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Paolo Paruta, "Relazione da Roma" (1595)

Trascrizione (fondata sulla edizione Alberi) della Relazione dell'ambasciatore della Repubblica di Venezia Paolo Paruta, tornato dall'ambasceria presso la Santa Sede (1592-1595), durante il pontificato di Clemente VIII. Ultimo aggiornamento: 16/01/2017.

Paolo Paruta, Relazione da Roma A cura di Marco Giani (https://unive.academia.edu/MarcoGiani ) Versione 1.0 (ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2017) AVVERTENZE AL LETTORE Quella che segue è la trascrizione della Relazione pronunciata da Paolo Paruta nel novembre 1595 di ritorno dalla propria missione come Ambasciatore Ordinario della Repubblica di Venezia a Roma, presso la corte di Clemente VIII (1592-1595). Per maggiori informazioni editoriali, vd. la pag. 78 di: https://www.academia.edu/1604301/Paolo_Paruta_Il_lessico_della_politica La trascrizione è stata compiuta sull’edizione Alberi del 1857 (in cui occupa le pp. 359-448). Per il commento si rimanda all’edizione stessa. Essendo una trascrizione fedele all’originale, si sono mantenute tutte le scelte editoriali del curatore, sia dal punto di vista contenutistico sia dal punto di vista formale. In particolare, fra parentesi uncinate in grassetto si numera e si mantiene la paragrafazione dell’editore. Il testo è da considerarsi open-source; può quindi essere liberamente utilizzato. Per domande e segnalazioni di errori: gianimarco@gmail.com . ------------------------- BIBLIOGRAFIA: Alberi, Eugenio (ed.) (1857): Le relazioni degli ambasciatori veneti al senato durante il secolo decimosesto, Volume X - Serie II - Tomo IV. Firenze: Società̀ Editrice Fiorentina. Relazione di Roma di Paolo Paruta ritornato da quella legazione nel novembre del 1595 <1> Il Pontefice romano può esser considerato sotto due persone ch’egli sostiene; cioè di capo e pastore universale di tutta la Cristianità, e nella Chiesa cattolica e apostolica vicario di Cristo e vero successore di Pietro; e appresso, di principe temporale che tenga Stato in Italia. I quali due rispetti portano seco molte e gravissime considerazioni di cose degne di pervenire alla notizia di questo Eccellentissimo Senato; e tanto maggiormente, quanto che non è altro principe col quale abbia la Repubblica occasione di più frequenti e molteplici negozi, di ciò che ha con il Pontefice e con la Corte romana. Nella quale, oltre le tante cose particolari e le molte pubbliche, ma di minor momento, che del continuo occorrono di trattare, sono portati e trattati, e massimamente a questi tempi, tutti i maggiori affari de’ principi cristiani. Come io dunque, nel tempo de’ mesi trentotto che sono stato in quella legazione, ho procurato di andar con molto studio e diligenza osservando quelle cose che potessero servire a prender una piena informazione di quel principe e di quella Corte, dello Stato, del governo e d’ogni altra cosa che fosse degna di qualche considerazione; così, satisfacendo ora a questo ultimo carico dell’ambasceria commessami da Vostra Serenità, vengo a rappresentarle le medesime: persuadendomi che tale cognizione sia per riuscirle non pur grata per la qualità e per la varietà delle cose, ma per l’importanza di esse molto utile alle deliberazioni che ogni giorno occorrono a farsi in questo Eccellentissimo Senato intorno a diversi negozi che si fanno trattare a quella Corte. <2> Ora dunque comincerò a considerare la persona del Pontefice per quei rispetti che sono più suoi propri, e che per ogni età degli anni della nostra salute, e della instituzione del pontificato fatta da Cristo nella persona di Pietro Apostolo, fino a questi dì l’hanno sempre accompagnata; cioè dell’autorità sua nelle cose spirituali, e come di capo della Religione Cattolica e nella Chiesa Romana. Perché non ha il Pontefice tenuto nome né autorità di principe temporale, salvo che dopo settecento anni che Pietro, primo pontefice, tenne questo supremo grado del sacerdozio. E ciò per le donazioni fatte alla Chiesa e a’ pontefici romani da diversi principi, per le quali sono pervenute sotto al loro dominio diverse città e provincie d’Italia, che avevano prima obbedito all’imperio di Occidente, e che un tempo erano state occupate da’ barbari settentrionali, come era avvenuto del resto d’Italia. Chi considera dunque l’autorità de’ sommi pontefici per quello ch’ella è in sé medesima e che dovrebbe veramente essere, ella è sempre stata l’istessa, grandissima e amplissima, tenendo essi in mano le chiavi per aprire e serrare a tutti gli uomini il regno del cielo, e per disporre e ordinare di tutte le cose sacre. Ma quanto all’uso di questa autorità, è stata già, ne’ tempi addietro, molto maggiore che ora non si trova; però che s’ha esteso assai più largamente in diverse provincie, in alcuna delle quali non è al presente pur conosciuto il nome del Pontefice, e in altre non solo non è, come soleva, stimato, ma anzi sommamente disprezzato ed aborrito. Nell’Asia e nell’Africa, ove furono già tante chiese di Cristiani e tanti vescovi, uomini santissimi (che sotto il patriarca d’Antiochia si trova memoria esservi stati oltre cento vescovi), non resta più vestigio alcuno di Religione cristiana, né memoria e conoscenza de’ romani pontefici, essendo quei paesi occupati da infedeli, e introdottovi la setta maomettana. Ma nell’Europa, in queste ultime età, si sono dalla Chiesa romana alienate grandissime e nobilissime provincie; sicché, ove solevano essere in grandissima riverenza, sono ora in grand’odio e in orrore anco i nomi dei Pontefici e della Corte romana, come nell’Inghilterra, Scozia, Svezia, Dacia, Boemia e Germania, per la maggior parte di essa. Oltra le quali, ancora altri regni e paesi sono infetti assai da vari semi d’eresia, che principalmente tendono ad introdurre la licenza del vivere, o, come essi dicono, libertà di coscienza, senza volere in alcun modo riconoscere l’autorità del Pontefice, né osservare i riti veri della Chiesa romana. Nondimeno, con tutte queste sì gravi perdite e alienazioni di tanti popoli e nazioni intiere, rimane però l’autorità dei Pontefici molto grande; anzi dicono i preti di Roma che al presente sia più che mai ampliata, rispetto ai tanti paesi dell’Indie ove è penetrata la Religione cattolica, e accettati i riti e l’autorità della Chiesa romana: benché, chi più diritto estima, conosce troppo chiaro, non essere di gran lunga pari l’acquistato al perduto. Ma ciò che veramente fa grande l’autorità del Pontefice, è che egli comanda a grandissima quantità d’uomini negli Stati d’ogni principe, cioè di religiosi che sono immediatamente a lui soggetti, e dispone di quantità grandissima di beni ecclesiastici; benché in alcuni luoghi con maggiore, e in alcuni altri con minore autorità, secondo i privilegi dei principi e delle provincie. Ma in tutti in qualche modo tiene molta preminenza, essendo conosciuto da tutti i principi cristiani per capo della Chiesa cattolica e vicario di Cristo in terra, al quale nelle cose spirituali si deve prestare riverenza ed obbedienza. Il quale ufficio però viene fatto da tutti i principi col mezzo di una loro solenne ambasciaria in ogni pontificato, benché l’imperatore, prestata che ha una volta l’obbedienza alla Sede Apostolica, fino che egli vive, benché si mutino i pontefici, non sia solito di ripetere questo ufficio. Ed è tanto venerabile questa autorità de’ sommi pontefici, che non pure s’è conservata nelle maggiori persecuzioni fatte loro dagli uomini empi, ma in quegli stessi difficilissimi tempi per la Sede Apostolica è cresciuta la sua riputazione. Di che molti chiari esempi di diverse età se ne leggono nell’istorie; tra ’ quali il successo di papa Alessandro con l’imperatore Federico Barbarossa si conserva non pure ad esaltazione della dignità e maestà pontificia, ma a molta e vera gloria della pietà di questa serenissima Repubblica. E questa istoria si vede anco dipinta nella sala dove il Pontefice suole ricevere le solenni ambascerie di teste coronate, che è però detta Sala de’ Re, e nella quale vengono anco ammessi e ricevuti gli ambasciatori della Repubblica. E tutti i principi cristiani, per l’ordinario, desiderano e procurano la grazia e amicizia del Pontefice, come padre universale e principe di suprema autorità nelle cose spirituali ed ecclesiastiche. E ciò si fa con maggiore studio, non pure perché così convenga di fare per zelo di pietà e religione, e per servare l’ordine debito e naturale di riconoscere un capo sotto il quale si uniscano tutti quelli che comunicano insieme, vivendo nella fede cristiana e cattolica; ma ancora per prudenza civile, perché al rispetto de’ loro stati temporali torna di gran comodo che il romano Pontefice si mostri ben affetto, ricevendone molti utili e riputazione. Conciossiaché dalla Sede Apostolica nascono molte grazie, la concessione delle quali è riposta nella potestà del Pontefice; come le decime, sussidi, crociata, ed altre cose che passano sotto diversi nomi, e onde vengono i principi a traggere da’ loro medesimi Stati e sudditi somme grandissime di danari per i loro bisogni. Tanto che al presente il re di Spagna di queste tali concessioni, che ogni cinque anni, da un tempo in qua, gli vengono successivamente dalla autorità della Sede Apostolica confermate, per l’ampiezza de’ suoi Stati, e principalmente dell’Indie, ne tragge circa due milioni d’oro. Onde, è noto che quando, con l’andata del signor Giovan Francesco Aldobrandini, nipote del Papa, alla corte di Spagna, per trattare sopra gli aiuti da darsi all’imperatore contra Turchi, fu al re posto in considerazione, e fatto a nome di Sua Santità quasi certo protesto, che mancando egli a questo debito gli sarebbono state levate quelle grazie, le quali godeva per concessione della Sede Apostolica a fine principalmente d’impiegare il danaro che se ne riscuote contra gli infedeli, cercarono e il re ed i ministri, per tenere queti questi pensieri, di dare almeno nell’apparenza satisfazione per tale richiesta, ed appresso di acquistarsi con estraordinari onori e favori l’animo e la grazia del medesimo signor Giovan Francesco, e di mostrare verso il Pontefice grande ossequio e riverenza, per non mettere in alcun modo in dubbio cosa di tanto momento quanto è il tesoro che per cotal via con ordinari indulti ne tragge il re, senza alcuna violenza, dai medesimi suoi sudditi. E chi ben consideri troverà esser in ciò grande l’artificio. Per questo rispetto, mentre si trattava a quella Corte, nel mio tempo, di conseguire per la Repubblica le decime del clero del suo stato, era da molti interposta maggior difficoltà, adducendo principalmente questa ragione: che, con l’interporre qualche tempo alla concessione di esse decime, si veniva a tener essa Repubblica meglio in ufficio, o in maggior rispetto verso la Sede Apostolica, per la speranza di quel beneficio che da esse decime ne riceve. Onde, appresso alle altre cose e della riputazione e delle utilità conseguite nell’aver ultimamente, dappoi superate con lungo negozio molte difficoltà, ottenute le otto decime con molte preminenze e prerogative, si fa degno anco di molta stima e considerazione che per lo spazio di dodici anni quasi continui, con l’interposizione di un solo anno, si sia la Repubblica quasi impossessata del dover continuare a goder per più lungo tempo il beneficio di queste decime. E non è da dubitare che procedendosi nei negozi con quella destrezza e temperamento, che saprò ottimamente usare la prudenza di questo Eccellentissimo Senato, e la diligenza de’ suoi ministri che saranno per tempo a quella Corte, non si sia per andar di tempo in tempo ottenendo quella grazia, e confermandosi maggiormente in questo possesso dell’esazione delle decime dei beni del clero; poiché vengono i Pontefici a gratificare la Repubblica in cosa che a lei molto rileva, senza dare alcuna cosa del loro: e l’esempio di una così lunga continuazione potrà servire per gran ragione di non esserne più privati, come, con il processo del tempo, è andato facendo, e stabilendo sempre più in ciò le sue ragioni, il re di Spagna. E quelli che, per altre loro passioni e particolari rispetti, sono soliti di far contrasto ove si tratta di gratificare la Repubblica, sono rimasi grandemente atterriti dappoi veduto accomodato questo negozio di decime, il quale credevano dover essere un seme da nutrire dispareri e discordie. <3> Ora tornando all’autorità pontificia, e alla stima che ne viene fatta da’ principi; dico che, oltra i sopradetti utili e comodi, molti ne sperano e ottengono per diverse occasioni di dignità ecclesiastiche, con le quali non pur riconoscono i meriti de’ loro ministri e servitori, ma onorano e arricchiscono i suoi propri e più congiunti di sangue, a’ quali non tocca di venire in parte de’ loro Stati, impetrando per questi tali dignità di chiesa, e grosse entrare di beni ecclesiastici. Ma sopra tutto si stima l’appoggio dell’amicizia e buona intelligenza coi pontefici, perché questa presso gli altri principi ancora acquista assai di riputazione, e accresce la obbedienza e la riverenza negli Stati propri presso a’ popoli sudditi, o viene a prestare almeno certa apparenza, la quale molte volte giova non meno che l’effetto stesso, da poter coprire e onestare le operazioni di quel principe, ancor che fossero da interessi particolari guidate. Però che il zelo della Religione comunemente è di molta forza negli animi degli uomini; onde per lo più e i principi abbracciano volentieri e i popoli favoriscono quella parte e quella causa che è protetta e sostenuta dall’autorità de’ pontefici. Da’ quali rispetti è nato che in questi tanti moti della Francia gli Spagnuoli abbino sempre procurato con grandissimo studio di tenere alla lor parte uniti i pontefici che sono stati per tutto questo tempo, e di far passare ogni operazione delle cose per loro tentate, benché a proprio lor comodo e servizio, sotto il nome e autorità della Sede Apostolica, e di metter sempre innanzi il rispetto della Religione per aprirsi la via più facile ad ogni loro disegno. E l’istesso, e con l’istesso oggetto, ma con diverse maniere, hanno procurato i Francesi (cioè quelli che seguivano il partito della Lega), mostrando sempre di voler aderire all’autorità del Pontefice e seguire i suoi consigli; siccome, d’altra parte, procurando il simile, in quanto comportava la diversità della causa, quelli ch’erano presso Navarra, ora re in Francia, hanno posto grandissimo studio per riconciliare esso re alla Sede Apostolica, con l’umiliarsi al Pontefice, e col far trattare così lungamente, e con sì grande pazienza, alla Corte romana sopra l’assoluzione del re, concorrendo in ciò il re medesimo, e sopra la redintegrazione sua nella grazia della Sede Apostolica, come finalmente è seguito. Quindi veramente è nato che i più grandi affari de’ principi siano al presente quasi tutti portati alla Corte di Roma; perché gli Spagnuoli, che tengono in essa un gran potere e molta autorità, e che per la grandezza di quel re hanno parte in tutti i negozi più gravi, così desiderano e procurano per loro vantaggio e servizio; sperando di poter con questi mezzi, col rispetto e autorità veneranda de’ pontefici, e col nome e con la maestà della Religione, ridurre più facilmente a’ loro disegni le cose che tentano; e parimente sostentarsi appresso tutti gli altri potentati in maggior stima e riputazione. Ma principalmente nelle occasioni di leghe tra principi cristiani viene stimata di grandissimo momento l’amicizia e congiunzione del Pontefice, non per le forze sue temporali (benché anco queste siano d’alcun momento), ma per l’autorità sua di farvi aderire altri principi, e per dare riputazione a tali imprese come più giuste e più legittime. Il che massimamente avviene nelle imprese che si prendono contra infedeli; delle quali al Pontefice, come a capo del Cristianesimo, s’appartiene la principal cura. E nell’età passate, quando era maggiore il zelo della Religione, si è conosciuto ciò più chiaramente, bastando l’autorità e persuasione de’ pontefici a mettere insieme potentissime forze de’ Cristiani contra Saraceni e altri infedeli. E in questi ultimi tempi ha questa Repubblica stessa provato, nelle guerra contra Turchi, il primo ricorso convenire essere alla Sede Apostolica; e il più utile e quasi necessario consiglio, l’avere in tali occasioni il Pontefice per primo autore e capo della lega, sicché con i suoi auspici principalmente s’abbino a fare tali imprese, come è successo negli anni 1537 e 1570, avendo una volta Paolo III, e l’altra Pio V, presa sopra di sé la somma di quelle trattazioni che passarono ne’ negozi di leghe, oltra i propri aiuti prestati con le forze della Chiesa. È anco più stimata l’amicizia del Pontefice, perché oltra il rimanere, con l’alienarsi da lui, privi di molte grazie, ne ponno i principi laici sentire non leggieri maleficj, anco fuori delle cose pertinenti alla Religione. Però che essendo i pontefici soliti alcuna volta, anco per differenze di cose temporali, por mano alle armi spirituali, sottoponendo i principi alle censure, e assolvendo i popoli sudditi dal giuramento di obbedienza e di fedeltà, e con queste vie esecrando e maledicendo i principi e loro Stati, vengono a mettere in quelli grandissime confusioni e pericolosi incendi, da’ quali molte volte non giova l’onestà stessa della causa, o la tarda penitenza, per liberarsi: come questa Repubblica ha avuto da provare dell’ultime guerre di Terraferma, principiate dalla lega di Cambrai, ma durate poi lungamente, quando ha avuto per avversari i Pontefici, e da loro è stata perseguitata con le armi spirituali, benché per occasione di stato e cose temporali. Il che avviene perché l’universale degli uomini stima le cose per quello che dalle apparenze più note a tutti si dimostra, ancora che in esistenza fossero di diversa natura. E come par verisimile che chi tiene in terra questo supremo grado di dignità sopra tutti gli uomini, sia anco molto eccellente per bontà e prudenza, così si attribuisce assai a questo giudicio ove si vede questo piegare; e il rispetto della persona sacrosanta fa che meno si ardisca di contraddire e di contravvenire a ciò che da quello è laudato ed abbracciato per buono, o condannato come cosa degna di biasimo e di castigo. <4> Dalle quali considerazioni è proceduto, che quei principi che sono stati in maggior concetto di prudenza, hanno ancora con grandissima cura procurato di mantenersi l’amicizia e la grazia de’ pontefici, condonando anco spesso grandissime imperfezioni che si sono ritrovate in molti di quelli ne’ quali è alcuna volta capitata questa suprema dignità e autorità del pontificato, anzi pur rimettendo facilmente molte gravi ingiurie da loro ricevute; cosa che, fatta con un principe laico, sarebbe stata attribuita a viltà, ma col Pontefice s’interpreta per bontà e religione, o almeno per molta prudenza. E sopra gli altri esempi si fanno in ciò molto considerabili le cose in questa ultima età successe, ma già qualche anno ormai principiate; cioè da poi che, per due Stati d’Italia, regno di Napoli e ducato di Milano, nacque una somma emulazione tra gli Spagnoli e i Francesi; avendo sempre, con somma diligenza e con molta arte, ciascuna di queste parti e di questi principi procurato di aver seco congiunto e fautore de’ suoi desiderj e pensieri il Pontefice, e ben affetta e amica la Corte romana. E veramente è grande arteficio e soda prudenza il camminare per queste vie; poiché con poche cose, e spesso più d’apparenza che d’esistenza, mostrando prontezza di onorare, ubbidire e stimare la Sede Apostolica e i suoi prelati, s’acquista vero dominio e autorità nella medesima Corte, facendosi grati all’universale, e acquistandosi parziali amici, che sostentano poi qualunque azione di quel principe che ha saputo così negoziare. E questa Repubblica, ancora dopo corsi gravissimi pericoli, e provata con suo troppo grave danno l’ira, benché ingiusta, di Giulio II e di Leon X, ha, con grandissimo studio e con molto savio consiglio, cercato per tutto quel più che ha potuto fare, conservando la sua dignità e indennità, di mantenersi in amicizia e in buona intelligenza con la Sede Apostolica, stimando questo uno dei più principali mezzi col quale possa ella conservarsi in quiete e con maggior dignità, in rispetto di quei disturbi e travagli che le potessero nascere da principi cristiani; e per impetrarne, in occasione di guerre turchesche, quegli aiuti d’altri, dei quali la potenza del nemico la riducesse a tal tempo in stato di necessario bisogno. Talché si può in questo primo ragionamento concludere col dire, che riuscirà sempre utile consiglio e degno della prudenza di questo Senato, celebrata con tanta laude in ogni parte del mondo, il conservarsi, per quel più che si potrà, in unione e buona intelligenza con la Sede Apostolica; avendo però innanzi quelle cose che siano degne e ben convenienti a principe libero e a principe grande, come è Vostra Serenità. Però tale amicizia, conservata con debiti mezzi e con riputazione, si vede essere riuscita sempre di molto giovamento a quelli che l’hanno saputa così mantenere. Ma nella presente condizione de’ tempi si fa questa di tanto maggiore e particolare considerazione alla Repubblica, per trovarsi ella constituta quasi nel mezzo di due grandissimi potentati, il re Cattolico e il signor Turco; sicché, per la conservazione dello Stato e della libertà, si può facilmente conoscere che ha tanto più bisogno di appoggiarsi a chi possa in qualche modo con l’autorità e con la forza aiutarla a sostentarsi. <5> Ora, per finir di trattar questa parte, anderò considerando e dimostrando come passa il governo delle cose spirituali ed ecclesiastiche. Ha il Pontefice un numero grandissimo di ministri per tutte le provincie di Cristianità, diversi per qualità di Persone, per i loro carichi e per dignità; come sono patriarchi, arcivescovi, vescovi, abbati, prepositi, prelati, e generali delle religioni, ed altri; che tutti dipendono immediatamente dall’autorità del Pontefice, e sono esecutori dei suoi ordini e comandamenti, e servono al ministerio delle cose sacre. Sicché non è alcun altro principe che abbia maggior numero di ministri, e che s’adoperino in cose più preziose e più prestanti, facendosi col mezzo di questi l’amministrazione e la dispensa de’ tesori celesti e delle grazie spirituali. Nelle quali cose, massime nella concessione delle indulgenze, sono stati diversi i pareri de’ pontefici, essendo alcuni stati larghissimi, e avendo altri proceduto con una somma riserva; come particolarmente fece Pio V, che non concedeva indulgenze plenarie se non per rispetto pubblico e per alcuna causa molto importante. E il presente Pontefice parimente nel conceder indulgenze va molto ristretto, e a niuno, né per qual si sia causa, vuol concedere indulgenza plenaria per più lungo spazio che di cinque anni, né più d’una per chiesa di un istesso tempo, avendo levato molti usi o abusi che erano in questa materia. Oltra il particolar ministero che è prestato da’ vescovi alle loro chiese, e la particolar cura di quelle anime che sono loro commesse, si adoperano anco nelle cose di comune servizio e di maggiore momento per lo stabilimento della Religione cattolica; come nei concili nazionali e universali, ne’ quali si trattano e determinano i più alti misteri della nostra fede, e si fanno constituzioni pertinenti all’amministrazione di tutte le cose sacre ed ecclesiastiche. Sono ancora ordinariamente e estraordinariamente mandati dalla Sede Apostolica nunzi e legati in diverse provincie e a diversi principi, con grandissima autorità, per la trattazione di cose nelle quali, se non sono mere ecclesiastiche, vi si concerne almeno qualche rispetto di religione; e a questi, come principali ministri del Pontefice, viene deferito assai. Però del carico di legato, che è il più principale, si usa valersi nel ministerio delle cause e de’ negozi più gravi, come ultimamente si è fatto in Francia, ove successivamente sono stati mandati tre legati per la Sede Apostolica, per trattare con la loro autorità gli affari importantissimi della religione in quel regno; con i quali stavano poi congiunti tutti gli altri rispetti di stato, e forse anco di particolari affetti. Ma ritenendo pur questa dignità molto di autorità e maestà, fu ricercato dal re di Polonia che alla dieta ultimamente celebrata in Cracovia, fosse dal Pontefice mandato un cardinal legato, come prima aveva con tal nome e autorità fatto assistente alla dieta di Ratisbona il cardinale Madruccio; e credevasi comunemente che il Pontefice fosse per sodisfare a tale richiesta, come quella che potesse aiutare i suoi stessi fini, nel far deliberare la guerra contra Turchi. Ma stando