MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITÀ CULTURALI E DEL TURISMO ©
BOLLETTINO D’ARTE
Estratto dal Fascicolo N. 24 – ottobre-dicembre 2014 (Serie VII)
MADDALENA CIMA
LEONI GRECI A ROMA
«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER
BOLLET TINO D’ARTE
MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITÀ CULTURALI E DEL TURISMO
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In copertina:
ROMA, COLLEZIONE PRIVATA
– LAVINIA FONTANA: AUTORITRATTO ALLA SPINETTA (1575), PARTICOLARE
(foto Maria Teresa Cantaro)
B O L L E T T I N O D’ A R T E
FONDATO NEL 1907
MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITÀ CULTURALI E DEL TURISMO
24
OTTOBRE–DICEMBRE
ANNO XCIX
SERIE VII
2014
SOMMARIO
MADDALENA CIMA: Leoni greci a Roma
1
GIUSEPPE SCARPATI: Il ritratto di Druso Minore dal ciclo statuario giulio–claudio
29
LUCA CRETI: L’antico Palazzo papale presso la Basilica di Santa Maria Maggiore.
39
MONICA LATELLA: Gli affreschi della facciata del Palazzetto Massimo Istoriato:
61
INGEBORG WALTER: Michelangelo e gli Strozzi. L’‘Ercole’, il ‘Bruto’ e un cavallo per
85
MARIA TERESA CANTARO: Lavinia Fontana: il primo ‘Autoritratto alla spinetta’ ritrovato
99
di Sessa Aurunca
Storia, architettura e trasformazioni
un disegno di Polidoro da Caravaggio per le ‘Storie di Giuditta’
Caterina de’ Medici
e una breve disamina sugli autoritratti della pittrice
ANTONIO RUSSO: Francesco Barberini e la «restauratione» del Triclinio Leoniano:
111
DANIELE DI COLA: Il rifacimento della chiesa di Santa Barbara dei Librai di Roma (1679–1688).
125
il cantiere e un progetto inedito
Il committente Zenobio Masotti e l’attività artistica di Agostino Martinelli, Giuseppe Passari,
Luigi Garzi e Domenico Guidi
IN BREVE
CARLO BERTELLI: Il primo prestito di Tiziano dall’Antico
143
LIBRI
LUCILLA DE LACHENAL: recensione a La collezione di antichità Pallavicini Rospigliosi
(Monumenti Antichi dei Lincei, vol. XVII), a cura di DANIELA CANDILIO e MATILDE
DE ANGELIS D’OSSAT, Roma 2014
PAUL JOANNIDES: recensione a La Santa Cecilia di Raffaello. Studi e indagini,
a cura di DIEGO CAUZZI e CLAUDIO SECCARONI, Firenze 2015
MARIA GRAZIA BERNARDINI: recensione a Il Palazzo Bernini al Corso.
Dai Manfroni ai Bernini, storia del palazzo dal XVI al XX secolo e della raccolta
di Gian Lorenzo Bernini, di ROSELLA CARLONI, Roma 2014
Abstracts
147
151
153
157
MADDALENA CIMA
LEONI GRECI A ROMA
Un fondamentale articolo di Madeleine Mertens–
Horn1) ha concentrato l’attenzione su tre statue di
leoni, originali greci, trovate a Roma in tempi diversi.
La prima è rappresentata da una scultura frammentaria dei Musei Capitolini che conserva la testa e parte
della criniera di un leone2) (figg. 1 a–c).
Il muso è solidamente costruito su una struttura
ossea ben modellata, seppure caratterizzata da un’estrema sintesi dei lineamenti, e segnata dal profondo
solco centrale che attraversa verticalmente la fronte.
Gli occhi sono cavi, per consentire l’inserimento di
elementi in altro materiale. La bocca presenta le fauci
spalancate: manca interamente la mandibola inferiore, spezzata insieme alla lingua che, come in esemplari analoghi, doveva essere portata in fuori; si conserva
invece, ben evidente, l’intera arcata dentaria superiore. L’inizio della criniera è segnato da due file di piatte e schematiche ciocche ondulate, ordinatamente
sistemate, che circondano completamente il muso dell’animale, mentre sul collo il pelame della criniera si
dispone in ritorti cordoni paralleli. Due piccole orecchie sono collocate lateralmente, sulla linea di separazione tra i due settori della criniera.
Un foro passante, che attraversa longitudinalmente tutta la scultura, testimonia che la testa di leone,
almeno per un periodo, fu utilizzata come boccaglio
di fontana. Ma una piccola traccia conservata nella
parte inferiore del collo, e interpretabile come l’attacco della zampa anteriore sinistra, documenta che
la scultura, in origine, rappresentava un leone inte-
ro accucciato sulle zampe anteriori e sollevato su
quelle posteriori secondo uno schema molto comune nella resa dei felini: diversamente però da altre
sculture analoghe per soggetto, il leone dei Musei
Capitolini manteneva una rigida posizione assiale,
1
a–c –
ROMA, MUSEI CAPITOLINI, CENTRALE MONTEMARTINI
TESTA DI LEONE IN MARMO
(foto Museo)
1
trarre materiali con i quali alimentare la collezione.
C’era l’area all’Ara Coeli, dove fu costruito il palazzo e
fatti ampliamenti ancora nel 1643;15) c’era una vigna
nei pressi di San Vitale al Quirinale:
«Al tempo di Paolo IV appresso S. Vitale fu trovato un Tesoro nella vigna del Sig. Orazio Muti, e lo trovò un suo vignarolo, di gran quantità di Medaglie d’oro, e gioje di valore e
si fuggì».16)
2
–
DISEGNO RICOSTRUTTIVO DEL LEONE DEI MUSEI CAPITOLINI
(da M. MERTENS–HORN, Studien zu griechischen Löwenbildern,
in RM, 93, 1986, p. 2, fig. 2a)
guardando in avanti (come si deduce dalla resa della
testa) anziché volgere il muso di lato (fig. 2). Tale
posizione doveva suggerire una forza concentrata,
raccolta, come prima di spiccare un balzo per aggredire la preda: effetto che doveva essere sottolineato
dalla vivacità degli occhi ricavati da materiali preziosi e dalle fauci aperte in un ruggito profondo.
Un’accuratissima analisi stilistica e il confronto
con un leone frammentario dall’agorà di Atene,3)
che mostra una trattazione simile della criniera sul
collo, con una testa–gocciolatoio in terracotta da
Olimpia e con una coppia di leoni di Delos, portano
M. Mertens–Horn ad attribuire la testa dei Musei
Capitolini ad un atelier attico della fine del VI secolo a.C.4)
La testa è entrata nelle collezioni capitoline di
antichità nel 1923:5) inizialmente fece parte delle
raccolte dell’Antiquarium Comunale,6) per poi essere
esposta in una delle “Sale arcaiche” del Palazzo dei
Conservatori.7)
Mertens–Horn8) la identifica con una testa di leone
reimpiegata come boccaglio di fontana tra le opere
segnalate da F. Matz e F. von Duhn9) nella collezione
di antichità di Palazzo Muti, in piazza dell’Ara Coeli.
Tale raccolta, ancora in parte esistente all’interno del
palazzo,10) sembra sia stata iniziata da Orazio Muti
(1540–1622): la testa di leone è presente, tra le opere
sistemate sulle scale, in un inventario fatto redigere da
Giovanni Paolo Muti nel 1664.11) La raccolta comprendeva opere di grande prestigio, fra le quali il
grande rilievo con Perseo e Andromeda, passato poi
nella collezione Pamphilj,12) in seguito nella raccolta
Albani e infine nei Musei Capitolini.13) Il rilievo era
stato trovato nel XVII secolo durante l’ampliamento
di Palazzo Muti ai Santi Apostoli, insieme ad
«altri due pezzi del medesimo gusto; ma furono fatti spezzare e gittare nel medesimo fondamento d’ordine del marchese, per rabbia, che gli fu levato a forza il compagno [dai
Pamphilj]».14)
Del resto, la famiglia Muti aveva molte altre proprietà in diverse zone di Roma, dalle quali poteva
2
Nella stessa vigna, Vacca ricorda il ritrovamento di
un «idolo di marmo con corpo umano e testa leonina», derivato, insieme ad un rilievo dello stesso soggetto, da un mitreo scoperto nella zona.17)
Poi c’era la chiesa di Santo Stefano del Cacco, dove
era canonico Giovanni Paolo Muti e che insisteva sulle
strutture dell’Iseo Campense: ritrovamenti nell’area,
finiti nella collezione Muti, sono segnalati ancora una
volta da una memoria di Flaminio Vacca.18)
C’era infine una vigna di proprietà di Carlo Muti,
fratello di Orazio, sul Quirinale. Qui nel 1594 Flaminio Vacca testimonia la scoperta del cratere e della statua di Sileno con Bacco bambino, trovati prima del
settembre 156919) e rimasti nella collezione Muti20)
fino al loro acquisto da parte dei Borghese nel
1613;21) attualmente sono entrambi al Louvre.
«Mi ricordo, che il Sig. Carlo Muti nella sua Vigna poco
lontana dagli Orti Salustiani, trovo un Fauno maggior, del
naturale, con un Puttino in braccio, ed un Vaso grande, con
Fauni, e Baccanti, che ballano, con cembali in mano, che
oggi sta nel suo Giardino: trovo anche molte Statue sparse
disordinatamente, le quali si puol credere fossero in quella
fabbrica trovate nella Vigna di mio Padre, mentre si vedono
muraglie piene di nicchie, e che fossero trasportate nella
Vigna del Sig. Carlo Muti».22)
Come si può verificare sulla pianta di Roma di
Bufalini del 155123) (fig. 4), la vigna Muti si trovava al
margine della stretta e profonda valle che caratterizza
l’orografia dell’area occupata nell’antichità dagli horti
Sallustiani, valle interpretata dalla cultura antiquaria
come «circo di Flora».
A conferma di tale posizionamento, la vigna Muti
compare in un atto di vendita, datato 1590, della proprietà Caetani di Sermoneta — ben identificabile, tra
le altre, nella veduta di Roma di A. Tempesta del
159324) (fig. 3) — alla Confraternita di San Bernardo:
atto in cui «vineam et bona Ill.mi D. Caroli Muti» vengono citati per definire i confini del terreno in questione.25) Tale collocazione, in corrispondenza del
limite occidentale della valle configurata come un
circo, appare confermata dalle «muraglie piene di nicchie» segnalate da Vacca e visibili in molte delle piante della zona, che possono identificarsi con le possenti
sostruzioni di sostegno delle ripide scarpate che racchiudevano la valle.
Una testimonianza di Pirro Ligorio documenta le
numerose proprietà che ai suoi tempi insistevano
sull’area già riconosciuta come quella occupata nell’antichità dai giardini di Sallustio:
«Egli [Sallustio] havea bellissimi e varij poggi che soprastavano l’uno all’altro, con varie montate coperte, con appartamenti per ogni stagione e non vi mancavano né boschetti né
Fonti: con varijssime vedute, ove sono hoggidi molte Vigne,
tra le quali è quella delli Venerandi padri di san salvatore
del Lauro, la Vigna del Vescovo Muti, quella del Vescovo di
Pavia, del Vescovo Colotio, e di Francesco Sibylla e di venti
altri padroni».26)
A giudicare, poi, dalle Memorie di Flaminio Vacca,
la vigna di Carlo Muti non doveva essere lontana da
quella di suo padre Gabriele: qui, sempre secondo le
memorie del figlio27) e la testimonianza di Pirro
Ligorio,28) venne trovato il prezioso edificio circolare
riconosciuto da Lanciani in un disegno di Ligorio
stesso.29) Il piccolo edificio rotondo, decorato con
marmi preziosi, con colonne in giallo antico e alabastro, rappresenta un segno della raffinatezza architettonica che caratterizzava gli horti di Sallustio, e viene
definito da Ligorio «Templum Veneris Hortorum Sallustianorum». Senza entrare nel merito della vexata
quaestio dell’identificazione dell’edificio, che ha
appassionato generazioni di antiquari ed archeologi,30) sarebbe di grande utilità — proprio per meglio
3
–
ANTONIO TEMPESTA: PIANTA DI ROMA (1593), PARTICOLARE
(da A. P. FRUTAZ, Le piante di Roma, II, Roma 1962, tav. 264)
La zona campita corrisponde alla proprietà Caetani di Sermoneta.
4
–
GIOVANBATTISTA NOLLI (1748): RIELABORAZIONE DELLA PIANTA DI ROMA ANTICA DI LEONARDO BUFALINI (1551)
PARTICOLARE DELLA ZONA DEGLI HORTI SALLUSTIANI
(da A. P. FRUTAZ, Le piante di Roma, III, Roma 1962, tav. 420)
Nel tondo rosso la proprietà Muti, nel tondo giallo il muro a nicchie trasversale alla valle.
3
localizzare la vigna Muti — poterne definire la collocazione. Mentre Flaminio Vacca si limita a ricordare
che il tempietto fu trovato nella vigna di suo padre
Gabriele, presso Porta Salaria, in un’area «dove si
dice gli Orti Sallustiani»,31) Pirro Ligorio dà qualche
informazione in più:
«TEMPLVM VENERIS HORTORVM SALLVSTIANORVM;
Fu anchor esso picciolo Tempio ma ornatissimo tutto del
marmo pario, con colonne striate bianchissime dell’ordine
Corinthio di forma rotonda col peryptero attorno cio è circundato di portico; come havemo posto nel disegno dell’Horti sallustiani lo quale era su un poggio soprastante al
Foro sallustiano in testa della Valle verso l’oriente dove
appunto havemo veduto cavare delle sue rovine preciosissime, e d’ammirabile diligentia lavorate».32)
Lanciani, nella sua Forma Urbis Romae,33) colloca il
tempietto sul pianoro soprastante la valle verso nord,
nell’isolato oggi compreso tra via Puglia, via Lucania,
via Sicilia e via Boncompagni; tuttavia Maurizio
Castelli, anche tenendo conto del posizionamento
dell’edificio nella pianta di Roma di Ligorio, inserisce
la struttura all’interno della valle, verso la sua testata
orientale. C’è da notare che, purtroppo, anche a causa
dello spoglio degli elementi architettonici segnalato
da Vacca,34) nessuna traccia dell’edificio è stata trovata
negli estesi scavi effettuati nella zona alla fine dell’Ottocento.35)
Da un confronto, poi, tra il posizionamento della
vigna Muti sulla pianta di Bufalini (1551) — l’unica
nella quale compare un’indicazione certa — e quella
di Nolli (1748), tenendo conto dei riferimenti all’andamento orografico del terreno, sembrerebbe di poter
arguire che la proprietà Muti sia confluita in quella
Cesi di Acquasparta, poi Massimo.36) Si tratta del limite occidentale della valle, dove nelle piante antiche
(comprese quelle di Bufalini e di Nolli) compaiono
muri di sostruzione decorati da nicchie, posti trasversalmente rispetto all’andamento della valle: sono gli
stessi muri riconoscibili nel prezioso disegno del
Codice Destailleur37) che restituisce l’architettura degli
horti Sallustiani nella zona, e che ne costituiscono la
chiusura verso occidente.
Le accurate note di Ferdinando Mariani per il
“Libro” mai pubblicato a commento della monumentale pianta di Giovan Battista Nolli, riportano l’esistenza di molte strutture antiche nell’area della villa
Cesi e in particolare:
«Per dette ville corre voce commune, che qui fossero l’orti di
Salustio, e che li suddetti vestigj di muri antichi siano del
circo di Flora; ed in alcuni luoghi di dette antichità si vedono vestigj come di seditori, che forse potevano servire per
commodo degli spettatori, e ciò si osserva verso la villa del
sig.r duca di Acquasparta».38)
Rispetto alla topografia attuale, i due lunghi muri di
sostruzione decorati da nicchie dovevano trovarsi uno
in corrispondenza dell’attuale via Umbria, l’altro lungo
via Lucullo, dove si conserva ancora un tratto della
muratura in opera reticolata: in quest’area scavi condotti in tempi diversi hanno portato alla luce varie
strutture architettoniche, tra le quali un criptoportico,
4
attualmente all’interno dell’Ambasciata Americana, nel
quale si riconoscono fasi edilizie comprese fra il I e il
III secolo d.C.39) Non lontano da qui fu trovata la base
dell’obelisco ora a Trinità dei Monti, nonché un’erma
di Ercole barbato conservata nel Museo della Centrale
Montemartini.40) Nell’area adiacente, all’incrocio tra via
Lucullo e via Sallustiana, a 12 metri di profondità
«vicino al punto più depresso, ove era incavato l’alveo dell’antico fiume dell’aqua Sallustiana», (secondo il Lanciani,
Petronia amnis)41)
tra muri di opera quadrata e resti di strutture in opera
reticolata, venne alla luce la statua di peplophoros ora a
Boston.42)
Se, quindi, in base alle indicazioni fornite dai cartografi, dai documenti d’archivio e dai testimoni diretti
delle scoperte, è possibile collocare con una certa
verosimiglianza la cinquecentesca vigna Muti sul margine ovest della valle–circo degli horti Sallustiani,
appare molto suggestivo pensare che la testa di leone
dei Musei Capitolini, già presente nell’inventario
della collezione Muti alla metà del XVII secolo, possa
essere stata trovata in questa zona. In particolare, essa
può essere forse associata alle «molte Statue sparse
disordinatamente» delle quali Flaminio Vacca43) ricorda, significativamente, la scoperta tra le «muraglie
piene di nicchie» venute alla luce insieme alla statua
del Sileno con Bacco bambino e al cratere Borghese
ora al Louvre. È difficile stabilire se il danno subito
dalla scultura originale che rappresentava l’intera
figura del leone sia da far risalire all’antichità, oppure, come più probabile, alle vicende rinascimentali
dell’opera, che possono aver portato alla scelta di conservare solo la testa, trasformata, per l’occasione, in
elemento di fontana.
