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Badia Elmi
Storia e arte di un monastero valdelsano
tra Medioevo ed Età moderna
a cura di Francesco Salvestrini
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Pubblicazione realizzata con il contributo di
Ringraziamenti
Il curatore e gli autori ringraziano l’Associazione Badia Adelmi Onlus, l’ingegner Pier
Giuseppe Spannocchi e sua moglie Mariapaola Iacopini per aver voluto e promosso questa
operazione editoriale. Si ringrazia l’Amministrazione Comunale di San Gimignano e la Banca
del Chianti, che hanno fornito il loro convinto supporto finanziario. Si ringrazia anche
Alessandro Furiesi dell’Archivio Storico Diocesano di Volterra, nonché Maurizio Buiani e
la sua famiglia proprietari della cripta della Badia, che hanno in passato reso disponibile la
visita al pubblico di questo ambiente durante alcuni incontri promossi in occasione della
Festa di Adelmo. Un ringraziamento particolare va, infine, a Silvano Mori, amico fin dalle
origini del sodalizio volto allo studio della storia della Badia, che ha seguito da vicino tutti
i lavori e ha fornito un supporto concreto allo sviluppo dei medesimi fondato sulla sua ampia
conoscenza delle fonti valdelsane fra Medioevo ed Età moderna.
© nuova immagine editrice
via San Quirico 13, I-53100 Siena
tel.: 0577 42625 fax: 0577 44633
http://www.nuovaimmaginesiena.it
ISBN 978-88-7145-326-2
Stampa: Arti Grafiche Nencini (Poggibonsi, Siena), settembre 2013
In copertina: Ipotesi ricostruttiva di Badia Elmi (disegno di Massimo Tosi)
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Sommario
p.
7
Presentazione
Erika Baldini, Giacomo Bassi
9
Un progetto per Badia Elmi
Pier Giuseppe Spannocchi
11
Badia Elmi e Camaldoli
Don Ugo Fossa
13
Il monachesimo in Valdelsa dalla riforma ecclesiastica all’età comunale (XI-XIII secolo)
Francesco Salvestrini
25
La carta di fondazione della Badia Adelmi e la più antica documentazione
Laura Neri
53
Dedicationes e Imitationes del Santo Sepolcro: l’esempio di Badia Adelmi
Andrea Conti
79
La badia di Adelmo e i Camaldolesi nell’alta Valdelsa (secoli XIII-XV). I rapporti con
San Gimignano
Raffaello Razzi
111
Per una storia camaldolese di Badia Elmi
Cécile Caby
123
Badia Elmi: vita e patrimonio di una fattoria camaldolese dal XVI al XIX secolo
Enrico Sartoni
175
La chiesa protoromanica della Badia Elmi
Fabio Gabbrielli
189
Sul patrimonio artistico di un’antica badia camaldoldese. L’Incoronazione della Vergine di
Lorenzo Monaco dalla badia di Adelmo (San Gimignano) alla National Gallery di Londra
Sabina Spannocchi
205
La badia di Adelmo. Ipotesi di ricostruzione
Massimo Tosi
225
Il recupero della meridiana di Badia Elmi
Renzo Palmieri
227
L’architettura del complesso abbaziale. Rilievi
Francesca Focardi
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Presentazione
C
on queste poche righe vogliamo sottolineare l’importanza, per la comunità di San
Gimignano e per l’intero territorio sangimignanese, del lavoro svolto in questi anni
dall’Associazione ‘Badia Adelmi Onlus’, non solo per l’attività associativa e aggregativa
promossa durante la Festa annuale, ma soprattutto per l’impegno culturale e storicoscientifico profuso nello studio e nella valorizzazione del Complesso della Badia Elmi.
Con la straordinaria sequenza di conferenze e di studi che l’Associazione ha organizzato in questi anni si è aperto un fronte di analisi storica, architettonica e artistica che, da
un lato ha messo a sistema il patrimonio di conoscenze già acquisito nel tempo, dall’altro ha prodotto nuovi campi d’indagine e di diagnosi estremamente interessanti e originali. Inoltre, il prezioso lavoro svolto dall’Associazione ha prodotto un accrescimento
significativo dell’attenzione del mondo accademico verso le peculiarità del Complesso
della Badia e del suo ruolo in Valdelsa, con il reticolo di rapporti territoriali che si era
creato intorno alla Badia stessa all’inizio dello scorso millennio. Il lavoro di ricerca sviluppatosi in questi anni attorno alla vicenda storica della Badia di Adelmo si inserisce
anche nel grande filone di studi relativo alla promozione e valorizzazione della via
Francigena, la cui riscoperta è oggi di straordinaria importanza, non solo sul piano della
conoscenza, ma anche su quello della promozione turistica del nostro territorio valdelsano e della rivalutazione dei percorsi storici e culturali che lo hanno reso famoso nel
mondo. Ecco quindi che, per tutti questi significati e per tutti quegli elementi positivi che
si sono sviluppati in questi anni attorno alla Badia, l’Amministrazione Comunale di San
Gimignano non poteva non sostenere l’attività dell’Associazione e partecipare, anche
economicamente, alle iniziative culturali promosse, sostenendo anche la pubblicazione
di questo volume, che rappresenta una pietra miliare di profonda conoscenza della storia millenaria del nostro territorio. Infine, ci preme ricordare che di recente il Consiglio
Comunale di San Gimignano ha deliberato un elenco di luoghi e immobili di straordinario valore culturale e testimoniale, presenti sul territorio sangimignanese ma di proprietà privata, con l’obbiettivo di acquisirli nel tempo, risorse permettendo, alla proprietà
pubblica, allo scopo di renderli fruibili dalla collettività, dagli studiosi e dai turisti: in
questo elenco non poteva ovviamente mancare il Complesso della Badia, con la straordinaria Cripta e la Chiesa sovrastante. L’auspicio è quindi quello di riuscire a creare le
condizioni economico-giuridiche, affinché questo bene culturale sia il più possibile conosciuto e apprezzato, restaurato e valorizzato: è chiaro che per il raggiungimento di questo risultato sarà fondamentale l’impegno dell’Associazione, che vogliamo ringraziare
per quanto ha fatto finora e per quello che sicuramente continuerà a fare in futuro.
Giacomo Bassi
Sindaco di San Gimignano
Erika Baldini
Assessore alla Cultura
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Un progetto per Badia Elmi
S
iamo davvero felici di poter presentare questa pubblicazione, frutto dell’opera e dell’interesse di tanti amici e suggello principale delle attività dell’Associazione Badia
Adelmi onlus. La stampa di questo volume chiude, secondo programma, tre anni di ricerca storica sulla Badia Elmi, con modalità e risultati che sono andati al di là delle aspettative programmate e hanno portato nuovo interesse e nuove notizie sulla storia di Badia.
Il lavoro fatto per il presente volume non solo rappresenta un approfondimento di notizie, che genericamente erano note, ma porta delle novità di grande suggestione ed è, in
definitiva, una notizia originale per questa zona della Valdelsa. Si potrà allora leggere una
storia sistematica del nostro borgo, con alcuni episodi anche curiosi, e contribuire a creare una coscienza storica per gli abitanti di Badia, vecchi e nuovi.
Certo non era tutto oblio. Il ricordo della storia dei luoghi in qualche modo persisteva: ne è esempio il racconto della riscoperta della cripta che fa il prete-storico Socrate
Isolani intorno al 1920: un episodio di grandissimo gusto raccontato nella sua storia di
Gambassi. Ma per lo più era prevalso il silenzio e negli ultimi cinquant’anni il degrado;
mentre per più di 900 anni le cose non erano andate così male, frutto di una certa idea di
conservazione e risultato di una minore potenza di intervento. Mai, comunque, c’è stato
il completo disconoscimento del valore dei luoghi: sempre il nostro Isolani si preoccupò
negli anni Venti della tutela, ma scoprì, con qualche stupore, che il sito era già vincolato
con una legge del 1909, un caso particolarmente raro.
Oggi siamo arrivati noi con l’Associazione e le cose sono diventate un po’ più sistematiche: il ricordo annuale della fondazione, con la festa, le prime piccole ricerche storiche, il
recupero dagli archivi di alcuni testi antichi, una tesi di laurea e ora il programma triennale delle giornate di studio, per andare al di là dell’edito, per scoprire qualcosa di nuovo,
per sistemare in maniera opportuna le conoscenze. Allora abbiamo dato la parola a storici e storici dell’arte che ci hanno raccontato questo luogo particolare, nel contesto locale e
mondiale dell’epoca, dalle gloriose origini fino ai giorni nostri. Molte sono le idee che ci
possono affascinare, si pensi che alla fondazione (1034) la Badia fu data in proprietà all’imperatore Corrado II il quale negli stessi anni fondava la cattedrale di Spira dove egli è sepolto, e questa cattedrale è patrimonio Unesco come San Gimignano; nel 1034 si conia il termine Impero Romano per la nuova realtà politica tedesca; impero romano del quale questi luoghi di Toscana erano parte; e poi la via francigena, che di qui passava, e tanto altro.
Quindi molti sono i percorsi di grande ispirazione che propone la Badia Elmi, percorsi che,
partendo dal grande risveglio di edilizia religiosa della prima metà dell’XI secolo, arrivano
fino ai giorni nostri.
Ma il motivo che spinge la nostra associazione a procedere è trovare un luogo e un sentimento aggregante per questo nuovo e vecchio insediamento della Valdelsa e del Comune
di San Gimignano: un progetto per il presente e quindi per il futuro di Badia Elmi.
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Badia Elmi
Ora tutto è frammentario e in parte disarticolato. La vecchia Badia è stata vissuta come
luogo marginale, nel quale era consentito il degrado. Oggi, invece, esistono le potenzialità per ricucire e valorizzare l’insediamento, un insediamento compiuto, con un villaggio
moderno e un sito storico (la chiesa, la torre, la cripta che nessuno riesce a visitare, se non
forse e parzialmente una volta l’anno) che si compenetrano circondati dal paesaggio della
campagna toscana. Puntare sul paesaggio, sui valori architettonici, sui valori storici, dare
un’identità all’insediamento, con il borgo vecchio che faccia da centro storico al borgo
nuovo, ne costituisca il nucleo e ne sia la rappresentazione d’insieme; questo è il progetto che proponiamo e che sta trovando l’apprezzamento della nostra Amministrazione
Comunale, come noi sensibilizzata da questo nuovo impulso culturale.
Noi con le nostre piccole forze qualcosa abbiamo realizzato: abbiamo restaurato l’antica meridiana, abbiamo presentato un progetto per la piazzetta, abbiamo proposto le
giornate di studio, e ora questa pubblicazione.
Ancora per qualche anno ci daremo appuntamento intorno al 2 ottobre sperando che
maturino le condizioni per questo cammino virtuoso verso la possibilità che Badia Elmi
venga valorizzata, trovi una strada certa per la sua conservazione, acquisisca una fruibilità
reale e diventi il fulcro di un attraente villaggio del futuro.
Pier Giuseppe Spannocchi
Associazione Badia Adelmi Onlus
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Badia Elmi e Camaldoli
S
aluto con gioia la nuova pubblicazione a cura di Francesco Salvestrini, che ha visto
coinvolti eminenti studiosi entusiasti di portare alla luce un complesso monastico come
quello di Elmi, quasi dimenticato dalla storia. La pubblicazione rende onore all’Associazione
‘Badia Adelmi Onlus’, che ha voluto a tutti i costi far riemergere dall’oblio dei secoli un’abbazia la quale ha svolto nel tempo un ruolo non secondario nell’ambito della Valdelsa, con
i suoi monaci impegnati in opere di pastorale, di assistenza alle popolazioni e di valorizzazione del territorio, almeno per i primi due secoli della loro storia, finché al potere signorile, entro il quale il monachesimo benedettino aveva trovato un più facile habitat, non
subentrò la gestione dei comuni, meno propensi a fare concessioni di carattere economico.
In Valdelsa il rapporto dei Camaldolesi con l’episcopio volterrano sembra essere stato
tranquillo, a differenza di quello dei vicini Vallombrosani, che al momento opportuno
non esitarono a levare la loro voce in favore della purezza dei costumi contro la piaga
della simonia presso i responsabili della locale chiesa.
Ci auguriamo che il progetto relativo al recupero della Badia di Elmi, che nelle intenzioni dei promotori vorrebbe essere pieno, trovi la sua attuazione in tempi ragionevoli. Il
periodo – è vero – non appare particolarmente favorevole, ma nulla potrà fermare la decisa volontà delle istituzioni che fanno capo al Comune di San Gimignano, nel cui territorio sorge uno dei suoi tesori di storia e d’arte antiche maggiormente significativi.
La Comunità di Camaldoli è orgogliosa di accogliere la nuova pubblicazione nel contesto delle celebrazioni millenarie dell’origine del Sacro Eremo e Cenobio di Camaldoli
(1012-2012), vista la diretta appartenenza della badia di Elmi a quell’eremo dal 1073 al
1420, anno in cui il monastero, ormai ridotto a poco più di una fattoria, passò, come altri
istituti regolari toscani, sotto la giurisdizione di Santa Maria degli Angeli di Firenze, pure
camaldolese, finché anche quest’ultima non lo cedette a privati interessati al suo ricco
patrimonio fondiario più che alla conservazione delle strutture religiose.
La presenza attorno a Elmi di altri monasteri, anch’essi richiamantisi alla casa madre
casentinese, come San Pietro di Cerreto, che meriterebbe del pari una maggiore attenzione, e Mucchio, se non hanno consentito una grande espansione di Elmi a livello di consistenza della comunità, sicuramente ne hanno costituito a suo tempo un sostegno fraterno non indifferente.
Il volume, che esce con i tipi dell’editore Nuova Immagine di Siena, costituisce una pietra miliare per la storia non solo del monastero di Elmi, protagonista principale, ma per
tutta la Valdelsa, e avrà sicuramente una risonanza notevole tra gli studiosi di cose medievali e non solo.
Don Ugo Fossa
direttore della Biblioteca di Camaldoli
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Il monachesimo in Valdelsa dalla riforma ecclesiastica all’età comunale
(XI-XIII secolo)
Francesco Salvestrini
P
er comprendere le modalità attraverso le quali il monachesimo benedettino giunse e si
affermò sulle terre della Valdelsa occorre fare riferimento, in via preliminare, al ruolo
svolto dai vari tracciati e dalle differenti diramazioni della celebre via Romea, detta anche
Francigena, la grande arteria di traffico aperta dai Longobardi e potenziata fra il IX e l’XI
secolo che univa l’Europa nord-occidentale all’Italia tirrenica e alla città di Pietro e Paolo.
Tale mutevole fascio di strade percorso da sovrani, pontefici ed alti prelati, da pellegrini,
mercanti, artigiani in cerca di commesse e da una molteplice congerie di altri viaggiatori,
solcava le colline e i fondovalle di quest’area a partire dal corso dell’Arno, presso l’insediamento di San Genesio, non lontano dai rilievi di San Miniato al Tedesco 1, fino ai castelli di Poggibonsi e Monteriggioni, da cui poi proseguiva in direzione di Siena e Roma 2.
Data la natura delle vie di terra medievali, dalla forma incerta e spesso soggetta a mutamenti, la Francigena non seguiva un unico percorso, ma si articolava, come dicevamo, in
varie direttrici. Le due principali che attraversavano il territorio in esame erano quella collinare, più antica, che da San Miniato si dirigeva in Valdegola, costeggiava le campagne di
Montaione e Gambassi e infine raggiungeva San Gimignano e Colle; e quella di fondovalle, transitante per Castelfiorentino, Certaldo e Poggibonsi, cui si ricorreva di preferenza
durante il periodo estivo, quando l’Elsa non era soggetta a piene o esondazioni, e che fu
poi favorita, a partire dal primo Duecento, dal comune di Firenze, che ne ebbe il diretto
controllo politico, unitamente a quello dei centri situati sulla sponda destra del fiume 3.
1. Sul quale cfr. Vico Wallari-San Genesio. Ricerca storica e indagini archeologiche su una comunità del Medio
Valdarno Inferiore fra Alto e pieno Medioevo, Atti della Giornata di studio, San Miniato, 1 dicembre 2007, a cura
di F. Cantini e F. Salvestrini, Firenze 2010. Cfr. anche I. Moretti, Aspetti dell’architettura altomedievale in Toscana,
in La Tuscia nell’alto e pieno Medioevo. Fonti e temi storiografici «territoriali» e «generali», in Memoria di Wilhelm
Kurze, a cura di M. Marrocchi e C. Prezzolini, Firenze 2007, pp. 199-226, in partic. 209-211.
2. Cfr. Storia e cultura della strada in Valdelsa nel Medioevo, a cura di R. Stopani, Poggibonsi-San Gimignano 1986;
O. Muzzi, Un’area di strada e di frontiera: la Valdelsa tra l’XI e il XIII secolo, in La Valdelsa, la via francigena e gli itinerari per Roma e Compostella, «Quaderni del Centro Studi Romei», II, 1988, pp. 17-40; G.C. Cianferoni, La Valle
dell’Elsa, in Museo archeologico e della collegiata di Casole d’Elsa, a cura di G.C. Cianferoni e A. Bagnoli, Firenze
1996, pp. 19-22; Th. Szabó, Pellegrinaggi, viabilità e ordini mendicanti, in Gli Ordini mendicanti in Val d’Elsa, Atti del
Convegno di studio, Colle Val d’Elsa-Poggibonsi-San Gimignano, 6-8 giugno 1996, Castelfiorentino 1999, pp. 191-204;
A. Duccini, Monasteri, pievi e parrocchie nel territorio di Gambassi (secoli X-XIII), «Miscellanea Storica della Valdelsa»,
106, 2000, 3, pp. 191-233: 191-192; S. Patitucci Uggeri, La via Francigena in Toscana, in La via Francigena e altre strade della Toscana medievale, a cura di S. Patitucci Uggeri, Firenze 2004, pp. 11-134; I centri della Valdelsa dal Medioevo
ad oggi, Atti del Convegno di studi, Colle di Val d’Elsa, Castelfiorentino, 13-14 febbraio 2004, a cura di I. Moretti e S.
Soldani, Firenze 2007; W. Kurze, Scritti di storia toscana. Assetti territoriali, diocesi, monasteri dai longobardi all’età comunale, a cura di M. Marrocchi, Pistoia 2008, pp. 427-452; F. Salvestrini, Storiografia ed erudizione storica in Valdelsa. Le
motivazioni di un progetto, in Storiografia ed erudizione storica in Valdelsa fra Medioevo ed Età moderna, a cura di F.
Salvestrini, «Miscellanea Storica della Valdelsa», 119, 2013, 1, in corso di stampa; Id., Centri minori della Valdelsa e del
medio Valdarno inferiore. Demografia, economia, società e vita religiosa (seconda metà del XIII-prima metà del XIV
secolo), in I centri minori della Toscana nel Medioevo, Atti del Convegno internazionale di studi, Figline Valdarno, 2324 ottobre 2009, a cura di M. Ginatempo, F. Leverotti, G. Pinto, P. Pirillo, Firenze, in corso di stampa.
3. Cfr. R. Stopani, L’itinerario di Sigeric e i percorsi valdelsani della via Francigena, in 990-1990. Millenario del
viaggio di Sigeric, arcivescovo di Canterbury, «Quaderni del Centro Studi Romei», 4, 1990, pp. 51-71; F. Salvestrini,
Un territorio tra Valdelsa e Medio Valdarno: il dominio di San Miniato al Tedesco durante i secoli XIII-XV,
«Miscellanea Storica della Valdelsa», 97, 1991, 2-3, pp. 141-181: 155.
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Badia Elmi
Buona parte delle fondazioni benedettine valdelsane sorse in prossimità della grande
via di comunicazione, tanto in altura quanto a ridosso dei corsi d’acqua 4. Non è un caso,
però, che le più antiche attestazioni documentarie relative a questi istituti risalgano in larga
misura al secolo XI, cioè ad un periodo più tardo rispetto all’apertura della strada 5. Dopo
l’anno Mille, infatti, la popolazione europea tornò a crescere, si verificò un generale sviluppo delle città, si riaffermarono sia i commerci locali che gli spostamenti delle persone
sulle lunghe distanze, e la Chiesa conobbe quella grande stagione di riforma che va sotto
il nome di ‘età gregoriana’. Si può dire che in Valdelsa la diffusione del monachesimo fu
uno tra gli indici maggiormente significativi della più generale ripresa che caratterizzò l’intero continente.
Le principali case regolari della zona furono la celebre abbazia di Marturi presso
Poggibonsi, l’abbazia dei Santi Salvatore e Cirino a Isola non lontano da Monteriggioni,
la badia di San Salvatore di Spugna e quella di Santa Maria a Coneo, entrambe nel circondario di Colle, l’abbazia del Santo Sepolcro e Santa Maria a Elmi in Fonte Pinziaria,
il priorato di Mucchio e il monastero di San Pietro a Cerreto nei territori fra Certaldo,
Gambassi e San Gimignano, il monastero di San Vittore vicino a quest’ultima località, e
quello di San Mariano presso la villa di Luiano (Gambassi), per il quale diciamo subito
che non si hanno notizie anteriori alla seconda metà del secolo XII e che dal pieno
Duecento fu quasi certamente una piccola comunità o un romitorio dipendente dalla badia
di Adelmo 6.