poi Sua Santità in pensiero di dare il cappello a monsignor Malaspina, che serve in quella Corte per nunzio, con dargli insieme nome e autorità di legato, non seppe poi né ad un modo né all’altro prendere ferma risoluzione: il che forse fu cagione di tanto più debilitare le trattazioni tenute in quella dieta con gli ambasciatori di Cesare per convenire nel muovere le armi contra Turchi. <6> Ora venendo alla stessa città di Roma, e all’ordinario suo governo in questo genere di cose, come che molte siano le persone che con diversi carichi vi si adoprano, sono però tre i più principali, e di grandissima autorità, e che vengono conferiti a’ primi cardinali della Corte, per mano de’ quali passano tutti i negozi, e la più importante cura delle cose proprie ecclesiastiche, e di quelle ancora che essendo per se stesse di altra natura, appartengono però a’ clerici. Questi sono: il sommo penitenziero, che ha particolar carico delle cose che vertono intorno ai casi di coscienza, dei quali nascono frequentissime occasioni, o per dubbi della qualità del peccato, o per venia di esso; e sempre a lui si ricorre per la dichiarazione, o per il perdono e penitenza. Questo carico era nella persona del presente Pontefice, avanti l’assunzione sua al pontificato; e fu da lui conferito al cardinale Santa Severina, cardinale primario della Corte, e di grande stima, principalmente ne’ negozi di tale natura. Segue a questo il carico di vicecancelliere, al quale s’aspetta l’espedizione di tutte le Bolle de’ beneficj ecclesiastici, e la particolar cura e intelligenza di tutte le cose pertinenti alla cancelleria, che sono in grandissimo numero e di grandissimo momento, e d’onde ne nascono, per antiche e ordinarie instituzioni, grandissime utilità. Però è questo grado di grande estimazione nella Corte romana, ed è stato alcune volte comprato per la somma fin di cento mila scudi. Era questa dignità presso il cardinal Farnese vecchio; ma essendo per la morte di lui vacata, nel pontificato di Sisto V fu data al cardinal Montalto suo nipote, che ora tuttavia la tiene. Il terzo grado e carico, cioè di vicario, è al presente presso il cardinal Rusticucci, creatura di Pio V e molto versato in diversi affari della Corte. Questo è costituito quasi ordinario giudice delle differenze che per qualunque causa nascono con la Chiesa, ma però nei casi solo di persone che vivono nella città di Roma; perché negli altri d’altri paesi, a lui non tocca il por mano. Tiene a questo servizio deputati due giudici eletti da lui medesimo, che attendono all’espedizione, l’uno delle cose criminali, l’altro delle civili. Oltra i quali, ha appresso di sé anco un terzo ministro, che deve essere vescovo, e che è al presente il vescovo di Pola, cipriotto, e buon servitore di Vostra Serenità; il quale ha carico di far le ordinazioni de’ clerici, che sono in Roma molto frequenti. Succedono poi a questi, altri carichi e dignità; tra le quali, da poi quelle che ordinariamente sono conferite nelle persone di cardinali, è molto principale ufficio nella Corte romana l’auditorato della Camera. Presso di questo si trattano grandissime e importantissime differenze, nate per qual si voglia causa tra persone ecclesiastiche di ogni Stato e di ogni provincia; onde questi similmente tiene i suoi giudici, che attendono all’espedizione di quei negozi che sono devoluti al suo tribunale. Questi al presente è monsignor Borghesi, oriondo lucchese, ma nato in Roma; quello che ultimamente, per diversi negozi della Sede Apostolica, fu mandato alla Corte di Spagna, come ne fu Vostra Serenità allora particolarmente informata; ed è assai buono e grazioso soggetto, e in concetto di poter riuscir presto cardinale. Sono anco carichi di molta stima il camarlengo e il tesoriero; ma perché questi trattano più cose laiche che ecclesiastiche, se ne parlerà in altro luogo. È vero che la materia di decime e di spoglie, ed altre simili, che pur nascono da’ beni ecclesiastici, s’appartengono alla cura e ministerio di questi. Vengono, oltra ciò, adoperati molti prelati, disposti in diversi gradi e ordini, e con ufficio diverso. Alcuni di questi sono detti protonotari apostolici, onore maggiore di nome che di utilità o di faccende nelle quali s’adoperino, non servendo, per obbligo ordinario di questo carico, ad altro ministerio che di assistere al Papa quando esce in solennità, massimamente alle cappelle; essendo anco solito che due di loro, dandosi in ciò la volta (sì che tocca a tutti), camminandogli poco innanzi, gli tengono i lembi del manto. Sono alcuni altri detti referendari, e questi sono in grande numero e divisi in due ordini, servendo altri alla segnatura di giustizia, e altri a quella di grazia. Hanno essi referendari, siccome sono in due ordini divisi, come due capi o presidenti, che sono cardinali. Del primo, cioè della segnatura di giustizia, è capo il cardinal Sfrondato; del secondo, che è quello di grazia, era il cardinal Castruccio; né fin al mio partire era stato a questo luogo provveduto d’altro soggetto. Da questi casi viene particolarmente, quando a questo quando a quello di essi referendari, commessa la cognizione di diverse cause e materie ecclesiastiche che si trattano a quella Corte; delle quali, quelle che sono proprio di giustizia, restano terminate col giudizio di essi referendari fin a certo numero, e dal cardinal presidente; ma quelle di grazia sono portate, per la risoluzione di esse, all’istesso Pontefice, davanti il quale si riduce un giorno alla settimana essa segnatura di grazia; e intesa che ha Sua Santità sommariamente la contenuta delle suppliche, o approba o reproba le cose proposte, come a lei pare e piace. Vi è un altro ordine detto de’ secretari, che sono in numero di circa venticinque; e sono uffici vendibili; e quantunque chi li possiede non li eserciti, partecipa però di certe utilità di momento, vendendosi uno di questi secretariati fino a sette, otto e nove mila scudi. Vi sono poi i secretari che attualmente servono a Sua Santità, i quali attendono con diversi carichi all’espedizione dei Brevi e ordini pontifici, e per mano loro passano i più importanti negozi. Ma però il Pontefice mai vuole né usa di scrivere o di far scrivere a suo nome immediatamente a’ suoi stessi ministri, e a’ principi stessi rarissime volte; ma a quelli comanda, e con gli altri fa far gli uffici, per l’ordinario, come porta l’occasione, col mezzo di quello o di quelli che come capi presiedono alla cura delle cose di Stato, che ora sono i due cardinali nipoti. Sono, oltre i nominati, altri uffici vendibili in gran numero, ciascuno con la morte di quello nella persona del quale si trovava posto. Solevano questi tali uffici corrispondere di utile a ragione di circa dodici per cento, ma dappoi che in essi si sono fatte diverse alterazioni e mutazioni da’ primi instituti, come si è fatto particolarmente nel pontificato di Sisto V e anco nel pontificato presente, e dappoi essere o cessate o diminuite molte faccende che capitavano da diverse parti a quella Corte, sono assai queste utilità diminuite; onde da anco scemando l’utile che soleva quella Camera cavare dalla vendita di essi uffici. <7> Ha poi luogo molto onorato e principale tra i tribunali di Roma il famosissimo della Rota, la quale è costituita di dodici uomini, tutti dottori di legge, e di grande estimazione: e come in questa si trattano cause importantissime di ogni nazione della Cristianità, che appartengono a cose ecclesiastiche, così, quasi per aver in questo consorzio un particolar patrocinio dei suoi, hanno diversi principi procurato di avere in essa Rota alcuno suo suddito e dipendente, e postovi a sua particolar istanza. Nel qual luogo s’ha anco la Repubblica acquistata ragione e prerogativa per grazia speciale che le fu da Sisto V concessa: e fu questo grado collocato nel dottor Mantica del Friuli, che allora leggeva nello Studio di Padova, dal Pontefice preferito agli altri fra i quattro eletti dall’eccellentissimo Senato. E certo che questo riesce degno soggetto, e con somma laude di dottrina e d’integrità sostiene questo grado; e si mostra molto devoto servitore della Repubblica, e molto meritevole della sua grazia. Si riducono questi per l’ordinario due volte alla settimana, soprabbondando sempre loro le cause e le materie da espedire; nelle quali si procede sempre per via di scritture, dandosi ad ognuno di essi auditori da vedere separatamente tutte le scritture pertinenti alla cosa che si tratta, benché di un solo sia proprio il riferire la contenuta di esse, e dir primo la sua sentenza: alla quale se si trova i due terzi dei colleghi di parere conformi, resta la materia terminata; se altrimenti, si torna a fare nuova proposta fin che sia del tutto o abbracciata o rifiutata. <8> Oltra questi uffici e particolari carichi che stanno sempre nelle medesime persone, altri ve ne sono appresso, i quali si vanno alterando e mutando senza alcuno certo ordine né limitazione, ma solo come più piace al Pontefice. E sono queste alcune ragunanze di cardinali, chiamate Congregazioni; nelle quali non è determinato né il numero delle persone, né alcun’altra cosa, ma vengono formate e deputate a gusto del Pontefice, e alcune secondo l’occasioni, per consigliare e trattare sopra diverse materie. È tra queste Congregazioni, nelle cose ecclesiastiche, principale quella dell’Inquisizione, che è più ordinaria e ferma, e si riduce due volte alla settimana, l’una in casa del cardinal capo di essa, che ora è il cardinal Santa Severina, e l’altra presso il Pontefice: e in questa si tratta di tutte le materie pertinenti al Santo Ufficio, e si danno sopra di ciò diversi ordini alle Inquisizioni delle altre provincie. Sono, appresso, di molte faccende la Congregazioni de’ vescovi e de’ regolari; benché queste, che solevano già essere due, siano dal presente Pontefice state ridotte in una sola, nella quale si trattano tutte le materie pertinenti a vescovi, e parimente a frati e a monache. Di questa è capo il cardinale Alessandrino. Vi sono appresso altre Congregazioni con altri carichi particolari, ma manco ordinarie di queste; come, sopra il Concilio, sopra i riti e cerimonie ecclesiastiche, sopra l’Indice, le stampe, la Visita. Quelle poi di Francia e di Germania, che sono molto principali, non vengono in questa considerazione, per trattarsi in esse piuttosto di materie laiche: però se ne dirà in altro luogo. <9> Tiene, oltra questo, la Sede Apostolica, suoi tribunali d’Inquisizione per la maggior parte delle provincie e città principali della Cristianità, con maggiore o minore autorità, secondo la diversità de’ luoghi e dei suoi antichi instituti: nel che per l’ordinario sogliono grandemente premere i Pontefici, come cosa loro particolarmente raccomandata. Ma oltre le cose spirituali, esercitano i prelati, come ministri della Sede Apostolica, negli Stati d’altri principi una suprema autorità per ragion delle persone, cioè di tutti i clerici e religiosi; sopra quali, quando non sia altro privilegio in contrario, tengono per l’ordinario un proprio e assoluto dominio. Di questa giurisdizione ecclesiastica, non pure il Pontefice, ma generalmente tutti i prelati, massime quelli che vivono nella Corte di Roma, tengono tanta cura, e così procurano di conservarla illesa, che non è alcun’altra nella quale altrettanto ordinariamente si prema quanto si fa in questa. Onde molte volte si vede, non pure con meraviglia, ma non senza qualche scandalo, alcuni uomini costituiti in qualche dignità ecclesiastica, per questo solo esser stimati e premiati, che con alcuna azione, anco ben spesso impertinente, s’abbino acquistato nome (come a Roma dicono) di buoni ecclesiastici, cioè difensori delle ragioni della Chiesa contra i laici; benché per altro siano spesso persone di poco laudati costumi. Siccome all’incontro, come cosa di gran nota, s’oppone talora ad un prelato che egli sia troppo fautore dei laici, come cosa esosa e contraria a’ pensieri e concetti di quella Corte. E certo che di questa cosa ho udito alcuna volta parlarsene in modo, e da persone principali, che pare che i laici non siano di uno stesso gregge, né sotto uno stesso ovile con gli ecclesiastici. Onde nasce che molti vescovi e alti prelati, per acquistarsi credito, prendono ed esercitano alcuni spiriti così arditi e vivaci, e con sì poco rispetto dei principi, e non pur per difendere ma per dilatare le giurisdizioni ecclesiastiche, che danno occasione di travagliare perpetuamente anco in cose minime, o in altre poco ragionevoli, e che pure nutriscono male intelligenze tra quella Corte e altri potentati, con poco servizio comune. Il che Vostra Serenità particolarmente prova per le impertinenti operazioni fatte molte volte da alcuni vescovi e altre persone di Chiesa del suo medesimo Stato. Alle voci e querele dei quali, come sarebbe utile procurar di metter silenzio, così è molto difficile; perché si vede che anco alcuna volta sono sostentate cose poco ragionevoli, e ascoltate volentieri in quella Corte. Onde, sotto nome di libertà ecclesiastica, usano spesso molti una immoderata licenza di parlare e di operare, con pochissimo riguardo alla dignità de’ principi, confidando in quel rispetto che apporta alle loro persone il carattere sacro e la riverenza della Religione; ma però, non senza alcun scandalo di chi le cose dirittamente mira e considera. In modo che pare (come io ho alcuna volta liberamente detto al medesimo Pontefice) che quando nasce alcun disparere tra persone laiche ed ecclesiastiche, si abbia in maggior considerazione la qualità della persona, cioè se sia di chiesa o secolare, che la qualità della cosa di che si tratta, per conoscere da quale parte sia il torto o la ragione: cose che convengono partorire notabili disordini e notabilissimi disgusti negli animi de’ principi e de’ popoli ancora. E il presente Pontefice si mostra in queste materie assai ardente, non pur per propria inclinazione, ma per le tante suggestioni che gli son fatte; mettendosegli innanzi la sua dignità, e la riputazione della Sede Apostolica e delle cose ecclesiastiche. <10> Ora perché tra i ministri primari de’ Pontefici, e tra le persone sacre di maggior autorità e dignità sono i cardinali; però, prima che si esca di questa considerazione del Pontefice come principe ecclesiastico, è ben dire alcuna cosa pertinente a questo collegio, tanto riguardevole nel cospetto del mondo, e tanto universalmente stimato. Questi dunque sono membri molto nobili e molto principali nella Chiesa romana cattolica, della quale è il Pontefice capo, e a cui furono dati e aggiunti quasi per consultori, e ornati della insegna del cappello rosso a dimostrazione che fin con l’effusione del sangue siano tenuti a procurare il buono e diritto governo della Chiesa. E come ha il Pontefice per fine la salute della Chiesa universale, alla quale deve attendere con molta vigilanza e con cura pastorale per beneficio de’ popoli, dei quali è la Chiesa madre comune, e rifugio di tutti i Cristiani, così questo gravissimo carico fu stimato aver bisogno di tali aiuti. Onde furono questi detti cardinali, quasi cardini, perché aiutano a sostentare il mondo nelle cose ecclesiastiche e spirituali. Così fatto è il ministero di questa dignità, e con tale ordine e fine fu istituita, già sono ormai più di 500 anni, nel pontificato di Nicola II, ch’essa contiene in sé l’eccellenza e perfezione di tutti i gradi ecclesiastici e ordini sacri; però nel collegio vi sono diaconi, preti e vescovi. Da questo istituto e primo costume antico si conosce che nel conferire questa dignità, nella quale hanno a risplendere i più chiari lumi, quasi posti sopra quel grande candelabro per guida degli altri, si dovrebbe aver solo innanzi l’eccellente bontà e dottrina degli uomini, posposti tutti gli altri rispetti. Nondimeno, con stile diverso dalla prima sua istituzione, veggonsi spesso a tale grado innalzati quelli che per sangue, o per particolar amicizia, o antica e domestica servitù, sono con i pontefici più congiunti, o che sono più raccomandati e protetti dal favore de’ principi: e ciò molte volte ancora senza alcuna distinzione né di età, né di alcuna condizione delle persone. Onde nasce che in quel collegio, benché vi si presuma una scelta degli uomini più eccellenti di tutte le province di Cristianità, perché a tutti è aperta quella porta senza esclusione d’alcuno né per nascimento né per altro rispetto; non corrisponde però al concetto, se ai più di essi si riguarda, l’eccellenza dei soggetti che in essa si vanno numerando. Il che però non diminuisce punto, anzi tanto più accresce il merito e lo splendore di quelli che fuor degli altri s’innalzano e risplendono per la loro eccellente bontà e virtù; come pure e ora ve ne sono, e ne sono stati per ogni età. Ora di questo collegio, tuttoché sia molto accresciuta la grandezza e la maestà rispetto alle cose esterne, che sogliono essere stimate presso l’universale degli uomini, per il colmo grande delle ricchezze nel quale i più si trovano constituiti; pure nondimeno, quanto poi al maneggio delle cose più importanti per la Sede Apostolica e Stato Ecclesiastico, rimane la loro autorità, da ciò che era in altri tempi, diminuita. Ma stando presso al collegio de’ cardinali l’autorità dell’eleggere il sommo Pontefice, ed eleggendosi uno del loro numero, viene ciò ad acquistare loro molto di stima e rispetto presso ad ognuno. Oltra di che assistendo così frequentemente il Pontefice, e avendo sempre che vogliono la sua orecchia, sicché ponno e nuocere e giovare assai con i loro uffici; e parimente intervenendo essi in diverse Congregazioni ove si trattano molti importanti affari, viene delle persone loro da’ principi fatta grande stima. Al presente per il vero ha la Repubblica in questo ordine fautori pochi, e meno che non è stata solita d’avere in altri tempi, e particolarmente pochi anni sono mentre vivevano i cardinali Farnese ed Este; i quali, come anco nella Corte se ne conserva memoria, si mostravano molto pronti nella protezione delle cose di Vostra Serenità; e lo potevano fare con buon frutto, per essere cardinali di grandissima autorità. Però fu ottimo consiglio l’interporre l’autorità pubblica per far ritornare a Roma gl’illustrissimi signori cardinali Valerio e Morosini, l’opera de’ quali nei negozi corsi a questo tempo a quella Corte, ma principalmente in quello importantissimo di Francia, è riuscita molto fruttuosa. E veramente si mostrano l’uno e l’altro di questi signori così ardenti e zelanti nel servire alla patria, che non lasciano luogo da desiderare alcuna cosa più oltre, abbracciando sempre, col posponer ogni altri rispetto, l’occasioni che in ciò s’offeriscono: e veramente nel collegio dei cardinali sono questi due stimati onoratissimi e prestantissimi soggetti. Molto di grazia potrà acquistare alla Repubblica presso quel collegio il fare, quando lo porta l’occasione, dimostrazioni di stimare le persone di essi cardinali, e di venerare la lor dignità; e ciò tanto più che essendo soliti di esser tenuti dagli altri principi in grande stima e venerazione, col ricever da loro molti complimenti, e non pur di parole, ma di diverse grazie, e anco di doni di cose rilevanti, pare loro di essere disprezzati quando non si cammina per quelle vie: né io ho mancato, per quelle cose che si potevano fare da me, di tenere molti di quei signori, con frequenti visite e con altri uffici, ben edificati e ben affetti verso le cose della Serenissima Repubblica, iscusando col mettere innanzi moltissimi rispetti, se di più non si poteva fare. Onde non mi è parso, per il suo stesso servizio, di dover restare di rappresentare alcuna volta a Vostra Serenità, come ho fatto, qualche istanza di grazie particolari, come ne ero da quei signori ricercato; benché in questo stesso, per non accrescere a lei soverchia occupazione e fastidio, sia proceduto con conveniente riserva e rispetto. <11> Il numero dei cardinali del collegio è stato in diversi tempi molto vario. Pio IV ebbe pensiero di ridurli al numero di cento, ad imitazione dell’antico senato romano. Pio V, pensando pur a questa regolazione, giudicò, che essendo questo collegio de’ cardinali istituito da principio a certa somiglianza dei discepoli di Cristo, dovesse essere all’istesso numero, cioè di settantadue; ma non pose poi il suo pensiero in effetto. L’istesso pensiero fu anco di Sisto V, ma con qualche alterazione: nondimeno, non pur non pose questa regola e imitazione, ma egli stesso ruppe diverse costituzioni che aveva fatto intorno alla creazione dei cardinali. Sono al presente in questo collegio cinquantaquattro cardinali; essendone morti dieci nel tempo di questi tre anni che io sono stato in Roma, e creati solo quattro. Né si vede nel Pontefice molta inclinazione di accrescere questo numero, avendomi più volte affermato che erano anco troppi, e che il collegio non ne aveva alcun bisogno. E può tanto più con verità dir questo, quanto che ben poco si vale dell’opera o consiglio di quelli che vi sono, de’ quali pur potrebbono alcuni adoperarsi con laude e con pubblico servizio. Potrebbe solo, come è creduto, indurlo a questa risoluzione il desiderio di compiacere ai nipoti, per accrescer loro riputazione e seguito, e per dargli in ogni evento l’appoggio di persone confidenti. Onde si crede che la prima promozione abbia ad essere anzi di soggetti dipendenti dalla sua casa, che di quelli che sono raccomandati dall’istanze e favori de’ principi: e se pure si passerà in altri, possa esser più tosto alcuna persona religiosa e di gran stima, come è il padre Baronio suo confessore, o altro simile, per più autenticare e onestare con questo la promozione degli altri che facesse a suo gusto. A me disse, quando di ordine pubblico gli ho alcuna volta ricordata la dignità e la gratificazione della Repubblica in occasione di promozione, che sempre metteria in ciò le istanze e interessi di Vostra Serenità e di questo Serenissimo Dominio al paro di quelli d’ogni altro principe; ma mostrando di tener poco pensiero di voler venire così presto in tale risoluzione. Questa ultima risoluzione presa circa la ribenedizione del re di Francia potrebbe anco aiutare a disporre più facilmente l’animo di Sua Santità ad alcuna promozione, per far soggetti che potessero sostenere e accrescere la fazione francese; poiché s’ha per tale azione alienato assai gli animi de’ cardinali spagnoli. <12> In questo collegio, come che sia già lungo corso d’anni ormai cominciato a prevalere troppo il desiderio di salire al pontificato, pure a questo tempo è fatto questo pensiero maggiore, più fervente, più continuato e più comune presso la maggior parte de’ cardinali, che già non soleva. Di che è data la cagione alle vacanze di quella Sede, occorse più frequenti questi ultimi anni, delle età passate; poiché nello spazio di quindici mesi ha veduto quella corte cinque pontificati. Onde persuadendo ora a’ cardinali il loro stesso desiderio, che possa continuare ad occorrere il medesimo con la brevità della vita de’ pontefici, e però che in molte elezioni possa facilmente toccare a molti, e che sempre sia l’occasione vicina; si sono posti molti con tanta ansietà e perpetua cura a pensare e a tenere perpetue pratiche del pontificato, che certo chi ciò non vede, e non lo conosce quasi nel fatto, appena può crederlo: cosa che tanto più fa maravigliare gli uomini di sana mente e non interessati, quanto che la fresca età e la prospera salute del Pontefice fa più scoprire la vanità di tali pensieri. E pur ogni giorno si va su questo negozio macchinando diverse cose da diversi, e si procura di acquistarsi voti e favori con tutti; e talora così palesi, che ponno esser facilmente osservati, non altrimenti che se fusse certo e molto prossimo il caso di nuova elezione di pontefice. E molti, per altro uomini savi, sopra queste cose immaginarie vanno fabbricando i loro discorsi, e fondando le loro speranze; immemori di quanti accidenti soglia apportare anco brevissimo spazio di tempo, onde in poca ora resta lo stato delle cose lungamente tramate e ordinate, tutto mutato e confuso. Però, per non imitar la vanità di questi discorsi e pensieri, io non mi stenderò nel considerar particolarmente quali si stimino ora i soggetti più papabili; la quale cosa è sempre stata sommamente difficile, ma ora tanto più rimane soggetta a molte variazioni e mutazioni, quanto che è fatto maggiore il numero dei pretendenti al pontificato, e quanto che non vi è soggetto nel collegio così eccellente e prestante sopra gli altri, che in esso vi concorra il giudizio universale. E aggiungerò ancora, quanto ad altri estrinsechi rispetti, che si comincia a scoprire manifesta alterazione nello stato delle cose in quella Corte, ove fin’ora già