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Anno VI, numero 11 – Maggio 2016 Claudio Vicentini La teoria della recitazione. Il distacco dell’attore dal personaggio La regola del distacco Nella considerazione ecologica delle nozioni usate nello studio della recitazione si collocano, accanto all’identificazione, due concetti chiave, il ‘distacco’ (l’attore rappresenta il personaggio manifestandone i sentimenti senza provarli), e la ‘dislocazione’ (l’attore mentre recita rende visibile la propria presenza accanto alla figura del personaggio).1 Tuttavia anche la dislocazione viene per lo più indicata come distacco, e l’impiego delle due nozioni, sovente confuse, si è ampiamento diffuso in omaggio a una sorta di vulgata della teoria brechtiana dove il distacco e la dislocazione appaiono connessi nella produzione dell’effetto di straniamento (far apparite straordinari e quindi oggetto di attenzione critica fatti e comportamenti consueti), al punto da essere sovente intesi come sinonimi, o quanto meno come tecniche inseparabili. Le origini e lo sviluppo delle sue nozioni sono però indipendenti. Sono nozioni elaborate tra la metà del settecento e gli inizi dell’ottocento nel tentativo di rispondere a un problema assolutamente lontano dalla nozione di straniamento (che è inesistente prima di Brecht), e apparentemente insolubile: come rendere sulla scena un personaggio inadatto a manifestarsi nella realtà umana dell’attore. Nelle risposte a due diverse forme di «irrappresentabilità» del personaggio veniva messa a punto prima la nozione di distacco, e poi quella di dislocamento. Il distacco è teorizzato per la per la prima volta nell’Art du Théatre à Madame *** di Antoine-François Riccoboni apparso nel 1750. Secondo una convinzione indiscussa, posta a fondamento della teoria della recitazione fin dalle prime formulazioni d’epoca greca e romana, l’adesione emotiva è un aiuto prezioso o addirittura indispensabile alla resa delle espressioni che l’attore manifesta interpretando il personaggio. All’adesione emotiva erano attribuite due funzioni: imprimere spontaneamente sul volto e nell’atteggiamento l’espressione richiesta dalla parte, e caricarla di un’energia particolare che contagiava lo spettatore coinvolgendolo nello stato emotivo rappresentato. Contro questo postulato Antoine-François Riccoboni muoveva un’obiezione destinata a diventare celebre. Se un attore prova davvero il sentimento che Sulla considerazione ecologica delle nozioni impiegate nello studio del teatro vedi C. Vicentini, Per un’ecologia delle nozioni di lavoro. L’identificazione dell’attore con il personaggio, «Acting Archives Review«, n. 7, maggio 2014 (www.actingarchives.it). 1 © 2016 Acting Archives www.actingarchives.it 1 AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016 manifesta perde la capacità di controllare le proprie espressioni, rendendole false e confuse, o addirittura pericolose. Questo pericolo, ma solo sporadicamente e in termini assai generici, era già stato considerato dalla letteratura precedente. Si ricordava il tragico episodio di Montdory colpito da paralisi sulla scena del Théâtre du Marais nell’agosto del 1637 mentre pronunciava con eccessiva veemenza le imprecazioni del personaggio di Hérode nella Mariamne di Tristan. Si ricordava anche la fine di Montfleury morto trent’anni dopo in seguito ai furori declamatori con cui aveva interpretato la follia di Oreste nell’Andromaque di Racine. Ma non era necessario arrivare a tanto. Le insidie dell’emozione potevano avere effetti meno tragici ma comunque devastanti. Nelle Réflexions sur l’eloquence de ce temps del 1671 René Rapin citava il caso di un avvocato trascinato dal suo discorso al punto da ingarbugliare la pronunzia e diventare incomprensibile. In tempi più recenti Grimarest aveva osservato che un’eccessiva passione, realmente provata da un avvocato, poteva alterarne la voce e impedire un’efficacia scelta delle parole, e Jean Poisson aveva ribadito l’esigenza di regolare l’adesione emotiva nel parlare in pubblico perché altrimenti la voce si soffocava e la memoria si smarriva.2 Si trattava però dei danni provocati da un evidente eccesso emotivo. Con Antoine-François Riccoboni la questione si poneva in termini diversi. Non riguardava soltanto un’eventuale sovrabbondanza di adesione sentimentale. Si stabiliva piuttosto una regola assoluta che escludeva sempre e comunque la partecipazione interiore, più o meno intensa che fosse: «se si ha la sfortuna di provare realmente quello che si deve esprimere», stabiliva l’Art du Théatre à Madame ***, «non si è in grado di recitare». Veniva proposto un esempio che doveva apparire inequivocabile: Se in un punto di intenerimento vi lasciate trasportare dal sentimento della vostra parte, il vostro cuore si troverà ad un tratto serrato, la vostra voce si soffocherà quasi del tutto; se cade una sola lacrima dai vostri occhi, dei singhiozzi involontari impacceranno il gosier, vi sarà impossibile proferire una sola parola senza dei singulti ridicoli. Se dovete allora passare subitamente alla più grande collera, ciò vi sarà forse possibile? No, senza dubbio. Cercherete di rimettervi da uno stato che vi priva della facoltà di proseguire, un freddo mortale si impadronirà dei vostri sensi e per qualche istante non reciterete più che macchinalmente. Cosa ne sarà in quel momento dell’espressione di un sentimento che richiede molto più calore e forza del primo? Quale orribile scompiglio ciò non produrrà nell’ordine delle sfumature che l’attore deve percorrere affinché i sentimenti appaiano legati e sembrino nascere gli uni dagli altri?3 R. Rapin, Réflexions sur l’eloquene de ce temps, Paris, Barbin et Muger, 1671, pp. 69-70 ; J.-L. Le Gallois de Grimarest, Traité du Récitatif, Paris, Jacques Lefèvre et Pierre Ribou, 1707, p. 118 ; J. Poisson, Réflexions sur l’art de parler en public, s.l., 1717, p. 25. 3 A. F. Riccoboni, L’arte del teatro, tr. it., introduzione e note di E. De Luca, Napoli, Acting Archives, , 2015, p. 182, www.actingarchives.it (Books). 