Ripercorriamo brevemente le vicende di tali fondazioni. L’abbazia di San Michele a
Marturi sorse prima del Mille. Wilhelm Kurze ha fatto risalire la sua origine all’epoca longobarda, un’ipotesi in certa misura confermata da recenti indagini archeologiche. L’area
su cui si insediarono i primi religiosi era quasi certamente di matrice fiscale e soggetta al
diretto controllo dei marchesi di Tuscia 7. Il chiostro venne a collocarsi alla confluenza della
via Romea con la Cassia, su un’altura a sud di Poggibonsi che oggi ospita il castello neogotico di Abbadia, costruito sulle fondamenta dell’antico complesso monastico 8. Il cenobio fu corredato di importanti benefici, confermati da due documenti falsi, sebbene coevi
(970 e 998, 25 luglio), e da una donazione fondiaria autentica (998, 10 agosto) del mar4. Cfr. F. Salvestrini, La guerra di Semifonte e la Valdelsa (ca. 1180-1202), in Semifonte in Val d’Elsa e i centri di
nuova fondazione dell’Italia medievale, Atti del Convegno nazionale, Barberino Val d’Elsa, 12-13 ottobre 2002, a
cura di P. Pirillo, Firenze 2004, pp. 167-193: 171.
5. Sull’organizzazione ecclesiastica nella zona a partire dalla tarda antichità cfr. E. Fiumi, I confini della diocesi
ecclesiastica del municipio romano e dello stato etrusco di Volterra, «Archivio Storico Italiano», 126, 1968, pp. 2360: 42-44 (rist. in Id., Volterra e San Gimignano nel medioevo. Raccolta di studi, a cura di G. Pinto, Reggello 20062,
pp. 159-179); S. Mori, Pievi della Diocesi Volterrana Antica dalle origini alla Visita Apostolica (1576) – Una griglia
per la ricerca, «Rassegna Volterrana», 63-64, 1987-88, pp. 163-107.
6. Duccini, Monasteri cit., pp. 209-210. Cfr. in proposito i contributi di Razzi e Sartoni nel presente volume.
7. F. Schneider, L’ordinamento pubblico nella Toscana medievale, trad. it. a cura di F. Barbolani di Montauto,
Firenze 1975 (1 ed. 1914), p. 263; W. Kurze, Monasteri e nobiltà nel senese e nella Toscana medievale. Studi diplomatici, archeologici, genealogici, giuridici e sociali, Siena 1989, pp. 173-174, 235, cfr. anche p. 260 (presenza di Enrico
II nel 1022); M.L. Ceccarelli Lemut, I Canossa e i monasteri toscani, in I poteri dei Canossa da Reggio Emilia
all’Europa, a cura di P. Golinelli, Bologna 1994, pp. 143-161: 161. Sulla più antica documentazione relativa all’abbazia, L. Cambi Schmitter, Carte della badia di Marturi nell’Archivio di Stato di Firenze (971-1199), Firenze 2009,
pp. 12-16.
8. Kurze, Monasteri e nobiltà cit., pp. 165-201, 230; Id., Scritti di storia toscana cit., pp. 181, 232-235, 239, 358;
A. Calamai, Ugo di Toscana. Realtà e leggenda di un diplomatico alla fine del primo millennio, Firenze 2001, pp.
120, 154; Cambi Schmitter, Carte cit., pp. 16, 25-26.
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Il monachesimo in Valdelsa dalla riforma ecclesiastica all’età comunale
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chese Ugo e di sua madre Willa, fondatori e protettori di numerose abbazie toscane 9. Il
marchese, stando ad un’antica tradizione in qualche modo avvalorata da fonti agiografiche e documentarie, chiamò il bolognese Bononio, santo riformatore, pellegrino ed eremita in Oriente, nonché abate del monastero piemontese dei Santi Michele e Genuario nella
selva di Lucedio, a ripristinare in Marturi l’autentica vita regolare (ca. 998-1001) 10.
L’abbazia fu l’unico chiostro valdelsano su cui i marchesi esercitarono un patronato
diretto 11, se si esclude la penetrazione patrimoniale nell’area della badia di Santa Maria
in Firenze 12. I marchesi si comportarono in maniera non troppo diversa dalle dinastie
comitali, facendo dei monasteri fondati su terre pubbliche degli importanti investimenti
volti all’affermazione della loro autorità, nonché alla difesa del patrimonio fiscale e allodiale, garantito dall’inalienabilità degli appannaggi ceduti ai religiosi.
Essendo presto divenuto uno dei capisaldi per il controllo della media Valdelsa, circondato da un borgo al quale aveva dato origine, all’inizio del secolo XI il monastero
fu occupato dal marchese Bonifacio, che pare avergli strappato alcuni beni a favore del
cenobio appenninico di Fontana Taona in diocesi di Pistoia. Dal secondo decennio del
secolo l’abbazia iniziò a sottrarsi gradualmente alla pesante influenza dei suoi domini,
grazie alla prosperità garantita da una consistente dotazione fondiaria, integrata nel
1061 da una donazione del marchese Alberto di Opizo 13. Nel 1068 l’abate Widrico ricevette da Alessandro II la protezione apostolica e la conferma della giurisdizione sul
castello di Marturi, un privilegio che garantì all’istituto ulteriore prestigio e sempre maggiore autonomia 14. Nel 1076 i religiosi ottennero un pronunciamento in loro favore da
parte dei giudici delegati della marchesa Beatrice in relazione ai diritti rivendicati su
alcune terre nella vicina località di Papaiano usurpate da un laico 15. Il cenobio si avvalse anche di un’incerta e discussa protezione di Matilde di Canossa; protezione sicura
solo dopo il 1107. Stando ad una tradizione ricostruita nei documenti di produzione
9. Cfr. R. Davidsohn, Storia di Firenze, trad. it. Firenze 1956 (ed. orig. Berlin 1896-1927), I, pp. 169-170; A.
Falce, Il marchese Ugo di Tuscia. Ricerche, Firenze 1921, pp. 39, 131 ss., 182-202, 237-240; con le integrazioni, precisazioni e correzioni di G. Miccoli, Chiesa gregoriana. Ricerche sulla Riforma del secolo XI, nuova ed. a cura di A.
Tilatti, Roma 1999, p. 65; Kurze, Monasteri e nobiltà cit., pp. 168-169, 172-173, 186-199, 297-298, 307-312;
Ceccarelli Lemut, I Canossa cit., pp. 143-144; M. Ronzani, Il monachesimo toscano del secolo XI: note storiografiche e proposte di ricerca, in Guido d’Arezzo monaco pomposiano, Atti dei convegni di studio, Abbazia di Pomposa,
3 ottobre 1997, Arezzo, 29-30 maggio 1998, a cura di A. Rusconi, Firenze 2000, pp. 21-53; Cambi Schmitter, Carte
cit., p. 17 e docc. 1, 2, 3, pp. 35-60; M. Ronzani, Un monastero valdelsano e la sua documentazione nei secoli XI e
XII. Osservazioni e spunti di ricerca alla luce dell’edizione delle Carte della Badia di Marturi, «Miscellanea Storica
della Valdelsa», 118, 2012, 1-3, pp. 81-120: 82-83.
10. Vita et miracula sancti Bononii abbatis locediensis, edd. G. Schwartz, A. Hofmeister, in Monumenta Germaniae
Historica, Scriptores, XXX/2, Lipsiae 1934, pp. 1023-1033: 1029; G. Tabacco, Bononio, in Dizionario Biografico
degli Italiani, 12, Roma 1971, pp. 358-360; Kurze, Monasteri e nobiltà cit., pp. 165-168, 229-230; Calamai, Ugo di
Toscana cit., pp. 82, 99-100, 120, 154, 163, 165-170, 188-203. Cfr. anche Falce, Il marchese cit., pp. 203-236; Cambi
Schmitter, Carte cit., pp. 17-20.
11. Cfr. Schneider, L’ordinamento pubblico cit., p. 303; M. Nobili, Le famiglie marchionali nella Tuscia, in I ceti
dirigenti in Toscana nell’età precomunale, Pisa 1981, pp. 79-105: 100-101; Kurze, Monasteri e nobiltà cit., pp. 232, 312.
12. Kurze, Monasteri e nobiltà cit., p. 235; F. Salvestrini, La proprietà fondiaria dei grandi enti ecclesiastici nella
Tuscia dei secoli XI-XV. Spunti di riflessione, tentativi di interpretazione, «Rivista di Storia della Chiesa in Italia»,
62, 2008, 2, pp. 377-412.
13. Falce, Il marchese cit., pp. 52-53; Miccoli, Chiesa gregoriana cit., p. 73; Kurze, Monasteri e nobiltà cit., pp.
165, 173-174, 231-233, 312; Calamai, Ugo di Toscana cit., p. 168; Cambi Schmitter, Carte cit., pp. 20-25, 26-28,
doc. 5, pp. 63-66; Ronzani, Un monastero cit., pp. 82-87.
14. Cambi Schmitter, Carte cit., doc. 8, pp. 73-75; Ronzani, Un monastero cit., pp. 86-88, 93-98.
15. Cambi Schmitter, Carte cit., docc. 9, 10, 11, pp. 77-83.
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monastica, la marchesa sembra aver tenuto una vera e propria corte in loco, non sappiamo se al monastero o presso la vicina pieve, ponendosi idealmente sulla scia del predecessore Ugo 16.
Dal 1089 il complesso abbaziale si dotò di un ospedale 17; al quale fu forse unita una
seconda struttura assistenziale (lo spedale Sancti Iohannis de Podioboniççi, quasi certamente non coincidente con il precedente fabbricato) che probabilmente già sul finire del
secolo XII passò all’Ordine gerosolimitano 18. A partire grosso modo dal 1150 i monaci
si rapportarono ai conti Guidi e Alberti e ad altri signori della zona, ottenendo la possibilità di costruire alcuni edifici nell’erigendo castello di Poggibonizio 19, voluto dai Guidi
e dall’Impero in funzione antifiorentina 20. Nel 1157 l’abate siglò un trattato di alleanza
col comune di Siena 21. Nel corso del Duecento, nonostante il progressivo spopolamento
del suo borgo a vantaggio del vicino castrum di Poggibonsi, l’abbazia continuò a mantenere il proprio rilievo locale, difendendo il patrimonio ad essa pertinente dai tentativi di
erosione compiuti dal proposto di Poggibonsi e dal priore di Papaiano, come attesta la
conferma dei possessi che Gregorio IX concesse nel 1228 e come confermano il coinvolgimento degli abati nelle attività del vicino comune di Poggibonsi, nonché i precoci contatti con le autorità senesi e fiorentine 22. Un lento declino iniziò, tuttavia, a partire dalla
seconda metà del secolo XIV; ed al primo Quattrocento risale la progressiva distruzione
degli edifici claustrali 23.
L’abbazia di Spugna, presso Colle Val d’Elsa, sorse nella prima metà dell’XI secolo
(dopo il 1007), originariamente come cella legata al vescovo di Volterra. Essa divenne poi
monastero familiare degli Aldobrandeschi, signori del castello di Piticciano, in seguito ad
un possibile scontro fra l’episcopato e la famiglia, evento che determinò prima un’illecita
occupazione del sito da parte di quest’ultima, quindi il raggiungimento di un compromesso tramite una permuta di beni situati nel pistoiese e nel volterrano che confermò il
possesso familiare della fondazione. La badia si trovava presso la via Volterrana e il fiume
Elsa, all’incrocio con la via Maremmana, e fu destinata a divenire uno dei nuclei costitu16. Cfr. Kurze, Monasteri e nobiltà cit., pp. 165-166, 200-201; Ceccarelli Lemut, I Canossa cit., pp. 153, 159;
Cambi Schmitter, Carte cit., p. 29-30, doc. 13 (1099, giugno 20), pp. 89-91; doc. 14 (1107, luglio 24), pp. 93-95;
Ronzani, Un monastero cit., pp. 90-98.
17. Cambi Schmitter, Carte cit., pp. 27, 30, doc. 12, pp. 85-87; Ronzani, Un monastero cit., p. 94.
18. I. Moretti, L’“Hospitale Sancti Iohannis de Podioboniççi”, in La Chiesa di San Giovanni in Jerusalem alla
Magione di Poggibonsi, Siena 1986, pp. 23-33: 25; Ronzani, Un monastero cit., p. 106-107.
19. Cambi Schmitter, Carte cit., doc. 36, pp. 147-148; Ronzani, Un monastero cit., pp. 89, 98-108.
20. M.G. Ravenni, Poggibonsi nel Basso Medioevo. Genesi di un territorio comunale, Poggibonsi 1994; M. Valenti,
La collina di Poggio Imperiale a Poggibonsi. Uno spaccato di storia insediativa toscana tra tarda antichità e basso
medioevo: ipotesi e modelli diacronici (aggiornamento 1997), in I castelli della Valdelsa, Storia e archeologia, Atti della
Giornata di Studio, Gambassi Terme, 12 aprile 1997, «Miscellanea Storica della Valdelsa», 104, 1998, 1-2, pp. 9-39:
9-11 e 30 sgg.; R. Francovich, C. Tronti, M. Valenti, Il caso di Poggio Bonizio (Poggibonsi, Siena): da castello di fondazione signorile a “quasi città”, in Le terre nuove, Atti del Seminario internazionale, Firenze-San Giovanni Valdarno,
28-30 gennaio 1999, a cura di D. Friedman e P. Pirillo, Firenze 2004, pp. 201-256; Poggio Imperiale a Poggibonsi. Il
territorio lo scavo il parco, a cura di R. Francovich e M. Valenti, Milano 2007; Cambi Schmitter, Carte cit., pp. 3031; I. Moretti, I conti Guidi e l’architettura toscana del loro tempo, in La lunga storia di una stirpe comitale. I Conti
Guidi tra Romagna e Toscana, Atti del Convegno di studi, Modigliana-Poppi, 28-31 agosto 2003, a cura di F. Canaccini,
Firenze 2009, pp. 157-169: 165; Ronzani, Un monastero cit., pp. 82, 108-113; Salvestrini, Centri minori cit.
21. M. Frati, Chiese romaniche della campagna fiorentina. Pievi, abbazie e chiese rurali tra l’Arno e il Chianti.
Architettura e decorazione romanica religiosa nella diocesi medievale di Firenze a sud dell’Arno, Empoli 1997, pp.
232-233.
22. Cambi Schmitter, Carte cit., p. 29.
23. Ivi, pp. 21, 30-31.
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tivi della comunità di Colle Val d’Elsa 24. Ancora agli inizi del Duecento i conti controllavano il chiostro, che nel frattempo aveva ricevuto numerosi privilegi pontifici, fra i quali
risulta particolarmente interessante quello concesso da Lucio III nel 1183. Tramite tale
documento, infatti, venne confermato al cenobio il possesso di numerosi beni situati in
varie aree dell’alta Valdelsa e della Tuscia, compresa una parte del tessuto urbano di Colle.
Durante la prima metà del Duecento il monastero conobbe il suo momento di maggiore
prosperità, al culmine del quale si situò il passaggio all’obbedienza vallombrosana, databile intorno agli anni Trenta del secolo XIII e confermato da Bonifacio VIII nel 1301 25.
L’abbazia di San Salvatore, poi anche San Cirino a Isola, nell’odierno comune di
Monteriggioni, fu eretta a fundamentis nel 1001 dalla contessa Ava figlia di Zenone e
vedova di Ildebrando di Ialfredi della famiglia dei signori di Staggia 26. Essa deve il suo
nome al fatto di essere sorta su un terreno leggermente sopraelevato, emergente da una
zona pianeggiante allora paludosa 27, poi bonificata in larga misura dai monaci 28. Anche
questo insediamento si collocava in prossimità della Francigena, nel luogo della XVI submansio, stando al celebre itinerario di Sigeric arcivescovo di Canterbury (994) 29. Come è
stato evidenziato da una cospicua e importante storiografia, la fondatrice del cenobio forse
fece inizialmente realizzare in propriis rebus una sanctam aulam, ossia, probabilmente,
una piccola chiesa dedicata al Salvatore, a Maria Vergine, a san Giovanni Evangelista e
a san Benedetto. Successivamente ella provvide a riunire presso questo oratorio una comunità monastica dotata di ben quarantadue unità fondiarie, che i religiosi, a loro volta, si
dedicarono ad incrementare 30.
Anche in questo caso siamo di fronte ad una fondazione signorile, sia pure destinata
ad affrancarsi dalla giurisdizione della famiglia fondatrice dopo tre sole generazioni 31. Lo
sviluppo dell’ente fu rapido e notevole. Lo dimostrano sia la ricca tradizione documenta24. Cfr. F. Morozzi, Memorie di istoria ecclesiastica civile e letteraria di Colle di Valdelsa, Sezione prima, Istoria
della Badia di S. Salvatore di Spugna, In Firenze 1775; Miccoli, Chiesa gregoriana cit., p. 66; G. Rossetti, Gli
Aldobrandeschi, in I ceti dirigenti in Toscana cit., pp. 151-163: 158; P. Cammarosano, V. Passeri, Città borghi e castelli dell’area senese-grossetana. Repertorio delle strutture fortificate dal medioevo alla caduta della Repubblica senese,
Siena 1984, rist. 2006, p. 63; S.M. Collavini, «Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus». Gli Aldobrandeschi
da “conti” a “principi territoriali” (secoli IX-XIII), Pisa 1998, pp. 66, 102, 157, 162, 167; F. Vanni, Le abbazie della
Valdelsa nell’alto medioevo. Ruoli economici, politici e sociali, con particolare attenzione alla viabilità sovralocale. Un
omaggio alla memoria di Wilhelm Kurze, in La Via Francigena in Valdelsa, Atti del Convegno internazionale di studi,
Colle Val d’Elsa-Barberino-Certaldo, 13-15 ottobre 2008, a cura di R. Stopani e F. Vanni, «De strata Francigena», 17,
2009, 1-2, pp. 69-112. Cfr. anche, in rapporto al ruolo della famiglia alle origini dell’insediamento colligiano, P.
Cammarosano, Storia di Colle di Val d’Elsa nel medioevo, 1, Dall’età romanica alla formazione del Comune, Trieste
2008; S.M. Collavini, Le élites di Colle Val d’Elsa e i conti Aldobrandeschi tra XII e XIII secolo. Tre schede genealogiche, in Studi e memorie per Lovanio Rossi, a cura di C. Bastianoni, Firenze 2011, pp. 153-179.
25. E. Repetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, Firenze 1833-46, rist. anast. Reggello 2005, I,
pp. 28-29; Acta capitulorum generalium Congregationis Vallis Umbrosae, I, Institutiones abbatum (1095-1310), a
cura di N.R. Vasaturo, Roma 1985, General Preface di D. Meade, pp. 127, 135; F. Salvestrini, Disciplina caritatis.
Il monachesimo vallombrosano tra medioevo e prima età moderna, Roma 2008, p. 368.
26. P. Cammarosano, Abbadia a Isola. Un monastero toscano nell’età romanica. Con una edizione dei documenti,
953-1215, Castelfiorentino 1993, pp. 39-55.
27. Ivi, pp. 34-35, 47-48.
28. D. Bizzarri, Tentativi di bonifiche nel contado senese nei secoli XII-XIV, «Bullettino Senese di Storia Patria»,
24, 1917, 2, pp. 131-168; G. Cecchini, Di una doppia falsificazione di documenti nella lite fra il Comune di Siena e
l’Abbadia a Isola, ivi, n.s. 3, 1932, 4, pp. 358-376.
29. Davidsohn, Storia cit., I, p. 226 nota 3; Kurze, Monasteri e nobiltà cit., pp. 23-153.
30. Cammarosano, Abbadia a Isola cit., pp. 55-77, 97-101, 117-149; M. Docci, Il monastero dell’Isola: storia,
architettura e restauri, «Miscellanea Storica della Valdelsa», 103, 1997, 1-3, pp. 7-58: 16-18.
31. Kurze, Monasteri e nobiltà cit., p. 301.
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ria ad esso relativa 32, sia il fatto che l’edificio sacro assunse, grosso modo fra il 1160 e il
1195, una struttura architettonica ampia e articolata, caratterizzata dalla pianta basilicale a tre navate, non comune nelle chiese monastiche del periodo; senza contare la cripta e l’interessante partito decorativo della facciata, con sculture di gusto ancora preromanico e di sicura matrice volterrana, ma dai chiari influssi lombardi tipici dell’architettura religiosa valdelsana.
