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LEONI GRECI A ROMA

Tre statue greche di leoni, segnalate in un importante lavoro di Madeleine Mertens Horn del 1986, sono state rinvenute a Roma in tempi diversi. Un’accurata indagine sulle fonti archivistiche, letterarie e iconografiche ha permesso di ricostruirne la provenienza da specifici ambiti topografici della città antica e di proporne una nuova lettura all’interno del contesto di appartenenza. Nati probabilmente come monumenti funerari di eroi greci e trasferiti a Roma già nell’antichità come bottino di guerra o come oggetti di raffinato collezionismo artistico, i leoni giunti dalla Grecia mutano, con il mutare del contesto, anche il loro ruolo in relazione alla diversa concezione delle opere da parte del mondo romano, ai luoghi di collocazione e all’insieme del programma decorativo: opere di diversa origine, provenienza e cronologia, ma raccolte per essere esibite con nuove funzioni e significati. In particolare, la possibilità di individuarne la provenienza da grandi complessi residenziali permette di ipotizzare l’inserimento dei leoni all’interno di giardini, come elementi di un artificioso paesaggio naturale popolato da animali selvatici. Greek Lions in Rome Three sculpted Greek lions, treated in an important study by Madeleine Mertens Horn published in 1986, have been discovered in Rome in different periods. A careful investigation of the archival, literary and visual sources enables the author to reconstruct the provenances from specific topographic areas of the ancient city, and to propose a new interpretation on the basis of these contexts. In all likelihood created as funerary monuments for ancient Greek heroes and transported to Rome as war trophies or as objects for refined art collecting, the Greek lions in their changed contexts also changed roles in relation to the differing view of them on the part of the Roman world, to the sites in which they were placed, and to the overall decorative program: works of various origins, provenances and periods, collected to be exhibited with new functions and meanings. In particular, the individuation of their provenances from large residential complexes in Rome enables the author’s hypothesis that the lions were placed in gardens as elements of a recreated natural landscape populated with wild animals.

MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITÀ CULTURALI E DEL TURISMO © BOLLETTINO D’ARTE Estratto dal Fascicolo N. 24 – ottobre-dicembre 2014 (Serie VII) MADDALENA CIMA LEONI GRECI A ROMA «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER BOLLET TINO D’ARTE MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITÀ CULTURALI E DEL TURISMO DIREZIONE GENERALE BELLE ARTI E PAESAGGIO Direttore responsabile FRANCESCO SCOPPOLA Coordinatore Scientifico LUCILLA DE L ACHENAL Consiglio di redazione CRISTINA ACIDINI – LUCIANO ARCANGELI – CARLO BERTELLI – CATERINA BON VALSASSINA GISELLA CAPPONI – GIOVANNI CARBONARA – SYBILLE EBERT-SCHIFFERER CHRISTOPH LUITPOLD FROMMEL – ENZO LIPPOLIS – L AURA MORO – PAOLA PELAGATTI PIA PETRANGELI – MASSIMO DE VICO FALLANI Redazione tecnico–scientifica CAMILLA CAPITANI – MARINA COCCIA – ANNA MELOGRANI Segreteria di Redazione e Produzione LUISA TURSI ed ELISABETTA DIANA VALENTE Grafici LOREDANA FRANCESCONE e DONATO LUNETTI Segreteria ALESSANDRA TOMASSINI Collaborazione al sito web MARIA ROSARIA MAISTO Traduzioni JULIA C. TRIOLO Sede della Redazione: Via di San Michele, 22 – 00153 ROMA Tel. 06 67234329 e-mail: bollettinodarte@beniculturali.it sito web: www.bollettinodarte.beniculturali.it La Rivista adotta un sistema di Peer Review. ©Copyright by: Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo Spetta agli Autori dei vari articoli soddisfare eventuali oneri derivanti dai diritti di riproduzione per le immagini di cui non sia stato possibile reperire gli aventi diritto. È vietata qualsiasi forma di riproduzione non autorizzata. Per ogni controversia è competente il Foro di Roma. In copertina: ROMA, COLLEZIONE PRIVATA – LAVINIA FONTANA: AUTORITRATTO ALLA SPINETTA (1575), PARTICOLARE (foto Maria Teresa Cantaro) B O L L E T T I N O D’ A R T E FONDATO NEL 1907 MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITÀ CULTURALI E DEL TURISMO 24 OTTOBRE–DICEMBRE ANNO XCIX SERIE VII 2014 SOMMARIO MADDALENA CIMA: Leoni greci a Roma 1 GIUSEPPE SCARPATI: Il ritratto di Druso Minore dal ciclo statuario giulio–claudio 29 LUCA CRETI: L’antico Palazzo papale presso la Basilica di Santa Maria Maggiore. 39 MONICA LATELLA: Gli affreschi della facciata del Palazzetto Massimo Istoriato: 61 INGEBORG WALTER: Michelangelo e gli Strozzi. L’‘Ercole’, il ‘Bruto’ e un cavallo per 85 MARIA TERESA CANTARO: Lavinia Fontana: il primo ‘Autoritratto alla spinetta’ ritrovato 99 di Sessa Aurunca Storia, architettura e trasformazioni un disegno di Polidoro da Caravaggio per le ‘Storie di Giuditta’ Caterina de’ Medici e una breve disamina sugli autoritratti della pittrice ANTONIO RUSSO: Francesco Barberini e la «restauratione» del Triclinio Leoniano: 111 DANIELE DI COLA: Il rifacimento della chiesa di Santa Barbara dei Librai di Roma (1679–1688). 125 il cantiere e un progetto inedito Il committente Zenobio Masotti e l’attività artistica di Agostino Martinelli, Giuseppe Passari, Luigi Garzi e Domenico Guidi IN BREVE CARLO BERTELLI: Il primo prestito di Tiziano dall’Antico 143 LIBRI LUCILLA DE LACHENAL: recensione a La collezione di antichità Pallavicini Rospigliosi (Monumenti Antichi dei Lincei, vol. XVII), a cura di DANIELA CANDILIO e MATILDE DE ANGELIS D’OSSAT, Roma 2014 PAUL JOANNIDES: recensione a La Santa Cecilia di Raffaello. Studi e indagini, a cura di DIEGO CAUZZI e CLAUDIO SECCARONI, Firenze 2015 MARIA GRAZIA BERNARDINI: recensione a Il Palazzo Bernini al Corso. Dai Manfroni ai Bernini, storia del palazzo dal XVI al XX secolo e della raccolta di Gian Lorenzo Bernini, di ROSELLA CARLONI, Roma 2014 Abstracts 147 151 153 157 MADDALENA CIMA LEONI GRECI A ROMA Un fondamentale articolo di Madeleine Mertens– Horn1) ha concentrato l’attenzione su tre statue di leoni, originali greci, trovate a Roma in tempi diversi. La prima è rappresentata da una scultura frammentaria dei Musei Capitolini che conserva la testa e parte della criniera di un leone2) (figg. 1 a–c). Il muso è solidamente costruito su una struttura ossea ben modellata, seppure caratterizzata da un’estrema sintesi dei lineamenti, e segnata dal profondo solco centrale che attraversa verticalmente la fronte. Gli occhi sono cavi, per consentire l’inserimento di elementi in altro materiale. La bocca presenta le fauci spalancate: manca interamente la mandibola inferiore, spezzata insieme alla lingua che, come in esemplari analoghi, doveva essere portata in fuori; si conserva invece, ben evidente, l’intera arcata dentaria superiore. L’inizio della criniera è segnato da due file di piatte e schematiche ciocche ondulate, ordinatamente sistemate, che circondano completamente il muso dell’animale, mentre sul collo il pelame della criniera si dispone in ritorti cordoni paralleli. Due piccole orecchie sono collocate lateralmente, sulla linea di separazione tra i due settori della criniera. Un foro passante, che attraversa longitudinalmente tutta la scultura, testimonia che la testa di leone, almeno per un periodo, fu utilizzata come boccaglio di fontana. Ma una piccola traccia conservata nella parte inferiore del collo, e interpretabile come l’attacco della zampa anteriore sinistra, documenta che la scultura, in origine, rappresentava un leone inte- ro accucciato sulle zampe anteriori e sollevato su quelle posteriori secondo uno schema molto comune nella resa dei felini: diversamente però da altre sculture analoghe per soggetto, il leone dei Musei Capitolini manteneva una rigida posizione assiale, 1 a–c – ROMA, MUSEI CAPITOLINI, CENTRALE MONTEMARTINI TESTA DI LEONE IN MARMO (foto Museo) 1 trarre materiali con i quali alimentare la collezione. C’era l’area all’Ara Coeli, dove fu costruito il palazzo e fatti ampliamenti ancora nel 1643;15) c’era una vigna nei pressi di San Vitale al Quirinale: «Al tempo di Paolo IV appresso S. Vitale fu trovato un Tesoro nella vigna del Sig. Orazio Muti, e lo trovò un suo vignarolo, di gran quantità di Medaglie d’oro, e gioje di valore e si fuggì».16) 2 – DISEGNO RICOSTRUTTIVO DEL LEONE DEI MUSEI CAPITOLINI (da M. MERTENS–HORN, Studien zu griechischen Löwenbildern, in RM, 93, 1986, p. 2, fig. 2a) guardando in avanti (come si deduce dalla resa della testa) anziché volgere il muso di lato (fig. 2). Tale posizione doveva suggerire una forza concentrata, raccolta, come prima di spiccare un balzo per aggredire la preda: effetto che doveva essere sottolineato dalla vivacità degli occhi ricavati da materiali preziosi e dalle fauci aperte in un ruggito profondo. Un’accuratissima analisi stilistica e il confronto con un leone frammentario dall’agorà di Atene,3) che mostra una trattazione simile della criniera sul collo, con una testa–gocciolatoio in terracotta da Olimpia e con una coppia di leoni di Delos, portano M. Mertens–Horn ad attribuire la testa dei Musei Capitolini ad un atelier attico della fine del VI secolo a.C.4) La testa è entrata nelle collezioni capitoline di antichità nel 1923:5) inizialmente fece parte delle raccolte dell’Antiquarium Comunale,6) per poi essere esposta in una delle “Sale arcaiche” del Palazzo dei Conservatori.7) Mertens–Horn8) la identifica con una testa di leone reimpiegata come boccaglio di fontana tra le opere segnalate da F. Matz e F. von Duhn9) nella collezione di antichità di Palazzo Muti, in piazza dell’Ara Coeli. Tale raccolta, ancora in parte esistente all’interno del palazzo,10) sembra sia stata iniziata da Orazio Muti (1540–1622): la testa di leone è presente, tra le opere sistemate sulle scale, in un inventario fatto redigere da Giovanni Paolo Muti nel 1664.11) La raccolta comprendeva opere di grande prestigio, fra le quali il grande rilievo con Perseo e Andromeda, passato poi nella collezione Pamphilj,12) in seguito nella raccolta Albani e infine nei Musei Capitolini.13) Il rilievo era stato trovato nel XVII secolo durante l’ampliamento di Palazzo Muti ai Santi Apostoli, insieme ad «altri due pezzi del medesimo gusto; ma furono fatti spezzare e gittare nel medesimo fondamento d’ordine del marchese, per rabbia, che gli fu levato a forza il compagno [dai Pamphilj]».14) Del resto, la famiglia Muti aveva molte altre proprietà in diverse zone di Roma, dalle quali poteva 2 Nella stessa vigna, Vacca ricorda il ritrovamento di un «idolo di marmo con corpo umano e testa leonina», derivato, insieme ad un rilievo dello stesso soggetto, da un mitreo scoperto nella zona.17) Poi c’era la chiesa di Santo Stefano del Cacco, dove era canonico Giovanni Paolo Muti e che insisteva sulle strutture dell’Iseo Campense: ritrovamenti nell’area, finiti nella collezione Muti, sono segnalati ancora una volta da una memoria di Flaminio Vacca.18) C’era infine una vigna di proprietà di Carlo Muti, fratello di Orazio, sul Quirinale. Qui nel 1594 Flaminio Vacca testimonia la scoperta del cratere e della statua di Sileno con Bacco bambino, trovati prima del settembre 156919) e rimasti nella collezione Muti20) fino al loro acquisto da parte dei Borghese nel 1613;21) attualmente sono entrambi al Louvre. «Mi ricordo, che il Sig. Carlo Muti nella sua Vigna poco lontana dagli Orti Salustiani, trovo un Fauno maggior, del naturale, con un Puttino in braccio, ed un Vaso grande, con Fauni, e Baccanti, che ballano, con cembali in mano, che oggi sta nel suo Giardino: trovo anche molte Statue sparse disordinatamente, le quali si puol credere fossero in quella fabbrica trovate nella Vigna di mio Padre, mentre si vedono muraglie piene di nicchie, e che fossero trasportate nella Vigna del Sig. Carlo Muti».22) Come si può verificare sulla pianta di Roma di Bufalini del 155123) (fig. 4), la vigna Muti si trovava al margine della stretta e profonda valle che caratterizza l’orografia dell’area occupata nell’antichità dagli horti Sallustiani, valle interpretata dalla cultura antiquaria come «circo di Flora». A conferma di tale posizionamento, la vigna Muti compare in un atto di vendita, datato 1590, della proprietà Caetani di Sermoneta — ben identificabile, tra le altre, nella veduta di Roma di A. Tempesta del 159324) (fig. 3) — alla Confraternita di San Bernardo: atto in cui «vineam et bona Ill.mi D. Caroli Muti» vengono citati per definire i confini del terreno in questione.25) Tale collocazione, in corrispondenza del limite occidentale della valle configurata come un circo, appare confermata dalle «muraglie piene di nicchie» segnalate da Vacca e visibili in molte delle piante della zona, che possono identificarsi con le possenti sostruzioni di sostegno delle ripide scarpate che racchiudevano la valle. Una testimonianza di Pirro Ligorio documenta le numerose proprietà che ai suoi tempi insistevano sull’area già riconosciuta come quella occupata nell’antichità dai giardini di Sallustio: «Egli [Sallustio] havea bellissimi e varij poggi che soprastavano l’uno all’altro, con varie montate coperte, con appartamenti per ogni stagione e non vi mancavano né boschetti né Fonti: con varijssime vedute, ove sono hoggidi molte Vigne, tra le quali è quella delli Venerandi padri di san salvatore del Lauro, la Vigna del Vescovo Muti, quella del Vescovo di Pavia, del Vescovo Colotio, e di Francesco Sibylla e di venti altri padroni».26) A giudicare, poi, dalle Memorie di Flaminio Vacca, la vigna di Carlo Muti non doveva essere lontana da quella di suo padre Gabriele: qui, sempre secondo le memorie del figlio27) e la testimonianza di Pirro Ligorio,28) venne trovato il prezioso edificio circolare riconosciuto da Lanciani in un disegno di Ligorio stesso.29) Il piccolo edificio rotondo, decorato con marmi preziosi, con colonne in giallo antico e alabastro, rappresenta un segno della raffinatezza architettonica che caratterizzava gli horti di Sallustio, e viene definito da Ligorio «Templum Veneris Hortorum Sallustianorum». Senza entrare nel merito della vexata quaestio dell’identificazione dell’edificio, che ha appassionato generazioni di antiquari ed archeologi,30) sarebbe di grande utilità — proprio per meglio 3 – ANTONIO TEMPESTA: PIANTA DI ROMA (1593), PARTICOLARE (da A. P. FRUTAZ, Le piante di Roma, II, Roma 1962, tav. 264) La zona campita corrisponde alla proprietà Caetani di Sermoneta. 4 – GIOVANBATTISTA NOLLI (1748): RIELABORAZIONE DELLA PIANTA DI ROMA ANTICA DI LEONARDO BUFALINI (1551) PARTICOLARE DELLA ZONA DEGLI HORTI SALLUSTIANI (da A. P. FRUTAZ, Le piante di Roma, III, Roma 1962, tav. 420) Nel tondo rosso la proprietà Muti, nel tondo giallo il muro a nicchie trasversale alla valle. 