagesspiegel” vol. 7, luglio 1998.
Il Ministero italiano della Difesa, che si
occupava della sepoltura dei soldati a
Roma, nel 1980 e nel 1990 preparò una
serie di brochure sui Sacrari militari
della Prima guerra mondiale. Redipuglia
commemora le morti di oltre centomila
uomini. Il monumento venne realizzato
nel 1938 seguendo il progetto di Giovanni Greppi e dello scultore Giannino
Castiglioni. Gli stessi autori progettarono nel 1935 il monumento del Monte
Grappa innalzato per ricordare più di
cinquantamila uomini uccisi. Cfr. Luoghi della Grande guerra 1915–1918,
Carta Turistica, Ufficio informazioni
turistiche, Altopiano di Asiago, 1997.
Monumento alla memoria sovietico
innalzato tra il 1946 e il 1949 a Berlino-Treptow che commemora i soldati
sovietici uccisi durante la battaglia di
Berlino. Architetto Jakow S. Belopolski,
ingegnere civile Sarra S. Walerius,
scultori Alexander A. Gorpenko e Jewgeni W. Wutschetitsch.
All’intemo della struttura Luoghi della
381
Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto
Lo splendore della forma
12
382
persecuzione e della resistenza nella
Berlino del periodo tra il 1933 ed il 1945
venne creato il luogo commemorativo
Plotzensee per ricordare l’assassinio dei
combattenti della Resistenza avvenuto
il 20 luglio 1944. Nel 1967, in seguito
all’incoraggiamento dei combattenti
della Resistenza sopravvissuti, il Senato
di Berlino decise di realizzare un centro
commemorativo ed educativo chiamato
Monumento alla Memoria della Resistenza tedesca nel Bendlerblock della
Stauffenbergstraße.
Qui, tra un gran numero di artisti, vorrei menzionare Jochen ed Esther Shalev-Gerz con il loro Sinking Column del
1986, innalzato come monumento
commemorativo contro il fascismo nei
sobborghi di Amburgo. Il loro lavoro
consiste in una colonna con un diametro di un metro e dodici di altezza
ricoperta da uno strato di piombo.
Secondo l’intenzione degli artisti, questo monumento deve comunicare con
il pubblico. Accanto alla colonna c’erano quattro matite grandi in ardesia e
una targa su cui veniva spiegato in
sette lingue diverse il significato di
questo monumento contro il fascismo
e su cui era stato riportato un invito
alla gente perché ponesse una firma
sulla colonna. Non appena lo spazio
libero veniva interamente coperto dalle
firme, la colonna veniva sprofondata
nel terreno per la porzione di spazio
occupata dalle scritte. Con il passare
del tempo sarebbe stata realizzata una
lista di nomi e la colonna sarebbe
dovuta immergersi nel terreno. Questa
lista doveva assomigliare alla lunga
lista di nomi sugli altri monumenti alla
memoria dell’Olocausto, anche se in
questo caso non si trattava di una lista
di vittime, ma di una lista di sopravvissuti, essendo le firme realizzate da
gente in vita. Jochen Gerz parlò di “un
nuovo tipo di commemorazione che
sostituisce il momento breve d’interesse con una co-partecipazione e una
corresponsabilità permanenti” (Jochen
Gerz, discorso per la giuria del monumento commemorativo degli Ebrei
d’Europa uccisi, 14 novembre 1997).
Come esempio più recente (2006), vorrei menzionare il Monumento alla
Memoria dei Vicini deportati nella zona
della precedente stazione ferroviaria di
Aspang a Vienna. Da qui vennero
deportate nei campi di concentramen-
13
14
15
16
17
18
19
20
21
to più di cinquantamila persone. I vincitori del concorso furono gli architetti
di Stoccarda Fischer, Naumann and
Partners, in collaborazione con l’artista
Kirsten Arndt, anch’egli di Stoccarda.
Cfr. “DieNeue Stadt”, 1952, Jg. VI, H.
12, pp. 533-535.
Per creare ulteriore spazio per la sezione ebraica del Museo di Berlino, si
tenne un concorso architettonico nel
1988. II Museo di Berlino fu collocato
in un edificio barocco del 1735, quindi
ricostruito tra il 1963 e il 1969. L’architetto americano Daniel Libeskind
vinse il concorso nel giugno del 1989
arrivando primo tra 165 partecipanti.