La chiesa si configurò così come, in linea di massima, appare ancora oggi quasi certamente a partire dagli anni Novanta del secolo XII, allorché, nel 1198, venne ad ospitare
le sacre ceneri di Cirino vescovo e martire traslate dalla vicina chiesa di Staggia 33. I signori di tale località conservarono il controllo dell’abbazia e il diritto di eleggere l’abate fino
almeno al primo decennio del XII secolo, poi il frazionamento del patrimonio fra gli eredi
indebolì la struttura patrimoniale del nucleo consortile, che fu destinato ad estinguersi. I
monaci, ottenuta nel tempo una maggiore autonomia, mirarono al controllo di alcuni borghi e castelli del circondario, il cui possesso venne loro garantito da numerosi privilegi
imperiali e pontifici fino all’epoca di Federico I e di papa Alessandro III 34. Fra 1050 e 1102
il cenobio si dotò di un ospedale 35. La prosperità dei religiosi venne comunque condizionata da vari potentati esterni, laici ed ecclesiastici, come i signori del castello di Talciona,
che per un periodo ne ebbero il patronato, e il presule senese; dati anche i contrasti coi
vescovi di Volterra, che rivendicavano il diritto di nominare gli abati 36.
Nel corso del secolo XII crebbe intorno all’edificio un nucleo demico di una certa consistenza. Tale comunità nel 1215 riconobbe, unitamente ai monaci, la supremazia del
comune di Siena, i rapporti col cui vescovado risalivano agli anni Trenta del secolo XII 37.
Grosso modo dal 1150 al primo Duecento i frequenti conflitti tra senesi e fiorentini determinarono la necessità di una fortificazione del monastero; il quale conservava una cospicua dotazione fondiaria ancora durante il primo Trecento. Nel 1401 la badia ottenne il
titolo di pieve a scapito della vicina chiesa battesimale di Santa Maria a Castello 38.
Non mi dilungo sulle vicende di Badia Elmi, la cui origine (1034), nota attraverso una
delle poche carte di fondazione che possediamo per un monastero valdelsano d’età medievale, è oggetto della relazione di Laura Neri 39. Voglio solamente richiamare la sua dedi32. Sulla quale cfr. Cammarosano, Abbadia a Isola cit., pp. 23-33, 163-169.
33. V. Lusini, L’abbadia a Isola, «Bullettino Senese di Storia Patria», 3-4, 1896-97, pp. 129-135; A. Canestrelli,
L’Abbadia a Isola, «Siena Monumentale», 3, 1908, 4, pp. 3-15; 4, n. 1, tavv. I-XI; M. Moretti, Architettura romanica religiosa nel territorio dell’antica Repubblica senese, Parma 1962, pp. 69-84; I. Moretti, R. Stopani, Chiese romaniche in Valdelsa, Firenze 1968, pp. 17-32; Docci, Il monastero cit., pp. 11-12, 14-16, 18-22, 28 ss.
34. Cammarosano, Abbadia a Isola cit., pp. 79-87, 101-115.
35. Cammarosano, Passeri, Città cit., p. 106; Cammarosano, Abbadia a Isola cit., docc. 23 (1050, luglio 19), 43
(1102, aprile 29), pp. 227-228, 270-271.
36. Cammarosano, Abbadia a Isola cit., pp. 51, 79-87.
37. Ivi, pp. 87-97.
38. Ivi, pp. 36-37, 101-115, 150-159; Docci, Il monastero cit., p. 12.
39. Cfr. anche Regesta pontificum romanorum, ed. P.F. Kehr, Italia pontificia, III, Etruria, Berolini 1908, pp. 300302; Schneider, L’ordinamento pubblico cit., pp. 270-271, nota 233; Moretti, Stopani, Chiese romaniche in Valdelsa
cit., pp. 43-49; Kurze, Monasteri e nobiltà cit., pp. 235, 301; I. Bettarini, S. Bezzini, Santo Sepolcro e Santa Maria a Elmi,
in Chiese medievali della Valdelsa. I territori della via Francigena, I, Tra Firenze, Lucca e Volterra, Empoli 1995, pp.
225-228; A. Duccini, Il castello di Gambassi. Territorio, società, istituzione (secoli X-XIII), Castelfiorentino 1998, pp.
43, 45-46, 51; Ead, Monasteri cit., pp. 192-202; S. Bezzini, Chiese romaniche non appartenenti al plebato di Chianni,
in Santa Maria a Chianni. Una pieve lungo la Via Francigena, a cura di F. Ciappi, Certaldo 2003, pp. 73-81: 73; M.
Gamannossi, Testimonianze dei conti Cadolingi sul territorio toscano: le abbazie di Fucecchio, Elmi, Morrona e
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cazione al Santo Sepolcro, possibile indice di suggestioni gerosolimitane espresse da alcuni domini laici della zona – nel caso della badia esponenti dell’aristocrazia volterrana –
già alcuni decenni prima rispetto all’avvento della Crociata. Non è da escludere, infatti,
come ben illustra Andrea Conti nel suo contributo, che Adelmo di Suppo e sua moglie
Gisla partecipassero di quel clima di riforma e di rinnovamento religioso che nella non
lontana Firenze si esprimeva nella denuncia contro il clero simoniaco e concubinario perseguita con tenacia dai monaci vallombrosani, ossia da quegli stessi integerrimi religiosi
che ritroveremo attivi sulle terre della Valdelsa; in un clima di riforma che di lì a pochi
decenni avrebbe portato anche molti toscani a combattere per la liberazione della tomba
di Cristo sulle sponde della Terrasanta e nelle città del vicino Oriente.
Non mi soffermo neppure su San Pietro a Cerreto, cenobio situato nell’odierno comune
di Gambassi Terme, databile al periodo 1030-1060 (la prima menzione del toponimo risale al 996), di cui riferisce ampiamente il contributo di Raffaello Razzi. Mi limito a ricordare la sua origine nell’ambito camaldolese come eremo successivamente divenuto monastero, e le sue interessanti strutture architettoniche, ancora oggi in larga misura conservate 40.
Risulta evidente da quanto detto finora che molte delle comunità monastiche valdelsane furono promosse da signori laici in cerca sia di consolazione spirituale che di affermazione politica e sociale 41. Su queste plaghe della Toscana centrale, così come altrove
nell’Europa del tempo, la fondazione e il patronato dei monasteri rispondevano ad istanze
religiose e nel contempo garantivano alle casate protettrici coesione patrimoniale, identità
dinastica, maggior forza nelle relazioni con altri poteri territoriali 42. Per di più, se una famiglia, pur non avendogli dato origine, acquisiva il controllo di un cenobio già esistente, incamerava con esso i diritti bannali che i religiosi nel tempo erano riusciti ad accumulare. Meno
soggetti ad usurpazioni o a rivendicazioni – almeno in linea di principio – quanto al complesso dei loro diritti prediali, i chiostri videro crescere la loro importanza strategica come
fonti di rendita per i figli cadetti di queste schiatte, quali riserve monetarie e di altra ricchezza,
e in quanto strumenti di controllo delle aree su cui sorgevano; essendo, nel contempo, strumenti per la valorizzazione produttiva delle campagne e fattori di inquadramento della popolazione rurale. Il tutto durante un periodo come quello compreso tra la seconda metà dell’XI
e i primi decenni del secolo successivo, nel quale l’affermazione dei comuni cittadini rese più
arduo per i domini il possesso di corti e castelli.
Dotate generosamente dai loro benefattori con beni provenienti dal patrimonio consortile, le chiese ‘private’ erano luoghi-simbolo per il potere signorile. La fondatrice della
Badia a Isola stabilì che la comunità religiosa da lei voluta restasse in seguito sotto la dominatione dei propri eredi in linea maschile, e che tutti i suoi discendenti, nonché gli homines de masnada, trovassero nella basilica una degna sepoltura 43.
Montepiano, in I Cadolingi, Scandicci e la viabilità francigena, Atti del Convegno, Badia a Settimo, 4 dicembre 2010,
«De Strata Francigena. Studi e ricerche sulle vie di pellegrinaggio nel Medioevo», 18, 2010, 2, pp. 113-133: 117-121.
Sul popolamento dell’area in età classica cfr. R. Chellini, L’insediamento rurale romano tra Firenze e Siena, «Rivista di
topografia antica», 3, 1993, pp. 108-152: 145.
40. Duccini, Monasteri cit., pp. 196-197, 202-204. Cfr. anche Chiese medievali della Valdelsa cit., pp. 229-231.
41. Cfr. Kurze, Scritti di storia toscana cit., pp. 182-183, 189-204, 242-244. Per alcune considerazioni di carattere generale, G. Sergi, L’aristocrazia della preghiera. Politica e scelte religiose nel medioevo italiano, Roma 1994,
pp. 17-23.
42. Cfr. Davidsohn, Storia cit., I, pp. 136, 218-219; Miccoli, Chiesa gregoriana cit., pp. 67-71.
43. Cammarosano, Abbadia a Isola cit., pp. 52-53, 55-70.
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In ogni caso, come ha ben spiegato Paolo Cammarosano, le fondazioni familiari del
secolo XI non presentavano più le caratteristiche degli enti sorti grosso modo fra l’VIII
e il IX, allorché i signori esprimevano negli atti fondativi o nelle concessioni di benefici tributati ai religiosi un’adozione diretta della vita monastica. I potenti, cioè, quando
si rapportavano alle comunità regolari, spesso miravano a divenirne monaci, abati o
badesse, prefigurando magari una prosecuzione della professio anche nelle generazioni immediatamente successive. Col nuovo millennio i ricchi benefattori si fecero promotori di una corretta vita regolare, ma scelsero, per lo più, un controllo di tipo esterno, senza chiedere di accedere personalmente ai chiostri e attribuendo a questi ultimi
una mediata funzione soteriologica in quanto nuclei di preghiera per la salvezza dei loro
patroni 44.
Si trattava di strategie che i signori della Valdelsa – dai Cadolingi agli Aldobrandeschi,
dai Gherardeschi agli Alberti, dai Guidi ai marchesi Tuscia, fino alle minori famiglie comprese nei loro entourages – potevano esercitare con un buon margine di libertà. Tali terre
erano, infatti, relativamente distanti dai maggiori centri urbani e vedevano la compresenza di vari nuclei di potere incentrati su terre fiscali controllate dai marchesi, su corti
regie di diretta pertinenza imperiale – come San Miniato e San Genesio –, sulle aree di
influenza delle famiglie comitali e su varie diocesi che vi intrecciavano i loro confini
(Volterra, Siena, Firenze, Fiesole e Lucca), senza che nessuna di queste autorità detenesse
gli strumenti per farsi egemone sulle altre, pur mirando al controllo dei numerosi nuclei
demici e a quello di singoli tratti delle direttrici stradali.
In un contesto del genere si colloca con chiarezza l’azione di Adelmo di Suppo e di
coloro che in seguito esercitarono il patronato su Badia Elmi 45. Ma possiamo menzionare anche le volontà di Bonizza, figlia di Petronilla, che nel 1059 cedette a Camaldoli la
chiesa di San Pietro a Cerreto; oppure l’operato dei signori di Catignano, nell’ambito delle
cui attività di autopromozione politica e sociale va collocata la fondazione del monastero di San Vittore, a circa otto chilometri da San Gimignano, originariamente semplice
cappella affidata a Berta figlia del conte Lotario dei Cadolingi e superiora del monastero
di Santa Maria a Cavriglia (seconda metà dell’XI secolo), e in seguito cenobio femminile
destinato a confluire nell’Ordine vallombrosano 46. Analogamente, secondo quanto riferisce una convincente ipotesi di Wilhelm Kurze, la Badia a Coneo, sorta nel territorio di
Colle, presso l’incrocio fra il tracciato collinare della Romea ed uno della via volterrana
per Siena 47, fu forse al suo esordio, ben poco documentato (anni Venti o Trenta del secolo XI) una chiesa legata agli Aldobrandeschi 48.
44. Kurze, Monasteri e nobiltà cit., 41-42, 156; Cammarosano, Abbadia a Isola cit., pp. 49-50; Vanni, Le abbazie della Valdelsa cit.
45. Duccini, Il castello di Gambassi cit., pp. 42-43, 45-46, 94, 104; M.L. Ceccarelli Lemut, I rapporti tra vescovo e città a Volterra fino alla metà dell’XI secolo, in Vescovo e città nell’Alto Medioevo: quadri generali e realtà toscane, Atti del convegno, Pistoia, 16-17 maggio 1998, Pistoia 2001, pp. 133-178: 155-157.
46. E. Lucchesi, Il monastero di S. Girolamo in S. Gimignano dalle origini ai nostri giorni (1337-1938). Notizie
storiche e biografiche, Firenze 1938, pp. 1-19; N. Vasaturo, L’espansione della congregazione vallombrosana fino alla
metà del secolo XII, «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», 16, 1962, 3, pp. 456-485: 478; Duccini, Il castello di
Gambassi cit., pp. 72-73, 89; Ead., Monasteri cit., pp. 204-206; Chiese medievali della Valdelsa cit., pp. 231-232.
47. Cfr. P. Guicciardini, Strade volterrane e romee nella media Valdelsa, «Miscellanea Storica della Valdelsa», 47,
1939, 1, pp. 3-24: 15.
48. Kurze, Scritti di storia toscana cit., pp. 279-280. Cfr. anche Davidsohn, Storia cit., I, p. 224 nota 3; M. J.-R.
Gaborit, Les plus anciens monastères de l’ordre de Vallombreuse (1037-1115). Étude archéologique, «Mélanges
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In ogni caso, se era ai signori laici che questi cenobi dovevano il loro sorgere o le prime
più consistenti dotazioni patrimoniali, l’affermazione che conobbero in epoca successiva
fu legata soprattutto alla progressiva inclusione nei due Ordini riformati maggiormente
attivi in Toscana, ossia i monaci vallombrosani e gli eremiti camaldolesi. I secondi conobbero senza dubbio un radicamento più consistente in Valdelsa, a seguito della pragmatica spartizione territoriale che caratterizzò i rapporti fra le due famiglie regolari in molte
diocesi e regioni dell’Italia del tempo 49. Ne constatiamo, infatti, la presenza a Santa Gonda,
presso il corso dell’Arno e lungo la strada Pisana 50, e li ritroviamo a Badia a Cerreto (dal
1059) 51 , nella chiesa del SS.mo Salvatore di Volterra (forse già dal primo decennio del
secolo XII) 52, a Mucchio e a Badia Elmi. Dal canto loro i Vallombrosani ebbero Coneo
(tra il 1073 e il 1076) e, come abbiamo detto, San Vittore, nonché, in epoca più tarda,
l’abbazia di Spugna 53. Presso queste chiese i religiosi non mancarono di dedicarsi alla cura
d’anime, ed esercitarono attività di assistenza a pellegrini e viaggiatori, mantenendo saldo
l’antico legame fra insediamenti monastici e arterie stradali 54.
Come ben illustrano i saggi raccolti nella presente silloge, anche Badia Elmi pervenne
all’Ordine romualdino, pur senza che la comunità acquisisse diritti di esenzione dall’autorità riconosciuta all’ordinario volterrano. Il passaggio all’obbedienza camaldolese fu,
del resto, opera del vescovo Ermanno (1064-ca. 1073) 55. Tale prelato viene spesso ricordato per essere stato il destinatario della lettera di Giovanni Gualberto incentrata sul corretto comportamento dei pastori diocesani, nella quale il riformatore fiorentino prese una
netta posizione contro la corruzione del clero, esortando il suo interlocutore a precedere
il proprio gregge con l’esempio della sua santità e a non gravare sulle risorse del popolo
a lui affidato in occasione della periodica visita pastorale, evitando ogni comportamento
che potesse richiamare anche solo lontanamente l’eresia simoniaca 56.
Ermanno era un presule come molti altri nella Tuscia del periodo. Probabilmente aveva
tollerato alcuni comportamenti, quale ad esempio la compravendita delle dignità ecclesiastiche, da tempo invalsi nell’uso anche se aborriti dai riformatori. Egli forse non gradì
d’Archéologie et d’Histoire, École Française de Rome», 76, 1964, 2, pp. 451-490; 77, 1965, pp. 179-208: 199;
Cammarosano, Storia di Colle di Val d’Elsa cit., p. 31; I. Moretti, Un monastero vallombrosano in diocesi di Volterra:
Santa Maria a Conèo, in Studi e memorie per Lovanio Rossi cit., pp. 391-411: 392-394.
49. Cfr. F. Salvestrini, Camaldolesi e Vallombrosani nell’Italia medievale. Modalità di insediamento e distribuzione
geografica a confronto, in Architettura eremitica. Sistemi progettuali e paesaggi culturali, Atti del Terzo Convegno
Internazionale di Studi, Camaldoli, 21-23 settembre 2012, a cura di S. Bertocci e S. Parrinello, Firenze 2012, pp. 505-509.
50. F.M. Galli Angelini, La Badia a Santa Gonda, «Bollettino dell’Accademia degli Euteleti della Città di San
Miniato», 34, 1954-55, pp. 37-41.
51. Cfr. C. Caby, Camaldulensis heremi sive cenobii religio: nascita e sviluppo dell’ordine camaldolese (sec. XIXIV), in San Romualdo. Storia, agiografia e spiritualità, Atti del XXIII convegno del Centro di studi avellaniti, Fonte
Avellana, 23-26 agosto 2000, Negarine (Verona) 2002, pp. 221-241: 225; e il saggio di Ead. nel presente volume.
52. Sulla quale cfr. L. Consortini, La Badia dei SS. Giusto e Clemente presso Volterra. Notizie storiche e guida
del tempio e del cenobio, Lucca, 1915; C. Casini, SS.mo Salvatore presso la Badia Camaldolese, in Chiese di Volterra,
III, a cura di U. Bavoni, P.G. Bocci, A. Furiesi, Pontedera, 2008, pp. 117-153: 122.
53. Maccarrone M., Studi su Innocenzo III, Padova 1972, p. 239.
54. Cfr. Stopani, L’itinerario di Sigeric cit., p. 66; C. Caby, De l’érémitisme rural au monachisme urbain. Les
Camaldules en Italie à la fin du Moyen Âge, Roma 1999, p. 470.
55. Kurze, Scritti di storia toscana cit., p. 185; Duccini, Monasteri cit., p. 198. Sul vescovo cfr. M.L. Ceccarelli
Lemut, Cronotassi dei vescovi di Volterra dalle origini all’inizio del XIII secolo, in Pisa e la Toscana occidentale nel
Medioevo. 1, A Cinzio Violante nei suoi 70 anni, a cura di G. Rossetti, Pisa 1991, pp. 23-57: 40; M.L. Ceccarelli
Lemut, Ermanno, in Dizionario Biografico degli Italiani, 43, Roma 1993, pp. 211-212.
56. Cfr. in proposito S. Boesch Gajano, Storia e tradizione vallombrosane, in Vallombrosa. Memorie agiografiche e culto delle reliquie, a cura di A. Degl’Innocenti, Roma 2012 (1 ed. 1964), pp. 15-115: 79-81, 99.
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Badia Elmi
i perentori consigli del monaco di Vallombrosa; consigli che egli stesso doveva aver sollecitato, mosso dall’ammirazione per questo integerrimo censore che si era fatto un nome
nella Firenze marchionale 57, giustificando la sua accorata lettera di risposta. Non si ha,
infatti, notizia di interventi promossi dal presule nel senso indicato dall’epistola. Inoltre,
dopo la morte di Giovanni il 12 luglio 1073, sappiamo che Ermanno preferì cedere l’abbazia di Adelmo ai più miti riformatori camaldolesi, fautori di una corretta vita regolare
che non interferiva col governo e la condotta morale dei vescovi 58.
In ogni caso i Vallombrosani si attestarono a Coneo forse fin dagli anni di Rodolfo,
successore di Giovanni Gualberto alla guida della congregatio (1073-1076) 59, anche se
questa fondazione non figura nella lista dei monasteri confermati alla famiglia regolare
dal privilegio di Urbano II del 1090 60, e sebbene si trovi menzione del suo superiore ai
‘capitoli generali’ del nascente Ordine gualbertiano solamente a partire dal 1095 61.
L’ingresso in tale societas favorì il rinnovamento strutturale di questa casa. Una nuova
chiesa vi fu costruita a partire grosso modo dal 1108. Quel che resta degli edifici monastici suggerisce chiaramente l’esistenza di spazi per l’accoglienza dei pellegrini 62.
L’obbedienza vallombrosana convisse con la dipendenza dall’ordinario volterrano, che
aveva il diritto di ordinare l’abate. Tuttavia i religiosi ottennero nel tempo una crescente
autonomia, anche in virtù del patronato esercitato dai signori di Picchena 63 e delle relazioni intessute col comune di Colle 64.
Sostanziali modifiche dell’impianto costruttivo sembrano essere state effettuate anche
a Badia Elmi allorché la fondazione fu affidata ai Camaldolesi; mentre la badia a Cerreto,
come abbiamo già osservato, iniziò a configurarsi come un vero e proprio monastero solo
dopo il passaggio all’obbedienza di san Romualdo.
57. Rinvio in proposito a G. Miccoli, Pietro Igneo. Studi sull’età gregoriana, Roma 1960, ed ora anche a F.
Salvestrini, La prova del fuoco. Vita religiosa e identità cittadina nella tradizione del monachesimo fiorentino (seconda metà del secolo XI), in Storia del cristianesimo fiorentino, a cura di M.P. Paoli e L. Tanzini, numero monografico di «Annali di Storia di Firenze», in corso di stampa. Cfr., inoltre, P. Cammarosano, Storia dell’Italia medievale.
Dal VI all’XI secolo, Roma-Bari 2001, pp. 322-326.