2 2 Claudio Vicentini, Il distacco dell’attore dal personaggio Dunque anche gli stati d’animo moderati, come l’intenerimento – diversi dagli impeti del furore tragico, dall’odio, dalla disperazione – trascinano l’attore in una sorta di confusione espressiva. Poi Antoine-François Riccoboni passava a un secondo esempio: Un attore entra in scena, le prime parole che sente devono causargli una sorpresa estrema, coglie la situazione e tutto a un tratto il suo viso, l’aspetto e la sua vice marcano uno stupore da cui lo spettatore è colpito. Può egli veramente essere sorpreso? Egli conosce a memoria ciò che gli verrà detto: giunge a bella posta perché glielo si dica.4 La conclusione, di nuovo, era chiara. Esistono circostanze e scene in cui l’adesione emotiva è impossibile. Il distacco inteso come regola assoluta della recitazione veniva ribadito nel Paradoxe sur le comédien di Diderot, composto tra il 1773 e il 1777 e pubblicato parecchio tempo dopo, nel 1830.5 Qui le considerazioni e gli esempi si moltiplicavano e riguardavano due generi di argomenti assai diversi. Gli argomenti del primo genere sottolineavano l’inaffidabilità dell’adesione emotiva. Nessuno può decidere di provare un sentimento quando vuole, e dunque, osservava Diderot, nessun attore potrebbe produrre l’espressione dettata dalla parte nel preciso momento in cui viene richiesta dallo sviluppo del dramma.6 Inoltre, affidandosi alla propria sensibilità emotiva, l’attore sarebbe soggetto alle interferenze dei sentimenti della sua vita privata che turberebbero lo stato interiore necessario alla resa del personaggio: «avrà anch’egli un padre, una madre, una moglie, dei figli, dei fratelli» e «bersagliato al pari di noi e colpito da una serie infinita di disgrazie», non potrebbe il più delle volte recitare.7 Infine la gamma di stati d’animo di cui ognuno dispone è limitata e definita dalla sua personalità individuale, perciò un interprete non riuscirebbe mai a provare passioni che gli sono estranee. Incapace di recitare due personaggi differenti «potrebbe eccellere soltanto in alcuni punti di una medesima parte».8 Da tutto questo Diderot traeva una regola del distacco non dissimile da quella di Antoine-François Riccoboni: la recitazione richiede sempre un atteggiamento «freddo e tranquillo», spoglio da qualsiasi elemento emotivo prodotto dalla sensibilità dell’interprete.9 A Diderot non sfuggiva però che la stessa recitazione, per quanto fredda e distaccata, poteva di per sé provocare nell’attore uno stato emotivo che Ivi, p. 184. Diverse argomentazioni contenute nel Paradoxe, erano già note, sia pure in un ambito ristretto, prima del 1830. Diderot le aveva esposte in un articolo, Observations de M. Diderot sur une brochure intitulée Garrick ou les acteurs anglais, pubblicato in due numeri, il 15 ottobre e il 1 novembre del 1770, sulla «Correspondance littéraire», periodico manoscritto. 6 D. Diderot, Paradosso sull’attore, tr. it. a cura di P. Alatri, Roma, Editori Riuniti, 1989, p. 73. 7 Ivi, pp. 116-117. 8 Ivi, p. 135. 9 Ivi, p. 75. 4 5 3 AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016 definiva «fittizio» (acquis ou factice)10. Di un «calore» prodotto dall’azione recitata, che investe progressivamente lo stato emotivo dell’attore, si era del resto già parlato. Vi aveva accennato d’Aubignac nella Pratique du théâtre ricordando che talvolta Montdory, «per animarsi un po’» prima di recitare le battute della parte, passeggiava «dondolando la testa, alzando e abbassando gli occhi e assumendo diversi portamenti secondo il sentimento da esprimere».11 Di un «fervore» prodotto dall’azione che anima la resa emotiva dell’interprete accennava, diverso tempo dopo, Jean Dumas d’Aigueberre in un saggio del 1730 riferendosi alla recitazione della Duclos.12 Nel 1734 Aaron Hill spiegava che la stessa postura fisica assunta dall’attore nel recitare la parte, l’atteggiamento, le azioni compiute, lo emozionavano facendogli provare «i veri sentimenti delle passioni recitate».13 Anche Antoine-François Riccoboni aveva osservato che l’attore quando interpreta «i pezzi di grande passione» sente per un effetto naturale della recitazione «un’emozione vivissima».14 Tuttavia, mentre d’Aubignac, d’Aigueberre e Aaron Hill individuavano in un fenomeno del genere un aiuto alla resa del personaggio, e Riccoboni, paladino del distacco, non pareva né apprezzarlo né condannarlo, Diderot compiva un passo ulteriore. La sensibilità fittizia gli offriva l’occasione per denunziare l’effetto nefasto che l’emotività - in qualsiasi forma e comunque prodotta - provoca nella resa della parte. L’attore deve resistere al sentimento fittizio con una «volontà di ferro», compiendo un’assoluta rinuncia a riempire i suoi gesti e le sue espressioni con ogni scampolo di emotività.15 Di fronte a una prescrizione così perentoria e nonostante il carattere assoluto della regola gli argomenti di Diderot, così come quelli di Antoine-François Riccoboni, non riuscivano in realtà ad escludere l’adesione emotiva come una delle possibili componenti della recitazione. Dimostravano che la partecipazione interiore non era sufficiente perché non soddisfaceva alcune importanti esigenze dell’interpretazione attorica: il controllo espressivo, la difesa da interferenze emotive estranee alla resa della parte, la varietà dei personaggi da rappresentare, la necessità di esibire in ogni momento del dramma l’espressione richiesta. Ma tutto ciò non spiegava perché non potesse costituire almeno un sostegno per rendere più efficaci i gesti e le espressioni dell’attore, sia pur impostati, studiati, meditati e meticolosamente eseguiti con procedure diverse. Se poi era vero che l’empito emotivo portato a un estremo livello era comunque dannoso perché Ivi, pp. 82, 87,111. F. H. d’Aubignac, La pratique du théâtre, Paris, Antoine de Sommaville, 1657, p. 281. 