3 localizzare la vigna Muti — poterne definire la collocazione. Mentre Flaminio Vacca si limita a ricordare che il tempietto fu trovato nella vigna di suo padre Gabriele, presso Porta Salaria, in un’area «dove si dice gli Orti Sallustiani»,31) Pirro Ligorio dà qualche informazione in più: «TEMPLVM VENERIS HORTORVM SALLVSTIANORVM; Fu anchor esso picciolo Tempio ma ornatissimo tutto del marmo pario, con colonne striate bianchissime dell’ordine Corinthio di forma rotonda col peryptero attorno cio è circundato di portico; come havemo posto nel disegno dell’Horti sallustiani lo quale era su un poggio soprastante al Foro sallustiano in testa della Valle verso l’oriente dove appunto havemo veduto cavare delle sue rovine preciosissime, e d’ammirabile diligentia lavorate».32) Lanciani, nella sua Forma Urbis Romae,33) colloca il tempietto sul pianoro soprastante la valle verso nord, nell’isolato oggi compreso tra via Puglia, via Lucania, via Sicilia e via Boncompagni; tuttavia Maurizio Castelli, anche tenendo conto del posizionamento dell’edificio nella pianta di Roma di Ligorio, inserisce la struttura all’interno della valle, verso la sua testata orientale. C’è da notare che, purtroppo, anche a causa dello spoglio degli elementi architettonici segnalato da Vacca,34) nessuna traccia dell’edificio è stata trovata negli estesi scavi effettuati nella zona alla fine dell’Ottocento.35) Da un confronto, poi, tra il posizionamento della vigna Muti sulla pianta di Bufalini (1551) — l’unica nella quale compare un’indicazione certa — e quella di Nolli (1748), tenendo conto dei riferimenti all’andamento orografico del terreno, sembrerebbe di poter arguire che la proprietà Muti sia confluita in quella Cesi di Acquasparta, poi Massimo.36) Si tratta del limite occidentale della valle, dove nelle piante antiche (comprese quelle di Bufalini e di Nolli) compaiono muri di sostruzione decorati da nicchie, posti trasversalmente rispetto all’andamento della valle: sono gli stessi muri riconoscibili nel prezioso disegno del Codice Destailleur37) che restituisce l’architettura degli horti Sallustiani nella zona, e che ne costituiscono la chiusura verso occidente. Le accurate note di Ferdinando Mariani per il “Libro” mai pubblicato a commento della monumentale pianta di Giovan Battista Nolli, riportano l’esistenza di molte strutture antiche nell’area della villa Cesi e in particolare: «Per dette ville corre voce commune, che qui fossero l’orti di Salustio, e che li suddetti vestigj di muri antichi siano del circo di Flora; ed in alcuni luoghi di dette antichità si vedono vestigj come di seditori, che forse potevano servire per commodo degli spettatori, e ciò si osserva verso la villa del sig.r duca di Acquasparta».38) Rispetto alla topografia attuale, i due lunghi muri di sostruzione decorati da nicchie dovevano trovarsi uno in corrispondenza dell’attuale via Umbria, l’altro lungo via Lucullo, dove si conserva ancora un tratto della muratura in opera reticolata: in quest’area scavi condotti in tempi diversi hanno portato alla luce varie strutture architettoniche, tra le quali un criptoportico, 4 attualmente all’interno dell’Ambasciata Americana, nel quale si riconoscono fasi edilizie comprese fra il I e il III secolo d.C.39) Non lontano da qui fu trovata la base dell’obelisco ora a Trinità dei Monti, nonché un’erma di Ercole barbato conservata nel Museo della Centrale Montemartini.40) Nell’area adiacente, all’incrocio tra via Lucullo e via Sallustiana, a 12 metri di profondità «vicino al punto più depresso, ove era incavato l’alveo dell’antico fiume dell’aqua Sallustiana», (secondo il Lanciani, Petronia amnis)41) tra muri di opera quadrata e resti di strutture in opera reticolata, venne alla luce la statua di peplophoros ora a Boston.42) Se, quindi, in base alle indicazioni fornite dai cartografi, dai documenti d’archivio e dai testimoni diretti delle scoperte, è possibile collocare con una certa verosimiglianza la cinquecentesca vigna Muti sul margine ovest della valle–circo degli horti Sallustiani, appare molto suggestivo pensare che la testa di leone dei Musei Capitolini, già presente nell’inventario della collezione Muti alla metà del XVII secolo, possa essere stata trovata in questa zona. In particolare, essa può essere forse associata alle «molte Statue sparse disordinatamente» delle quali Flaminio Vacca43) ricorda, significativamente, la scoperta tra le «muraglie piene di nicchie» venute alla luce insieme alla statua del Sileno con Bacco bambino e al cratere Borghese ora al Louvre. È difficile stabilire se il danno subito dalla scultura originale che rappresentava l’intera figura del leone sia da far risalire all’antichità, oppure, come più probabile, alle vicende rinascimentali dell’opera, che possono aver portato alla scelta di conservare solo la testa, trasformata, per l’occasione, in elemento di fontana. Il secondo leone è conservato nel Metropolitan Museum di New York44) (fig. 5). La belva si presenta accucciata sulle zampe davanti e sollevata su quelle posteriori. Il corpo mostra forme slanciate, con le costole segnate sui fianchi. La testa, leggermente volta sulla destra è piuttosto piccola, con le fauci aperte in atteggiamento aggressivo: sul muso una serie di linee parallele ad andamento ondulato disegnano i baffi, quasi con un compiacimento decorativo che si riscontra anche nel trattamento dei lembi delle fauci. Il pelame della criniera non assume forma plastica ma è reso con serie di ciocche sottili, aderenti al corpo, che scalfiscono appena la superficie del marmo senza interrompere la compatta struttura plastica del corpo. Sono molto evidenziate l’incavatura nella zona dei fianchi e gli archi delle costole che si percepiscono sotto la pelle. La testa appena ruotata partecipa alla lieve inarcatura nella posizione di tutto il corpo che sottolinea la tensione muscolare e lo slancio aggressivo. Segni sul fianco destro (forellini di trapano per l’inserimento di perni, superfici abbassate) testimoniano che la coda era riportata e applicata, così come le orecchie. In effetti lo studio anatomico del corpo slanciato, con la testa piccola e il ventre fortemente incavato, 5 – NEW YORK, METROPOLITAN MUSEUM – STATUA DI LEONE IN MARMO (foto Museo) sembra ispirarsi più alla figura di un cane che a quella di un leone: d’altra parte, come nota Gisela Richter,45) i leoni si estinsero in Grecia prima del VI secolo a.C. Nell’aspetto generale la scultura richiama da vicino i leoni in pietra calcarea trovati in connessione con il Monumento delle Nereidi a Xanthos (tanto da consentire il restauro del leone di New York con i calchi di una delle belve di Xanthos46)). Stessa posizione, simile struttura slanciata, simile la trattazione della criniera ma sostanziali differenze formali nella partizione netta dei diversi settori del corpo, nell’accentuazione dell’impalcatura ossea e dei fasci muscolari; diverso anche il materiale: calcare per i leoni di Xanthos, marmo pario per quello di New York . Queste osservazioni portano Madeleine Mertens–Horn a collocare i leoni di Xanthos intorno al 500 a.C., mentre la datazione della statua di New York, attribuita a un’officina insulare, dovrebbe scendere in età severa, tra il 480 e il 460 a.C.47) Nonostante il ritrovamento della scultura risulti, dalle poche notizie in nostro possesso, assai più recente rispetto a quello degli altri due leoni, paradossalmente per quest’opera è ancora più difficile ripercorrere le vicende che ne possano chiarire il luogo di provenienza. La prima notizia sull’opera, da poco pervenuta al Metropolitan Museum di New York,48) si trova in una breve nota di J. Marshall:49) «The statue is said to have been found in or near Rome». Gisela Richter, nel suo catalogo della scultura greca del Metropolitan,50) è appena più esplicita sul luogo di ritrovamento della statua: «said to have been found in Trastevere, near Porta Portese, in Rome». La stessa studiosa, in una rievocazione dei primi anni di formazione del Department of Greek and Roman Art del Museo, ricorda il fondamentale contributo di John Marshall per l’acquisto delle opere sul mercato antiquario europeo e l’emozione suscitata, in quei primi anni del ’900, dall’arrivo di sculture importanti come la statua ellenistica di vecchia contadina51) e il leone greco del IV secolo a.C.52) Dovevano essere davvero anni entusiasmanti, quelli tra la fine dell’‘800 e i primi anni del ’900, per gli appassionati di archeologia e di arte antica di tutto il mondo: il mercato antiquario europeo, e soprattutto quello italiano, era vivacissimo, nonostante alcuni tentativi di regolamentazione restrittiva del commercio di antichità.53) La dispersione delle antiche collezioni nobiliari,54) dovuta alla crisi economica, i grandi “sterri” legati all’espansione urbanistica di Roma capitale,55) e il fiorire degli scavi su tutto il territorio italiano, crearono le condizioni per rifornire con abbondanza e continuità il mercato antiquario internazionale per diversi decenni. L’ambiente era veramente cosmopolita e frequentato da personaggi straordinari: in questo quadro spiccano le figure di Edward Perry Warren, membro di una ricchissima famiglia di Boston, archeologo di grande sensibilità e competenza, e di John Marshall, suo compagno di studi a Oxford e di vita a Lewes House, dove avevano fondato una sorta di cenacolo nel quale si viveva “alla greca”.56) Tra il 1892 e il 1902 Warren e Marshall controllarono quasi completamente il mercato antiquario di Roma, soprattutto nei confronti del mondo americano.57) Dal 1906 Marshall divenne rappresentante ufficiale del Metropolitan Museum di New York. Fu in questa veste che acquistò pezzi importanti: 5 6 – RODOLFO LANCIANI: PIANTA DI ROMA, PARTICOLARE CON L’AREA DEGLI HORTI DI CESARE (da R. LANCIANI, Forma Urbis Romae, Milano 1893–1901, tav. 39) “Marshall acquistò una notevole base etrusca di nenfro con bassorilievi di straordinaria finezza (che tipo? quando?) per 100.000 lire e il leone rampante, un grandioso originale della fine del V sec. (RICHTER, Handbook, p. 254, fig. 178– 179) a Roma per 64.000 lire e, sempre dallo stesso venditore, comprò per 35.000 franchi la deliziosa statua ellenistica di una pollaiola58) (RICHTER, loc. cit., p. 263, fig. 186), e per 25.000 franchi la statua ellenistica acefala, firmata Zeuxis, di un filosofo seduto, ritrovata a Villa Patrizi. Anche il grande torso di Eirene di Kephisodotos (RICHTER, p. 263, fig. 186), sempre trovato a Villa Patrizi, fu comprato da Marshall per New York per 40.000 franchi”.59) Così Ludwig Pollak che, in un altro capitolo delle sue memorie, ricorda i canali attraverso i quali venivano effettuati gli acquisti: “A piazza della Consolazione sull’angolo a sinistra della scala che porta al Campidoglio si trovava il negozio di Elio Jandolo che, per un certo periodo, appartenne anche a 6 Ernesto Magnani. Tre scalini portavano all’interno della piccola bottega. A mezzogiorno tornando a casa dall’Istituto Archeologico Germanico, scendevo la scala e andavo a trovare Elio. Aveva sempre qualcosa di nuovo. Gli ultimi acquisti erano esposti all’ingresso su un tavolo coperto da un foglio di carta bianca: pietre incise, un anello d’oro, statuette in bronzo, incisioni, ecc. e ogni tanto qualcosa di medioevale, portato alla luce dall’inesauribile sottosuolo romano. Spesso incontravo il numismatico Camillo Serafini, più tardi Governatore della Città del Vaticano. Collezionava monete romane antiche per il Gabinetto numismatico del Vaticano, di cui era direttore onorario. Elio Jandolo teneva le statue di marmo nel suo magazzino che si trovava in un edificio vicino al negozio. Era una grotta profonda scavata nella collina del Campidoglio, certo una cava di quelle utilizzate dagli osti come cantina per i loro vini. In quella grotta si trovavano sculture molto importanti, comprate da Marshall per New York, come il leone arcaico (RICHTER, loc. cit., p. 254, fig. 178), la venditrice ellenistica (RICHTER, loc. cit., p. 274, fig. 196). Il rapporto tra i due proprietari era più che straordinario. Non li si trovava mai assieme nel negozio. Se un terrazziere entrava con qualcosa da offrire, se i due si trovavano sul luogo, acquistavano insieme gli oggetti. Se però — come era più spesso il caso — era presente solo uno di loro, questi comprava il reperto di nascosto dall’altro, per rivenderlo subito dopo. Tutta Roma sapeva che i due protagonisti non si fidavano l’uno dell’altro. E così spesso capitava che uno dei soci venisse a sapere che l’altro lo aveva ingannato. Dopo violenti scontri verbali, tutto si appianava davanti a una foglietta di Frascati, perché i due erano ben consapevoli di essere colpevoli entrambi. Il che non impediva che gli scontri si ripetessero per essere poi sempre pacificamente ricomposti. La cosa andò avanti sino alla prematura morte di Magnani”.60) Questo il quadro della situazione per quanto riguarda l’acquisto della statua di leone da parte del Metropolitan Museum. L’opera fu dunque trovata a Roma, in Trastevere, vicino a Porta Portese. Tale indicazione, fornita da Gisela Richter,61) rimanda all’area tradizionalmente associata, sulla base della lettura delle fonti antiche, agli horti di Cesare.62) Di essi sappiamo che erano trans Tiberim;63) che, al loro interno, esisteva un tempio di Fors Fortuna64) situato al I miglio della via Campana; che vi risiedette Cleopatra durante il suo soggiorno a Roma,65) che vi furono organizzati grandi banchetti ai quali fu ammessa la plebs urbana e che lo stesso Cesare volle, come atto finale del suo rapporto privilegiato con il popolo romano, donarli proprio a quest’ultimo insieme a tutte le opere d’arte che contenevano,66) «come luogo di piacere». Se le fonti sono piuttosto avare e non consentono, per esempio, di stabilire con certezza i confini della proprietà,67) rinvenimenti di strutture antiche e di materiali effettuati nel corso dei secoli nell’area attribuibile a questi giardini possono, in qualche modo, segnalarne la presenza68) (fig. 6). La maggior parte dei ritrovamenti, che hanno messo in luce resti di sostruzioni,69) di portici70) e criptoportici, ninfei,71) edifici sacri,72) un edificio a pianta basilicale dall’incerta funzione,73) sono stati effettuati a ridosso del salto di quota della collina di Monteverde dove, presumibilmente, si trovava la parte più prestigiosa del complesso architettonico che doveva offrire una vista panoramica straordinaria, come quella celebrata da Marziale: Hinc septem dominos videre montes et totam licet aestimare Romam …74) Nel corso degli scavi furono trovate importanti sculture: fra le altre una statua di Venere, finita all’Ermitage di San Pietroburgo,75) e una serie di erme di filosofi e letterati greci76) — molte delle quali acefale, ma recanti i nomi dei personaggi rappresentati — che vennero messe in relazione con una notizia di Vacca: «vicino Porta Portese…nella vigna dei Vittorj, vi si trovarono molte statue e teste di filosofi e imperatori nascoste in due stanze, una addosso all’altra …».77) Forse a una delle strutture individuate all’epoca può fare riferimento un passo di Valerio Massimo,78) analizzato da John D’Arms,79) e relativo a uno dei due prandia offerti da Cesare nei suoi giardini alla plebe romana nel 45 a.C. in occasione della vittoria in Spagna. Si trattò, evidentemente, di eventi di enorme impatto propagandistico, durante i quali il popolo fu ammesso a godere dei piaceri offerti dalla prestigiosa proprietà cesariana trans Tiberim e a partecipare alla celebrazione del suo trionfo Hispanico sui pompeiani. Durante uno di quei banchetti, l’oculista Herophilus, che si spacciava come nipote di Mario e che si trovava vicino a Cesare tra due colonne di un portico (proximo intercolumio), fu salutato quasi con lo stesso calore di Cesare stesso. Sembra che questo sia l’unico riferimento esistente per una struttura architettonica situata all’interno di questi giardini. Molti dei ritrovamenti fin qui citati sono avvenuti in occasione della costruzione della “vecchia” stazione ferroviaria di Trastevere, presso l’attuale piazza Ippolito Nievo; tra il 1907 e il 1911 la stazione fu spostata nella posizione attuale e, contestualmente, fu costruito un ponte ferroviario sul Tevere per il collegamento tra la stazione di Trastevere e quella di Termini. I ritrovamenti di quegli anni interessano pertanto prevalentemente la piana compresa tra la riva del Tevere e la rupe di Monteverde: si tratta soprattutto di sepolcreti80) che costeggiavano la via Campana–Portuense, insieme a qualche struttura che può essere interpretata come parte di magazzino annonario:81) non sembra di poter riconoscere nell’area strutture interpretabili come edifici residenziali e attribuibili agli horti, probabilmente a causa delle grandi trasformazioni urbanistiche realizzate nella zona dopo la morte di Cesare e il suo lascito ereditario, che portarono importanti cambiamenti nell’assetto e nella destinazione dei luoghi.82) Forse in questa zona nei primi anni del Novecento fu ritrovata una statua acefala di Apollo seduto con omphalos, ora nel Museo Barracco: la scultura, probabilmente copia tardo–repubblicana di un originale ellenistico,83) entra nella raccolta prima del 1907, quando compare nell’aggiornamento del catalogo del Museo84) senza provenienza, ma descritta come statua frontonale «di stile fidiaco». Pollak, fidatissimo consigliere di Barracco, in questo caso — essendo direttamente interessato — appare molto più reticente sull’acquisto dell’opera, svelando solo che tra le opere entrate nella collezione tra il 1905 e il 1914 per merito suo, va annoverato anche «il torso fidiaco di Apollo dei giardini di Cesare situati dietro Trastevere (n. 100)».85) È comunque in quest’area affacciata sul Tevere che deve essere stata trovata la statua di leone ora a New York: acquistata dal Museo americano nel 1909, il ritrovamento avvenne poco prima della comparsa dell’opera nel magazzino di Elio Jandolo alle pendici del Campidoglio.86) Il grande valore non solo artistico, ma anche simbolico, di una tale scultura, originale greco di età classica, prodotta da un’officina insulare e probabilmente giunta a Roma come bottino di guerra o come frutto di spoliazione, trova la sua naturale collocazione in un’area di straordinario prestigio come quella degli horti di Cesare a Trastevere. 