alquanti anni è prevalsa la fazione spagnuola; in modo che questo appoggio è stato tenuto il più sicuro per essere, quanto a’ favori e mezzi umani, portato al pontificato. Ma essendo la Corte, levando i suoi propri e particolari interessi, assai stufa e stracca di dipendere dagli Spagnuoli, per aversi in tutte le cose voluto arrogare troppa autorità, ed essendosi aperta la strada onde possa risorgere la fazione francese, converranno mutarsi tutti i registri, e farsi gli ultimi primi, e primi gli ultimi, quanto all’autorità e riputazione della Corte romana, e pretendenze al pontificato; e tanto più dilettandosi molto per ordinario gli uomini, e quelli che vivono a quella Corte particolarmente, delle novità. Ma come non si può, senza prenderne molta meraviglia, considerarlo, così non debbo io tacere che i negozi pubblici, importantissimi al servizio della Cristianità e alla Sede Apostolica particolarmente, sono spesso, come particolarmente s’è veduto in queste cose di Francia, trattati e misurati con termine di fazione e con pratiche di pontificato, riferendosi ogni azione principale che passi ora in quella Corte a questo solo oggetto. In modo che il papa, a notizia del quale pervengono tutte queste cose e disegni, disse nel concistoro che un solo negozio premeva in Roma, e ad un solo s’attendeva con pregiudicio degli altri, cioè alla pratica del pontificato. E di qui è nato che, non essendo i giudicj degli uomini liberi, e precipitando con gli altri anco quelli che sono di maggior prudenza, accecati da particolari affetti, si vedono da quella Corte uscire spesso operazioni poco conformi alla dignità e servizio di quella Santa Sede e dello stesso Stato Ecclesiastico. E tutto che il negozio di Francia, si può dir miracolosamente più che per consiglio umano guidato, sia riuscito in bene, pur fu cosa di somma meraviglia come si lasciasse andar tante volte precipitando, e che quando, con molta esaltazione della maestà pontificia, si poteva molto prima ricevere, con la ribenedizione, in grazia e all’ubbidienza della Sede Apostolica il re di Navarra, o almeno porre la cosa in negozio, poiché con tanta umilità e amplissime offerte veniva l’assoluzione ricercata, si persistesse però così lungamente nella risoluzione, prima, di non ammettere il cardinale Gondi né il marchese di Pisani, e poi di cacciare da Roma il duca di Nevers, con dare tanti disgusti, non pure a quel re, la fortuna del quale pur si vedeva andar sormontando, ma a tutta o alla maggior parte di Francia. Ma molti cardinali, e altri che nel favore del re Cattolico hanno riposte gran speranze a’ loro disegni, niente ritenuti perché questi loro interessi fossero palesi e notissimi al mondo, sono andati strepitando per la Corte, benché coprendo i loro affetti sotto il manto della religione, e tenendo lungamente impediti e sturbati i consigli migliori. Ma gli uomini di più sano e sincero giudicio, sebbene di minor credito, in questo caso diversamente stimavano, e per altri degni rispetti, e perché conoscevano che esaltandosi tato gli Spagnoli col cedere alle loro voglie, e col levarli il contrappeso della fazione francese, si veniva tanto più a costituirli arbitri di tutte le cose nella Corte di Roma; sicché, come ora pretendono di voler fare eleggere a lor voglia i pontefici, nominando ed escludendo chi più lor piace, così nell’avvenire avessero a pretendere nella totale amministrazione del pontificato. Ma quanto al temporale, chi non poteva conoscere che restando lo Stato Ecclesiastico privo di questo appoggio e refugio dell’armi francesi, quando venisse agli Spagnuoli pensiero (come pur altre volte e in queste ultime età è avvenuto) d’assalire e travagliare le cose de’ pontefici e lo Stato della Chiesa, converrebbe la dignità di quelli e la sicurtà di questo rimanere esposta ai maggiori pericoli? Per le quali ragioni, ora fatte più palesi, riprendendo assai d’animo e d’autorità la parte contraria, si può far giudicio che nel futuro conclave non siano gli Spagnuoli per aver tanta parte quanta per il passato, e già alquanti anni in qua, hanno avuto nella creazione de’ pontefici. Ma in ciò la più presta o la più tarda morte del Pontefice, e molti altri accidenti nell’occasione di vacanza del pontificato, potranno inferire grandi alterazioni, massime essendo i soggetti, che ora più degli altri vi potriano pretendere, più vecchi del presente Pontefice. E per certo pare che il Signore Dio appunto permetta (per dimostrar maggiormente che l’elezione di questo su vicario in terra non dipenda da opera e consiglio umano) che più di rado pervengano a questa dignità quelli che più vi pensano, e con mezzi umani e spesso poco leciti l’hanno procurata; e che la elezione succeda, come veramente fatta per divina ispirazione e provvidenza, diversa dai pensieri degli uomini, e anco dei più savij e più esperti in quella Corte: onde come non è inutile l’intendere questi più generali rispetti, così il farne alcun particolare e più espresso giudicio sarebbe cosa presontuosa e vana. <13> Avendo nella precedente prima parte di questa Relazione parlato già a sufficienza del Pontefice, per tutte quelle considerazioni che appartengonsi alla persona che egli sostiene di capo di tutto il governo spirituale, e di governatore e moderatore di tutte le cose ecclesiastiche; verrò ora a parlare del medesimo pontefice come di principe secolare dello Stato che possiede, delle sue forze, del governo, e degli ordini e disordini che sono in esso, e particolarmente della buona o mala intelligenza che egli tenga con altri principi. Possiede al presente la Sede Apostolica quello Stato, che ha già per corso di molti anni ormai posseduto quietamente e pacificamente, senza alcuna diminuzione né travaglio di momento, comprendente la città di Roma, il Patrimonio, l’Umbria, le province della Marca e della Romagna, le città di Bologna in Lombardia, di Benevento nel regno di Napoli, e di Avignone in Francia. Nel quale Stato si annoverano cinquantauna città cioè terre che hanno vescovo o arcivescovo; benché molte di esse per altro, in rispetto alla picciolezza del sito e al poco numero e alla qualità degli abitanti, non siano molto degne del nome di città. Di queste, dodici ne sono nella Campagna di Roma; cioè Ostia, Albano, Sabina, Preneste, Tuscolo, Porto Santa Rufina, Tivoli, Anagni, Veroli, Terracina, Rieti e Segni. Sedici nell’Umbria; cioè Viterbo, Nepi, Bagnorea, Montefiascone, Amelia, Civitacastellana, Narni, Terni, Todi, Assisi, Foligno, Orvieto, Città di Castello, Spoleto, Perugia e Nocera. Nella Marca, undici; cioè Ancona, Recanati, Macerata, San Severino, Osimo, Montalto, Fano, Ascoli, Camerino, Iesi, Ripatransona. Nella Romagna, nove; cioè Ravenna, Forlì, Rimini, Faenza, Imola, Cesena, Cervia, Bertinoro e Sarsina. Bologna, Avignone e Benevento sono città archiepiscopali. In tutto quello Stato non vi è fortezza di considerazione; anzi sono guardate solo le rocche di Ancona e Civitavecchia. In Perugia vi è presidio di soldati, ma in poco numero; e in Bologna vi sono cento Svizzeri e cinquanta cavalli leggeri per la guardia della piazza e palazzo del legato, o di chi tiene il suo luogo. Vi sono però alquanti luoghi che erano già in considerazione di fortezza, e sono siti attissimi a ricever fortificazione, come Orvieto, Civitacastellana, Spoleto e qualche altro; ma questa cosa è talmente trascurata, che dà occasione di giusta meraviglia come si voglia stare alla discrezione d’altri. E pur sono poco lontane le memorie del grave sacco di Roma nel pontificato di Clemente VII, e del pericolo che fu molto vicino nel pontificato di Paolo IV. E nondimeno quella parte della città di Roma ove è la chiesa di San Pietro e il palazzo del papa, che è dal fiume del Tevere separata dal rimanente della città, molto facilmente si potrebbe ridurre a sicura difesa (opera stata già da diversi pontefici principiata, ma da niuno ridotta a perfezione): anzi che il Castello stesso, che è quel solo refugio che resta per qualche avverso accidente, è malissimo provveduto di tutte le cose necessarie; talché pochissima gente sarebbe atta a mettere in quella città, piena di turba inerme, grandissima confusione; e massime con queste sette grosse di banditi, che sono state sono tuttora in quello Stato e in quei contorni, che ponno dar giusta occasione di timore. Questi accidenti di Francia hanno parimente dati occasione di discorrere spesso sopra questo pericolo; prima, quando l’armi del re erano stimate nimiche, e che da principio con gran strepito Laodigera passò i monti; e dappoi quest’ultimo fatto della ribenedizione del re di Francia, ma da parte diversa; cioè per rispetto alle minacce che si andavano spargendo per la Corte degli Spagnoli, che erano più stimate per l’occasione dei fuorusciti che si trovavano così grossi a’ confini dello Stato Ecclesiastico: e questo sospetto non era ancora ben cessato al tempo della mia partita di Roma. Onde, in somma, la sicurtà della persona del Papa e di quella Corte riposa, più che in altro, anzi pur si può dir solo, nella venerazione e rispetto che apporta la maestà della Religione. <14> È questo Stato posto in sito a tutte le cose opportuno, come si è veduto per l’esperienza di così grande e così lungo imperio che ha tenuto chi è stato signore della città di Roma e del paese e provincie circonvicine, quando vi sono gli altri rispetti insieme concorsi. Ha la comodità di due mari, cioè il Tirreno e l’Adriatico, stendendosi per buono spazio sopra l’uno e l’altro di essi le sue marine. Ha due porti assai comodi, ma più famosi per quello che già sono in altri tempi stati, che per quello che siano al presente; cioè quello di Civitavecchia e quello d’Ancona. Il primo è ora molto atterrato e quasi fatto inutile al ricetto di grossi legni e di numerosa armata: resta però ancora capace di qualche numero di vascelli; e, per l’ordinario, ivi stanno le sei galere della Chiesa. Ha avuto in animo Sisto V di farlo cavare, e ridurre al suo antico stato, e il medesimo pensiero ha avuto ancora il presente pontefice; anzi ha detto più volte di voler egli stesso andare in persona a vederlo, e a farne la total risoluzione. Ma si porta questa innanzi, così per la spesa, come perché il lasciare un comodo e sicuro ricetto ad armate nemiche che volessero porsi in sito così vicino (che dalla stessa città di Roma non è più che miglia trenta lontano), sia cosa che possa riuscir di maggior danno e pericolo, che di beneficio a quel dominio e a quello Stato. Quanto al porto di Ancona, questo in altri tempi, come molto opportuno a diverse navigazioni e ad ogni sorta di naviglio, prestava anco occasione e comodità all’esercizio di molte faccende mercantili, per uso dello Stato Ecclesiastico e di qualche altro luogo vicino. Ma ora, per diversi accidenti, sono mancati assai questi traffichi; in modo che essendo stata fatta l’applicazione di quello che si traeva dai dazi per ragion di esso porto, di scudi sedicimila, così d’accordo con l’istessa città d’Ancona, al presente non può essa cavarne più la detta somma: né avendo per tutto ciò potuto ottenere dal Pontefice di esserne sgravata, si sono gli Anconitani rivolti a dar nuovi ricordi e a procurare nuove provvisioni per ritornare il corso delle faccende antiche in quella città. E fra questo è stato accettato e procurato di mandar ad effetto la nuova imposta di dodici per cento a tutte le mercanzie di Levante, le quali fussero portate nello Stato Ecclesiastico levandosi d’altro luogo che immediate non sia suggetto alla Sede Apostolica. Di che non mancai, con molte mani di mie lettere, dare a Vostra Serenità particolar conto. E quelle considerazioni ch’io allora feci, quando da principio uscì questa Bolla, alli signori cardinali nipoti, per dimostrare quanto fosse difficile anzi impossibile il farla eseguire senza notabilissimo danno del medesimo Stato Ecclesiastico e grave querela di quei sudditi; non credute allora, per essere queste cose, come dette da me, avute sospette; da poi somministrate da me medesimo ai mercanti interessati, e da loro rappresentate alla Consulta, hanno avuto forza di far sospendere in questa parte l’esecuzione di essa Bolla, col promettere agli appaltatori delle dogane ed ai mercanti, ch’ella non sarebbe osservata; come veramente fino al partir mio di Roma non era stata mai osservata. E si trattava, in luogo di questo accrescimento del dodici per cento alla mercanzie che si levano da questa città, obbligar quelli che voglian condurle nello Stato Ecclesiastico, a farle condurre in Ancona e non a Pesaro, come ora vi capitano per la maggior parte; importando quest’utile del transito di tali mercanzie, che ora rimane a beneficio del duca d’Urbino, circa cinquemila scudi all’anno, benché dopo il mio partire pare che sia ritornato il primo pensiero dell’accrescimento del dazio a dodici per cento; il che succedendo, darò di ciò più particolar conto dove e quando ne sarà bisogno. E ancora che nella medesima Bolla vi siano molte altre cose ordinate, col dar notabili privilegi e immunità agli Ebrei levantini, e con altre nuove istituzioni, non si vede però che facciano, né si crede che siano per fare quel notabile profitto che si persuadevano, e ciò per diverse cause, le quali troppo lungo sarebbe l’andar ora raccontando. Ma non cessano gli Anconitani di fare con Sua Santità frequenti querele contro la Repubblica, mettendo sempre innanzi che con diversi ordini del Senato, e con diverse esecuzioni di ministri, si abbia in mira a distruggere e levare affatto ogni negozio d’Ancona. I quali sospetti benché io mi sia molte volte in diverse occasioni affaticato di levare dall’animo di Sua Santità, non ne resta però ella compitamente sincerata. Ma la più sicura via di tenerla in ciò quieta ho trovato essere lo stare su questo punto, che è verità: che nel suo pontificato non sia stata fatta alcuna sorta d’innovazione; nel che pare ch’ella principalmente prema, dubitando di essere altrimenti poco stimata, e non volendo, come dice spesso, nel tempo suo lasciar correre di pregiudicio dello Stato e della giurisdizione ecclesiastica. <15> Ma tornando alle considerazioni che s’appartengono a quello Stato, e lasciando molti particolari che si potrebbero dire di cose che sono ora le medesime che furono già molti anni addietro, e che sono state più volte in questo luogo raccontate, attenderò solo a rappresentare la presente condizione di esso Stato, che è cosa tanto più degna di essere intesa, quanto che è fatta assai diversa da ciò che soleva essere in altri tempi, e anco dai presenti non molto lontani. Soleva questo Stato, ancorché non molto grande, né assicurato da fortezze o da ordinaria milizia pagata, essere però stimato molto sicuro; e non pur per quella riverenza che gli dà la maestà del Pontefice che lo comanda, ma ancora per ordinari e mondani rispetti. Conciossiaché per la bontà e larghezza del paese era quello Stato abbondantissimo di grano e di diverse altre cose necessarie al viver umano, e fioritissimo per il numero, e molto più per la qualità degli abitanti; uomini molto atti a diverse industrie, ma principalmente agli esercizi della milizia. E la satisfazione che generalmente prendevano quei sudditi di essere sotto il governo moderato della Chiesa, non travagliati da molte gravezze, né oppressi da molte estorsioni, né da severità d’imperio, era gran fondamento sopra il quale poteva in qualunque evento di cose e travaglio che fosse succeduto in Italia, riposare la sua sicurtà. Ora queste cose sono fatte tanto diverse, che appena par verisimile, in così breve tempo, essersi potuto fare così grande mutazione e alterazione. <16> Dirò prima quanto all’abbondanza; cosa sopra ogni altra necessaria in qualunque Stato e governo, e per se stessa, e per tenere i popoli paghi e contenti. Questa è tramutata in una grandissima carestia, non pure al paro di altri luoghi d’Italia, ma, in paragone di ciò che soleva essere prima in quelle provincie, e in Roma particolarmente, molto maggiore, come è toccato a me ancora di provare. Perocché ove prima soleva valere il formento tre o quattro scudi il rubbio, il primo anno ch’io vi andai si pagò fin a scudi quindici, che vuol dire in ragione di scudi cinque lo staro veneziano. E dappoi, ancora che siensi moderati quei prezzi alti, rispetto al corso ordinario rimangon pure assai gravi, massime per quelli che non hanno il modo di fornirsi a certi tempi, che è l’universale del popolo. E questa carestia del formento si ha tirato dietro una carestia grandissima di tutte le cose; e così grande che presta materia spesso a ragionamenti che passano non pure nella plebe, ma anco tra persone di conto, massime cortegiani e altri forestieri, che ne sentono l’incomodo, e che paragonano la presente strettezza alla tanta abbondanza di tutte le cose che soleva già essere in Roma. Non ha certo mancato il Pontefice di mettervi molta cura, ma i disordini sono già per più vie introdotti: ogni cosa non può venire a notizia del principe; e, oltre ciò, fanno danno anco a quel paese e a quella città i disordini d’altri luoghi vicini, ove il grano è stato sempre, già qualche anno ormai, a altissimo prezzo. Questo ultimo raccolto è stato abbondantissimo nella campagna di Roma; e tutto che il formento sia in assai buona condizione, pure è un terzo più caro di quello soleva essere avanti queste ultime carestie. E in altri luoghi dello Stato Ecclesiastico si è osservato che le raccolte migliori hanno apportato finalmente, per rispetto delle tratte e per altre cause, più di comodo ai ministri della Camera apostolica o ad altri di fuori, che agli stessi popoli. Onde nasce che generalmente quei sudditi si trovino poco contenti, e parlino con gran libertà contra tutti quelli che governano, attribuendo a loro questo disordine, benché nasce da più cause. E però vi si vede poco rimedio; perocché nella Marca, e nella Romagna particolarmente, oltre l’esser mancato, per la mortalità di questi anni passati, gran numero di gente, quelli che sono rimasi restano constituiti in una estrema povertà. Il che anco è nato per la grande rigorosità con la quale, a tempi così penuriosi e difficili, sono proceduti i ministri di quella Camera nel riscuotere le gravezze, togliendo ai contadini fin gli animali e gli istrumenti rurali. Ma nella campagna di Roma non vi sono propri abitatori che lavorino i terreni, essendo il paese, oltra quelli che stanno nelle terre, tutto disabitato. Questi terreni, per lo più, sono di baroni romani, i quali sogliono affittarli a mercanti; persone ricche e di gran faccende in questo esercizio, chiamato da loro l’arte del campo; per la quale tengono grandissima quantità d’animali, e per far lavorare la terra si vagliono dell’opera d’uomini montanari, che vengono da più parti in Roma per questo effetto; e non pur dallo Stato della Chiesa, ma da altri Stati ancora. Si lavorano questi terreni solo la terza parte di essi, lasciandosi, dappoi fatto un raccolto (che è sempre di formento), riposarsi due anni. Ma da un tempo in qua vi si sono introdotti tanti disordini e mancamenti, che non si trae di un pezzo la somma di biade che si soleva: onde la città stessa di Roma ha bisogno di grani forestieri; e si fa conto che la campagna di Roma sia di dugento trentamila rubbia di terra, che vuol dire circa un milione e dugentomila campi alla misura padovana; ma non se ne seminano, per l’ordinario, più di un terzo, lasciandosi riposar due anni il terreno, senza cavarne alcun altro frutto che di pascoli. E si trova che questa parte seminata viene a rispondere circa cinquecento mila stara di frumento: talché questo solo soleva dare il vivere a Roma, o poco meno. Ora, anco questa parte patisce assai per mancamento d’uomini e di animali, e particolarmente per i molti fallimenti che sono seguiti di diversi mercanti principali, che avevano mano in questa sorte di negozi: onde non è questo paese lavorato né seminato per il suo dovere, e secondo l’ordinario. E se a questo disordine non si rimedia, si crede che Roma, benché constituita in paese sì largo e fertile, ogni dì verrà in maggior necessità di valersi di grano forestiero; come pure ha convenuto fare questi anni passati. Le quali cose ho stimato bene toccare con questa informazione, per essere, a questo tempo particolarmente, la materia delle biave fatta di grandissima considerazione. Per questo rispetto dunque i popoli si vanno assai diminuendo nelle terre dello Stato Ecclesiastico; ma in Roma particolarmente, per esser popolo quasi tutto forestiero, e che si ferma volentieri dove è migliore la condizione del vivere. E come per l’ordinario avviene che un disordine ne partorisce degli altri, da qui nasce che siano mancate, insieme con gli uomini, le arti e gli esercizi; sì che, in quelli ancora che restano, vi si vede maggiore imperfezione; e particolarmente in quello della guerra, nel quale, e per l’antica inclinazione e per lungo costume, erano i sudditi della Chiesa, e massime i Marchiani e i Romagnoli, assai stimati. Ma tenendosi in quelle battaglie, che noi chiamiamo ordinanze, per l’ordinario descritti da venticinque fino a trentamila uomini, è convenuto, mancando il numero degli abitatori, ed essendo molti per la gran povertà avviliti, descrivere in queste milizie tutti i migliori; sicché tra quelli che restano fuori sono pochi ben atti a maneggiar l’armi. Onde non solamente per la strettezza che usa il Pontefice nel conceder la licenza del far genti sopra lo Stato della Chiesa, ma ancora per non trovarsi uomini che possano servire per buoni soldati, riservandosi sempre fuori e intatte le ordinanze, pochissimi sono quelli che vadano a servire ora fuori alle guerre. Però, mancando l’esercizio, è forza che vada a poco a poco mancando anco l’esperienza, e indebolendosi quella disposizione naturale che comunemente hanno quegli uomini alle cose della milizia. E già si è cominciato a conoscere questo mancamento in diverse occasioni, come io ne ho veduta la prova: prima, l’anno passato, che dappoi avere, non senza difficoltà, ottenuto da Sua Santità che per i bisogni dell’armata di Vostra Serenità potessero sopra quello Stato esser fatti duemila fanti, ritrovarono i capitani grandissima difficoltà nel primo principio a fare le compagnie, e per il mancamento d’uomini, e per la strettezza e riserva grande con la quale si procede ora a queste licenze; usando diversi ministri, per mano de’ quali passa tale negozio, tante lunghezze e cavillazioni, che si può tener per fermo, che se il bisogno di valersi di quei fanti fosse andato innanzi, o non si sarebbono mai fatti, o certo fatti fuori di tempo, o di gente poco buona. Il che servirà per far conoscere ciò che Vostra Serenità si possa a questo tempi da quella parte promettere in altre occasioni e bisogni; ché certo le cose sono in termini molto diversi da ciò che solevano essere. Né si vede molta speranza che possano ricevere altro stato, salvo che con lunghezza di tempo e con altre mutazioni, non avendo il paese industria alcuna che possa dar occasione a’ forestieri di trasferirvisi e fermarvisi; né essendo al presente sotto quel dominio i trattamenti tali, che possano eccitar i popoli vicini a venire ad abitarvi: anzi piuttosto molti se ne partono per andare in altri Stati; e a quelli che restano, la molta povertà leva le forze e l’animo d’impiegarsi in alcun nobile esercizio. Ma più chiara esperienza di ciò si è veduta l’anno presente nelle milizie mandate da Sua Santità in Ungheria: perché, con tutto che i capitani potessero levar d’ogni sorte di gente, cioè di quella ancora delle battaglie, e che i capitani fossero del medesimo Stato Ecclesiastico, e molti di essi persone di seguito e d’autorità, e che fosse anco ad alcuni permesso il condur seco diversi fuoriusciti; nondimeno grandissime difficoltà si ritrovarono nel riempir le compagnie, e furono fatte per il più di gente rozza, meschina e vagabonda. E bisognò finalmente ricorrere ad altri Stati, e procurare di trarre tremila fanti di Lombardia, benché premesse molto il Papa nel far tutta questa gente nel proprio Stato Ecclesiastico. E per certo questa milizia non è riuscita di quella qualità né in quel numero che si è andato predicando e magnificano per dar maggior riputazione al Pontefice e maggior satisfazione a quelli che hanno avuto a comandarla. <17> Ma per tornar all’occasioni di questi disordini, dico appresso che grandissimo flagello sopra ogni altro è stato a quei paesi le così gravi e sì continue infestazioni che hanno avuto, già alquanti anni in qua, dei fuorusciti, dalle ingiurie de’ quali niuno è stato ben sicuro; sicché volendo questa gente scellerata e vagabonda godere ingiustamente i frutti dell’altrui fatiche, oltre tanti altri mali e scellerità commesse contra ogni sorte di