Il secondo leone è conservato nel Metropolitan
Museum di New York44) (fig. 5).
La belva si presenta accucciata sulle zampe davanti
e sollevata su quelle posteriori. Il corpo mostra forme
slanciate, con le costole segnate sui fianchi. La testa,
leggermente volta sulla destra è piuttosto piccola, con
le fauci aperte in atteggiamento aggressivo: sul muso
una serie di linee parallele ad andamento ondulato
disegnano i baffi, quasi con un compiacimento decorativo che si riscontra anche nel trattamento dei lembi
delle fauci. Il pelame della criniera non assume forma
plastica ma è reso con serie di ciocche sottili, aderenti
al corpo, che scalfiscono appena la superficie del
marmo senza interrompere la compatta struttura plastica del corpo. Sono molto evidenziate l’incavatura
nella zona dei fianchi e gli archi delle costole che si
percepiscono sotto la pelle. La testa appena ruotata
partecipa alla lieve inarcatura nella posizione di tutto
il corpo che sottolinea la tensione muscolare e lo slancio aggressivo. Segni sul fianco destro (forellini di trapano per l’inserimento di perni, superfici abbassate)
testimoniano che la coda era riportata e applicata,
così come le orecchie.
In effetti lo studio anatomico del corpo slanciato,
con la testa piccola e il ventre fortemente incavato,
5
–
NEW YORK, METROPOLITAN MUSEUM
–
STATUA DI LEONE IN MARMO
(foto Museo)
sembra ispirarsi più alla figura di un cane che a quella
di un leone: d’altra parte, come nota Gisela Richter,45)
i leoni si estinsero in Grecia prima del VI secolo a.C.
Nell’aspetto generale la scultura richiama da vicino i
leoni in pietra calcarea trovati in connessione con il
Monumento delle Nereidi a Xanthos (tanto da consentire il restauro del leone di New York con i calchi di una
delle belve di Xanthos46)). Stessa posizione, simile struttura slanciata, simile la trattazione della criniera ma
sostanziali differenze formali nella partizione netta dei
diversi settori del corpo, nell’accentuazione dell’impalcatura ossea e dei fasci muscolari; diverso anche il materiale: calcare per i leoni di Xanthos, marmo pario per
quello di New York . Queste osservazioni portano Madeleine Mertens–Horn a collocare i leoni di Xanthos intorno al 500 a.C., mentre la datazione della statua di New
York, attribuita a un’officina insulare, dovrebbe scendere
in età severa, tra il 480 e il 460 a.C.47)
Nonostante il ritrovamento della scultura risulti,
dalle poche notizie in nostro possesso, assai più recente rispetto a quello degli altri due leoni, paradossalmente per quest’opera è ancora più difficile ripercorrere le vicende che ne possano chiarire il luogo di
provenienza. La prima notizia sull’opera, da poco
pervenuta al Metropolitan Museum di New York,48) si
trova in una breve nota di J. Marshall:49) «The statue is
said to have been found in or near Rome». Gisela
Richter, nel suo catalogo della scultura greca del
Metropolitan,50) è appena più esplicita sul luogo di
ritrovamento della statua: «said to have been found in
Trastevere, near Porta Portese, in Rome». La stessa
studiosa, in una rievocazione dei primi anni di formazione del Department of Greek and Roman Art del
Museo, ricorda il fondamentale contributo di John
Marshall per l’acquisto delle opere sul mercato antiquario europeo e l’emozione suscitata, in quei primi
anni del ’900, dall’arrivo di sculture importanti come
la statua ellenistica di vecchia contadina51) e il leone
greco del IV secolo a.C.52)
Dovevano essere davvero anni entusiasmanti, quelli
tra la fine dell’‘800 e i primi anni del ’900, per gli
appassionati di archeologia e di arte antica di tutto il
mondo: il mercato antiquario europeo, e soprattutto
quello italiano, era vivacissimo, nonostante alcuni tentativi di regolamentazione restrittiva del commercio di
antichità.53) La dispersione delle antiche collezioni
nobiliari,54) dovuta alla crisi economica, i grandi “sterri” legati all’espansione urbanistica di Roma capitale,55)
e il fiorire degli scavi su tutto il territorio italiano, crearono le condizioni per rifornire con abbondanza e continuità il mercato antiquario internazionale per diversi
decenni.
L’ambiente era veramente cosmopolita e frequentato da personaggi straordinari: in questo quadro spiccano le figure di Edward Perry Warren, membro di
una ricchissima famiglia di Boston, archeologo di
grande sensibilità e competenza, e di John Marshall,
suo compagno di studi a Oxford e di vita a Lewes
House, dove avevano fondato una sorta di cenacolo
nel quale si viveva “alla greca”.56) Tra il 1892 e il 1902
Warren e Marshall controllarono quasi completamente il mercato antiquario di Roma, soprattutto nei confronti del mondo americano.57)
Dal 1906 Marshall divenne rappresentante ufficiale
del Metropolitan Museum di New York. Fu in questa
veste che acquistò pezzi importanti:
5
6
–
RODOLFO LANCIANI: PIANTA DI ROMA, PARTICOLARE CON L’AREA DEGLI HORTI DI CESARE
(da R. LANCIANI, Forma Urbis Romae, Milano 1893–1901, tav. 39)
“Marshall acquistò una notevole base etrusca di nenfro con
bassorilievi di straordinaria finezza (che tipo? quando?) per
100.000 lire e il leone rampante, un grandioso originale
della fine del V sec. (RICHTER, Handbook, p. 254, fig. 178–
179) a Roma per 64.000 lire e, sempre dallo stesso venditore, comprò per 35.000 franchi la deliziosa statua ellenistica
di una pollaiola58) (RICHTER, loc. cit., p. 263, fig. 186), e per
25.000 franchi la statua ellenistica acefala, firmata Zeuxis, di
un filosofo seduto, ritrovata a Villa Patrizi. Anche il grande
torso di Eirene di Kephisodotos (RICHTER, p. 263, fig. 186),
sempre trovato a Villa Patrizi, fu comprato da Marshall per
New York per 40.000 franchi”.59)
Così Ludwig Pollak che, in un altro capitolo delle
sue memorie, ricorda i canali attraverso i quali venivano effettuati gli acquisti:
“A piazza della Consolazione sull’angolo a sinistra della
scala che porta al Campidoglio si trovava il negozio di Elio
Jandolo che, per un certo periodo, appartenne anche a
6
Ernesto Magnani. Tre scalini portavano all’interno della
piccola bottega. A mezzogiorno tornando a casa dall’Istituto
Archeologico Germanico, scendevo la scala e andavo a trovare Elio. Aveva sempre qualcosa di nuovo. Gli ultimi acquisti erano esposti all’ingresso su un tavolo coperto da un
foglio di carta bianca: pietre incise, un anello d’oro, statuette in bronzo, incisioni, ecc. e ogni tanto qualcosa di medioevale, portato alla luce dall’inesauribile sottosuolo romano.
Spesso incontravo il numismatico Camillo Serafini, più tardi
Governatore della Città del Vaticano. Collezionava monete
romane antiche per il Gabinetto numismatico del Vaticano,
di cui era direttore onorario. Elio Jandolo teneva le statue
di marmo nel suo magazzino che si trovava in un edificio
vicino al negozio. Era una grotta profonda scavata nella collina del Campidoglio, certo una cava di quelle utilizzate
dagli osti come cantina per i loro vini. In quella grotta si trovavano sculture molto importanti, comprate da Marshall
per New York, come il leone arcaico (RICHTER, loc. cit., p.
254, fig. 178), la venditrice ellenistica (RICHTER, loc. cit., p.
274, fig. 196). Il rapporto tra i due proprietari era più che
straordinario. Non li si trovava mai assieme nel negozio. Se
un terrazziere entrava con qualcosa da offrire, se i due si
trovavano sul luogo, acquistavano insieme gli oggetti. Se
però — come era più spesso il caso — era presente solo uno
di loro, questi comprava il reperto di nascosto dall’altro, per
rivenderlo subito dopo. Tutta Roma sapeva che i due protagonisti non si fidavano l’uno dell’altro. E così spesso capitava che uno dei soci venisse a sapere che l’altro lo aveva
ingannato. Dopo violenti scontri verbali, tutto si appianava
davanti a una foglietta di Frascati, perché i due erano ben
consapevoli di essere colpevoli entrambi. Il che non impediva che gli scontri si ripetessero per essere poi sempre pacificamente ricomposti. La cosa andò avanti sino alla prematura morte di Magnani”.60)
Questo il quadro della situazione per quanto
riguarda l’acquisto della statua di leone da parte del
Metropolitan Museum. L’opera fu dunque trovata a
Roma, in Trastevere, vicino a Porta Portese. Tale indicazione, fornita da Gisela Richter,61) rimanda all’area
tradizionalmente associata, sulla base della lettura
delle fonti antiche, agli horti di Cesare.62) Di essi sappiamo che erano trans Tiberim;63) che, al loro interno,
esisteva un tempio di Fors Fortuna64) situato al I
miglio della via Campana; che vi risiedette Cleopatra
durante il suo soggiorno a Roma,65) che vi furono
organizzati grandi banchetti ai quali fu ammessa la
plebs urbana e che lo stesso Cesare volle, come atto
finale del suo rapporto privilegiato con il popolo
romano, donarli proprio a quest’ultimo insieme a
tutte le opere d’arte che contenevano,66) «come luogo
di piacere». Se le fonti sono piuttosto avare e non consentono, per esempio, di stabilire con certezza i confini della proprietà,67) rinvenimenti di strutture antiche
e di materiali effettuati nel corso dei secoli nell’area
attribuibile a questi giardini possono, in qualche
modo, segnalarne la presenza68) (fig. 6). La maggior
parte dei ritrovamenti, che hanno messo in luce resti
di sostruzioni,69) di portici70) e criptoportici, ninfei,71)
edifici sacri,72) un edificio a pianta basilicale dall’incerta funzione,73) sono stati effettuati a ridosso del salto
di quota della collina di Monteverde dove, presumibilmente, si trovava la parte più prestigiosa del complesso architettonico che doveva offrire una vista
panoramica straordinaria, come quella celebrata da
Marziale:
Hinc septem dominos videre montes
et totam licet aestimare Romam …74)
Nel corso degli scavi furono trovate importanti sculture: fra le altre una statua di Venere, finita all’Ermitage di San Pietroburgo,75) e una serie di erme di filosofi
e letterati greci76) — molte delle quali acefale, ma
recanti i nomi dei personaggi rappresentati — che
vennero messe in relazione con una notizia di Vacca:
«vicino Porta Portese…nella vigna dei Vittorj, vi si trovarono
molte statue e teste di filosofi e imperatori nascoste in due
stanze, una addosso all’altra …».77)
Forse a una delle strutture individuate all’epoca può
fare riferimento un passo di Valerio Massimo,78) analizzato da John D’Arms,79) e relativo a uno dei due
prandia offerti da Cesare nei suoi giardini alla plebe
romana nel 45 a.C. in occasione della vittoria in Spagna. Si trattò, evidentemente, di eventi di enorme
impatto propagandistico, durante i quali il popolo fu
ammesso a godere dei piaceri offerti dalla prestigiosa
proprietà cesariana trans Tiberim e a partecipare alla
celebrazione del suo trionfo Hispanico sui pompeiani.
Durante uno di quei banchetti, l’oculista Herophilus,
che si spacciava come nipote di Mario e che si trovava
vicino a Cesare tra due colonne di un portico (proximo
intercolumio), fu salutato quasi con lo stesso calore di
Cesare stesso. Sembra che questo sia l’unico riferimento esistente per una struttura architettonica situata all’interno di questi giardini.
Molti dei ritrovamenti fin qui citati sono avvenuti in
occasione della costruzione della “vecchia” stazione
ferroviaria di Trastevere, presso l’attuale piazza Ippolito Nievo; tra il 1907 e il 1911 la stazione fu spostata
nella posizione attuale e, contestualmente, fu costruito
un ponte ferroviario sul Tevere per il collegamento tra
la stazione di Trastevere e quella di Termini. I ritrovamenti di quegli anni interessano pertanto prevalentemente la piana compresa tra la riva del Tevere e la
rupe di Monteverde: si tratta soprattutto di sepolcreti80) che costeggiavano la via Campana–Portuense,
insieme a qualche struttura che può essere interpretata
come parte di magazzino annonario:81) non sembra di
poter riconoscere nell’area strutture interpretabili
come edifici residenziali e attribuibili agli horti, probabilmente a causa delle grandi trasformazioni urbanistiche realizzate nella zona dopo la morte di Cesare e il
suo lascito ereditario, che portarono importanti cambiamenti nell’assetto e nella destinazione dei luoghi.82)
Forse in questa zona nei primi anni del Novecento
fu ritrovata una statua acefala di Apollo seduto con
omphalos, ora nel Museo Barracco: la scultura, probabilmente copia tardo–repubblicana di un originale ellenistico,83) entra nella raccolta prima del 1907, quando
compare nell’aggiornamento del catalogo del Museo84)
senza provenienza, ma descritta come statua frontonale
«di stile fidiaco». Pollak, fidatissimo consigliere di Barracco, in questo caso — essendo direttamente interessato — appare molto più reticente sull’acquisto dell’opera, svelando solo che tra le opere entrate nella
collezione tra il 1905 e il 1914 per merito suo, va annoverato anche «il torso fidiaco di Apollo dei giardini di
Cesare situati dietro Trastevere (n. 100)».85)
È comunque in quest’area affacciata sul Tevere che
deve essere stata trovata la statua di leone ora a New
York: acquistata dal Museo americano nel 1909, il
ritrovamento avvenne poco prima della comparsa dell’opera nel magazzino di Elio Jandolo alle pendici del
Campidoglio.86)
Il grande valore non solo artistico, ma anche simbolico, di una tale scultura, originale greco di età classica, prodotta da un’officina insulare e probabilmente
giunta a Roma come bottino di guerra o come frutto
di spoliazione, trova la sua naturale collocazione in
un’area di straordinario prestigio come quella degli
horti di Cesare a Trastevere.
7
7
a
Il terzo leone greco si trova nel Museo Archeologico
di Firenze87) (figg. 7 a–b, 8).
Si tratta di una statua a grandezza naturale che ha
perduto, nel corso dei secoli, tutte e quattro le
zampe:88) dalla posizione della figura si può, tuttavia,
ricostruire l’atteggiamento originale dell’animale
appena abbassato sulle zampe anteriori e sollevato su
quelle posteriori: la testa è lievemente volta a sinistra.
Il corpo mostra una muscolatura ben delineata, che
evidenzia i fasci muscolari all’altezza della spalla e
all’attaccatura delle zampe posteriori. Nella parte
mediana del corpo sono sottolineate le costole spor-
8
genti che segnalano la tensione interna della figura.
La lettura dei lineamenti del muso è in parte inficiata
dal notevole grado di dilavamento e di consunzione
che hanno interessato la scultura, evidentemente
esposta all’aperto per lunghi periodi, e probabilmente
anche da qualche tentativo di rilavorazione, tesa a sottolineare e a “ravvivare” alcuni dettagli attutiti dal
precario stato di conservazione delle superfici. Il
muso è tondeggiante, caratterizzato da evidenti bozze
frontali; gli occhi infossati, quasi umani, con pupilla
segnata. Le fauci sono aperte e la lingua, ora poco
visibile, doveva essere portata in fuori come negli altri
esemplari. Le orecchie sono piccole, tondeggianti,
aderenti al cranio, segnate da solchi di trapano. La
7
a–b –
FIRENZE, MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE – STATUA DI
LEONE IN MARMO: FIANCO SINISTRO E PARTICOLARE DELLA
TESTA
8
–
(foto Museo)
7b
8
DISEGNO RICOSTRUTTIVO DEL LEONE DEL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI FIRENZE
(da M. MERTENS–HORN, Studien zu griechischen Löwenbildern,
in RM, 93, 1986, p. 16, fig. 4)
9
–
PHILADELPHIA, ROSENBACH MUSEUM & LIBRARY – GIROLAMO DA CARPI, ROSENBACH ALBUM., R 137:
LEONE DALLA COLLEZIONE DEL BUFALO (DISEGNO)
(foto Rosenbach Museum & Library)
criniera è formata da una prima fila di ciocche regolari e ordinate intorno al muso, mentre sul collo e su
una parte del dorso, lungo la spina dorsale, si dispone
in brevi ciocche ondulate e sovrapposte, più evidenti
sul lato sinistro, più sciatte e schiacciate sul destro.
Nell’insieme la belva ha perduto parte dell’aggressività caratteristica degli esemplari più antichi e, pur
mantenendo una certa tensione muscolare, mostra
una forza più tranquilla e contenuta, effetto accentuato dall’espressione quasi mesta del muso. La lieve
inclinazione della testa, insieme alla lavorazione più
accurata della criniera sul lato sinistro, inducono a
ritenere che questo fosse il lato privilegiato per la percezione della statua.
Il confronto stilistico con i gocciolatoti a testa di
leone del Partenone e del Tempio degli Ateniesi a
Delo, insieme all’uso del marmo pentelico, consente a
Madeleine Mertens–Horn di attribuire il leone a
un’officina attica dell’ultimo quarto del V secolo a.C.,
mentre l’esemplare più vicino è rappresentato da un
leone di Cirene,89) caratterizzato però da una più decisa torsione della testa.