7 7 a Il terzo leone greco si trova nel Museo Archeologico di Firenze87) (figg. 7 a–b, 8). Si tratta di una statua a grandezza naturale che ha perduto, nel corso dei secoli, tutte e quattro le zampe:88) dalla posizione della figura si può, tuttavia, ricostruire l’atteggiamento originale dell’animale appena abbassato sulle zampe anteriori e sollevato su quelle posteriori: la testa è lievemente volta a sinistra. Il corpo mostra una muscolatura ben delineata, che evidenzia i fasci muscolari all’altezza della spalla e all’attaccatura delle zampe posteriori. Nella parte mediana del corpo sono sottolineate le costole spor- 8 genti che segnalano la tensione interna della figura. La lettura dei lineamenti del muso è in parte inficiata dal notevole grado di dilavamento e di consunzione che hanno interessato la scultura, evidentemente esposta all’aperto per lunghi periodi, e probabilmente anche da qualche tentativo di rilavorazione, tesa a sottolineare e a “ravvivare” alcuni dettagli attutiti dal precario stato di conservazione delle superfici. Il muso è tondeggiante, caratterizzato da evidenti bozze frontali; gli occhi infossati, quasi umani, con pupilla segnata. Le fauci sono aperte e la lingua, ora poco visibile, doveva essere portata in fuori come negli altri esemplari. Le orecchie sono piccole, tondeggianti, aderenti al cranio, segnate da solchi di trapano. La 7 a–b – FIRENZE, MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE – STATUA DI LEONE IN MARMO: FIANCO SINISTRO E PARTICOLARE DELLA TESTA 8 – (foto Museo) 7b 8 DISEGNO RICOSTRUTTIVO DEL LEONE DEL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI FIRENZE (da M. MERTENS–HORN, Studien zu griechischen Löwenbildern, in RM, 93, 1986, p. 16, fig. 4) 9 – PHILADELPHIA, ROSENBACH MUSEUM & LIBRARY – GIROLAMO DA CARPI, ROSENBACH ALBUM., R 137: LEONE DALLA COLLEZIONE DEL BUFALO (DISEGNO) (foto Rosenbach Museum & Library) criniera è formata da una prima fila di ciocche regolari e ordinate intorno al muso, mentre sul collo e su una parte del dorso, lungo la spina dorsale, si dispone in brevi ciocche ondulate e sovrapposte, più evidenti sul lato sinistro, più sciatte e schiacciate sul destro. Nell’insieme la belva ha perduto parte dell’aggressività caratteristica degli esemplari più antichi e, pur mantenendo una certa tensione muscolare, mostra una forza più tranquilla e contenuta, effetto accentuato dall’espressione quasi mesta del muso. La lieve inclinazione della testa, insieme alla lavorazione più accurata della criniera sul lato sinistro, inducono a ritenere che questo fosse il lato privilegiato per la percezione della statua. Il confronto stilistico con i gocciolatoti a testa di leone del Partenone e del Tempio degli Ateniesi a Delo, insieme all’uso del marmo pentelico, consente a Madeleine Mertens–Horn di attribuire il leone a un’officina attica dell’ultimo quarto del V secolo a.C., mentre l’esemplare più vicino è rappresentato da un leone di Cirene,89) caratterizzato però da una più decisa torsione della testa. Alla metà del XVI secolo il leone ora a Firenze faceva parte della collezione di antichità Del Bufalo:90) Ulisse Aldroandi91) la vide tra il 1549 e il 1550 e la descrisse nel giardino dell’abitazione a Fontana di Trevi. Insieme ad essa l’erudito ferrarese segnala la presenza di una statua di Cerbero: «Nel giardinetto di questa casa si vede un grā Cerbero di marmo con tre teste. Hanno finto i poeti che ne l’inferno è un fiero cane con tre teste, e l’hanno chiamato Cerbero: Dicono ancho, che quando Hercole scese vivo a l’inferno, legò questo cane, si lo strascinò fuori nel nostro mondo. Qui si vede ancho una tigre di marmo antica posta sopra una basi moderna». A quell’epoca la collezione Del Bufalo conobbe il suo massimo splendore: mentre nelle sale del Palazzo trovavano posto gallerie di ritratti di uomini illustri, sistemati insieme ai simulacri di antichi dei, nella scenografica architettura verde del giardino venivano ambientati statue di Muse e busti di personaggi celebri e si facevano rivivere statue di divinità ed episodi del mito. Un’efficace descrizione della magnificenza del giardino Del Bufalo si ritrova in Jean–Jacques Boissard che, tra il 1555 e il 1561, ci accompagna in una visita a casa del Bufalo, aggiungendo note significative sull’ambientazione delle sculture: «In questo giardino si trova una fontana, costruita ad arte con pietre marine nella forma di una rupe naturale, di tale bellezza e di tanta ricchezza, e di una composizione così rara, che non se ne può vedere di più belle. In diversi luoghi sono disposte conchiglie preziose che ricordano lo splendore delle perle e grandi chiocciole indiane assai splendenti con il colore dell’iride e delle perle. Tutta questa rupe artificiosa è ricoperta in maniera mirabile con lauri, cedri, tamerici e altre essenze, che proiettano la loro ombra sulla fontana sottostante, e sotto le piante ci sono tre statue elegantissime di Muse e l’imperatore Caracalla che mostra un pallio in alabastro cotognino. Ovunque sono sistemati busti che si affacciano dalle loro nicchie, di Demetrio, Massimino, Filippo, Claudio e altri. Dalla rupe sgorga una fonte di acqua limpidissima che scorre attraverso tubi e canali di bronzo con un mirabile artificio. C’è un pavimento elegantissimo di marmi, fatto come un mosaico commesso di marmo calcedonio, porfido, alabastro, tasio, pario, ofite, di pietra africana ed etiopica, opera degna della massima ammirazione …».92) La raccolta rappresenta l’esito di un raffinato collezionismo di sculture antiche e una partecipe reminiscenza della grandezza passata, ma anche l’immagine, dalla forte valenza ideologica, del prestigio e della cultura dei proprietari. Non solo eruditi e viaggiatori ci hanno tramandato queste preziose testimonianze sul collezionismo romano del XVI secolo, ma artisti e disegnatori si sono cimentati nello studio e nella riproduzione dei nobilia opera lasciatici in eredità dal mondo antico, come 9 modelli di bellezza classica da cui trarre ispirazione. E così il leone Del Bufalo compare nel taccuino di Girolamo da Carpi93) (fig. 9), databile tra il 1549 e il 1553, completo delle zampe ora mancanti, insieme a una statua di musa, con la dicitura «in casa del bufalo». Alcuni anni dopo, tra il 1572 e il 1577, il francese Pierre Jacques94) disegna molte delle sculture della medesima collezione, tramandando l’immagine delle opere che più impressionarono gli artisti cinquecenteschi: in particolare la statua di leone è rappresentata in tre magnifici disegni (figg. 10–12) che ne restituiscono la visione posteriore, quella del fianco destro e quella, parziale, del lato sinistro. La figura, anche in questo caso, appare integra, poggiata su una base marmorea quadrangolare e con un globo tra le zampe anteriori. Poco dopo la metà del XVI secolo cominciò la diaspora delle opere Del Bufalo. Una parte delle sculture fu venduta nel 1562, per la somma di 1575 scudi, al cardinal Alessandro Farnese: tra queste la statua di Atlante che regge il globo, il puteale che gli faceva da base e il barbaro inginocchiato ora, con la collezione Farnese, nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.95) PARIS, BIBLIOTHÉQUE NATIONALE DE FRANCE – PIERRE JACQUES, ALBUM: STATUA DI LEONE IN COLLEZIONE DEL BUFALO 10 11 10 10 – FOL. 79 – PARTICOLARE DELLA PARTE ANTERIORE (DISEGNO) – FOL. 78v – VEDUTA DEL FIANCO DESTRO (DISEGNO) (foto Biblioteca) 12 – PARIS, BIBLIOTHÉQUE NATIONALE DE FRANCE PIERRE JACQUES, ALBUM, FOL. 78: STATUE DI LEONE E CERBERO IN COLLEZIONE DEL BUFALO (DISEGNO) (foto Biblioteca) Un’altra vendita del 1572, che sancì la definitiva dispersione del principale nucleo della raccolta, vide l’acquisto di 11 sculture, per 155 scudi, da parte del Cardinale Ippolito d’Este:96) di questo gruppo fanno parte sia il leone che il Cerbero (figg. 12 e 13). In realtà nella Memoria delle statue et antiquità che sono restate doppo la morte dell’Ill.mo S. Car. di Ferrara [avvenuta il 2 dicembre 1572 ] appresso diverse persone, allegata all’inventario delle Statue esistenti nella Villa di Monte Cavallo (15 luglio 1568)97) si legge: «… nel giardino di Paulo del Bufalo vi sono 4 statue al naturale con le sue teste antiche, et un Leone di naturale, et un Cerbero con tre teste di forma colossa, quali sono pagate». Quindi, nonostante l’avvenuto acquisto da parte di Ippolito d’Este, a causa della morte del cardinale, le statue non furono trasferite nella villa del Quirinale, ma rimasero nel giardino Del Bufalo almeno fino al luglio 157598) — quando le vide e le disegnò Pierre Jacques — per poi ricomparire, alcuni anni più tardi, nell’inventario di Villa Medici.99) È estremamente difficile stabilire se il leone a quel tempo fosse come appare nei disegni, ossia se fosse stato trovato integro negli scavi, oppure se sia stato oggetto di integrazioni nell’ambito della collezione Del Bufalo (Aldroandi scrive: «una tigre di marmo antica posta sopra una basi moderna»100)), oppure ancora se il completamento dell’opera sia dovuto alla sensibilità formale degli artisti che l’hanno disegnata restituendole l’aspetto originale. Certo nell’inventario di Villa Medici del 1588 il leone viene definito come mancante della coda; quindi si può presumere che le zampe, originali o di restauro, fossero ancora presenti. L’opera venne trasferita a Firenze con le collezioni medicee e si trova ora nel Museo Archeologico Nazionale di quella città.101) D’altra parte una situazione analoga va ipotizzata anche per la statua di Cerbero, anch’essa presente nel giardino Del Bufalo e segnalata nella descrizione di Aldrovandi: nei disegni di Pierre Jacques appare correttamente completata da teste canine (figg. 12 e 13), mentre allo stato attuale102) presenta integrazioni diverse che la trasformano in Chimera. Lo stato frammentario dell’opera viene segnalato nei vari inventari di Villa Medici, finché nel 1774 viene definita «pezzo di rottame colossale di chimera scolpita in marmo di cui la sola pietra è servibile» e risulta ricoverata nella rimessa detta “il Capannone”.103) Successivamente l’opera, già nella sua nuova veste di Chimera, venne trasferita nel giardino di Villa Albani dove compare nella descrizione della villa del 1785104) e dove si trova tuttora. 11 13 – PARIS, BIBLIOTHÉQUE NATIONALE DE FRANCE – PIERRE JACQUES, ALBUM, FOL. 77v: STATUA DI CERBERO (DISEGNO) (foto Biblioteca) Le due sculture — il leone e il Cerbero — che hanno seguito i medesimi percorsi collezionistici fino alla definitiva separazione nel ’700, furono rinvenute insieme sull’Esquilino.105) Pirro Ligorio, impressionato dalle dimensioni e dalla qualità delle opere, torna più volte a narrare del loro ritrovamento nelle “terme di Filippo” nei pressi della chiesa di San Matteo in Merulana. Vale la pena di riportare i diversi passi di Ligorio per tentare di individuare con precisione il luogo di ritrovamento: «THERME DI PHILIPPO, sono quelle che Philippo Imperatore fece allato et vicino alla parte orientale delle Therme Thraiane [sic!] anchor esse superbe, poste sopra al colmo dell’Esquilie alquanto piu alte che non erano situate le Traiane: in cui furono le imagini dell’Laocoonte et de suoi figliuoli di marmo locate hora nel Vaticano nel luogo chiamato Belvedere, nelle dilitie degli giardini delli Sommi et Santi Pontefici, opera bellisima, et confinano, colla Via nuova tra le Traiane Therme et quella di San Matthaeo in Merulana, ove erano animali grandissimi di marmo che gittavano acqua per le bocche, come Cani Molossi, Laene, Leoni, Cerberi, et Elephanti, de quali havemo veduti i vestiggi. et vi fu’ trovata questa inscrittione rouinata et imperfetta nell’acquedotto di piombo L.RUBRIUS.GETA.CUR.P.CCCXXIII. D.N.PHILIPPI.AUG.THERM».106) La stessa iscrizione è riportata anche in un manoscritto napoletano di Ligorio,107) con questo commento: 12 «nel monte Esquilino, verso la chiesa di S. Matteo et la vigna di Mr. Francesco di Norcia medico…, overo subito passata la conserva over piscina limaria che ora si dice le sette sale». «Terme di Filippo erano pure nell’Esquilie, nella terza regione d’Iside e di Serapide e di Moneta, le quali erano infra le terme Traianiane e gli orti che furono anticamente di Maecenate, ove sono stati trovati tipo alcuni animali di marmo grandi che per le bocche gittavano largo fonte già dell’acqua Iulia Tepula, come leoni e iaene e cani molossi e Cerbero tricipite cane di Iove Serapide stygio. Vi furono trovate le imagini del Laocoonte colli figliuoli di due pezzi, le quali sono locate in Vaticano nel giardino de’ pontefici, d’opera ammirabile, se bene esse siano minore di grandezza di quella eccellenza ch’erano quelle delle terme di Tito Vespasiano, del quale avemo veduti i piedi, le ginochia et i pezzi delli dragoni di grandezza e di eccellenza molto superiori a queste delle terme di Filippo».108) «Avendo edificate le sue Terme nell’Esquilie di là delle Terme Traiane ove dedicò molte statue e fece de’ fonti nelle piazze d’esse terme con animali che versavano delle acque vive, vi fece un gran cerbero cane di Sarapide con tre teste di leone, di lupo e di cane, in altro pose leoni, in altri tigri e simplici cani, de’ quali avemo veduti trovare nelle sue rovine e raccolti da Stephano Buphali nobilissimo romano. Nelle medesime therme furono trovate quelle tre figure di due pezzi di Laocoonte e di suoi figliuoli, intrigati e dannati dai serpenti e dragoni di Minerva, locati in Belvedere …».109) «Cerbero[...]