La costruzione venne cominciata nel
novembre del 1992 e nel maggio del
1995 si tenne la cerimonia d’inaugurazione. Nel 1998 fu completata la
costruzione e vennero aperti gli uffici.
II primo gennaio 1999 il Museo di Berlino venne ufficialmente aperto e convertito in una fondazione autonoma a
partecipazione pubblica.
Il cimitero di Igualada del 1992 utilizza in una maniera molto abile la posizione di una precedente cava di pietra.
Abbassando lo sguardo dal bordo più
alto della cava, la forma del pavimento
può essere interpretata come una foresta che galleggia su di un fiume o,
simbolicamente, una vita che galleggia
nel fiume del tempo.
Heimrod, Lite, Schlusche, Gunter and
Seferenz, Horst (ed.): Der Denkmalstreit
- das Denkmal? Die Debatte urn das
“Denkmal fur die ermordeten Juden
Europas”. Eine Dokumentation, Berlin
1999 (Philo Verlagsgesellschaft).
Cf. anche DIF, Deutsches Filminstitut
(ed.), Cinematographie des Holocaust.
Die Vergangenheit in der Gegenwart.
Konfrontationen mit den Folgen des
Holocaust im deutschen Nachkriegsfilm, Berlin 2001.
Konrad, Gyorgy, Abschied von einer
Chimare. Wider das Holocaust-Denkmal, in: “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, 26 novembre 1997.
Ibidem
Young, James E., Gegen Sprachlosigkeit
hilft Kreischen und Lachen. Wer an die
Vemichtung erinnern will, muB die
Leere gestalten: Berlins Problem mit
dem Holocaust-Denkmal und meines,
in: “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, 4.
Juni 1998.
Konrad, Gyorgy, op. cit.
22
23
24
I visitatori del Ministero della Difesa
attraversano l’atrio con la raffigurazione della Berlino distrutta dai bombardamenti aerei che si trova lungo il loro
tragitto verso gli uffici dei dipendenti
del Ministero. Una fotografia aerea del
1945 sotto forma di un tappeto di
dieci metri per cinque (Tappeto Rosso,
2003) si trova sul pavimento della sala
d’entrata della sede berlinese del Ministero della Difesa tedesco al Reichpietschufer. Esso mostra il quartiere del
Tiergarten con le sue ambasciate e i
suoi dintorni. L’artista berlinese Via
Lewandowsky interpreta questo lavoro
come un “ironico ponte tra il concetto
di Tappeto Rosso e il trauma della
distruzione”, che richiede un po’ di
distanza per essere percepito nella
giusta maniera. Vista da vicino, la raffigurazione appare come un disegno
astratto caotico. Più l’osservatore sale
le scale che dalla sala portano al piano
superiore, più aumenta la precisione
della raffigurazione. Lewandowsky fu
testimone della distruzione di Dresda,
la città in cui viveva, a causa dei
“bombardamenti del terrore” da parte
degli Alleati. Il concetto del tappeto
nacque in seguito al concorso “Arte ed
Architettura” negli edifici pubblici
all’interno del Ministero della Difesa
nel 2002 (Fonte: dpa del 24.03.2003).
Rurup, Reinhard (ed.): Topographic des
Terrors. Gestapo, SS und Reichssicherheitshauptamt auf dem. PrinzAlbrecht-Gelande. Eine Dokumentation,
Berlin 1987.
II vincitore della concorso fu Micha
Ullman, la realizzazione nel 1995. La
citazione originale di Heinrich Heine è:
“Dort, wo man Bucher verbrennt, verbrennt man am Ende auch Menschen”
(Là, dove si bruciano libri, alla fine si
bruciano anche gli uomini). Per BebelPlatz si veda anche Pump-Uhlmann,
25
26
27
28
29
Holger, Bebelplatz, Berlin, Germany, in
Mancuso, Franco e Kowalski, Krzysztof
(ed.), Squares in Europe. Squaresfor
Europe, Cracow 2007, pp. 98-99.
Nel 1995 si tenne un concorso per
questo monumento commemorativo,
che venne vinto da Rainer Gorsz. Il
monumento venne inaugurato il 10
luglio del 2000.