58. G. Vedovato, Camaldoli e la sua congregazione dalle origini al 1184. Storia e documentazione, Cesena 1994,
pp. 46-50, 257-258; Caby, De l’érémitisme cit., pp. 75, 93. Ricordiamo che l’intransigenza dei Vallombrosani li portò
a scontrarsi in primo luogo con l’episcopato fiorentino e successivamente anche coi vescovi di Arezzo e Lucca, nonché con Daiberto arcivescovo di Pisa, poi patriarca della Gerusalemme liberata (cfr. L. Carratori, B. Hamilton,
Daiberto, in Dizionario biografico degli italiani cit., 31, 1985, pp. 679-684: 680; M. Ronzani, Chiesa e «Civitas» di
Pisa nella seconda metà del secolo XI. Dall’avvento del vescovo Guido all’elevazione di Daiberto a metropolita di
Corsica (1060-1092), Pisa 1997, pp. 19-21, 229, 246; A. Murray, Daimbert of Pisa, the Domus Godefridi and the
Accession of Baldwin I of Jerusalem, in From Clermont to Jerusalem. The Crusades and Crusader Societies, Turnhout
1998, pp. 81-102; N. D’Acunto, L’età dell’obbedienza. Papato, Impero e poteri locali nel secolo XI, Napoli 2007,
pp. 149-150, 153-154; Boesch Gajano, Storia cit., pp. 28-44). Il pontefice Urbano II interverrà direttamente a disciplinare l’esuberanza dei monaci riformatori invitandoli a tornare nei chiostri, a cessare le accuse pubbliche contro i
vescovi e a rinunciare al diretto impegno nella Crociata (cfr. in proposito Salvestrini, Disciplina cit., pp. 198-199,
205; P. Frankopan, La prima crociata. L’appello da Oriente, Milano 2013, 1 ed. 2011, pp. 115-116).
59. Cfr. L. Marri Martini, La Badia a Conèo in Valdelsa, «Rassegna d’Arte Senese», 15, 1922, pp. 3-6; Kurze,
Scritti di storia toscana cit., pp. 279, 322, 324; Salvestrini, Disciplina cit., pp. 191-192; Moretti, Un monastero vallombrosano cit., p. 394.
60. Cfr. R. Volpini, Additiones Kehrianae (II). Nota sulla tradizione dei documenti pontifici per Vallombrosa,
«Rivista di Storia della Chiesa in Italia», 23, 1969, 2, pp. 313-360.
61. Acta capitulorum generalium cit., pp. 3-4.
62. Moretti, Stopani, Chiese romaniche in Valdelsa cit., pp. 33-41; Moretti, Un monastero vallombrosano cit.,
pp. 396, 400 ss.
63. Moretti, Un monastero vallombrosano cit., p. 398.
64. Cammarosano, Passeri, Città cit., p. 67; Moretti, Un monastero vallombrosano cit., pp. 395-398.
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Il monachesimo in Valdelsa dalla riforma ecclesiastica all’età comunale
23
Altro fattore che risultò determinante per il consolidamento delle comunità regolari
valdelsane fu costituito dai rapporti intrecciati con i nuclei demici rurali e castrensi.
Abbiamo già menzionato le situazioni di Marturi o Spugna. Badia a Coneo, dal canto suo,
avviò dal primo Duecento una serie di contatti con la società e le istituzioni colligiane.
Ancora negli anni Venti del secolo l’abate veniva chiamato dal comune a fungere da arbitro per la ricomposizione di vertenze locali. Per altro verso Badia Elmi stabilì precoci relazioni con la comunità rurale cresciuta sul lembo di terra alla sinistra dell’Elsa nell’ambito del quale il chiostro stesso era sorto. Mi riferisco all’abitato di Pulicciano che, come il
monastero del Santo Sepolcro, era originariamente legato al dominus Adelmo e poi passò
al diretto controllo del vescovo di Volterra. I margini di autonomia di questo piccolo insediamento stretto fra Certaldo e San Gimignano furono sempre limitati. In ogni caso l’identità locale si incentrò proprio sulla badia di Adelmo, destinata a divenire il principale
punto di riferimento per la vita religiosa della popolazione ivi stanziata; un riferimento
più importante della parrocchiale di San Giovanni, come si evince da una cartula ordinationis del presule volterrano risalente al 1061, la quale concedeva agli abitanti di
Pulicciano il diritto di essere sepolti presso il cimitero abbaziale (fatte salve le prerogative della pieve di Cellole) 65.
Senza dubbio sul lungo periodo i rapporti dei monasteri col laicato risultarono per i
primi un’arma a doppio taglio. Nel 1224 la sottomissione del cenobio di San Vittore al
comune di San Gimignano non fu tanto una promessa di protezione quanto piuttosto una
drastica limitazione dell’autonomia goduta dalle religiose, che comportò un allentamento del legame con Cavriglia 66. Analogamente la controversia arbitrata in quello stesso
anno dall’abate di Coneo, chiamato a dirimere uno scontro tra l’arciprete di Colle e le
magistrature comunali che avevano favorito l’arrivo e la predicazione di un frate minore
senza il consenso dell’autorità ecclesiastica locale, evidenziava quali importanti mutamenti
stessero allora avvenendo nella compagine religiosa e devozionale della Valdelsa. Infatti
i decenni successivi videro l’emergere proprio dei frati mendicanti ed una progressiva crisi
degli antichi centri benedettini. La decadenza, nel caso di Coneo, fu accelerata dall’imposizione di un patronato laico da parte della famiglia da Picchena e, nel Quattrocento,
dal regime commendatario 67. Per quanto riguarda San Vittore si tradusse, invece, nell’abbandono dell’istituto, le cui religiose nel 1337 si trasferirono, per maggior sicurezza,
in un edificio adiacente all’ospedale di Santa Fina, davanti alla Magione del Tempio di
San Girolamo situato entro le mura di San Gimignano 68. Infine Badia Elmi, non più in
grado di sopravvivere come chiostro autonomo, venne progressivamente assimilata al
monastero camaldolese di Santa Maria degli Angeli in Firenze.
65. Cfr. Duccini, Monasteri cit., pp. 229-230, e il contributo di Laura Neri nel presente volume, con la relativa
appendice documentaria.
66. E. Fiumi, Storia economica e sociale di San Gimignano, Firenze 1961, rist. 1993, p. 24; Duccini, Monasteri
cit., pp. 205-206.
67. C. Carnesecchi, Documenti relativi al castello di Picchena, «Miscellanea Storica della Valdelsa», 2, 1894, 3,
pp. 180-202: 185; Moretti, Un monastero vallombrosano cit., p. 398.
68. Duccini, Monasteri cit., p. 208; F. Salvestrini, Monaci in viaggio tra Emilia, Romagna e Toscana. Itinerari di
visita canonica dell’abate generale vallombrosano nella seconda metà del secolo XIV, in Uomini Paesaggi Storie. Studi
di Storia Medievale per Giovanni Cherubini, a cura di D. Balestracci, A. Barlucchi, F. Franceschi, P. Nanni, G. Piccinni,
A. Zorzi, Siena 2012, II, pp. 765-778: 770-771; P. Landolfi, I Templari a San Gimignano. La chiesa di San Jacopo
al Tempio, in De strata Francigena, San Gimignano e la via Francigena, Poggibonsi 1996, pp. 51-71: 52.
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Badia Elmi
Quali conclusioni possiamo trarre dalla vicenda dei monasteri valdelsani che si è brevemente cercato di delineare? In primo luogo constatiamo come la badìa di Adelmo, oggetto della presente raccolta di saggi, non sia stata la sola ad affacciarsi su questa compagine territoriale durante i fecondi decenni del primo secolo XI. Essa fece parte di un più
ampio gruppo di fondazioni promosse dai signori laici presso la strada di Francia e lungo
i non meno importanti tracciati locali che collegavano i centri d’altura a quelli di fondovalle. Tali comunità religiose, pur originate da iniziative private, presto pervennero alle
due principali congregazioni allora presenti in Toscana, che circoscrissero fortemente l’influenza dei patroni e mantennero queste case nel seno della Chiesa.
I Camaldolesi e i Vallombrosani fecero prosperare o comunque ben vivere i piccoli
chiostri, ma poterono riuscirci solo fin quando i nuovi poteri territoriali, ossia non più i
signori della campagna ma i comuni delle città e dei centri minori castrensi, ne determinarono indirettamente la progressiva decadenza. Tale crisi risultò evidente soprattutto a
partire dalla prima metà del Duecento, allorché le speranze di redenzione delle popolazioni valdelsane si affidarono sempre meno ai seguaci di san Benedetto, concentrati quasi
soltanto nella difesa dei loro patrimoni, e si rivolsero in misura crescente ai frati itineranti
giunti per predicare sulle piazze di questa zona. La devozione dei fedeli si orientò verso
gli umili e dinamici discepoli di san Francesco 69, destinati a configurarsi quali ultimi interpreti anche delle suggestioni penitenziali ‘oltramarine’, come evidenziano il celebre complesso conventuale e la successiva ricostruzione gerosolimitana di San Vivaldo 70; e guardò
con attenzione forse ancora maggiore ai piccoli ma diffusi gruppi eremitici sorti in alternativa alla guida del clero locale e in seguito confluiti nell’Ordine agostiniano 71.
Si aprì allora una nuova stagione per la storia delle istituzioni regolari e la vita religiosa dell’intera Valdelsa, pronta ormai a ricevere dai pellegrini che l’attraversavano forme
diverse di fede e di spiritualità.
69. Religiosità e società in Valdelsa nel Basso Medioevo, Atti del convegno, San Vivaldo, 29 settembre 1979,
[Castelfiorentino] 1980; G. Lemmi, Il Monastero di Santa Maria della Marca di Castelfiorentino dalle origini alla
soppressione napoleonica, Parte I, «Miscellanea Storica della Valdelsa», 96, 1990, 1-2, pp. 7-80: 7-17; A. Benvenuti,
Santità e ordini mendicanti in Val d’Elsa, in Gli Ordini mendicanti in Val d’Elsa cit., pp. 7-44; Ch.M. de la Roncière,
Società locali e ordini mendicanti nella Valdelsa fiorentina del Trecento (1300-1370), ivi, pp. 233-258; O. Muzzi, Il
comune di Colle Valdelsa e gli insediamenti mendicanti (XII secolo-metà XIV secolo), ivi, pp. 259-278; S. Mori,
Comunità francescana e devozione di famiglie castellane nel Basso Medioevo, in La chiesa di San Francesco a
Castelfiorentino, a cura di M.D. Viola, Firenze 2005, pp. 1-27.
70. Sui quali cfr. almeno F. Cardini, G. Vannini, San Vivaldo in Valdelsa: problemi topografici ed interpretazioni simboliche di una «Gerusalemme» cinquecentesca in Toscana, in Religiosità e società in Valdelsa cit., pp. 11-74.
71. Cfr. G. Gelli, Origine e sviluppo degli insediamenti agostiniani in Val d’Elsa, in Gli Ordini mendicanti in Val
d’Elsa cit., pp. 343-352; F. Salvestrini, Empoli, uno snodo tra Valdelsa e medio Valdarno (secoli XI-XIII), in Tra storia e letteratura. Il parlamento di Empoli del 1260, Atti della giornata di studio in occasione del 750° anniversario,
Empoli, 6 novembre 2010, a cura di V. Arrighi e G. Pinto, Firenze 2012, pp. 51-68: 66-68; Id., Centri minori della
Valdelsa e del medio Valdarno cit. Cfr. anche P. Piatti, Augustinianae mulieres. Un problema storiografico: il “movimento femminile agostiniano” nel Medioevo tra carisma ed istituzione, «Quaderni Medievali», 58, 2004, pp. 43-61;
A. Benvenuti, I. Gagliardi, P. Piatti, Il contributo degli eremiti della Tuscia (“I Toscani”) allo sviluppo dell’Ordine di
S. Agostino, «Analecta Augustiniana», 70, 2007, pp. 549-570; La soppressione degli enti ecclesiastici in Toscana.
Secoli XVIII-XIX. Censimento dei conventi e dei monasteri soppressi in età leopoldina, a cura di A. Benvenuti, Firenze
2008, pp. 505-506.
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La carta di fondazione della Badia Adelmi
e la più antica documentazione
Laura Neri
C
ome introduzione alla prima documentazione concernente la Badia Elmi vorrei esporre qualche nota di carattere metodologico. Questo lavoro consiste in un inquadramento generale delle più antiche vicende dell’abbazia a partire dalla sua fondazione, per
il quale mi sono basata su alcuni ottimi lavori, principalmente quelli di Antonella Duccini,
che ha studiato approfonditamente i castelli e le istituzioni religiose della Valdelsa, e quelli di Maria Luisa Ceccarelli Lemut e Wilhelm Kurze, che hanno offerto preziosi contributi alla conoscenza del territorio volterrano altomedievale; senza trascurare i fondamentali studi di Elio Conti sul paesaggio agrario dell’area fiorentina, che offrono innumerevoli spunti anche di carattere più generale. A lui si deve, ad esempio, l’approfondimento sulle proprietà della famiglia di Teuza del Matraio. Infine le opere di Paolo
Cammarosano 1, oltre che per un ampio inquadramento dei vari problemi, si sono rivelate basilari soprattutto per la conoscenza delle fonti edite.
1. Adelmo di Suppo e la sua famiglia 2
Fatte queste doverose premesse e dichiarato il mio debito nei confronti di chi finora mi
ha indirizzato verso un corretto inquadramento delle vicende dell’abbazia, in questa sede
presenterò alcune brevi note sul fondatore e sulla sua famiglia come introduzione alla
carta di fondazione e alla documentazione più antica dell’abbazia che, nel caso di Adelmo
di Suppo, non ci permette di ricostruire la linea genealogica maschile nei gradi precedenti al padre – di quella materna nulla sappiamo oltre al nome del nonno. Si tratta di problemi assai frequenti quando si affrontano genealogie di età altomedievale, che spesso rendono impossibile conoscere più di due o tre generazioni di una stessa famiglia 3.
Adelmo e i suoi fratelli, ossia Ugo chierico e Rollando, erano figli di un certo Suppo,
che risulta già scomparso all’atto di fondazione dell’abbazia. Costoro infatti si definivano bone memorie Supi in tutti documenti in nostro possesso, fin dal 992. Vi era pure
una sorella, Ermengarda, la quale, insieme a suo marito Bernardo detto Berizo del fu
Teucio, trasferì nel 1005 alcuni mansi alla Chiesa volterrana 4.
Suppo era di origine franca – ex genere francorum – come si apprende da un documento del 992 – anno in cui risultava già morto 5 – e faceva parte dell’aristocrazia vol1. Per la Badia Adelmi si veda la relativa scheda in P. Cammarosano, V. Passeri, I castelli del Senese. Strutture
fortificate dell’area senese grossetana, Siena 1984 (tutte le citazioni sono tratte dalla riediz. Siena 2006), s.v. Badia
Elmi, p. 394, n. 50.2.
2. A. Duccini, Il castello di Gambassi. Territorio, società, istituzioni (secoli X-XIII), Castelfiorentino 1998, pp.
40-41, 45-47.
3. P. Cammarosano, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma 1991, pp. 54-55.
4. Per il quadro d’insieme si veda l’albero genealogico della famiglia di Adelmo in Duccini, Il castello di Gambassi
cit., pp. 221-222.
5. M.L. Ceccarelli Lemut, I rapporti tra vescovo e città a Volterra fino alla metà dell’XI secolo, in Vescovo e città
nell’Alto Medioevo: quadri generali e realtà toscane, Atti del convegno, Pistoia, 16-17 maggio 1998, Pistoia 2001,
pp. 133-178: 155 e tav. p. 159.
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Badia Elmi
terrana, anche se forse non era originario della zona. Di sua moglie Tetberga, figlia di
Vuinildo detto Vuinizo, si può ipotizzare una più radicata origine volterrana, se diamo
per buona la ricostruzione della Duccini che fa discendere suo padre Vuinildo da un
certo Camarino, in relazione – al pari del figlio – con il vescovo e i canonici volterrani
già dalla metà del X secolo 6. Che anche Tetberga fosse di condizione sociale elevata lo
si deduce dagli importanti personaggi (giudici, conti etc.) che presenziarono e fecero da
testimoni agli atti che la riguardavano.
In virtù della legge salica professata dal marito, Tetberga aveva ricevuto da Suppo
in morgincap la terza parte dei beni che sarebbero passati in linea di successione alla
famiglia 7. Gli altri due terzi del patrimonio di Suppo spettavano per legge ai figli Adelmo,
Ugo e Rollando, mundualdi, cioè tutori, della madre. Con parte di tali beni verrà dotato il monastero fondato a Fonte Pinzaria 8, presso il castello e la curtis di Pulicciano 9.
Lo stesso Adelmo proclamava di vivere secondo la legge salica quando, nel 996, compariva come testimone in una donazione di immobili (22 inter casis et cascinis) effettuata
da Ugo marchese di Toscana in favore dei canonici volterrani 10.
2. Beni in dotazione all’abbazia
L’abbazia di Adelmo si configurava come un classico Eigenkloster, monastero soggetto a
un nucleo familiare, cui spettava non solo la disponibilità patrimoniale, ma anche la piena
autorità di dominio, secondo la classica definizione di Ulrich Stutz. Tale fenomeno, tipicamente altomedievale, riguardò membri dell’alta aristocrazia o di nobiltà locale, dalle
grandi alle piccole abbazie 11. Queste fondazioni, moltiplicatesi per numero intorno all’anno Mille dietro l’impulso del rinnovato fervore religioso dell’epoca, miravano a favorire
anche la coesione patrimoniale della famiglia dei fondatori, costituendo una sorta di legame di sangue, che prevedeva generalmente, ma non sempre, una successione agnatizia e in
linea maschile. L’efficacia spirituale di tali fondazioni era data dalla regola monastica, la
quale garantiva stabilità e organizzazione. Ai monaci era affidata l’intercessione pro remedio animae dei fondatori, mentre la scelta dell’abate veniva controllata dalla famiglia.
Se nell’VIII-IX secolo vi fu, in molti casi, l’adozione diretta e personale della vita religiosa da parte di fondatori, dal X secolo non si contemplò più l’accesso alla condizione monastica di costoro o dei loro familiari, che preferirono esercitare il controllo sui
cenobi dall’esterno. E sarà questo anche il caso dell’abbazia di Adelmo.
La defensio, cioè l’impegno per la sicurezza e il patronato sul monastero spettavano
quasi sempre ai fondatori o ai loro legittimi eredi, che ad esempio potevano estromettere
monaci e abati dalla cattiva condotta 12. Anche i vescovi, all’occorrenza, avevano facoltà
6. Duccini, Il castello di Gambassi cit., pp. 43-45.
7. Il morgincap o morghengabio, istituto giuridico di tradizione longobarda, era una quota indivisa (quarta o terza
come in questo caso) spettante alla moglie sui beni maritali (P. Cammarosano, Abbadia a Isola: un monastero toscano nell’età romanica, Castelfiorentino 1993, p. 45).
8. Nel corso degli anni la località viene variamente denominata: Pinzaria, Pinziaria, Prunzaria.
9. Cammarosano, Passeri, I castelli del Senese cit., s.v. Pulicciano, p. 402, n. 50.27.
10. Ceccarelli Lemut, I rapporti tra vescovo e città cit., p. 148.
11. W. Kurze, Scritti di storia toscana. Aspetti territoriali, diocesi, monasteri dai longobardi all’età comunale, a
cura di M. Marrocchi, Pistoia 2008, p. 191.
12. Kurze, Scritti di storia toscana cit., pp. 198-200 e 243-244.
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La carta di fondazione della Badia Adelmi e la più antica documentazione
27
di esercitare il patronato su questi istituti. In caso di estinzione della famiglia, in assenza
di legittimi successori, il chiostro familiare, al pari di una qualsiasi altra proprietà, passava sotto la giurisdizione vescovile, come si vedrà nel nostro caso dell’abbazia di Adelmo,
oppure di un’altra famiglia o di un’altra abbazia 13. Da qui la fondamentale importanza,
dal punto di vista formale e sostanziale, della carta di fondazione, in cui si stabilivano le
condizioni di partenza e si cercava di prevedere anche le possibili situazioni future.
Vediamo ora il contenuto della carta di fondazione dell’abbazia di Adelmo 14 (Fig. 1),
la quale si apre con la narratio 15, in assenza della serie di formule convenzionalmente poste
all’inizio di un documento, che va sotto il nome di protocollo. Mancano infatti la rituale
invocatio (In Dei nomine, amen), mentre la data cronica si trova nell’escatocollo, cioè
nella parte finale dell’atto, insieme alla data topica. A questa altezza cronologica i documenti pubblici di solito presentavano il datum e l’actum in chiusura, mentre nelle carte
private il primo era già in apertura, dopo l’invocazione alla divinità, e il secondo in chiusura 16. Questo fatto potrebbe far pensare a una modalità di redazione più arcaica.