. La cui figura in Roma si vede molto grande di marmo in casa de’ Bufali al Fonte di Trevi, la quale è antica cosa dell’ornamenti e fonte delle terme de Filippo imperatore, ch’erano nell’Esquilie. Cerbero, dice Apollodoro nel secondo libro della Theogonia, è cane con tre teste canine e colla coda di dracone»110) «alcuni imagini d’animali che servivano per fonti, di grandissima statura tra (cui) un Cerbero, o pure cane di Serapide, con tre teste, et una leonza della medesima grandezza, hora si serbano nella casa di M. Stephano del Bufalo gintilhuomo Romano. Il terzo animale era un cane molosso che è nella vigna di M. Francesco da Norcia Medico»111) «HORTI MAECENATIS CVM TVRRIS, Furono vicini al Campo Esquilino, nel piano del colle, et nel piu alto sito, ove fu una superba Torre come hauemo posto nel disegno della Roma gia stampata, che ha insegnato ad’ogni uno di riconoscere le antichita et i luoghi, et nel cui sito fu trovata memoria di Maecenate, et vi è la vigna di molti e tra esse vigne vi è quella di M. Francesco da Norcia Medico da Signori. la chiesa san Iuliano, infra questa chiesa e quella di san Matheo in Merulana, et confinaua circa alle Therme di Philippo imperatore e confinanti alli horti colla Regione d’Iside e di Serapide comprendeva molto spatio …».112) 14 – Le cosiddette Terme di Filippo sembrano essere il frutto di una dotta ricostruzione antiquaria, basata sulla lettura dell’iscrizione sopra riportata, giudicata falsa.113) Ma la suggestione derivata dal testo dell’iscrizione, che sarebbe stata letta su una fistula plumbea, porta addirittura, da parte degli eruditi rinascimentali, a interpolare le Terme di Filippo negli elenchi dei Cataloghi Regionari relativi alla Regio III, dopo le Terme di Tito e quelle di Traiano.114) Da allora le Terme di Filippo entrano a tutti gli effetti nelle descrizioni della topografia antica di questa zona dell’Esquilino.115) Le indicazioni ligoriane (fig. 14) consentono, comunque, di collocare il ritrovamento delle statue di animali in un’area piuttosto precisa e circoscritta: innanzitutto c’è l’indicazione della chiesa di San Matteo in Merulana, la cui posizione, riportata nella pianta del Nolli (cfr. fig. 16), è ben nota (la chiesa, oggi scomparsa, fu devastata dall’esercito napoleonico, insieme al vicino monastero agostiniano, nel 1798). Molti antiquari descrivo- PIRRO LIGORIO: PIANTA DI ROMA (1552), PARTICOLARE CON L’AREA DELLE TERME DI FILIPPO (da AIMÉ–PIERRE FRUTAZ, Le piante di Roma, II, Roma 1962, tav. 222) 13 re le pendici della collina verso la valle della via Merulana, oppure verso quella di via Labicana, a seconda dell’orientamento. Una struttura analoga, ma di dimensioni molto maggiori, si trova più a sud e a una quota più bassa: si tratta di 18 arcate in reticolato e laterizio che si sviluppano per una lunghezza di più di cento metri lungo via Pasquale Villari e che sono state messe in relazione con il santuario delle divinità egizie che si trovava più a monte.123) La scoperta dei resti del santuario isiaco, insieme a quella di un imponente apparato scultoreo,124) è segnalata da G. P. Bellori che parla di un «sacello della Dea Iside scoperto l’anno 1654 in un horto sotto ‘l monte Celio presso la chiesa di S. Pietro e Marcellino»125) e da Pier Santi Bartoli nelle sue Memorie: 15 – VEDUTA DELLE “VESTIGIE DELLE TERME NELL’ESQUILINO” DELL’IMP. FILIPPO (da R. VENUTI, Accurata e succinta descrizione topografica delle antichità di Roma, I, Roma 1763, tav. 55) no, nei pressi della chiesa, resti di strutture antiche;116) altri, in tempi più recenti, specificano che le murature erano in opera reticolata, avanzando dubbi sulla possibilità di attribuirle all’epoca di Filippo l’Arabo, l’imperatore che avrebbe costruito le terme.117) Resti di opera reticolata sono peraltro segnalati, nei pressi del sito della chiesa di San Matteo, ancora nel 1873, in un rapporto di scavo di Angelo Pellegrini: «Dietro i pochi resti di mura che esistono in una vigna situata incontro al luogo dove stava la chiesa di S. Matteo in Merulana […]; a nord di questi avanzi creduti delle terme dell’imperator Filippo, e di costruzione reticolata, sull’alto dell’Esquilino …».118) Nei pressi della chiesa di San Matteo la Storia degli Scavi di Rodolfo Lanciani segnala la concessione di diverse licenze di scavo, che potrebbero essere state occasione dei rinvenimenti delle sculture: la prima, nel 1510, quando Adriana de Saladini concede a Girolamo de’ Rossi il permesso di cavare nella sua vigna positam ante ecclesiam sancti Mathei in Merulana;119) una seconda del 10 maggio 1568, è rilasciata dai Padri agostiniani di San Matteo ad Andrea del Fonte, per scavare nell’area del monastero, del convento e dell’orto annesso:120) ma a quell’epoca le opere che ci interessano erano già state viste e descritte nel giardino Del Bufalo da Aldroandi (a Roma tra il 1549 e il 1550; la pubblicazione è del 1556), e quindi la data della scoperta deve essere precedente. Una serie di ambienti voltati compare, con l’indicazione «Terme dell’Imp.e Filippo nell’Esquilino», nella Descrizione topografica di Ridolfino Venuti del 1763121) (fig. 15). Se le arcate che compaiono nell’incisione corrispondono effettivamente ai resti visti nel ’500 — e anche successivamente — nei pressi della chiesa di San Matteo,122) si potrebbe trattare delle strutture di sostegno di un terrazzamento destinato a regolarizza- 14 «Più oltre, dalla parte di dietro SS. Pietro e Marcellino, quasi nel medesimo tempo fu trovato nel cavarsi un tempio egizio le figure del quale furono fatte disegnare dalla gloriosa memoria del Cavalier Cassiano del Pozzo, mecenate de’ suoi tempi».126) Il “sacello” pare sia stato distrutto poco dopo il ritrovamento,127) ma i disegni rintracciati da Mariette de Vos128) nel Museum Chartaceum di Cassiano del Pozzo conservato a Windsor Castle, confermerebbero il carattere egittizzante delle decorazioni e la loro pertinenza alla struttura di via Villari.129) La questione è molto controversa, sia per la scarsità delle fonti letterarie sul santuario isiaco della III Regione augustea, sia per la difficoltà di interpretazione delle strutture e delle opere ritrovate in “esplorazioni archeologiche” poco documentate dei secoli scorsi. Gli scavi ottocenteschi hanno poi messo in luce un grande portico con piscina centrale da subito attribuito dagli scavatori al santuario isiaco,130) mentre un gran numero di sculture venivano ritrovate in pezzi, riutilizzate come materiale da costruzione, in un muro medioevale scoperto nell’area tra la via Labicana e l’attuale via Verri.131) La grande congerie di frammenti scultorei recuperata dalla demolizione del muro, tra i quali almeno 20 teste, può essere attribuita in parte all’ambiente artistico egizio e/o egittizzante e quindi verosimilmente alla decorazione scultorea del santuario isiaco che diede il nome alla III Regio augustea, ma ne fanno parte anche pregevoli copie di originali greci per le quali si può ipotizzare una diversa provenienza.132) D’altra parte il fenomeno dei muri tardo antichi o alto medievali costruiti con frammenti di sculture, assai diffuso sull’Esquilino e sul Celio e largamente verificato nel corso degli scavi ottocenteschi, pur non avendo trovato una spiegazione univoca, deve essere stato alimentato da materiali disponibili in aree non troppo distanti.133) Particolarmente significativa, a questo proposito, la vicenda del ritrovamento dei frammenti della statua del bue Api in granodiorite di Assuan, denominata “Torello Brancaccio”: un primo frammento fu trovato nel 1886134) nei terreni Field Brancaccio, in corrispondenza dell’attuale via dello Statuto; altri pezzi (che consentirono la ricostruzione quasi completa della statua135)) furono rinvenuti anni dopo, insieme ad altri frammenti di sculture, in un 16 – GIOVANBATTISTA NOLLI: PIANTA DI ROMA (1748), PARTICOLARE (da FRUTAZ, Le piante di Roma, cit., III, tav. 408) In giallo l’area della chiesa di San Matteo. muro nell’area del convento delle suore di Cluny136) tra via Mecenate e via Angelo Poliziano. Un frammento del Torello, sfuggito alla ricomposizione, ma sicuramente proveniente dallo stesso contesto, fa parte delle collezioni del Museo Barracco.137) La statua, che rappresenta il toro Api gradiente con disco solare e ureo sul capo, per le dimensioni e la preziosità del materiale, può essere interpretata come immagine di culto del dio venerato nel santuario di Memphis: come datazione è stata proposta la media età tolemaica (II secolo a.C.). Tornando alle notizie ligoriane, per la localizzazione delle Terme di Filippo ricorrono costantemente, come riferimento topografico, le Terme di Traiano e la cisterna delle Sette Sale, situate a occidente.138) Tra le proprietà dell’area ai suoi tempi, Ligorio cita invece la vigna del medico Francesco da Norcia: si tratta dei possedimenti di Francesco Fusconi — medico dei papi, proprietario di una vigna presso San Matteo già dal 1536 — che furono ereditati dal nipote Adriano Fusconi, vescovo di Aquino. Alla fine del ’500 i terreni, attraverso passaggi all’interno della stessa famiglia, risultano nel possesso della famiglia Pighini, e con questo nome compaiono nella pianta del Nolli del 1748 (fig. 16), immediatamente a nord della chiesa di San Matteo, tagliati in due dal passaggio della nuova via Merulana completata nel 1575.139) Nella stessa vigna Fusconi alcuni antiquari140) collocano il ritrovamento della celeberrima statua del Meleagro dei Musei Vaticani, scoperta prima del 1546 e poi passata, come la vigna, nei beni della famiglia Pighini. Alla stessa famiglia Fusconi–Pighini, alla loro vigna presso San Matteo e poi alla loro collezione conservata nel Palazzo in platea Farnensium, si può ricondurre anche un terzo animale della serie di quelli descritti da Ligorio come rinvenuti nell’area delle Terme di Filippo: si tratta di un cane molosso,141) ora ai Musei Vaticani,142) ma presente nell’inventario delle sculture di Adriano Fusconi, in data 6 settembre 1593: «Un cane grande intiero assetato (sic)» (seduto, traduce Lanciani).143) E così il bestiario di Ligorio è quasi completo: abbiamo il leone, il Cerbero, e ora anche il cane molosso. Certo la notevole coincidenza delle notizie relative al luogo di ritrovamento delle due opere (Meleagro e cane) e alle loro vicende collezionistiche (Vigna Fusconi–Palazzo Pighini–Musei Vaticani) farebbero propendere per la controversa provenienza del Meleagro dalla zona che ci interessa.144) Ma il ritrovamento senz’altro più sensazionale effettuato nella zona è quello della statua di Laocoonte, scoperto il 14 gennaio 1506 nella vigna di Felice de Fredis «in una camera antiquissima subterranea bellissima pavimentata et incrustata mirifice et haveva murato lo usso», come risulta dalla notissima lettera con la quale Giovanni Sabadino degli Arienti informa Isabella d’Este della scoperta.145) Una recente fortunata ricerca che ha com- 15 17 – PIANTA DELLE STRUTTURE ANTICHE SCOPERTE SULLE PENDICI DEL COLLE OPPIO (da R. VOLPE, A. PARISI, Alla ricerca di una scoperta: Felice de Fredis e il luogo di ritrovamento del Laocoonte, in BCom, CX, 2009, p. 103, fig. 19) portato lo spoglio capillare dei documenti d’archivio, ha permesso di stabilire l’esatta collocazione della vigna de Fredis e quindi il luogo preciso del ritrovamento del Laocoonte, ma anche i vari passaggi di proprietà che portarono a far confluire il terreno individuato nei possedimenti delle famiglie Fusconi e poi Pighini. In particolare, la scoperta della celeberrima statua è stata messa in relazione con la costruzione di quell’edificio a forma di L che nella pianta del Nolli compare giusto ad est delle Sette Sale, ed è ancora esistente all’interno dell’Istituto San Giuseppe di Cluny. 146) 16 L’area interessata comprende un limitato settore dell’Esquilino, a cavallo del tracciato delle Mura cosiddette Serviane, diviso tra la III e la V Regione augustea (fig. 17): è la pendice del colle che prospetta verso la via Labicana, limitata a est dalla valle percorsa dal tracciato della via Merulana (sia antica che moderna). Si tratta delle propaggini meridionali degli horti di Mecenate, che lambiscono l’area del santuario delle divinità egizie:147) si può forse ricostruire una scenografica disposizione del terreno a terrazze secondo i dettami dell’architettura ellenistica. La crea- zione degli horti di Mecenate, la cui cronologia è fissata agli anni 30 del I secolo a.C., deve quindi aver tenuto conto delle preesistenze presenti nell’area, ed in particolare dell’Iseo148) e del santuario repubblicano di Minerva Medica,149) la cui stipe, ricca di oggetti votivi, fu rinvenuta vicino all’angolo nord–orientale del grande portico con piscina centrale. Un edificio in opera reticolata,150) situato appena più a nord, lungo l’attuale via Poliziano, può rappresentare, in questa zona, un’attestazione della prima fase edilizia degli horti di Mecenate. Un’area, questa, di particolare pregio, a giudicare dall’importanza dell’arredo scultoreo rinvenuto nei secoli: basti pensare al gruppo di Laocoonte e alla statua di Meleagro, ma anche a tutti i frammenti di sculture reimpiegati come materiale da costruzione151) che, collocabili in epoche diverse, illustrano una continuità di vita e di “impegno decorativo” diacronicamente distribuito nell’ambito delle varie fasi edilizie riscontrabili sul terreno e ricostruibili con l’aiuto delle fonti letterarie. All’apparato decorativo degli horti possono così fare riferimento anche alcune delle statue di animali, trovate presso le “terme di Filippo”, che tanto impressionarono Pirro Ligorio. Il leone greco e il cane molosso, che l’erudito cinquecentesco immaginava come elementi di una fontana monumentale152) tra schizzi e giochi d’acqua, possono ben inserirsi all’interno dell’ampia area a verde che caratterizzava l’impianto degli horti, dove potevano essere considerati semplici elementi naturalistici nel suggestivo allestimento paesaggistico di un paradeisos artificiale, oppure assumere la funzione di custodi del giardino.153) Del resto, un’altra monumentale statua di cane, ricavata nella rarissima «serpentina moschinata» di origine egiziana, fu rinvenuta nel 1877 non lontano dall’Auditorium di Mecenate, nei pressi di una grande struttura absidata decorata da nicchie.154) Diversa invece potrebbe essere la provenienza della statua del Cerbero tricipite, che Ligorio lega a quelle degli altri animali: la connessione di Cerbero con Serapide, cui è spesso associato nell’iconografia della divinità creata nell’Egitto tolemaico, porta a ritenere che la statua, datata alla prima metà del II secolo d.C., possa derivare dall’apparato scultoreo del santuario delle divinità egizie. Certo le notevoli misure della scultura presuppongono l’esistenza di un gruppo statuario di dimensioni colossali, forse addirittura una delle statue di culto del tempio.155) Un passo di Strabone (XIII, 1, 19) testimonia che Agrippa fece portare a Roma da Lampsaco, città della Troade e ultimo centro costiero dell’Asia Minore toccato da Alessandro e dalle sue truppe prima della battaglia del Granico (maggio 334 a.C.), una statua di leone caduto, opera di Lisippo, e lo fece porre nei pressi delle terme che aveva costruito nel Campo Marzio, in un boschetto situato tra lo stagnum e l’Euripo. I 25 eteri macedoni morti nel primo assalto della battaglia del Granico furono commemorati da un gruppo bronzeo, molto celebrato nell’antichità, commissionato da Alessandro a Lisippo e collocato a Dion;156) esso fu trasferito a Roma per il trionfo di Quinto Cecilio Metello Macedonico nel 146 a.C. e posto a decorazione della porticus che da lui prese il nome nei pressi del Circo Flaminio, con un evidente grande impatto evocativo e politico.157) Se dunque i caduti macedoni furono celebrati in patria, in un santuario di Zeus, con un gruppo di enorme impegno artistico e di straordinario valore celebrativo, il leone caduto di Lampsaco — anch’esso affidato all’arte di Lisippo — doveva ricordare, in terra d’Asia, l’eroica condotta della battaglia da parte delle truppe scelte di Alessandro.158) D’altra parte la caccia al leone159) era il più nobile dei cimenti reali, una prova di eroismo cui Alessandro e i suoi compagni si sottoponevano per temprare le loro forze e il loro coraggio e prepararsi alla guerra.160) Il leone rappresenta insieme la regalità, la potenza e l’eroismo e come tale viene adottato nelle tombe degli eroi a manifestare, secondo un’antica tradizione, l’'aret¾ del defunto e il suo valore in battaglia e insieme per vegliare sul monumento funebre: i leoni colossali di Cheronea,161) Amphipolis162) ed Ecbatana,163) tutti legati a episodi o personaggi relativi alla cerchia reale macedone, ne costituiscono un’importante testimonianza. Agrippa quindi pose il leone caduto di Lampsaco nell’area