Cfr. Bollerey, Franziska, Mythos Metropolis. Berlin (Gebr. Mann Verlag), Delft
(1HAAU) 2006, pp. 29-31.
Stih, Renata e Schnock, Frieder, op. cit.
Cfr. anche Kunstamt Schoneberg,
Schoneberg Museum in Zusammenarbeit mit der Gedenkstatte, Haus der
Wannsee Konferenz (ed.), Orte des
Erinnems. Judisches Alltagsleben im
Bayrischen Viertel. Eine Dokumentation, Berlin 1999 (1995A) e far Kreuzberg, Berliner Geschichtswerkstatt
(ed.), Fundstucke, Fragmente. Erinnerungen: Juden in Kreuzberg 1991. Konzept: Christine Zahn,
Neue Gesellschaft fur Bildende Kunst
e.V. (NGBK), Redaktion: Eisbrenner,
Bettina (ed.): Stolpersteine fur die von
den Nazis ermordeten ehemaligen
Nachbam aus Friedrichshain und
Kreuzberg, Berlin 2002. L’ufficio che si
occupa del coordinamento delle “Stele
commemorative” per Berlino si trova
nel “Gedenkstatte Deutscher Widerstand”, Stauffenbergstraße 13-14 a
Berlino. All’inizio dell’anno 2007 circa
2.000 “stele commemorative” vennero
posizionate a Berlino. Ce ne sono più
di 12.500 in oltre 277 città tedesche.
Cfr. le informazioni relative alle città
che contengono “Stolpersteine” (le
stele commemorative) su internet.
Informazioni generali su www.stolpersteine.com/start.html. Per le singole
città www.stolpersteinewuerzburg.de;
www.stolpersteine-muenchen.de;
www.stolpersteine-leipzig.de.
383
Il rilievo delle sculture con tecniche laser scanner:
uno strumento di conoscenza tra realtà virtuale
e rigore scientifico
di Laura Baratin
384
Introduzione
L’evoluzione delle tecnologie informatiche ha favorito
un rapido sviluppo e l’affinamento di tecniche di rilevamento di oggetti solidi aprendo prospettive interessanti per impieghi in diversi settori. Negli ultimi anni
soprattutto per soddisfare alcune richieste in campo
industriale sono stati introdotti sul mercato i laser scanner per il rilevamento di oggetti. Questo tipo di apparecchiature sono in grado di rilevare milioni di punti
in pochi istanti con precisione soddisfacente in vari
campi applicativi.
La rapidità di acquisizione dei dati applicata nell’ambito dei Beni culturali permette di introdurre nel mercato della conoscenza e della salvaguardia un notevole
risparmio in termini di tempi e di costi pur garantendo
la qualità dei risultati.
La tecnica consiste nell’acquisizione di dati metrici e
assetti deformati per mezzo di un apparato di rilevamento a raggi laser. Il sensore di scansione, montato su
base motorizzata, opera registrando tutti i punti architettonici visibili (rispetto al centro di scansione), secon-
Il rilievo delle sculture con tecniche laser scanner
do un passo regolabile dall’utente. Come risultato si
ottiene, infatti, una nuvola di punti tridimensionale che
riproduce esattamente lo stato di fatto dell’oggetto analizzato, consentendo la successiva modellazione solida.
Oggi la ricostruzione e la realtà virtuale sono sempre
più considerate un efficace strumento di conoscenza:
permette infatti di “conoscere il mondo” mediante un
apprendimento di tipo senso-motorio, più naturale per
l’essere umano rispetto all’apprendimento di tipo simbolico-ricostruttivo, mediato dalla scrittura.
La tendenza attuale testimonia che le recenti tecnologie per il rilievo, la modellizzazione e la visualizzazione
3D sono sempre più utilizzate nel settore dei Beni culturali; in questo settore, nel campo dello studio, della
salvaguardia e della loro conservazione, le immagini
tridimensionali sembrano essere un mezzo estremamente utile date le molteplici applicazioni prevedibili:
- possono essere uno strumento per la simulazione di
ipotesi di lavoro che potrebbero giustificare delle
scelte tecniche, estetiche e storiche; sia nell’ambito
di interventi di restauro sia nelle analisi storico-critiche ipotizzate dagli storici dell’arte;
- possono essere uno strumento di visualizzazione
immediata per informare un pubblico non abituato
alla lettura della rappresentazione grafica, uno strumento pedagogico fondamentale per evidenziare la
qualità di un lavoro, per insegnarne la sua storia e
più in generale come supporto alla storia dell’arte o
più semplicemente per presentare delle informazioni turistiche ad alto livello;
- possono essere uno strumento “spettacolare” associato
spesso al cinema e ai mezzi di comunicazione visiva;
- possono essere, infine, uno strumento della memoria
che può associare alle forme degli oggetti “sintetizzati” delle informazioni complesse immediatamente
accessibili; i materiali, le datazioni, lo stato di conservazione, i restauri.