Prima di proseguire è bene affrontare il problema dell’incongruenza della data cronica del
nostro documento. Il Mariani, trascrittore delle pergamene volterrane nel XIX secolo 17, aveva
interpretato l’imperatore Corrado come Corrado il Salico, datando la carta al 915. In realtà
si trattava di Corrado II, il cui quinto anno d’impero italiano, essendo stato incoronato a
Roma il 26 marzo 1027, dovrebbe corrispondere al 1031. Questo fatto non è però coerente
con la cifra indizionaria 18 secondo lo stile bedano adottato nel Volterrano: infatti l’indizione
terza scattava il 24 settembre del 1034, da qui la datazione del documento a quell’anno.
Bisogna tenere presente che gli scarti tra cifre indizionarie e le varie modalità di computo degli
anni non sono rari. Molto spesso si tratta di anomalie dovute a distrazione dello scrivente o
del copista. Nel nostro caso è indicato l’anno dell’impero ma non quello ab incarnatione, il
che rappresenta un’eccezione, dato che fin dall’età carolingia veniva costantemente impiegato il computo progressivo degli anni. Tale fatto, insieme alla data cronica posta nell’escatocollo, ci rafforza nell’idea di un uso arcaico delle modalità di datazione, che si discostano nettamente da quelle della generalità dei documenti privati, volterrani e non solo, risalenti a quest’epoca. Trattandosi però di un documento in copia, gli errori e le omissioni potrebbero anche
imputarsi alla scarsa leggibilità del dettato originale in uno o più punti.
Entrando nel vivo della carta di fondazione, la narratio – aperta dal consueto
Manifestus sum… quia – ci ricorda gli antefatti che avevano portato Adelmo e Gisla a
13. Come nel caso di Abbadia a Isola, la quale nell’arco di tre generazioni vide estinguersi la famiglia del fondatore, il che le permise di ‘affrancarsi’ dallo status di Eigenkloster (Kurze, Scritti di storia toscana cit., pp. 300-302).
14. Archivio Diocesano Storico di Volterra (d’ora in poi ADSV), Diplomatico, n. 10, 1034 ottobre 2, cfr. appendice n. 1. Si veda F. Schneider, Regestum Volaterranum. Regesten der Urkunden von Volterra, 778-1303, Roma 1907
(d’ora in poi Regestum Volaterranum), n. 119.
15. Per le varie parti del documento rinvio ai classici trattati di C. Paoli, Diplomatica, Firenze 1942, nuova ediz.
aggiornata da C. Bascapè, Firenze 1987 e successive ristampe, e di A. Pratesi, Genesi e forme del documento medievale, Roma 1979.
16. Si veda ad esempio lo schema di redazione delle carte pisane a partire dal X secolo in A. Ghignoli,
Repromissionis pagina. Pratiche di documentazione a Pisa nel secolo XI, «Scrineum-Rivista», 4, 2006-07, pp. 36106: 44 ss. <http://scrineum.unipv.it/rivista/4-2007/ghignoli-pisa.pdf>.
17. G. Mariani, Trascrizioni delle membrane dell’Archivio Vescovile, 1904-07, ms. nella Biblioteca Guarnacci di
Volterra, 11347, n. 10.
18. L’indizione era un ciclo cronologico di 15 anni, in cui gli anni di ciascun periodo risultavano numerati progressivamente da 1 a 15 per poi ricominciare dal primo; tale numerazione aveva stili variabili.
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costituire e a dotare un monastero, la qual cosa era avvenuta attraverso una perduta carta
iudicati, cioè un documento nel quale, secondo il diritto longobardo, venivano raccolte le
disposizioni di ultima volontà aventi per oggetto lasciti pii.
Adelmo, filio bone memorie Supi, con sua moglie Gisla, per amore di Dio e per rimedio dell’anima propria e di quella dei loro parenti, segnatamente i fratelli Ugo e Rolando,
aveva fatto edificare un oratorio su beni di sua proprietà nel luogo detto Fonte Pinzaria –
sulla riva sinistra dell’Elsa, prospiciente Certaldo – in onore del Santo Sepolcro e di Santa
Maria, nel piviere di Santa Maria a Cellole (a circa 3,5 km a nord-ovest di San Gimignano).
La sua dotazione era costituita da tre curtes, disseminate verosimilmente su un ampio territorio, sistema ancora vivo nell’XI secolo. Per l’ubicazione di questi beni abbiamo fatto
riferimento specificamente ai lavori di Antonella Duccini, che dimostra una profonda e
diretta conoscenza di queste terre e della loro microtoponomastica, essendo il lavoro di
identificazione dei toponimi, soprattutto nell’alto Medioevo, difficile e irto di insidie 19.
Dunque la prima curtis si trovava a Fonte Pinzaria e confinava da due lati con terreni appartenenti all’episcopio volterrano, dal terzo lato con il rio Marcignano – botro
delle Pescioline, nei cui pressi è Marcignana – e con la terra appartenuta a un certo Tazio;
dal quarto con la terra e la curtis di Cerreto, nel luogo detto Piano. La seconda curtis era
contigua alla strada Francigena e a essa faceva capo metà di una chiesa di proprietà della
famiglia di Adelmo, intitolata ai Santi Ippolito e Cassiano, metà del relativo borgo e tre
sortes 20 con le loro pertinenze poste, rispettivamente, nei luoghi denominati Al Culto, A
Cignano, A Marcignano. La terza curtis si trovava nel luogo detto Mascionatico, insieme alla sesta parte della chiesa di San Michele Arcangelo, anch’essa appartenente al piviere di Cellole. Un casale denominato Macinatico con la parrocchiale di San Michele in
quello stesso piviere è a 3 km dalla Badia. Il castello di Pulicciano si trovava verosimilmente al centro di questo complesso fondiario 21.
Dalla curtis e dal suo proprietario – o gruppi di proprietari, come sembrerebbe in
questo caso – dipendeva il complesso edilizio più importante con il suo oratorio, il cui
patronato spettava al proprietario stesso e presso il quale si svolgevano le funzioni religiose, escluso il battesimo, appannaggio della pieve. La nostra carta fa puntualmente
menzione di queste chiese. Di tale dotazione facevano parte, secondo il formulario,
case, edifici (spesso si prevedeva la presenza sia di annessi rurali che di lotti di terreno edificabili), terre coltivate, sortes, terre, vigne, campi, prati, pascoli, boschi, salectis cioè terreni con salici, terre colte e incolte, insieme a tutte le loro pertinenze e ai
diritti su di essi 22.
19. Duccini, Il castello di Gambassi cit., con relativa cartografia in appendice, ed Ead., Monasteri, pievi e parrocchie nel territorio di Gambassi (secoli X-XIII), «Miscellanea Storica della Valdelsa», 106, 2000, pp. 191-233.
20. Cioè unità agrarie dipendenti dalla curtis, simili ai poderi moderni, assegnate a famiglie di dipendenti liberi o servi.
21. Si veda il già citato Cammarosano, Passeri, I castelli del Senese cit., p. 402, n. 50.27.
22. Questa, va detto, pur rispecchiando il paesaggio agrario dominante intorno al Mille, non costituisce una rappresentazione della sua esatta conformazione, in quanto trattasi di un formulario giuridico che prevedeva i vari tipi di colture ed era all’incirca simile per tutti i contratti nei quali si trovavano passaggi di beni immobili (E. Conti, La formazione
della struttura agraria moderna nel contado fiorentino, Roma 1965, pp. 13-14). Tali formule, la cui ripetitività è stata
definita di «esasperante monotonia» (Cammarosano, Italia medievale cit., p. 65), è il frutto di un progressivo impoverimento, a partire dal IX secolo, sul piano della redazione documentaria rispetto all’età longobarda, da questo punto di
vista più variegata. La carta, cioè il documento dispositivo, pur nella sua struttura prefissata, rappresentava un valido
mezzo per documentare situazioni economiche complesse e per renderle il più possibile inattaccabili in un eventuale giudizio (cfr. Ghignoli, Repromissionis pagina cit., p. 50). Da qui tutta quella serie di formule ricorrenti che potevano vale-
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La carta di fondazione della Badia Adelmi e la più antica documentazione
Fig. 1. Carta di fondazione della badia, 1034 ottobre 2 (ADSV, Diplomatico, n. 10, cfr. appendice n. 1)
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Una volta elencata la dotazione di beni, segue una serie di formule tese a corroborare il
documento. Si prevedeva che la defensio, cioè l’impegno a difendere il pacifico godimento dei
beni dell’abbazia, spettasse al fondatore e ai suoi legittimi eredi, cui era riservato il patronato sull’abbazia stessa, il che si estrinsecava principalmente nella scelta dell’abate. Tale patronato avrebbe potuto essere sia maschile che femminile. Probabilmente vi era la consapevolezza, da parte di Adelmo, di non poter contare su una robusta linea di discendenza. All’abate
spettavano i poteri di gestione del patrimonio di cui la comunità monastica era stata dotata.
Sulla Regola benedettina ovviamente ricadde la scelta di Adelmo per il nascente cenobio, che fu posto sotto la tutela dell’imperatore, il quale puntualmente l’avrebbe esercitata nell’arco del successivo decennio.
Il rituale dell’investitura aveva caratteri fortemente simbolici, con i molti elementi
germanici di cui era permeato il diritto in vigore nelle nostre campagne ancora intorno
al Mille. Nel caso dell’abbazia di Adelmo era avvenuta infatti per cultellum et fistucum
nodatum et guantonem seo guasonem terre adque ramos arborum, cioè mediante la
consegna di un ramoscello, di un guanto, di un coltello e di una zolla di terra erbosa 23.
La sanctio per la mancata defensio, di ordine materiale, prevedeva – oltre alla pena
pecuniaria del doppio della stima dei beni – la somma di 100 lire d’argento, in aggiunta a quella di ordine spirituale, cioè la dannazione eterna 24. Nel nostro caso l’anatema
contiene chiari riferimenti biblici: oltre al traditore Giuda, anche Datan e Abiron, che
si ribellarono a Mosè durante la traversata del deserto e pertanto furono inghiottiti dalla
terra (Nm 16,1-35):
fiant participes eos cum Dafan et Abiron, qui aperuit terra os suum et deglutivit eos, sit
participes eos cum Iudas qui Cristum tradidit, sit separatus a consortjio omnium iustorum,
ut in die iudicii non resurgant in numero illorum 25.
Dal punto di vista formale, la prima cosa che salta agli occhi di questo documento è
l’estrema pulizia del dettato, privo di ripensamenti e di correzioni. Colpisce anche l’assenza di sottoscrizioni autografe, elementi che confermano che ci troviamo davanti a un
exemplar, cioè a una copia che per definizione è autentica, cioè eseguita da un notaio 26,
secondo quanto esplicitamente dichiarato in apertura. È però interessante capire di che
tipo di copia si tratti 27. Va detto che le carte di fondazione di monasteri in epoca altomedievale ci sono giunte assai raramente in originale. Più di frequente esse sono state tramandate in forma di copia, che poteva essere realizzata su una pergamena sciolta oppure per i casi in essere, ma anche per quelli potenziali. E dietro questa vaghezza spesso si celava anche la possibilità di rapporti agrari in divenire (Conti, La formazione cit., pp. 139-140).
23. Simili rituali continuarono ad esistere in modi e forme variabili fino al XIII secolo inoltrato, ad esempio nelle
campagne senesi.
24. Duccini, Monasteri, pievi e parrocchie cit., pp. 193-194.
25. Ai trasgressori si augurava la stessa sorte. I documenti più solenni contenevano riferimenti del genere, volti a
rafforzare le pene materiali. Si sperava, infatti, che l’una o l’altra minaccia servisse da deterrente, a seconda delle sensibilità personali. Naturalmente l’aspetto spirituale prevedeva che in suffragio delle anime dei donatori venissero celebrate messe, fatte veglie, recitate orazioni, cantati inni e salmi per la salvezza delle loro anime. Cfr. in proposito anche
il contributo di A. Conti nel presente volume.
26. Ghignoli, Repromissionis pagina cit., pp. 58-59.
27. Le copie potevano essere semplici, imitative o autentiche. Vi era anche la possibilità – non rarissima – della
contraffazione, ma non sembra essere questo il caso per motivi che vedremo in seguito. Sui vari tipi di copia si veda
Paoli, Diplomatica cit., pp. 270 ss.
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La carta di fondazione della Badia Adelmi e la più antica documentazione
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Fig. 2. In alto, a sinistra: segno notarile in apertura della carta di fondazione (1034); a destra: segno notarile della
carta del 1061, entrambi di mano del notaio Uberto. Al centro, a sinistra: subscriptio della carta del 1034 a nome di
Guido, ma di mano di Uberto e, a destra, sottoscrizione autografa di Uberto nella carta del 1061. Qui sopra, subscriptio autografa del notaio Guido (1042) (ADSV, Diplomatico, nn. 10, 62, 69, cfr. appendice nn. 1, 2, 5)
re all’interno di un cartulario in cui venivano trascritti gli atti di interesse dell’istituto religioso (ad esempio, quello dell’abbazia di San Galgano presso Siena). Tale operazione poteva avvenire anche molto tempo dopo rispetto alla redazione dell’originale. Generalmente
in questi casi la copia veniva autenticata da uno o più notai che garantivano per essa l’assoluta fedeltà all’originale e grazie al loro status di pubblici ufficiali vi apponevano il loro
signum e una formula comprendente i nomi dei testimoni, la data e il luogo in cui era
avvenuta la procedura. Poteva anche capitare che una volta effettuata la copia ci si disfacesse dell’originale 28 . Il che spiega la sopravvivenza delle molte copie, la cui custodia era
affidata all’ente destinatario.
Nel nostro caso la definizione in apertura di exemplar chiarisce l’intenzione del suo
estensore materiale. A prescindere dalle incongruenze che si sono annotate, appare chiara la volontà del notaio di esemplare l’originale, almeno nell’impianto generale.
E qui veniamo alla parte più interessante (Fig. 2). Alla nostra carta è apposto un duplice signum in apertura e in chiusura – a partire dal XII secolo verrà apposto soltanto in
chiusura, nell’escatocollo – accanto al nome del notaio che aveva rogato l’originale, cioè
Guido. Si dà il caso che il signum – elemento che valida una carta, antesignano dell’odierno timbro notarile – sia invece incontestabilmente quello di un notaio diverso da
Guido, cioè Uberto. Questo Uberto, come si è potuto ricostruire dal confronto con altri
atti da lui rogati, era un notaio sacri palatii, cioè di nomina comitale e con giurisdizione ampia rispetto ai notai locali, il che spiegherebbe il suo vasto raggio d’azione; posse28. Ghignoli, Repromissionis pagina cit., pp. 42-43.
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diamo infatti un certo numero di documenti da lui rogati nel territorio di Volterra e in
quello fiorentino (Valdipesa) – oggi nel Diplomatico fiorentino, fondo di Passignano.
In sostanza, quindi, quand’anche la carta avesse rispecchiato fedelmente il suo antigrafo, il signum notarile è quello di chi la copiò e non di chi la rogò. Uberto esemplò il
documento rogato da Guido, ma vi appose il proprio signum. Il procedimento è singolare per la semplice ragione che, a rigor di logica, unitamente al suo signum avrebbe
dovuto inserire una formula che, come si è detto, validava erga omnes la copia.
La buona fede di Uberto potrebbe essere rivelata dal non aver tentato di imitare il
signum di Guido – l’imitazione di un signum altrui, insieme alla mancata dichiarazione di una copia, ci avrebbe fatto sospettare una falsificazione. Probabilmente non
dovrebbe trattarsi neppure di una svista dell’esemplatore, quanto piuttosto di una forma
di autenticazione incompleta, con il signum del copista, ma non la formula di rito, che
di solito riporta anche la data in cui fu svolta l’operazione. In un certo senso vi è un
grado di falsificazione sul piano formale, più che su quello sostanziale. In ogni caso,
pur ammettendo le migliori intenzioni di Uberto, si tratta di una procedura quanto meno
irrituale 29.
Quando fu eseguita la copia che è giunta fino a noi? Il fatto che il notaio Uberto sia
l’estensore di un altro documento di interesse dell’abbazia, datato 1061 30 e sicuramente
originale, induce a credere che la carta di fondazione possa essere stata esemplata in quel
periodo, allorché, come vedremo, avvennero dei passaggi fondamentali per il monastero.
Inoltre l’attività di Uberto è testimoniata dopo la metà dell’XI secolo a Firenze e a
Volterra 31. Potrebbe darsi che nel procedimento del 1059, che vide la risoluzione della
controversia tra il vescovo di Volterra e la famiglia dei Cadolingi, fossero stati addotti in giudizio i titoli di possesso dell’abbazia, all’epoca già passata al presule volterrano. Nelle mani di quest’ultimo era verosimilmente pervenuta anche la carta di fondazione, insieme agli altri munimina (cioè carte che documentavano la titolarità del bene).
I giudizi erano in genere occasioni per raggruppare documenti utili a formare dei dossier, in cui sovente venivano inserite le copie delle carte da esibire. La carta di fondazione poteva essere stata danneggiata e risultare parzialmente illeggibile. Da qui l’incongruenza di certi passi del documento, come si è visto. Il notaio Guido fu però l’effettivo estensore della cartula offersionis del 1042. L’atto ci è pervenuto in originale.
3. Cessione dell’abbazia da Pietro al vescovo di Volterra
Infatti, otto anni dopo la data che abbiamo preso come buona per la fondazione dell’abbazia, esattamente il 24 maggio del 1042 32 (Fig. 3), l’Eigenkloster della famiglia di
29. D’altra parte fu intorno all’anno Mille che si affinò la tecnica della frode documentaria, la quale si esercitava
più sulle copie che sugli originali (pseudo-originali in forma di copia). Su questo tema si veda M. Ansani, Sul tema
del falso in diplomatica. Considerazioni generali e due dossier documentari a confronto, in XI e XII secolo: l’invenzione della memoria, Atti del seminario internazionale, Montepulciano, 27-29 aprile 2006, a cura di S. Allegria e F.
Cenni, Montepulciano 2006, pp. 9-50.
30. Cfr. infra.
31. Cfr. Firenze, Archivio di Stato (d’ora in poi ASF), Diplomatico, Passignano, San Michele, 1075, dicembre 13;
ASF, Diplomatico, Volterra, Comune, 1084, marzo 7; ASF, Diplomatico, Volterra, Comune, 1084, novembre 2; ASF,
Diplomatico, Volterra, Comune, 1086, settembre 1.
32. ADSV, Diplomatico, n. 62, 1042 maggio 24, cfr. appendice n. 2. Per il regesto si veda M. Cavallini, Vescovi
volterrani fino al 1100. Esame del Regestum Volaterranum, con appendice di pergamene trascurate da Fedor Schneider,
«Rassegna Volterrana», 36-39, 1969-72, pp. 43-83: 52.
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La carta di fondazione della Badia Adelmi e la più antica documentazione
Fig. 3. Cartula offersionis, 1042, maggio 24 (ADSV, Diplomatico, n. 62, cfr. appendice n. 2)
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Adelmo passò di mano. Un certo Petrus filius bone memorie Amitji donò al vescovo volterrano i beni di cui era entrato in possesso mediante una carta iudicati e una carta vendictionis. Verosimilmente Pietro era l’esecutore testamentario di Adelmo e dei suoi familiari 33, forse non imparentato con costoro, dal momento che non si fa cenno a suoi diritti di patronato sul monastero. In assenza della documentazione intermedia tra il documento del 1034 e quello del 1042 si può solo ipotizzare che la citata carta iudicati prevedesse un passaggio del monastero al vescovo volterrano in assenza di discendenti della
famiglia. Nulla sappiamo della già citata carta vendictionis. Antonella Duccini, che ha
approfonditamente studiato la materia, fa giustamente notare che se Pietro fosse stato
legato da parentela alla famiglia di Adelmo, un’eventuale diminuzione del patrimonio dell’abbazia a favore di altri soggetti sarebbe stato contrario alle intenzione del fondatore.
Si presume quindi che Pietro fosse stato investito di questi poteri dallo stesso Adelmo.
Entrando nel merito di questo documento, Pietro del fu Amizzo offriva al vescovo
integro monte et poio et castello a Pulicciano con la chiesa di San Giovanni e il monastero del Santo Sepolcro presso l’Elsa (cioè la Badia Adelmi), con tutti i suoi edifici e
beni immobili casis et casscinis et casalinis seo ecclesiis et capellis et sortibus et rebus,
qui ad iandicto castello et curte et donicato e relativi diritti e pertinenze. Inoltre, in
aggiunta al patrimonio strettamente legato già nel 1034 all’abbazia, donava integro
monte et poio et castello illo et turre di Montagutolo – cioè l’attuale Montauto, 3 km
a sud di San Gimignano 34 – con la chiesa dedicata a San Lorenzo cun onnibus donnicatis et curtis et sortis et rebus massaritjis, divisa ancora verosimilmente in pars dominica e pars massaricia. E poi integro monte et poio a Ciuciano – 4,5 km a sudovest di
San Gimignano 35 –, con la chiesa di San Pietro, oltre al castello e alla rocca della non
meglio identificabile località di Cori, insieme alla chiesa di Santa Lucia. Da notare che
i beni della donazione al vescovo coincidevano con quelli che erano stati fatti oggetto
delle due transazioni del 992 e del 994: nel 992 Adalberto del fu Ildibraldo detto Ildizo
aveva venduto a Teuperto detto Teuzo del fu conte Rodolfo dei Gherardeschi per mille
soldi d’argento le proprietà che aveva comprato da Tetberga, la madre di Adelmo, e
che rappresentavano la terza parte della quota del patrimonio della sua famiglia. Nel
994 Adalberto aveva rivenduto per lo stesso prezzo ad Alberico del fu conte Alberico
i medesimi beni, di cui Adelmo e il fratello Rollando mantenevano, in base alla legge
salica, i due terzi e che sarebbero stati oggetto della donazione del 1042 di Pietro di
Amizzo al vescovo volterrano 36. Anche in questo caso ci sfuggono i passaggi intermedi della trafila che portò i figli di Tetberga, cioè Adelmo e i suoi fratelli, a rientrare in
possesso della quota materna. Può darsi che l’avessero ricomprata, magari attraverso
la carta vendictionis citata poc’anzi insieme alla carta iudicati. I riferimenti sono troppo vaghi e pertanto siamo costretti a fare solo delle ipotesi.