da lui monumentalizzata del Campo Marzio: nella stessa area aveva collocato un’altra famosa statua di Lisippo, l’Apoxyomenos.164) Secondo Strabone il leone fu sistemato in un bosco, cioè in una sorta di ambientazione naturalistica che doveva esaltare la natura ferina del soggetto, mentre la statua dell’atleta, come tramandato da Plinio, era sistemata all’ingresso delle terme, il luogo per eccellenza dedicato alle attività sportive: un’adesione totale ai concetti di “appropriatezza” e di “decoro” che guidavano, secondo un’affermata corrente di studi,165) più del valore estetico l’inserimento di opere d’arte greche in contesti pubblici romani. D’altra parte, lo stesso utilizzo di sculture trasferite a Roma dalla Grecia a decorazione di uno spazio legato al nome del genero di Augusto, doveva accrescere il prestigio dei luoghi e trasmettere un messaggio di propaganda politica per lo stesso Agrippa. In particolare, la scelta del leone di Lampsaco, evocativa delle imprese di Alessandro, non doveva essere stata casuale nel celebrare la virtus umana e militare di Agrippa, definito ingenuus leo in una satira di Orazio.166) Dal punto di vista della comunicazione politica e sociale sottesa all’operazione di monumentalizzazione del Campo Marzio,167) una famosa orazione di Agrippa, ricordata da Plinio, teorizzava in campo artistico il primato del bene pubblico sul privato: “Esiste infatti uno dei suoi magnifici discorsi, degno del più grande dei cittadini, sulla necessità di rendere di pubblica proprietà tutti i quadri e le statue, piuttosto che lasciarli in esilio in qualche villa”.168) Concetto questo puntualmente messo in pratica dal suo testamento con il quale “alla sua morte lasciò al popolo i suoi giardini e le terme che da lui prendono 17 il nome, così che essi potessero frequentarle senza pagare”:169) una scelta che emula quella compiuta da Cesare alcuni decenni prima. “[Marcello] fece trasportare a Roma le cose preziose della città, le statue, i quadri dei quali era ricca Siracusa, oggetti considerati spoglie dei nemici e appartenenti al diritto di guerra. Cominciò proprio da questo momento l’ammirazione per le cose greche e la sfrenatezza di spogliare dovunque le cose sacre e profane”.170) Così Livio, a proposito della presa di Siracusa ad opera di Marco Claudio Marcello nel 212 a.C., e Polibio precisa: “I Romani, tuttavia, quando trasferirono queste cose a Roma, usarono quelle sottratte ai privati per accrescere lo splendore delle residenze private, mentre quelle che appartenevano allo stato furono destinate a ornare la città”.171) Parole molto significative per interpretare un certo atteggiamento del mondo romano nei confronti delle opere d’arte greca che, con le conquiste dell’età repubblicana, arrivarono numerose a Roma: la diversa destinazione delle opere trafugate dipendeva dalla natura delle opere stesse; i temi e i soggetti iconografici delle sculture, concepite per essere inserite in contesti pubblici, difficilmente potevano essere adattati alla decorazione di una casa. Certo, il collezionismo di prestigiose opere provenienti dalle terre di conquista venne sentito come uno status symbol dalla classe dominante romana, che lo volse a proprio vantaggio nelle aspre lotte che caratterizzarono Roma negli ultimi due secoli della repubblica. La casa diventa lo specchio della dignitas del proprietario e il possesso di beni di lusso e di collezioni artistiche rappresenta una manifestazione del livello sociale e del potere personale raggiunto dal singolo. Per comprendere pienamente le rivoluzionarie modifiche subite dall’architettura privata in questo periodo, risulta fondamentale la lettura di un passo di Vitruvio (de Arch., VI, 5, 2): “Ma per i nobiles, che devono svolgere i loro uffici con citta- dini e seguaci, e che rivestono importanti magistrature, devono essere costruiti vestiboli regali, atri alti e peristili amplissimi, con selve e passeggiate (ambulationes) in uno stile che aggiunga lustro alla loro dignità; inoltre librerie, gallerie di quadri e basiliche, eseguite con magnificenza non inferiore a quella di edifici pubblici, poiché le loro case sono spesso sede di riunioni su pubblici affari, nonché per arbitrati privati.” Lo stesso concetto espresso da Vitruvio per le domus della nobiltà repubblicana può essere esteso anche agli horti, fenomeno residenziale–urbanistico affermatosi a Roma soprattutto a partire dall’ultimo secolo della repubblica. Si tratta di grandi proprietà, immerse nel verde, caratterizzate da una complessa struttura architettonica che, con l’andar del tempo, circondarono con una corona di giardini il centro monumentale della città. La loro natura ibrida di residenze urbane strutturate come ville suburbane ne fa, per il loro rapporto con la natura e per la loro posizione periferica, dei centri di potere e, insieme, rifugi dagli affari del foro e dalla stressante contesa politica della vita pubblica. Come tali, 18 gli horti venivano concepiti, nella struttura architettonica e nell’arredo artistico, con la massima raffinatezza: “Tra i divertimenti io metterei anche la costruzione di edifici fastosi, di passeggiate coperte, di bagni e specialmente i dipinti, le statue, la passione che nutrì per le arti belle, la mania di collezionare oggetti artistici a costo di enormi spese. In esse profuse a rivoli le immense e favolose ricchezze che aveva accumulato durante le campagne di guerra: ancor oggi, benché il tenore di vita sia migliorato, i giardini di Lucullo sono considerati più sfarzosi di quelli imperiali.” (PLUT., Luc., 39, 2). Ma, nello stesso tempo, e secondo i dettami di Vitruvio, tanta opulenza viene sfruttata nella contesa politica: e quindi sappiamo che Pompeo, nel 61 a.C., appoggiando la candidatura “di Afranio a console, distribuì del denaro alle tribù affinché sostenessero il suo candidato. Il popolo si recò a prenderlo nei giardini di Pompeo” (PLUT., Pomp., 44, 4). Nei suoi horti trans Tiberim, come abbiamo visto,172) Cesare offrì due banchetti pubblici per celebrare il suo trionfo sulla Spagna: le splendide residenze dei più potenti dei Romani venivano quindi aperte all’ingresso della plebs urbana — con la quale, evidentemente, si intendeva intessere un rapporto personalistico — e utilizzate come mezzi di propaganda. È in questo quadro che va considerato l’inserimento di originali greci nella decorazione scultorea degli horti: è necessario però sottolineare qualche importante differenza. Per la prima opera di cui si è trattato — la testa di leone dei Musei Capitolini — si è ipotizzata una provenienza dalla vigna Muti che insisteva nell’area degli horti Sallustiani. Esili indizi attribuiscono a Cesare la fondazione di questi famosi giardini, situati tra il Pincio e il Quirinale, che sarebbero stati acquistati dallo storico Sallustio dopo il suo incarico da propretore in Numidia. Alla sua morte la proprietà fu ereditata dal nipote C. Sallustio Prisco per poi passare, in età giulio–claudia, nel demanio imperiale. I ritrovamenti di sculture effettuati nell’area nel corso dei secoli permettono di delineare un programma decorativo di altissimo prestigio e di rilevanza pubblica, tanto da far pensare a un progetto coerente e studiato in modo da trasmettere un messaggio di grande impatto ideologico e politico. Negli horti Sallustiani furono trovate, tra altre importanti sculture, le statue dei Galati, interpretate da Coarelli173) come monumento celebrativo delle vittorie galliche di Cesare; un grande trofeo e statue di barbari inginocchiati, riferibili a monumenti legati alla propaganda imperiale.174) E poi preziosissimi originali greci,175) come l’acrolito e il Trono Ludovisi, provenienti probabilmente dalla Magna Grecia per decorare un santuario di Venere Erycina inglobato all’interno della proprietà. Opera originale greca — o magnogreca — è la statua di Nike alata, raffigurata nell’attimo in cui si posa a terra, probabilmente acroterio di un edificio templare.176) Originale greco, e di straordinario valore evocativo, la statua di Amazzone inginocchiata, parte integrante della decorazione frontonale di età arcaica del tempio di Apollo Daphnephoros ad Eretria; alla fase classica della decorazione dello stesso tempio sono state attribuite le tre splendide statue di Niobidi trovate nell’area tra la fine dell’‘800 e i primi anni del secolo successivo. Particolarmente significativo che alla stessa fase del tempio di Eretria — ma del lato opposto — siano ricondotte le sculture, rappresentanti un’amazzonomachia, riutilizzate nel tempio di Apollo Sosiano nel circo Flaminio.177) Un grande complesso scultoreo quindi, asportato in blocco dal santuario della città euboica e poi spartito tra due diverse destinazioni: un monumento pubblico, situato in un luogo assai sensibile della città, dedicato da Caio Sosio ma rispondente al programma urbanistico e di restaurazione religiosa di Augusto e una residenza privata, seppure appartenente a personalità di altissimo prestigio, strettamente legate alla figura del princeps. Difficile risulta delineare un quadro convincente dell’assetto architettonico e del programma decorativo degli horti di Cesare trans Tiberim, dai quali proviene, probabilmente, il leone oggi a New York: il quasi assoluto silenzio delle fonti letterarie, le radicali trasformazioni dell’area già in età antica, la sporadicità degli scavi e dei ritrovamenti, la dispersione dei materiali rinvenuti, rendono estremamente arduo farsi un’idea dell’aspetto dei luoghi nella tarda repubblica. Qualche indicazione di Suetonio aiuta però a comprendere l’atteggiamento di Cesare nei confronti dell’architettura residenziale e del possesso di beni di lusso: da una parte dice che distrusse dalle fondamenta una villa che aveva fatto costruire a Nemi, perché non corrispondeva al suo gusto; dall’altra dipinge Cesare come un appassionato e raffinato collezionista di opere d’arte in expeditionibus tessellata et sectilia pavimenta circumstulisse e … gemmas, toreumata, signa, tabulas operis antiqui semper animosissime comparasse.178) Collezioni lasciate per testamento, con i suoi horti, al popolo romano.179) Diversa, rispetto a quella ricostruibile per i Sallustiani, la situazione degli horti dell’Esquilino, e in particolare degli horti di Mecenate, dai quali proviene la statua di leone ora nel Museo Archeologico di Firenze. Qui l’imponente apparato scultoreo ritrovato nel corso dei secoli sembra dichiarare una connotazione più privata e meno programmatica dal punto di vista della comunicazione politica. “(Mecenate) preferì l’ombra di una quercia, le cascate e pochi iugeri di terra coperta da alberi da frutta; onorando le Muse Pieridi e Febo nei suoi dolci giardini (in mollibus hortis), si sedeva a chiacchierare tra il cinguettio degli uccelli” (el. in Maec. I, 33–36): uno spazio, insomma, dedicato all’otium, che Augusto aveva concesso a Mecenate per “vivere appartato nella stessa Roma come in un soggiorno straniero” (TAC., Ann., 14, 53), dove lo stesso princeps si rifugiava quando aveva problemi di salute (SUET., Aug., 72, 4) e che Tiberio scelse quando, al ritorno dall’esilio di Rodi nel 2 d.C., “cambiò immediatamente abitazione, passando dalla casa di Pompeo, alle Carine, ai giardini di Mecenate, sull’Esquilino; e si abbandonò al più completo riposo, osservando solo i suoi doveri privati e astenendosi da qualunque pubblico incarico” (SUET., Tib., 15, 1). Dagli horti sull’Esquilino provengono sculture di straordinario valore180) che possono testimoniare un impegno decorativo protrattosi nel tempo, soprattutto nei diversi periodi in cui la proprietà — già ereditata da Augusto — era entrata a far parte del demanio imperiale. Alla fase iniziale della villa possono forse essere ascritte le sculture neo–attiche come il rhyton di Ponthios, il rilievo con Menade danzante, oppure la grande tazza di fontana con decorazioni vegetali, oggi tutte nei Musei Capitolini:181) opere ben inseribili nel panorama di un giardino, nulla comunque che documenti un intento celebrativo o di adesione a un programma politico, se non una generica partecipazione al clima dell’aurea aetas. Anche la presenza nell’area di numerosi originali greci assume un aspetto più “intimistico”, dal momento che si tratta, nella quasi totalità, di stele sepolcrali. La particolare concentrazione di opere funerarie, certo significativa e degna di nota, ha fatto pensare a Malcom Bell182) che Mecenate avesse voluto ricreare nei suoi giardini all’Esquilino l’atmosfera del Ceramico di Atene, trasferendo a Roma e disponendo all’interno dell’area a verde alcuni notevoli esemplari dell’arte sepolcrale greca.183) D’altra parte, come testimonia Orazio, Mecenate impiantò i suoi giardini a scapito di un antico sepolcreto: “Qui un tempo gli schiavi facevan portare in misere casse, a pagamento, i cadaveri de’ loro compagni gettati fuori dalle anguste celle; qui stavano i mendicanti in sepolcri comuni; qui a Pantòlabo, il buffone, e a quello spendaccione di Nomentano, (ed agl’altri come loro), un cippo assegnava mille piedi in fronte (alla strada) e trecento piedi nei campi, e gli eredi non potevan venderne il monumento. Ora è possibile abitare sull’Esquilino reso salubre, e si può passeggiare sui bastioni soleggiati, ove prima si scorgeva un campo tristamente biancheggiante d’informi ossa”.184) Si è voluto vedere, nella disposizione delle stele all’interno degli horti, un devoto richiamo all’antica necropoli seppellita sotto metri di terra, ma non escluderei che si possa trattare piuttosto del segno di un raffinato collezionismo di sculture, raccolte come preziosi esemplari di arte greca.185) Si tratta in particolare della stele della fanciulla con colomba; di un’altra con figura femminile dal complesso abbigliamento; del rilievo di Villa Albani con cavaliere che colpisce il nemico; di una stele attica a due figure; di una con atleta ai Musei Vaticani, forse proveniente da una vigna sull’Esquilino, presso San Vito:186) opere di diversa origine, provenienza e cronologia, ma raccolte per essere esibite con nuove funzioni e significati nell’abitazione di un esponente della classe dominante romana della tarda repubblica. Una singolare forma di collezionismo, nota dalle fonti,187) verificabile in altri contesti188) e giustificata comunque dal diritto romano, perché Sepulchra hostium religiosa nobis non sunt: ideoque lapides inde sublatos in quemlibet usum convertere possumus: non sepulchri violati actio competit.189) 19 A un analogo concetto di collezionismo si possono riferire anche i leoni marmorei dei quali abbiamo trattato: sottratti forse da tombe di eroi greci, dei quali stavano a segnalare la forza e il valore, e trasferiti all’interno di rigogliosi giardini, nelle silvae prescritte da Vitruvio per le case dei nobili, a far parte — non diversamente dall’esemplare di Lampsaco sistemato in un ombroso boschetto — di un artificioso paesaggio naturale popolato da animali selvatici. Un colto richiamo ai paradeisoi di origine orientale,190) mutuati attraverso il mondo ellenistico e reinterpretati a Roma con un nuovo sentimento della natura, i cui echi si ritrovano nella pittura di paesaggio e di giardino e nelle trasposizioni fantastiche sulle pareti delle case pompeiane.191) ABBREVIAZIONI PARTICOLARI ALDROANDI 1556 = Delle statue antiche che per tutta Roma, in diversi luoghi e case particolari si veggono, raccolte e descritte per M. Ulisse Aldroandi, opera non fatta più mai da scrittore alcuno, in Le antichità de la città di Roma. Breuissimamente raccolte da chiunque ne ha scritto, ò antico ò moderno: per Lucio Mauro, che ha uoluto particularmente tutti questi luoghi uedere: onde ha corretti molti errori, che ne gli altri scrittori di queste Antichità si leggono, Venezia 1556. AST = Archivio di Stato di Torino, PIRRO LIGORIO, Antichità di Roma, voll. 1–30. 