persone, contra le quali hanno potuto por mano, hanno finito di spogliare quei miseri contadini, togliendo loro quelle sostanze che la mala qualità de’ tempi e la rapacità di molti cattivi ministri aveva pur loro ancora lasciate. Oltre che questi sono in grandissimo numero; ché mi è stato affirmato da chi può saperlo, ascendere a più di quindicimila quelli che si trovano descritti ne’ libri pubblici come banditi, che sono sparsi in diversi paesi; e ciò è riuscito di gran momento per finir d’impoverire quello Stato di numero d’abitanti. La severità della giustizia è anco tale, che, oltre quello si possa credere, leva di vita un gran numero d’uomini; perocché i fuoriusciti e i complici e i loro fautori sono puniti, come gli hanno nelle forze, con pena capitale: e questa sorte corrono tanti, che passano, si può dire, quasi pochi giorni, che non si vedano o teste di morti portate di fuori, o corpi d’uomini giustiziati in Ponte, a quattro, a sei, a dieci, a venti e fin a trenta per volta. Talché si fa conto che dall’ultimo anno del pontificato di Sisto V fino al presente siano morti nello Stato Ecclesiastico, di morte violenta, tra questi condannati dalla giustizia e quelli che sono stati per diverse vie manomessi da’ fuorusciti, oltre cinquemila uomini. E tuttavia questo sommo rigore si vede non avere giovato alla estirpazione di questa gente; anzi piuttosto nociuto. Perocché come uno solo di questi che sia in qualunque modo colpevole di essere stato in compagnia di fuorusciti, capita nelle forze della giustizia, dà occasione che molti eschino alla campagna e si faccino da se stessi fuorusciti; perché sapendosi che si procede con grandissima severità contra tutti, avviene che quelli ancora che dubitano, scoprendosi alcun fatto, di poter cader in qualche sospetto dell’istesso delitto, o d’aver aiutato e favorito chi l’ha commesso, da se stessi si eleggono il bando e si uniscono con gli altri fuorusciti e uomini di tale affare. E pure è sì grande il rigore col quale si procede, che tra gli altri vi è questo ordine per le città e Stato Ecclesiastico, che tutti quelli della stessa famiglia e parenti, benché trasversali fino al quarto grado, sono tenuti alla rifazione de’ danni che siano fatti nell’istesso paese dove quei tali abitano. Nondimeno le cose sono ridotte a peggior termine che mai, avendo preso questi fuorusciti maggior ardire al mal operare, per essere stato quello Stato privato della cavalleria leggiera, che soleva attendere a custodirlo da queste insolenze, che era pure di qualche frutto; e l’aversi introdotto di far prigioni i viandanti, e dare loro grosse taglie per riscatto, quando lor capita nelle mani alcuna persona di facoltà, accresce ora molto di difficoltà all’estirparli, però che con questi danari si mantengono; e pagando la roba che prendono e anco talora donando, si tengono al presente più conciliata la grazie dei popoli e gente bassa, che però pone minor cura nel cacciarli, non ne sentendo, come facevano per il passato, così grave proprio nocumento. Però ha il Papa con severissime pene proibito il far tali riscatti; ma la necessità astringe a ciò per i mali trattamenti che fanno ai prigioni, peggio che se fossero schiavi de’ Turchi. Ha il Pontefice in grande e particolare odio questa gente di fuorusciti; talché mai ne parla che non vada da se stesso in grandissima escandescenza, e che contra loro non faccia molte esclamazioni imprecandogli ogni male. Per questo rispetto così difficilmente si è lasciato cadere dalla memoria il fatto di Pietro Conte, che ancora tuttavia lo ricorda alcune volte non senza mostrarne amarezza e disgusto. Tutte queste cose dunque di sopra considerate; carestia grave e continuate gravezze tanto moltiplicate e con ogni rigore riscosse; somma severità di giustizia; infestazioni perpetue di fuorusciti; e qualche altro particolare accidente che da queste cose è nato in conseguenza; hanno partorito nell’animo de’ popoli sudditi della Chiesa una mala soddisfazione di quel governo, e un desiderio grande di novità per speranza di poter migliorare, in qualunque evento, la loro presente afflittissima fortuna. <18> Nello Stato Ecclesiastico non si trova, fuor che in alcune città principali, molta nobiltà, né ricchezza, né numero di persone che siano per alcuna eccellenza eminenti e di grande considerazione; così perché la maggior parte sono luoghi piccioli e poveri, benché tenghino nome di città, come ancora perché quelli che sono di maggior facoltà o di maggior virtù degli altri, se ne vengono ad abitar a Roma, tirati da speranza di aggrandire la loro fortuna, e stimandola, come che ella sia comune patria a tutte le nazioni, più propria loro per esser nati sotto quel dominio. Quelli poi che attendono alla milizia con qualche maggior laude, o che siano più stimati per il seguito e autorità che tengono con le fazioni, delle quali sono piene tutte quelle città, vanno fuori al servizio di altri principi ove possano avere continuato trattenimento, non essendo solita la Chiesa di aver milizia ordinaria pagata. Onde e per questo rispetto del loro proprio interesse, e anco per certa quasi naturale inclinazione s’applicano volentieri al servizio di questa Repubblica. Nella città di Roma le famiglie notabili antiche sono poche; ma tra queste tengono primo e principal luogo gli Orsini e i Colonnesi, e dopo questi i Savelli e i Conti. I più di quelli che usano il nome di gentiluomini romani traggono di non lungi il principio della loro nobiltà, essendo da altre parti, e per lo più da diversi luoghi dell’istesso Stato Ecclesiastico, venuti in minor fortuna ad abitare a Roma, e poi mediante le prelature o qualche altro esercizio fatti ricchi, e con la compra di castelli e di giurisdizioni divenuti nobili e grandi; sì che alcuni usano il titolo di duca, ancora che le giurisdizioni loro siano sopra picciole terre e di debole entrata per usar quello di principe. E questa cosa de’ titoli va passando in così grande abuso e disordine, che in quel tempo ch’io sono stato in Roma, ha di nuovo il Pontefice concessa questa dignità di duca a quattro soggetti: cioè a due di casa Conti, al fratello del marchese d’Ariano di casa Cesis, e al signor Virginio Orsino di Lamentana, che fu fratello del signor Latino. Pretendono tutti questi che con loro si tratta con titolo di Eccellenza; e per questa causa ne sono nati diversi rumori, e particolarmente tra il duca di Bracciano e il duca Gaetani, con pericolo di far nascere qualche gran tumulto e scandalo in quella città, per le molte dipendenze che si tirano dietro queste due famiglie. Sono alcuni di questi baroni molto ricchi di venti, tenta e fino ottanta e più mila scudi d’entrata; ma con tutto ciò spendono con tanta larghezza e profusione, volendo vivere appunto da principi, che non è alcuno di loro che non sia carico di molti debiti. Ed essendo anco per particolari bisogni solito d’istituirsi alcuni Monti, con certa assignazione d’entrate che passano nei pagamenti per mano di ministri posti dal pubblico per quella somma che si vuole prendere, con utile a chi fa i depositi sopra essi Monti di cinque fin sette per cento; questa tale usanza e comodità dà maggior occasione a questi più ricchi e grandi di contraggere grossi debiti, che tengono loro impegnate per l’ordinario buona parte delle loro entrate. Ma al presente hanno cominciato anco ad alienare i loro castelli e giurisdizioni, avendo, nel tempo ch’io sono stato in Roma, il contestabile Colonna venduta la terra di Nettuno alla Sede Apostolica per scudi quattrocentomila; e il signor Virginio Orsino la terra della Matrice al marchese Peretti, fratello del cardinal Montalto, per scudi centotrentamila. <19> Ora per tornare sopra le prime considerazioni fatte, dico che in quest’altra sorte di persone nobili, ma principalmente dei baroni di maggiore stima e autorità, non si trova punto migliore satisfazione del presente governo, di ciò che sia nel popolo. Chiamo governo presente non solo quello che è ora sotto questo Pontefice, ma quello che già qualche anno in qua è stato introdotto. A questa mala satisfazione danno più cose occasione, ma particolarmente il poco rispetto che loro è avuto da un tempo in qua da’ Pontefici, procedendosi nella giustizia in qualunque caso contra le loro persone, famiglie e roba, senza alcun riguardo o distinzione dalle persone inferiori. E restano ancora spogliati di certe preminenze e franchigie che solevano avere essi e le loro case; in modo che per cose anco leggerissime fatte contra sbirri o altri ministri, se ne vedono spesso severissime esecuzioni. Onde in queste persone più principali è nato un odio tanto grande contra quel dominio, che dicono con parole molto libere e molto chiare di non poter più tollerare questa signoria così insolente de’ preti. Per l’ordinario si danno questi signori ora poco al mestiero dell’armi, attendendo più tosto a cose di pompa e di lusso; e nella città non si vede porsi cura ad alcuna sorte di esercizio cavalleresco; essendo anco impedite, benché sotto altri pretesti, le giostre e cose tali, non riuscendo a’ Pontefici molto grato né molto sicuro, volendo comandare alla maniera che si fa, aprir la strada e l’occasione a molti de’ ricchi e potenti di allevarsi con pensieri generosi, e di acquistarsi maggior credito e autorità. Talché, concludendo tutto questo ragionamento, si può dire che lo Stato Ecclesiastico si conservi e mantenga non per buone istituzioni, o per alcuna di quelle cose interne che sogliono far gli altri Stati e imperii sicuri e durabili, ma perché non vi è chi contra di quello voglia né debba tentare alcuna cosa; concorrendovi prima la maestà della persona del Pontefice e il rispetto della religione (cose che hanno preservato quel dominio a tempo di diverse avversità); e dappoi, perché essendo ora in Italia diversi potentati, i quali desiderano, non potendo essi crescere, che almeno le cose stiano in questa bilancia, sicché neanco il vicino si faccia maggiore; e portando sempre seco la difesa dello Stato e delle cose ecclesiastiche certo rispetto e certa onestà, ognuno si asterrà dal prender l’armi per tentar rivoluzione contra quello Stato, sapendo che tentandola gli riuscirebbe difficile dovendo aver tutti gli altri principi d’Italia contrari. Nondimeno, con qualche grande e segnalata mutazione di cose che seguisse in Italia, si può credere che con tanti disordini lo Stato della Chiesa ancora, cioè quanto al temporale, rimanesse soggetto a grave pericolo. E mentre io sono stato in Roma ho osservato che quando veniva alcuna nuova de’ prosperi successi de’ Francesi nella Savoia e nel Piemonte, erano sparse e riferite voci molto libere che indicavano di desiderare la venuta delle armi francesi in Italia, per veder rivoluzioni di Stati e confusione di tutte le cose. Però, essendo questi rispetti come molto gravi, anco molto noti, negli uffici che tante volte m’è occorso di fare con Sua Santità per l’accomodamento delle cose di Francia con la Sede Apostolica, tra le altre ragioni le ho più volte posto innanzi, che come a tutti i principi italiani dovesse esser grave il veder conturbata la quiete d’Italia, pure alla Sede Apostolica particolarmente tornava bene che si tenessero lontani i rumori dell’armi oltramontane; poiché la condizione de’ tempi aveva portato che a lei fosse occasione di maggiore timore di potere fra moti sì grandi ben reggersi e mantenere le cose sue, e più di ciò che era stato in altri tempi addietro. Tale dunque è lo stato de’ tempi presenti, quanto a ciò che possiede la Chiesa in Italia. <20> Oltre lo Stato d’Italia, possiede la Sede Apostolica in Francia il contado d’Avignone; Stato del quale la presente condizione de’ tempi mi persuade a dirne pure alcuna cosa. È paese grande e ben abitato; e oltre numero grande di castelli, ha due città nella parte soggetta alla Chiesa, cioè Avignone e Carpentras. Con tutto ciò, da tale Stato non ne tragge la Sede Apostolica alcun utile e comodo; ma come stato nobile e di antica sua giurisdizione, lo conserva con gran cura, e lo stima di molta sua riputazione: la quale anco si è, come i preti affermano, grandemente accresciuta per averlo mantenuto in questi tanti moti delle cose di Francia. Nondimeno si può dire da altra parte, che con consiglio anzi utile che onorato, sia stato sempre permesso, fin sotto il pontificato di Sisto V, che quei popoli sudditi della Chiesa potessero componersi con Laodigera con dargli cinquecento scudi il mese, per assicurarsi di non essere dalle armi di lui molestati. Nella quale contribuzione si va tuttavia continuano; e con tanto rispetto in ciascuna cosa verso la persona del Laodigera e di tutti i suoi, che ciò dà occasione o necessità di permettersi molti disordini. Onde è stato alcuna volta posto in considerazione che non sia bene tener a questo tempo legato in Avignone, rimanendo tanto offesa la dignità pubblico in un personaggio maggiore, col convenire sopportare molte insolenze fatte in quello Stato dal Laodigera, e da chiunque, o per rispetto di religione od altro, professa di essere suo seguace e fautore. Non tragge la Sede Apostolica di questo Stato più che circa cinquemila scudi, che sono le rendite di alcuni terreni di lei propri. La quale entrata resta dispensata nella provvisione del legato e d’alcun altro ministro; non pagando quei popoli alcuna sorte di gravezza alla Chiesa, ma essendo loro proprio ogni utile di gabelle e di altro, sì che servono a beneficio di loro medesimi. Soleva la Sede Apostolica trarre alcun utile assai rilevante dalla zecca che si affittava a particolari; ma avendosi in questi frangenti delle guerre posto in uso di far battere monete in diversi altri luoghi vicini, è cessato anco questo utile. All’incontro a questi tempi è accresciuta assai la spesa che conviene farsi per conservazione di quello Stato, tenendovisi per ordinario presidio ottocento fanti e cento cavalli, con un capo di questa milizia che tiene titolo di governatore generale, il quale al presente è il signor Biagio Capizucchi; talché questa spesa ascende ogni anno a sessantamila scudi, che sono tutti di più oltra ciò che di esso si cava. La qual cosa mi è stata più d’una volta dal Pontefice ricordata per contrapponerla a ciò ch’io gli dicevo delle grosse spese, e molto maggiori delle entrate, le quali conviene a Vostra Serenità di fare per la conservazione del regno di Candia; benché la cosa non cammini con pari proporzione. <21> Ora avendo assai ragionato intorno allo Stato Ecclesiastico, che è immediatamente alla Santa Sede soggetto, resta a dire alcuna cosa di quegli Stati sopra i quali, come suoi feudi, tiene la Sede Apostolica la sua superiorità e maggioranza: considerazione fatta a questo tempo, per diversi accidenti, di molto maggior momento che non è stata per l’addietro. Il primo e nobilissimo feudo che possiede la Sede Apostolica è il regno di Napoli; per il quale, secondo le ultime convenzioni fatte nel tempo di Clemente VII, altra ricognizione maggiore non viene fatta dal re di Spagna possessore di esso regno, che di una chinea bianca e di scudi settemila; cose che ogni anno s’appresentano al Pontefice dall’ambasciatore di Spagna nel giorno di San Pietro con grande solennità. A questo Stato hanno avuto più l’occhio i Pontefici, con desiderio, mediante qualche rivoluzione, di farlo o tutto o alcuna parte di esso ricadere nella Sede Apostolica, come fu particolarmente pensiero di Paolo IV, che con questo oggetto prese l’armi contra gli Spagnuoli. E da molto è stato creduto che Sisto V avesse l’istesso pensiero, e che se fosse più lungamente sopravvissuto, averebbe tentato di metterlo in opera con alcuna opportuna occasione, come della morte che fosse successa del re Filippo, promettendosi più facile che non sia stata in altro tempo addietro la riuscita di tale impresa, per l’estrema e generale mala soddisfazione che si trova e nella nobiltà e nel popolo di quel regno, che in vero è tale che si può chiamare anzi disperazione; talché molti napolitani, che si trovano in quella Corte, pubblicamente dimostrano a scuoprono quali siano i loro animi. Ma nel presente Pontefice non si vedono tali qualità o pensieri, che si possa credere che sia per prendere per accidente alcuno tale impresa, né per fomentare altri che volessero prenderla. Tuttavia avendo già alcuni mesi il Pontefice fatto compra per nome della Sede Apostolica d’una terra che già era del marchese di Pescara, detta Monte San Giovanni, ne presero gli Spagnuoli grandissima gelosia, e ne fecero anco qualche querela, benché per la qualità del tempo non osassero di manifestamente opporvisi, per essere questa terra posta nella strada maestra, per la quale tenendosi la via dell’Abruzzo si entra nel regno, e per la quale sono altre volte passati eserciti a travagliarlo, ond’è stimato sito opportuno a chi volesse in alcun tempo dalla parte dello Stato Ecclesiastico tentare in esso regno novità. Ma la vera intenzione del Pontefice è stata in ciò di assicurarsi da quella parte dai fuorusciti, i quali avendo in quella terra ricetto, passavano facilmente ad infestare i confini dello Stato Ecclesiastico. <22> Sono altri due feudi molto nobili della Chiesa, e di confine con l’istesso Stato Ecclesiastico, cioè quello d’Urbino e quello di Ferrara, e l’uno e l’altro ridotti a termine per mancamento di fratelli dei duchi presenti, e di successori di essi Stati, di dover presto ricadere nella Sede Apostolica: cosa di grandissima considerazione ad ogni principe italiano, ma a questa Repubblica particolarmente per il confine, che per mezzo del Ferrarese, verrà ad avere con la Sede Apostolica; della quale crescendo molto, per l’unione di questi Stati, il dominio e la potenza, si può dubitar assai che insieme sia per crescere il fasto e l’alterezza dei preti che governano. Con ciò potrà anco tanto più dar contrappeso agli altri Stati dei principi italiani, e accrescer riputazione a quella parte con la quale si starà la Sede Apostolica unita; siccome d’altro canto pur darà occasione di pensare agli altri principi d’Italia di dar a lei medesima ancora contrappeso, essendo fatta, quanto allo Stato e forze temporali, molto più potente, e il suo rispetto più considerabile. E quanto allo Stato d’Urbino, non si vede quasi come possa altrimenti essere che non torni sotto alla immediata ubbidienza della Sede Apostolica con la morte del presente duca, essendo quello Stato quasi in mezzo dello stesso Stato Ecclesiastico, e non dovendo dopo il duca rimanere della sua casa discendenza che possa giustamente pretendervi e abbia forza di farvi contrasto. Ma nel ducato di Ferrara, le cose potrebbero succedere molto diversamente, rimanendovi soggetti nella casa d’Este, nei quali, già per concessioni fatte ultimamente dall’imperatore, passerà il dominio delle due città di Modena e di Reggio, e le ragioni e pretensioni del duca di una somma rilevantissima di denari per miglioramenti fatti in quello stato feudale; oltre che tiene esso duca una somma d’oro accumulata, come si crede, con questo pensiero appunto che passi nei medesimi suoi eredi per sostentare nella sua casa le ragioni della sua eredità. Alle quali cose aggiungendosi la inclinazione de’ popoli di quel dominio verso la casa d’Este, non si può far altro giudicio, salvo che sia difficilissima cosa che possa la Sede Apostolica porsi al possesso di quello Stato feudale senza grande contrasto. Onde si può per tal causa dubitare che soprastia, e non molto lontana per l’età ormai grave del duca, l’occasione di una guerra in Italia, tenendosi per fermo che i successori del duca siano per tentare ogni cosa, ricorrendo anco all’aiuto delle armi forestiere per mantenersi nel possesso di quel ducato. E il duca di Sessa, ambasciatore di Spagna a quella Corte, ragionando più volte meco sopra le cose che potessero travagliare il presente stato della quiete d’Italia, principalmente dubitava di questa che avesse a servire per occasione, trovandosi i Francesi questo ricetto e appoggio di tirarvi l’armi loro. E nelle cose che trattò meco assai lungamente il conte Ziliolo agente del duca, quando si procurava che andando il duca alla guerra d’Ungheria, ne dovesse per premio ricevere l’investitura di Ferrara, mi mostrò lettere di esso duca di ordine e di commissione di lui medesimo, nelle quali diceva: - che quando non possa ottenere questo suo giusto desiderio dell’investitura, dovrà restare sicuro presso Dio e presso il mondo se di qua avrà forse a nascere l’origine di molti travagli e disturbi d’Italia - E il duca medesimo, in un lungo ragionamento che tenne meco quando nel mio ritorno da Roma passai per Ferrara, mi raccontò e confermò tutte le medesime cose. E d’altra parte, avendo io avuto occasione di ragionar più volte sopra questo negozio con diversi cardinali e altre persone principali di Corte, si scuopre nella maggior parte grande risoluzione di volere in ogni modo sostentare queste ragioni della Chiesa sopra questo suo feudo, e, non permettendo alcuna nuova investitura, lasciar cadere il caso dell’unione, promettendosi più facile la riuscita di questa cosa di ciò che sia forse per riuscire in effetto. E nella Corte si crede che quando fu tentato il negozio dell’investitura dal duca nel pontificato di Gregorio XIV, vi accrescesse molta difficoltà l’avere voluto il duca, e chi lo consigliava, riporre ogni speranza del buon successo nel solo cardinale Sfondrato nipote del Papa, non mostrando di tenere quel conto degli altri cardinali che pareva a loro doversegli; dai quali portata la cosa al concistoro, ebbe tante contrarietà e opposizioni, che rimase imperfetta e nulla. E ora rimanendo con l’esempio di questo successo, e nell’istesso caso tanto più approvate e confermate le Bolle di Pio V e di Sisto V, di non poter alienar per alcun accidente le cose della Chiesa, resterà senza dubbio tal negozio in maggior difficoltà quando di nuovo si tenti. E fu prudentissimo il consiglio di Vostra Serenità, di commettermi che io con la sua autorità mi adoperassi per favorire la richiesta e desiderio del duca, per procurare, succedendo l’investitura di Ferrara, di tagliar tale radice di molti nascenti mali e di altri inconvenienti per i particolari rispetto della Repubblica, e perché mostrando questa sua buona volontà si ha acquistato molto merito presso il duca, il quale mi ha fatto dire più volte, e mi ha poi detto egli medesimo, che di questo favore non pur terrebbe perpetua egli la memoria, ma lascerebbe a’ suoi eredi e successori l’obbligo di conservarla e di mostrarsene grati. Ma veramente nel presente pontificato molto difficile riuscirà sempre questo e ogni altro negozio di tale natura, ove si voglia con importante risoluzione, e ove si tratti di scrupoli di coscienza e di diminuire le giurisdizioni ecclesiastiche; nel che sopra ogni altra cosa si mostra il Pontefice sollecito ed ardente. E gli accidenti maggiori che potrebbero succedere, non sono tanto né stimati, né temuti per esserne il caso ancora lontano e incerto. <23> Le città di Parma e di Piacenza sono esse ancora feudo della Chiesa, ma di queste non vi è cosa di che s’abbia al presente a farne alcuna considerazione. Teneva il duca Alessandro il carico di gonfaloniero della Chiesa, grado maggiore di onore e di nome, che di alcuno emolumento o servizio che presti. Il medesimo è stato dal presente Pontefice confermato nella persona del duca Ranuccio, verso il quale si mostra il Pontefice molto ben affetto trovandosi sommamente obbligato alla casa Farnese, dalla quale suo padre ed egli medesimo hanno ricevuto in minor fortuna notabili beneficij. <24> Ora venendo alla considerazione di quelle cose con le quali si conservano e difendono gli Stati, dirò prima quanto alle cose militari. Nello Stato Ecclesiastico vi sono, come si è detto, poche fortezze; milizia ordinaria pagata, pochissima e di niuna considerazione. Le milizie delle genti descritte nello Stato Ecclesiastico, che essi chiamano battaglie, erano per l’ultime descrizioni al numero di trentamila uomini, ma sono diminuite da questa somma senza essere state totalmente redintegrate. Ogni provincia ha sopra queste un particolare colonnello, e ogni colonnello ha diversi capi sotto di sé compartiti per tutte le terre della provincia; ma solo i colonnelli hanno certo trattenimento di paga ordinaria, mentre i capitani particolari non hanno alcun salario, e però poco è atteso al disciplinare i soldati descritti, benché a ciò siano attissimi, e farebbono gran frutto se vi posse posta maggior cura. Eranvi già seicento cinquanta cavalli leggeri, oltra i cento che stanno per l’ordinario in Roma deputati alla guardia della persona del Papa, cioè trecento Albanesi, e il resto uomini del paese che servivano, duecento d’essi con lance, e gli altri