12 J. D. d’Aigueberre, Seconda lettera del suggeritore della Comédie di Rouen, tr. it., introduzione e note di V. De Gregorio Cirillo, Napoli, Acting Archives, 2012, p. 232, www.actingarchives.it (Books). 13 A. Hill, Lettera a Marshall, 24 ottobre 1733, in The Works of the Late Aaron Hill, 4 voll., London, Printed for the Benefit of the Family, 1753, vol. I, p.158. 14 A. F. Riccoboni, Art du Théatre à Madame ***, cit., p. 183. 15 D. Diderot, Paradosso sull’attore, cit., pp. 87, 111. 10 11 4 Claudio Vicentini, Il distacco dell’attore dal personaggio distorceva e bloccava l’espressività dell’attore, non era detto che dovesse sempre arrivare a questi eccessi. Come spiegava John Hill in The Actor, pochi anni dopo l’uscita del testo di Riccoboni, un bravo attore deve essere in grado di regolare la propria sensibilità evitando «di sentire in modo tale da perdere l’uso della voce», e dimostrarsi capace di «controllare le sue passioni in modo che queste non disturbino le sua espressione».16 Posta in questi termini – la partecipazione emotiva non è sufficiente per recitare una parte – la nozione di distacco si riduceva a un’ovvietà. Ma nel dibattito teorico del tempo la regola del distacco, nella sua formulazione assoluta e radicale, assumeva un’importanza determinante. Nel 1728 Luigi Riccoboni, padre di Antoine-François, aveva infatti pubblicato Dell’arte rappresentativa, e illustrando le regole da seguire sulla scena aveva posto l’adesione emotiva come fondamento dell’arte dell’attore, base primaria di ogni altra operazione tecnica necessaria alla resa della parte. Veniva così inaugurata la moderna concezione emozionalista della recitazione, poi ampiamente sviluppata nel Comédien di Rémond de Sainte-Albine.17 La regola del distacco formulata da Antoine-François e da Diderot si presentava come critica diretta a questa concezione.18 Se l’adesione emotiva, per la propria instabilità, richiedeva un essenziale ricorso ad altre risorse della tecnica attorica, non poteva evidentemente essere posta a fondamento della recitazione. Ma qui si apriva un problema di ampia portata. Liquidata la posizione di Luigi Riccoboni e Rémond de Sainte-Albine, l’opposizione antiemozionalista si trovava impegnata a delineare una diversa teoria della recitazione, fondata su altre basi, e soprattutto, come prescriveva la formulazione della regola del distacco, escludendo ogni apporto dell’emozione dell’attore alla resa del personaggio. Era un compito improbo e destinato al fallimento. L’esigenza che lo muoveva finiva però con l’orientare per tutto l’ottocento e il primo novecento una parte della discussione sull’arte dell’attore in una direzione sostanzialmente sterile: discutere se la recitazione dovesse valersi di strumenti esclusivamente emotivi, o esclusivamente razionali.19 Una contrapposizione in cui, nel pieno J. Hill, The Actor, London, R. Griffiht, 1755, p. 54. L. Riccoboni, Dell’arte rappresentativa. Capitoli sei, London, 1728; P. Rémond de SainteAlbine, Le comédien, Paris, Dasaint & Saillant et Vincent fils, 1747. 18 Antoine-François fa esplicito riferimento alla teoria paterna (esposta dopo il trattato del ’28 nelle Pensée sur la déclamation, Paris, Briasson, Delormel, Praul, 1738) in una nota dell’Art du théâtre, di tono ambiguamente rispettoso: «So che in questo articolo sono completamente all’opposto dell’opinione di mio padre, come si può veder nei suoi pensieri sulla declamazione. Il rispetto che devo alla sua decisione, riconoscendolo come mio maestro nell’arte del teatro, e sufficiente a persuadermi che ho torto; ma ho creduto che la mia riflessione, vera o falsa, non sarebbe stata inutile al lettore» (cit. p. 183). Ed è in diretta polemica con un’opera derivata dal Comédien di Rémond de Sainte-Albine (Garrick ou les acteurs anglais) che Diderot compone il Paradoxe. Per la ricostruzione della vicenda e la consultazione dei relativi testi vedi il «Catalogue» di Acting Archives (www.actingarchives.it) alla voce Paradoxe sur le comédien. 19 È interessante notare che Luigi Riccoboni e Rémond de Sainte-Albine fondando la recitazione sull’adesione emotiva non escludevano affatto il ricorso, quando necessario, al 16 17 5 AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016 del dibattito, George Henry Lewes ravvisava acutamente una sorta di irrisolvibile «antinomia», resa in questi termini: se l’attore perde ogni potere sulla propria arte sotto l’influsso disturbante dell’emozione, perde anche ogni potere sulla sua arte in proporzione alla sua insensibilità all’emozione. Se davvero sente, non può recitare; ma non può recitare se non sente». 20 L’antinomia, appunto, in cui restavano per lungo tempo impantanate senza troppo costrutto le appassionate schiere degli emozionalisti e degli antiemozionalisti. La differenza di attore e personaggio, l’illusione e la regola della quarta parete Di ben altra importanza era invece la seconda serie di argomenti contro l’impiego dell’adesione emotiva esposti nel Paradoxe. Erano basati sulla differenza tra le condizioni della vita reale e della rappresentazione teatrale. Già l’ampiezza del palcoscenico e della sala, spiegava Diderot, richiedono una portata espressiva superiore a quella impiegata negli interni della realtà quotidiana. La voce o il gesto spontaneamente prodotti dal sentimento dell’attore che si immerge nelle circostanze immaginarie del dramma (un colloquio in un salotto borghese, un dialogo sussurrato in segreto) risultano insufficienti e devono essere sostituiti da una voce e un gesto appositamente costruiti. Ma ciò che soprattutto rende inutilizzabile l’adesione emotiva è la differenza che riguarda i personaggi, che sono diversi, osservava Diderot, dai concreti individui umani: sono creature fantastiche create dall’autore, «fantasmi immaginari della poesia» o «ippogrifi, con i loro movimenti, il loro portamento, le loro grida».21 La differenza riguarda sia i personaggi della commedia che quelli della tragedia. Questi sono dotati di straordinaria potenza e di grandezza, sono ragionamento e alle risorse tecniche