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STUART JONES, A Catalogue of the Ancient Sculptures preserved in the Municipal Collections of Rome. The Sculptures of the Palazzo dei Conservatori, Oxford 1926, p. XIX. 8) MERTENS–HORN 1986, p. 1. 9) F. MATZ, F. VON DUHN, Antike Bildwerke in Rom, I, Leipzig 1881, p. 463, n. 1621. 10) I. MIARELLI MARIANI, C. VIGGIANI, La decorazione secentesca, le collezioni e il fregio Dughet, in R. DI PAOLA (a cura di), Palazzo Muti Bussi all’Ara Coeli, Roma 2006, pp. 129–155. 11) Definito il più antico inventario conosciuto del Palazzo: ibidem, p. 137. 12) BARTOLI, Memorie, p. CCXXXIII, n. 45. 13) Inv. 515. 14) BARTOLI, Memorie, p. CCXXXIII, n. 45. 15) La prima fase di costruzione del Palazzo all’Aracoeli, su progetto di Giacomo della Porta, si concluse nel 1587. C. CONFORTI, L’architettura, in DI PAOLA, Palazzo Muti Bussi …, cit. in nota 10, pp. 85–128. Per i lavori del 1643, cfr. LANCIANI, Storia V, p. 145. 16) VACCA, Mem., n. 7: segue un divertente racconto sulla ricerca da parte di Orazio Muti del tesoro perduto, nella quale venne coinvolto Michelangelo che fu addirittura incarcerato (ma subito liberato) come colpevole del misfatto. Muti inseguì il “tesoro” fino a Venezia, dove scoprì che il vignarolo aveva venduto il tesoro alla Signoria della città: se ne dovette tornare a casa con l’unica consolazione del rimborso spese. 17) «Mi ricordo, che fu trovato nella vigna del Sig. Orazio Muti, dove fu trovato il tesoro incontro a S. Vitale un Idolo di marmo alto da cinque palmi il quale stava in piedi sopra un piedistallo in una stanza vota con la porta rimurata, ed aveva molti lucernini di terra cotta intorno, che circondavano col becco verso l’Idolo, il quale aveva la testa di leone, e il resto come un corpo umano: aveva sotto li piedi una palla dove nasceva un serpe, il quale cerchiava tutto l’Idolo, e poi con la testa gli entrava in bocca, si teneva le mani sopra il petto; in ciascuna teneva una chiave; ed aveva quattro ale attaccate agli omeri, due volte verso il Cielo, e l’altre chinate verso la terra. Io non l’ho per opera molto antica, per essere fatto da goffo maestro, ovvero è tanto antica, che quando fu fatta, ancora non era trovata la buona maniera». 18) VACCA, Mem., n. 27. 19) F. HASKELL, N. PENNY, Taste and the Antique, New Haven–London 1981, p. 307 (Sileno), p. 315. Il terminus ante quem del ritrovamento è dato da una lettera del cardi- nal Ferdinando de’ Medici a Carlo Muti, datata 18 settembre 1569, ove lo ringrazia del permesso di realizzare un calco della statua di Sileno. 20) L’opera risulta ancora nella collezione Muti in un’incisione pubblicata da G. B. CAVALIERI, Antiquarum Statuarum Urbis Romae tertius et quartus liber, Romae 1594, alla tav. 75. 21) Le opere compaiono in S. FRANCUCCI, Galleria dell’Illustris. e Reverendis. Signor Scipione Card. Borghese, Roma 1613, stanza 449. In realtà Orazio Muti, canonico lateranense, faceva da mediatore per la vendita di opere d’arte, anche antiche, sul mercato antiquario: una notevole raccolta di statue, dipinti e oggetti fu venduta per suo tramite a Emanuele Filiberto di Savoia a partire dal 1574. Cfr. A.M. BAVA, Arti figurative e collezionismo alle corti di Emanuele Filiberto e di Carlo Emanuele I, in G. RICUPERATI (a cura di), Storia di Torino, III, Torino 1998, p. 315. Il suo ruolo di mercante d’arte viene evidenziato anche da una sua lettera del 1578 al duca di Savoia, nella quale segnala che il mercato antiquario di Roma è monopolizzato dalla famiglia Boncompagni: LANCIANI, Storia, III, pp. 254 e 255; MIARELLI MARIANI, VIGGIANI, art. cit. in nota 10, p. 134. 22) VACCA, Mem., n. 59, p. 26; la notizia è confermata da un passo di Pirro Ligorio riportato da F. UBALDINO, Vita Angeli Colotii episcopi nucerini, Roma 1673, p. 25, ove si dice: Alio in loco reperta fuit imago Bacchi & Satyri, qui puerulum brachiis complexi blanditiis mulcent: ea nunc servatur apud Mutos nobiles Romanos. 23) Esistono diverse versioni della pianta di Roma di Bufalini: tutte riportano l’indicazione della vigna Muti. Cfr. pure la pianta di Bufalini rielaborata da G. B. Nolli, qui riprodotta alla fig. 4. 24) A. P. FRUTAZ, Le piante di Roma, II, Roma 1962, tav. 264. 25) R. LANCIANI, Il gruppo dei Niobidi nei giardini di Sallustio, in BCom, XXXIV, 1906, pp. 161 e 162. Inoltre, in un documento firmato da Flaminio Ponzio a seguito della vendita, si legge: «Si è venduto il portone levato d’opera … quale è un portone bellissimo di conci d’asprone e tever.no con doi fin.re di tever.no una per banda, qual fu venduto all’Ecc.mo Sig.r Duca Carlo Muti di Gloriosa Mem.a». Cfr. L. MARCUCCI, Il Vignola, Francesco da Volterra e la committenza Caetani nella seconda metà del Cinquecento, in L. FIORANI (a cura di), Sermoneta e i Caetani. Dinamiche politiche, sociali e culturali di un territorio tra medioevo ed età moderna, Roma 1999, p. 520. Un altro documento («atto di compra di un terreno della famiglia Muti, comprendente giardino, orto e un piccolo bosco a 1600 scudi, ubicato presso i giardini sallustiani, sul monte Quirinale, vicino al fonte dell’Acqua Felice e alla chiesa di S. Susanna») testimonia la vendita, il 27 aprile 1607 da parte della famiglia Muti, di un terreno alla congregazione dei Carmelitani Scalzi, terreno dove sorgerà la chiesa di Santa Maria della Vittoria. Cfr. M. CADARIO, “Ad arricchire la Lombardia con uno de’ più preziosi avanzi dell’Antichità”: il Tiberio colossale del Castellazzo degli Arconti, in Archivio Storico Lombardo. Giornale della società storica lombarda, CXXXIII, 2007, pp. 34 e 35. Se si tratta della stessa vigna segnalata in pianta da Bufalini, si deve pensare a un terreno di notevole estensione. 21 26) AST, vol. 15, f. 157v., F. 27) VACCA, Mem. 58. 28) Cod. Vat. Lat. 3439, f. 28; AST, vol. 15, f. 155. 29) R. LANCIANI, Venus hortorum Sallustianorum, in BCom, XVI, 1888, pp. 3–11. 30) M. CASTELLI, Venus Erycina e Venus hortorum Sallustianorum, in Bollettino d’Arte, s. VI, 1988, 49, pp. 53–62 (con ampia bibliografia precedente); TALAMO 1998, pp. 127–129; HARTSWICK 2004, pp. 68–82. 31) VACCA, Mem., n. 58. 32) AST, vol. 15, f. 155r. 33) LANCIANI, FUR, tav. 3. 34) «Il Cardinale di Montepulciano comprò le Collonne gialle, e ne fece fare la balaustra alla sua Capella in S. Pietro Montorio: comprò ancora quelle di Alabastro, una delle quali essendo intera la fece lustrare, e delle altre rotte ne fece fare tavole, e con altre anticaglie le mando a donare al Re di Portogallo; ma quando furono in alto Mare, l’impetuosa Fortuna, trovandosele in suo dominio, ne fece un presente al Mare»: VACCA, Mem. 58. 35) In un testo di Pirro Ligorio riportato da Ubaldino (op. cit. in nota 22, p. 25) si dice «… Huic parti adiunctum erat aedificium triclinium cubiculis undique cinctum continens, ut apparebat ex fundamentis, quae ad vineas plantandas funditus dirui vidimus». Gli scassi per l’impianto delle vigne devono aver provocato la distruzione di molte delle strutture degli horti. 36) L’indicazione del posizionamento della vigna Muti e dei diversi passaggi di proprietà è già in A. NIBBY, Roma nell’anno MDCCCXXXVIII, II, Roma 1839, p. 357; R. LANCIANI, Ruins and Excavations of Ancient Rome, London 1897, p. 417. 37) R. LANCIANI, Quatre dessins de la collection Destailleur, in MEFRA, 1891, pp. 167–170, tav. II. 38) G. B. DE ROSSI, Note di ruderi e monumenti antichi prese da G.B. Nolli nel delineare la pianta di Roma, conservate nell’Archivio Vaticano, in Studi e documenti di storia del diritto, 4, 1883, pp. 153–184, in partic. pp. 156 e 157; S. BORSI, Roma di Benedetto XIV. La pianta di Giovan Battista Nolli, 1748, Roma 1993, pp. 164–166. 39) TALAMO 1998, p. 125; HARTSWICK 2004, pp. 58–60; P. INNOCENTI, M.C. LEOTTA, Horti Sallustiani. Le evidenze archeologiche e la topografia, in BCom, CV, 2004, pp. 187– 195. 40) TALAMO 1998, p. 125, n. 51. 41) L. MARIANI, Di un’altra statua femminile vestita di peplo, in BCom, XXIX, 1901, p. 71 e ss.; LANCIANI, Notes, n. CXII, pp. 342 e 343. 42) TALAMO 1998, p. 149. 43) VACCA, Mem., n. 59. 44) Inv. 09.221.3. Marmo pario, h. cm 79.4; lungh. cm 161.3. MARSHALL 1910; RICHTER 1927, pp. 255 e 256, figg. 178 e 179. Si è scelta l’edizione del 1927 perché il volume è presente nella biblioteca Pollak del Museo Barracco, con note manoscritte dell’archeologo praghese. In questo caso nella nota autografa di Pollak si legge: “kauft bei Elio Jan- 22 dolo”; RICHTER 1954, n. 72, p. 46, tavv. LVIII e LIX; H. GABELMANN, Studien zum frühgriechischen Löwenbild, Berlin 1965, n. 95, pp. 76, 77 e 118, tav. 19,1; RICHTER 1970, p. 75, n. 11, fig. 6; MERTENS–HORN 1986, pp. 6–16, 28 e 29; G. KOKKOROU–ALEWRAS, Die Entstehungszeit der naxischen Delos–Löwen und anderer Tierskulpturen der Archaik, in AntK, 36, 1993, pp. 99 e 100, tav. 25,3; C. PICON, S. HEMINGWAY, CH. LIGHTFOOT, J. MERTENS, E. MILLEKER, Art of the classical World in the Metropolitan Museum of Art : Greece, Cyprus, Etruria, Rome, New York 2007, n. 144, p. 433, fig. 144 a p. 131; L. LAZZARINI, C. MARCONI, A New Analysis of Major Greek Sculptures in the Metropolitan Museum: Petrological and Stylistic, in MetrMusJ, 49, 2014, p. 122, fig. 14. 45) RICHTER 1954, n. 72, p. 46. 46) Secondo MARSHALL 1910, p. 210, la statua è stata restaurata, soprattutto nelle zampe, usando come modello uno dei leoni in calcare dal monumento delle Nereidi di Xanthos al British Museum. Sono di restauro anche le orecchie che erano lavorate a parte. Cfr. anche MERTENS–HORN 1986, p. 9, n. 50. 47) MERTENS–HORN 1986, pp. 6–16, 28 e 29; KOKKOROU– ALEWRAS, art. cit. in nota 44, pp. 99 e 100, tav. 25,3 conferma la datazione del leone di New York avanzata dalla Mertens–Horn, mentre abbassa alla stessa data la cronologia dei leoni di Xanthos; PICON ET ALII, op. cit. in nota 44, n. 144, p. 433, fig.144 a p. 131, abbassano decisamente la datazione della statua di New York agli anni tra il 400 e il 390 a.C.; cfr. da ultimi LAZZARINI, MARCONI, art. cit. in nota 44, p. 122, fig. 14. 48) Già il numero di inventario dell’opera (09.221.3) testimonia l’ingresso della scultura al Museo nel 1909. 49) MARSHALL 1910, p. 212. 50) RICHTER 1954, n. 72, p. 46, tavv. LVIII e LIX. Nelle precedenti pubblicazioni della studiosa non viene indicata la provenienza: RICHTER 1927, pp. 255 e 256, figg. 178 e 179. 51) RICHTER 1970, p. 75, fig. 8, nota 13. 52) Ibidem, fig. 6, nota 11. 53) Sul tema della prima legislazione in materia di beni culturali dello Stato italiano post–unitario, vedi da ultima E. CAGIANO DE AZEVEDO, Fra commercio e istituzioni, la vita romana di Ludovico Pollak, in E. CAGIANO DE AZEVEDO, R. GEREMIA NUCCI, Riflessioni sulla tutela. Temi, problemi, esperienze, Firenze 2010, pp. 41–62, con bibl. precedente. 54) Su questo tema costituiscono una testimonianza importante le lettere di Helbig a Jacobsen, ove si prospetta la possibilità di approfittare delle difficoltà economiche delle grandi famiglie nobiliari di Roma per procurarsi sculture importanti: M. MOLTESEN, Perfect Partners. The collab- oration between Carl Jacobsen and his Agent in Rome Wolfgang Helbig in the Formation of Ny Carlsberg Glyptotek 1887–1914, Copenhagen 2012, pp. 161–187. 55) Il conte Tyszkiewicz, protagonista del collezionismo archeologico dell’epoca, commenta così: «Ces immenses travaux ont cependant rendue à la lumière une quantité considérable d’antiquités. Comme, malgré la vigilance des agents des banques et des surveillants municipaux ou gouvernementaux, les ouvriers réussissaient presque toujours à emporter de nuit leurs trouvailles de la journée, le commerce de Rome se trouva, pendant quinze ans alimenté de sculptures». M. TYSZKIEWICZ, Notes et Souvenirs d’un vieux collectionneur, in RA, III s., XXX, 1897, pp. 358–372, spec. p. 360. 56) O. BURDETT, E.H. GODDARD, Edward Perry Warren. The biography of a connoisseur, London 1941. La biografia di Warren, di straordinario interesse, traccia un quadro assai vivace dell’ambiente del commercio antiquario di quegli anni. Venditori, mediatori, trattative, tecniche di contrattazione, viaggi e immagini folkloristiche dei popoli del Mediterraneo, tutto con lo sguardo del collezionista appassionato e del ricercatore attento. Su Warren e Marshall e sulla loro attività sul mercato antiquario della loro epoca, vedi da ultima MOLTESEN, op. cit. in nota 54, pp. 155–160. 57) Nelle memorie di Pollak (POLLAK 1994, p. 157) si trovano, sull’attività dei due personaggi, queste considerazioni: “In Italia i prezzi aumentarono solo dopo la comparsa di esperti americani come B. E. P. Warren di Boston e di agenti che compravano per i musei americani tra i quali, in prima linea, l’amico di Warren John Stuart Marshall che aveva vissuto a Roma per anni lavorando per il Metropolitan Museum, e ancora H. W. Parsons. Grazie alla loro attività i prezzi salirono alle stelle.” (trad. it. W. Perretta). 58) La statua di anziana contadina, anch’essa ora al Metropolitan Museum (inv. 09.39; RICHTER 1927, pp. 276– 278), fu trovata invece nel 1907 in uno scavo in terreno privato alle pendici del Campidoglio: la sua presenza nella “grotta” dove la famiglia Jandolo immagazzinava le sculture in vendita, aveva quindi richiesto solo un breve tragitto dal luogo di ritrovamento. RT, VII, p. 283, 27 agosto 1907: «Via della Consolazione. Sterrandosi nell’area compresa all’angolo di Via della Consolazione con Via di Monte Caprino, per la costruzione di una nuova casa di proprietà dell’Istituto della Divina Pietà, in un cavo sulla Via Montecaprino, è stata rinvenuta una statua marmorea, rappresentante una vecchia venditrice; è di marmo greco, di buona fattura e discretamente conservata; è alta m. 1,25. (Non ritirata perché di proprietà privata)». Nella prima pubblicazione sul BCom del 1907, p. 257, Lucio Mariani commenta polemicamente: «… fu rinvenuta nel sottosuolo delle cantine la statua antica di vecchia venditrice, della quale si occuparono prima gli antiquarii, poi il pubblico per mezzo stampa. La scoperta venne rivelata qualche giorno dopo che era avvenuta, e se ne seppe soltanto allorché la statua minacciava di essere venduta di nascosto». Sulla statua: C. REUSSER, Der Fidestempel auf dem Kapitol in Rom und seine Ausstattung. Ein Beitrag zu den Ausgrabungen an der Via del Mare und um das Kapitol 1926–1943, Roma 1993, n. 9, pp. 185–196, figg. 102–106. 59) POLLAK 1994, p. 162: «Marshall erwarb eine wichtige archaischetruskische Basis aus nenfro mit Flachreliefs feinster Arbeit (welche? wann?) für 100.000 lire und den originalen prächtigen angreifenden Löwen aus dem Ende des V Jhdts». (RICHTER Handbook, p. 254 figg. 178 e 179) «in Rom für 64.000 Goldlire u. bei demselben Händler für 35.000 Gold Fr. die reizende hellenistische Statue einer Geflügelmarktfrau (RICHTER, loc. cit., p. 277 fig. 196), die Zeuxis signirte kopflose hellenistische Statue eines sitzenden Philosophen, die in del Villa Patrizi gefunden worden war, für 25.000 Goldfrcs. Der ebenfalls dort gefundene große Torso der kephisodotiscen Eirene» (RICHTER, loc. cit., p. 263, fig. 186) «wurde von Marshall für 40.000 Goldfrank für New York erworben» (trad. it. di W. Perretta). Le citazioni di Pollak fanno riferimento a RICHTER 1927. 