come archibugieri a cavallo. Ma era questa provvisione a tempo, non ordinaria, e fatta solo a fine di tener guardato il paese dalle infestazioni de’ fuorusciti: e però era questa milizia in parte pagata dalle terre e comuni di quello Stato; sicché di nove scudi che si dava per ciascuno il mese per loro stipendio, sette ne ricevevano dalla Camera e due dalli medesimi del paese dove stavano compartiti, da’ quali erano date loro similmente altre comodità, come si danno nello Stato di Vostra Serenità ai cavalli Albanesi, ma molto maggiori. Al presente si trova il paese di questa sfornito, avendo il Pontefice mandata tutta essa cavalleria alla guerra d’Ungheria, con animo, come ha detto, di non voler più valersene; e in luogo di questi disegna crescere il numero de’ fanti Corsi, che ora sono seicento, che si tengono pur per l’istesso effetto di custodire e purgare il paese dai fuorusciti, sicché siano in tutto fino a numero di mille. Ma neanco questa si può dir milizia ordinaria, né computarsi a quel conto che sono le milizie pagate degli altri Stati; poiché è fatta accidentalmente, e serve solo per ovviare al disordine di quei ladri e nemici interni, non come milizia ferma statuita a sicurtà dello Stato per gli esterni travagli e pericoli. Non tiene la Chiesa alcun capitano con ordinario trattenimento, ma solo quando lo richiede alcuna occasione. Sta però sempre in essere il carico di generale della Chiesa, forse avendosi riguardo non tanto al bisogno quanto all’onorare alcuna persona con questo carico principale e di molta utilità, avendo di stipendio scudi diecimila l’anno. Però è conferito ordinariamente ai più congiunti di sangue al Pontefice, e al presente tiene questa dignità il signor Giovan Francesco Aldobrandini. <25> Nella milizia marittima non hanno per l’ordinario i Pontefici posto alcuna cosa o pensiero, se non in quanto alcuna volta ne sono stati posti in necessità dall’esser convenuti con altri principi cristiani contro infedeli. Ne’ quali casi bisognando valersi di armata, per l’ordinario da questa Serenissima Repubblica sono stati accomodati dei corpi delle galee, armandoli poi a nome e con spesa della Chiesa, come più volte si è veduto. Non son mancati di quei Pontefici che hanno volto l’animo a fare in quello Stato qualche apparecchio navale, e per ciò che potesse apportare di bisogno alcuna estraordinaria occasione, e per il particolar comodo che poteva riceverne lo Stato Ecclesiastico, le cui marine nell’uno e nell’altro mare, Adriatico e Tirreno, sono spesso infestate da’ corsari. Nondimeno non ha mai tale pensiero avuto compitamente effetto, sicché sia rimasta alcuna tale provvisione ben ferma e stabilita, salvo che nel pontificato di Sisto V; il quale avendo dato principio a tener sei galere armate, con pensiero di accrescerle anco a maggior numero, provvide insieme a certo assegnamento di danaro e di ogni altra cosa necessaria. Tale ordine da lui introdotto resta tuttavia confirmato e va innanzi procedendo. Tiene dunque ora la Chiesa sei corpi di galee, le quali per l’ordinario si trattengono nel porto di Civitavecchia, massime nel tempo dell’inverno, facendo poi diverse navigazioni come l’occasione porta. Di queste però cinque sole si tengono per ordinario armate, e una serve quasi per ospitale a Civitavecchia; né in altro luogo dello Stato della Chiesa vi è arsenale di alcuna sorte per tenervi galee: si fanno solo di tempo in tempo secondo il bisogno. Costa l’anno ciascuna di queste galee, computando anco il frusto degli armeggi e d’ogni altra cosa, scudi quindicimila: hanno centosettanta uomini da remo per galea, ma la capitana ne ha trecento, essendo tutta insestata: e questi sono per lo più condannati, e una parte anco schiavi. Fra tutte queste galee, ma compartiti diversamente secondo il bisogno, non adoperandosi alcuna volta tutte insieme, si tengono cinquecento uomini da spada. Di marinari hanno la maggiore difficoltà. Nel tempo del verno restano tuttavia armate, ma però con gli uomini soli da remo e con i marinari senza i soldati. Al presente è generale di queste galee il commendator Pucci fiorentino, il quale porta nome di buon soldato e di buon marinaro. Presta in ciò ottimo servizio e ha molto la grazia di Sua Santità. Inclinava il presente Pontefice alla cassazione di questa spesa; ma gli viene posto innanzi la utilità, anzi necessità di tener queste galee armate per i molti danni che fanno in quei mari e in quelle marine le galeotte barbaresche. <26> Segue a questa la considerazione del danaro, materia sopra ogni altra importantissima, e donde in buona parte dipendono le altre forze d’ogni Stato. Questo dunque si può esaminare in quel governo ecclesiastico diversamente, cioè per le cose ordinarie e per le estraordinarie. Le entrate della Chiesa in tutto, fra obbligate e libere, ascendono a circa un milione e seicentomila scudi, computandosi in questi così le gravezze de’ dazi e ogni altra che è pagata da’ sudditi, e che sono entrate più ferme e ordinarie, come quelle che non hanno rendita certa e ordinaria, ma che però sono in quello Stato di grandissimo momento. Di questa entrata la maggior parte è impiegata ed obbligata fino alla somma d’un milione e trentamila scudi; in modo che di libero non viene a restare più che circa scudi cinquecento settantamila, poco più o meno secondo la variazione degli utili incerti. Questo debito così grande ha contratto la Sede Apostolica in diverse occasioni; ma per lo più già non lungo corso d’anni, cioè cominciando dal pontificato di Clemente VII, nel quale corsero tempi molto travagliosi per la Sede Apostolica e Stato Ecclesiastico. E questo interesse consiste parte negli assegnamenti fatti a diversi Monti, con l’applicazione delle entrate pubbliche per pagare a private persone l’utile dei danari in essi Monti depositati, e parte nella vendita che si è fatta di tanti uffici della Corte, l’utile dei quali era solito pervenire nella Camera Apostolica: ora va in quelli che hanno comprati detti uffici. Né questa entrata si procura o si pensa di render libera, ritornandola ad ordinaria rendita, poiché siccome gli uffici, per la morte di quelli che li possedono, vanno vacando, così per le occorrenze che vanno di nuovo nascendo di varie spese, si continua tuttavia nel venderli. Dell’entrata più certa e che si tragge immediatamente dallo Stato Ecclesiastico, due sono principalissimi membri: cioè, l’uno le dogane di Roma, nella quali si comprendono quasi tutti i più importanti dazi che si pagano in quella città; e queste al presente, per l’appalto nuovamente fatto con alcuni mercanti fiorentini per nove anni, rendono scudi cento ottantamila, de’ quali centomila restano liberi e il rimanente obbligato: l’altro è il sussidio triennale, che importa scudi cento cinquantamila: e questa è una gravezza che fu da Paolo III imposta a tutto lo Stato Ecclesiastico, divisa a provincia per provincia e poi terra per terra, a proporzione dei beni che i particolari abitanti in esse possedono. Ma all’incontro, insieme con questa nuova imposizione, furono alle medesime terre levate altre gravezze, e rilasciati i dazi che pagavano prima alla Camera le stesse comunità; sicché fu piuttosto mutato e facilitato l’ordine del riscuotere le prime gravezze, che quelle molto alterate o accresciute, come dappoi si è fatto, e massimamente nel pontificato di Sisto V. Onde è nato che ove prima delle entrate e beni goduti dalle medesime comunità, che sono per somma assai rilevante, si pagavano il più delle gravezze pubbliche con notabile comodo di quei sudditi; ora, per essere queste molto cresciute, e restando per la strettezza di questi ultimi anni anco l’entrate comuni, per i debiti contratti, minori dell’ordinario, si conviene con nuove tasse e contribuzioni aggravare i popoli per supplire a ciò che manca delle spese e gravezze ordinarie. E il presente Pontefice avendo ritrovati grandissimi disordini nel maneggio di queste entrate delle comunità, vi ha fatto porre gran cura per levarli e provvederle di migliore amministrazione, perché tanto più facilmente possano pagarsi le limitazioni assegnate a quella Camera e sgravarsene i particolari: cosa che potrà in qualche parte giovare, ma non già totalmente, restando viva e ferma la radice del disordine, cioè le nuove imposizioni. Ora di tali entrate ordinarie, quella del sussidio triennale è rimasta più intatta e libera delle altre. Di diverse altre gabelle nuove e vecchie di sali, censi, e d’alcune entrate di luoghi alla Chiesa ricuperati, si trae altri scudi centomila; sicché in tutto il denaro libero di cose ferme e stabili ascende alla somma di scudi trecento cinquantamila. Il resto delle entrate che al presente pervengono in essa Camera è di cose incerte: cioè della Dataria, la quale si mette che possa, un anno per l’altro, rendere circa centomila scudi, e delle collettorie di diverse provincie, delle quali si fa conto che a ragione di anno si possa trarre circa duecentomila scudi. Queste collettorie s’intendono spoglie di persone ecclesiastiche ed entrate di beneficj di Chiesa nel tempo delle vacanze. Delle quali gravezze, in Italia è libero lo Stato di questa Serenissima Repubblica, e lo Stato di Milano. Vi si aggiungono Monti vacabili quindennj, che in tutto si mettono per scudi centoventimila l’anno. Talché l’entrata che resta libera appena può supplire, poiché è rimasta così tenue, ai bisogni di quello Stato; perocché di questa si pagano tutti i ministri, che sono in gran numero nella città di Roma, nello Stato Ecclesiastico e in altre province esterne, che servono in vari carichi e uffici la Sede Apostolica. Si danno anche provvisioni a diversi cardinali poveri, i quali al presente sono in numero di ventiquattro: e importa questa sola spesa scudi trentottomila l’anno; ma cresce e diminuisce secondo il volere dei pontefici. E per l’ordinario ai nepoti e a qualche altro più dipendente del Pontefice, come prima son promossi al cardinalato, si assegna queta provvisione, ch’è dai cento fino ai dugento scudi al mese; e poi tutto che i medesimi siano fatti ricchissimi, continuano ad esigere l’istessa. La spesa della cavalleria leggera e dei dugento Svizzeri che servono per l’ordinaria guardia del Papa, è ventiseimila scudi l’anno: la cappella di Sua Santità sei in settemila; la guardia del Castello ottomila; i fanti Corsi, fatti ormai ordinari, già alquanti anni che servono in quello Stato, trentacinquemila; il presidio di Avignone sessantamila; il generale di Santa Chiesa e alcuni capitani che servono ai battaglioni scudi quindicimila; gli altri soldati delle quattro rocche delle quali di sopra si è detto, sono pagati dalle stesse comunità; e così a qualunque altra spesa, come delle galee nuovamente introdotte, è fatto un proprio e particolare assegnamento che non entra in questi conti. La spesa ordinaria di palazzo e della famiglia del Papa importa scudi novantamila, i quali si danno ciascun mese, cioè scudi settemila cinquecento il mese, al suo mastro di casa che ne rende conto. Sono anco fatte ordinarie, e di spesa rilevante, molte elemosine che si danno a diversi collegi e altri luoghi pii. Le quali tutte spese, per un conto ch’io ho veduto distintissimo d’ogni particolare, ascendono a scudi quattrocento diecimila; e oltra questo, di tutta la somma delle entrate sopraddette, così ordinarie come estraordinarie, vengono ad avanzare scudi cento cinquantamila, de’ quali si vale la Sede Apostolica per le spese straordinarie che non hanno alcuna certa regola o limitazione. Ma nelle fabbriche pubbliche già qualche anno si è speso e si spende assai, e molto più nei donativi o imprestiti, che molto all’ingrosso sono stati fatti a diversi principi per diverse occasioni; talché la spesa si va agguagliando con l’entrata. Ed è cosa certa che per mandar questi fanti in Ungheria è bisognato far intieramente la provvisione di tutto il denaro, non essendovene alcuna somma di ragion della Camera Apostolica, oltre i danari di Castello. Questo denaro tutto delle entrate dello Stato Ecclesiastico per antico instituto capita nel banco di alcuni mercanti particolari, ma però, per nominazione e deputazione fatta dal Pontefice, con nome e carico di depositario generale della Camera. E quanto al denaro che si tragge dalle città e terre dello Stato Ecclesiastico, ha ogni provincia la sua tesoreria o depositeria particolare; ché con questi nomi chiamano l’ufficio del riscuotere il denaro pubblico. Il quale viene da esse tesorerie rimesso in Roma in mano del detto depositario; né si dà fuori se non per via di mandati che passano per mano di diversi, ma sono sempre sottoscritti dal Pontefice stesso e con particolare ordine del tesoriere di Roma: ufficio molto principale della Corte, e che ha particolar cura di questa amministrazione e dispensa, come ha in questa città il cassiero di Collegio. Ma come le entrate ordinarie dello Stato Ecclesiastico sono poche, così i modi che hanno i Pontefici di tragger denari per diverse vie sono molti e di grandissimo momento. Il che si è potuto più che in altro tempo conoscere nel pontificato di Sisto V; il quale si trova che in cinque anni di tempo che ha tenuta quella Sede, viene ad avere levato dieci milioni d’oro, de’ quali un solo milione estrasse da’ sudditi con nuove imposizione di gravezze; e tutto il restante, con moltiplicazione di nuovi uffici nella Corte, vendita de’ vecchi e con altre invenzioni. Di questi ne furono riposti in Castello quattro milioni e ducentomila: un milione dispensato in imprestiti, parte all’Abbondanza di Roma e parte ai Colonnesi, col pigliarne certi assegnamenti per redintegrazione della Camera: il rimanente, cioè quattro milioni, ha speso in fabbriche. E veramente chi vede e considera le tante e così stupende opere che sono state fatte da Sisto, di acquedotti tirati per lunghissimo spazio, fontane pubbliche, strade, palazzi, chiese, ristorate molte case antiche e tutto ciò che appartiene a’ più nobili ornamenti di una città; non pur facilmente crederà che tanta sia stata la spesa in così grandi e così stupende opere, ma si maraviglierà piuttosto come in sì breve tempo si siano potute fornire tante e così gran cose. Questo tesoro già riposto in Castello si trova al presente molto diminuito, essendo stato dispensato nel breve pontificato di Gregorio XIV, nello spazio di dieci mesi, per le guerre di Francia e in diverse altre cose, spendendosi in ciascuna con immensa prodigalità, un milione e settecentomila: in modo che vi sono rimasi ancora due milioni e mezzo d’oro stampato, cioè tutto in scudi nuovi, che stanno riposti in un gran cassone con sei chiavi tenute da diverse persone. E il presente Pontefice nello stesso essere lo conserva nel quale lo ritrovò entrando al pontificato, con pensiero in tutto contrario a quello di Gregorio XIV; stando, per quanto si vede, in fermissima risoluzione di non volere, se non per qualche estremo accidente e bisogno proprio e particolare dello Stato Ecclesiastico, por mano a questi denari. Onde, tuttoché portasse l’occasione e la necessità di farlo a questo tempo per il bisogno della guerra in Ungheria, e per gli aiuti mandati all’imperatore; e che a ciò sia stato da molti esortato e consigliato, riputandosi questa propria ed opportunissima occasione di valersi di tale denaro, nondimeno mai ha voluto assentirvi: e piuttosto è venuto a risoluzione di far provvisioni con danno del pubblico e con incomodo de’ privati; avendo con l’erezione di nuovi Monti fatta applicazione di altre entrate pubbliche per pagare gl’interessi a chi vi ha depositato il denaro, e imposto decime a tutto il clero d’Italia, facendole riscuotere in ogni parte con ogni severità e non senza molte querele di tutto il clero. Questa cosa del tenersi da’ pontefici tanto danaro accumulato, non è da tutti, neanco dagli stessi cardinali, ad un istesso modo intesa né laudata; perocché quantunque commendino molto tale provvisione come cosa che a questi tempi principalmente, ne’ quali sono minacciate diverse turbolenze agli Stati d’Italia, possa essere di più sicuro e fermo presidio che l’avere da aspettare l’aiuto d’altri, oltre quella certa riputazione che ad ogni principe acquista il posseder tesoro; nondimeno altri dicono che la più vera riputazione e sicurtà dei Pontefici romani ha da dipendere dalla maestà e rispetto della Religione e delle cose sacre, che da forze temporali, e che in maggior onore e riverenza sono in altri tempi stati i Pontefici quando più mancavano di oro e meno fondavano la loro grandezza in cose temporali: e ora per la mutazione de’ pensieri e del governo in diversi Pontefici esser noto, che dove prima era solito di ricorrersi alla Santa Sede per grazia d’indulgenze e altre cose spirituali, oppure perché le cause e l’imprese loro fossero favorite con l’autorità e maestà de’ Pontefici, onde venivano anco molto a crescere per se stesse le cose temporali, come particolarmente è più volte avvenuto nelle guerre prese contra Infedeli e nelle crociate fatte per tale effetto; ora i principi ricorrere alla Sede Apostolica per aiuto di danari, né a tutti potersi soddisfare, e la cosa all’ultimo riuscir più di scandalo che di edificazione. E nel tempo ch’io sono stato a quella Corte, ho veduto per tal causa essere dispensata dal Pontefice somma molto rilevante di danari, avendosene dati al duca di Savoia, all’imperatore più volte, al re di Polonia, al Transilvano, all’arcivescovo di Colonia. E così pare già aperta questa strada, che qualunque principe cattolico si troverà in stato bisognoso di danari, tirandosi facilmente le cose a rispetto di Religione, perché abbia occasione di travagliare o contra Turchi o contra eretici, abbia da qui innanzi a ricorrere alla Sede Apostolica: talché il danaro riposto in Castello con tanto incomodo dei sudditi ecclesiastici e danno della Corte romana, e non senza qualche invidia e mormorazione (benché dal presente Pontefice finora con estraordinaria cura custodito), abbia finalmente o sotto altro pontificato o forse nel medesimo, sopravvenendo nuove occasioni e bisogni, ad esser dispensato a particolare servizio e comodo di altri Stati. Ma l’entrata della Chiesa si può stimar maggiore per non avere quello Stato spesa di milizia ordinaria pagata, come hanno per lo più gli altri Stati. <27> Ma tra queste considerazioni dello stato e forze temporali della Chiesa, non è da tralasciare ciò che appartiene alla forma di governo e al far conoscere come passi la particolare amministrazione di quello Stato: anzi è tanto questa considerazione più utile e necessaria, quanto che da questa dipende il maggiore e più sicuro fondamento di ogni Stato. Comanda il Pontefice a tutto lo Stato Ecclesiastico con suprema autorità e con mero e assoluto imperio, dipendendo il tutto dalla sua sola volontà. Sicché veramente si può dire quello essere un governo regio, e della specie più libera e sciolta d’altri obblighi e legami di leggi e ordini particolari, alla quale più stretta condizione sono pur soggetti diversi Stati regi per la grande autorità che vi tengono i consigli, o parlamenti, o i baroni, o i popoli, secondo i costumi e privilegi di diverse provincie. Ma il Pontefice con suprema e assolutissima autorità ordina e dispone tutte le cose, senza né usar altrui consiglio, se non quanto a lui medesimo piace, né ricevere d’alcuna contraria osservata costituzione alcun impedimento; come io ho veduto per prova in molti importantissimi negozi e affari passati nel mio tempo a quella Corte, così in cose appunto pertinenti a quello Stato, come in donazioni di danari fatte a diversi principi, compre di castelli, milizie mandate in Ungheria, ed altre cose tali. <28> Questa autorità de’ Pontefici già alquanti anni si è andata sempre più allargando e ritirandosi alla monarchia. Solevano nelle superiori età i cardinali esser fatti partecipi dai Pontefici dei negozi più grandi e che passavano in quel governo, dei quali si trattava in Concistoro col prendere per la risoluzione di essi i voti dei cardinali, si pubblicavano le risoluzioni come fatte, ché così si diceva, de consensu fratrum. Ma già qualche corso d’anni ormai, cioè dal pontificato di Pio II fino a questa età, si è andato sempre più ritirando ogni cosa alla suprema autorità de’ Pontefici; e in queste ultime età, s’ha progresso così innanzi in questa restrizione di cose, che nel Concistoro al presente altro non si fa che la distribuzione delle chiese che vengono di tempo in tempo a vacare, facendosi ciò anco dappoi che il Pontefice le ha già, come più gli piace, conferite, quasi solo a notificazione del Collegio; benché la proposta sia fatta da alcuno de’ cardinali, ma nei medesimi soggetti dal Pontefice prima nominati. Oltre questo, quei cardinali che per qualche lor negozio vogliono dal Papa particolar udienza, vanno nel tempo del Concistoro a ritrovarlo alla sua sede, e con voce bassa, senza essere da altri intesi, ragionano e trattano quanto loro occorre. Né di negozio alcuno pubblico si tratta con tutto il Collegio, né se gli dà parte di avvisi che giornalmente si ricevono da’ ministri della Sede Apostolica residenti presso principi; salvo che alcuna volta e di cose ovvero leggieri per se stesse, ovvero se pur sono d’alcun momento, quando già sono fatte ai più palesi. E se pur il Pontefice comunica al Collegio alcuna sua deliberazione, lo fa più per via di darne notizia che di dimandarne consiglio. Il quale quando pur anco lo ricerca, o più tosto che mostra di ricercarlo, rade volte vi è chi ardisca di profferir altra parola che in laudare quanto viene dal Papa proposto, facendosi più ufficio di adulare che di liberamente consigliare. Perché volendo ciascun d’essi cardinali conseguir ogni giorno grazie per se medesimi e per altri, e vedendo il Pontefice attendere a questo di ritenere in sé solo questa autorità suprema senza volere consiglio d’altri; niuno vuole opporsegli per non far danno a se stesso, con poco servizio del negozio pubblico di che si trattasse. Ma non restano però molti cardinali di dolersi assai ne’ privati congressi del vedersi spogliati d’ogni autorità, e si può dire in questa parte quasi d’ogni libertà. E il cardinal Paleoto, cardinal vecchio e di molta erudizione di lettere, ha ultimamente fatta e mandata in luce una sua opera, nella quale dimostra essere ufficio del Pontefice il prender consiglio dal Collegio de’ cardinali, e parimente essere loro debito di darlo sempre liberamente e sinceramente e in alcune cose anco non ricercati. Ma questa fatica è stata molto più gradita altrove, e fin presso le nazioni oltramontane, che presso la corte di Roma; ove non si è ardito da’ cardinali medesimi laudare quella benché reale dottrina, che insegna e mostra tutto il contrario di ciò che in effetto si osserva. E fra le altre cose occorse in tale proposito, cosa assai notabile è il ragionamento che fece il pontefice nel Concistoro alla venuta del duca di Nevers a quella Corte, per il quale si dolse con molto gravi e acerbe parole cha alcuni cardinali sopra il negozio di esso Nevers e l’assoluzione che si trattava allora, e massime sopra il non aver Sua Santità comunicato questo negozio al Collegio, avessero troppo liberamente, e, come disse, arditamente parlato; minacciando fin di voler contra di loro procedere, e asserendo convenirsi loro d’acquetarsi in ciò che a Sua Santità paresse determinare. Questa cosa nutrisce tanti disgusti in quel Collegio, che se non fossero temperati dalla speranza che ha ognuno di loro di poter pervenire al pontificato, e usare quella suprema autorità con gli altri che il Papa usa con loro, sarebbe da temer assai che fosse per partorir qualche notabile scandalo o disordine. Perché certo dalla maggior parte dei cardinali della Corte ho sentito parlarsi di ciò con grave risentimento, non potendo sopportare di vedersi essi poco stimati dal Papa: il che convien finalmente levar loro di riputazione anco presso gli altri. <29> Soleva l’autorità del Pontefice in altri tempi esser molto minore nelle cose temporali, non pur pel detto rispetto della parte che aveva il Collegio de’ cardinali, come suoi consultori, ma per quella che ne teneva il popolo romano. Dal quale era creato un Senatore, persona di grande stima e alcune volte principe, la cui autorità era molto grande; come era similmente, sotto questo capo e protettore, quella dell’istesso popolo romano. Il che continuò fin ne’ tempi di Bonifacio IX, che fu del 1389; nel qual tempo cominciarono i pontefici ad eleggere essi medesimi il Senatore e gli altri magistrati di Roma. Sicché a poco a poco ogni cosa si è andata tirando alla sola e suprema autorità del Pontefice, e ora dipende, come si è detto, dal suo solo arbitrio e libera volontà: non essendo al presente, di quella antica forma di