Alla metà del XVI secolo il leone ora a Firenze faceva parte della collezione di antichità Del Bufalo:90)
Ulisse Aldroandi91) la vide tra il 1549 e il 1550 e la
descrisse nel giardino dell’abitazione a Fontana di
Trevi. Insieme ad essa l’erudito ferrarese segnala la
presenza di una statua di Cerbero:
«Nel giardinetto di questa casa si vede un grā Cerbero di
marmo con tre teste. Hanno finto i poeti che ne l’inferno è
un fiero cane con tre teste, e l’hanno chiamato Cerbero:
Dicono ancho, che quando Hercole scese vivo a l’inferno,
legò questo cane, si lo strascinò fuori nel nostro mondo. Qui
si vede ancho una tigre di marmo antica posta sopra una
basi moderna».
A quell’epoca la collezione Del Bufalo conobbe il
suo massimo splendore: mentre nelle sale del Palazzo
trovavano posto gallerie di ritratti di uomini illustri,
sistemati insieme ai simulacri di antichi dei, nella scenografica architettura verde del giardino venivano
ambientati statue di Muse e busti di personaggi celebri e si facevano rivivere statue di divinità ed episodi
del mito. Un’efficace descrizione della magnificenza
del giardino Del Bufalo si ritrova in Jean–Jacques
Boissard che, tra il 1555 e il 1561, ci accompagna in
una visita a casa del Bufalo, aggiungendo note significative sull’ambientazione delle sculture:
«In questo giardino si trova una fontana, costruita ad arte
con pietre marine nella forma di una rupe naturale, di tale
bellezza e di tanta ricchezza, e di una composizione così
rara, che non se ne può vedere di più belle. In diversi luoghi sono disposte conchiglie preziose che ricordano lo
splendore delle perle e grandi chiocciole indiane assai
splendenti con il colore dell’iride e delle perle. Tutta questa
rupe artificiosa è ricoperta in maniera mirabile con lauri,
cedri, tamerici e altre essenze, che proiettano la loro ombra
sulla fontana sottostante, e sotto le piante ci sono tre statue
elegantissime di Muse e l’imperatore Caracalla che mostra
un pallio in alabastro cotognino. Ovunque sono sistemati
busti che si affacciano dalle loro nicchie, di Demetrio, Massimino, Filippo, Claudio e altri. Dalla rupe sgorga una fonte
di acqua limpidissima che scorre attraverso tubi e canali di
bronzo con un mirabile artificio. C’è un pavimento elegantissimo di marmi, fatto come un mosaico commesso di
marmo calcedonio, porfido, alabastro, tasio, pario, ofite, di
pietra africana ed etiopica, opera degna della massima
ammirazione …».92)
La raccolta rappresenta l’esito di un raffinato collezionismo di sculture antiche e una partecipe reminiscenza della grandezza passata, ma anche l’immagine,
dalla forte valenza ideologica, del prestigio e della
cultura dei proprietari.
Non solo eruditi e viaggiatori ci hanno tramandato
queste preziose testimonianze sul collezionismo romano del XVI secolo, ma artisti e disegnatori si sono
cimentati nello studio e nella riproduzione dei nobilia
opera lasciatici in eredità dal mondo antico, come
9
modelli di bellezza classica da cui trarre ispirazione. E
così il leone Del Bufalo compare nel taccuino di Girolamo da Carpi93) (fig. 9), databile tra il 1549 e il 1553,
completo delle zampe ora mancanti, insieme a una
statua di musa, con la dicitura «in casa del bufalo».
Alcuni anni dopo, tra il 1572 e il 1577, il francese
Pierre Jacques94) disegna molte delle sculture della
medesima collezione, tramandando l’immagine delle
opere che più impressionarono gli artisti cinquecenteschi: in particolare la statua di leone è rappresentata in
tre magnifici disegni (figg. 10–12) che ne restituiscono
la visione posteriore, quella del fianco destro e quella,
parziale, del lato sinistro. La figura, anche in questo
caso, appare integra, poggiata su una base marmorea
quadrangolare e con un globo tra le zampe anteriori.
Poco dopo la metà del XVI secolo cominciò la diaspora delle opere Del Bufalo. Una parte delle sculture fu
venduta nel 1562, per la somma di 1575 scudi, al cardinal Alessandro Farnese: tra queste la statua di Atlante
che regge il globo, il puteale che gli faceva da base e il
barbaro inginocchiato ora, con la collezione Farnese, nel
Museo Archeologico Nazionale di Napoli.95)
PARIS, BIBLIOTHÉQUE NATIONALE DE FRANCE – PIERRE JACQUES,
ALBUM: STATUA DI LEONE IN COLLEZIONE DEL BUFALO
10
11
10
10
– FOL. 79 – PARTICOLARE DELLA PARTE ANTERIORE (DISEGNO)
– FOL. 78v – VEDUTA DEL FIANCO DESTRO (DISEGNO)
(foto Biblioteca)
12 – PARIS, BIBLIOTHÉQUE NATIONALE DE FRANCE
PIERRE JACQUES, ALBUM, FOL. 78: STATUE DI LEONE E CERBERO IN COLLEZIONE DEL BUFALO (DISEGNO)
(foto Biblioteca)
Un’altra vendita del 1572, che sancì la definitiva
dispersione del principale nucleo della raccolta, vide
l’acquisto di 11 sculture, per 155 scudi, da parte del
Cardinale Ippolito d’Este:96) di questo gruppo fanno
parte sia il leone che il Cerbero (figg. 12 e 13). In
realtà nella Memoria delle statue et antiquità che sono
restate doppo la morte dell’Ill.mo S. Car. di Ferrara
[avvenuta il 2 dicembre 1572 ] appresso diverse persone,
allegata all’inventario delle Statue esistenti nella Villa
di Monte Cavallo (15 luglio 1568)97) si legge:
«… nel giardino di Paulo del Bufalo vi sono 4 statue al naturale con le sue teste antiche, et un Leone di naturale, et un
Cerbero con tre teste di forma colossa, quali sono pagate».
Quindi, nonostante l’avvenuto acquisto da parte di
Ippolito d’Este, a causa della morte del cardinale, le
statue non furono trasferite nella villa del Quirinale,
ma rimasero nel giardino Del Bufalo almeno fino al
luglio 157598) — quando le vide e le disegnò Pierre
Jacques — per poi ricomparire, alcuni anni più tardi,
nell’inventario di Villa Medici.99) È estremamente difficile stabilire se il leone a quel tempo fosse come
appare nei disegni, ossia se fosse stato trovato integro
negli scavi, oppure se sia stato oggetto di integrazioni
nell’ambito della collezione Del Bufalo (Aldroandi
scrive: «una tigre di marmo antica posta sopra una
basi moderna»100)), oppure ancora se il completamento
dell’opera sia dovuto alla sensibilità formale degli
artisti che l’hanno disegnata restituendole l’aspetto
originale. Certo nell’inventario di Villa Medici del
1588 il leone viene definito come mancante della
coda; quindi si può presumere che le zampe, originali
o di restauro, fossero ancora presenti. L’opera venne
trasferita a Firenze con le collezioni medicee e si trova
ora nel Museo Archeologico Nazionale di quella
città.101)
D’altra parte una situazione analoga va ipotizzata
anche per la statua di Cerbero, anch’essa presente nel
giardino Del Bufalo e segnalata nella descrizione di
Aldrovandi: nei disegni di Pierre Jacques appare correttamente completata da teste canine (figg. 12 e 13),
mentre allo stato attuale102) presenta integrazioni diverse che la trasformano in Chimera. Lo stato frammentario dell’opera viene segnalato nei vari inventari di Villa
Medici, finché nel 1774 viene definita «pezzo di rottame colossale di chimera scolpita in marmo di cui la sola
pietra è servibile» e risulta ricoverata nella rimessa
detta “il Capannone”.103) Successivamente l’opera, già
nella sua nuova veste di Chimera, venne trasferita nel
giardino di Villa Albani dove compare nella descrizione
della villa del 1785104) e dove si trova tuttora.
11
13
–
PARIS, BIBLIOTHÉQUE NATIONALE DE FRANCE
–
PIERRE JACQUES, ALBUM, FOL. 77v: STATUA DI CERBERO (DISEGNO)
(foto Biblioteca)
Le due sculture — il leone e il Cerbero — che
hanno seguito i medesimi percorsi collezionistici fino
alla definitiva separazione nel ’700, furono rinvenute
insieme sull’Esquilino.105) Pirro Ligorio, impressionato
dalle dimensioni e dalla qualità delle opere, torna più
volte a narrare del loro ritrovamento nelle “terme di
Filippo” nei pressi della chiesa di San Matteo in
Merulana. Vale la pena di riportare i diversi passi di
Ligorio per tentare di individuare con precisione il
luogo di ritrovamento:
«THERME DI PHILIPPO, sono quelle che Philippo Imperatore fece allato et vicino alla parte orientale delle Therme
Thraiane [sic!] anchor esse superbe, poste sopra al colmo
dell’Esquilie alquanto piu alte che non erano situate le
Traiane: in cui furono le imagini dell’Laocoonte et de suoi
figliuoli di marmo locate hora nel Vaticano nel luogo chiamato Belvedere, nelle dilitie degli giardini delli Sommi et
Santi Pontefici, opera bellisima, et confinano, colla Via
nuova tra le Traiane Therme et quella di San Matthaeo in
Merulana, ove erano animali grandissimi di marmo che gittavano acqua per le bocche, come Cani Molossi, Laene,
Leoni, Cerberi, et Elephanti, de quali havemo veduti i
vestiggi. et vi fu’ trovata questa inscrittione rouinata et
imperfetta nell’acquedotto di piombo
L.RUBRIUS.GETA.CUR.P.CCCXXIII.
D.N.PHILIPPI.AUG.THERM».106)
La stessa iscrizione è riportata anche in un manoscritto napoletano di Ligorio,107) con questo commento:
12
«nel monte Esquilino, verso la chiesa di S. Matteo et la vigna
di Mr. Francesco di Norcia medico…, overo subito passata la
conserva over piscina limaria che ora si dice le sette sale».
«Terme di Filippo erano pure nell’Esquilie, nella terza regione
d’Iside e di Serapide e di Moneta, le quali erano infra le terme
Traianiane e gli orti che furono anticamente di Maecenate,
ove sono stati trovati tipo alcuni animali di marmo grandi che
per le bocche gittavano largo fonte già dell’acqua Iulia Tepula,
come leoni e iaene e cani molossi e Cerbero tricipite cane di
Iove Serapide stygio. Vi furono trovate le imagini del Laocoonte colli figliuoli di due pezzi, le quali sono locate in Vaticano nel giardino de’ pontefici, d’opera ammirabile, se bene
esse siano minore di grandezza di quella eccellenza ch’erano
quelle delle terme di Tito Vespasiano, del quale avemo veduti
i piedi, le ginochia et i pezzi delli dragoni di grandezza e di
eccellenza molto superiori a queste delle terme di Filippo».108)
«Avendo edificate le sue Terme nell’Esquilie di là delle
Terme Traiane ove dedicò molte statue e fece de’ fonti nelle
piazze d’esse terme con animali che versavano delle acque
vive, vi fece un gran cerbero cane di Sarapide con tre teste
di leone, di lupo e di cane, in altro pose leoni, in altri tigri e
simplici cani, de’ quali avemo veduti trovare nelle sue rovine
e raccolti da Stephano Buphali nobilissimo romano. Nelle
medesime therme furono trovate quelle tre figure di due
pezzi di Laocoonte e di suoi figliuoli, intrigati e dannati dai
serpenti e dragoni di Minerva, locati in Belvedere …».109)
«Cerbero[...]. La cui figura in Roma si vede molto grande di
marmo in casa de’ Bufali al Fonte di Trevi, la quale è antica
cosa dell’ornamenti e fonte delle terme de Filippo imperatore, ch’erano nell’Esquilie. Cerbero, dice Apollodoro nel
secondo libro della Theogonia, è cane con tre teste canine e
colla coda di dracone»110)
«alcuni imagini d’animali che servivano per fonti, di grandissima statura tra (cui) un Cerbero, o pure cane di Serapide, con tre teste, et una leonza della medesima grandezza,
hora si serbano nella casa di M. Stephano del Bufalo gintilhuomo Romano. Il terzo animale era un cane molosso che
è nella vigna di M. Francesco da Norcia Medico»111)
«HORTI MAECENATIS CVM TVRRIS, Furono vicini al
Campo Esquilino, nel piano del colle, et nel piu alto sito,
ove fu una superba Torre come hauemo posto nel disegno
della Roma gia stampata, che ha insegnato ad’ogni uno di
riconoscere le antichita et i luoghi, et nel cui sito fu trovata
memoria di Maecenate, et vi è la vigna di molti e tra esse
vigne vi è quella di M. Francesco da Norcia Medico da
Signori. la chiesa san Iuliano, infra questa chiesa e quella di
san Matheo in Merulana, et confinaua circa alle Therme di
Philippo imperatore e confinanti alli horti colla Regione
d’Iside e di Serapide comprendeva molto spatio …».112)
14
–
Le cosiddette Terme di Filippo sembrano essere il
frutto di una dotta ricostruzione antiquaria, basata
sulla lettura dell’iscrizione sopra riportata, giudicata
falsa.113) Ma la suggestione derivata dal testo dell’iscrizione, che sarebbe stata letta su una fistula plumbea,
porta addirittura, da parte degli eruditi rinascimentali, a interpolare le Terme di Filippo negli elenchi dei
Cataloghi Regionari relativi alla Regio III, dopo le
Terme di Tito e quelle di Traiano.114) Da allora le
Terme di Filippo entrano a tutti gli effetti nelle descrizioni della topografia antica di questa zona dell’Esquilino.115)
Le indicazioni ligoriane (fig. 14) consentono, comunque, di collocare il ritrovamento delle statue di animali
in un’area piuttosto precisa e circoscritta: innanzitutto
c’è l’indicazione della chiesa di San Matteo in Merulana, la cui posizione, riportata nella pianta del Nolli (cfr.
fig. 16), è ben nota (la chiesa, oggi scomparsa, fu devastata dall’esercito napoleonico, insieme al vicino monastero agostiniano, nel 1798). Molti antiquari descrivo-
PIRRO LIGORIO: PIANTA DI ROMA (1552), PARTICOLARE CON L’AREA DELLE TERME DI FILIPPO
(da AIMÉ–PIERRE FRUTAZ, Le piante di Roma, II, Roma 1962, tav. 222)
13
re le pendici della collina verso la valle della via
Merulana, oppure verso quella di via Labicana, a
seconda dell’orientamento. Una struttura analoga, ma
di dimensioni molto maggiori, si trova più a sud e a
una quota più bassa: si tratta di 18 arcate in reticolato
e laterizio che si sviluppano per una lunghezza di più
di cento metri lungo via Pasquale Villari e che sono
state messe in relazione con il santuario delle divinità
egizie che si trovava più a monte.123) La scoperta dei
resti del santuario isiaco, insieme a quella di un imponente apparato scultoreo,124) è segnalata da G. P. Bellori che parla di un «sacello della Dea Iside scoperto
l’anno 1654 in un horto sotto ‘l monte Celio presso la
chiesa di S. Pietro e Marcellino»125) e da Pier Santi
Bartoli nelle sue Memorie:
15
–
VEDUTA DELLE
“VESTIGIE DELLE TERME
NELL’ESQUILINO”
DELL’IMP. FILIPPO
(da R. VENUTI, Accurata e succinta descrizione topografica
delle antichità di Roma, I, Roma 1763, tav. 55)
no, nei pressi della chiesa, resti di strutture antiche;116)
altri, in tempi più recenti, specificano che le murature
erano in opera reticolata, avanzando dubbi sulla possibilità di attribuirle all’epoca di Filippo l’Arabo, l’imperatore che avrebbe costruito le terme.117) Resti di opera
reticolata sono peraltro segnalati, nei pressi del sito
della chiesa di San Matteo, ancora nel 1873, in un rapporto di scavo di Angelo Pellegrini:
«Dietro i pochi resti di mura che esistono in una vigna situata incontro al luogo dove stava la chiesa di S. Matteo in
Merulana […]; a nord di questi avanzi creduti delle terme
dell’imperator Filippo, e di costruzione reticolata, sull’alto
dell’Esquilino …».118)
Nei pressi della chiesa di San Matteo la Storia degli
Scavi di Rodolfo Lanciani segnala la concessione di
diverse licenze di scavo, che potrebbero essere state
occasione dei rinvenimenti delle sculture: la prima,
nel 1510, quando Adriana de Saladini concede a
Girolamo de’ Rossi il permesso di cavare nella sua
vigna positam ante ecclesiam sancti Mathei in Merulana;119) una seconda del 10 maggio 1568, è rilasciata
dai Padri agostiniani di San Matteo ad Andrea del
Fonte, per scavare nell’area del monastero, del convento e dell’orto annesso:120) ma a quell’epoca le
opere che ci interessano erano già state viste e descritte nel giardino Del Bufalo da Aldroandi (a Roma tra il
1549 e il 1550; la pubblicazione è del 1556), e quindi
la data della scoperta deve essere precedente.