per mettere a punto l’espressività dell’interprete, e talvolta per rendere a freddo il comportamento del personaggio mediante la semplice imitazione esteriore. Un solo testo, rimasto praticamente sconosciuto, L’art du comédien di Tournon de la Chapelle del 1783 (tr. it., introduzione e note di V. De Gregorio Cirillo, L’arte dell’attore, Napoli, Acting Archives, 2013, www.actingarchives.it (Books), sembra forse seguire un’impostazione emozionalista «pura». Anche nella bibbia novecentesca della dottrina emozionalista, Il lavoro dell’attore su se stesso, Stanislavskij dedicava diverse pagine al «controllo scenico» spiegando che i gesti che vanno bene nella vita quotidiana, a teatro, «con migliaia di persone», non appaiono abbastanza precisi e completi. Di qui il lungo lavoro tecnico prescritto dell’attore per rendere i gesti della recitazione adatti alla scena (Il lavoro dell’attore su se stesso, edizione riveduta e corretta a cura di F. Malcovati, Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 483-490). La polemica antiemozionalista si era insomma fin dagli inizi costruita un falso bersaglio sul quale si era paradossalmente riconosciuta anche una parte dello schieramento emozionalista, impegnata a sostenere una tesi (la totale sufficienza dell’adesione emotiva) che non era mai stata formulata. 20 G. H. Lewes, Gli attori e l’arte della recitazione, tr. it. e cura di Edoardo Giovanni Carlotti, Milano, Costa e Nolan, 1999, p.110. 21 D. Diderot, Paradosso sull’attore, cit., p. 84. 6 Claudio Vicentini, Il distacco dell’attore dal personaggio percorsi da passioni infinitamente più intense di quelle delle persone reali, e richiedono perciò espressioni smisurate rispetto a quelle prodotte dai semplici sentimenti umani. I personaggi della commedia, anche se apparentemente più simili a noi, sono figure tipiche, che condensano in sé i tratti specifici di un’intera categoria di persone. Devono perciò dotarsi di espressioni caratteristiche, differenti da quelle dettate dai moti dell’animo del semplice individuo umano.22 Diderot delineava quindi una teoria della recitazione fondata sull’imitazione, scandita in un processo che comprendeva precisi passaggi. L’attore, studiando il testo del dramma, forma nella sua immaginazione la figura del personaggio. Le indicazioni del testo non sono però sufficienti per la resa scenica che richiede la definizione di toni, pause, gesti, movimenti e dettagli d’ogni genere. L’attore ricrea perciò nella propria mente la figura ricavata dal testo. Nei casi migliori, ad opera dei grandi attori, l’immagine ricreata può rivelarsi più potente ed efficace di quella fornita dall’autore, nei casi meno felici, più inerte e scolorita. Comunque, fissata questa immagine mentale, l’attore la imita con il proprio corpo e la propria voce, studiando e memorizzando toni, gesti ed espressioni che ripete con la massima precisione di fronte al pubblico. Una simile teoria non sfuggiva ovviamente ad alcune obiezioni. Era difficile pensare che il processo di ricostruzione fantastica del personaggio potesse svolgersi senza una qualche partecipazione emotiva dell’attore. E poi l’imitazione del personaggio tramite gesti ed espressioni fisiche non poteva non comportare una corrispondente reazione interiore dell’interprete. Su quest’ultima questione Diderot, come si è visto, interveniva appellandosi alla «volontà di ferro» dell’attore che avrebbe respinto l’affiorare di un’emozione fittizia. Però la faccenda era di ben altra portata, e destinata a inaugurare un importante capitolo della teoria della recitazione otto e novecentesca. A partire da Lessing che com’è noto già nel 1754, sulla Theatralische Bibliothek ne aveva percepito l’estrema importanza. L’anima, aveva scritto, «mediante l’impressione ricevuta dai sensi si porrà da sola in quello stato conforme ai suoi movimenti, atteggiamenti e toni». E aveva poi ripreso l’argomento nella Hamburgische Dramaturgie, scorgendovi un presupposto per la definizione di una «grammatica» del linguaggio del corpo, parte essenziale dello studio della recitazione.23 Ivi, pp. 106-107, 123. G. E. Lessing, Auszug aus dem ‘Schausplieler’ der Herrn Rémond de Sainte-Slbine, in Theatralische Bibliothek, I, Berlin, Voss, 1754, p. 249; e Drammaturgia d'Amburgo, tr. it. a cura di P. Chiarini, Roma, Bulzoni, 1975, pp. 21-23. Il progetto lessinghiano veniva com’è noto realizzato nelle Ideen zu einer Mimik di J. J. Engel, 2 voll., Berlin, Mylius, 1785-1786. Il naturale riflesso emotivo provocato dalle espressioni, dai gesti e dagli atteggiamenti del corpo veniva considerato anche nella trattatistica inglese, nell’Inchiesta sul bello e il sublime di Edmund Burke (tr. it. a cura di G. Sertoli e G. Miglietta, Palermo, Aesthetica, 2006, pp. 139,140), e negli Elements of Elocutions di J. Walker (2 vollumi.,London, Printed for the Author, 1781, vol. II, pp. 278-280 e 288-290). 22 23 7 AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016 Ma non meno importanti erano le conseguenze della differenza stabilita da Diderot tra la concreta umanità dell’attore e l’universalità e la potenza espressiva del personaggio. L’attore deve rappresentare un essere profondamente diverso da sé, evitando in particolare l’esibizione dei prodotti dell’emotività personale, «troppo umani» per la figura del personaggio. Deve dunque lavorare a freddo, costruendo senza parteciparvi le espressioni adatte alla parte. Se poi la recitazione è perfetta, spiegava Diderot, il pubblico si lascerà trarre in inganno e riterrà che le espressioni del personaggio non siano finte, ma prodotte da sentimenti reali. 