governo nel quale aveva il popolo autorità, si può dir rimasto che il nome e l’apparenza, dando il Pontefice questo carico e dignità di senatore e di conservatore del popolo romano a persone di umile condizione e che ritengono poca autorità e poca dignità; restando loro solo alcuni carichi deboli, e l’amministrazione della giustizia in alcune cose, e per lo più risguardanti a certi ordini e comodi della città. Ma per provvedere agli ordinari e particolari bisogni dello Stato è però deputato un Consiglio, chiamato con questo nome comune di Consulta; presso il quale rimane la cura e il governo, quanto alle cose particolari, di ciò che appartiene all’abbondanza del vivere, alle gabelle, ai giudicj criminali, alla creazione e nominazione di alcuni magistrati. A questo Consiglio indirizzano le loro lettere i presidenti delle provincie e i governatori particolari delle città, dando conto di quanto succede degno di notizia, e ricercando da esso le risoluzioni o maggiore autorità della loro ordinaria nelle cose importanti, essendo l’autorità dei magistrati provinciali nel più delle cose assai ristretta. Questo Consiglio non è determinato né per numero né per condizione di persone, variando spesso non solo secondo i diversi pensieri e voleri di diversi Pontefici, ma anco sotto un medesimo pontificato essendo diminuito e accresciuto, e mutate le persone che v’intervengono: ma per maggiore e assoluta autorità della Consulta, suole esser posta per lo più nei nipoti de’ Pontefici, ovvero in altri più loro congiunti per sangue o per antica servitù e particolare affezione. Deputò da principio il Pontefice presente tre cardinali a questa Consulta, cioè Montalto, Salviati e Camerino: da poi insieme con questi v’introdusse i due cardinali nipoti, Aldobrandino e San Giorgio. Ma a poco a poco, conoscendosi questa essere la volontà del Pontefice, gli altri si sono da se stessi levati, e sono rimasti solo i due cardinali nipoti, insieme con i quali però intervengono diversi prelati, come si usa per l’ordinario in tal carico, persone più versate ne’ governi, ma dipendenti dal Pontefice: né però questi tali hanno altro voto che consultivo. Terminansi assolutamente dalla Consulta le più delle cose che vi son portate; ma di quelle estraordinarie o di grandissimo momento ne viene dato conto al Pontefice, e sono con sua partecipazione e particolar ordine spedite. Però trattando questa Consulta molti negozi, anco si riduce ordinariamente due giorni per ciascuna settimana. Di questo consiglio dunque della Consulta e di tali ministri si vale il Papa nelle cose proprie dello Stato Ecclesiastico, ma quanto alle altre negoziazioni di Stato fa passare ogni suo ordine e volontà col mezzo di quello che presiede come capo al governo delle cose di Stato; però che non è solito di scrivere immediatamente il Papa a suo proprio nome ad alcuno de’ suoi ministri e molte rare volte anco a’ principi, ma in tutti i negozi fa dichiarare la sua volontà col mezzo di chi tiene questo carico; e per l’ordinario di qualunque sorte di negozio, ancorché ne tratti egli stesso con gli ambasciatori o altre persone espresse, secondo che occorre, però il più particolar esame delli medesimi negozi rimette a questa istessa persona, alla quale comunica più particolarmente e più espressamente la sua volontà, perché la dinoti ad altri o la eseguisca. In mano di questo tale capitano, per ordinario, tutte le lettere de’ ministri della Sede Apostolica, e da lui ne vengono fatti fare i sommari, e date al Papa medesimo le lettere intiere alcuna volta che contengono negozi o avvisi di molta importanza. Tale carico gravissimo sopra ogni altro in quel governo, poiché tutte le trattazioni e spedizioni passano per le sue mani, viene ordinariamente dato da’ pontefici a’ loro più confidenti e congiunti, o per affinità di sangue o per antica servitù, essendo proprio di quella Corte e governo, che, per i diversi affetti e particolari rispetti, quelli che sarebbero per lunga esperienza e per autorità tenuti in altri pontificati più atti a tali maneggi, siano le più volte a’ Pontefici più sospetti. Ha il presente Pontefice dato questo carico e dignità a’ due suoi nipoti, dividendo fra loro la cura de’ negozi che si trattano con altri principi: cioè, al cardinale Aldobrandino il carico delle cose di Spagna e di Francia, e al cardinale San Giorgio di quelle di Alemagna, Polonia e Italia. Usano medesimamente i Pontefici (ma questo particolarmente lo ha fatto più degli altri, perché ne sono state per la qualità di questi tempi molte occasioni e bisogni), di fare alcuni Consigli, o, come essi chiamano, Congregazioni estraordinarie, delle quali non è terminato né il tempo della durazione, né il numero delle persone che hanno ad intervenirvi; ma il tutto si regola e si varia secondo la volontà del Pontefice, il quale in diversi particolari bisogni, chiama e deputa essi cardinali e ne aggiunge, e talora li muta come più gli piace. E nel mio tempo ne furono fatte di nuovo due deputazioni; cioè una per i negozi di Francia, e l’altra per quelli di Germania e d’Ungheria. Qualche altra appresso è chiamata, ma poche volte, per alcun particolare accidente, ma le due sopraddette si sono lungamente mantenute e tuttavia stanno così, né si reputano disciolte. Queste Congregazioni sono solite ad essere instituite nelle materie gravissime, ove sia maggior bisogno di consiglio. Però parve cosa poco conveniente, e alla quale si corresse con troppa fretta, il delegarsi una Congregazione di dieci cardinali per le cose di Cena, come se si fosse trattato di cosa gravissima e importantissima per la Sede Apostolica. Onde se ne fece nella Corte grande strepito; argomentandosi da tale prima risoluzione che non fosse il Papa per acquietarsi sì facilmente, ma per insistere nel mantener fermo quanto aveva da principio con parole così austere detto e a me e ad essa Congregazione di voler fare; benché dappoi il negozio abbia mutato natura, come per le mie lettere e per una mia particolare scrittura ne sono state le Signorie Vostre Eccellentissime a pieno informate. <30> Quanto alle cose poi che ordinariamente occorrono per il governo della città di Roma; della giustizia criminale la cura e l’autorità risiede presso il governatore di Roma; il quale per l’ordinario suole espedire queste cose da sé. Ma il presente Pontefice vuole che anco di queste, quando i casi sono gravi, gli sia dato parte, con meraviglia certo di tutti come possa anco a queste cose minime, e ove non si conviene rispetto alcuno di Stato, applicar l’animo e il pensiero. Vi è appresso il Governatore di Borgo; il quale tiene il medesimo carico di esercitare la giustizia nei casi che occorrono in Borgo (per esser certo membro separato col fiume del Tevere dal rimanente della città), come tiene in Roma la persona del governatore. Rende similmente giustizia nella materie civili e criminali il Senatore di Roma, il quale però tiene tre giudici, due per le cose civili e uno per le criminali; e le appellazioni de’ loro giudicj vanno al medesimo Senatore: e le istesse cose ponno esser portate al Senatore e all’Auditore della Camera, avendo in ciò luogo la prevenzione o di chi è prima ricorso più all’uno che all’altro, ovvero di chi di loro ha formato il processo. I Conservatori del popolo romano sono dodici; ma esercitano tre per volta e per spazio di mesi tre il magistrato; nel qual tempo stanno tutto il giorno a palazzo nel Campidoglio per maggiore comodità, e però hanno cento scudi il mese per la spesa del desinare. Rendono questi ragione particolare delle cose pertinenti alla grascia, al regolare i prezzi e terminar le differenze che nascono per tal causa, e poi in tutte le arti come giudici d’appellazione. Conciossiaché le arti di quella città hanno ciascuna un suo magistrato, creato da’ medesimi dell’arte, con autorità di giudicar le cose specialmente a dette arti pertinenti. Ma similmente conviene a giudicare in Campidoglio, insieme col Senatore, il capo de’ Capo-rioni: perocché tutta la città è divisa in quarantadue contrade, che sono dette Rioni, e ogni Rione elegge tre de’ suoi e li propone come Capo-rioni; ma di tutto questo numero poi ne cava il Papa dodici all’anno per due anni, e dappoi si torna a nuova elezione: e di questi è carico particolarmente far fare le paci delle risse che intravengono nelle contrade. Ma in tempo di Sede vacante hanno diversi altri magistrati; come maestri di strade, giudici delle vigne, e altri di poco momento e di poca stima, ma che pur tutti sono conferiti dal Papa, e si danno a cittadini di picciola condizione. Voleva il popolo romano avere proprie entrate e di qualche momento; ma per diversi accidenti e bisogni, e particolarmente per occasione delle carestie di questi anni passati, hanno contratto tanti debiti che non basta l’entrata a soddisfar l’usofrutto dei danari tolti ad interesse; talché ocorrendo al presente far qualche spesa, vanno alienando i fondi stessi dell’entrate, il che però si convien fare con licenza del Papa. <31> Questo è quanto al governo dell’istessa città di Roma. Ma per lo governo dello Stato Ecclesiastico sono mandati diversi ministri: altri più principali, con nome di Legato: e questa dignità si dà a cardinali, come della Marca, della Romagna, e delle città di Avignone e di Bologna; ed altri con titolo di Presidenti, che è dignità inferiore, benché tenga l’istesso carico e maneggio, e si dà a prelati: usandosi nei medesimi governi alcune volte mandare Legati ed alcune altre Presidenti. Altri poi, rettori di città particolari, son detti Governatori, ed esercitano in esse la giustizia civile e criminale, avendo altri loro jusdicenti, come hanno i rettori delle città sotto di Vostra Serenità. Solevano già questi carichi darsi a persone laiche, dottori di legge; ed il padre appunto del presente Pontefice era, come si dirà, al governo di Fano quando gli nacque questo figlio. Ora sono adoperate solo persone ecclesiastiche, anzi di quelle di maggior stima, per lo più vescovi; cosa che è stimata di qualche scandalo, perché avendo questi cura spirituale lor propria e particolare, la lascino per andar ad esercitare carichi e governi temporali. È anco a questo del governatore un grado inferiore, con nome di podestà, che si dà a dottori e persone laiche deputate al governo dei castelli e luoghi inferiori. Tale dunque è il governo, per dir così, pontificio, quanto alle cose temporali. E da quando intorno a diversi particolari si è narrato, si può comprendere quanti disordini e imperfezioni in quello si trovino, perocché essendo il pontificato un principato elezionario, non ereditario, ed essendo stato ordinato con governo civile politico, non tirannico e servile, nondimeno è a tal segno trapassata l’autorità dei pontefici, e con tal ragione esercitata, che manifesta contrarietà in questi modi vi si conosce, da ciò che conveniente saria a tal forma di governo. Negli Stati governati da principi che per elezione, non per successione, tengono questa dignità, sogliono esservi e consigli e magistrati, o perpetui o a tempo eletti, secondo le più ferme ed antiche costituzioni di quel regno o provincia; alle quali si dà poi quel re, o chi si sia d’altra dignità insignito, quasi per capo dell’osservanza d’esse e per custode delle leggi: anzi che l’istesso si vede osservarsi ancora in molti principati ereditari. Ma nel presente Stato del Pontefice, tutto che l’elezione si stenda così all’autorità delle cose temporali come delle spirituali, standosi queste insieme in un soggetto congiunte, niuna cosa tale però vi si vede; dipendendo, come s’è detto, non pure nell’universale ma in particolare, tutto il governo dalla libera volontà e assoluta autorità de’ Pontefici. I quali, assunti che sono al pontificato, di niuna cosa pare che abbino per l’ordinario prima e principal cura che di mutar quelle persone che nel tempo del suo precessore hanno avuto qualche principal maneggio ed autorità; talché in tutti i carichi, o almeno ne’ più importanti, si mutano spesso quelli che li amministrano; anzi alcune volte si leva o si accresce loro di ministerio e d’autorità secondo il gusto e la maggior sodisfazione del Pontefice. Talché ove il nuovo principe avrebbe tanto maggior bisogno di ministri vecchi e pratici, e d’un consiglio fermo e stabile, quanto che per lo più a tale sublime grado di dignità sono esaltati uomini, benché insigni per bontà o per dottrina, però di niuna esperienza dei maneggi di Stato; nondimeno per corrotta introduzione si corre subito a dare la maggiore autorità e i più importanti governi ai nepoti o ad altri più congiunti alla persona del Pontefice; ed alcuna volta senza considerazione della debolezza né dell’età né dell’ingegno in cui ha da riposare così grave peso: talché l’un debole s’appoggia all’altro: e ciò che potrebbe in parte provedere a questo disordine, che convien partorire l’inesperienza di chi governa, è similmente o disprezzato affatto o poco curato. Conciossiaché non si conservano con alcuna diligenza nell’archivio pubblico le scritture relative alle trattazioni dei negozi più gravi passati o a quella Corte stessa o alle Corti d’altri principi col mezzo de’ nunzi, legati, o altri ministri della Sede Apostolica; anzi morto il Pontefice, i suoi parenti, o i suoi secretari o altri, si portano via quelle scritture che pur si sono di ciò conservate, restando solo le cose passate per bolle o brevi pontificj e concernenti nuove istituzioni o contratti o cose tali. Così ancora quanto all’austerità del procedere con una severissima giustizia, è parimente assai chiaro che tale imperio riesce poco proporzionato rispetto alla qualità de’ sudditi, massime delle persone nobili e de’ signori e baroni romani, soliti a godere di molte esenzioni e d’essere rispettati e governati con più placido dominio. Dalle quali manifeste imperfezioni è forza che ne sia prodotta grande debolezza in quello Stato: ma ad ogni difetto che vi nasce per l’ordinario corso de’ consigli umani, supplisce per conservarlo il rispetto della Religione, per la riverenza che è portata al Pontefice ed a tutte le cose sue, come di sopra si è considerato. <32> Della città e della Corte di Roma, quella per esser sede antica ed ordinaria de’ sommi Pontefici, e questa per essere sopra ogni altra famosa tra le Corti de’ principi cristiani, dovrei, per trattar compitamente ciò che appartiene a questa Relazione, dire molte cose: ma poiché a ciò non serve il tempo, non dovendosi a questo Eccellentissimo Senato dare così lunga occupazione, meglio sarà il tacerne. E tra le tante cose che raccontar si potrebbero, questo solo insomma dirò, che la città e Corte di Roma si trovano al presente costituite in gran colmo di grandezza e di prosperità, come se ne veggono apparenti dimostrazioni, vivendosi in essa con molta pompa e splendore; perché siccome ad ogni altra provincia e ad ogni Corte, fin presso le più straniere e barbare nazioni, è molto in questa età penetrato il lusso e le delizie, così nella città e Corte di Roma, ove pare che abbino più luogo al presente, hanno fatto accrescimento tanto maggiore, quanto che ne’ più delle persone segnalate stanno congiunte col fasto e col desiderio di vivere con molta grandezza e con ogni comodità, l’eccessive ricchezze da poterlo fare. Onde sono andate le spese in grandissimo eccesso; e quel splendore di vita che in altro tempo soleva usarsi da pochi principalissimi cardinali, ovver baroni, ora è passato in tanti che è una meraviglia. Ma tra le altre cose si attende al presente assai alla magnificenza delle fabbriche ed agli addobbamenti ricchissimi e nobilissimi de’ palazzi con pompa veramente reale. E pur in questi ultimi anni sono stati fatti tanti edifici pubblici e privati, tempj e palazzi, strade, fontane, vigne, che questi soli basteriano ad ornare una nobile città. Ora, non volendomi stendere in altro particolare della Corte, non debbo però tralasciare di dire, che sono stati nel mio tempo in Roma molti prelati veneziani, i quali hanno per la parte loro mantenuta per ogni conto la riputazione e dignità della nazione, così col vivere con molto splendore, come porta l’uso di questo tempo nella Corte, come per la bontà, dottrina e costumi, onde si sono mantenuti in onoratissimo concetto. Si ritrovano a quella Corte ancor diversi altri prelati dello Stato della Repubblica, i quali portano ottimo nome e accrescono la dignità pubblica, frequentando particolarmente, come fanno gli stessi Veneziani, con ogni termine di onore la casa de’ suoi ambasciatori, e accompagnandoli del continuo quando vanno all’udienza del Papa: cosa che a quella Corte viene grandemente stimata come dimostrazione di avere gran seguito e riputazione. Nel che si sono dimostrati tutti questi tali così pronti e diligenti, ch’io andavo per l’ordinario all’udienza con quasi uguale numero di prelati e di cocchi come fa l’ambasciatore di Spagna, ma molto maggiore d’ogni altro ambasciatore d’altri principi che sia stato a questo tempo in Corte. Onde mi è parso di essere in obbligo di render questo testimonio, perché come ora il nominare particolarmente tutti con quelle laudi che loro si devono, saria cosa troppo lunga, essendovene a questo tempo stati molti e de’ più insigni per dignità e per meriti; così poi all’occasione ne presterò particolar testimonio, come di soggetti che sono veramente degni della grazie e della benigna protezione di Vostra Serenità. <33> E perché mi fu da Vostra Serenità più volte commesso ch’io dovessi procurare d’intravedere quali soggetti vi fossero in quella città, che potessero esser ben atti per servire alla Repubblica come capi da guerra, non ho mancato di questa diligenza per averne le debite informazioni; e fu anco principiato con alcuni la trattazione, come ne avvisai gl’illustrissimi signori Savi a ciò deputati: cioè il signor Orazio Farnese e il signor Celso Celsi, delle persone de’ quali diedi assai particolare informazione. Andarono poi ambidue in Ungheria con le genti di Sua Santità, ed avanti il loro partire mi affirmarono l’uno e l’altro di conservare l’istessa volontà di servire la Serenissima Repubblica; anzi con aggiungermi che più volentieri andavano a quella guerra per avanzarsi in alcuna esperienza e merito, per poter prestarle più onorato e utile servizio. Il signor Ridolfo Baglioni, che pur si ritrova con l’esercito ecclesiastico in Ungheria, ha mostrato di tenere il medesimo desiderio, conservando l’affezione e devozione, come dice, antica della sua casa verso questo Serenissimo Dominio. Vi sono altri soggetti della casa Orsina, Savella, Cesarina, Capizucca, e d’alcun altra, i quali volentieri si applicherebbono a questo servizio; ma la più particolare informazione di essi mi riserberò di dare a tempo più opportuno. <34> Mi resta ancora di soddisfare all’ultima ma principalissima parte di questo ragionamento; cioè di trattare sopra l’intelligenze che ora tenga il Pontefice con altri principi; cosa sopra tutte le altre difficile, essendo sopra le forze umane, e solo a Dio riservati i secreti pensieri che si accolgono per l’animo degli uomini, ma tanto più de’ principi, quanto che più degli altri cercano di tener nascosto l’intrinseco de’ loro affetti: onde è nato quel detto, che chi non sa dissimulare non sa regnare. Aggiungesi a questo un altro rispetto, che accresce molto tale difficoltà: però che non governandosi i principi con affetto di odio o di amore verso gli altri principi, sicché un tale affetto radicato nel cuore, come avvenir suole negli altri uomini comuni, si conservi lungamente in un istesso stato, ma togliendo per regola dei loro pensieri e operazioni solo ciò che torna di maggiore utile e servizio ai loro Stati; come per vari accidenti conviene variare tale rispetto, così non si può assegnare un essere o stato tale di buona o mala volontà e intelligenza tra principi, il quale si possa promettere che abbia a durare lungamente, sì che qualunque e talora anco ben picciolo accidente, ma fatto grande da maggiore rispetto, non causi alterazione o variazione di volontà e di pensieri. Nondimeno seguitando questo ordinario istituto, non tralascerò né anco questa parte, prendendone la considerazione, parte da quelle cose ch’io ho in effetto osservato, e parte da alcune altre che può dettare la ragione ed il discorso. <35> Prima dirò dell’Imperatore per esser questo di dignità il primo tra i principi cristiani. Non ha dell’Imperatore presente il Pontefice quel concetto che saria degno di tanto principe, estimando ch’egli degeneri dall’antica virtù dei principi della sua casa, e sia amatore dell’ozio e della quiete troppo più di ciò che a chi sostiene quel grado di dignità e alla qualità di questi tempi saria conveniente. Onde, non pur con gli altri, ma con il suo ambasciator medesimo riprese questa freddezza e trascuraggine dei negozi più gravi, quando, dopo la perdita di Giavarino, fece agli ambasciatori de’ principi quel ragionamento, di che ne furono allora VV. SS. Eccellentissime avvisate. Onde, come pare al Pontefice che l’imperatore manchi assai e alla causa della Cristianità e a sé medesimo, così né lo stima né lo ama molto; benché nel rispetto del servizio e ben comune, e perché così si convien al suo carico pastorale, gli desideri e procuri ogni prosperità, principalmente in questi moti dell’armi turchesche. Però favorirà sempre volentieri in questo negozio la causa sua, come ha fatto anco fin’ora; e non pur con quegli aiuti che potrà dargli da lui medesimo, ma ancora con l’interporsi in negozi di leghe, e nel procurargli aiuti da altri principi. Nel rimanente pochi negozi tiene la Sede Apostolica con l’imperatore e con quella Corte dopo l’alienazione della maggior parte della Germania dalla sua obbedienza e dalla Religione cattolica. Solo potriano dar occasione di qualche particolar disgusto le pretensioni d’alcun principe che ricorresse all’autorità dell’imperatore per accrescimento di titoli, o per confirmazione o ampliazione di giurisdizioni, o altra cosa tale, nella quale pretendesse il Pontefice dovervi concorrere il suo assenso e autorità, e che pur senza quella si volesse effettuare tali istanze. Ma per essere l’imperatore capo tra i principi temporali della Cristianità, e per esser quello costituito nel mezzo di tanti eretici, procurerà sempre il Pontefice, in quanto potrà, di sostentarlo e di tenerlo ben affetto verso la Chiesa romana. <36> Segue la considerazione di quello che per la sua potenza è principale potentato, sommamente e più d’ogni altro stimato nella Corte di Roma, cioè del re Cattolico. Di questo dunque si può dire, per quanto dalle cose esterne se ne prende argomento, che il Pontefice ha mostrato per tutto il tempo del suo pontificato di fare di esso principe e della nazione spagnuola principalissimo conto: il che in molti affari di quel re e de’ suoi regni si è potuto assai ben conoscere. Ma maggior saggio d’ogni altra cosa ne ha dato per tutto il tempo addietro il negozio di Francia; poiché da principio del suo pontificato fin si può dire a questi ultimi giorni, non pure ha mostrato di approbare le operazioni degli Spagnuoli, fatte, sotto ombra di Religione, a manifesta oppressione del regno di Francia, ma le ha anco prima con le forze e poi più largamente con la sua autorità aiutate e favorite, non sapendo ben levarsi da questo stile principiato, né anco per molto tempo dappoi aver conosciuto, e confessato egli medesimo più volte, che questi pensieri del re Cattolico erano mascherati sotto il nome della Religione. Onde ha Sua Santità tardato tanto nel dar rimedio ai mali e travagli della Francia con una molto lunga persistenza nel non voler assentire all’assoluzione di quel re, e né pur voler ammettere quelli che per ciò erano mandati con grande umiltà alla sua obbedienza, con molto manifesto pericolo della totale alienazione di quel regno dalla Sede Apostolica; essendo senza dubbio stato di ciò principalissima causa quel rispetto che ha voluto Sua Santità avere di non offendere il re Cattolico e gli Spagnuoli. Poiché assai chiaramente si lasciava intendere, avendo anco nell’istesso senso parlato con me più volte, che troppo grande appoggio alla Sede Apostolica era quello del re di Spagna; che però era necessario proceder verso di lui con grande rispetto per non arrischiare, come diceva, il certo per l’incerto, perché dagli Spagnuoli erano gran cose minacciate. Così, quantunque il Papa abbia avuto occasione di ricevere da questo re alcun non leggier disgusto, e particolarmente per diverse innovazioni fatte da lui con qualche intacco e pregiudicio della libertà e autorità ecclesiastica (sopra le quali cose fu data commissione particolare all’auditore della Camera quando andò in Spagna, benché non ne abbia avuta compita soddisfazione); tuttavia