Una serie di ambienti voltati compare, con l’indicazione «Terme dell’Imp.e Filippo nell’Esquilino», nella
Descrizione topografica di Ridolfino Venuti del 1763121)
(fig. 15). Se le arcate che compaiono nell’incisione
corrispondono effettivamente ai resti visti nel ’500 —
e anche successivamente — nei pressi della chiesa di
San Matteo,122) si potrebbe trattare delle strutture di
sostegno di un terrazzamento destinato a regolarizza-
14
«Più oltre, dalla parte di dietro SS. Pietro e Marcellino, quasi
nel medesimo tempo fu trovato nel cavarsi un tempio egizio
le figure del quale furono fatte disegnare dalla gloriosa
memoria del Cavalier Cassiano del Pozzo, mecenate de’ suoi
tempi».126)
Il “sacello” pare sia stato distrutto poco dopo il ritrovamento,127) ma i disegni rintracciati da Mariette de
Vos128) nel Museum Chartaceum di Cassiano del Pozzo
conservato a Windsor Castle, confermerebbero il carattere egittizzante delle decorazioni e la loro pertinenza
alla struttura di via Villari.129) La questione è molto
controversa, sia per la scarsità delle fonti letterarie sul
santuario isiaco della III Regione augustea, sia per la
difficoltà di interpretazione delle strutture e delle
opere ritrovate in “esplorazioni archeologiche” poco
documentate dei secoli scorsi. Gli scavi ottocenteschi
hanno poi messo in luce un grande portico con piscina
centrale da subito attribuito dagli scavatori al santuario isiaco,130) mentre un gran numero di sculture venivano ritrovate in pezzi, riutilizzate come materiale da
costruzione, in un muro medioevale scoperto nell’area
tra la via Labicana e l’attuale via Verri.131) La grande
congerie di frammenti scultorei recuperata dalla
demolizione del muro, tra i quali almeno 20 teste, può
essere attribuita in parte all’ambiente artistico egizio
e/o egittizzante e quindi verosimilmente alla decorazione scultorea del santuario isiaco che diede il nome
alla III Regio augustea, ma ne fanno parte anche pregevoli copie di originali greci per le quali si può ipotizzare una diversa provenienza.132)
D’altra parte il fenomeno dei muri tardo antichi o
alto medievali costruiti con frammenti di sculture,
assai diffuso sull’Esquilino e sul Celio e largamente
verificato nel corso degli scavi ottocenteschi, pur non
avendo trovato una spiegazione univoca, deve essere
stato alimentato da materiali disponibili in aree non
troppo distanti.133) Particolarmente significativa, a questo proposito, la vicenda del ritrovamento dei frammenti della statua del bue Api in granodiorite di
Assuan, denominata “Torello Brancaccio”: un primo
frammento fu trovato nel 1886134) nei terreni Field
Brancaccio, in corrispondenza dell’attuale via dello
Statuto; altri pezzi (che consentirono la ricostruzione
quasi completa della statua135)) furono rinvenuti anni
dopo, insieme ad altri frammenti di sculture, in un
16
–
GIOVANBATTISTA NOLLI: PIANTA DI ROMA (1748), PARTICOLARE
(da FRUTAZ, Le piante di Roma, cit., III, tav. 408)
In giallo l’area della chiesa di San Matteo.
muro nell’area del convento delle suore di Cluny136) tra
via Mecenate e via Angelo Poliziano. Un frammento
del Torello, sfuggito alla ricomposizione, ma sicuramente proveniente dallo stesso contesto, fa parte delle
collezioni del Museo Barracco.137) La statua, che rappresenta il toro Api gradiente con disco solare e ureo
sul capo, per le dimensioni e la preziosità del materiale, può essere interpretata come immagine di culto del
dio venerato nel santuario di Memphis: come datazione è stata proposta la media età tolemaica (II secolo
a.C.).
Tornando alle notizie ligoriane, per la localizzazione delle Terme di Filippo ricorrono costantemente,
come riferimento topografico, le Terme di Traiano e
la cisterna delle Sette Sale, situate a occidente.138) Tra
le proprietà dell’area ai suoi tempi, Ligorio cita invece
la vigna del medico Francesco da Norcia: si tratta dei
possedimenti di Francesco Fusconi — medico dei
papi, proprietario di una vigna presso San Matteo già
dal 1536 — che furono ereditati dal nipote Adriano
Fusconi, vescovo di Aquino. Alla fine del ’500 i terreni, attraverso passaggi all’interno della stessa famiglia, risultano nel possesso della famiglia Pighini, e
con questo nome compaiono nella pianta del Nolli
del 1748 (fig. 16), immediatamente a nord della chiesa di San Matteo, tagliati in due dal passaggio della
nuova via Merulana completata nel 1575.139)
Nella stessa vigna Fusconi alcuni antiquari140) collocano il ritrovamento della celeberrima statua del
Meleagro dei Musei Vaticani, scoperta prima del 1546
e poi passata, come la vigna, nei beni della famiglia
Pighini. Alla stessa famiglia Fusconi–Pighini, alla loro
vigna presso San Matteo e poi alla loro collezione conservata nel Palazzo in platea Farnensium, si può ricondurre anche un terzo animale della serie di quelli
descritti da Ligorio come rinvenuti nell’area delle
Terme di Filippo: si tratta di un cane molosso,141) ora
ai Musei Vaticani,142) ma presente nell’inventario delle
sculture di Adriano Fusconi, in data 6 settembre 1593:
«Un cane grande intiero assetato (sic)» (seduto, traduce Lanciani).143)
E così il bestiario di Ligorio è quasi completo:
abbiamo il leone, il Cerbero, e ora anche il cane
molosso. Certo la notevole coincidenza delle notizie
relative al luogo di ritrovamento delle due opere
(Meleagro e cane) e alle loro vicende collezionistiche
(Vigna Fusconi–Palazzo Pighini–Musei Vaticani) farebbero propendere per la controversa provenienza del
Meleagro dalla zona che ci interessa.144)
Ma il ritrovamento senz’altro più sensazionale effettuato nella zona è quello della statua di Laocoonte,
scoperto il 14 gennaio 1506 nella vigna di Felice de
Fredis
«in una camera antiquissima subterranea bellissima pavimentata et incrustata mirifice et haveva murato lo usso»,
come risulta dalla notissima lettera con la quale Giovanni Sabadino degli Arienti informa Isabella d’Este della
scoperta.145) Una recente fortunata ricerca che ha com-
15
17
–
PIANTA DELLE STRUTTURE ANTICHE SCOPERTE SULLE PENDICI DEL COLLE OPPIO
(da R. VOLPE, A. PARISI, Alla ricerca di una scoperta: Felice de Fredis e il luogo di ritrovamento del Laocoonte, in BCom, CX, 2009, p. 103, fig. 19)
portato lo spoglio capillare dei documenti d’archivio,
ha permesso di stabilire l’esatta collocazione della vigna
de Fredis e quindi il luogo preciso del ritrovamento del
Laocoonte, ma anche i vari passaggi di proprietà che
portarono a far confluire il terreno individuato nei possedimenti delle famiglie Fusconi e poi Pighini. In particolare, la scoperta della celeberrima statua è stata messa
in relazione con la costruzione di quell’edificio a forma
di L che nella pianta del Nolli compare giusto ad est
delle Sette Sale, ed è ancora esistente all’interno dell’Istituto San Giuseppe di Cluny. 146)
16
L’area interessata comprende un limitato settore
dell’Esquilino, a cavallo del tracciato delle Mura
cosiddette Serviane, diviso tra la III e la V Regione
augustea (fig. 17): è la pendice del colle che prospetta
verso la via Labicana, limitata a est dalla valle percorsa dal tracciato della via Merulana (sia antica che
moderna). Si tratta delle propaggini meridionali degli
horti di Mecenate, che lambiscono l’area del santuario
delle divinità egizie:147) si può forse ricostruire una
scenografica disposizione del terreno a terrazze
secondo i dettami dell’architettura ellenistica. La crea-
zione degli horti di Mecenate, la cui cronologia è fissata agli anni 30 del I secolo a.C., deve quindi aver
tenuto conto delle preesistenze presenti nell’area, ed
in particolare dell’Iseo148) e del santuario repubblicano di Minerva Medica,149) la cui stipe, ricca di oggetti
votivi, fu rinvenuta vicino all’angolo nord–orientale
del grande portico con piscina centrale.
Un edificio in opera reticolata,150) situato appena
più a nord, lungo l’attuale via Poliziano, può rappresentare, in questa zona, un’attestazione della prima
fase edilizia degli horti di Mecenate.
Un’area, questa, di particolare pregio, a giudicare
dall’importanza dell’arredo scultoreo rinvenuto nei
secoli: basti pensare al gruppo di Laocoonte e alla statua di Meleagro, ma anche a tutti i frammenti di sculture reimpiegati come materiale da costruzione151)
che, collocabili in epoche diverse, illustrano una continuità di vita e di “impegno decorativo” diacronicamente distribuito nell’ambito delle varie fasi edilizie
riscontrabili sul terreno e ricostruibili con l’aiuto delle
fonti letterarie.
All’apparato decorativo degli horti possono così fare
riferimento anche alcune delle statue di animali, trovate presso le “terme di Filippo”, che tanto impressionarono Pirro Ligorio. Il leone greco e il cane molosso,
che l’erudito cinquecentesco immaginava come elementi di una fontana monumentale152) tra schizzi e
giochi d’acqua, possono ben inserirsi all’interno dell’ampia area a verde che caratterizzava l’impianto
degli horti, dove potevano essere considerati semplici
elementi naturalistici nel suggestivo allestimento paesaggistico di un paradeisos artificiale, oppure assumere
la funzione di custodi del giardino.153) Del resto, un’altra monumentale statua di cane, ricavata nella rarissima «serpentina moschinata» di origine egiziana, fu
rinvenuta nel 1877 non lontano dall’Auditorium di
Mecenate, nei pressi di una grande struttura absidata
decorata da nicchie.154)
Diversa invece potrebbe essere la provenienza della
statua del Cerbero tricipite, che Ligorio lega a quelle
degli altri animali: la connessione di Cerbero con
Serapide, cui è spesso associato nell’iconografia della
divinità creata nell’Egitto tolemaico, porta a ritenere
che la statua, datata alla prima metà del II secolo
d.C., possa derivare dall’apparato scultoreo del santuario delle divinità egizie. Certo le notevoli misure
della scultura presuppongono l’esistenza di un gruppo statuario di dimensioni colossali, forse addirittura
una delle statue di culto del tempio.155)
Un passo di Strabone (XIII, 1, 19) testimonia che
Agrippa fece portare a Roma da Lampsaco, città della
Troade e ultimo centro costiero dell’Asia Minore toccato da Alessandro e dalle sue truppe prima della battaglia del Granico (maggio 334 a.C.), una statua di leone
caduto, opera di Lisippo, e lo fece porre nei pressi
delle terme che aveva costruito nel Campo Marzio, in
un boschetto situato tra lo stagnum e l’Euripo.
I 25 eteri macedoni morti nel primo assalto della
battaglia del Granico furono commemorati da un
gruppo bronzeo, molto celebrato nell’antichità, commissionato da Alessandro a Lisippo e collocato a
Dion;156) esso fu trasferito a Roma per il trionfo di
Quinto Cecilio Metello Macedonico nel 146 a.C. e
posto a decorazione della porticus che da lui prese il
nome nei pressi del Circo Flaminio, con un evidente
grande impatto evocativo e politico.157) Se dunque i
caduti macedoni furono celebrati in patria, in un santuario di Zeus, con un gruppo di enorme impegno
artistico e di straordinario valore celebrativo, il leone
caduto di Lampsaco — anch’esso affidato all’arte di
Lisippo — doveva ricordare, in terra d’Asia, l’eroica
condotta della battaglia da parte delle truppe scelte di
Alessandro.158) D’altra parte la caccia al leone159) era il
più nobile dei cimenti reali, una prova di eroismo cui
Alessandro e i suoi compagni si sottoponevano per
temprare le loro forze e il loro coraggio e prepararsi
alla guerra.160) Il leone rappresenta insieme la regalità, la potenza e l’eroismo e come tale viene adottato
nelle tombe degli eroi a manifestare, secondo un’antica tradizione, l’'aret¾ del defunto e il suo valore in
battaglia e insieme per vegliare sul monumento funebre: i leoni colossali di Cheronea,161) Amphipolis162) ed
Ecbatana,163) tutti legati a episodi o personaggi relativi
alla cerchia reale macedone, ne costituiscono un’importante testimonianza.
Agrippa quindi pose il leone caduto di Lampsaco
nell’area da lui monumentalizzata del Campo Marzio:
nella stessa area aveva collocato un’altra famosa statua
di Lisippo, l’Apoxyomenos.164) Secondo Strabone il
leone fu sistemato in un bosco, cioè in una sorta di
ambientazione naturalistica che doveva esaltare la natura ferina del soggetto, mentre la statua dell’atleta, come
tramandato da Plinio, era sistemata all’ingresso delle
terme, il luogo per eccellenza dedicato alle attività
sportive: un’adesione totale ai concetti di “appropriatezza” e di “decoro” che guidavano, secondo un’affermata corrente di studi,165) più del valore estetico l’inserimento di opere d’arte greche in contesti pubblici
romani. D’altra parte, lo stesso utilizzo di sculture trasferite a Roma dalla Grecia a decorazione di uno spazio
legato al nome del genero di Augusto, doveva accrescere il prestigio dei luoghi e trasmettere un messaggio di
propaganda politica per lo stesso Agrippa. In particolare, la scelta del leone di Lampsaco, evocativa delle
imprese di Alessandro, non doveva essere stata casuale
nel celebrare la virtus umana e militare di Agrippa,
definito ingenuus leo in una satira di Orazio.166)
Dal punto di vista della comunicazione politica e
sociale sottesa all’operazione di monumentalizzazione
del Campo Marzio,167) una famosa orazione di Agrippa, ricordata da Plinio, teorizzava in campo artistico il
primato del bene pubblico sul privato:
“Esiste infatti uno dei suoi magnifici discorsi, degno del più
grande dei cittadini, sulla necessità di rendere di pubblica
proprietà tutti i quadri e le statue, piuttosto che lasciarli in
esilio in qualche villa”.168)
Concetto questo puntualmente messo in pratica dal
suo testamento con il quale “alla sua morte lasciò al
popolo i suoi giardini e le terme che da lui prendono
17
il nome, così che essi potessero frequentarle senza
pagare”:169) una scelta che emula quella compiuta da
Cesare alcuni decenni prima.
“[Marcello] fece trasportare a Roma le cose preziose della
città, le statue, i quadri dei quali era ricca Siracusa, oggetti
considerati spoglie dei nemici e appartenenti al diritto di
guerra. Cominciò proprio da questo momento l’ammirazione per le cose greche e la sfrenatezza di spogliare dovunque
le cose sacre e profane”.170)
Così Livio, a proposito della presa di Siracusa ad
opera di Marco Claudio Marcello nel 212 a.C., e Polibio precisa:
“I Romani, tuttavia, quando trasferirono queste cose a Roma,
usarono quelle sottratte ai privati per accrescere lo splendore
delle residenze private, mentre quelle che appartenevano allo
stato furono destinate a ornare la città”.171)
Parole molto significative per interpretare un certo
atteggiamento del mondo romano nei confronti delle
opere d’arte greca che, con le conquiste dell’età
repubblicana, arrivarono numerose a Roma: la diversa
destinazione delle opere trafugate dipendeva dalla
natura delle opere stesse; i temi e i soggetti iconografici delle sculture, concepite per essere inserite in contesti pubblici, difficilmente potevano essere adattati
alla decorazione di una casa. Certo, il collezionismo di
prestigiose opere provenienti dalle terre di conquista
venne sentito come uno status symbol dalla classe
dominante romana, che lo volse a proprio vantaggio
nelle aspre lotte che caratterizzarono Roma negli ultimi due secoli della repubblica.
La casa diventa lo specchio della dignitas del proprietario e il possesso di beni di lusso e di collezioni
artistiche rappresenta una manifestazione del livello
sociale e del potere personale raggiunto dal singolo.
Per comprendere pienamente le rivoluzionarie modifiche subite dall’architettura privata in questo periodo, risulta fondamentale la lettura di un passo di
Vitruvio (de Arch., VI, 5, 2):
“Ma per i nobiles, che devono svolgere i loro uffici con citta-
dini e seguaci, e che rivestono importanti magistrature,
devono essere costruiti vestiboli regali, atri alti e peristili
amplissimi, con selve e passeggiate (ambulationes) in uno
stile che aggiunga lustro alla loro dignità; inoltre librerie,
gallerie di quadri e basiliche, eseguite con magnificenza
non inferiore a quella di edifici pubblici, poiché le loro case
sono spesso sede di riunioni su pubblici affari, nonché per
arbitrati privati.”
Lo stesso concetto espresso da Vitruvio per le domus
della nobiltà repubblicana può essere esteso anche agli
horti, fenomeno residenziale–urbanistico affermatosi a
Roma soprattutto a partire dall’ultimo secolo della
repubblica. Si tratta di grandi proprietà, immerse nel
verde, caratterizzate da una complessa struttura architettonica che, con l’andar del tempo, circondarono con
una corona di giardini il centro monumentale della
città. La loro natura ibrida di residenze urbane strutturate come ville suburbane ne fa, per il loro rapporto con
la natura e per la loro posizione periferica, dei centri di
potere e, insieme, rifugi dagli affari del foro e dalla
stressante contesa politica della vita pubblica. Come tali,
18
gli horti venivano concepiti, nella struttura architettonica e nell’arredo artistico, con la massima raffinatezza:
“Tra i divertimenti io metterei anche la costruzione di edifici fastosi, di passeggiate coperte, di bagni e specialmente i
dipinti, le statue, la passione che nutrì per le arti belle, la
mania di collezionare oggetti artistici a costo di enormi
spese. In esse profuse a rivoli le immense e favolose ricchezze che aveva accumulato durante le campagne di guerra:
ancor oggi, benché il tenore di vita sia migliorato, i giardini
di Lucullo sono considerati più sfarzosi di quelli imperiali.”
(PLUT., Luc., 39, 2).
Ma, nello stesso tempo, e secondo i dettami di
Vitruvio, tanta opulenza viene sfruttata nella contesa
politica: e quindi sappiamo che Pompeo, nel 61 a.C.,
appoggiando la candidatura
“di Afranio a console, distribuì del denaro alle tribù affinché
sostenessero il suo candidato. Il popolo si recò a prenderlo
nei giardini di Pompeo” (PLUT., Pomp., 44, 4).