24 E qui l’intera costruzione del Paradoxe finiva con l’inciampare in una singolare contraddizione. I sentimenti «reali» che il pubblico avverte dietro le espressioni recitate sono assolutamente identici a quelli che prova un concreto essere umano, quale è l’attore che le recita, tant’è vero che è difficile sradicare la convinzione diffusa (contro cui tutto il il Paradoxe è diretto) che sia proprio il sentimento vivo e presente nell’interprete a produrre le espressioni esibite al pubblico. Insomma, per quanto la qualità meramente umana dell’interprete debba essere occultata dietro l’apparenza di un essere «diverso», e il suo patrimonio emotivo annullato, il prodotto finale della recitazione apparirebbe agli occhi degli spettatori un impossibile ibrido, in cui si ritroverebbero strettamente combinati lo scarto (espressivo) e la sovrapposizione (emotiva) tra essere umano e immagine fantastica, tra attore e personaggio. Il tentativo operato da Diderot nel Paradoxe si impigliava così in un complesso di convinzioni radicate nella cultura teatrale settecentesca. Il personaggio era concepito – e da Diderot non meno che da tutti gli altri autori - come una macchina emotiva, diretta a provocare le più immediate e autentiche reazioni sentimentali dello spettatore. Questa non era sua unica funzione, ma l’efficacia di ogni altro compito o significato che gli veniva assegnato appariva proporzionale agli effetti emotivi che la sua figura riusciva a produrre. Il bombardamento emotivo provocato dalla recitazione costituiva poi un contributo essenziale all’illusione drammatica, l’effetto per cui la rappresentazione teatrale doveva indurre lo spettatore ad attribuire una qualche forma o livello di realtà a ciò che era di fatto una finzione.25 Non a caso la letteratura teatrale del tempo conservava un ampio repertorio di aneddoti in cui i risultati estremi dell’illusione drammatica venivano riferiti alla straordinaria bravura degli attori, in momenti di particolare tensione. Negli Anecdotes dramatiques Clément e La Porte raccontavano come la Clairon in una scena dell’Ariane di Thomas Corneille, nella parte della protagonista, si dovesse dolorosamente tormentare chiedendosi chi mai potesse essere la sua rivale, e uno spettatore commosso, le lacrime agli occhi, non si fosse D. Diderot, Paradosso sull’attore, cit., p. 81. Sull’illusione drammatica e la sua costruzione vedi più avanti, in questo stesso numero di «Acting Archives Review», le considerazioni dell’articolo di L. Mango, Lo sguardo di Nataša. L’identità del personaggio come macchina scenica, «Acting Atchives Review», n. 11, maggio 2016, pp. 16-38. 24 25 8 Claudio Vicentini, Il distacco dell’attore dal personaggio trattenuto. Proteso verso di lei, con voce soffocata, l’avvertiva: «è Fedra, è Fedra!».26 Ma capitava di peggio, come l’incidente descritto da d’Hannetaire, occorso alla Dumesnil nella parte della scellerata Cleopatra della Rodogune di Pierre Corneille. Mentre sta per spirare in preda alla rabbia tra orribili maledizioni viene colpita da un pugno poderoso sferrato «da un vecchio militare» che esplode: «va cagna, vattene al diavolo!».27 Non possiamo ovviamente sapere se questi episodi fossero realmente avvenuti o se appartenessero solo alla leggenda. Ciò che importa è però che fossero coltivati dalla letteratura teatrale settecentesca, che attribuiva loro un preciso significato. Per Clément e La Porte l’intervento dello spettatore che avverte la Clairon è un elogio «particolarmente lusinghiero» alla sua arte, mentre d’Hannetaire aggiunge che la Dumesnil, terminata la rappresentazione, ringraziava il manesco militare: la sua interpretazione, gli dichiarava, non avrebbe potuto ricevere elogio migliore. Ma perché l’illusione drammatica potesse realmente decollare, innescata dalla capacità emotiva della recitazione, era necessario che la figura scenica del personaggio coincidesse totalmente con la figura dell’attore in modo che questo finisse con lo scomparire di fronte agli occhi del pubblico. Era la convinzione che si affermava in modo perentorio nello sviluppo della trattatistica settecentesca segnando il definitivo passaggio dalla concezione «oratoria» alla concezione «drammatica» della recitazione.28 L’errore caratteristico, che comprometteva la perfetta coincidenza delle due figura era, ammonivano i trattati dell’epoca, lo spostamento del raggio d’attenzione dell’attore, che si allontanava dall’azione recitata per dirigersi sul pubblico in sala. Si moltiplicano così le raccomandazioni: l’attore non deve mai vagare con lo sguardo sui palchi o la platea, ammiccare, accennare e rivolgersi a questo o quello spettatore, perché si mostra allora «altro» rispetto al personaggio. Già nella prima metà del secolo l’insistenza su questo punto era diventata un luogo comune, costituendo il presupposto su cui verrà definita la nozione di «quarta parete», introdotta agli inizi dell’ottocento da Leigh Hunt. In un pezzo dedicato a John Bennister, attore e manager del Drury Lane, Hunt osservava come questi non sembrasse curarsi assolutamente degli spettatori. Quando applaudono, scriveva Hunt, Bannister non si ferma per godersi l’applauso e se non può proseguire nel dialogo continua nell’azione: il palcoscenico sembra essere «la sua stanza» di cui il pubblico costituisce «la quarta parete». Il palcoscenico deve essere appunto considerato «una stanza reale», o un qualsiasi altro ambiente J. M. Clément e J. de La Porte, Anecdotes dramatiques, 3 vol., Paris, Duchesne, 1775, vol. I, p. 90. 27 J. N. d’Hannetaire, Observations sur l’art du comédien, s.l., Aux dépens d’une société typographique, 1774, p. 280. 28 Così, ad esempio, l’elogio tributato da Marmontel a Baron, alla voce Déclamation théâtrale nel quarto volume dell’Encyclopédie. La sua bravura consisteva nell’indurre lo spettatore a «dimenticare» l’interprete che svaniva nella figura rappresentata. Ma l’affermazione di questo principio è comunque motivo ricorrente nei trattati dell’epoca. 