In questo modo la Chiesa volterrana, al tempo del presule Guido (1044-1061) 37 –
che nell’anno 1034 aveva fondato alle porte di Volterra un suo Eigenkloster, i Santi
33. Duccini, Monasteri, pievi e parrocchie cit., pp. 195-196, e Ceccarelli Lemut, I rapporti tra vescovo e città cit.,
pp. 156-157.
34. Cammarosano, Passeri, I castelli del Senese cit., p. 400, n. 50.21.
35. Ivi, p. 397, n. 50.12.
36. Ceccarelli Lemut, I rapporti tra vescovo e città cit., pp. 155-157.
37. M.L. Ceccarelli Lemut, Cronotassi dei vescovi di Volterra dalle origini all’inizio del XIII secolo, in Pisa e la
Toscana occidentale nel Medioevo, a cura di G. Rossetti, Firenze 1991, pp. 23-57: 39-40.
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Giusto e Clemente – incamerava il cospicuo patrimonio fondiario già appartenuto alla
famiglia di Suppo, della quale si perdono a questo punto le tracce.
Il documento del 1042 ci è pervenuto – a differenza del precedente – in forma originale, con le sottoscrizioni dei testimoni, il signum e la completio autografa del notaio
Guido, che viene ricordato per aver rogato anche la perduta carta iudicati. Ciò farebbe pensare a un rapporto di fiducia tra la famiglia di Adelmo e Guido stesso, proprio
per aver rogato in questi passaggi cruciali.
Durante il suo episcopato il vescovo volterrano – anche lui di nome Guido – ottenne
nel 1052 dall’imperatore Enrico III 38 un privilegio donationis et confirmationis sul castello di Pulicciano (Fig. 4), sul monastero del Santo Sepolcro e sulle altre località già menzionate nel 1042 (Montauto e Cori), dando inizio a una serie di privilegi e conferme che
avrebbero avuto il loro apice nel secolo successivo 39. L’ordinario diocesano riusciva a
costruirsi una forte base territoriale a spese delle famiglie dell’aristocrazia laica della
zona, le quali controllavano terre e castelli soprattutto in corrispondenza delle principali
vie di comunicazione. D’altra parte la politica di Enrico III inclinava a favore dei vescovi toscani per porre un argine alla potenza dei marchesi canossiani e dei conti e funzionari pubblici a essi legati 40.
Questo diploma, che ci è pervenuto in originale con monogramma imperiale, fu
redatto a Zurigo, dove l’imperatore aveva convocato un’assemblea cui presero parte
anche vescovi italiani, tra i quali il volterrano Guido 41. L’estensore, un notaio italiano
al seguito di qualche presule, usò un formulario simile anche per un altro privilegio
recante la stessa data e riguardante la diuturna contesa tra i vescovi di Arezzo e Siena.
Come si è visto, era stato lo stesso fondatore Adelmo a cercare per il proprio cenobio
la protezione imperiale.
In questo caso l’imperatore, per intercessione di sua moglie Agnese e di un suo potente funzionario, Opizo – cancelliere imperiale dal 1049 all’agosto del 1053 e poi vescovo
di Lodi – aveva confermato alla Chiesa volterrana i beni che, stando al dettato del documento, le erano stati destinati da Adelmo (cioè l’abbazia, Pulicciano, Montauto e Cori).
Ciò sarebbe un’indiretta conferma della designazione, da parte di Adelmo, del vescovo
come suo successore in assenza di eredi:
omnia quę Adelmus bone memorie cum uxore sua per cartulam oblationis [vo]laterensi aecclesiae contulit, scilicet castellum de Puliciano cum monasterio Sancti Sepulchri aliisque
pertinentiis et castellum de Monte Acutolo cum suis pertinenciis et suam porcionem de
[r]occam de Cori cum suis pertinentiis 42.
Inoltre l’imperatore si muoveva per difendere la Chiesa volterrana dai potentati locali
che sub occasione exigendi iuris… affligendo inquietant et dignitatem sanctę aecclesiae
38. ADSV, Diplomatico, n. 65, 1052 giugno 17, cfr. appendice n. 3. P. Cammarosano, Storia dell’Italia medievale. Dal VI all’XI secolo, Roma-Bari 2001, p. 285. Cfr. infra, nota 42.
39. Duccini, Il castello di Gambassi cit., p. 104.
40. Cammarosano, Storia dell’Italia medievale cit., p. 299.
41. G. Tabacco, Arezzo, Siena e Chiusi nell’alto Medioevo, in Lucca e la Tuscia nell’Alto Medioevo, Atti del 5°
Congresso Internazionale di Studio sull’Alto Medioevo, Lucca, 3-7 ottobre 1971, Spoleto 1973, pp. 163-189: 182-183.
42. Monumenta Germaniae Historica. Diplomata regum et imperatorum romanorum, a cura di H. Bresslau e P.F.
Kehr, Berlin 1931, I, p. 431, n. 474; Regestum Volaterranum, n. 123; Duccini, Monasteri, pievi e parrocchie cit., p. 196.
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Fig. 4. Privilegium donationis et confirmationis, 1052, giugno 17 (ADSV, Diplomatico, n. 65, cfr. appendice n. 3)
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indecentissime inhonestant, imponendo a coloro, clericos et famulos aecclesiae, che risiedevano sulle terre del vescovo di rimanere sotto la sua giurisdizione. Pertanto allo stesso
presule spettava ante se causas agere ed emettere sentenze che tutti erano tenuti a rispettare 43. Tale prerogativa fu però revocata dieci anni dopo da papa Alessandro II 44.
Ancora il vescovo Guido nel 1059 (Fig. 5) ottenne ragione nella contesa che lo aveva
visto contrapposto a Guglielmo Bulgaro della famiglia comitale dei Cadolingi. Il breve
in questione – cioè un documento probativo in questo caso di un procedimento giudiziario – ad perpetuam rei memoriam fu redatto a Firenze al cospetto di papa Niccolò
II e di Ildebrando abate di San Paolo fuori le Mura a Roma, futuro Gregorio VII 45.
Guglielmo Bulgaro, approfittando forse di una situazione di incertezza creatasi dopo la
morte di Adelmo, si era impossessato dei beni appartenenti a quest’ultimo a discapito
della Chiesa volterrana, da qui le proteste del vescovo. La vertenza era sfociata nel dramma e dalle parole si era passati ai fatti: nel breve in questione si parla non soltanto di
calunnie e querimonie varie, ma anche di aggressioni, saccheggi, ferimenti, incendi e di
omicidio. La Chiesa volterrana era uscita vincitrice dalla contesa e nettamente rafforzata nelle sue prerogative 46.
Anche questo documento ci è pervenuto in originale con le sottoscrizioni autografe, fra cui quella di Guglielmo Bulgaro.
Del 17 dicembre 1061 47 è l’ultima menzione del vescovo volterrano Guido che confermava all’abate i possedimenti donati a suo tempo da Adelmo e Gisla, concedendo
anche i diritti di sepoltura per i parrocchiani della chiesa di San Giovanni a Pulicciano
nel cimitero abbaziale, diritti che costituivano una fonte di entrate per il monastero (Fig.
6). Sostanzialmente in questo anno il patrimonio dell’abbazia risulta aumentato di poco,
grazie al manso di Artignano e ad altri beni situati nelle vicine località di Artignano e
Frassineta.
Questo documento, anch’esso originale, fu rogato dal notaio Uberto ed è mediante il
confronto con esso che si è potuto identificare il copista della carta di fondazione. Come
abbiamo detto, il motivo per cui ci sentiamo di datare a quest’altezza cronologica la copia
della carta di fondazione del 1034, è che questi furono verosimilmente anni di riorganizzazione e di cambiamento per l’abbazia con la contesa con Guglielmo dei Cadolingi
e il relativo procedimento e la probabile ricognizione delle proprietà da confermare, forse
anche in vista del passaggio all’Ordine camaldolese. In questa stessa carta si menzionano i rapporti in essere con dei massari, segno che esistevano i relativi documenti.
Da tale momento in poi la documentazione di rilevanza per il monastero si arricchisce dal punto di vista delle donazioni, forse in concomitanza con gli anni del pontifica43. Cavallini, Vescovi volterrani cit., p. 38.
44. P.F. Kehr, Regesta Pontificum Romanorum. Italia Pontificia, III. Etruria, Berlin 1908, p. 290, 8 settembre
1062.
45. ADSV, Diplomatico, n. 68, 1059 dicembre 1, cfr. appendice n. 4. Regestum Volaterranum, n. 126 e Ceccarelli
Lemut, I rapporti tra vescovo e città cit., pp. 156-157.
46. Duccini, Il castello di Gambassi cit., pp. 105-107; W. Kurze, Monasteri e nobiltà nel Senese e nella Toscana
meridionale. Studi diplomatici, archeologici, genealogici, giuridici e sociali, Siena 1989, pp. 235-236. Kurze avanzò
a suo tempo l’ipotesi che Adelmo fosse un vassallo dei Cadolingi e che avesse ricevuto da loro alcuni beni vicini all’abbazia da lui fondata, i quali, pertanto, non sarebbero stati usurpati.
47. ADSV, Diplomatico, n. 69, 1061 dicembre 17, cfr. appendice n. 5; Regestum Volaterranum, n. 109, p. 47;
cfr. anche Duccini, Monasteri, pievi e parrocchie cit., p. 197.
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Badia Elmi
Fig. 5. Breve perdonationis et refutationis, 1059 dicembre 1 (ADSV, Diplomatico, n. 68, cfr. appendice n. 4)
Fig. 6. Carta confirmationis, 1059 dicembre 1 (ADSV, Diplomatico, n. 69, cfr. appendice n. 5)
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to di Gregorio VII (1073-1085), contraddistinti da un’ondata di spontaneo fervore religioso. Giova ricordare la serie di tre carte offersionis da parte di una famiglia della
Valdipesa discendente da una certa Teuza da Matraio, di cui facevano parte anche diversi ecclesiastici e figli di ecclesiastici e che verosimilmente dovevano le loro fortune al loro
status 48. La prima è del gennaio 1069: un certo Gerardo detto Giocolo donava al monastero della terra (6 staiora, circa mezzo ettaro) 49 a Isola, presso la Pesa, e suo figlio, il
prete Azzo, nel dicembre 1075 cedeva 24 staiora di terra (cioè poco più di due ettari, in
quattro diverse località). Nel 1078 l’abbazia di Santa Maria e Santo Sepolcro a Fonte
Prunziaria fu fatta oggetto di una donazione pro remedio anime di Teuzo del fu Giovanni,
forse anch’egli collegato ai discendenti di Teuza, di metà della chiesa dei Santi Martino
e Quirico in Mantiano. Anche questi ultimi documenti furono rogati da Uberto, e nel
tempo sono passati in due diversi archivi: quello del 1075 (al pari di quello del 1069) fa
parte del fondo del Diplomatico fiorentino del monastero di Passignano, che vantava un
vasto patrimonio fondiario in Valdipesa, mentre l’altro è nell’archivio comunale-biblioteca Guarnacci a Volterra. Si può forse ipotizzare che Uberto avesse stabilito un rapporto
di continuità con il cenobio di Adelmo e, in virtù del suo status di notaio sacri palatii
godesse di prestigio anche nella zona volterrana.
Il 6 agosto 1073 è un momento di svolta nella storia dell’abbazia di Adelmo. A questa data, infatti, il vescovo volterrano Ermanno (1064-1073) la concedette ai
Camaldolesi 50 affinché la riformassero 51. I monaci del Casentino si erano insediati già
dal 1059 a breve distanza dall’abbazia di Adelmo nella cui sede era stata rogata la carta
della donazione al medesimo Ordine della chiesa di San Pietro a Cerreto, dove sarebbe
sorto il monastero omonimo 52.
Come si legge nel relativo atto, vi era stata una grave decadenza della vita cenobitica nell’abbazia di Adelmo e si rendeva quindi indispensabile affidarla alla rigorosa guida
spirituale dei Camaldolesi perché la riformassero 53. Infatti, malgrado gli sforzi del vescovo e le sue esortazioni,
non iuxta beati Benedicti precepta steterunt, sed potius multis voluptatibus pluribusque
lasciviis dediti vixerunt. Qua de re multotiens condoluit multisque vicibus deflevi, quod invenire nequiveram clericum Deum timentem, regulam diligentem quem illis possem constituere patrem 54.
I Camaldolesi, per ristabilire una disciplina nella vita religiosa, riuscirono a sottrarre al vescovo importanti privilegi volti ad adattare il monastero ai loro criteri organiz48. Conti, La formazione cit., pp. 155-157.
49. 12 staiora = poco più di un ettaro (Conti, La formazione cit., p. 121).
50. Su Er(i)manno si veda Cavallini, Vescovi volterrani cit., pp. 23-27; Ceccarelli Lemut, Cronotassi cit., pp. 4041: 46; ed Ead., Ermanno, in Dizionario Biografico degli Italiani, 43, Roma 1993, pp. 211-212, <http://www.treccani.it/enciclopedia/ermanno>.
51. ASF, Diplomatico, Camaldoli, San Salvatore (eremo), 1073, agosto 6 (pergamene Normali), cfr. appendice n. 6. F.
Salvestrini, Recipiantur in choro … qualiter benigne et caritative tractantur. La lunga consuetudine delle relazioni fra
Camaldolesi e Vallombrosani, in Camaldoli e l’Ordine Camaldolese dalle origini alla fine del XV secolo, Atti del Convegno
internazionale di studi, Camaldoli, 31 maggio-2 giugno 2012, a cura di C. Caby e P. Licciardello, in corso di stampa.
52. Duccini, Monasteri, pievi e parrocchie cit., pp. 196-197.
53. Kurze, Monasteri e nobiltà cit., pp. 301-302.
54. Ivi, pp. 283-284.
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zativi. Infatti chiedevano al presule di rinunciare ad alcuni dei suoi fondamentali diritti
di patronus sull’abbazia, lasciandogli solo l’investitura dell’abate e il diritto di consacrazione di esso. D’altra parte gli eremiti e il vescovo si riservavano entrambi di estromettere dal cenobio monaci o abati che si fossero macchiati, instigante diabolo, di violazione della Regola 55 e deterioramento della vita monastica. L’anno seguente l’abbazia
valdelsana veniva confermata a Camaldoli tramite un privilegio di papa Gregorio VII 56.
In tal modo l’Eigenkloster di Adelmo si liberava dello status che la legava a chi aveva
ereditato le prerogative della famiglia del suo fondatore, cioè il vescovo 57, entrando a far
parte di una congregazione più ampia e strutturata.
Da questo momento in poi la documentazione entra in netta misura negli archivi dei
Camaldolesi, versati nel Diplomatico dell’Archivio di Stato di Firenze tra il 1810 – con le
soppressioni napoleoniche – e il 1893, di cui fin dal 1698 era stato fatto un inventario 58.
Inoltre del cospicuo fondo camaldolese esistono i regesti moderni nella serie dei Regesta
Chartarum Italiae (a partire dal 1907), opera di Luigi Schiaparelli e Francesco
Baldasseroni. Il documento che sancisce il passaggio dell’abbazia di Adelmo ai Camaldolesi
ci è giunto sia in originale sia in copia e si trova, come detto, nel Diplomatico dell’Archivio
di Stato di Firenze.
Oltre all’occasionale citazione dell’abbazia come luogo in cui nel 1109 fu effettuata una
vendita da parte di Uguiccione dei Cadolingi 59, la documentazione relativa alla seconda
metà del XII secolo è costituita in buona sostanza da una serie di privilegia confirmationis
di beni all’abbazia, a partire dal 1147, con quello di papa Eugenio III, cui faranno seguito
altri documenti diretti genericamente a vari cenobi all’Ordine camaldolese. Ricordiamo il
privilegio del gennaio 1154 (Anastasio IV) 60, con successive conferme del 1155 da parte di
Adriano IV (14 marzo) 61, del 1176 di Alessandro III (17 marzo) 62, del 1184 di Lucio III (7
luglio) 63, del 1186 di Urbano III (15 marzo) 64, del 1187 di Clemente III (23 dicembre) 65,
del 1199 di Innocenzo III (23 settembre) 66. Altri due privilegi di papa Alessandro III furono diretti al vescovo volterrano Ugo nel 1171 e nel 1179 (23 aprile) 67.
Del 1197 è la risoluzione da parte di Pandolfo XII, legato di papa Celestino V, di una
vertenza tra l’abate di Elmi e il plebatus fiorentino sulla chiesa Sancte Marie de Petrazzo 68.
Non è vero che l’abbazia di Adelmo non fosse più un monastero «fino dal secolo
XIII», come sentenzia il Repetti, anche se nel corso del Duecento si assisté alla sua ine55. Ivi, pp. 285-286; Duccini, Monasteri, pievi e parrocchie cit., p. 198.
56. Duccini, Monasteri, pievi e parrocchie cit., p. 198.
57. Kurze, Monasteri e nobiltà cit., pp. 300-301.
58. Regesto di Camaldoli, a cura di L. Schiaparelli e F. Baldasseroni, Roma 1907 (d’ora in poi RC), avvertenza,
pp. VII-VIII.
59. Regestum Volaterranum, n. 144.
60. RC, n. 1106.
61. RC, n. 1114, in copia.
62. RC, n. 1176 in copia.
63. RC, n. 1228 in copia.
64. RC, n. 1238.
65. RC, n. 1257.
66. RC, n. 1361.
67. Regestum Volaterranum, n. 208.
68. Kehr, Regesta Pontificum Romanorum cit., III, pp. 300-301.
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Badia Elmi
sorabile decadenza e riduzione in precarie condizioni economiche, che culminò negli
anni Settanta con l’esenzione dal pagamento delle decime papali. La documentazione
riguarda prevalentemente interventi congiunti del vescovo volterrano e dei priori camaldolesi nelle nomine degli abati, e qualche negozio, come l’enfiteusi concessa al cenobio
nel 1209 dal presule volterrano Ildibrando di un mulino sull’Elsa. Nel 1230 i sangimignanesi devastarono Gambassi e le campagne circostanti, arrecando danni anche all’abbazia di Elmi 69, da qui una richiesta di risarcimento del vescovo Pagano. In seguito a
questa guerra molti castelli della zona furono acquisiti al dominio comunale, mentre
Pulicciano – con Ulignano, Gambassi e Montignoso – sarebbe rimasto a lungo sotto la
giurisdizione episcopale volterrana 70.
Per concludere, si ha l’impressione di un’istituzione che, esaurita la forza propulsiva legata al suo fondatore, con le motivazioni spirituali che l’avevano generata, una
volta entrata nella grande famiglia camaldolese vivesse di luce riflessa, al pari di altre
istituzioni religiose della zona.
Le pergamene pubblicate in appendice costituiscono la più antica documentazione
della Badia. Si enunciano di seguito, in modo sintetico, i criteri di edizione adottati.
È rispettata per quanto possibile la definizione desunta dal documento stesso (ad
esempio carta confirmationis ecc). I regesti sono dati in forma sintetica, dal momento
che i documenti qui editi sono decritti nella trattazione generale. Sono stati inoltre citati la tradizione, l’edizione e i regesti, oltre allo stato di conservazione e alle dimensioni
del documento. Dalle note dorsali sono state escluse le antiche sigle archivistiche.
Nella trascrizione è stata mantenuta l’esatta riproduzione della forma latina del testo,
mentre sono state adeguate all’uso moderno la punteggiatura e la maiuscolizzazione. Nelle
note di apparato sono state annotate correzioni, cancellature, inserzioni interlineari, parti di
incerta lettura, varianti ecc. Essendo le varie note tachigrafiche della lettera “q” spesso intercambiabili a questa altezza cronologica, si è preferito di volta in volta sciogliere l’abbreviazione in base al valore grammaticale desunto dal contesto. Si sono mantenuti inoltre il nesso
“tj” e le diverse forme del dittongo “ae”: ae, e, ę.
Le parentesi tonde includono abbreviazioni di incerto scioglimento, mentre nelle
quadre sono racchiuse le eventuali integrazioni di testo mancante – ricostruito in base
al formulario o a possibili diverse lezioni – o dei punti in numero corrispondente a quello di lettere cadute o illeggibili. Si mantenuta inoltre la divisione per righi.