Nei suoi horti trans Tiberim, come abbiamo visto,172)
Cesare offrì due banchetti pubblici per celebrare il
suo trionfo sulla Spagna: le splendide residenze dei
più potenti dei Romani venivano quindi aperte all’ingresso della plebs urbana — con la quale, evidentemente, si intendeva intessere un rapporto personalistico — e utilizzate come mezzi di propaganda.
È in questo quadro che va considerato l’inserimento
di originali greci nella decorazione scultorea degli
horti: è necessario però sottolineare qualche importante differenza. Per la prima opera di cui si è trattato
— la testa di leone dei Musei Capitolini — si è ipotizzata una provenienza dalla vigna Muti che insisteva
nell’area degli horti Sallustiani. Esili indizi attribuiscono a Cesare la fondazione di questi famosi giardini,
situati tra il Pincio e il Quirinale, che sarebbero stati
acquistati dallo storico Sallustio dopo il suo incarico
da propretore in Numidia. Alla sua morte la proprietà
fu ereditata dal nipote C. Sallustio Prisco per poi passare, in età giulio–claudia, nel demanio imperiale.
I ritrovamenti di sculture effettuati nell’area nel
corso dei secoli permettono di delineare un programma decorativo di altissimo prestigio e di rilevanza pubblica, tanto da far pensare a un progetto coerente e
studiato in modo da trasmettere un messaggio di grande impatto ideologico e politico. Negli horti Sallustiani
furono trovate, tra altre importanti sculture, le statue
dei Galati, interpretate da Coarelli173) come monumento celebrativo delle vittorie galliche di Cesare; un grande trofeo e statue di barbari inginocchiati, riferibili a
monumenti legati alla propaganda imperiale.174) E poi
preziosissimi originali greci,175) come l’acrolito e il
Trono Ludovisi, provenienti probabilmente dalla
Magna Grecia per decorare un santuario di Venere
Erycina inglobato all’interno della proprietà. Opera
originale greca — o magnogreca — è la statua di Nike
alata, raffigurata nell’attimo in cui si posa a terra, probabilmente acroterio di un edificio templare.176) Originale greco, e di straordinario valore evocativo, la statua
di Amazzone inginocchiata, parte integrante della
decorazione frontonale di età arcaica del tempio di
Apollo Daphnephoros ad Eretria; alla fase classica
della decorazione dello stesso tempio sono state attribuite le tre splendide statue di Niobidi trovate nell’area tra la fine dell’‘800 e i primi anni del secolo successivo. Particolarmente significativo che alla stessa fase
del tempio di Eretria — ma del lato opposto — siano
ricondotte le sculture, rappresentanti un’amazzonomachia, riutilizzate nel tempio di Apollo Sosiano nel circo
Flaminio.177) Un grande complesso scultoreo quindi,
asportato in blocco dal santuario della città euboica e
poi spartito tra due diverse destinazioni: un monumento pubblico, situato in un luogo assai sensibile
della città, dedicato da Caio Sosio ma rispondente al
programma urbanistico e di restaurazione religiosa di
Augusto e una residenza privata, seppure appartenente a personalità di altissimo prestigio, strettamente
legate alla figura del princeps.
Difficile risulta delineare un quadro convincente
dell’assetto architettonico e del programma decorativo degli horti di Cesare trans Tiberim, dai quali proviene, probabilmente, il leone oggi a New York: il quasi
assoluto silenzio delle fonti letterarie, le radicali trasformazioni dell’area già in età antica, la sporadicità
degli scavi e dei ritrovamenti, la dispersione dei materiali rinvenuti, rendono estremamente arduo farsi
un’idea dell’aspetto dei luoghi nella tarda repubblica.
Qualche indicazione di Suetonio aiuta però a comprendere l’atteggiamento di Cesare nei confronti
dell’architettura residenziale e del possesso di beni di
lusso: da una parte dice che distrusse dalle fondamenta una villa che aveva fatto costruire a Nemi, perché
non corrispondeva al suo gusto; dall’altra dipinge
Cesare come un appassionato e raffinato collezionista
di opere d’arte in expeditionibus tessellata et sectilia
pavimenta circumstulisse e … gemmas, toreumata, signa,
tabulas operis antiqui semper animosissime comparasse.178) Collezioni lasciate per testamento, con i suoi
horti, al popolo romano.179)
Diversa, rispetto a quella ricostruibile per i Sallustiani, la situazione degli horti dell’Esquilino, e in particolare degli horti di Mecenate, dai quali proviene la
statua di leone ora nel Museo Archeologico di Firenze.
Qui l’imponente apparato scultoreo ritrovato nel
corso dei secoli sembra dichiarare una connotazione
più privata e meno programmatica dal punto di vista
della comunicazione politica.
“(Mecenate) preferì l’ombra di una quercia, le cascate e
pochi iugeri di terra coperta da alberi da frutta; onorando
le Muse Pieridi e Febo nei suoi dolci giardini (in mollibus
hortis), si sedeva a chiacchierare tra il cinguettio degli uccelli” (el. in Maec. I, 33–36):
uno spazio, insomma, dedicato all’otium, che Augusto
aveva concesso a Mecenate per “vivere appartato nella
stessa Roma come in un soggiorno straniero” (TAC.,
Ann., 14, 53), dove lo stesso princeps si rifugiava quando aveva problemi di salute (SUET., Aug., 72, 4) e che
Tiberio scelse quando, al ritorno dall’esilio di Rodi
nel 2 d.C.,
“cambiò immediatamente abitazione, passando dalla casa di
Pompeo, alle Carine, ai giardini di Mecenate, sull’Esquilino;
e si abbandonò al più completo riposo, osservando solo i
suoi doveri privati e astenendosi da qualunque pubblico
incarico” (SUET., Tib., 15, 1).
Dagli horti sull’Esquilino provengono sculture di
straordinario valore180) che possono testimoniare un
impegno decorativo protrattosi nel tempo, soprattutto
nei diversi periodi in cui la proprietà — già ereditata
da Augusto — era entrata a far parte del demanio
imperiale. Alla fase iniziale della villa possono forse
essere ascritte le sculture neo–attiche come il rhyton di
Ponthios, il rilievo con Menade danzante, oppure la
grande tazza di fontana con decorazioni vegetali, oggi
tutte nei Musei Capitolini:181) opere ben inseribili nel
panorama di un giardino, nulla comunque che documenti un intento celebrativo o di adesione a un programma politico, se non una generica partecipazione
al clima dell’aurea aetas.
Anche la presenza nell’area di numerosi originali
greci assume un aspetto più “intimistico”, dal momento
che si tratta, nella quasi totalità, di stele sepolcrali. La
particolare concentrazione di opere funerarie, certo
significativa e degna di nota, ha fatto pensare a Malcom
Bell182) che Mecenate avesse voluto ricreare nei suoi
giardini all’Esquilino l’atmosfera del Ceramico di Atene,
trasferendo a Roma e disponendo all’interno dell’area a
verde alcuni notevoli esemplari dell’arte sepolcrale
greca.183) D’altra parte, come testimonia Orazio, Mecenate impiantò i suoi giardini a scapito di un antico
sepolcreto:
“Qui un tempo gli schiavi facevan portare in misere casse, a
pagamento, i cadaveri de’ loro compagni gettati fuori dalle
anguste celle; qui stavano i mendicanti in sepolcri comuni;
qui a Pantòlabo, il buffone, e a quello spendaccione di
Nomentano, (ed agl’altri come loro), un cippo assegnava
mille piedi in fronte (alla strada) e trecento piedi nei campi,
e gli eredi non potevan venderne il monumento. Ora è possibile abitare sull’Esquilino reso salubre, e si può passeggiare
sui bastioni soleggiati, ove prima si scorgeva un campo tristamente biancheggiante d’informi ossa”.184)
Si è voluto vedere, nella disposizione delle stele
all’interno degli horti, un devoto richiamo all’antica
necropoli seppellita sotto metri di terra, ma non
escluderei che si possa trattare piuttosto del segno di
un raffinato collezionismo di sculture, raccolte come
preziosi esemplari di arte greca.185)
Si tratta in particolare della stele della fanciulla con
colomba; di un’altra con figura femminile dal complesso abbigliamento; del rilievo di Villa Albani con
cavaliere che colpisce il nemico; di una stele attica a
due figure; di una con atleta ai Musei Vaticani, forse
proveniente da una vigna sull’Esquilino, presso San
Vito:186) opere di diversa origine, provenienza e cronologia, ma raccolte per essere esibite con nuove funzioni e significati nell’abitazione di un esponente della
classe dominante romana della tarda repubblica.
Una singolare forma di collezionismo, nota dalle
fonti,187) verificabile in altri contesti188) e giustificata
comunque dal diritto romano, perché
Sepulchra hostium religiosa nobis non sunt: ideoque lapides
inde sublatos in quemlibet usum convertere possumus: non
sepulchri violati actio competit.189)
19
A un analogo concetto di collezionismo si possono
riferire anche i leoni marmorei dei quali abbiamo
trattato: sottratti forse da tombe di eroi greci, dei
quali stavano a segnalare la forza e il valore, e trasferiti all’interno di rigogliosi giardini, nelle silvae prescritte da Vitruvio per le case dei nobili, a far parte —
non diversamente dall’esemplare di Lampsaco sistemato in un ombroso boschetto — di un artificioso
paesaggio naturale popolato da animali selvatici. Un
colto richiamo ai paradeisoi di origine orientale,190)
mutuati attraverso il mondo ellenistico e reinterpretati a Roma con un nuovo sentimento della natura, i cui
echi si ritrovano nella pittura di paesaggio e di giardino e nelle trasposizioni fantastiche sulle pareti delle
case pompeiane.191)
ABBREVIAZIONI
PARTICOLARI
ALDROANDI 1556 = Delle statue antiche che per tutta Roma,
in diversi luoghi e case particolari si veggono, raccolte e
descritte per M. Ulisse Aldroandi, opera non fatta più mai
da scrittore alcuno, in Le antichità de la città di Roma.
Breuissimamente raccolte da chiunque ne ha scritto, ò
antico ò moderno: per Lucio Mauro, che ha uoluto particularmente tutti questi luoghi uedere: onde ha corretti
molti errori, che ne gli altri scrittori di queste Antichità si
leggono, Venezia 1556.
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di Roma, voll. 1–30.
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Roma, e nei luoghi suburbani vivente Pietro Santi Bartoli, in C. FEA, Miscellanea filologica critica e antiquaria,
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in diversi luoghi della città di Roma, in F. NARDINI, Roma
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VISCONTI 1860 = C. L. VISCONTI, Escavazioni nella villa
Bonelli fuori Porta Portese negli anni 1859–1860, in
AnnInst, 1860, pp. 415–450.
VISCONTI, LANCIANI 1884 = C. L. VISCONTI, R. LANCIANI, Il
busto di Anacreonte scoperto negli orti di Cesare, in
BCom, XII, 1884, pp. 25–38.
1) MERTENS–HORN 1986.
2) Musei Capitolini, Centrale Montemartini, inv. 1575.
Marmo pentelico. H. cm 28, largh. cm 34, prof. cm 24.
3) The Athenian Agora XI. E. HARRISON, Archaic and
Archaistic Sculpture, Princeton 1965, p. 28, n. 91, tav. 12.
4) MERTENS–HORN 1986, pp. 1–6.
5) E. TALAMO, Testa di leone, in M. CIMA (a cura di),
Restauri nei Musei Capitolini, Venezia 1995, pp. 78–80; C.
GASPARRI, Winckelmann e i marmi greci di Villa Albani, in
E. DEBENEDETTI (a cura di), Collezionisti, disegnatori e teorici dal Barocco al Neoclassico, I, Roma 2009, p. 180, nota 29.
Ora la scultura si trova nei magazzini della Centrale Montemartini.
6) S. BOCCONI, Antiquarium Comunale, Roma 1923, p. 8.
7) H. STUART JONES, A Catalogue of the Ancient Sculptures preserved in the Municipal Collections of Rome. The
Sculptures of the Palazzo dei Conservatori, Oxford 1926, p.
XIX.
8) MERTENS–HORN 1986, p. 1.
9) F. MATZ, F. VON DUHN, Antike Bildwerke in Rom, I,
Leipzig 1881, p. 463, n. 1621.
10) I. MIARELLI MARIANI, C. VIGGIANI, La decorazione
secentesca, le collezioni e il fregio Dughet, in R. DI PAOLA (a
cura di), Palazzo Muti Bussi all’Ara Coeli, Roma 2006, pp.
129–155.
11) Definito il più antico inventario conosciuto del Palazzo: ibidem, p. 137.
12) BARTOLI, Memorie, p. CCXXXIII, n. 45.
13) Inv. 515.
14) BARTOLI, Memorie, p. CCXXXIII, n. 45.
15) La prima fase di costruzione del Palazzo all’Aracoeli,
su progetto di Giacomo della Porta, si concluse nel 1587. C.
CONFORTI, L’architettura, in DI PAOLA, Palazzo Muti Bussi
…, cit. in nota 10, pp. 85–128. Per i lavori del 1643, cfr.
LANCIANI, Storia V, p. 145.
16) VACCA, Mem., n. 7: segue un divertente racconto sulla
ricerca da parte di Orazio Muti del tesoro perduto, nella
quale venne coinvolto Michelangelo che fu addirittura
incarcerato (ma subito liberato) come colpevole del misfatto. Muti inseguì il “tesoro” fino a Venezia, dove scoprì che il
vignarolo aveva venduto il tesoro alla Signoria della città: se
ne dovette tornare a casa con l’unica consolazione del rimborso spese.
17) «Mi ricordo, che fu trovato nella vigna del Sig. Orazio
Muti, dove fu trovato il tesoro incontro a S. Vitale un Idolo
di marmo alto da cinque palmi il quale stava in piedi sopra
un piedistallo in una stanza vota con la porta rimurata, ed
aveva molti lucernini di terra cotta intorno, che circondavano col becco verso l’Idolo, il quale aveva la testa di leone, e
il resto come un corpo umano: aveva sotto li piedi una palla
dove nasceva un serpe, il quale cerchiava tutto l’Idolo, e poi
con la testa gli entrava in bocca, si teneva le mani sopra il
petto; in ciascuna teneva una chiave; ed aveva quattro ale
attaccate agli omeri, due volte verso il Cielo, e l’altre chinate
verso la terra. Io non l’ho per opera molto antica, per essere
fatto da goffo maestro, ovvero è tanto antica, che quando fu
fatta, ancora non era trovata la buona maniera».
18) VACCA, Mem., n. 27.
19) F. HASKELL, N. PENNY, Taste and the Antique, New
Haven–London 1981, p. 307 (Sileno), p. 315. Il terminus
ante quem del ritrovamento è dato da una lettera del cardi-
nal Ferdinando de’ Medici a Carlo Muti, datata 18 settembre 1569, ove lo ringrazia del permesso di realizzare un
calco della statua di Sileno.
20) L’opera risulta ancora nella collezione Muti in un’incisione pubblicata da G. B. CAVALIERI, Antiquarum Statuarum
Urbis Romae tertius et quartus liber, Romae 1594, alla tav.
75.
21) Le opere compaiono in S. FRANCUCCI, Galleria dell’Illustris. e Reverendis. Signor Scipione Card. Borghese, Roma
1613, stanza 449. In realtà Orazio Muti, canonico lateranense, faceva da mediatore per la vendita di opere d’arte, anche
antiche, sul mercato antiquario: una notevole raccolta di statue, dipinti e oggetti fu venduta per suo tramite a Emanuele
Filiberto di Savoia a partire dal 1574. Cfr. A.M. BAVA, Arti
figurative e collezionismo alle corti di Emanuele Filiberto e
di Carlo Emanuele I, in G. RICUPERATI (a cura di), Storia di
Torino, III, Torino 1998, p. 315. Il suo ruolo di mercante
d’arte viene evidenziato anche da una sua lettera del 1578
al duca di Savoia, nella quale segnala che il mercato antiquario di Roma è monopolizzato dalla famiglia Boncompagni: LANCIANI, Storia, III, pp. 254 e 255; MIARELLI MARIANI,
VIGGIANI, art. cit. in nota 10, p. 134.
22) VACCA, Mem., n. 59, p. 26; la notizia è confermata da
un passo di Pirro Ligorio riportato da F. UBALDINO, Vita
Angeli Colotii episcopi nucerini, Roma 1673, p. 25, ove si
dice: Alio in loco reperta fuit imago Bacchi & Satyri, qui
puerulum brachiis complexi blanditiis mulcent: ea nunc servatur apud Mutos nobiles Romanos.
23) Esistono diverse versioni della pianta di Roma di
Bufalini: tutte riportano l’indicazione della vigna Muti. Cfr.
pure la pianta di Bufalini rielaborata da G. B. Nolli, qui
riprodotta alla fig. 4.
24) A. P. FRUTAZ, Le piante di Roma, II, Roma 1962, tav.
264.
25) R. LANCIANI, Il gruppo dei Niobidi nei giardini di
Sallustio, in BCom, XXXIV, 1906, pp. 161 e 162. Inoltre, in
un documento firmato da Flaminio Ponzio a seguito della
vendita, si legge: «Si è venduto il portone levato d’opera …
quale è un portone bellissimo di conci d’asprone e tever.no
con doi fin.re di tever.no una per banda, qual fu venduto
all’Ecc.mo Sig.r Duca Carlo Muti di Gloriosa Mem.a». Cfr.
L. MARCUCCI, Il Vignola, Francesco da Volterra e la committenza Caetani nella seconda metà del Cinquecento, in L. FIORANI (a cura di), Sermoneta e i Caetani. Dinamiche politiche,
sociali e culturali di un territorio tra medioevo ed età moderna, Roma 1999, p. 520.