26 9 AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016 «astratto dalla moltitudine che osserva». Proprio, proseguiva Hunt, come la stanza in cui adesso sto scrivendo», e un attore che si permette di guardare il pubblico e apprezzarne visibilmente gli applausi «è ridicolo, come lo sarei io se guardassi ad ogni momento il riflesso dei miei sorrisi in uno specchio, o mi inchinassi alle case dall’altra parte della strada».29 Di fronte al complesso di queste convinzioni, incardinato sull’esigenza dell’illusione drammatica, sulla necessità di produrre emozioni vive e immediate e sulla richiesta di mantenere una perfetta coincidenza tra la figura dell’attore e quella del personaggio, teorizzare una differenza sostanziale tra la realtà umana dell’interprete e quella immaginaria del personaggio, e poi renderla in una concreta pratica recitativa costituiva, per Diderot come per qualsiasi altro autore, un compito impossibile. L’effetto di dislocazione In una prospettiva assai diversa da quella di Diderot il problema della irrappresentabilità del personaggio mediante i mezzi espressivi della recitazione umana si ripresentava nel saggio di Charles Lamb, On Garrick, and acting; and the plays of Shakespeare, considered with reference to their fitness to stage, pubblicato su «The Reflector» nel 1811.30 Per Lamb la recitazione consisteva essenzialmente nell’ impersonare «la passione e i rivolgimenti della passione», esponendone gli effetti esteriori «agli occhi e agli orecchi degli spettatori».31 Non gli sembrava un’operazione particolarmente complicata: «si tratta soltanto», spiegava, «di alzare o abbassare di un tono o due la voce, di sussultare con aria presaga per annunciare l’approssimarsi dell’effetto drammatico», e «la finzione di qualsiasi emozione è così contagiosa che, quali che siano le parole, basteranno l’aspetto e il tono per renderla accettabile e farla passare per profonda abilità nel rappresentare le passioni».32 Il carattere delle impressioni visive e uditive ricevute dallo spettatore è del resto tanto forte e istantaneo da imprimere nel suo animo la figura rappresentata in un’immagine densa di emozioni che perdura nel tempo e nella memoria. In questa immagine interprete e personaggio sono fusi in una forma inscindibile che si iscrive in modo incancellabile nella mente dello spettatore. Per chi va spesso a teatro è difficile dissociare l’idea di Amleto dalla persona e dalla voce del signor K. [Kemble]; parliamo di Lady Macbeth, ma in realtà L. Hunt, Critical Essays, London, Printed for John Hunt, 1807, pp. 60-61. C. Lamb, On Garrick, and Acting; and the Plays of Shakespeare, considered with Reference to their Fitness to Stage, «The Reflector», n. 4, 1811. Il saggio veniva ripubblicato da Lamb con un nuovo titolo On the Tragedies of Shakespeare, considered with Reference to their Fitness for Stage Representation nell’edizione delle sue opere, The Works of Charles Lamb in Two Volumes, London, C. and Jollier, 1818. La traduzione italiana di G. Melchiori, Sulle tragedie di Shakespeare considerate dal punto di vista della loro possibilità d’essere rappresentate si trova nel primo dei due volumi curati da G. Baldini, La fortuna di Shakespeare, Milano, Il Saggiatore, 1965. 31 Ivi, p.217, 219. 32 Ivi, p. 222. 29 30 10 Claudio Vicentini, Il distacco dell’attore dal personaggio pensiamo alla signor S. [Siddons]. Né questa confusione è commessa soltanto da persone illetterate […], è anzi un errore dal quale le persone per altro verso assi colte trovano quasi impossibile liberarsi. 33 Il personaggio creato dall’autore, materializzandosi nella figura concreta e presente dell’attore, moltiplica dunque la capacità di impatto su quanti ne vengono a contatto. Ma qui emerge il primo limite della recitazione. Attraverso gli strumenti dell’espressione fisica possono essere rese solo poche e semplici passioni, come «l’ira o il dolore». Ciò non appare troppo importante per il teatro perché «più la passione è rozza e materiale, e più presa l’attore ha sugli occhi e sull’orecchio del pubblico».34 Impoverisce però i personaggi che nella configurazione originaria prodotta da un grande autore, e trasferita nelle più sottili sfumature del testo scritto, possiedono una superiore profondità di carattere, pensieri e passioni. Nel tessuto verbale del testo è infatti possibile ritrovare non solo le più elementari passioni provate dai personaggi, ma anche «le operazioni e i moti interiori» del loro animo», il «quando, il perché e il come essi siano commossi», ossia «l’intima struttura» del loro mondo interiore.35 Materializzandosi nelle capacità espressive dell’attore il personaggio perde insomma la sua profondità interiore, si spoglia di ogni grandezza e si mostra come «un uomo nella sua semplice ed evidente forma umana». Re Lear diventa «un vecchio barcollante sulla scena, scacciato dalle figlie in una notte di pioggia», una figura che produce nel pubblico la più semplice ed elementare reazione: «vorremmo offrigli un ricovero e offrirgli aiuto». Mentre ben altra è la sua autentica dimensione originaria: La grandezza di Lear non sta nelle sue dimensioni fisiche, ma in quelle intellettuali […] È la sua mente che viene messa a nudo. La guaina di carne e di sangue appare troppo insignificante perché ci si possa pensare; ed egli stesso infatti non la cura. Sulla scena noi non vediamo altro che infermità e debolezze fisiche, l’impotenza dell’ira; leggendo invece, noi non vediamo Lear, noi siamo Lear, siamo nella sua mente, siamo sostenuti da una grandezza che sconcerta la malizia delle figlie e le tempeste; nelle aberrazioni della sua ragione scopriamo una possente e irregolare capacità di raziocinio, non ridotta a metodo dagli scopi ordinare della vita, ma che esercita le proprie facoltà al pari del vento che soffia dove vuole, libero contro la corruzione e gli insulti dell’umanità.36 Un secondo limite della recitazione risiede nella sua stessa impostazione, per cui un interprete fisicamente presente deve esibire tutto ciò che fa e dice al pubblico che l’ascolta e l’osserva. Il che rende il personaggio raffigurato, quando pronuncia le sue battute, una sorta di «oratore». Ogni sua parola, moto, affetto per quanto nascosto, solitario o segreto nelle situazioni Ivi, p. 218. Ivi, pp. 217, 219. 35 Ivi, pp. 217, 222-223. 36 Ivi, p. 229. 