Le immagini di questo saggio sono state riprodotte su gentile concessione
dell’Archivio Vescovile Diocesano di Volterra.
Desidero ringraziare di cuore l’archivista, dottor Alessandro Furiesi, per la sua cortese e competente disponibilità.
Un ringraziamento va anche al personale della Biblioteca Comunale degli Intronati di
Siena e a quello della Biblioteca Guarnacci di Volterra per avermi agevolato nelle ricerche.
69. Regestum Volaterranum, n. 472.
70. Cammarosano, Passeri, I castelli del Senese cit., s.v. Pulicciano cit.
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Appendice documentaria
1
CARTULA OFFERSIONIS
1034 ottobre 2, Fonte Pinzaria
Adelmo del fu Suppo conferma al monastero del Santo Sepolcro e di Santa Maria da lui fondato in luogo detto Fonte Pinzaria presso l’Elsa, nel piviere di Cellole, varie proprietà poste nella zona
da lui stesso attribuite al cenobio, ponendolo sotto la Regola benedettina.
C o p i a semplice dell’XI secolo, ADSV, Diplomatico, n. 10.
Edd.: G. Mariani, Trascrizioni delle membrane dell’Archivio Vescovile cit., n. 10; M. Inghirami, I più
antichi documenti dell’Archivio vescovile di Volterra nella trascrizione del canonico Mariani (anni 8331099), tesi di laurea a.a. 1997-1998, Università degli Studi di Pisa, n. 47, pp. 170-174.
Reg.: Regestum Volaterranum. Regesten der Urkunden von Volterra, 778-1303, Roma, 1907,
n. 119.
Copia coeva in buono stato di conservazione, di 660x415 mm. Sul verso, di mano trecentesca:
«Exemplar. Carta de Adelmo que non pot(est) b(e)n(e) legi». Di mano del XVIII secolo: «an: 915, adì 2
ottobre». Per la datazione cfr. supra, p. 27.
(SN) Exsenplar. Et ideo Christo auctore ego quidem Adelmo, filio b(one) m(emorie) Supi, manifestusum quia pro Dei timore et remedium anime mee et de parentibus | meis a fundamento edificavit oratorio in propriis rebus meis in loco qui dicitur Fonte Pintjiaria prope fluvio Elsa in onore
beatissimi Sancti Sepul|cri et Sancte Marie, qui est posito infra territurio de plebe Sancte Marie sito
Cellore, et ibi confirmavi aliquantis rebus meis, curte et res illa qui est po|sita ibique in ipso loco,
tamen decernimus curte et loco qui de duo parti est amembrata a terra Sancte Marie, ep(iscop)io
Voloterense, de tertja parte de|currit rio de Marcingnano et est a terra de filii b(one) m(emorie) Tatji,
de quarta parte de subto est amembrata a terra et curte de Cerrito que dicitur Plano adque | curte
et res illa que est posita in loco prope strata, cum medietate de eclesia que est nostra pars que est
edificata in onore Sancti Ipoliti et Cassiani, cum medietate | de burgo et cum integre duo sortis et
rebus que ad ipsa curte sunt pertinentes, que sunt posite illa una in loco qui dicitur Al Culto adque
alia in loco qui dicitur b A Cignano, adque sorte et res illa que est posita in loco Marsignano adque
alia res et curte que est posita in loco Mascionatico cum sexta portj|ione que est nostra pars de eclesia sancti Arhangnali Mihaelis que est posita infra territurio de plebe de Sancte Marie sito Cellore.
Et proinde modo vero recordantes | et previdentes me de Dei omnipotenti magna misericordia et
remedium anime mee et de parentibus meis seu et remedium anime Ugi et Rollandi germanis | mei,
ibidem statuo e confirmo omnibus predictis rebus sicut in car(tu)la iudicati illa legitur, quem ego
s(upra)s(cript)o Adelmo et Gisla iugalibus fieri rogavimus, | et ipsis rebus, sicut superius legitur,
cum casis, edificiis seo solamentis, curtis, sortis, terris, vineis, campis, pratis, pascuis, silvis, salectis, cul|tis rebus et incultis, cum finibus, terminibus accessionibus et ingressoras earum seo cum
superioribus et inferioribus suis, cum omni iure pertinentjis ac | iacentjis earum omnia in omnibus
in integrum de omnibus ipsis rebus et ecle(s)is sicut superius legitur in ipsum sancto et venerabile
loco usque in finem | seculi firmum et stabile permanendo et in mea defensione seu et de eredibus
ac proeredibus nostris sit omni tempore de omnem adversam partem defensan|dum. Et ibidem statuimus et confirmamus ipso presbiter et monacus, ut ibi sit custus et rector diebus vite sue regendo et gubernando et omnia | que s(upra) legitur in ipsa Domini eclesia et monasterio vel de (e)orum
rectoribus, qui ibi pro tempore fuerit ordinati, sit c potestatem eas abendi, tenendi, inperandi,
labo|rare faciendi et usumfructuandi, et pro anime nostre remedium sic esse instituimus, ut omni
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44
Badia Elmi
tempore die noctuque oratjiones seu missarum solemnia adque nocturnis vigilantjia in ipsa Domini
eclesia et monasterio facere seo canere debeant secundum regula beati sancti Benedicti, ut omni |
tempore ille abbas, qui ibi pro tempore ordinatus fuerit, cum omni congregatjione qui in ipsum
sanctum monasterium esse videtur una cum ipsa congre|gatjione servorum Dei qui ibidem congregati fuerit omni tempore die noctuque ibidem Dei omnipotentis deprecetur d misericordiam in psalmis | et him(n)is et missis seo oratjionibus et nocturnis vigilantjium pro anime nostre remedium, ut
nobis omnipotens Deus pius et misericors di|gnetur pro eorum oratjionibus indulentjia pecatorum
nostrorum optinere mereamur. Et taliter volumus adque instituimus ut ille abbas vel | rectoribus
qui in e ipsum sanctum locum post tempore fuerit vel eorum successoribus non abeant potestatem
neque licentjia de omnia que superius legitur et | ad ipsa Domini eclesia et monasterio sunt pertinentibus aut inibi in antea pertinere videtur, nec vindere neque donare neque comutuare neque |
per libellum neque per nullum argumentum ingnenio alienare nec dare neque minuare set ad ipsa
Domini eclesia et monasterio Sancti Sepulcri et Sancte Marie | eiusque rectoribus sint potestatem
abendi et fruendi sicut supra legitur, quia sic in omnibus nostra decrevi volunta. Unde nobis ipsis
s(upra)s(cript)i ad Ad|elmo et Gisla iugalibus ad pars ipsius eclesia et monasterio Sancti Sepulcri et
Sancte Marie vel ad illis rectoribus qui in ipsum sanctum locum postempore fu|erit de omnia q(ui)
s(upra) legitur legitimam facio investitura et tradictjionem per cultellum et fistucum nodatum et
guantonem seo guasorem terre adque ra|mos arborum nobis exinde foris expulimus et guerpinimus et apsitum fecimus et ipsius ecclesia et monasteri Sancti Sepulcri et Sancte Maria propriata|tem
sicut superius legitur ad abendum reliquimus et nos volumus s(upra)s(cript)i iugalibus ut sit in potestate et defensionem do(m)ni inperatoris qualem ipso tem|pore regnavit usque in senpiternum ad
regendum et gubernandum et defensandum sive masculum sive feminam sicut in nostra et de nostris eredibus esse | debuit. Si quis vero, quod facturi esse non credimus, si nobis q(ui) s(upra) iugalibus, quod absit, aut ullis de eredibus ac proeredibus nostris seu quislibet oposita persona contra
ancar(tu)la ofersionis nostre ire quandoque tentaverimus aut ea per quacumque ingnenio infragnere vel disrumpere aut retollere seu mi|nuare quesierimus de omnia q(ue) s(upra) legitur per nosmetipsos aut per sumissa persona, cui nos eas dedissemus aut dederimus per quolibet ingnenio, | et
eam vobis a partem s(upra)s(cript)o monasterio ab omni omine defendere non potuerimus et non
defensaverimus, spondimus nos adque repromittamus s(upra)s(cript)i iugalibus | una cum eredibus
ac proeredibus nostris a pars predicti monasterio componere s(upra)s(cript)is omnibus casis et rebus
q(ui) s(upra) legitur in duplum et infer quidem locis | sub estimatjionis qualis tunc fuerit. Et in super
inferamus nos s(upra)s(cript)i iugalibus ad pars s(upra)s(cript)o monasterio suisque rectoribus
penam arigentum optimum | libras centum. Et super ec omnia veniad super eum f qui oc facere presumserit, maledictjionem da trecentum decem et octo sanctorum patrum et de omnes sancti Agneli |
et Arhaneli et de omnes troni et dominatjiones, principatus et potestates et de omnes virtutes celorum, fiant participes eos cum Dafan | et Abiron, qui aperuit terra os suum et deglutivit eos, sit participes eos cum Iudas qui Cristum tradidit, sit separatus a consortjio omnium iusto|rum, ut in die
iudicii non resurgant in numero illorum, quia sic in omnibus nostra decrevit voluntas et inis modis
ancar(tu)lam confirmatji|onis Guido not(ario) scrivere rogavimus.
Actum loco ipsum s(upra)s(cript)o monasterio et iudicaria voloterense, temporibus rengnantes
donno nostro Cunerado gratjia Dei inperator agustus, anno imperii eius Deo propitjio in Italia
quinto, sesto nonas octuber, indictjione tertjia.
+ Signum (SM) manibus s(upra)s(cript)i iugalibus qui ipso decreto sicut super legitur fiere rogaverunt.
+ Ego Berardino rogatus s(ub)s(crip)s(i) (SM)
Ego Renberto qui Corbulo vocatur rogatus subscripsi (SM)
Signum (SM) manibus Petri rogatus t(es)t(is)
Signum (SM) manus Iohannis rogatus t(es)t(is)
Signus (SM) manibus Rodulfi rogatus t(es)t(is)
(SN) Ego Uuido notarius expostradita complevi et dedit
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La carta di fondazione della Badia Adelmi e la più antica documentazione
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a. est aggiunto nell’interlineo superiore. b. -ci- aggiunto nell’interlineo superiore. c. Su sit segno superfluo. d.
Fra pre e cetur macchia di umidità cui la scrittura è adattata. e. Fra i e n macchia di umidità cui la scrittura è adattata. f. u da a precedente.
2
CARTULA OFFERSIONIS
1042 maggio 24, Montagutolo
Pietro del fu Amizzo dona al vescovo volterrano i beni di cui era entrato in possesso in precedenza da prete Gumberto del fu Pietro, che a sua volta li aveva acquisiti da Adelmo e Rollando
figli del fu Suppo e cioè il castello di Pulicciano con la chiesa di San Giovanni e il monastero del
Santo Sepolcro presso l’Elsa (Badia Adelmi) con relativi diritti e pertinenze, oltre al castello di
Monteagutolo con la chiesa dedicata a San Lorenzo, l’intero monte e poggio di Ciuciano con la
chiesa di San Pietro, oltre al castello e alla rocca della non identificata località di Cori con la chiesa di Santa Lucia.
O r i g i n a l e , ADSV, Diplomatico, n. 62. Sul verso: «Carta de Pulicciano de abbatia et aliis locis»
Edd.: G. Mariani, Trascrizioni delle membrane dell’Archivio Vescovile cit., n. 63; M. Inghirami, I più
antichi documenti dell’Archivio vescovile di Volterra cit., n. 52, pp. 187-189.
Reg.: M. Cavallini, Vescovi volterrani fino al 1100. Esame del Regestum Volaterranum, con appendice di pergamene trascurate da Fedor Schneider, suppl. e revisione a cura di M. Bocci, «Rassegna
Volterrana», LVIII (1982), pp. 23-51, pp. 52-53, n. 33.
Pergamena di 670x270 mm., in discreto stato di conservazione, se si eccettuano varie macchie di umidità che in alcuni punti pregiudicano la lettura.
(SN) In nomine domini Dei et Salvatori nostri Iehsu Christi Dei eterni. | Anni ab incartatjionis
eius millesimo quadraiesimo secundo, nono | k(a)l(end)as iuni, ind(ic)tjione decima.
Manifestusun ego Petro fil(ius) b(one) m(emorie) Amitji | quia ian anteos annos per cartula iudicato scripta ex manibus Uido not(arius) et | in me misit Gunberto presbitero fil(io) b(one) m(emorie) Petri et iden Gunberti presbitero per cartula | vindi(c)tjionis pertinentes erat da pars Adelmi et
Rollandi g(ermani) filii b(one) m(emorie) Supi | scripte ex manibus Petri not(arii) donni inperatoris de integris [portion]ibus, cas[telli]s | et turris et roccha et ecclesiis et capellis quam tum abebat
et [detinebat in comita]|to et t(er)riturio volot(er)rense, proinde modo ego q(ui) s(upra) Petro manifestusun quia pro [Dei ti]|more et remediun anime Adelmi et Rollandi et Ghisle iugalibus offero
Deo et t[ibi] | domo episcopatui S(an)c(t)e Marie voloterrense sicut mihi per ian memorata cartula | opvenit aut mihi est pertinentes ideest integro monte et poio et castello qui est | posito in loco
qui dicitur Puliciano cun ecclesia illa cui vocabulo est beati Sancti Ioah(n)ni | seo cun monasterio
Sancti Sepulcri, qui est prope fluvio Elsa seo cun onnibus casis et casscinis | et casalinis seo ecclesiis et capellis et sortibus et rebus, qui ad iandicto castello et curte et donica|to exinde est pertinentes
vel aspicientes esse invenitur. Similiter offerro tibi Deo | et iandi(c)to episcopatui a S(an)c(t)e Marie
ideest integro monte et poio et castello illo et turre, | qui est posito in loco qui dicitur Montagutolo
cun eclesia illa que ibi est constructa innonore | beati Sancti Laurentji simulque monte cun onnibus
donnicatis et curtis et sortis et rebus massari|tjiis, que de ipsa curte et castello exinde est pertinentes
cun qualibet locis vel vocabulis, cun integro b | monte et poio qui dicitur Ciusciano cun eclesia Sancti
Petri seo castello et rocca de Cori, cun eclesia Sancte | Lucie cun onnibus casis et terris et vineis qui
de ipsa curte exinde est pertinentes vel aspicientes | esse invenitur. As prenominatis onnibus castellis c et curtis et donnicatis et ecclesiis | [et] monasterio et sortis et rebus qui de iand(ic)tis curtis et
castellis que superius legitur exinde | sunt pertinentibus onnia et innonnibus inintegrum, sicut superius legitur, cun curti|ficias, ortalias, terris, vineis, pratis, pascuis, cultis rebus vel incultis onnia et
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innomnibus, sicut | in iam nominata cartula legitur, tibi Deo et pred(ic)to domo episcopatui offero ut onni tenpore | ad eiusden permaneat firmitatem sine mea vel eredum mearum contradictjionem. Et quod [fi]erit non | credo, si forsitans ego q(ui) s(upra) Petrus vel meos eredes de onni q(ui)
s(upra) legitur a parte eius episcopatui | in aliquod exinde intentjionaverimus aut retolli vel suptrai
quesierimus nos vel ille omo cui nos eas | dedisemus per quolibet ingenio, tunc spondeo q(ui) s(upra)
Petrus una cun meos eredes c(om)p(one)re a pars ipsius episcopatu[s] | iamdicta mea offersionem
onnia in duplum infer quiden loco supb estimatjionem quales tunc finem | de meis propriis rebus
nam de aliis ominibus nos vobis exinde nec aucto[res.............non] debea|[amu]s et rectores eiusden episcopatui cun ista cartula et cun ian memor[ata c]artul[a iudicat]to | [vo]bis defendere debeatis quia in tali ordine anc cartula Vuido not(arius) scribere rogavit.
Actum in loco | [intus] turre de Motagutolo, territurio voloterrense.
[signum manum eidem Petri qui ancartula offersionis scribere rogavit.
[signum manum] Uuiberti filii b(one) m(emorie) Atji testis s(ubscripsi). Signum manuum Rainerii
filii b(one) m(emorie) Atjtji testis [......................]
signum manum Opdi filius Alberti testis.
(S) Ego Alberto vicedomino rogatus t(estis)
Ego Petrus iudex subscripsi
(SN) + Ego Uuido not(arius) postradita conplevi et dedi.
a. -e- aggiunta nell’interlineo inferiore. b. -n- aggiunta in sopralinea. c. Seguono tre lettere depennate.
3
PRIVILEGIUM DONATIONIS ET CONFIRMATIONIS
1052, giugno 17, Zurigo
Enrico III concede al vescovo Guido di Volterra e ai suoi successori la giurisdizione sul clero e
sui fedeli della chiesa episcopale di Volterra e ne conferma le varie donazioni, tra cui il castello di
Pulicciano con il monastero del Santo Sepolcro fondato da Adelmo e da sua moglie.
O r i g i n a l e , ADSV, Diplomatico, n. 65. Copia del XII secolo nell’Archivio capitolare di Volterra.
Edd.: L.A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, vol. III, p. 641; G. Mariani, Trascrizioni delle
membrane dell’Archivio Vescovile cit., , n. 11347, n. 66; J.P. Migne, Patrologiae cursus completus, Paris
1853, t. CLI, col. 1117, n. 24. H. Bresslau, P.F. Kehr, Monumenta Germaniae historica, Diplomata regum
et imperatorum Germaniae, vol. V, Die Urkunden Heinrichs III., Berlin 1926-1931, pp. 393-395, n. 291,
1957; A.F. Giachi, Saggio di ricerche storiche sopra lo stato antico e moderno di Volterra: salla sua origine fino al tempi nostri, Firenze 1786, rist. anastatica Sala Bolognese 1979, n. LXXIV, pp. 569-571.
Regg.: J.F. Böhmer, Regesta chronologico-diplomatica regum atque imperatorum romanorum inde a
Conrado I usque ad Heinricum VII (911-1313), Frankfurt a.M. 1831, n. 1633, p. 81; K.F.StumpfBrentano, Die Reichskanzler, vornehmlich des X., XI. und XII. Jahrhunderts..., voll. 1-2, Innsbruck 1865,
voll. 1-2, n. 2427, p. 200; Regestum Volaterranum cit., n. 123, p. 45.
Pergamena di 610x445 mm., in precario stato di conservazione, con molte lacune e lacerazioni, di
cui una molto estesa in verticale, probabilmente corrispondente a un sigillo aderente andato perduto. Il
monogramma sembra autografo essendo tracciato con inchiostro diverso da quello del testo, di tonalità
più scura.
*
*
* (S)
In nomine sancte et individuę Trinitatis. Henricus divinę pietatis ordinatione secundus
Romanorum imperator augustus. Ea conditione curam nostri officii *** | divinitus nobis commissam
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La carta di fondazione della Badia Adelmi e la più antica documentazione
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credimus, quatenus in cunctis negociis divini timoris çelum semper pre oculis habentes sic sollicitemur de mundani regni disposition[e, ut] ante regem regum securi veniamus | in reddenda racione.
Quapropter cum omnium subiectorum nos oportet curam agere, aecclesi[arum] tamen precipue quarum salva incolomitate, dum divi[no] cultui debitum solvitur christiane reli|gionis integritas conservatur. Quocirca omnibus sanctę Dei aecclesię nostrisque fidelibus notum esse volumus tam presentibus quamque futuris qualiter Wido sanctę volaterens[is aecclesi]ae episcopus nostram clementiam
adiit | super comites reliquosque publici a iuris ministros b miserabilem querimoniam agens, qui sub
occasione exigendi iuris c clericos et famulos aecclesie aliosque super terram aecclesiae [stan]tes graviter affligendo in|quietant et dignitatem sanctę aecclesiae indecentissime inhonestant. Eius itaque
miserabili querimoniae aures nostrę pietatis adhibentes de ęcclesiae libera[tione dispos]uimus ne perfidia iniquorum | hominum ulterius eam sub qualibet occasione lacerandam d permitteremus.
Interve[ntu itaque Agne]tis dilecte contectalis et Opizonis e nostri [dilecti cance]llarii concedimus predicto episcopo | suisque successoribus clericos et f[amulos] aliosque super terram sue ęcclesię habitantes in [sua potestate], ut liceat eum ante se causas agere et per duelli[um seu] qualibet legali sententia | lites diffinire, omnium hominum remota contradictione. Preterea omnia quę Adelmus bone
memorie cum uxore sua per cartulam oblationis [vo]laterensi aecclesiae contulit, scilicet | castellum
de Puliciano cum monasterio Sancti Sepulchri aliisque pertinentiis et castellum de Monte Acutolo cum
suis pertinenciis et suam porcionem de [r]occam de Cori cum suis pertinentiis | et eam porcionem
quam predictus ep(iscopu)s de castello Montegabbro adquisivit seu quicquid predicta aecclesia in
castello de Casalia tenebat, et [iu]dicatum q(uo)d ***Ugo *** Cunizonis filius | predicte aecclesiae fecit, et
omnia que deo annuente eadem aecclesia iuste et legaliter admodum adquiret, nostra preceptali auctoritate [ei]d[e]m aecclesiae confirmando stabilimus, | eo f videlicet ordine ut nullus dux, marchio,
comes seu quelibet magna parvaque persona predictam aecclesiam vel episcopos per tempora d(e)o
dante ibidem ordinatos de omnibus | que superius leguntur disvestire seu molestare presumat. Si quis
igitur huius g nostrę donationis et confirmationis preceptum violare presumpserit, componat auri |
optimi libras centum, medietatem camere nostrę et medietatem iam dicte aecclesiae suisque rectoribus. Quod ut verius credatur diligentius ab omibus h obser|vetur manu propria roborantes sigillo nostro hoc preceptum insigniri iussimus.