Un altro documento («atto di compra di un terreno della
famiglia Muti, comprendente giardino, orto e un piccolo
bosco a 1600 scudi, ubicato presso i giardini sallustiani, sul
monte Quirinale, vicino al fonte dell’Acqua Felice e alla
chiesa di S. Susanna») testimonia la vendita, il 27 aprile
1607 da parte della famiglia Muti, di un terreno alla congregazione dei Carmelitani Scalzi, terreno dove sorgerà la
chiesa di Santa Maria della Vittoria. Cfr. M. CADARIO, “Ad
arricchire la Lombardia con uno de’ più preziosi avanzi
dell’Antichità”: il Tiberio colossale del Castellazzo degli
Arconti, in Archivio Storico Lombardo. Giornale della società
storica lombarda, CXXXIII, 2007, pp. 34 e 35. Se si tratta
della stessa vigna segnalata in pianta da Bufalini, si deve
pensare a un terreno di notevole estensione.
21
26) AST, vol. 15, f. 157v., F.
27) VACCA, Mem. 58.
28) Cod. Vat. Lat. 3439, f. 28; AST, vol. 15, f. 155.
29) R. LANCIANI, Venus hortorum Sallustianorum, in
BCom, XVI, 1888, pp. 3–11.
30) M. CASTELLI, Venus Erycina e Venus hortorum Sallustianorum, in Bollettino d’Arte, s. VI, 1988, 49, pp. 53–62
(con ampia bibliografia precedente); TALAMO 1998, pp.
127–129; HARTSWICK 2004, pp. 68–82.
31) VACCA, Mem., n. 58.
32) AST, vol. 15, f. 155r.
33) LANCIANI, FUR, tav. 3.
34) «Il Cardinale di Montepulciano comprò le Collonne
gialle, e ne fece fare la balaustra alla sua Capella in S. Pietro
Montorio: comprò ancora quelle di Alabastro, una delle
quali essendo intera la fece lustrare, e delle altre rotte ne
fece fare tavole, e con altre anticaglie le mando a donare al
Re di Portogallo; ma quando furono in alto Mare, l’impetuosa Fortuna, trovandosele in suo dominio, ne fece un presente al Mare»: VACCA, Mem. 58.
35) In un testo di Pirro Ligorio riportato da Ubaldino
(op. cit. in nota 22, p. 25) si dice «… Huic parti adiunctum
erat aedificium triclinium cubiculis undique cinctum continens, ut apparebat ex fundamentis, quae ad vineas plantandas funditus dirui vidimus». Gli scassi per l’impianto delle
vigne devono aver provocato la distruzione di molte delle
strutture degli horti.
36) L’indicazione del posizionamento della vigna Muti e
dei diversi passaggi di proprietà è già in A. NIBBY, Roma
nell’anno MDCCCXXXVIII, II, Roma 1839, p. 357; R.
LANCIANI, Ruins and Excavations of Ancient Rome, London
1897, p. 417.
37) R. LANCIANI, Quatre dessins de la collection Destailleur, in MEFRA, 1891, pp. 167–170, tav. II.
38) G. B. DE ROSSI, Note di ruderi e monumenti antichi
prese da G.B. Nolli nel delineare la pianta di Roma, conservate nell’Archivio Vaticano, in Studi e documenti di storia
del diritto, 4, 1883, pp. 153–184, in partic. pp. 156 e 157; S.
BORSI, Roma di Benedetto XIV. La pianta di Giovan Battista Nolli, 1748, Roma 1993, pp. 164–166.
39) TALAMO 1998, p. 125; HARTSWICK 2004, pp. 58–60; P.
INNOCENTI, M.C. LEOTTA, Horti Sallustiani. Le evidenze
archeologiche e la topografia, in BCom, CV, 2004, pp. 187–
195.
40) TALAMO 1998, p. 125, n. 51.
41) L. MARIANI, Di un’altra statua femminile vestita di
peplo, in BCom, XXIX, 1901, p. 71 e ss.; LANCIANI, Notes, n.
CXII, pp. 342 e 343.
42) TALAMO 1998, p. 149.
43) VACCA, Mem., n. 59.
44) Inv. 09.221.3. Marmo pario, h. cm 79.4; lungh. cm
161.3. MARSHALL 1910; RICHTER 1927, pp. 255 e 256, figg.
178 e 179. Si è scelta l’edizione del 1927 perché il volume è
presente nella biblioteca Pollak del Museo Barracco, con
note manoscritte dell’archeologo praghese. In questo caso
nella nota autografa di Pollak si legge: “kauft bei Elio Jan-
22
dolo”; RICHTER 1954, n. 72, p. 46, tavv. LVIII e LIX; H.
GABELMANN, Studien zum frühgriechischen Löwenbild, Berlin 1965, n. 95, pp. 76, 77 e 118, tav. 19,1; RICHTER 1970, p.
75, n. 11, fig. 6; MERTENS–HORN 1986, pp. 6–16, 28 e 29; G.
KOKKOROU–ALEWRAS, Die Entstehungszeit der naxischen
Delos–Löwen und anderer Tierskulpturen der Archaik, in
AntK, 36, 1993, pp. 99 e 100, tav. 25,3; C. PICON, S.
HEMINGWAY, CH. LIGHTFOOT, J. MERTENS, E. MILLEKER, Art of
the classical World in the Metropolitan Museum of Art :
Greece, Cyprus, Etruria, Rome, New York 2007, n. 144, p.
433, fig. 144 a p. 131; L. LAZZARINI, C. MARCONI, A New
Analysis of Major Greek Sculptures in the Metropolitan
Museum: Petrological and Stylistic, in MetrMusJ, 49, 2014,
p. 122, fig. 14.
45) RICHTER 1954, n. 72, p. 46.
46) Secondo MARSHALL 1910, p. 210, la statua è stata
restaurata, soprattutto nelle zampe, usando come modello
uno dei leoni in calcare dal monumento delle Nereidi di
Xanthos al British Museum. Sono di restauro anche le orecchie che erano lavorate a parte. Cfr. anche MERTENS–HORN
1986, p. 9, n. 50.
47) MERTENS–HORN 1986, pp. 6–16, 28 e 29; KOKKOROU–
ALEWRAS, art. cit. in nota 44, pp. 99 e 100, tav. 25,3 conferma la datazione del leone di New York avanzata dalla
Mertens–Horn, mentre abbassa alla stessa data la cronologia
dei leoni di Xanthos; PICON ET ALII, op. cit. in nota 44, n.
144, p. 433, fig.144 a p. 131, abbassano decisamente la
datazione della statua di New York agli anni tra il 400 e il
390 a.C.; cfr. da ultimi LAZZARINI, MARCONI, art. cit. in nota
44, p. 122, fig. 14.
48) Già il numero di inventario dell’opera (09.221.3) testimonia l’ingresso della scultura al Museo nel 1909.
49) MARSHALL 1910, p. 212.
50) RICHTER 1954, n. 72, p. 46, tavv. LVIII e LIX. Nelle
precedenti pubblicazioni della studiosa non viene indicata
la provenienza: RICHTER 1927, pp. 255 e 256, figg. 178 e
179.
51) RICHTER 1970, p. 75, fig. 8, nota 13.
52) Ibidem, fig. 6, nota 11.
53) Sul tema della prima legislazione in materia di beni
culturali dello Stato italiano post–unitario, vedi da ultima E.
CAGIANO DE AZEVEDO, Fra commercio e istituzioni, la vita
romana di Ludovico Pollak, in E. CAGIANO DE AZEVEDO, R.
GEREMIA NUCCI, Riflessioni sulla tutela. Temi, problemi,
esperienze, Firenze 2010, pp. 41–62, con bibl. precedente.
54) Su questo tema costituiscono una testimonianza
importante le lettere di Helbig a Jacobsen, ove si prospetta
la possibilità di approfittare delle difficoltà economiche
delle grandi famiglie nobiliari di Roma per procurarsi sculture importanti: M. MOLTESEN, Perfect Partners. The collab-
oration between Carl Jacobsen and his Agent in Rome Wolfgang Helbig in the Formation of Ny Carlsberg Glyptotek
1887–1914, Copenhagen 2012, pp. 161–187.
55) Il conte Tyszkiewicz, protagonista del collezionismo
archeologico dell’epoca, commenta così: «Ces immenses travaux ont cependant rendue à la lumière une quantité considérable d’antiquités. Comme, malgré la vigilance des agents
des banques et des surveillants municipaux ou gouvernementaux, les ouvriers réussissaient presque toujours à
emporter de nuit leurs trouvailles de la journée, le commerce de Rome se trouva, pendant quinze ans alimenté de
sculptures». M. TYSZKIEWICZ, Notes et Souvenirs d’un vieux
collectionneur, in RA, III s., XXX, 1897, pp. 358–372, spec.
p. 360.
56) O. BURDETT, E.H. GODDARD, Edward Perry Warren.
The biography of a connoisseur, London 1941. La biografia
di Warren, di straordinario interesse, traccia un quadro assai
vivace dell’ambiente del commercio antiquario di quegli
anni. Venditori, mediatori, trattative, tecniche di contrattazione, viaggi e immagini folkloristiche dei popoli del
Mediterraneo, tutto con lo sguardo del collezionista appassionato e del ricercatore attento. Su Warren e Marshall e
sulla loro attività sul mercato antiquario della loro epoca,
vedi da ultima MOLTESEN, op. cit. in nota 54, pp. 155–160.
57) Nelle memorie di Pollak (POLLAK 1994, p. 157) si trovano, sull’attività dei due personaggi, queste considerazioni:
“In Italia i prezzi aumentarono solo dopo la comparsa di
esperti americani come B. E. P. Warren di Boston e di agenti
che compravano per i musei americani tra i quali, in prima
linea, l’amico di Warren John Stuart Marshall che aveva vissuto a Roma per anni lavorando per il Metropolitan
Museum, e ancora H. W. Parsons. Grazie alla loro attività i
prezzi salirono alle stelle.” (trad. it. W. Perretta).
58) La statua di anziana contadina, anch’essa ora al
Metropolitan Museum (inv. 09.39; RICHTER 1927, pp. 276–
278), fu trovata invece nel 1907 in uno scavo in terreno privato alle pendici del Campidoglio: la sua presenza nella
“grotta” dove la famiglia Jandolo immagazzinava le sculture
in vendita, aveva quindi richiesto solo un breve tragitto dal
luogo di ritrovamento. RT, VII, p. 283, 27 agosto 1907: «Via
della Consolazione. Sterrandosi nell’area compresa all’angolo di Via della Consolazione con Via di Monte Caprino,
per la costruzione di una nuova casa di proprietà dell’Istituto della Divina Pietà, in un cavo sulla Via Montecaprino, è
stata rinvenuta una statua marmorea, rappresentante una
vecchia venditrice; è di marmo greco, di buona fattura e
discretamente conservata; è alta m. 1,25. (Non ritirata perché di proprietà privata)». Nella prima pubblicazione sul
BCom del 1907, p. 257, Lucio Mariani commenta polemicamente: «… fu rinvenuta nel sottosuolo delle cantine la statua antica di vecchia venditrice, della quale si occuparono
prima gli antiquarii, poi il pubblico per mezzo stampa. La
scoperta venne rivelata qualche giorno dopo che era avvenuta, e se ne seppe soltanto allorché la statua minacciava di
essere venduta di nascosto». Sulla statua: C. REUSSER, Der
Fidestempel auf dem Kapitol in Rom und seine Ausstattung.
Ein Beitrag zu den Ausgrabungen an der Via del Mare und
um das Kapitol 1926–1943, Roma 1993, n. 9, pp. 185–196,
figg. 102–106.
59) POLLAK 1994, p. 162: «Marshall erwarb eine wichtige
archaischetruskische Basis aus nenfro mit Flachreliefs feinster Arbeit (welche? wann?) für 100.000 lire und den originalen prächtigen angreifenden Löwen aus dem Ende des V
Jhdts». (RICHTER Handbook, p. 254 figg. 178 e 179) «in Rom
für 64.000 Goldlire u. bei demselben Händler für 35.000
Gold Fr. die reizende hellenistische Statue einer Geflügelmarktfrau (RICHTER, loc. cit., p. 277 fig. 196), die Zeuxis signirte kopflose hellenistische Statue eines sitzenden Philosophen, die in del Villa Patrizi gefunden worden war, für
25.000 Goldfrcs. Der ebenfalls dort gefundene große Torso
der kephisodotiscen Eirene» (RICHTER, loc. cit., p. 263, fig.
186) «wurde von Marshall für 40.000 Goldfrank für New
York erworben» (trad. it. di W. Perretta). Le citazioni di Pollak fanno riferimento a RICHTER 1927.
60) POLLAK 1994, pp. 132 e 133: «Auf der piazza della
Consolazione an der linken Ecke der zum Capitol führenden Treppe lag der Laden von Elio Jandolo, der eine Zeitlang als Theilhaber Ernesto Magnani hatte. Drei Stufen
führten zu dem unscheinbaren kleinen Laden. Mittag,
wenn ich stets vom deutschen archaeologischen Institute
nach Hause ging, stieg ich die Treppe herunter u. suchte
Elio auf. Stets gab es dort etwas Neues zu sehen. Auf einem
kleinen Tische beim Eingange lagen auf einem Blatte weißes Papier die neuesten Einkaufe: geschittene Steine, ein
Goldring, Bronzestatuetten, Inschriften u. s. w. auch manchesmal mittelalterliche, wie der unerschöpfliche Boden
Roms es hergab. Oft sah ich in diesem Laden den Numismatiker Camillo Serafini, den späteren Governatore della
Città del Vaticano. Er sammelte antike römische Münzen
für das numismatische Cabinet des Vaticans, das er als
Ehrenamt leitete. Die Marmorsculpturen hob Elio Jandolo
in seinem Magazine auf, das im anschließenden Hause sich
befand. Es war eine jener tief in den capitolinischen Hügel
geschnittenen Grotten, die sicher Steinbrüche waren, die
gerne von den Osteriewirten als kühles Magazin für ihre
Weine gemietet wurden. In jener Grotte standen viele wichtige Sculpturen, die Marshall für New York kaufte, so der
archaische Lowe (RICHTER, loc. cit., p. 254, fig. 178), die
hellenistische Marktfrau (RICHTER, loc. cit., p. 277, fig.
196). Höchst sonderbar waren die Beziehungen zwischen
den zwei Theilhabern. Man traf sie fast nie beide zusammen im Laden. Kam irgendein terrazziere in den Laden
etwas anbietend u. sie waren beide da, so kauften sie
gemeinsam das Angebotene. War aber — und das war meist
der Fall — nur Einer dort, so erstand dieser es, dem Anderen den Ankauf verheimlichend und dann selbst ihn weiter
verkaufend. Das wusste ganz Rom u. wohl auch die beiden
Teilhaber, einer dem andern nicht trauend. — Es ergab
sich nun oft, dass schließlich der eine Socius erfuhr, dass
der andere ihn betrogen hatte. Es kam zu einem erregten
Wortwechsel, der aber bald bei einer foglietta Frascatiwein
geschlichtet wurde, da ein Jeder seiner eigenen Schuld
bewusst war. Das hinderte aber nicht, dass sich solche Zwischenfalle oft wiederholten u. immer wieder gütlich beigelegt wurden. Das ging so weiter, bis Magnani lange vor Elio
Jandolo starb.» (trad. it. W. Perretta).
61) RICHTER 1954, n. 72, p. 46.
62) Sugli horti di Cesare: P. GRIMAL, I giardini di Roma
antica, (ediz. it.) Milano 1990, pp. 120–122; E. PAPI, s.v.
Horti Caesaris, in LTUR, III, 1996, pp. 55 e 56.
63) HOR., Sat., I.9.18.
64) TAC., Ann., II. 41; PLUT., Brut., 20. Il tempio, inizialmente identificato con un edificio scoperto nel 1861 alle
pendici di Monteverde (cfr. VISCONTI, LANCIANI 1884, pp. 27
e 28), è stato riconosciuto da Filippo Coarelli in un edificio
rotondo che compare sulla lastra 28 della forma urbis marmorea, adiacente a un’area libera identificata con la Naumachia Augusti: COARELLI 1992.
65) CASS. DIO., 43, 27, 3; CIC., Ad Att., 15, 15, 2. Secondo
un’interessante analisi di E. Gruen (Cleopatra in Rome.
Facts and fantasies, in D. BRAUND, CHR. GILL (edd.), Myth,
History, and Culture in Republican Rome. Studies in Hon-
23
our of T. P. Wiseman, Exeter 2003, pp. 257–274), il soggior-
no a Roma di Cleopatra che sembrava essersi protratto dal
46 al 44 a.C., cioè fino alla morte di Cesare, si sarebbe in
realtà svolto in due brevi visite nel 46 e nel 44 a.C.: la prima
per consolidare il patto di alleanza tra Roma e l’Egitto, la
seconda, bruscamente interrotta dall’assassinio di Cesare,
per riaffermare il suo ruolo di regina d’Egitto e, forse, per
fare riconoscere a Cesare la paternità del figlio Cesarione.
66) SUET., Iul., 83, 2; APPIAN., BC, II, 143; CASS. DIO.,
44,35, 3; Cicerone denuncia però che Marco Antonio si
appropriò di una parte dell’eredità lasciata da Cesare al
popolo romano: CIC., Phil., 2, 42 «signa, tabulas, quas
populo Caesar una cum hortis legavit, eas hic partim in hortos Pompei deportavit, partim in villam Scipionis».
67) GRIMAL, op. cit. in nota 62, pp. 120–122.
68) Una importante e preziosa sintesi dei ritrovamenti effettuati nell’area in P. IMPERATORI, Contributi per la Carta Archeologica del comprensorio Portuense–Magliana, Tesi di laurea in
Topografia antica: https://uniroma.academia.edu/PaoloImperatori.