33 34 11 AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016 delineate dal dramma, si spoglia di intimità, e le sue riflessioni, anche quando sono private e inconfessabili, risultano di fatto dette a qualcuno. I colloqui amorosi di Romeo e Giulietta, «quella musica dolce e argentina dei dialoghi notturni degli amanti», la dolcezza «intima e sacra «del colloquio nuziale fra Otello e Desdemona, tutte «queste cose» per «il difetto intimo della rappresentazione teatrale», per il fatto di essere esposte a un vasto pubblico, sono «intorbidate e allontanate dalla lor vera natura». E se «i nove decimi di quel che Amleto fa» è «un dibattito fra lui e il suo e senso morale, effusioni delle sue solitarie meditazioni che sfoga ritirandosi negli angoli, nelle segrete stanze, nelle più recondite parti del palazzo», tutto ciò non può essere rappresentato dall’attore «che gesticola, che viene a gridarle a un pubblico, a confidarsi con quattrocento persone alla volta». Il personaggio di Amleto «patisce» così, «a venir messo in mostra a guisa di pubblico maestro di scuola per dar lezioni alla folla».37 Sulla scena, dunque, solo i personaggi semplici, superficiali e immediatamente melodrammatici possono vivere convenientemente, mentre le figure più profonde, sfumate, ricche, complesse come quelle del corpus shakespeariano si sviliscono e deturpano: creature dell’immaginario, destinate a schiudersi solo nella lettura privata e solitaria del testo, risultano di fatto irrappresentabili. Il saggio di Lamb poteva indubbiamente apparire un’anacronistica condanna del teatro, arte dagli strumenti rozzi e approssimativi di fronte alla più sofisticate possibilità della parola letteraria. Poteva inoltre sembrare legato alla visione dello stile di recitazione impiegato in quegli anni sulle scene inglesi, destinato più tardi a trasformarsi assumendo strumenti espressivi sempre più sofisticati. Ed è questo il rilievo che verso la fine del secolo gli sarebbe stato mosso da Percy Fitzgerald, curando la raccolta degli scritti teatrali di Lamb.38 Ma in realtà Lamb conduceva un’operazione teorica estremamente importante. Muoveva infatti da una concezione decisamente attardata della recitazione, tipica della visione settecentesca (impersonare attraverso le facoltà fisiche dell’attore la passione e i rivolgimenti della passione), mettendo però in discussione due parametri essenziali di questa visione. Innanzi tutto la pretesa che l’attore potesse (dovesse) scomparire dietro il personaggio. In ciò Lamb non scorgeva nulla di buono: vi ravvisava solo un’ingombrante fusione, in cui se le due figure apparivano indistinguibili, il personaggio si «materializzava» perdendo le sue qualità. E poi la convinzione che l’attore, fuso nel personaggio, potesse (dovesse) immergere tutta la sua concentrazione nella situazione drammatica, mentre di fatto, per la natura stessa della recitazione, la sua intera prestazione era strutturalmente rivolta al pubblico presente in sala. Nel dimostrare l’irrappresentabilità dei personaggi shakespeariani ciò che entrava in Ivi, pp. 219-221. P. Fitzgerald, A Commentary, in C. Lamb, The Art of the Stage, as set out in Lamb’s Dramatic Essays, with Commentary by Percy Fitzgerald, London, Remington, 1885, pp. 167-198. 37 38 12 Claudio Vicentini, Il distacco dell’attore dal personaggio questione erano insomma i due parametri su cui, per la concezione settecentesca, si costruiva l’effetto dell’illusione drammatica. Non era una faccenda da poco. I suoi risultati sarebbero emersi alcuni anni dopo, favoriti dall’osservazione dello stile recitativo degli migliori interpreti della comedy of manners, genere, lamentava Lamb, ormai quasi sparito dalle scene. Si trattava di una recitazione capace di «derealizzare» il personaggio in modo da disegnarne la figura senza conferirgli la pesante concretezza dell’individuo umano e conservargli invece la dimensione di «creazione fantastica» dell’autore.39 Era il caso di John Bannister che nella parte di Ben in Love for love di Congreve rendeva il personaggio «una deliziosa apparizione», evitando l’ovvia soluzione di ridurlo a un «uomo reale», la cui più adeguata collocazione sarebbe, osservava Lamb, «non dietro il sipario» ma tra il pubblico, «nella prima o seconda galleria».40 Nelle pagine del saggio venivano rilevate due procedure adatte a favorire l’effetto di derealizzazione. La prima consisteva nel sottolineare il carattere «recitato» degli atteggiamenti dell’attore, come faceva, ricorda Lamb, Palmer nell’interpretazione di Joseph Sufarce in The school for scandal. La sua recitazione evidenziata, con «modi altamente artificiali», neutralizzava la spiacevole impressione che avrebbe potuto produrre la subdola ipocrisia del personaggio se le sue azioni e i suoi comportamenti avessero assunto una più evidente dimensione «reale». Trattata in questo modo, la figura rappresentata si sottraeva all’immediato giudizio morale dello spettatore, prestandosi invece senza alcuna difficoltà al suo piacevole divertimento. La seconda procedura era creare un canale diretto di comunicazione con il pubblico. L’attore poteva infatti «sdoppiarsi», recitare per gli spettatori mentre la figura che incarnava parlava agli altri personaggi, e assumere due voci, «ambedue plausibili», di cui una, «supplementare» e più «decisamente istrionica» era diretta soltanto al pubblico.41 Per Lamb esistevano insomma modalità recitative, almeno per i personaggi di un particolare repertorio, in cui l’efficacia dell’interpretazione dipendeva dalla capacità dell’interprete di distanziarsi dalla figura rappresentata e di infrangere, nell’atto stesso in cui faceva agire il personaggio sulla scena, il confine della quarta parete. Mediante queste due procedure, che lavorano in direzione opposta alle esigenze dell’illusone drammatica, si ponevano le basi per costruire l’effetto di dislocazione. E proprio in un saggio successivo, significativamente Sono le osservazioni esposte in The Old Actors , apparso in tre parti sul «London Magazine» nel febbraio, aprile e ottobre del 1822. Il saggio veniva successivamente ripreso e pubblicato da Lamb con tre diversi titoli, On Some of the Old Actors; On the Artificial Comedy of the Last Century; On the Acting of Munden. Cito da The Works of Charles and Mary Lamb, edited by E. V. Lucas, vol. II, Elia and the Last Essays of Elia, London, Methuen, 1903. 