è andato sempre dissimulando, e dando segni continuati di proseguir il re con affetto e di amore e di stima: avendo in ciò, come da molti vien detto, appresso gli altri rispetti, avuto non poca considerazione al procurar di mostrarsi presso il re grato, essendo stato anco dall’autorità di lui, come soggetto o confidente o non inconfidente, favorito all’assunzione del pontificato con segnalatissimo e incomparabile beneficio per la grandezza della dignità. Queste sono le estrinseche dimostrazioni, e nate dalle cause considerate: onde per le medesime si può credere che sia il Pontefice per continuare a favorire e rispettar assai le cose di esso re, avendo già nel suo animo molto firmati tali concetti; cioè che la riputazione e sicurtà della Sede Apostolica non possa altrove più sicuramente appoggiarsi che all’autorità del re Cattolico. E in questa sentenza tanto è più verisimile che sia per andarsi sempre confermando, se alcun gravissimo accidente non ne lo leva o divertisce, quanto più si è scoperta la natura del Pontefice molto soggetta al timore, e poco atta o inclinata allo stringersi con così stretta unione con altri potentati, nell’amicizia e confidenza dei quali potesse far riposare la sua dignità e la sicurtà dello Stato della Chiesa, senza avere a temere della potenza del re Cattolico, o di chi gli succederà nella grandezza di tanti regni. Però lungamente è stata dubbiosa, anco in queste ultime trattazioni, la risoluzione che fosse per prendere Sua Santità circa la ribenedizione del re di Francia contra tanti sforzi fatti in contrario dagli Spagnuoli; adducendo ella medesima spesso i rispetti di sopra considerati, che convenivano tenerla in ciò molto irresoluta e sospesa. E per certo, benché giovassero anco ad introdur qualche buona disposizione gli uffici fatti da altri, massime quelli che nascevano da questo Eccellentissimo Senato, per le conseguenze che si tirava dietro l’autorità della Repubblica in un caso tale; quando però non fosse in ciò concorsa l’autorità del cardinal Toledo, del padre Baronio suo confessore, e di altri teologi, i quali in voce e in scrittura gli hanno dimostrato che per obbligo di coscienza e del carico che teneva, era Sua Santità tenuta di dare al re di Francia l’assoluzione dimandata, e di ordinare le cose della Religione cattolica in quel regno, non si sarebbe forse mai veduto il fine di così fatto negozio. Ma quale poi sia l’instrinseco e vero affetto del suo animo, e se corrisponda a molte estrinseche apparenze che ha dato per tutto il tempo passato; e se i rispetti usati finora verso il re nascano solo da ciò che le viene dettato dalla ragione di stato, o pur insieme anco da affetto d’amor vero e da buoni concetti, è cosa molto dubbiosa, anzi da molte cose si può argomentare il contrario. Però che prima, quanto a quella inclinazione che può aver bevuta, come si suol dire, quasi col latte e nel suo primo nascimento ed educazione, certa cosa è che Silvestro suo padre, i suoi fratelli e tutti i suoi sono stati in modo amici e fautori della parte francese, che non hanno dubitato di dimostrarsi espressi nemici degli Spagnuoli. E particolarmente Silvestro suo padre ne’ tempi del pontificato di Paolo IV, presso il quale teneva molta autorità ed erano grandemente i suoi consigli stimati, come è notissimo a tutti, porgeva perpetuo stimolo al Papa perché avesse a dichiarare il re di Spagna caduto nelle censure ecclesiastiche per aver portate l’armi contro la Chiesa, e particolarmente decaduto dalle ragioni del regno di Napoli, feudo di essa; il quale però esortava che si dovesse assalire con l’armi, con gli aiuti de’ Francesi che a ciò si offerivano, per spogliarne il re Cattolico. Oltra ciò hanno gli Spagnuoli proceduto in diversi negozi molto alteramente con Sua Santità, e principalmente negli affari di Francia e nell’assoluzione del re, sopra la quale si hanno assunto di voler non pur consigliar Sua Santità, ma quasi che con vari pretesi e minaccie violentarla a fare le loro voglie. E accresceva assai l’acerbità dell’animo non pur del Papa ma negli altri della Corte ancora, che ciò fosse fatto in cosa più d’ogni altra propria al Pontefice, trattandosi questo punto dell’assoluzione d’un penitente, nel che non aveva alcun principe laico da por mano. Onde quanto nel Pontefice è maggiore il desiderio di essere stimato e riverito, tanto è più verisimile che nel suo intrinseco senta dispiacer maggiore quando vede non conseguirne l’intento, e che l’ingiuria e il disprezzo gli venga da persona a chi ha egli portato sempre gran rispetto e contra chi non possa farne vendetta. Sente anco il Pontefice con molto dolore, essersi presso molti generato questo concetto ch’egli sia troppo spagnuolo. Della qual cosa ragionando anco meco, ha molte volte procurato di giustificarsi facendone grandi attestazioni, e dolendosi particolarmente che in questa città fosse stimato e reputato per tale. Onde, siccome chiarissimo si vede che si reca questa cosa a grande ingiuria, forse non solo perché gli levi la laude di quella neutralità ch’egli professa, ma anco perché sia contro il suo più vero intento ed affetto, così è assai verisimile che per levarsi questa, ch’egli medesimo reputa grave nota, volesse farne palesi dimostrazioni, quando non fosse ritenuto dal rispetto del timore, come tutti tengono che veramente sia; per il quale, più che per altra cosa, si tiene che abbia fatto molte cose onde si è concetta nel mondo quella prima opinione. Ma questa ribenedizione del re verrà a metterlo in necessità di aggrandire e sostentare la parte francese, che era sommamente nella Corte di Roma abbassata e declinata, per poter con questo appoggio procurarsi maggior sicurtà, stimando non poter tanto ora confidare negli Spagnuoli quanto già faceva; benché molti stimano, che usando gli Spagnuoli del loro solito artificio per non alienarsi maggiormente in questa congiuntura di tempo, con loro danno, l’animo del Pontefice, siano per andar dissimulando questa ingiuria, e che vorranno che i primi disgusti di ciò mostrati abbino a servire per eccitare Sua Santità a procurare di raddolcirli con altre grazie e favori. E se le cose di Francia procedessero poco felicemente, come hanno fatto in questi ultimi mesi, tanto più facilmente, concorrendovi gli altri rispetti di sopra considerati, si potrebbe indurre il Pontefice a voler starsi congiunto con unione e buona intelligenza con gli Spagnuoli come è stato per il passato, fino a quei segni però che non sia tentata alcuna novità; dalle quali si è mostrato il Pontefice finora molto alieno, professando particolarmente una somma integrità e una grande neutralità tra i Cristiani. <37> Del re Enrico IV di Francia male si può al presente alcuna cosa accertare con molto fondamento, finché almeno non passi il legato di Francia, e che restino del tutto accomodate e terminate diverse cose pertinenti alla riforma dalla Religione, e diverse altre eseguite, che già sono state accordate e stabilite. Certa cosa è che, si può dir fino a questi ultimi giorni della ribenedizione, ha il Pontefice parlato in maniera di questo principe, che certo dava segno di odiare sommamente non solo i suoi errori, ma anco alcuna volta la sua persona, detestando oltremodo tutte le sue operazioni, e mostrando una somma diffidenza che in alcun tempo potesse riuscire né buon principe, né buon cattolico. Talché quel consiglio che ora ha preso, trattando con animo più sedato e più dolcemente le cose di esso re, e finalmente avendolo ricevuto in grazia, par che nasca dalla sola necessità, e dalle tante esortazioni e consigli d’altri, non che sia interamente il suo animo mutato; sicché il dubbio di non perdere affatto l’ubbidienza di quel regno, e il timore dell’armi francesi, vedendole molto potenti unite sotto l’ubbidienza di esso re, e avvicinate all’Italia, l’abbia tirato, dopo sì lunghi dubbi, nella risoluzione che ha presa. Potrebbe però il tempo apportare vari accidenti, secondo si governeranno gli Spagnuoli in questa occasione, per i quali più o meno avesse il Pontefice a procurar l’amicizia col re di Francia, e l’accrescimento di potenza e d’autorità di quella corona, per tenere il re Cattolico tanto più in ufficio verso di sé, avendo questo freno e contrappeso maggiore. A me ha il Pontefice più volte detto ch’egli teneva tanto i consigli spagnuoli come i francesi nell’istesso luogo, cioè di nemici della libertà d’Italia: che però bisognava temerli tutti e avergli l’occhio addosso; né potendosi far meglio, si conveniva andar temporeggiando, come portava la condizione de’ tempi. Questa ragione, oltra altri rispetti, e questo desiderio di tenersi in buona intelligenza con questi principi, persuaderà sempre facilmente il Pontefice a dover procurare che tra loro segua alcun accomodamento, conoscendo, fin che tra essi continueranno le discordie e le guerre, dovergli riuscir molto difficile il poter mantenersi in buona e sinciera amicizia con l’uno e con l’altro, sicché sempre da qualunque sua operazione non se ne generi qualche gelosia e sospetto, con diminuzione di quella laude di neutralità alla quale sommamente il Pontefice attende, e con minor sicurtà ancora delle cose della Chiesa, di quella che possa appagare l’animo di Sua Santità e tenerlo in quiete, per la facilità con la quale dà luogo ai dubbi ed ai timori. Ma come nel Pontefice si può con ragione supporre questa volontà e desiderio, così per dover mandarla ad effetto con adoperare la sua autorità, e intraprendere questa negoziazione d’accordo, riuscirà men atta e men opportuna la natura sua così facile a cedere alle difficoltà. Onde più volte, tenendosi questi propositi, mi ha detto che vedeva questa impresa così difficile, che non sapeva con quale speranza si potesse intraprendere; che conveniva esser cosa lunga, e per conseguenza tanto manco fruttuosa a quel fine per il quale principalmente era ora desiderata la pace tra’ principi cristiani; cioè per i rispetti turcheschi e della guerra d’Ungheria. Tuttavia scoprendosi al presente, dappoi la ribenedizione del re di Francia e altri accidenti, maggior inclinazione che prima all’accordo così nei Francesi come negli Spagnuoli (il che so con più mano di mie lettere aver lungamente rappresentato), si può credere che il Papa, già da sé non alieno, sia più facilmente, come se gli apra qualche via, o come egli medesimo suol dire, qualche spiraglio, per intromettersi in questa negoziazione; ma tanto più quando dai consigli d’altri d’autorità ne fosse esortato e consigliato. <38> Verso il re di Polonia si mostra il Pontefice tanto ben affetto quanto dir si possa, avendolo in grandissimo e onorato concetto di principe di segnalate virtù, ma particolarmente di grandissimo zelo e di ottima mente nelle cose della religione cattolica. Onde ne parla spesso con grandissima laude, e se ne promette gran cose contra i Turchi: e quello ch’egli non fa o che non tarda a fare, attribuisce parte ai dispareri dei baroni del regno, parte alla sua debolezza e mancamento di danari; mostrando però di restar con grandissima satisfazione della prontezza che ha in ciò quel re dimostrata. Onde per coadiuvarla e maggiormente accenderla ha tante volte fatto fare con questo eccellentissimo Senato diversi offici, col mezzo del suo nunzio e col mio, per disponerlo a prestare, unitamente con la Sede Apostolica, aiuto al regno di Polonia, con quella particolar contribuzione dei quattrocentomila scudi l’anno, con la quale aveva il re promesso di prendere con potenti forze l’armi contra i Turchi. Il quale pensiero è ora rallentato, ma non caduto affatto dall’animo del Pontefice; anzi che, come s’avesse più il modo di poterlo fare, terrebbe da sé somministrati a’ Polacchi i danari che per ciò ricevono. Così, seguitando la guerra d’Ungheria non cesserà da nuove istanze; anzi pare che nella Dieta ultimamente fatta in quel regno, ne fece il Pontefice di ciò dare buona intenzione o più tosto promessa: e tuttavia da sé sola non è la Sede Apostolica bastante di mantenerla. <39> Col granduca di Toscana tiene il Pontefice amicizia; ma, per quello che è comunemente stimato, maggiore nell’apparenza che nell’esistenza. Conciossiaché, se si ha a riguardare alle cose più antiche della sua casa, dalle quali pur ne nascono negli uomini certe quasi che naturali inclinazioni, la famiglia Aldobrandina, anzi pur suo padre istesso, fu della patria cacciato dalla casa de’ Medici. E quanto poi alle cose presenti, stima il Pontefice non essergli dal granduca prestato tutto quell’ossequio e quel rispetto che se gli dovrebbe; il che s’è conosciuto in molte occasioni, che lungo sarebbe il raccontarle. Oltre ciò ha il Pontefice il duca in concetto d’ingegno troppo sottile e d’alti spiriti, che troppo s’assuma e che non sappia ben star quieto; e in questi negozi di Francia particolarmente, ha dimostrato di restarne alcuna volta poco satisfatto: sopra che mi ha motteggiato più volte. Tuttavia si va il granduca assai artificiosamente col Papa trattenendo, in modo che come vede d’avere alla Santità Sua dato alcun disgusto, lo tempera poi col darle in alcun altra cosa satisfazione, e col farle fare uffici pieni d’umiltà e di riverenza. E d’altro canto, come conosce ottimamente il Pontefice importare assai per la conservazione della quiete e libertà d’Italia l’unione e la buona intelligenza tra i principi italiani, così si vede ch’egli ancora va temporeggiando col granduca, simulando e dissimulando molte cose; onde si può credere che abbia a continuare questa, o vera o finta che sia, amicizia con apparenti segni di buona volontà. <40> Al duca di Savoia ha mostrato un tempo il Pontefice una buona e grande inclinazione, confirmandola anco con gli effetti, avendolo più volte sovvenuto e sostentato con i denari della Sede Apostolica, e ha mostrato di stimare che l’avere esso duca tenuto questo tempo l’armi in mano abbia giovato assai ad impedire che non crescessero le forze degli eretici e fautori del re di Navarra, e per conseguenza a lui medesimo il modo di stabilirsi nella corona del regno di Francia: pensiero che è stato lungamente sopra ogni altri di grandissima cura a Sua Santità. Ma come è mutato assai lo stato delle cose, e però ne ha presi pensieri diversi, così ha Sua Santità dannato dappoi più volte questi consigli del duca di Savoia, tassandolo d’immoderato ardire e di giovanile leggerezza. Sono ancor in questo tempo occorse diverse occasioni di particolari disgusti, come dell’aver fatto il duca porre prigione il vescovo di Vercelli; di aver trattato aspramente le difficoltà nate sopra giurisdizioni laiche esercitate da alcuni vescovi di quello Stato, e altre così fatte cose, per le quali Sua Santità è rimasta tanto più mal sodisfatta del duca, quanto che le pareva che più le fosse obbligato. Tuttavia, perché stima il Pontefice che la ruina del duca potesse aprir la strada ai travagli d’Italia col rimanere troppo libero e aperto il passo alle armi francesi (onde più volte mi ha detto che bisognava difendere quella porta e non lasciarle avvicinar troppo), si può tener quasi per fermo che se non vorrò aiutarlo non gli farà contro, e non vorrà disperarlo; anzi lo trattiene con diversi uffici, benché non vi concorra l’istesso primo affetto di benevolenza e di stima. <41> Degli altri duchi e principi italiani si può dir questo in generale: che per quel desiderio che mostra il Pontefice della quiete d’Italia, conoscendo benissimo quei tanti rispetti che a ciò ne lo persuadono, e che sono stati considerati, cercherà di tenerli congiunti con la Sede Apostolica, o almanco non alienarli sicché abbino cagione di pensare a novità. E quantunque non si risolva di dare al duca di Ferrara la satisfazione dell’investitura che desidera, e che verrebbe a levare grandi occasioni di rumori, nondimeno tratta con lui per l’ordinario dolcemente, mostra di stimarlo, e cerca di tenerlo quieto per portare il tempo innanzi, non estimando tanto il pericolo di quelli ancora che molto gravi accidenti, che potrebbono occorrere dappoi la morte del duca, per esser cose ancora lontane ed incerte. <42> Esalta il Pontefice assai la virtù del principe di Transilvania; lo lauda di bontà, di religione, di prudenza civile e di valor militare; e però se gli mostra grandemente inclinato, e si è adoperato assai con la sua autorità per l’adempimento del matrimonio, che è anco seguito colla figliuola del già arciduca Carlo. Diede già ordine al sig. Gio. Francesco che, quando l’imperatore vi avesse assentito, dovesse passare innanzi per congiunger il campo ecclesiastico con quello di esso Transilvano, come da molti e più periti capitani era consigliato; e dopo la presa di Strigonia mostrò il Pontefice continuare nell’istessa intenzione, e l’avrebbe fatta eseguire se le gravi infermità che entrarono in quelle genti, e i tanti altri disordini non vi avessero posto dilazione e impedimento. <43> Resta ora solo di parlare sopra le cose di Vostra Serenità e di questa Serenissima Repubblica: nel che però non avrò quasi a dir cosa, che la medesima non sia conosciuta da VV. SS. Eccellentissime, e non ne possano far col loro prudentissimo giudicio l’istesse congetture che ne posso far io; avendo di tempo in tempo molto diligente e particolarmente dato conto, non solo di tutto ciò che sono andato con Sua Santità operando, ma anco dei ragionamenti ch’ella tenuto meco: cose d’onde si traggono gl’indizi per conoscere l’instrinseco del pensiero degli uomini. Ma per certo, come il negoziare e il parlare è stato molto vario, e l’una volta molto diverso dall’altra, così si fa tanto più difficile il penetrare all’interno del cuore, e al più vero e fermo affetto che tenga Sua Santità verso questo Serenissimo Dominio. Molte volte mi sono state usate parole così onorate ed affettuose, parlandomi Sua Santità di questa Serenissima Repubblica, che pare che non si potrebbe alcuna cosa di più aggiungere né di stima né di affezione. Tuttavia bene spesso, e per leggerissime cose fatte o da Vostra Serenità o da’ suoi ministri, ha mostrato di ricever sì gran disgusto e di farne così mali concetti, usando ancor parole minatorie, che danno giusta causa di meraviglia e di dubbio del più interno affetto del suo animo. Volendosi pur dunque ridurre queste cose contrarie a qualche regola e trovarne alcun temperamento; per quello che da molte osservazioni fatte si può andar comprendendo, pare che si possa dir così: che il Pontefice, della Repubblica, circa alcune cose particolari, abbia concetti non molto buoni, non potendo levarseli di capo certe sue impressioni, e particolarmente che in questo Stato s’intacchino volentieri le giurisdizioni ecclesiastiche così nel pubblico come nel privato; che verso la Sede Apostolica non si proceda con quel rispetto e riverenza che ella stima convenirsi, né verso la particolare persona di Sua Santità con quell’ossequio che sia stato usato con altri de’ suoi predecessori e che a lei pare di meritarsi. Dalle quali cose nasce che i piccioli accidenti, misurati con questi pensieri e sospetti, gli diano gran noia, e siano con strani sensi, e bene spesso diversi dall’intenzione, interpretati; onde precipita in gran collere e manda fuori parole delle quali ella medesima ne ha mostrato meco alcuna volta pentimento. D’altra parte ha Sua Santità concetto grande della Repubblica quanto alle forze, e le stima più tosto qualche cosa di sopra che niente di sotto di quello che sono. Sta in speranza che Vostra Serenità possa prendere un giorno risoluzione, massime passando le cose degl’imperiali prospere, di unirsi in lega con loro e con altri principi cristiani contra Turchi; e in ciò attribuisce tanto alla Repubblica, che il concorso a tale impresa di ogni altro potentato stima meno e di minor frutto per i suoi disegni. Mostra anco di conoscere il Pontefice che per la conservazione della libertà d’Italia sia necessaria la conservazione di questa Repubblica, nel suo stato e presente grandezza, cosa che mi ha molte e molte volte affirmato. E oltre ciò questo governo e questo nome di Repubblica le acquista presso Sua Santità certa particolar grazia per quella inclinazione d’animo quasi naturale. che ritiene ancora a questo nome di libertà goduta dai suoi maggiori nella sua patria, e della quale suo padre stesso fu acerrimo difensore. Onde, per questo rispetto ancora, suole laudare ed esaltare assai questa Serenissima Repubblica. Talché riducendosi queste cose ad uno, si può credere che il presente Pontefice , quantunque non si possano sfuggire molti disgusti, che quasi ordinariamente, per queste contese di giurisdizione e d’immunità delle chiese e persone ecclesiastiche, sogliono passare a quella Corte, non sia però per lasciar ridurre le cose a termini, che possa generarsi e formarsi concetto che tra la Sede Apostolica e la Repubblica non vi sia quella buona intelligenza, dalla quale molte volte m’ha detto di conoscere che potevano all’uno e all’altro Stato nascere grandissimi beneficj; e che pur che ne ricevesse la corrispondenza, e che non fosse violentato a fare il contrario, avrebbe procurato sempre di dar nuovi testimoni di questa sua volontà. Ma che veramente una tale buona intelligenza sia per confermarsi più o meno con evidenti dimostrazioni di grazie e di beneficj, dipenderà poi dagli accidenti che possa apportare il tempo, e dalla maniera del negoziare che si terrà con Sua Santità; sicché si vengano, se non a levare del tutto dal suo animo, almeno ad indebolire quei concetti che la rendono manco ben affetta verso le cose di Vostra Serenità. Nel che si vede pure che si è andato avanzando assai mercè della molta prudenza di questo Eccellentissimo Senato, che ha saputo accomodarsi a questi accidenti, onde molti negozi assai difficili, e ne’ quali si aveva, si può dire con verità, quasi tutta la Corte contraria, sono però stati condotti a buon fine e con accrescimento di reputazione alla Repubblica. <44> Ma prima ch’io finisca questa parte dell’intelligenze; ancorché parlandosi di un Pontefice e d’un principe d’Infedeli non si possa propriamente parlare con quei nomi di buona e di cattiva intelligenza; pur stimo bene, massimo nella presente congiuntura de’ tempi, di far alcuna menzione delle cose de’ Turchi e dei pensieri che intorno ad esse tenga la Santità Sua. Dico dunque che il presente Pontefice, non solo per quello che appartiene all’ufficio suo di capo della Cristianità, e per seguir (come si suol dire) certa creanza pontificia, ma anco per sua particolare inclinazione e per suoi più antichi concetti, si mostra grandemente desideroso di leghe e d’ogni altro sforzo col quale potessero i principi cristiani farsi incontra alla potenza ottomana. Sopra che ne ha tenuto meco più volte lunghi ragionamenti, parlandone con grandissimo ardore, ed affermando e attestando che dal suo canto non sia mai per mancare al beneficio della Cristianità, e con quello che potrà fare da sé stesso e col tenere esortati e sollecitati gli altri principi, non volendo avere, come dice, da render conto né a Dio né alla sua coscienza d’aver mancato a così gran debito e a causa tanto importante per la Cristianità. In questi pensieri tanto più si conferma e s’accende, quanto che delle forze de’ Turchi ha minor concetto di ciò che si conviene a chi più dritto conosca e stimi, senza lasciarsi ingannare dal desiderio e dall’affetto. Spessissime volte mi andava raccontando i disordini che erano introdotti in quel governo e in quella milizia; la debolezza che apportava a quell’impero la natura effeminata di questi due ultimi Signori dati in preda all’ozio e alla delizie, con costumi molto diversi da’ loro predecessori: ampliava le rotte date a’ Turchi dagli imperiali e dal Transilvano; e insomma da molte cose concludeva, secondo il suo senso, già molte età non essersi a’ principi cristiani appresentata maggior comodità d’abbassare ed opprimere l’impero ottomano, di ciò che si sia al presente. In questi ragionamenti ho avuto la mira, come più volte da me è stato significato a questo Eccellentissimo Senato, di tenere da una parte confirmati nell’animo di Sua Santità questi spiriti ferventi di buon zelo e questa inclinazione di por freno all’insolenza de’ Turchi, ma dall’altra di non lasciare in tutto Sua Santità persuasa della debolezza delle forze de’ Turchi. Però che, come dal primo concetto, nella presente congiuntura di tempi per sostentare la guerra in Germania, e per quelle occasioni che potessero nascer di travaglio alla Repubblica, ne viene Vostra Serenità a conseguire notabile beneficio; così dal secondo, quando non restasse temperato, si potrebbe diminuire la riputazione delle forze e del buon consiglio di questa Repubblica, non abbracciando questa che è da Sua Santità stimata così grande opportunità di muovere l’armi