69) PELLEGRINI 1858, p. 97; «Substrutiones hortorum»
sono segnalate a ridosso della rupe di Monteverde, nel f. 39
della FUR.
70) Un “portichetto” di opera reticolata con mezze colonne fra un arco e l’altro, fu scoperto nel 1825 alla «pendice
del monte»: PELLEGRINI 1858, p. 98; un portico con pilastri
di m 1,30 x 0,80, distanziati tra loro m 2,40 fu trovato nel
dicembre 1884 nella vigna dei padri della Missione (NSc,
1884, pp. 41 e 42); probabilmente allo stesso portico appartengono i resti in opera reticolata visti nella Vigna Mangani
nel 1887 (NSc, 1887, pp. 18 e 19); resti di un altro portico
in opera reticolata, con colonne in travertino di m. 0,42 di
diametro furono scoperti nel 1889, a 200 metri dal fabbricato della stazione ferroviaria, sulle pendici della collina di
Monteverde (NSc, 1889, pp. 192 e 193). Cfr. L. CHIOFFI,
Regio XIV: Hercules Campanus e dintorni. Per un aggiornamento del Lexicon Topographicum Urbis Romae, in D.
PALOMBI, S. WALKER, A. LEONE (a cura di), Res Bene Gestae.
Ricerche di storia urbana su Roma antica in onore di Eva
Margareta Steinby, Roma 2007, pp. 30 e 31, n. 136.
71) PELLEGRINI 1858, pp. 97–101; IMPERATORI, op. cit. in
nota 68, n. 81, pp. 68–71.
72) VISCONTI, LANCIANI 1884, pp. 27 e 28, tav. I: «Nell’anno 1861 furono scoperti gli avanzi, forse, d’un tempio, ossia
una platea robustissima di calcestruzzo, lunga metri 20,50
larga m. 12,75, fasciata da muraglioni grossi m.1,60; con tre
pezzi dell’architrave marmoreo del pronao (esastilo) [ma
nella tav.I è disegnato un tempio distilo in antis, n.d.r.]. Per
me non v’ha dubbio che questo fosse il tempio celeberrimo
della Fors Fortuna, collocato dai cataloghi entro i confini
della regione decimoquarta, dai calendarii ad milliarium
primum della Via Campana, da Tacito (Ann., II, 41) in hortis, quos Caesar dictator populo romano legaverat.
73) C. L. VISCONTI, Escavazioni nella villa Bonelli fuori
Porta Portese negli anni 1859–1860, in AnnInst, 1860, pp.
415–450; sintesi dei ritrovamenti in VISCONTI, LANCIANI
1884, p. 29, tav. I: «Il vano principale presenta il tipo basilicale nel lato minore che guarda il monte. I muri di telaro
sono antichi, forse sincroni a Cesare, e sono costruiti alla
maniera reticolata del secolo d’oro: l’abside è di fattura assai
tarda, a strati di tufa e tegolozza. Era decorato con sette nic-
24
chie rettangole e curvilinee, di m. 1,70 di diametro, a piè
delle quali gira un gradino o podio che sostiene otto piedistalli, non saprei dire, se di colonne o di statue. La basilica
era divisa in tre navi da due file di colonne scannellate di
bigio, alte m. 3,55, larghe nel diametro m. 0,40, e fondate
sopra cuscini di travertino. I capitelli, di stile dorico–composito sono la più vaga ed elegante cosa che mente d’architetto sappia immaginare. Il pavimento dell’aula era commesso di marmi pregiati, quali sarebbero il fior di persico,
l’alabastro rosa, la porta santa etc.». Suggestiva l’ipotesi,
avanzata da Laura Chioffi (op. cit. in nota 70, p. 21) che il
primo impianto della basilica sia da riconoscere nella basilica Antoniarum duarum, citata in CIL, VI, 5536.
74) MART., IV, 64, 11 e 12.
75) LIMC, VIII (1997), s.v. Venus, p. 205, n. 119.
76) Qui fu trovata l’erma di Anacreonte dei Musei Capitolini, inv. 838.
77) VACCA, Mem. 96.
78) VAL. MAX., 9, 15, 1.
79) D’ARMS 1998, pp. 40 e 41; vedi anche N. PURCELL,
The city of Rome and the plebs urbana in the Late Republic,
Cambridge 1994, p. 687.
80) PALMER 1981, p. 381 e ss.
81) IMPERATORI, op. cit. in nota 68, n. 148, pp. 125 e 126;
resti di sepolcri e di un impianto termale sono stati rinvenuti recentemente in occasione di lavori in corrispondenza del
cavalcavia sulla via Portuense: notizia pubblicata il 28 settembre 2014 sul sito del Ministero dei beni e delle attività
culturali e del turismo.
82) In base all’analisi delle molte iscrizioni trovate nella
zona Laura Chioffi (art. cit. in nota 70, pp. 15–33) individua
la presenza di diverse proprietà, oltre che di luoghi di culto,
aree produttive e zone sepolcrali. Sull’evoluzione urbanistica di Trastevere cfr. M. MAISCHBERGER, s.v. Transtiberim, in
LTUR, V, Roma 1999, pp. 77–83; G. AZZENA, Il Trastevere
in età romana, in L. ERMINI PANI, C. TRAVAGLINI, Trastevere.
Un’analisi di lungo periodo, Convegno di studi, Roma 2008
(Roma 2010), pp. 1–33.
83) O. PALAGIA, s.v. Apollon, in LIMC, II, 1984, p. 259, n.
615; E. SIMON, ibidem, s.v. Apollon/Apollo, p. 384, n. 62.
84) G. BARRACCO, Collezione Barracco, Nuova Serie,
Roma 1907, p. 9, tavv. XXV e XXVA.
85) POLLAK 1929, p. 18.
86) Interessante, a questo proposito la notizia dell’occultamento di una scultura sotto una catasta di legna. IMPERATORI, op. cit. in nota 68, p. 130, n. 156: «Vigna già Costa,
per i lavori di allacciamento delle stazioni Termini–Trastevere (Tav. C): trovate quattro antefisse di terracotta frammentate, con una menade, due protomi una con sul capo
una palmetta, una testa femminile radiata; la testa fu scavata il 17 febbraio 1908 e ritrovata sotto del legname accatastato, testa forse appartenente ad una statua pure rinvenuta
nello stesso sterro» (NSc, 1909, p. 114; ACS, MPI, Dir Gen
AABBAA, I Div., (1908–12), b. 9, fasc. 18).
87) Museo Nazionale Archeologico di Firenze, inv. 13832.
Marmo pentelico. Lungh. max. cm 166, h. max. cm 68. L.
A. MILANI, Il Regio Museo Archeologico di Firenze, Firenze
1912, I, p. 325, n. 148; A. MINTO, Leone marmoreo greco del
Museo Archeologico di Firenze, in ACl, I, 1949, pp. 113–
116; MERTENS–HORN 1986, pp. 16–18, 45 e 46; A. ROMUALDI (a cura di), Museo Archeologico Nazionale di Firenze. I
marmi antichi conservati nella villa Corsini a Castello,
Livorno 2004, p. 216 e ss., n. 87 (A. Romualdi).
88) Il brutto supporto che attualmente sostiene la scultura, falsandone la visione, risale probabilmente all’allestimento della scultura nel giardino del Museo Archeologico
di Firenze nei primi anni del Novecento.
89) MERTENS–HORN 1986, p. 17, tav. 11,1.
90) Sulla collezione Del Bufalo: CHR. HÜLSEN, Römische
Antikengärten des XVI. Jahrhunderts, Heidelberg 1917, pp.
108 e 109; H. WREDE, Der Antikengarten der Del Bufalo bei
der Fontana Trevi, in TrWPr, 4, 1982, pp. 1–28; M. CIMA,
Qualche nota sulla collezione del Bufalo di antichità, in I.
COLUCCI, P. MASINI, P. MIRACOLA, Dal giardino al museo.
Polidoro da Caravaggio nel Casino del Bufalo. Studi e
restauro, Roma 2013, pp. 45–49.
91) ALDROANDI 1556, p. 287.
92) J. J. BOISSARD, Romanae urbis Topographia et Antiquitates, Francoforte 1597–1602, pp. 115 e 116.
93) N. W. CANEDY, The Roman Sketchbook of Girolamo da
Carpi, London–Leiden 1976, tav. 18, n. R 137.
94) S. REINACH, L’album de Pierre Jacques sculpteur de
Reims. Dessiné à Roma de 1572 à 1577, Paris 1902, pp.
134 e 135, tavv. 77v, 78, 78v e 79.
95) Cfr. da ultimo C. GASPARRI (a cura di), Le sculture Farnese: storia e documenti, Napoli 2007; IDEM (a cura di), Le
sculture Farnese, 1. Le sculture ideali, Napoli 2009, pp.
137–143 (E. Dodero).
96) LANCIANI, Storia, III, p. 189.
97) HÜLSEN, op. cit. in nota 90, pp. 116 e 117, documento
a firma di Vincenzo Stampa che agì da intermediario per
l’acquisto da parte di Ippolito d’Este.
98) Ibidem.
99) C. GASPARRI, Su alcune vicende del collezionismo di
antichità a Roma tra il XVI e XVIII secolo: Este, Medici,
Albani e altri, in ScAnt, 1, 1987, p.259; GASPARRI, art. cit. in
nota 5, p. 180, fig.6; A. CECCHI, C. GASPARRI, La villa Médicis, 4. Le collezioni del cardinale Ferdinando. I dipinti e le
sculture, Roma 2009, p. 238, n. 300 (leone); pp. 258 e 259,
n. 373 (Cerbero); p. 451, nn. 1115 e 1128 inventario di Villa
Medici del 1588 (ASF, Guardaroba Mediceo 79, cc. 217v.–
218r.); B. CACCIOTTI, Le collezioni estensi di antichità tra
Roma, Tivoli e Ferrara, II. Le provenienze delle antichità
estensi dagli scavi del XVI secolo, in Studi di Memofonte, 5,
2010, pp. 94 e 95.
100) ALDROANDI 1556, p. 287.
101) ROMUALDI, op. cit. in nota 87.
102) P. C. BOL, Als Chimäre ergäntzer Torso eines Cerberus, in P.C. BOL (a cura di), Forschungen zur Villa Albani.
Katalog der antiken Bildwerke, 5, Berlin 1998, pp. 502 e
503, tavv. 253 e 254.
103) CECCHI, GASPARRI, op. cit. in nota 99, p. 258.
104) S. A. MORCELLI, Indicazione antiquaria per la villa
suburbana dell’eccellentissima casa Albani, Roma 1785, p.
53, n. 517.
105) CIMA, op. cit. in nota 90.
106) AST, vol. 15, f. 181v. D; testo citato anche da R.
Lanciani, Cod. Vat. Lat. 13034, f. 108v. : R. III Terme di
Filippo (Horti Lamiani); e LANCIANI, Storia, III, p. 169; vedi
pure: SCHREURS 2000, p. 473, n. 515.
107) Riportato da R. LANCIANI, Topografia di Roma antica. I commentarii di Frontino intorno le acque e gli acquedotti. Silloge epigrafica aquaria, ROMA 1880, p. 292, n. 19.
108) AST, vol. 17, c. 130r.
109) AST, vol. 26, c. 176r.
110) AST, vol. 5, c. 153r.
111) BNN, B. 3, c. 115, riportato da CACCIOTTI, art. cit.
in nota 99, p. 94; vedi pure SCHREURS 2000, p. 478, n. 534.
112) AST, vol. 15, ff. 150 e 151.
113) LANCIANI, op. cit. in nota 107, p. 292, n. 19. L’iscrizione è inserita da Lanciani tra le “leggende false o
sospette”; non è riportata in CIL.
114) R. VALENTINI, G. ZUCCHETTI (a cura di), Codice
topografico della città di Roma, I, Roma 1940, p. 193 e ss.,
in part. p. 210, n. 1, dove l’iscrizione in questione risulta
pubblicata da O. PANVINIO, Urbs Roma, Venetiis 1558, p.
168.
115) Solo per citare alcuni dei testi più antichi: Pomponio
Leto, Venezia, Bibl. Marciana, Ms. Lat. X 195, Excerpta, f.
29v: «post Thermas Titi inter aquilonem et eurum sunt
Thermae Philippi Imperatoris» (circa 1479); F. ALBERTINI,
Opusculum de mirabilibus veteris, et Novae Urbis Romae …
, Roma 1510, L. 1, cap. 7: «… Post quas [Thermas Titi]inter
Aquilonem & Euru[m] era[n]t Thermae Philippi Aug[usti]
imperatoris»; A. FULVIO, Antiquitates Urbis per Andream
Fulvium Antiquarium. Ro. Nuperrime Aeditae, Roma 1527,
l. 3, f. XXXVIv.: «Caetera[m] huius / montis partem uersus
orientem occupabant Thermae Philippi Imp. / Quarum
hodie qu[a]edam uestigia appare[n]t in supercilio montis:
qui plu/rimus imminet templo. S. Matthei in merulana»; B.
MARLIANO, Antiquae Romae Topographia libri septem,
Romae MDXXXIIII, p. 109: «Palatium Vespasiani, et Titi
apud easdem Thermas post quas inter ortum, et boream in
supercilio montis apparent ruinae ingentes Thermarum, ut
volunt, Philippi Imp.»; A. PALLADIO, L’antichità di Roma,
Roma 1554, f. 8v. «Le Traiane [terme] erano nel monte
Esquilino appresso la chiesa di S. Martino, et da l’altra parte
di detto monte vi erano quelle di Filippo Imp. E ne
appariscono ancora certe vestigie appresso la chiesa di S.
Matteo»; B. GAMUCCI, Libri quattro dell’antichita della città
di Roma, Roma 1565, p. 99: «Appresso alle Terme raccontate di sopra [di Tito] Pub. Vittore pone che fossero altre di
Traiano, e di Fillippo (sic) Imperadore, le quali erano poco
distanti una dall’altra; si come di quelle di Filippo si veggono i segnali di sopra San Matteo in Merulana; ma non vi
è già restato cosa alcuna degna di essere scritta».
116) Cfr. nota precedente.
117) R. VENUTI, Accurata e succinta descrizione topografica delle antichità di Roma, I, Roma 1763, p. 133, tav. 55;
Roma antica di Famiano Nardini, ed. quarta romana,
riscontrata, ed accresciuta delle ultime scoperte, con note ed
osservazioni critico antiquarie di Antonio Nibby, Roma
1818, p. 253. Nella nota 1, p. 253, Nibby segnala: «Questi
avanzi sono di opera reticolata, e perciò non so con quanta
25
ragione possano supporsi del tempo di Filippo, non avendo
esempi certi di quella costruzione, se non fino all’epoca di
Caracalla …».
118) A. PELLEGRINI, rapp. Str. n. 102, 12 nov. 1873.
BiASA, Codici Lanciani 37 (1873), f. 263. Pubblicato in
HÄUBER 2014, figg. 148A–B.
119) LANCIANI, Storia, I, pp. 148 e 149.
120) LANCIANI, Storia, III, pp.165 e 166; FUR tav. 30.
Un’analisi dei ritrovamenti del XVI secolo in questa zona in
B. NOBILONI, VII, Trofei di Mario, in B. PALMA VENETUCCI
(a cura di), Pirro Ligorio e le erme di Roma, Roma 1998, p.
135.
121) VENUTI, op. cit. in nota 117, tav. 55.
122) Altrimenti si deve pensare che l’incisione, attribuita
alle terme di Filippo, si riferisca in realtà alla struttura ancora esistente più a valle, lungo via P. Villari.
123) M. DE VOS, Dionysus, Hylas e Isis sui monti di Roma,
Roma 1997, p. 106. La lunga struttura è stata datata, in base
alla tecnica edilizia e al collegamento con i disegni del
Museum Chartaceum, al periodo tra i Flavi e Adriano: si
tratterebbe di una fase di età imperiale delle strutture di
regolarizzazione delle pendici della collina dell’Oppio. Resti
di muri in opera reticolata di una fase precedente sono stati
rinvenuti in un’indagine di approfondimento effettuata da
Mariette de Vos all’interno di uno degli ambienti.
124) BARTOLI, Memorie, Mem. 1: ritrovamento di 42 statue nell’orto dei Santi Apostoli, vicino a San Clemente, in
uno scavo condotto da L. Agostini per conto di Lelio Orsini:
cfr. I. HERKLOTZ, Excavations, Collectors and Scholars in
Seventeenth–Century Rome, in I. BIGNAMINI (a cura di),
Archives & Excavations: Essays on the History of Archaeological Excavations in Rome and Southern Italy from the
Renaissance to the Nineteenth Century, London 2004, pp.
56, 57 e 70–73, e, da ultima, HÄUBER 2014, pp. 395–399.
125) BELLORI 1664, p. 63.
126) BARTOLI, Memorie, n. 2: ritrovamento del “tempio
egizio”.
127) LANCIANI, Notes, p. 206 (22 dicembre 1888).
128) DE VOS, op. cit. in nota 123, pp. 99–154, figg. 157 e
158: l’analisi dei due disegni, che rappresentano una lunetta e un sottarco decorati a stucco, hanno portato a una
datazione della fase decorativa all’età flavia.
129) Contra HÄUBER 2014, pp. 93 e 94 che erroneamente
identifica queste strutture con le “Terme di Filippo” (vedi
infra nota138), le attribuisce agli Horti di Mecenate e le
interpreta come una sostruzione su cui sorse, ad opera di
Mecenate, il tempio di Minerva Medica; cfr. pure ibidem,
App. IV, pp. 352 e 353.