40 Ivi, pp. 140-141. 41 Ivi, pp. 140, 144-145. 39 13 AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016 intitolato Imperfect dramatic illusion, Lamb procedeva alla loro precisa definizione.42 L’argomento centrale del saggio era, di nuovo, l’irrappresentabilità di alcuni personaggi teatrali. Ma si trattava ora di personaggi assai diversi da quelli del saggio shakespeariano. Irrappresentabile non era più il personaggio profondo e articolato nei meandri della sua interiorità. Era il personaggio macchiato da vizi morali, o comunque caratterizzato da atteggiamenti in grado di provocare il disgusto e la repulsione dello spettatore. Il problema, in questa chiave, non era nuovo: era stato ripetutamente discusso dai teorici della scena e appariva difficile da risolvere, soprattutto quando riguardava qualche perfido malvagio. L’unico rimedio sembrava essere la perizia dell’autore che organizzava sapientemente il testo per ridurre la carica di spiacevolezza del personaggio. D’Hannetaire si dichiarava certo che Molière avesse introdotto Tartuffe solo nel terzo atto perché il pubblico non lo avrebbe sopportato per tutta la commedia.43 Ducis nell’aggiustare l’Otello di Shakespeare per la scena francese, dopo aver trasformato Iago in un compito gentiluomo veneto amico dl Moro, arrangiava la trama in modo che la scelleratezza dell’infame venisse rivelata agli spettatori solo alla fine, dopo la morte di Desdemona.44 E via dicendo. Ma in tempi recenti il problema aveva investito anche la resa attorica e nel 1807 Iffland aveva dedicato alla questione un apposito saggio sulle pagine dell’«Almanach fürs Theater» spiegando come dovesse essere recitato il personaggio di Franz Moor dei Masnadieri di Schiller.45 I personaggi considerati da Lamb non erano certo tanto torbidi e truci. Ma i termini della questione non cambiavano e per Lamb riguardavano direttamente gli effetti dell’illusione drammatica. Secondo l’opinione comune, osservava, un dramma è recitato bene o male in proporzione all’illusione scenica che viene prodotta. Ma bisogna distinguere fra la tragedia, in cui il necessario, intenso impatto emotivo è strettamente legato alla consistenza dell’illusione scenica, e la commedia in cui l’impatto emotivo viene mediato e orientato dal divertimento che è chiamata a produrre. E ciò è facilmente dimostrabile. La tristezza, il dispiacere che la narrazione di un evento doloroso provoca, spiegava Lamb, si dissolvono non appena si comincia a dubitare del fatto e della sincerità di chi lo racconta: «le nostre lacrime si rifiutano di scorrere». Quando invece si tratta di un storia divertente chi ascolta può ridere allegramente anche se dubita o non crede C. Lamb, Imperfect Dramatic Illusion, «The London Magazine», August 1, 1825; poi ripubblicato con il titolo Stage Illusion in The Last Essays of Elia, London, Edward Moxon, 1833. 43 D’Hannetaire, Observations sur l’art du comédien, cit., pp. 246 44 Avertissement in Othello ou Le More de Venise, tragédie par le citoyen Ducis, Chez André, Paris s.d., p. V. 45 A. W. Iffland, Sulla rappresentazione del malvagio e del macchinatore, in Teoria della recitazione, tr. it., introduzione note di D. Minichiello, Napoli, Acting Archives, 2012, pp. 290-301, www.actingarchives.it (Books). 42 14 Claudio Vicentini, Il distacco dell’attore dal personaggio affatto alla realtà dell’accaduto.46 Perciò mentre la rappresentazione della tragedia esige una recitazione che tende al massimo livello di illusione drammatica, la commedia consente una recitazione che la riduce, derealizzando quando è necessario il personaggio sulla scena. Il che si rivela quanto mai opportuno quando si tratta di figure odiose, o imbarazzanti, incisivi esempi di ipocrisia, avarizia e soprattutto di viltà. Derealizzate, erodono l’emotività repulsiva che ispirerebbero, e presentandosi come figure immaginarie, creazioni artificiali, possono assumere un aspetto divertente e piacevole agli occhi dello spettatore. Per raggiungere questo effetto è però necessaria «un’arte squisita» in cui l’attore dà prova «della sua più alta abilità».47 La tecnica consiste in un’operazione, in buona parte nascosta, che agisce sugli spettatori senza che questi ne divengano pienamente consapevoli. L’attore, con una continua emissione di sotto-segnali – sguardi e gesti particolari - prodotti anche nei momenti più accesi dell’interpretazione e sempre eseguendo quello che è richiesto per rendere esattamente la figura del personaggio, mostra al pubblico di essere in pieno possesso del suo autocontrollo tecnico e psicologico, e che dunque tutto quello che fa e dice non è altro che «recitazione».48 I sotto-segnali non devono mai essere vistosamente espliciti, non devono mai compromettere la coerenza del profilo delineato, in modo che lo spettatore possa scorgere nella figura rappresentata ogni preciso «sintomo» del carattere del personaggio e dei suoi atteggiamenti. Il prodotto finale, realizzato con gli strumenti del tutto materiali dell’interprete fisicamente presente, sarà allora un’immagine che alla percezione del pubblico apparirà perfettamente «somigliante» al reale, ma artificiale e priva di effettiva realtà. Dunque staccata dalla presenza concretamente umana dell’attore e «diversa» da lui. E per quanto riguarda l’irrappresentabile personaggio macchiato da vizi morali, il pubblico resterà pienamente consapevole che l’attore che lo recita non sarà «neppure la metà» spregevole quanto la figura che rappresenta.49 C. Lamb, Stage Illusion, in The Works of Charles and Mary Lamb, vol. II, cit., pp. 164-165. Ivi, p. 163. 48 Ivi, pp. 163-164. 49 Ivi, p. 163. 46 47 15