Grazie alle nuove tecnologie, oggi possiamo visitare
luoghi virtuali dentro i quali sono racchiuse testimonianze dell’operato dell’uomo sia del presente sia del
passato, dislocate geograficamente e temporalmente in
385
Lo splendore della forma
posti fisicamente lontanissimi tra loro; possiamo scegliere i nostri percorsi di conoscenza; possiamo interagire con l’opera, di qualunque luogo o di qualsiasi
epoca essa sia.
Tali applicazioni sono capaci di mostrare qualunque
bene culturale in tutte le angolazioni possibili, ruotarlo, manipolarlo, evidenziare i particolari ecc.
I progetti di realtà virtuale mirano a offrire al fruitore
simulazioni sempre più vicine all’esperienza reale, e in
alcuni casi permettono un’interazione più approfondita.
Dall’altro lato si pensi anche alla valenza scientifica dei
rilievi e della documentazione acquisita attraverso queste tecniche che consentono operazioni di salvaguardia
e di restauro sempre più raffinate e rigorose.
Dove è il limite nella documentazione per la conservazione e valorizzazione dei Beni culturali fra il rigore
scientifico e l’effetto scenico?
In questo lavoro si presenta una panoramica del settore
secondo queste due angolazioni attraverso una serie di
casi esemplificativi e in particolare nell’esperienza sviluppata in collaborazione con il Comune di Bologna.
386
Primo esempio: La Cappella funeraria Goldoni nel Cimitero
Monumentale di Bologna
Il Cimitero Monumentale della Certosa di Bologna, fin
dalla sua fondazione, è stato uno specchio della cultura
bolognese riflettendone le evoluzioni artistiche, sociali
e politiche; conosciuto a livello internazionale quale
tappa degli itinerari del Gran Tour e sotto il continuo
controllo per la qualità stilistica delle opere da parte
dell’Accademia delle Belle Arti.
Questo complesso, che ha visto il suo progressivo declino a partire dagli eventi bellici, deve essere concepito
come insieme di unità organiche, come ambienti di un
museo senza pareti dove ogni opera costituisce una
realtà a sé in un costante dialogo con il suo contesto.
Per organizzare interventi mirati alla riqualificazione
del sito si è ritenuto fondamentale la conoscenza della
consistenza culturale delle singole opere presenti e
delle implicazioni conservative a esse collegate.
Il Progetto Nuove Istituzioni Museali del Comune di
Bologna propone accanto alle fasi di catalogazione un
Il rilievo delle sculture con tecniche laser scanner
approfondito esame e una specifica conoscenza dell’ambiente fisico dove si trova collocata ogni singola
opera – poiché dall’ambiente derivano le principali
cause del degrado – e un progetto di manutenzione
periodica e programmata finalizzato al controllo dei
processi di alterazione che agiscono complessivamente
e unitamente sull’intero sistema. Un idoneo progetto di
manutenzione dovrebbe prevedere la compilazione di
una scheda conservativa da cui emergano: le caratteristiche specifiche del sito, i fattori ambientali responsabili del degrado, la consistenza del degrado stesso. Da qui
la sperimentazione avviata su alcune tipologie di opere.
Il rilievo della tomba Goldoni,1 primo esempio di schedatura, è stato condotto attraverso l’utilizzo complementare di due laser scanner terrestri con caratteristiche molto differenti tra loro.
Il rilievo del corpo di fabbrica è stato realizzato utilizzando lo strumento laser FARO LS, motorizzato che
utilizza il metodo della differenza di fase, con una portata massima di 80 metri e con un angolo di ripresa di
360° in orizzontale e 320° in verticale.