130) Manoscritti Lanciani: Cod. Vat. Lat. 13032, ff. 8v, 9r
e v, 13034, ff. 114r, 116v; LANCIANI, Notes, n. 73, pp. 205–
207, 22 dicembre 1888.
131) RT, III, p. 454, rapp. 720, 4 aprile 1886; ibidem, pp.
496 e ss., rapp. 961, 15 maggio 1887; BCom, XIV, 1886,
pp. 419–422; C.L. VISCONTI, in BCom, XV, 1887, pp. 132–
136.
132) Furono trovate almeno 20 teste (non tutte riconoscibili nelle collezioni capitoline, delle quali entrarono a far
parte) e numerosissimi frammenti di sculture: Testa di
26
Giove Serapide, inv. 1640; Statua di Iside (framm.) inv.
2978; Testa di Iside o di regina, inv. 1154; Testa di Iside,
inv. 1770; Statua di Iside (busto), inv. 2298; Testa femminile
coronata d’alloro, inv. 1806; Testa femminile con corona di
fiori, inv. 1771; Testa maschile tipo Armodio, inv. 1864;
Testa di Perseo, inv. 1866; Testa di Diomede, inv. 1867;
Testa di Hera, tipo Borghese, inv. 1868; Testa di Apollo
liceo, inv. 1661; Rilievo con Apollo e Marsia, inv. 965; elementi di un monumento pastorale: invv. 1736, 1738, 1739 e
1740.
133) Sul fenomeno: E. L A ROCCA, L’auriga dell’Esquilino,
Roma 1987, pp. 11 e 12; R. COATES–STEPHENS, Muri dei
bassi secoli in Rome. Observations on the re–use of statuary
in walls found on the Esquiline and Caelian after 1870, in
JRA, 14, 2001, pp. 217–238; R. COATES–STEPHENS, The
reuse of ancient statuary in late antique Rome and the end of
the statue habit, in F. A. BAUER, C. WITSCHEL (edd.), Statuen
in der Spätantike, Wiesbaden 2007, pp. 171–187.
134) C. L. VISCONTI, in BCom, XIV, 1886, p. 208.
135) LANCIANI, Notes, pp. 206 e 207 (22 dicembre 1888);
S. CURTO, Il torello Brancaccio, in Hommages à Maarten J.
Vermaseren, Leiden 1978, pp. 282–295: secondo la ricostru-
zione di Curto i frammenti furono rimontati con l’intervento del pittore Francesco Gai e la scultura così ricomposta,
rappresentante il torello Apis con disco solare e ureo tra le
corna, fu sistemata in un padiglione all’interno del giardino
di Palazzo Brancaccio; L. SIST, Statua di torello Api, in
AA.VV, Palazzo Altemps. Le Collezioni, Roma 2011, p. 344.
136) C. L. VISCONTI, in BCom, XIV, 1886, pp. 234–236;
LANCIANI, Notes, p. 207. Le statue, trovate insieme alle loro
basi con le “firme” degli artisti di Afrodisia che le hanno realizzate, rappresentano: Ercole, Satiro con Dioniso fanciullo,
Poseidon, Helios e Zeus e sono conservate nella Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen: M. MOLTESEN, The Aphrodisian Sculptures in the Ny Carlsberg Glyptoptek, in JRA,
suppl. I, 1990, pp. 133–146; BERGMANN 1999, p. 14 e ss.
137) Inv. n. 376. L. SIST, Museo Barracco. Arte egizia,
Roma 1996, pp. 91 e 92.
138) Sulle “Terme di Filippo”, cfr. da ultima HÄUBER
2014, pp. 83 e 84, che però, nonostante le chiare indicazioni ligoriane e di altri autori coevi (vedi nota 115), identifica il monumento con la lunga struttura a nicchie di via
Pasquale Villari situata molto più a sud e molto più a valle
rispetto alla chiesa di San Matteo e alla Vigna Pighini che le
conteneva.
139) LANCIANI, Storia, II, pp. 89–92; R. VOLPE, A. PARISI,
Alla ricerca di una scoperta: Felice de Fredis e il luogo di
ritrovamento del Laocoonte, in BCom, CX, 2009, p. 85, nn.
58–60 (A. Parisi); F. CANTARELLI, E. GAUTIER
DI
CONFIENGO,
La collezione epigrafica Fusconi (Roma, secoli XVI–XVIII),
Soveria Mannelli 2012.
140) VACCA, Mem., n. 84; BARTOLI, Memorie, n. 97;
ALDROANDI 1556, p 163, colloca invece la scoperta del
Meleagro in una vigna nei pressi di Porta Portese.
141) «Il terzo animale era un cane molosso che è nella
vigna di M. Francesco da Norcia Medico»: LIGORIO, BNN, b.
3, c. 115. CANTARELLI, GAUTIER DI CONFIENGO, op. cit. in
nota 139, pp. 14–23 e 173.
142) W. AMELUNG, Die Sculpturen des Vaticanischen
Museums, II, Berlin 1908, pp. 162 e 163, cat. 64, tav. 17; G.
SPINOLA, Il Museo Pio–Clementino, 1, Città del Vaticano
1996, p. 79; D. WILLIAMS, Dogged by debts: the Jennings
Dog, in F. MAC FARLANE, C. MORGAN (a cura di), Exploring
Ancient Sculpture, London 2010, pp. 225–244.
143) LANCIANI, Storia, II, pp. 89–92.
144) Sulla provenienza del Meleagro da Trastevere cfr.
invece da ultima C. ZACCAGNINO, Hercules Invictus, l’excu-
bitorium della VII cohors Vigilum, il Meleagro Pighini.
Note sulla topografia di Trastevere, in Ostraka, XIII, 1,
2004, pp. 101–124. Sulla collezione Fusconi: CANTARELLI,
GAUTIER DI CONFIENGO, op. cit. in nota 139, pp. 14–23 e
173. Il Meleagro fu venduto nel 1770 a Clemente XIV insieme ad altre tre statue (tra le quali il cane molosso).
145) S. MAFFEI, La fama di Laocoonte nei testi del
Cinquecento, in S. SETTIS, Laocoonte. Fama e stile, Roma
1999, pp. 104 e 105.
146) VOLPE, PARISI, art. cit. in nota 139. La ricerca, frutto
di una stretta collaborazione tra Antonella Parisi (archivista)
e Rita Volpe (archeologa), ha permesso di individuare con
esattezza la collocazione della vigna attraverso un complesso lavoro d’archivio di carattere comparativo che ha portato
a determinare le proprietà dei terreni circostanti e quindi la
loro disposizione nell’area.
147) Se il santuario va identificato con l’Iseum Metellinum,
citato in un brano dell’Historia Augusta (tryg. tir. 25), la sua
fondazione deve essere fatta risalire all’età repubblicana e in
particolare, secondo COARELLI 1982, pp. 53–57, a Quintus
Caecilius Metellus Pius, console nel 80 a.C. In un recente intervento presso i Musei Capitolini Filippo Coarelli ha ribadito la
sua convinzione che l’Iseo di Metello si trovasse, in realtà, sul
Celio, e che fosse diverso dal santuario che dette il nome alla
III Regione augustea: quest’ultimo però dovrebbe essere di
fondazione almeno augustea o precedente, visto il nome della
Regio, e senz’altro precedente alla costruzione del Colosseo
che altrimenti, come monumento dominante l’area, avrebbe
portato alla denominazione della III Regio: Amphitheatrum.
148) Nel caso che l’Iseo Metellino non sia identificabile
con il monumento della Regione III, risulta complesso stabilire la cronologia della fondazione del santuario: la sommaria descrizione dei ritrovamenti archeologici non consente una datazione precisa del monumento.
149) G. GATTI, in BCom, XV, 1887, pp. 154–156; C. L.
VISCONTI, ibidem, XV, 1887, pp. 192–200.
150) Disegnato nei manoscritti Lanciani: Cod. Vat. Lat.
13032, f. 8v; BCom, XIV, 1886, pp. 91 e 92.
151) Cfr. nota 131.
152) È noto l’interesse di Pirro Ligorio per le fontane che
si manifestò con grandiosità nella progettazione di quelle di
Villa d’Este a Tivoli: A. SCHREURS, S. MORET, “Mi ricordo
che, essendo proposito fare un fonte …”. Pirro Ligorio und
die Brunnenkunst, in MKuHistFlorenz, XXXVIII, 1994, pp.
278–309; SCHREURS 2000, pp. 272 e 273, figg. 130 a–b; A.
SCHREURS, “Hercules verachtet die einstigen Gärten der Hes-
periden in Vergleich mit Tibur”. Die Villa d’Este in Tivoli
und die “memoria dell’antico”, in W. MARTINI (a cura di),
Architektur und Erinnerung, Göttingen 2000, pp. 107–127.
153) Sulla presenza di statue di leoni nell’arredo scultoreo delle ville: R. NEUDECKER, Die Skulpturenausstattung
römischer Villen in Italien, Mainz 1988, p. 57.
154) E. TALAMO, Cane, in M. DE NUCCIO, L. UNGARO (a
cura di), I marmi colorati della Roma imperiale, catalogo
della mostra, Roma 2002, Venezia 2002, pp. 355 e 356.
155) Cfr. HÄUBER 2014, pp. 509–513.
156) ARR., I, 64, 4: “dei Macedoni morirono circa venticinque eteri al primo assalto e di questi si innalzarono a Dion statue in bronzo che Alessandro aveva commissionato a Lisippo, il
quale, unico scelto da lui, fece anche la statua di Alessandro”.
157) G. CALCANI, Cavalieri di bronzo. La torma di Alessandro, opera di Lisippo, Roma 1989.
158) P. MORENO, Modelli lisippei nell’arte decorativa di
età repubblicana ed augustea, in L’Art décoratif à Rome à la
fin de la République et au début du principat, Table ronde
de Rome (10–11 mai 1979), Roma 1981, pp. 203–205.
159) Un gruppo lisippeo rappresentante una caccia al
leone era stato dedicato da Cratero a Delfi (PLIN, NH, 34,
64): P. MORENO, in P. MORENO (a cura di), Lisippo. L’arte e la
fortuna, catalogo della mostra, Roma 1995, Milano 1995,
pp. 172–176; un riflesso di un altro gruppo con una caccia
al leone di Alessandro ed Efestione si trova, secondo
Moreno, nel mosaico a ciottoli dello stesso soggetto a Pella:
ibidem, p. 63. Sulle cacce macedoni: B. TRIPODI, Cacce reali
macedoni. Tra Alessandro I e Filippo V, Messina 1998.
160) “Hai combattuto bene, Alessandro, contro questo
leone, per vedere chi sarebbe rimasto re”, queste le parole
attribuite da Plutarco (Alex., 40, 4) a un ambasciatore di
Sparta, che aveva assistito a una di queste cacce.
161) Il leone fu posto a ricordo della battaglia vinta nel
338 a.C. dall’esercito macedone, guidato da Filippo II, su
quello formato da tebani e ateniesi: PAUS., 9, 40, 10 riferisce
il monumento (polu£ndrion) ai tebani caduti e interpreta il
leone come un riferimento “allo spirito degli uomini”; STRABO, 9, 2, 37, parla più genericamente di tombe erette a
spese pubbliche in onore dei caduti della battaglia. Cfr. O.
BRONEER, The Lion Monument at Amphipolis, Cambridge
1941, passim.
162) Il leone, attualmente collocato in una posizione
diversa dall’originale, poggia su un’alta base ed è stato
recentemente identificato come coronamento del grande
tumulo di Amphipolis ancora in corso di indagine e di studio. Per il leone cfr. BRONEER, op. cit. in nota 161.
163) Il grande leone esistente nella città di Hamadan, in
Iran, l’antica Ecbatana, riconosciuto come opera del primo
ellenismo, può essere messo in relazione con l’impresa di
Alessandro Magno e con la morte del suo amato compagno
Efestione, avvenuta in quella città nel 324 a. C. Cfr. H.
LUSCHEY, Der Löwe von Ekbatana, in Archäologische Mitteilungen aus Iran, 1, 1968, pp. 115–128.
164) PLIN., NH, XXXIV, 62.
165) T. HÖLSCHER, Monumenti statali e pubblico, Roma
1994; IDEM, Greek Styles and Greek Art in Augustan Rome:
Issues of the Present versus Records of the Past, in J. PORTER
(ed.), Classical Past. The Classical Tradition of Greece and
Rome, Princeton 2005, pp. 237–259; A. BRAVI, Ornamenta
Urbis. Opere d’arte greche negli spazi romani, Bari 2012;
IDEM, Griechischen Kunstwerke im politischen Leben Roms
und Konstantinopels, Berlin 2014. Sulla presenza di originali greci a Roma, anche A. CELANI, Opere d’arte greche
nella Roma di Augusto, Perugia 1998; CIRUCCI 2005.
27
166) HOR., Sat., 2, 3, 185.
167) F. COARELLI, Il Campo Marzio, Roma 1997, p. 550 e ss.
168) PLIN., NH, XXXV, 26. In altro passo (NH, XXXIV,
62) si legge che Tiberio tentò di appropriarsi della statua
dell’Apoxyomenos “ma il popolo romano si ribellò con tale
ostinazione da richiedere con grandi grida nel teatro che
l’Apoxyomenos fosse restituito e il principe, malgrado la sua
passione, lo fece rimettere al suo posto”.
169) CASS. DIO., LIV, 29, 3–4.
170) LIV., XXV, 40, 1–3.
171) POLYB., 9, 10, 13.
172) Cfr. note 78 e 79.
173) F. COARELLI, Da Pergamo a Roma. I Galati nella
città degli Attalidi, catalogo della mostra, Roma 1995.
174) TALAMO 1998, pp. 168 e 169; HARTSWICK 2004, pp.
124–129.
175) Sugli originali greci degli horti Sallustiani: E. TALAGli originali greci degli horti Sallustiani, in M. CIMA (a
cura di), Restauri nei Musei Capitolini, Venezia 1995, pp.
17–39; TALAMO 1998; M. MOLTESEN, The Sculptures from
the horti Sallustiani in the Ny Carlsberg Glyptotek, in M.
CIMA, E. LA ROCCA (a cura di), Horti Romani, Atti del Convegno Internazionale, Roma 4–6 maggio 1995, Roma 1998,
pp. 175–188. HARTSWICK 2004, pp. 93–104 e 119–124;
CIRUCCI 2005, pp. 41–50.
MO,
176) TALAMO 1998, pp. 139–141.
177) E. LA ROCCA, Amazzonomachia. Le sculture frontonali del tempio di Apollo Sosiano, catalogo della mostra,
Roma 1985.
178) SUET., Caes., XLVI e XLVII.
179) Vedi nota 66. Le sei dattilioteche di Cesare, ad emulazione di quanto già fatto da Pompeo con la dedica nel
tempio di Giove Capitolino delle gemme sottratte a Mitridate, erano già state consacrate nel tempio di Venere Genitrice, e quindi rese “pubbliche”: PLIN., NH, 37, 11. Sulle
collezioni di pittura di Cesare: IDEM, ibidem, 35, 26; 35, 83.
180) HÄUBER 1991. Oltre al già menzionato Laocoonte
(E. LA ROCCA, Artisti rodii negli horti romani, in CIMA, LA
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ROCCA, Horti Romani, cit. in nota 175, pp. 220–228; VOLPE,
PARISI, art. cit. in nota 139), il gruppo dei Niobidi ora agli
Uffizi, il Discobolo Lancellotti, il Seneca morente del Louvre (M. CIMA, E. TALAMO, Gli horti di Roma antica, Milano
2008, pp. 40–43), il Marsia in pavonazzetto, la Venere
Esquilina, il gruppo di Commodo con tritoni (Marsia: inv.
MC 1077; Venere: inv. MC 1141; Commodo e tritoni: invv.
MC 1119–1121. CIMA, TALAMO, op. cit., pp. 74–93) per
citarne solo alcune.
181) Rispettivamente invv. MC 1101; MC 1094; MC
1118. CIMA, TALAMO, op. cit. in nota 180, figg. 12, 13 e 28.
182) BELL 1998.
183) A questo proposito, notissima l’affannosa ricerca di
Cicerone di un luogo dove erigere il monumento funebre
dell’amata Tulliola. L’occasione gli offre l’opportunità di
fare una ricognizione degli horti esistenti a Roma nel periodo, soprattutto quelli della riva destra del Tevere. E. LA
ROCCA, Il lusso come espressione di potere, in M. CIMA, E. LA
ROCCA (a cura di), Le tranquille dimore degli dei. La residenza imperiale degli horti Lamiani, catalogo della mostra,
Roma 1986, Venezia 1986, pp. 22 e 23.
184) HOR., Sat., I, 8, vv. 8–16.
185) Così anche CIRUCCI 2005, pp. 26–28.
186) Cfr. BELL 1998; sulle sculture greche dagli horti
dell’Esquilino vedi da ultima CIRUCCI 2005, pp. 33–41.
187) CIC., de domo, 111–112, a proposito di una statua
funeraria trasformata in immagine di Libertas; su episodi di
riutilizzo di materiali provenienti da necropoli di Corinto e
Cuma, vedi CIRUCCI 2005, pp. 27 e 28.
188) Una stele funeraria greca del Museo Barracco (inv.
MB 73) proviene dalla zona di Porta Salaria ed è stata
attribuita agli horti Sallustiani; dallo stesso luogo potrebbe
provenire una stele ora alla Ny Carlsberg Glyptotek di
Copenhagen: BELL 1998, pp. 309 e 310, figg. 7 e 8.
189) Dig., XLVII, 12, 4.
190) GRIMAL, op. cit. in nota 62, pp. 75 e 76; NEUDECKER,
op. cit. in nota 153, p. 57.
191) P. ZANKER, Pompei. Società, immagini urbane e forme
dell’abitare, Torino 1993, pp. 199–210.