60) POLLAK 1994, pp. 132 e 133: «Auf der piazza della Consolazione an der linken Ecke der zum Capitol führenden Treppe lag der Laden von Elio Jandolo, der eine Zeitlang als Theilhaber Ernesto Magnani hatte. Drei Stufen führten zu dem unscheinbaren kleinen Laden. Mittag, wenn ich stets vom deutschen archaeologischen Institute nach Hause ging, stieg ich die Treppe herunter u. suchte Elio auf. Stets gab es dort etwas Neues zu sehen. Auf einem kleinen Tische beim Eingange lagen auf einem Blatte weißes Papier die neuesten Einkaufe: geschittene Steine, ein Goldring, Bronzestatuetten, Inschriften u. s. w. auch manchesmal mittelalterliche, wie der unerschöpfliche Boden Roms es hergab. Oft sah ich in diesem Laden den Numismatiker Camillo Serafini, den späteren Governatore della Città del Vaticano. Er sammelte antike römische Münzen für das numismatische Cabinet des Vaticans, das er als Ehrenamt leitete. Die Marmorsculpturen hob Elio Jandolo in seinem Magazine auf, das im anschließenden Hause sich befand. Es war eine jener tief in den capitolinischen Hügel geschnittenen Grotten, die sicher Steinbrüche waren, die gerne von den Osteriewirten als kühles Magazin für ihre Weine gemietet wurden. In jener Grotte standen viele wichtige Sculpturen, die Marshall für New York kaufte, so der archaische Lowe (RICHTER, loc. cit., p. 254, fig. 178), die hellenistische Marktfrau (RICHTER, loc. cit., p. 277, fig. 196). Höchst sonderbar waren die Beziehungen zwischen den zwei Theilhabern. Man traf sie fast nie beide zusammen im Laden. Kam irgendein terrazziere in den Laden etwas anbietend u. sie waren beide da, so kauften sie gemeinsam das Angebotene. War aber — und das war meist der Fall — nur Einer dort, so erstand dieser es, dem Anderen den Ankauf verheimlichend und dann selbst ihn weiter verkaufend. Das wusste ganz Rom u. wohl auch die beiden Teilhaber, einer dem andern nicht trauend. — Es ergab sich nun oft, dass schließlich der eine Socius erfuhr, dass der andere ihn betrogen hatte. Es kam zu einem erregten Wortwechsel, der aber bald bei einer foglietta Frascatiwein geschlichtet wurde, da ein Jeder seiner eigenen Schuld bewusst war. Das hinderte aber nicht, dass sich solche Zwischenfalle oft wiederholten u. immer wieder gütlich beigelegt wurden. Das ging so weiter, bis Magnani lange vor Elio Jandolo starb.» (trad. it. W. Perretta). 61) RICHTER 1954, n. 72, p. 46. 62) Sugli horti di Cesare: P. GRIMAL, I giardini di Roma antica, (ediz. it.) Milano 1990, pp. 120–122; E. PAPI, s.v. Horti Caesaris, in LTUR, III, 1996, pp. 55 e 56. 63) HOR., Sat., I.9.18. 64) TAC., Ann., II. 41; PLUT., Brut., 20. Il tempio, inizialmente identificato con un edificio scoperto nel 1861 alle pendici di Monteverde (cfr. VISCONTI, LANCIANI 1884, pp. 27 e 28), è stato riconosciuto da Filippo Coarelli in un edificio rotondo che compare sulla lastra 28 della forma urbis marmorea, adiacente a un’area libera identificata con la Naumachia Augusti: COARELLI 1992. 65) CASS. DIO., 43, 27, 3; CIC., Ad Att., 15, 15, 2. Secondo un’interessante analisi di E. Gruen (Cleopatra in Rome. Facts and fantasies, in D. BRAUND, CHR. GILL (edd.), Myth, History, and Culture in Republican Rome. Studies in Hon- 23 our of T. P. Wiseman, Exeter 2003, pp. 257–274), il soggior- no a Roma di Cleopatra che sembrava essersi protratto dal 46 al 44 a.C., cioè fino alla morte di Cesare, si sarebbe in realtà svolto in due brevi visite nel 46 e nel 44 a.C.: la prima per consolidare il patto di alleanza tra Roma e l’Egitto, la seconda, bruscamente interrotta dall’assassinio di Cesare, per riaffermare il suo ruolo di regina d’Egitto e, forse, per fare riconoscere a Cesare la paternità del figlio Cesarione. 66) SUET., Iul., 83, 2; APPIAN., BC, II, 143; CASS. DIO., 44,35, 3; Cicerone denuncia però che Marco Antonio si appropriò di una parte dell’eredità lasciata da Cesare al popolo romano: CIC., Phil., 2, 42 «signa, tabulas, quas populo Caesar una cum hortis legavit, eas hic partim in hortos Pompei deportavit, partim in villam Scipionis». 67) GRIMAL, op. cit. in nota 62, pp. 120–122. 68) Una importante e preziosa sintesi dei ritrovamenti effettuati nell’area in P. IMPERATORI, Contributi per la Carta Archeologica del comprensorio Portuense–Magliana, Tesi di laurea in Topografia antica: https://uniroma.academia.edu/PaoloImperatori. 69) PELLEGRINI 1858, p. 97; «Substrutiones hortorum» sono segnalate a ridosso della rupe di Monteverde, nel f. 39 della FUR. 70) Un “portichetto” di opera reticolata con mezze colonne fra un arco e l’altro, fu scoperto nel 1825 alla «pendice del monte»: PELLEGRINI 1858, p. 98; un portico con pilastri di m 1,30 x 0,80, distanziati tra loro m 2,40 fu trovato nel dicembre 1884 nella vigna dei padri della Missione (NSc, 1884, pp. 41 e 42); probabilmente allo stesso portico appartengono i resti in opera reticolata visti nella Vigna Mangani nel 1887 (NSc, 1887, pp. 18 e 19); resti di un altro portico in opera reticolata, con colonne in travertino di m. 0,42 di diametro furono scoperti nel 1889, a 200 metri dal fabbricato della stazione ferroviaria, sulle pendici della collina di Monteverde (NSc, 1889, pp. 192 e 193). Cfr. L. CHIOFFI, Regio XIV: Hercules Campanus e dintorni. Per un aggiornamento del Lexicon Topographicum Urbis Romae, in D. PALOMBI, S. WALKER, A. LEONE (a cura di), Res Bene Gestae. Ricerche di storia urbana su Roma antica in onore di Eva Margareta Steinby, Roma 2007, pp. 30 e 31, n. 136. 71) PELLEGRINI 1858, pp. 97–101; IMPERATORI, op. cit. in nota 68, n. 81, pp. 68–71. 72) VISCONTI, LANCIANI 1884, pp. 27 e 28, tav. I: «Nell’anno 1861 furono scoperti gli avanzi, forse, d’un tempio, ossia una platea robustissima di calcestruzzo, lunga metri 20,50 larga m. 12,75, fasciata da muraglioni grossi m.1,60; con tre pezzi dell’architrave marmoreo del pronao (esastilo) [ma nella tav.I è disegnato un tempio distilo in antis, n.d.r.]. Per me non v’ha dubbio che questo fosse il tempio celeberrimo della Fors Fortuna, collocato dai cataloghi entro i confini della regione decimoquarta, dai calendarii ad milliarium primum della Via Campana, da Tacito (Ann., II, 41) in hortis, quos Caesar dictator populo romano legaverat. 73) C. L. VISCONTI, Escavazioni nella villa Bonelli fuori Porta Portese negli anni 1859–1860, in AnnInst, 1860, pp. 415–450; sintesi dei ritrovamenti in VISCONTI, LANCIANI 1884, p. 29, tav. I: «Il vano principale presenta il tipo basilicale nel lato minore che guarda il monte. I muri di telaro sono antichi, forse sincroni a Cesare, e sono costruiti alla maniera reticolata del secolo d’oro: l’abside è di fattura assai tarda, a strati di tufa e tegolozza. Era decorato con sette nic- 24 chie rettangole e curvilinee, di m. 1,70 di diametro, a piè delle quali gira un gradino o podio che sostiene otto piedistalli, non saprei dire, se di colonne o di statue. La basilica era divisa in tre navi da due file di colonne scannellate di bigio, alte m. 3,55, larghe nel diametro m. 0,40, e fondate sopra cuscini di travertino. I capitelli, di stile dorico–composito sono la più vaga ed elegante cosa che mente d’architetto sappia immaginare. Il pavimento dell’aula era commesso di marmi pregiati, quali sarebbero il fior di persico, l’alabastro rosa, la porta santa etc.». Suggestiva l’ipotesi, avanzata da Laura Chioffi (op. cit. in nota 70, p. 21) che il primo impianto della basilica sia da riconoscere nella basilica Antoniarum duarum, citata in CIL, VI, 5536. 74) MART., IV, 64, 11 e 12. 75) LIMC, VIII (1997), s.v. Venus, p. 205, n. 119. 76) Qui fu trovata l’erma di Anacreonte dei Musei Capitolini, inv. 838. 77) VACCA, Mem. 96. 78) VAL. MAX., 9, 15, 1. 79) D’ARMS 1998, pp. 40 e 41; vedi anche N. PURCELL, The city of Rome and the plebs urbana in the Late Republic, Cambridge 1994, p. 687. 80) PALMER 1981, p. 381 e ss. 81) IMPERATORI, op. cit. in nota 68, n. 148, pp. 125 e 126; resti di sepolcri e di un impianto termale sono stati rinvenuti recentemente in occasione di lavori in corrispondenza del cavalcavia sulla via Portuense: notizia pubblicata il 28 settembre 2014 sul sito del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. 82) In base all’analisi delle molte iscrizioni trovate nella zona Laura Chioffi (art. cit. in nota 70, pp. 15–33) individua la presenza di diverse proprietà, oltre che di luoghi di culto, aree produttive e zone sepolcrali. Sull’evoluzione urbanistica di Trastevere cfr. M. MAISCHBERGER, s.v. Transtiberim, in LTUR, V, Roma 1999, pp. 77–83; G. AZZENA, Il Trastevere in età romana, in L. ERMINI PANI, C. TRAVAGLINI, Trastevere. Un’analisi di lungo periodo, Convegno di studi, Roma 2008 (Roma 2010), pp. 1–33. 83) O. PALAGIA, s.v. Apollon, in LIMC, II, 1984, p. 259, n. 615; E. SIMON, ibidem, s.v. Apollon/Apollo, p. 384, n. 62. 84) G. BARRACCO, Collezione Barracco, Nuova Serie, Roma 1907, p. 9, tavv. XXV e XXVA. 85) POLLAK 1929, p. 18. 86) Interessante, a questo proposito la notizia dell’occultamento di una scultura sotto una catasta di legna. IMPERATORI, op. cit. in nota 68, p. 130, n. 156: «Vigna già Costa, per i lavori di allacciamento delle stazioni Termini–Trastevere (Tav. C): trovate quattro antefisse di terracotta frammentate, con una menade, due protomi una con sul capo una palmetta, una testa femminile radiata; la testa fu scavata il 17 febbraio 1908 e ritrovata sotto del legname accatastato, testa forse appartenente ad una statua pure rinvenuta nello stesso sterro» (NSc, 1909, p. 114; ACS, MPI, Dir Gen AABBAA, I Div., (1908–12), b. 9, fasc. 18). 87) Museo Nazionale Archeologico di Firenze, inv. 13832. Marmo pentelico. Lungh. max. cm 166, h. max. cm 68. L. A. MILANI, Il Regio Museo Archeologico di Firenze, Firenze 1912, I, p. 325, n. 148; A. MINTO, Leone marmoreo greco del Museo Archeologico di Firenze, in ACl, I, 1949, pp. 113– 116; MERTENS–HORN 1986, pp. 16–18, 45 e 46; A. ROMUALDI (a cura di), Museo Archeologico Nazionale di Firenze. I marmi antichi conservati nella villa Corsini a Castello, Livorno 2004, p. 216 e ss., n. 87 (A. Romualdi). 88) Il brutto supporto che attualmente sostiene la scultura, falsandone la visione, risale probabilmente all’allestimento della scultura nel giardino del Museo Archeologico di Firenze nei primi anni del Novecento. 89) MERTENS–HORN 1986, p. 17, tav. 11,1. 90) Sulla collezione Del Bufalo: CHR. HÜLSEN, Römische Antikengärten des XVI. Jahrhunderts, Heidelberg 1917, pp. 108 e 109; H. WREDE, Der Antikengarten der Del Bufalo bei der Fontana Trevi, in TrWPr, 4, 1982, pp. 1–28; M. CIMA, Qualche nota sulla collezione del Bufalo di antichità, in I. COLUCCI, P. MASINI, P. MIRACOLA, Dal giardino al museo. Polidoro da Caravaggio nel Casino del Bufalo. Studi e restauro, Roma 2013, pp. 45–49. 91) ALDROANDI 1556, p. 287. 92) J. J. BOISSARD, Romanae urbis Topographia et Antiquitates, Francoforte 1597–1602, pp. 115 e 116. 93) N. W. CANEDY, The Roman Sketchbook of Girolamo da Carpi, London–Leiden 1976, tav. 18, n. R 137. 94) S. REINACH, L’album de Pierre Jacques sculpteur de Reims. Dessiné à Roma de 1572 à 1577, Paris 1902, pp. 134 e 135, tavv. 77v, 78, 78v e 79. 95) Cfr. da ultimo C. GASPARRI (a cura di), Le sculture Farnese: storia e documenti, Napoli 2007; IDEM (a cura di), Le sculture Farnese, 1. Le sculture ideali, Napoli 2009, pp. 137–143 (E. Dodero). 96) LANCIANI, Storia, III, p. 189. 97) HÜLSEN, op. cit. in nota 90, pp. 116 e 117, documento a firma di Vincenzo Stampa che agì da intermediario per l’acquisto da parte di Ippolito d’Este. 98) Ibidem. 99) C. GASPARRI, Su alcune vicende del collezionismo di antichità a Roma tra il XVI e XVIII secolo: Este, Medici, Albani e altri, in ScAnt, 1, 1987, p.259; GASPARRI, art. cit. in nota 5, p. 180, fig.6; A. CECCHI, C. GASPARRI, La villa Médicis, 4. Le collezioni del cardinale Ferdinando. I dipinti e le sculture, Roma 2009, p. 238, n. 300 (leone); pp. 258 e 259, n. 373 (Cerbero); p. 451, nn. 1115 e 1128 inventario di Villa Medici del 1588 (ASF, Guardaroba Mediceo 79, cc. 217v.– 218r.); B. CACCIOTTI, Le collezioni estensi di antichità tra Roma, Tivoli e Ferrara, II. Le provenienze delle antichità estensi dagli scavi del XVI secolo, in Studi di Memofonte, 5, 2010, pp. 94 e 95. 100) ALDROANDI 1556, p. 287. 101) ROMUALDI, op. cit. in nota 87. 102) P. C. BOL, Als Chimäre ergäntzer Torso eines Cerberus, in P.C. BOL (a cura di), Forschungen zur Villa Albani. Katalog der antiken Bildwerke, 5, Berlin 1998, pp. 502 e 503, tavv. 253 e 254. 103) CECCHI, GASPARRI, op. cit. in nota 99, p. 258. 104) S. A. MORCELLI, Indicazione antiquaria per la villa suburbana dell’eccellentissima casa Albani, Roma 1785, p. 53, n. 517. 105) CIMA, op. cit. in nota 90. 106) AST, vol. 15, f. 181v. D; testo citato anche da R. Lanciani, Cod. Vat. Lat. 13034, f. 108v. : R. III Terme di Filippo (Horti Lamiani); e LANCIANI, Storia, III, p. 169; vedi pure: SCHREURS 2000, p. 473, n. 515. 107) Riportato da R. LANCIANI, Topografia di Roma antica. I commentarii di Frontino intorno le acque e gli acquedotti. Silloge epigrafica aquaria, ROMA 1880, p. 292, n. 19. 108) AST, vol. 17, c. 130r. 109) AST, vol. 26, c. 176r. 110) AST, vol. 5, c. 153r. 111) BNN, B. 3, c. 115, riportato da CACCIOTTI, art. cit. in nota 99, p. 94; vedi pure SCHREURS 2000, p. 478, n. 534. 112) AST, vol. 15, ff. 150 e 151. 113) LANCIANI, op. cit. in nota 107, p. 292, n. 19. L’iscrizione è inserita da Lanciani tra le “leggende false o sospette”; non è riportata in CIL. 114) R. VALENTINI, G. ZUCCHETTI (a cura di), Codice topografico della città di Roma, I, Roma 1940, p. 193 e ss., in part. p. 210, n. 1, dove l’iscrizione in questione risulta pubblicata da O. PANVINIO, Urbs Roma, Venetiis 1558, p. 168. 115) Solo per citare alcuni dei testi più antichi: Pomponio Leto, Venezia, Bibl. Marciana, Ms. Lat. X 195, Excerpta, f. 29v: «post Thermas Titi inter aquilonem et eurum sunt Thermae Philippi Imperatoris» (circa 1479); F. ALBERTINI, Opusculum de mirabilibus veteris, et Novae Urbis Romae … , Roma 1510, L. 1, cap. 7: «… Post quas [Thermas Titi]inter Aquilonem & Euru[m] era[n]t Thermae Philippi Aug[usti] imperatoris»; A. FULVIO, Antiquitates Urbis per Andream Fulvium Antiquarium. Ro. Nuperrime Aeditae, Roma 1527, l. 3, f. XXXVIv.: «Caetera[m] huius / montis partem uersus orientem occupabant Thermae Philippi Imp. / Quarum hodie qu[a]edam uestigia appare[n]t in supercilio montis: qui plu/rimus imminet templo. S. Matthei in merulana»; B. MARLIANO, Antiquae Romae Topographia libri septem, Romae MDXXXIIII, p. 109: «Palatium Vespasiani, et Titi apud easdem Thermas post quas inter ortum, et boream in supercilio montis apparent ruinae ingentes Thermarum, ut volunt, Philippi Imp.»; A. PALLADIO, L’antichità di Roma, Roma 1554, f. 8v. «Le Traiane [terme] erano nel monte Esquilino appresso la chiesa di S. Martino, et da l’altra parte di detto monte vi erano quelle di Filippo Imp. E ne appariscono ancora certe vestigie appresso la chiesa di S. Matteo»; B. GAMUCCI, Libri quattro dell’antichita della città di Roma, Roma 1565, p. 99: «Appresso alle Terme raccontate di sopra [di Tito] Pub. Vittore pone che fossero altre di Traiano, e di Fillippo (sic) Imperadore, le quali erano poco distanti una dall’altra; si come di quelle di Filippo si veggono i segnali di sopra San Matteo in Merulana; ma non vi è già restato cosa alcuna degna di essere scritta». 116) Cfr. nota precedente. 117) R. VENUTI, Accurata e succinta descrizione topografica delle antichità di Roma, I, Roma 1763, p. 133, tav. 55; Roma antica di Famiano Nardini, ed. quarta romana, riscontrata, ed accresciuta delle ultime scoperte, con note ed osservazioni critico antiquarie di Antonio Nibby, Roma 1818, p. 253. Nella nota 1, p. 253, Nibby segnala: «Questi avanzi sono di opera reticolata, e perciò non so con quanta 25 ragione possano supporsi del tempo di Filippo, non avendo esempi certi di quella costruzione, se non fino all’epoca di Caracalla …». 118) A. PELLEGRINI, rapp. Str. n. 102, 12 nov. 1873. BiASA, Codici Lanciani 37 (1873), f. 263. Pubblicato in HÄUBER 2014, figg. 148A–B. 119) LANCIANI, Storia, I, pp. 148 e 149. 120) LANCIANI, Storia, III, pp.165 e 166; FUR tav. 30. Un’analisi dei ritrovamenti del XVI secolo in questa zona in B. NOBILONI, VII, Trofei di Mario, in B. PALMA VENETUCCI (a cura di), Pirro Ligorio e le erme di Roma, Roma 1998, p. 135. 121) VENUTI, op. cit. in nota 117, tav. 55. 122) Altrimenti si deve pensare che l’incisione, attribuita alle terme di Filippo, si riferisca in realtà alla struttura ancora esistente più a valle, lungo via P. Villari. 