Il lavoro si è concentrato sulla parte frontale del fabbricato e sui due lati, realizzando un numero esiguo di
scansioni (complessivamente cinque) con la finalità di
avere una descrizione tridimensionale complessiva dell’oggetto. Questa acquisizione, che potremmo definire
“di contesto”, è stata arricchita sperimentando sul
grande bassorilievo del fronte principale un laser scanner – FARO ARM – dotato di braccio antropomorfo in
grado di definire le superfici più complesse (fig. 1).
387
1. Laser scanner a braccio
antropomorfo FARO ARM
durante l’acquisizione
Lo splendore della forma
Il rilievo delle sculture con tecniche laser scanner
3. Fasi di modellazione
della tomba secondo
le misure del progetto
originale
2. Progetto di
Giusppe Vaccaro
per la tomba Goldoni
388
Lo strumento è composto da un braccio snodato alla
cui estremità viene montata una testina laser che può
essere comandata con precisione dalla mano, in modo
simile a una pistola. È uno strumento di utilizzo piuttosto diffuso nel settore della meccanica e dell’industria
automobilistica che in questa occasione è stato testato
in un ambiente nuovo, per valutare quale può essere la
sua adattabilità alla descrizione di elementi tridimensionali architettonici e scultorei.
Sono state acquisite tre delle sei formelle di marmo che
compongono il bassorilievo utilizzando un ponteggio
reso solidale con la struttura muraria della tomba per
raggiungere la giusta posizione operativa. Il braccio
antropomorfo abbinato alla facile impugnatura della
testina laser rende possibile il raggiungimento di tutte
le superfici, anche quelle più nascoste, eliminando di
fatto il problema della copertura dei sottosquadri.
Lo strumento, inoltre, consente di acquisire un’unica
nuvola di punti, eliminando di conseguenza le fasi di
elaborazione dei dati che riguardano l’unione delle
nuvole di punti; infatti, quando si ferma l’acquisizione e
in seguito la si riprende, non solo i nuovi punti vanno ad
aggiungersi alla stessa nuvola, ma lo scanner è anche in
grado di riconoscere le superfici su cui è già stata fatta
l’acquisizione, evitando di aggiungere ulteriori misure.
I dati acquisiti sono strati trattati seguendo le procedure standard che si eseguono per i rilevi laser scanner
architettonici: pulizia delle nuvole di punti da elementi
indesiderati, filtraggi per la riduzione del rumore,
unione delle nuvole, triangolazione.
Il modello ottenuto costituisce così un elemento conoscitivo della struttura nel suo complesso.
Come ulteriore applicazione, partendo dai progetti originali quotati di Vaccaro, è stato realizzato un modello
tridimensionale della tomba nelle sue condizioni di
esecuzione. Successivamente è stato inserito il modello
del bassorilievo acquisito e si possono notare le differenze rispetto al progetto originario.
Nelle figg. 2 e 3 si possono vedere rispettivamente
parte dei progetti di Giuseppe Vaccaro per la tomba
Goldoni e alcune fasi della modellazione secondo i dati
di progetto.
Le nuvole delle tre formelle del bassorilievo sono state
anch’esse pulite e filtrate per ridurre il rumore, in questo caso dovuto essenzialmente ai piccolissimi movimenti fatti dal ponteggio.
Nella fig. 4 è possibile vedere a confronto un dettaglio
fotografato di una formella e la corrispondente acquisizione dei dati laser mappati, mentre in fig. 5 alcune
viste mettono in evidenza come sia stato possibile
acquisire con qualità e senza lacune questa geometria
così complessa e articolata.
Il rilievo, in questo caso, può costituire un punto di
partenza per alcune applicazioni finalizzate sia alla predisposizione di interventi tecnici, sfruttando l’elevato
grado di precisione ottenuto, sia per una documentazione utile agli uffici museali per far conoscere la con-
389
Lo splendore della forma
4. Confronto tra la
superficie rilevata dallo
scanner e la formella
“reale”
Il rilievo delle sculture con tecniche laser scanner
6. Foto della statua
dell’Ercole all’interno
di Palazzo d’Accursio
sistenza del proprio patrimonio funerario monumentale nell’ottica di una migliore gestione e valorizzazione.