sue contra Turchi. Col quale temperamento governandosi nei ragionamenti di questa natura, ne’ quali si vede che va tuttavia il Pontefice continuando, può essere facilmente dalla molta prudenza di VV. SS. EE. conosciuto che sia per nascerne loro in ogni evento molto servizio, così per poter conservarsi, con il travaglio d’altri, lungamente in questa quiete, come per provvedere alla propria sicurtà quando ella convenisse di travagliare. <45> Avendo già alle altre parti soddisfatto assai per quel più che per me s’è potuto, mi resta ora a dire alcuna cosa in particolare della persona del presente Pontefice. Fu Clemente VIII, moderno Pontefice, assunto al pontificato l’anno 1592 a’ 12 di febbraio; e fu la sua elezione assai improvvisa e inaspettata, non essendo la persona di lui stata avanti quasi in alcuna considerazione. E fu veramente portato dal particolar favore del cardinal Montalto; il quale vedute le tante difficoltà che erano corse nello spazio di molti giorni che era stato serrato il conclave, e dubitando che potesse riuscire in papa qualche soggetto a lui poco grato, e particolarmente il cardinal Paleotto, all’esclusione del quale aveva sempre con molta cura atteso; risolse, col consiglio d’alcuni de’ suoi, di nominare il cardinale Aldobrandini, come persone che avesse ad essere a lui medesimo di comodo e opportunità, come creatura che era di papa Sisto, e di più facile riuscita per terminare quel conclave, come quello era non abborrito dai Francesi e in qualche confidenza con gli Spagnuoli, e che era stimato uomo di molta bontà di animo e pensieri moderati, e nel resto di qualità mediocri; sicché, non avendo contra di sé molto l’invidia, potesse, come avvenir suole nelle gran concorrenze, esser più facilmente dai voti de’ cardinali abbracciato: come avvenne con i primi scrutinj, aiutando assai questa presta risoluzione nella sua persona, il dubbio ch’era nato nel Collegio che ne nascesse nella Chiesa di Dio alcun travaglio e scandaloso scisma. Al quale la notte precedente erano stati molto vicini, essendo concorsi nell’adorazione del cardinale Santa Severina tanti cardinali quanti bastavano a dichiararlo pontefice; ma non era ciò riuscito per essersi preso più volte errore nel contare i voti perché era di notte, e i cardinali si stavano con pochi lumi e senza sedere, ridotti nella cappella Paolina; onde ne nacquero grandi e spaventosi rumori per i protesti che erano fatti d’altra elezione dagli altri cardinali che si erano ridotti in altra parte. Onde finalmente ritirandosi apertamente e uscendo dalla cappella Paolina alcuni dei cardinali che prima erano concorsi per l’adorazione di Santa Severina, questi, che per alquante ore era stato tenuto in Papa, ne restò escluso ed abbandonato. Il che prestò esempio, come bene spesso se ne vedono, della vanità dei tanti pensieri e discorsi che si fanno sopra il pontificato, bastando ogni accidente in brevissimo tempo a rompere qualunque disegno, anco dappoi quasi già condotto all’ultimo porto. Ora dunque in tal maniera, il giorno a questo fatto susseguente, fu il cardinal Aldobrandini con gran numero di voti dichiarato Pontefice, e a’ 22 del mese fu incoronato, avendo preso il nome di Clemente VIII. <46> È il presente Pontefice di anni 60 forniti, nato di Silvestro Aldobrandini e di Lisa Dati, l’una e l’altra famiglie nobili di Firenze. Dopo la mutazione di quel governo erasi ridotto Silvestro a viver a Roma, e nel pontificato di Paolo IV vi tenne anco molta autorità. In questo tempo del suo esilio si trattenne anco per qualche anno in questa città [di Venezia], riputandosi, quando era perseguitato dalla casa de’ Medici, più in questo luogo che altrove sicuro; il che Sua Santità medesima mi ha più d’una volta raccontato. È papa Clemente di complessione assai forte e robusta, e per natura e per lunga consuetudine, essendo stato lungamente auditore di Rota, onde riesce molto atto a tollerare le fatiche. Non patisce d’altro male per l’ordinario che della gotta, la quale dopo che è Pontefice lo travaglia più spesso che non soleva per l’addietro, ma però ne resta in pochi giorni liberato; credendo tuttavia i più che la sua non sia complessione molto vitale, così per credere che quelli della sua casa siano per l’ordinario vissuti poco, come ancora perché è molto pieno di carne, e pare piuttosto gonfio che grasso, e non ha molto buon colore. E io ho particolarmente osservato dall’una settimana all’altra la sua ciera fare grandissima mutazione, e dare indizio di stato diverso di salute; e quando è ogni poco travagliato dalla gotta resta qualche giorno dappoi assai abbattuto ed afflitto. È il Pontefice di natura assai umana e benigna: però in questa parte dà grandissima satisfazione a quelli che con lui trattano di qualunque cosa; ascoltando per l’ordinario con molta pazienza, mostrando di deferire alcuna cosa a ciascuno, e di avergli quel rispetto che porta la qualità della persona. Ma come è molto soggetto alla collera, così alcuna volta, non potendo frenarla, precipita in atti e in parole poco convenienti alla maestà di tanto principe, e riesce diverso da ciò ch’egli è per l’ordinario e che cerca di farsi stimare. Però, passato quel primo moto, talora se n’avvede egli medesimo e se ne iscusa; e di tali uffici ne ha fatto anco meco alcuna volta, dicendomi ch’io dovessi misurare il suo animo più col suo buon zelo che con le sue parole. Onde nel negoziare con la Santità Sua, giova assai la destrezza per levare l’occasione di dare in questi precipizi di collera, e di fare o dir cose, le quali poi, per essersene messo in obbligo, convenga, benché talora con poco gusto anco di lui medesimo, proseguire. È il Pontefice d’ingegno piuttosto tardo che altrimenti; non ha prontezza alcuna nel trovar partiti, né molta attitudine al trattar negozi grandi, e massime di cose di stato, essendo avvezzo agli studi delle leggi e alle cause della Rota; onde sta volentieri sopra certi rigori e termini legali senza saper bene distinguere da tempo a tempo e da cosa a cosa, e misurare i negozi con più alti e maggiori rispetti, come si conviene a principe: al che pur pare che cominci ad andarsi meglio che non soleva accomodando. È di natura assai timida, perché vuol veder troppo e salvare tutti i rispetti, onde poca cosa è bastante a disconciare e disturbare tutti i suoi pensieri. E quindi ne nasce che per la tardità dell’ingegno, e per la troppa circospezione che vuole usare in ciascuna cosa, le sue operazioni procedano per l’ordinario in lunghezza di tempo e con grandissime irresoluzioni: cosa tanto nota a tutta la Corte, che non è alcuno, neanco de’ suoi medesimi, che non lo dica e confessi assai liberamente. Da che si può conoscere che per trattare maneggi gravi di leghe o d’altri tali negozi, non sia per riuscire, in rispetto alle doti sue naturali, così buon istrumento come sarebbe per altro per l’autorità e grado che tiene, e anco per la sua stessa inclinazione, volta al bene. Quindi anco nasce che non confidi molto di sé medesimo, ma però non attribuisce neanco molto al consiglio degli altri; non si soddisfa mai nelle cose che egli tratta, né gli pare mai di vedere e di fare tutto quello che si conviene alla natura della cosa e al suo debito: onde sta involto in perpetui dubbi, perché teme di non errare. Tuttavia, come facilmente per suo naturale affetto dà luogo a tutti i sospetti, così non si fida dei consigli d’altri, avendo tutti i cardinali per sospetti e interessati; il che è solito dire spesso e assai liberamente. Però nei negozi gravi che in questo mio tempo è occorso di trattare, e massimamente nelle cose di Francia e di Germania, né ha voluto e trattarle e risolverle assolutamente da sé solo, né bene s’è valso del consiglio d’altri, nascondendo molte cose a quelli medesimi da’ quali faceva consigliare queste importantissime materie: onde in tali negozi avveniva che né dava né riceveva sodisfazione. Nel Pontefice si scuopre, per quanto mostrano le sue parole e le esterne operazioni, gran zelo di religione e ottima volontà verso il servizio comune della Cristianità. E questa opinione concetta della sua bontà s’accresce e si conferma assai per la sua vita molto esemplare; essendo fervente e frequente nell’orazioni, celebrando quasi ogni giorno la messa con gran devozione e con spargimento spesse volte di molte lacrime, e osservando i digiuni sì che, non ostante qualche indisposizione che ha avuto di gotta nei tempi quadragesimali, ha voluto sempre osservarli, passando così per l’ordinario tutto l’Avvento. Non mancano però di quelli (come le azioni de’ principi sono soggette a vari giudicj) che attribuiscono queste cose a rispetti umani, e ad un sommo desiderio che abbia il Pontefice di mettersi col mondo in concetto grande di bontà e di esemplarissima vita; scuoprendosi chiaro che sente dispiacere quanto intende che della sua persona siano riferite cose che mostrino concetto diverso da quello nel quale vorrebbe esser tenuto. E alcuna volta si è doluto meco che in questa città fosse sparlato di lui, e tenuto in concetto diverso da ciò che gli pareva di meritare. A questo fine tendono anco i ragionamenti che spesso introduce, col dire che nelle sue operazioni ha solo riguardo al servizio comune della Cristianità e della Religione cattolica, e non alla grandezza de’ suoi nipoti o ad altri suoi privati interessi. Il qual ufficio, come fa forse troppo frequentemente e con tutti, così pare che faccia anzi effetto contrario al suo desiderio; poiché con questa scusa non ricercata viene quasi a condannare la sua stessa coscienza, quasi conoscendo che abbia bisogno di giustificazione. Ma tanto più restano gli uomini in questa parte offesi, quanto che dalle parole del Pontefice pare che si potesse traggere che egli veramente disprezzasse gl’interessi di questi suoi nipoti. E nondimeno gli effetti sono molto contrari, avendone fatto due in un’istessa promozione cardinali, con esempio assai raro, e date loro entrate ormai grossissime di più di cinquantamila scudi di beneficj ecclesiastici fra tutti due, e si può dire quel più che ha portato l’occasione. E al signor Giovanni Francesco Aldobrandino, che gli è nipote, come marito d’una figlia d’un suo fratello, sorella del cardinale Aldobrandino, ha dato il generalato della Chiesa, e non pur perché lo eserciti in casa e in tempo di quiete, ma fattolo capo della milizia mandata in Ungheria, ricusando il servizio che a ciò era offerto di prestare da diversi principi italiani: cosa che non è passata senza qualche mormorio e scandalo; parendo che questa troppa tenerezza ed affetto verso i suoi e la grandezza della sua casa abbia diminuito assai di quel merito e di quella gloria che tale operazione peraltro poteva acquistargli. <47> Quelli che col Pontefice ritengono qualche maggiore autorità, e sono di maggior fede, si riducono a molto pochi; non avendo nel numero de’ cardinali altri de’ quali si fidi, e coi quali comunichi per l’ordinario le trattazioni e i negozi più importanti, che i due cardinali nipoti e il cardinale Toledo. Solevano i cardinali Salviati e Camerino nel principio del suo pontificato essergli molto confidenti, e però diede loro il carico della Consulta, e conferiva con essi molti negozi mostrando farne gran stima; ma a poco a poco ha ritirato ogni negozio e ogni consiglio nei tre cardinali sopradetti. Al cardinal Toledo attribuisce Sua Santità tanto, che il suo parere per ordinario prevale a quello degli altri, avendo di lui un singolar concetto di bontà e di dottrina. Mostrasi esso cardinale ottimamente affetto verso le cose di Vostra Serenità; ne parla sempre con grandissimo onore, e più volte s’è faticato con diversi uffici di prestarmene testimonio. Ma quanto all’ordinarie espedizioni de’ negozi, queste si vanno riducendo tutte in mano del signor cardinale Aldobrandino: sicché al signor cardinal San Giorgio resta ora la minor parte, massime delle cose più importanti. Onde tra questi due cardinali così congiunti di sangue ne è nata così grande emulazione, che se il rispetto del Papa non li tenesse a freno, passarebbe in aperta nimistà. Ma questi loro affetti sono però notissimi a tutta la Corte, e rendono il negoziare più difficile, cercando l’uno di mettere impedimento alle cose che passano per le mani dell’altro. Ma comincia il cardinal San Giorgio a cedere ad esso Aldobrandino, poiché vede palesemente tale esser la volontà del Pontefice, o per la congiunzione maggiore del sangue, per esser questo della stessa sua casa e figliuolo di fratello, ove egli è figliuolo di sorella; oppure perché più confidi in lui, riputandolo, come lo ha avuto a dire più volte, più destro nel negoziare, benché si mostri nel cardinal San Giorgio maggior vivacità d’ingegno. In rispetto di questa maggior grazia del Pontefice, è in grandissima riputazione, onorato e riverito da tutti e sopra tutti gli altri, esso cardinale Aldobrandino; seguendo ognuno volentieri il giudicio del principe stesso, il quale si vede che gli attribuisce assai e che sente piacere dal vederlo esaltato. Onde, come è riputato miglior istrumento d’ogni altro per poter di ciascuna cosa e per qualunque persona intercedere presso Sua Santità, così ha un concorso e un applauso tanto generale di tutta la Corte, che certo è una meraviglia. Questi è giovane di età di circa 24 anni, mostra assai buon spirito e attende assiduamente ai negozi: ma però non ha ancora di gran pezzo talento tale, quale saria bisogno nel carico che sostiene. È assai umano e facile nel trattare, il che gli concilia anco più di grazia. Verso le cose di Vostra Serenità fa particolare professione di essere ottimamente affetto, e, sempre che occorre, di pigliarne prontamente la protezione, come ha fatto anco in effetto in più occasioni. E questa sua, come egli la chiama, naturale inclinazione, tende forse anco a questo: di mostrare ch’egli tenga spiriti nobili di libertà come hanno fatto i suoi maggiori, e che però onori e stimi questa Serenissima Repubblica, come quella in chi ora sola si conserva il vero nome e splendore della libertà d’Italia. Favorisce molto questo cardinale tutti i prelati veneziani: anzi posso dire con verità, che rarissime volte, e quasi mai, si vede fuori di casa che non abbia seco nel suo cocchio alcun prelato veneziano. Ha mostrato più volte con molti sommo desiderio che la sua casa Aldobrandina resti favorita e onorata con essere fatta della nobiltà veneziana; e il Pontefice dell’istesso mi ha motteggiato più volte, come ne ho alcuna volta dato di qua notizia; e ne averia egli fatto più espressa istanza quando, come ha detto ad alcuno, non avesse dubitato di arrischiare troppo la sua riputazione, se non gli venisse per avventura fatto di conseguire l’intento. Ma certa cosa è, che questa cosa è grandemente stimata e desiderata da Sua Santità e dai suoi nepoti della casa Aldobrandina. <48> Ho lasciato a quella Corte in luogo mio, al servizio di Vostra Serenità, l’illustrissimo sig. Giovanni Dolfin. Il quale conosciuto prima per nome e per onoratissimo concetto della sua virtù, è stato ricevuto con sommo piacere di tutti e con grandissima aspettazione. Onde già, in questo principio della sua ambasceria, è montato a tale concetto di valore e di splendore, che ben si può promettere ch’egli sia per sostentare in ogni parte la riputazione pubblica, e per ben condurre i negozi che avranno a trattarsi a quella Corte. Ma di soggetto così nobile, e così noto per l’esperienza d’altri importantissimi carichi, non è bisogno dir più oltre, perché la laude già da sé si sta congiunta col suo molto merito. Ma non debbo già tacere, per non defraudare anco chi non ha potuto godere dell’onore meritato, che l’illustrissimo signor Giovanni Moro, mio predecessore (che sia in gloria), ha lasciato di sé presso l’universale di quella Corte una degna memoria e gran desiderio che fosse più lungamente campato. E ne ho sempre udito a parlare con tanti nomi di onore, che ben si conosce gran perdita aver fatto la Repubblica per la privazione di un suo così onorato soggetto e così stimato suo ministro. Il quale se più lungamente fosse vivuto, s’avrebbe avanzato in maggior merito e salito al colmo d’ogni laude. <49> Ha servito V. S. per secretario, e che partì meco da Venezia, Gio. Francesco Secchi; del quale sarei in obbligo di dir molte cose, come conosco esser molto il suo merito, quando non sapessi che questo è soggetto già notissimo a questo Eccellentissimo Senato e reputato degno della sua grazia. Io veramente sono restato della sua opera nel servizio di Vostra Serenità compitamente satisfatto. L’ho veduto in tutti i negozi diligentissimo e intendentissimo, e sopra tutto molto pratico di quella Corte; ove in più volte è stato per lo spazio di circa sett’anni, e ha lasciato sempre di sé un onoratissimo concetto tenendo una grazia universale della Corte. Onde in questo nuovo servizio della terza ambasceria fatta in quella città, meritamente deve anco aversi acquistato nuovo merito presso la benignità di VV. SS. Eccellentissime; e tanto maggiore quanto che io ho conosciuto certo che è stato con molto suo incomodo e il levarsi di qua per venir a quel servizio, e la dimora e stanza di Roma; ove ha patito diverse indisposizioni per le quali anco fu finalmente costretto di levarsi da quell’aere, poco amico alle complessioni di molti; ma però non senza suo dispiacere, benché in ogni luogo procuri sempre d’impiegar quanto più può utilmente la sua opera nel servizio di Vostra Serenità. Ha servito per mesi dieci nel carico di cogitor Ippolito di Stefani, il quale per inanzi aveva anco servito nell’ambasceria del signor cavalier Moro. Si mostrava tutto dato allo spirito; viveva ritiratamente, e dava segno fin allora della risoluzione che ha fatto d’entrar in religione, ove con l’orazioni servirà a questa Serenissima Repubblica, come nel secolo le è stato servitore buono e divoto. Da poi la partita di questo venne in luogo suo Pietro Bartoli, nel quale conobbi presto una grande diligenza e prontezza nell’esercitar il suo carico. Onde essendo poi occorso che convenisse, per le sue indisposizioni, ritornare a casa il secretario Secco, e restando io compitamente soddisfatto dell’opera di esso Bartoli, cominciai valermene nel carico di secretario; nel quale vedendo che s’andava più avanzando con molta sua laude, e prestava a Vostra Serenità ottimo servizio, stimai bene che avesse a continuar (come ha fatto) per lo spazio in tutto il tempo di mesi ventotto. Nel quale essendo stato per lo più solo, e avendo a far l’uno e l’altro ufficio di secretario e di cogitore, in tanta moltiplicità di negozi quanta è occorsa di trattare, si ha mostrato sempre veramente indefesso, e si è acquistato presso tutti quelli con chi ha avuto a negoziare grandissimo concetto di modestia, di diligenza e d’intelligenza; in modo che viene per ogni rispetto ad aversi ben meritata la grazia di VV. SS. Eccellentissime. E tutto che abbia sostentato con un solo ordinario stipendio il peso e il carico di due persone, non ha però ricevuto il dono solito darsi a chi serve per secretario alle corti. E nondimeno l’occasione anzi necessità della spesa è stata molta, convenendosi comparire con abiti nobili in una Corte di Roma, ove si sta con molto splendore e ove tutte le cose sono costosissime. Nella qual parte, come anco nelle altre, non ha punto mancato; e dovendo tornar a nuovo servizio nell’ambasceria di Savoia, se gli accrescerà anco nuova necessità di spese. Onde quanto più dal canto suo procura di sodisfare in ogni parte al suo debito e di ben servirla, tanto anco più merita di esser da VV. SS. Eccellentissime favorito ed aiutato: come spero e sommamente desidero che sia particolarmente fatto questa sera, abbracciando la parte che sarà portata di quel trattenimento del quale già Sua Serenità e l’Eccellentissimo Collegio l’hanno giudicato meritevole. Il che come sarà dimostrazione di qualche premio alle sue molte fatiche, così sarà eccitamento negli altri a ben meritare, e a me ancora di special favore; perché non potendo io con altro riconoscerlo, mi sarà carissimo che conseguisca almen qualche frutto da questo mio ufficio. <50> Sono stati tutto questo tempo meco in Roma un mio nepote, figliuolo del clarissimo sig. Tadio Morosini, e due miei figliuoli, Giovanni e Lorenzo, i quali ho voluto tenere in mia compagnia per nutrirli ed ammaestrarli, dappoi il timor di nostro Signore Dio, in una somma riverenza e divozione verso Vostra Serenità; e perché stando e praticando lungamente a quella Corte, tenuta maestra di costumi e di negozi, potessero apprendere qualche cognizione e ammaestramento. Onde poi come sono e saranno sempre suoi umilissimi e obbligatissimi servitori, così avessero in qualche tempo a riuscire non in tutto indegni della sua grazia e benigna protezione. <51> Ultima parte della Relazione suole essere parlar di sé medesimo e del servizio prestato; ma per certo che in tale ragionamento non so ben ritrovare modo e temperamento che possa sodisfare né anco a me stesso. Poiché se risguardo al mio debito, conosco che è tanto e tale, che posso dire non aver fatto alcuna cosa; però che qualunque servizio prestato convien d’assai essere inferiore all’obbligo che debbo e alla patria in universale, e in particolare a VV. SS. Eccellentissime. Ma se poi considero la prontezza grande della mia volontà, con la quale ho sempre riveriti, e con una somma diligenza osservati ed obbediti gli ordini e comandamenti di Vostra Serenità, mi potrà per avventura parere, avendovi speso tutto il mio talento (quale esso si sia), d’aver adempiuto l’obligo. Gl’incomodi, le occupazioni gravi, le spese gravissime che per l’ordinario soffrire si sogliono da quelli che stanno lontani da casa e con carichi publici, sono cose più volte state rappresentate e molto note a questo Eccellentissimo Senato. Ma s’io abbia avuto a provar tutte queste cose, e forse maggiori, e più gravi dell’ordinario, non può nascer dubbio presso a chi conosce i molti e importantissimi negozi passati alla Corte di Roma in questo tempo, e la somma e straordinaria carestia introdotta questi ultimi anni in quella città, e fatta ormai generale di tutte le cose. E tuttavia in tanto notabile accrescimento di spesa, mi è convenuto passarla con salario anco minore dell’ordinario per la perdita grande che ha apportato al far rimettere il danaro in Roma la bassezza del cambio di tutto questo tempo nata da vari accidenti. Sì che quella provvisione che fu istituita all’ambasceria di Roma già circa quarant’anni, quando per tutti i versi le cose erano in stato tanto differenti dal presente, viene ad essere diminuita, ove, quando s’avesse a pareggiare con la spesa, per la diversità de’ tempi converrebbe essere duplicata e triplicata. Ma più d’ogni altra cosa mi sono state gravi le indisposizioni del corpo, che m’hanno lungamente tenuto travagliato e quasi che oppresso; benché abbia cercato di superar me medesimo e le mie forze, non tralasciando cosa che potesse appartenere al suo servizio e al mio carico. Ma a tutte queste cose per altro acerbe, mi è riuscito di grandissimo condimento l’aver fatto ogni cosa volentieri e allegramente, e l’intendere che le mie operazioni fossero dalla sua singular benignità e con mio estremo obbligo gradite. In modo che ho potuto reggere alla lunghezza dell’ambasceria, che è stata di trentotto mesi, a me più lunghi e più gravi per essere stato questo carico impostomi congiunto col reggimento di Brescia, ove ancora mi ritrovavo quando piacque alla Sua Benignità di onorarmi sopra il mio merito col riputarmene degno. <52> Con occasione di avere io fatto il primo ingresso a quella ambasceria ad un istesso tempo con gl’ill. signori ambasciatori estraordinari che andarono a prestar la solita obbedienza, fui onorato dal Pontefice del grado della cavalleria, e insieme presentato d’una crocetta d’oro, nella quale è del santissimo legno della Croce, con molto grandi indulgenze e prerogative; e appresso questa, d’una catenelletta d’oro simile in tutto e per tutto a quelle che furono donate agli altri quattro signori ambasciatori, come è particolarmente noto a Vostra Serenità, che fu uno tra quelli, e che onorò singolarmente con le sue prestantissime virtù e col grido del suo nome quella solenne ambasceria. Questa catenelletta è ora appresentata ai suoi piedi per dover da Vostra Serenità sola riconoscerla, e per ricever dalla solita molta grazia e benignità di questo Eccellentissimo Senato il favore di poterla ritenere per segno e memoria di quella ambasceria, e dell’onore ch’io ho ricevuto come rappresentante di questa Serenissima Repubblica; poiché quanto al resto il valore è debolissimo, ma però dal canto mio sarà stimato di molto obbligo appresso i tanti altri che le devo.