123) M. DE VOS, Dionysus, Hylas e Isis sui monti di Roma, Roma 1997, p. 106. La lunga struttura è stata datata, in base alla tecnica edilizia e al collegamento con i disegni del Museum Chartaceum, al periodo tra i Flavi e Adriano: si tratterebbe di una fase di età imperiale delle strutture di regolarizzazione delle pendici della collina dell’Oppio. Resti di muri in opera reticolata di una fase precedente sono stati rinvenuti in un’indagine di approfondimento effettuata da Mariette de Vos all’interno di uno degli ambienti. 124) BARTOLI, Memorie, Mem. 1: ritrovamento di 42 statue nell’orto dei Santi Apostoli, vicino a San Clemente, in uno scavo condotto da L. Agostini per conto di Lelio Orsini: cfr. I. HERKLOTZ, Excavations, Collectors and Scholars in Seventeenth–Century Rome, in I. BIGNAMINI (a cura di), Archives & Excavations: Essays on the History of Archaeological Excavations in Rome and Southern Italy from the Renaissance to the Nineteenth Century, London 2004, pp. 56, 57 e 70–73, e, da ultima, HÄUBER 2014, pp. 395–399. 125) BELLORI 1664, p. 63. 126) BARTOLI, Memorie, n. 2: ritrovamento del “tempio egizio”. 127) LANCIANI, Notes, p. 206 (22 dicembre 1888). 128) DE VOS, op. cit. in nota 123, pp. 99–154, figg. 157 e 158: l’analisi dei due disegni, che rappresentano una lunetta e un sottarco decorati a stucco, hanno portato a una datazione della fase decorativa all’età flavia. 129) Contra HÄUBER 2014, pp. 93 e 94 che erroneamente identifica queste strutture con le “Terme di Filippo” (vedi infra nota138), le attribuisce agli Horti di Mecenate e le interpreta come una sostruzione su cui sorse, ad opera di Mecenate, il tempio di Minerva Medica; cfr. pure ibidem, App. IV, pp. 352 e 353. 130) Manoscritti Lanciani: Cod. Vat. Lat. 13032, ff. 8v, 9r e v, 13034, ff. 114r, 116v; LANCIANI, Notes, n. 73, pp. 205– 207, 22 dicembre 1888. 131) RT, III, p. 454, rapp. 720, 4 aprile 1886; ibidem, pp. 496 e ss., rapp. 961, 15 maggio 1887; BCom, XIV, 1886, pp. 419–422; C.L. VISCONTI, in BCom, XV, 1887, pp. 132– 136. 132) Furono trovate almeno 20 teste (non tutte riconoscibili nelle collezioni capitoline, delle quali entrarono a far parte) e numerosissimi frammenti di sculture: Testa di 26 Giove Serapide, inv. 1640; Statua di Iside (framm.) inv. 2978; Testa di Iside o di regina, inv. 1154; Testa di Iside, inv. 1770; Statua di Iside (busto), inv. 2298; Testa femminile coronata d’alloro, inv. 1806; Testa femminile con corona di fiori, inv. 1771; Testa maschile tipo Armodio, inv. 1864; Testa di Perseo, inv. 1866; Testa di Diomede, inv. 1867; Testa di Hera, tipo Borghese, inv. 1868; Testa di Apollo liceo, inv. 1661; Rilievo con Apollo e Marsia, inv. 965; elementi di un monumento pastorale: invv. 1736, 1738, 1739 e 1740. 133) Sul fenomeno: E. L A ROCCA, L’auriga dell’Esquilino, Roma 1987, pp. 11 e 12; R. COATES–STEPHENS, Muri dei bassi secoli in Rome. Observations on the re–use of statuary in walls found on the Esquiline and Caelian after 1870, in JRA, 14, 2001, pp. 217–238; R. COATES–STEPHENS, The reuse of ancient statuary in late antique Rome and the end of the statue habit, in F. A. BAUER, C. WITSCHEL (edd.), Statuen in der Spätantike, Wiesbaden 2007, pp. 171–187. 134) C. L. VISCONTI, in BCom, XIV, 1886, p. 208. 135) LANCIANI, Notes, pp. 206 e 207 (22 dicembre 1888); S. CURTO, Il torello Brancaccio, in Hommages à Maarten J. Vermaseren, Leiden 1978, pp. 282–295: secondo la ricostru- zione di Curto i frammenti furono rimontati con l’intervento del pittore Francesco Gai e la scultura così ricomposta, rappresentante il torello Apis con disco solare e ureo tra le corna, fu sistemata in un padiglione all’interno del giardino di Palazzo Brancaccio; L. SIST, Statua di torello Api, in AA.VV, Palazzo Altemps. Le Collezioni, Roma 2011, p. 344. 136) C. L. VISCONTI, in BCom, XIV, 1886, pp. 234–236; LANCIANI, Notes, p. 207. Le statue, trovate insieme alle loro basi con le “firme” degli artisti di Afrodisia che le hanno realizzate, rappresentano: Ercole, Satiro con Dioniso fanciullo, Poseidon, Helios e Zeus e sono conservate nella Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen: M. MOLTESEN, The Aphrodisian Sculptures in the Ny Carlsberg Glyptoptek, in JRA, suppl. I, 1990, pp. 133–146; BERGMANN 1999, p. 14 e ss. 137) Inv. n. 376. L. SIST, Museo Barracco. Arte egizia, Roma 1996, pp. 91 e 92. 138) Sulle “Terme di Filippo”, cfr. da ultima HÄUBER 2014, pp. 83 e 84, che però, nonostante le chiare indicazioni ligoriane e di altri autori coevi (vedi nota 115), identifica il monumento con la lunga struttura a nicchie di via Pasquale Villari situata molto più a sud e molto più a valle rispetto alla chiesa di San Matteo e alla Vigna Pighini che le conteneva. 139) LANCIANI, Storia, II, pp. 89–92; R. VOLPE, A. PARISI, Alla ricerca di una scoperta: Felice de Fredis e il luogo di ritrovamento del Laocoonte, in BCom, CX, 2009, p. 85, nn. 58–60 (A. Parisi); F. CANTARELLI, E. GAUTIER DI CONFIENGO, La collezione epigrafica Fusconi (Roma, secoli XVI–XVIII), Soveria Mannelli 2012. 140) VACCA, Mem., n. 84; BARTOLI, Memorie, n. 97; ALDROANDI 1556, p 163, colloca invece la scoperta del Meleagro in una vigna nei pressi di Porta Portese. 141) «Il terzo animale era un cane molosso che è nella vigna di M. Francesco da Norcia Medico»: LIGORIO, BNN, b. 3, c. 115. CANTARELLI, GAUTIER DI CONFIENGO, op. cit. in nota 139, pp. 14–23 e 173. 142) W. AMELUNG, Die Sculpturen des Vaticanischen Museums, II, Berlin 1908, pp. 162 e 163, cat. 64, tav. 17; G. SPINOLA, Il Museo Pio–Clementino, 1, Città del Vaticano 1996, p. 79; D. WILLIAMS, Dogged by debts: the Jennings Dog, in F. MAC FARLANE, C. MORGAN (a cura di), Exploring Ancient Sculpture, London 2010, pp. 225–244. 143) LANCIANI, Storia, II, pp. 89–92. 144) Sulla provenienza del Meleagro da Trastevere cfr. invece da ultima C. ZACCAGNINO, Hercules Invictus, l’excu- bitorium della VII cohors Vigilum, il Meleagro Pighini. Note sulla topografia di Trastevere, in Ostraka, XIII, 1, 2004, pp. 101–124. Sulla collezione Fusconi: CANTARELLI, GAUTIER DI CONFIENGO, op. cit. in nota 139, pp. 14–23 e 173. Il Meleagro fu venduto nel 1770 a Clemente XIV insieme ad altre tre statue (tra le quali il cane molosso). 145) S. MAFFEI, La fama di Laocoonte nei testi del Cinquecento, in S. SETTIS, Laocoonte. Fama e stile, Roma 1999, pp. 104 e 105. 146) VOLPE, PARISI, art. cit. in nota 139. La ricerca, frutto di una stretta collaborazione tra Antonella Parisi (archivista) e Rita Volpe (archeologa), ha permesso di individuare con esattezza la collocazione della vigna attraverso un complesso lavoro d’archivio di carattere comparativo che ha portato a determinare le proprietà dei terreni circostanti e quindi la loro disposizione nell’area. 147) Se il santuario va identificato con l’Iseum Metellinum, citato in un brano dell’Historia Augusta (tryg. tir. 25), la sua fondazione deve essere fatta risalire all’età repubblicana e in particolare, secondo COARELLI 1982, pp. 53–57, a Quintus Caecilius Metellus Pius, console nel 80 a.C. In un recente intervento presso i Musei Capitolini Filippo Coarelli ha ribadito la sua convinzione che l’Iseo di Metello si trovasse, in realtà, sul Celio, e che fosse diverso dal santuario che dette il nome alla III Regione augustea: quest’ultimo però dovrebbe essere di fondazione almeno augustea o precedente, visto il nome della Regio, e senz’altro precedente alla costruzione del Colosseo che altrimenti, come monumento dominante l’area, avrebbe portato alla denominazione della III Regio: Amphitheatrum. 148) Nel caso che l’Iseo Metellino non sia identificabile con il monumento della Regione III, risulta complesso stabilire la cronologia della fondazione del santuario: la sommaria descrizione dei ritrovamenti archeologici non consente una datazione precisa del monumento. 149) G. GATTI, in BCom, XV, 1887, pp. 154–156; C. L. VISCONTI, ibidem, XV, 1887, pp. 192–200. 150) Disegnato nei manoscritti Lanciani: Cod. Vat. Lat. 13032, f. 8v; BCom, XIV, 1886, pp. 91 e 92. 151) Cfr. nota 131. 152) È noto l’interesse di Pirro Ligorio per le fontane che si manifestò con grandiosità nella progettazione di quelle di Villa d’Este a Tivoli: A. SCHREURS, S. MORET, “Mi ricordo che, essendo proposito fare un fonte …”. Pirro Ligorio und die Brunnenkunst, in MKuHistFlorenz, XXXVIII, 1994, pp. 278–309; SCHREURS 2000, pp. 272 e 273, figg. 130 a–b; A. SCHREURS, “Hercules verachtet die einstigen Gärten der Hes- periden in Vergleich mit Tibur”. Die Villa d’Este in Tivoli und die “memoria dell’antico”, in W. MARTINI (a cura di), Architektur und Erinnerung, Göttingen 2000, pp. 107–127. 153) Sulla presenza di statue di leoni nell’arredo scultoreo delle ville: R. NEUDECKER, Die Skulpturenausstattung römischer Villen in Italien, Mainz 1988, p. 57. 154) E. TALAMO, Cane, in M. DE NUCCIO, L. UNGARO (a cura di), I marmi colorati della Roma imperiale, catalogo della mostra, Roma 2002, Venezia 2002, pp. 355 e 356. 155) Cfr. HÄUBER 2014, pp. 509–513. 156) ARR., I, 64, 4: “dei Macedoni morirono circa venticinque eteri al primo assalto e di questi si innalzarono a Dion statue in bronzo che Alessandro aveva commissionato a Lisippo, il quale, unico scelto da lui, fece anche la statua di Alessandro”. 157) G. CALCANI, Cavalieri di bronzo. La torma di Alessandro, opera di Lisippo, Roma 1989. 158) P. MORENO, Modelli lisippei nell’arte decorativa di età repubblicana ed augustea, in L’Art décoratif à Rome à la fin de la République et au début du principat, Table ronde de Rome (10–11 mai 1979), Roma 1981, pp. 203–205. 159) Un gruppo lisippeo rappresentante una caccia al leone era stato dedicato da Cratero a Delfi (PLIN, NH, 34, 64): P. MORENO, in P. MORENO (a cura di), Lisippo. L’arte e la fortuna, catalogo della mostra, Roma 1995, Milano 1995, pp. 172–176; un riflesso di un altro gruppo con una caccia al leone di Alessandro ed Efestione si trova, secondo Moreno, nel mosaico a ciottoli dello stesso soggetto a Pella: ibidem, p. 63. Sulle cacce macedoni: B. TRIPODI, Cacce reali macedoni. Tra Alessandro I e Filippo V, Messina 1998. 160) “Hai combattuto bene, Alessandro, contro questo leone, per vedere chi sarebbe rimasto re”, queste le parole attribuite da Plutarco (Alex., 40, 4) a un ambasciatore di Sparta, che aveva assistito a una di queste cacce. 161) Il leone fu posto a ricordo della battaglia vinta nel 338 a.C. dall’esercito macedone, guidato da Filippo II, su quello formato da tebani e ateniesi: PAUS., 9, 40, 10 riferisce il monumento (polu£ndrion) ai tebani caduti e interpreta il leone come un riferimento “allo spirito degli uomini”; STRABO, 9, 2, 37, parla più genericamente di tombe erette a spese pubbliche in onore dei caduti della battaglia. Cfr. O. BRONEER, The Lion Monument at Amphipolis, Cambridge 1941, passim. 162) Il leone, attualmente collocato in una posizione diversa dall’originale, poggia su un’alta base ed è stato recentemente identificato come coronamento del grande tumulo di Amphipolis ancora in corso di indagine e di studio. Per il leone cfr. BRONEER, op. cit. in nota 161. 163) Il grande leone esistente nella città di Hamadan, in Iran, l’antica Ecbatana, riconosciuto come opera del primo ellenismo, può essere messo in relazione con l’impresa di Alessandro Magno e con la morte del suo amato compagno Efestione, avvenuta in quella città nel 324 a. C. Cfr. H. LUSCHEY, Der Löwe von Ekbatana, in Archäologische Mitteilungen aus Iran, 1, 1968, pp. 115–128. 164) PLIN., NH, XXXIV, 62. 165) T. HÖLSCHER, Monumenti statali e pubblico, Roma 1994; IDEM, Greek Styles and Greek Art in Augustan Rome: Issues of the Present versus Records of the Past, in J. PORTER (ed.), Classical Past. The Classical Tradition of Greece and Rome, Princeton 2005, pp. 237–259; A. BRAVI, Ornamenta Urbis. Opere d’arte greche negli spazi romani, Bari 2012; IDEM, Griechischen Kunstwerke im politischen Leben Roms und Konstantinopels, Berlin 2014. Sulla presenza di originali greci a Roma, anche A. CELANI, Opere d’arte greche nella Roma di Augusto, Perugia 1998; CIRUCCI 2005. 27 166) HOR., Sat., 2, 3, 185. 167) F. COARELLI, Il Campo Marzio, Roma 1997, p. 550 e ss. 168) PLIN., NH, XXXV, 26. In altro passo (NH, XXXIV, 62) si legge che Tiberio tentò di appropriarsi della statua dell’Apoxyomenos “ma il popolo romano si ribellò con tale ostinazione da richiedere con grandi grida nel teatro che l’Apoxyomenos fosse restituito e il principe, malgrado la sua passione, lo fece rimettere al suo posto”. 169) CASS. DIO., LIV, 29, 3–4. 170) LIV., XXV, 40, 1–3. 171) POLYB., 9, 10, 13. 172) Cfr. note 78 e 79. 173) F. COARELLI, Da Pergamo a Roma. I Galati nella città degli Attalidi, catalogo della mostra, Roma 1995. 174) TALAMO 1998, pp. 168 e 169; HARTSWICK 2004, pp. 124–129. 175) Sugli originali greci degli horti Sallustiani: E. TALAGli originali greci degli horti Sallustiani, in M. CIMA (a cura di), Restauri nei Musei Capitolini, Venezia 1995, pp. 17–39; TALAMO 1998; M. MOLTESEN, The Sculptures from the horti Sallustiani in the Ny Carlsberg Glyptotek, in M. CIMA, E. LA ROCCA (a cura di), Horti Romani, Atti del Convegno Internazionale, Roma 4–6 maggio 1995, Roma 1998, pp. 175–188. HARTSWICK 2004, pp. 93–104 e 119–124; CIRUCCI 2005, pp. 41–50. MO, 176) TALAMO 1998, pp. 139–141. 177) E. LA ROCCA, Amazzonomachia. Le sculture frontonali del tempio di Apollo Sosiano, catalogo della mostra, Roma 1985. 178) SUET., Caes., XLVI e XLVII. 179) Vedi nota 66. Le sei dattilioteche di Cesare, ad emulazione di quanto già fatto da Pompeo con la dedica nel tempio di Giove Capitolino delle gemme sottratte a Mitridate, erano già state consacrate nel tempio di Venere Genitrice, e quindi rese “pubbliche”: PLIN., NH, 37, 11. Sulle collezioni di pittura di Cesare: IDEM, ibidem, 35, 26; 35, 83. 180) HÄUBER 1991. Oltre al già menzionato Laocoonte (E. LA ROCCA, Artisti rodii negli horti romani, in CIMA, LA 28 ROCCA, Horti Romani, cit. in nota 175, pp. 220–228; VOLPE, PARISI, art. cit. in nota 139), il gruppo dei Niobidi ora agli Uffizi, il Discobolo Lancellotti, il Seneca morente del Louvre (M. CIMA, E. TALAMO, Gli horti di Roma antica, Milano 2008, pp. 40–43), il Marsia in pavonazzetto, la Venere Esquilina, il gruppo di Commodo con tritoni (Marsia: inv. MC 1077; Venere: inv. MC 1141; Commodo e tritoni: invv. MC 1119–1121. CIMA, TALAMO, op. cit., pp. 74–93) per citarne solo alcune. 181) Rispettivamente invv. MC 1101; MC 1094; MC 1118. CIMA, TALAMO, op. cit. in nota 180, figg. 12, 13 e 28. 182) BELL 1998. 183) A questo proposito, notissima l’affannosa ricerca di Cicerone di un luogo dove erigere il monumento funebre dell’amata Tulliola. L’occasione gli offre l’opportunità di fare una ricognizione degli horti esistenti a Roma nel periodo, soprattutto quelli della riva destra del Tevere. E. LA ROCCA, Il lusso come espressione di potere, in M. CIMA, E. LA ROCCA (a cura di), Le tranquille dimore degli dei. La residenza imperiale degli horti Lamiani, catalogo della mostra, Roma 1986, Venezia 1986, pp. 22 e 23. 184) HOR., Sat., I, 8, vv. 8–16. 185) Così anche CIRUCCI 2005, pp. 26–28. 186) Cfr. BELL 1998; sulle sculture greche dagli horti dell’Esquilino vedi da ultima CIRUCCI 2005, pp. 33–41. 187) CIC., de domo, 111–112, a proposito di una statua funeraria trasformata in immagine di Libertas; su episodi di riutilizzo di materiali provenienti da necropoli di Corinto e Cuma, vedi CIRUCCI 2005, pp. 27 e 28. 188) Una stele funeraria greca del Museo Barracco (inv. MB 73) proviene dalla zona di Porta Salaria ed è stata attribuita agli horti Sallustiani; dallo stesso luogo potrebbe provenire una stele ora alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen: BELL 1998, pp. 309 e 310, figg. 7 e 8. 189) Dig., XLVII, 12, 4. 190) GRIMAL, op. cit. in nota 62, pp. 75 e 76; NEUDECKER, op. cit. in nota 153, p. 57. 191) P. ZANKER, Pompei. Società, immagini urbane e forme dell’abitare, Torino 1993, pp. 199–210.