390
Secondo esempio: la Statua di Ercole in Palazzo d’Accursio a
Bologna
L’intervento è stato richiesto per realizzare una rappresentazione tridimensionale superficiale della statua di
Ercole (fig. 6) nella sala omonima all’interno del Palazzo Comunale d’Accursio. La Sala d’Ercole è luogo di
frequenti esposizioni temporanee e la loro programmazione può essere seguita nel sito web del Comune,
anche attraverso alcuni allestimenti virtuali. La rappresentazione della statua doveva essere, quindi, sufficientemente dettagliata per essere utilizzata in un contesto
di ambientazione interattiva libera della Sala (fig. 7),
con la necessità, in ogni caso, di avere il minor numero
di poligoni possibile per una rapida gestione e visualizzazione del modello.
Il rilievo è stato orientato maggiormente all’acquisizione della forma e della morfologia dell’oggetto, trascurando gli aspetti più strettamente legati alle dimensioni
e agli elementi di dettaglio.
A questo proposito anche le scelte legate alla tecnologia laser scanner sono state orientate su un tipo di strumento che nasce per il rilievo di oggetti di grandi
dimensioni e con una minore complessità morfologica,
ma con tempi decisamente inferiori rispetto a uno
strumento specifico per la scansione di oggetti d’arte.
Il rilievo è stato realizzato con il laser scanner FARO
LS, strumento motorizzato che utilizza come metodo
di misura quello della differenza di fase, montato su
treppiede con estensione massima in altezza di 2.5
metri. Sono state eseguite sette scansioni da altrettante
stazioni per un totale di 60 milioni di punti rilevati. La
391
5. Dettagli delle
scansioni laser
7. Sala d’Ercole
rappresentazione virtuale
Il rilievo delle sculture con tecniche laser scanner
Lo splendore della forma
laser “ad alta risoluzione”, che soprattutto per gli oggetti storico-artistici può costituire una fondamentale
banca dati tridimensionale, fonte di precisa conoscenza
metrica e alta capacità descrittiva dell’opera, anche nell’ottica di futuri interventi di restauro e conservazione.
8. Vista frontale della
statua dai rilievi
laser scanner
392
durata complessiva delle operazioni è stata di circa 1,52 ore. Le operazioni di elaborazione sono state stimate
in tre giornate lavorative per la creazione di un modello superficiale finale della statua composto da circa
1.900.000 poligoni, utilizzato successivamente per le
ambientazioni richieste (figg. 8 e 9).
In questo modo, si è cercato di dare una risposta alla
richiesta di ottimizzazione di tempi, costi e qualità dei
risultati dell’operazione di rilievo ed elaborazione per
applicazioni a carattere prevalentemente grafico come
quelle di ambientazione tridimensionale su web.
Naturalmente non si intende con tali osser vazioni
disconoscere l’estrema importanza che riveste il rilievo
9. Particolare delle superfici
triangolate della testa
dell’Ercole
Riferimenti bibliografici
Felicori, M. e Zanotti, A. (a cura di), Cimiteri d’Europa - Un patrimonio da conoscere e
restaurare, 228, Compositori Industrie Grafiche ed., Bologna 2004.
Società Storica Poliziana (a cura di), La Chiesa Cattedrale di Montepulciano, Le Balze
ed., Montepulciano 2005.
Società Storica Poliziana (a cura di), Scultura a Montepulciano dal XIII al XX secolo, Le
Balze ed., Montepulciano 2003.
Antinucci F., Musei virtuali. Come non fare innovazione tecnologica, Laterza, Bari 2007.
Barceló, J.A., Forte, M. e Sanders, D.H., The diversity of Archaeological virtual worlds, Ed.
Archeopress, Oxford 2000.
Bonora, V. e Tucci, G., Il laser scanner terrestre ed il rilievo dei Beni Culturali, in Fausto, S.
e Tucci, G. (a cura di), Sistemi a scansione per l’architettura ed il territorio, Alinea Editrice, Firenze 2007, pp. 111-113.
Sasso D’Elia, L., Problemi di codifica in un data-base territoriale, Atti del Convegno “La
cartografia dei Beni Storici, Archeologici e Paesistici nelle grandi aree urbane dal censimento alla Tutela”, Roma 1993, pp. 99-102.
Baratin, L., Curti, S., Lodi, M., Checcucci, G. e Romeo, M., 3-D Visualization and animation of architectonic elements for prehistoric megalithic temples of the island of Gozo:
the temple of Ggantija, in Proceedings of XX Congress CIPA 2005, Torino, settembre
2005.
Baratin, L., Curti, S., Lodi, M. e Bonnici, H., The different methods to document and
interpret the archaeological sites containing Cart-ruts in Proceedings of XX Congress
CIPA 2005, Torino, settembre 2005.
Baratin, L., Tecniche di misura antiche e moderne: alcuni esempi di rilievi di castelli e
fortificazioni, in Le misure del castello, Clueb, Bologna 2006.
Baratin, L. e Peloso, D., L’evoluzione storica di Forte S. Elmo a Malta attraverso la creazione di modelli tridimensionali, in Atti della 11° Conferenza Nazionale ASITA, Federazione Asita, Torino, novembre 2007.
1
La Cappella funeraria Goldoni, famiglia
di industriali bolognesi, fu progettata
intorno agli anni ’50 dall’architetto
Giuseppe Vaccaro in collaborazione,
per la parte scultorea, con lo scultore
ungherese Amerigo Tot.
393
Gli autori
394
Mauro Felicori dirigente del Comune di Bologna, è stato il
presidente-fondatore dell’ASCE
Franco Sborgi insegna Storia dell'Arte all’Università di Genova
Francisco Queiroz è ricercatore al CEPESE dell’Università di
Porto
Carlos Reyero è docente di Storia dell’Arte all’Università
Pompeu Fabra di Barcellona
Roger Bowdler è Head of Designation all’English Heritage
Ray Bateson ricercatore e autore sui cimiteri come beni culturali
Liisa Lindgren è curatrice delle collezioni d’arte del Parlamento finlandese e docente all’Università di Helsinki
Ioana Beldiman insegna Storia dell’Arte all’Università delle
Arti di Bucarest
Daina Glavocic è consulente museale presso Museo di arte
moderna e contemporanea di Rijeka
Sonja Žitko è docente di Storia dell’Arte all’Università di Ljubljana
Régis Bertrand Università della Provenza, è presidente del
Centre d’Études d’Histoire Religieuse Méridionale
Christian Charlet è stato storico dei cimiteri del Comune di
Parigi
Werner Kitlitschka è storico dell’arte all’Università di Vienna
Sibylle Schulz è storica dell’arte indipendente
Marcel M. Celis storico dell’arte, ha lavorato al Consiglio dei
Monumenti della Comunità Fiamminga del Belgio e animato
l’associazione Epitaaf
Cristina Beltrami insegna Museologia e Storia dell’Arte
all’Università di Verona
Nicoletta Cardano curatore storico dell’arte, è coordinatrice
del catalogo unico della Sovraintendenza ai Beni Culturali
di Roma
Christina Huemer scomparsa nel 2010, è stata bibliotecaria e
storica dell’arte all’ICCROM e all’Accademia Americana di
Roma
Camilla Bertoni è storica dell’arte e giornalista
Emanuela Bagattoni è docente di Storia dell’arte contemporanea all’Università di Bologna
Alfonso Panzetta è docente di Storia della Scultura all’Accademia di Belle Arti di Bologna
Gli autori
Susanna Zatti dirige il Settore Marketing territoriale e Cultura del Comune di Pavia
Leo Lecci è ricercatore e docente di storia dell’arte contemporanea all’Università di Genova
Graziella Cirri storica dell’arte, docente al Centro di cultura
per stranieri all’Università di Firenze
Laura Dinelli è responsabile Beni culturali e Sistema delle
Fortezze al Comune di Livorno
Giovanna Ginex storica dell’arte e curatrice indipendente
Cristina Rovere arabista, insegnante di arabo e traduttrice
Sandra Berresford è storica dell’arte indipendente
Ornella Selvafolta è docente di Storia dell’Architettura al
Politecnico di Milano
Guido Zucconi è docente di Storia dell’architettura allo
IUAV di Venezia
Anna Maria Fiore ha conseguito il dottorato allo IUAV di
Venezia con una ricerca sui sacrari
Franziska Bollerey insegna Storia dell’Architettura e Urbanistica alla Facoltà di Architettura di Delft
Laura Baratin è docente di topografia e cartografia all’Università di Urbino
395