*
*
*
* Signum domni Heinrici secundi romanorum (MI) imperatoris augusti *
*
*
*
Opizo
cancellarius
vice
Herimanni
archiepiscopi
et
archicancellarii
recognovi
*
*
*
*
Datum xv kal[endas] iul[ii], an[no] d[ominicae i]ncarnationis .i.l.ii., indictione .v., anno autem
domni Heinrici tercii regis secundi imperatoris, ordinationis eius .xxi[iii regni x]iiii imperii anni
imperii .vi. Actum Turêgo. Feliciter, amen.
a. -i su e precedente. b. ministros aggiunto in sopralinea. c. -i su e precedente. d. -a- da u precedente. e. -is
da u precedente. f. -o da a precedente. g. h- da n precedente. h. Così nel testo.
4
BREVE PERDONATIONIS ET REFUTATIONIS
1059 dicembre 1, Firenze
Alla presenza di papa Niccolò II, Guglielmo detto Bulgarello del fu Lotario dei conti Cadolingi
rimette a Guido vescovo volterrano tutte le cause e i danni pregressi e gli cede metà del castello di
Colle Muscari e e la propria parte di quello di Pulicciano, già di Adelmo e Gisla.
O r i g i n a l e , ADSV, Diplomatico, n. 68. Sul verso: «Carta perdonationis que fecit Gulielmus comes
fili[us] Lotarii comitis Guidoni episcopo vulterrano de castello de Puliciano, de Colle Muscioli et de omnibus bonis que Adelmus habuit et Gisla uxor eius in plebe de Clanni et in plebe de Cellule et in plebe
Sancti Geminiani».
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Edd.: L.A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi cit., tomo VI, coll. 227-228; F.M.
Fiorentini, Gian Domenico Mansi. Memorie della Gran Contessa Matilde, 2 voll., Lucca 1754, app.
82; I. Camici, Del Vescovado Fiorentino di Gherardo di Borgogna che fu anco Sommo Pontefice
col nome di Niccolò II, Quarrata 1780, pp. 70-72; J. Pflung-Hartung, Iter Italicum, Stuttgart 1883,
p. 422, n. 38; M. Cioni, La pieve arcipretura di S. Maria a Chianni, «Miscellanea Storica della
Valdelsa», vol. XI, 1903, pp. 78-107: 101-102; G. Mariani, Trascrizioni delle membrane
dell’Archivio Vescovile cit., n. 69; M. Inghirami, I più antichi documenti dell’Archivio vescovile di
Volterra cit., n. 57, pp. 205-207.
Regg.: R. Hübner, Gerichtsurkunden der fränkischen Zeit… bis zum Jahre 1150, in Zeitschrift der
Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, II, Weimar 1893, II, p. 180, n. 1408; Regestum Volaterranum
cit., n. 126, p. 46; J. Pflung-Hartung, Iter Italicum cit., p. 190, n. 124.
Pergamena di 720x260 mm. in discreto stato di conservazione, caratterizzata da molte scoloriture
dell’inchiostro – soprattutto ai margini – dovute all’umidità che non consentono in molti punti la lettura del testo. Lo Schneider nel Regestum Volaterranum riporta la data del 1059 – anziché del 1060 come
indica il Mariani – che viene comunemente accettata da quasi tutti gli autori che prendono per buona
l’indizione XIII bedana (corrispondente al 1059) in vigore nel territorio fiorentino e non quella romana
(corrispondente al 1060). A tal proposito, v. A. Duccini, Il castello di Gambassi cit., p. 105n.
(SN) In Christi nomine. Breve ad memoria abendam et recte [re]ti|nendam qualiter factum
est intus civitate Florent(jia) | ante presentjia domini Niholaii papa, sede Sancti Petjri a
roma|nensis eccl(esi)e et Ildibrandus abas de monasterio Sancti Pauli et Bru|no iudex istius
civitate et Gerardo et Ranieri iudicibus Voloterren|sis et Seracino de Vido b et Albitjio filio
Atji et Ugo filio b(one) m(emor)i(e) R[ain]|berti et Aldibrando filio b(one) m(emor)i(e) Gerardi
et Uuido filio b(one) m(emor)i(e) Rola[n]|di et Rolando filio suo et Alberto filio b(one)
m(emor)i(e) c Rustici et Petro filio b(one) m(emor)i(e) Ildibran|di et reliquis plures. In eorum
presentja veniens Uuiglelmo comes qui Bulga|rello vocatur filio b(one) m(emor)i(e) Lotharii
similiter comes per fuste quas in suis tenebat [mani|bus] tradidit atque perdonavit ad Uuido
ep(iscopu)s sancte Voloterrensis Ecclesie idest | [omnibus] causis et calumniis et q(ue)relisque
compositjionibus et sacramenta nominati|[ve] de omicidio et de plage et de ferite et de incendio et de asalto et de pred[a] | et scaco, seo de ceteris causis et calumniis que usque modo
abuistis ad requirendum, [contra] | iamdicto ep(iscopu)s per te aut per tuis ominibus liberi
aut servi. Et i(a)ms(crip)t(o) comes refutavit | in eorum presentjia ad iamdicto ep(iscopu)s
integra medietate de monte et castello de [Colle] | Muscari et illam portjionem de castello de
Puliciano, sicut signa in medio [posita sunt] | et fuit iurata cum integra medietate de ecclesia
cum suam pertinentjiam. Infras(crip)t(am) | portjionem est una insimul cum omnibus casis et
terris et ecclesis et capellis et [no]|menclatjionibus que Adelmus abuit et tenuit antea sex annos
quam mor[tuus] | [ess]et, infra plebe de Clanni et infra plebe de Celule et infra plebe Sancti
Iemi[niani] | […..] quantum Adelmus et Gisla uxor eius per beneficium abuit [………]. | [Et]
insuper spopondit se Uuiglelmo comes vel suos eredes si aliqua[ndo] | […. per se aut] per
suam sumitentem personam aut per eorum ingeni[um] adversu[s se vel] | [suos] sucesores
agere vel causare presumpserit per quovis argumentis ingenio | damnare aut divestire aut
molestare sine legale iudicio de iamdictis d rebus et de | s(upra)s(crip)t(is) queremoniis removere et queremoniis et compositjiones sacramentum, sic(ut) | superius leitur aut si aparuerit
ullum suum datum vel factum abebat aut in a[n|tea] e faciebat de iamdictis rebus que ad damnietatem de iamdicto ep(iscopu)s vel suos | sucessores tunc que super iamdicto Uuiglelmo
comes conponere et dare de|beat ad eodem Uuido ep(iscopu)s vel ad suos sucessores penam
numorum aurum | optimum libras mille. Ideoque fecit Uuido ep(iscopu)s pro ipsam perdonatjio|nem et refutatjionem et sponsione launehilt anulo de | [auro] uno. Hoc factum est anno
ab incarnatjionis Domini | millesimo sexaiesimo, ipso die calendas decembris, indictjione tertjiadecima.
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La carta di fondazione della Badia Adelmi e la più antica documentazione
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+ Ego Nicolaus sanctę Romanę et apostolice Ec(c)lesie presul confirmavi et s(ub)s(cripsi)
+ Ego Humbertus dictus sanctę Ecclesię Silvę Candidę ep(iscopu)s cognovi, interfui et s(ub)s(cripsi)
+ Ego Uuillelmo comes a me facta s(ub)s(cripsi)
Signum [……………….] ibi fuerunt
Signum manus Albitji et Ugi et Ildibrandi et Alberti et Petro et Uuido et Rolando filio suo |
(SN) Gerardus notarius domni imperatoris ibi fui et hoc breve subscripsi.
a. Così nel testo. b. Lettura incerta. c. (b(one) m(emor)i(e) aggiunto in tempo diverso tra la parola precedente
e la successiva. d. -c- da lettera precedente. e. Lettura incerta.
5
CARTA CONFIRMATIONIS
1061 dicembre 17, Chianni di Gambassi
Guido vescovo di Volterra conferma all’abate i possedimenti donati a suo tempo al monastero di
Santa Maria e del Santo Sepolcro di Fonte Pinzaria da Adelmo di Suppo e da sua moglie Gisla e concedendo le decime e il diritto di sepoltura per i parrocchiani della chiesa di San Giovanni a Pulicciano
nel cimitero abbaziale del monastero.
O r i g i n a l e , ADSV, Diplomatico, n. 69. Sul verso: di mano duecentesca «Carta donationis domini episcopi que non potest bene legi». Di mano quattrocentesca «Carta de Puliciano e una della Badia
ad Elmi come il veschovo n’è padrone». Di mano sei-settecentesca «Donazione del vescovo Guido al
monastero fabricato da Adelmo e Gisla vicino al fiume Elsa luogo detto Fonte Pinziaria ad honore della
Vergine e del Santo Sepolcro».
Edd.: A.F. Giachi, Saggio di ricerche storiche sopra lo stato antico e moderno di Volterra cit., n. XIX,
pp. 443-445; M. Cioni, La pieve arcipretura di S. Maria a Chianni cit., pp. 102-104; G. Mariani,
Trascrizioni delle membrane dell’Archivio Vescovile cit., n. 70; M. Inghirami, I più antichi documenti
dell’Archivio vescovile di Volterra cit., n. 58, pp. 208-212.
Reg.: Regestum Volaterranum cit., n. 128, pp. 46-47.
Pergamena di 740x340 mm. in buono stato di conservazione.
(ST) In nomine domini nostri Gesu Cristi Dei eterni. Anno ab incarnatjionis eius millesimo sexsagesimo primo, sex[to de]cimo k(a)l(endas) genuarii, indictjione quinta | decima.
Ideoque ego [in] Dei nomine Guido sancte volaterensis eclesie episcopus quamlibet inmeritus mente sedula revolvens a meique presulatus ordine | magni [p]onderis mole onustum perpendens ut illam celestis regni ereditatem divino aminiculante presidio adipisci valeam, bonorum profec|tibus operum pro viribus incumbens [ad repara]ndos ecclesiarum mihi comisarum
onores mentis mee intentjionem, studio reliiosi operis toto conamine direxsi | cumque multis
insisterem operibus [et s](e)c(u)laribus curis pressus devotijonem mentis probis operibus ad
votum explere non possem, tandem divino succensus desiderio, ad | beate Dei genitricis et perpetue Vir[g]inis Marie et Sancti Sepulcri monasterium prope fluvium Elsa constructum in loco
qui dicitur Fonte Pintjiaria, i[c] | namque locus predicte Dei genitricis et perpetue Virinis b
Sanctique Sepulcri patrocinio luculentus tanto est salvandis animabus amabilior quanto et a
seculari | tumultu remotjior. Quamvis enim ob veneratjionem Dei genitricis Marie ac Sancti
Sepulcri unc locus ille sit eximius usque tamen c ad nostrorum dona|torum Adelmi et eius uxoris Gisle tempora incultus iacuit et inordinatus permansit. Prelibati igitur Adelmus et Gisla
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monasterium ibi fieri de|creverunt adibitis ne eodem loco fratribus et venerabili abbate constituto quod usque ad nostra tempora domino donante perdurat vite necesaria in | quantum valuit
studio se ministrare curaverunt, qui quousque infer(ius) prediis aliisque muneribus novi monasterii paupertatem fover(unt). Que predicta | quamvis in cartulis monasterii scripta sint dilienter d ut decet per manus e notarii pleniter adnotata. Tamen nobis congruum videtur ic saltem |
nomina locorum illorum prediorum breviter rescribere. Nam dederunt integram curtem de
Marcignano et medietatem ecclesie Sancti Cassiani et medi|etatem burigi illius s(upra)s(cripti) Sancti Cassiani cum ortis suis et mansum unum in loco qui dicitur Cultum a Vundi et alium
mansum in loco qui dicitur Artiguo|no et alium mansum A Cignano et quidquid de illorum
propietatis iure invenitur in Fonte Alboli sive in Frasineta et octavam parte ecclesie Sancti |
Michahelis in loco qui vocatur Mansionatico et duo mansos in predicto loco Mansionatico
unos ex is sicut rectum fuit per Amalbertum presbiterum | et alterum per Iohannem masarium
et nuc regitur per eius eredes et alia plura que propter compendium ic scribere nequivi, set in
cartulis monasterii | pleniter cum designatis locis adnotata reperiuntur et q(uonia)m quecumque
fuerunt necessaria mortis meta interveniente explere non | valuerunt mihi qui successionis
locum in prefata ecclesia tenere videor ad sacri loci f reparatjione atque augumentum credo
relictum fuis|se a domino non enim diffido me participem fore tante remuneratjionis si aiutorio inpendere satago tam sacre venerandeque ordinatji|oni. Ergo in primis omnia quecumque
predicti sacri locis antiquitus prelibati nostri ecclesie nostrique donatores dederunt sive etjiam
quecumque aliquis vir | aut femina eidem prelibato monasterio contulerunt aut da modo in
antea dare voluerit s(upra)s(cripto) monasterio. Ego Guido episcopus nulla ne|cessitatem
constrictus nec alicuius muneris promisione vel donatjione infectus, sed corde perfecto et
animo volente pro Dei amore spe|que remuneratjionis future et pro remedio anime mee nec
non et pro animabus anticessorum seu etjiam sucessorum meorum episcopii videlicet | istius
volaterensis episcopium adque pro animabus illorum Adelmi videlicet et Gisle qui constructores fuerunt suprascripto monasterio | nec non et pro animabus omnium illorum qui de suis
rebus prelibato monasterio aliquid beneficium fecerunt vel et facturi sunt, concedo, confirmo | atque in perpetuum vigere exopto eo videlicet ordine ut si forsitan quod absit g aut ego
aut aliquis ex meis successoribus vel aliqua persona, ecclesia|stica sive secularis quacumque
occasione tollere voluerit aut iminuere aliquid ex is rebus que prefate ecclesie iam nominati
constructores inibi contule|runt vel que ego Domino iuvante per anc confirmatjionis cartam
dare modo videor vel daturus sum cum Iuda traditore in inferno parte abeant et sint | anathema maranatha. Concedo igitur prefato monasterio cum octoritate et consensu sacerdotum
et levitarum nec non totjius nostri cleri episcopa|tus modo pro tempore primitjias decimas
offertjiones adque mortuorum iudicia et omnes qui ex meo episcopatu ad monachicum abitu
si|ve ad conversione vel ad sepelliendum venire voluerint, licentjiam abeant exscepti is qui sunt
de decreto plebis Sancte Marie in Cellure, et | insuper concedo, volo adque iubeo et confirmo
ut omnes parhoriani h ecclesie Sancti Iohannis de castello de Puliciano in prefati monaste|rii
cimiterio sepeliantur. Oc ego parvum (mu)nus Beata Dei Genitris Virgo Maria tibi prona mente
pro temporis oportunitate in presen|tiarum offero quatenus tuo fultus aminiculo qui parva
cotuli magna offere prevaleam. Et quoniam scio quosdam vel modo in fuctu|ro diaboli spiritu pleno contra [hui]us nostre ordinatjionis parvitatem canina rabie bachaturos quicumque
ille est qui prefatum monasterium in re|bus quas modo abet vel ego aut fideles viri seu mulieres
daturi sunt inquietare aut molestare vel inminuere presumserint quemadmodo | premisimus
cum Iuda Christi proditore in eterna damnatjione manead et omnes maledictjiones que in
sa[cris] codicibus continentur super i eos ve|niant et sint anathema maranatha. Tunc spondeo
ego qui supra Guido episcopus una cum posterisque successoribus meis componere | tibi q(ui)
s(upra) Albertus abbas una cum posterisque sucessoribus tuis et a pars s(upra)s(cripto) monasterio penam numerum arigentum libras centum | quia in tali ordine anc cartula ordinatjionis
Uberto notario sacri palatjio scribere rogavi. Actum loco intus clostra Sancte Ma|rie ble j de
Clanno et territurio volaterense.
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La carta di fondazione della Badia Adelmi e la più antica documentazione
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(SM) Ego Wido Dei gratia episcopus s(ub)s(cripsi)
(SM) Signum manum Rainerii filio b(one) m(emorie) Rolandi rogatus testis
(SM) Signum manum Guiberti filio b(one) m(emorie) Atji rogatus testis
(SM) Signum manum Stantjio filio b(one) m(emorie) Petri rogatus testis
(SM) Signum manum Bovini filio b(one) m(emorie) Roitji rogatus testis
(SN) Uberto notario sacri palatjio postradita complevi et dedi.
a. -n- nell’interlineo superiore. b. Così nel testo. c. Su -n- segno abbreviativo superfluo. d. Così nel testo. e.
Su -u- segno abbreviativo superfluo. f. Segue segno verticale superfluo. g. -b- da -d- precedente. h. Così nel testo.
i. -p- senza taglio della nota tachigrafica. j. Così nel testo, forse per plebe.
6
PRIVILEGIUM CONFIRMATIONIS
1073 agosto 6, (Volterra)
Erimanno vescovo volterrano, preso atto del degrado morale della vita cenobitica, pone il monastero del Santo Sepolcro di Puliciano sotto la guida spirituale dei Camaldolesi affiché lo riformino.
O r i g i n a l e (A), ASF, Diplomatico, Camaldoli, San Salvatore (eremo), 1073, agosto 6 (pergamene Normali). C o p i a (B) del XII secolo, ibidem. Sul verso, di due diverse mani del XIII secolo: «Carta
monasterii de Adelmo a[…] Vulateranus episcopus fe(cit) in Camalduli».
Edd.: G.B. Mittarelli, A. Costadoni, Annales Camaldulenses ordinis Sancti Benedicti, Venezia 1756,
t. II , appendice, coll. 238-241, n. CXXXVIII; A.F. Giachi, Saggio di ricerche storiche sopra lo stato antico e moderno di Volterra cit., p. 571
Regg.: ASF, ms. 52, Spoglio delle cartepecore del monastero di S. Salvatore di Camaldoli, dall’anno
780 30 Aprile all’anno 1199 20 Novembre…, c. 95v; Regesto di Camaldoli, a cura di L. Schiaparelli e
F. Baldasseroni, Roma 1907, I, p. 156, n. 356.
Riproduzione fotografica in <http://www.archiviodistato.firenze.it>
Pergamena di 590 x 430 mm. in discreto stato di conservazione, che presenta alcune chiazze di umidità e lacune non tali da pregiudicarne la lettura.
*
*
*
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* In nomine sancte et individue Trinitatis, scilicet Patris et Filii et Spiritus Sancti amen* | Magna
consideratione est studendum prelatis omnibus ne ovilis sibi commissa cura fiat proclivior eorum
negligentia. Si vero quod absit ad devia pervenerit, tunc ipsa prelatio | est illis plus anime detrimentum quam fiat salutis incrementum. Illi autem cui divina hoc annuit gra(tia), ut salubriter procuret,
que sibi sunt commissa illi datur | re vera iam contemplari celestia. Ergo si adeo est vigilandum ipsis
qui presunt cenobiis, monasteriis congregationibusque aliis nobis quantis quibusque | modis est
sudandum qui curam pastoralem habere videmur qui sub nomine patrum vivere censemur. Valde
insuper est nobis cavendum illud evangelicum: | «Sint lumbi vestri precincti et lucerne ardentes in
manibus vestris». Ardere lucernas tunc in nobis pro certo curamus, cum boni pastoris vestigia sequimur. | Consideremus diligenter quid sacra pagina intonat terribiliter: «Bonus pastor animam suam
ponit pro ovibus suis». Qua in re nos esse sollicitos oportet | vigiles, ne hostis malignus nostros possit invadere greges. Decet quoque nos esse studiosos procuratores per monasteri[a], per canonicas
congregati fratres | quo religionis more sub quo statu obedientie suam regulam observantes maneant.
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Badia Elmi
Unde ego *** Herimannus *** omnium episcorum infimus | promere nequeo, dicere non valeo quanto
dolore concutior quanto merore commoveor quod ego non fui sollicitus in supradictis rebus, sed
quamquam | ad omnia quę debui plus merito incuriosus extiti. Est michi quoddam monasterium
quod est situm in loco qui dicitur Pulicianum, quod huc usque | non stetit ordine quo debuit. Nam
fratres ibi hactenus degentes non iuxta beati Benedicti precepta steterunt, sed potius multis voluptatibus pluribusque | lasciviis dediti vixerunt. Qua de re multotiens condoluit multisque vicibus deflevi, quod invenire nequiveram clericum a Deum timentem, regulam | diligentem quem illis possem
constituere patrem. Deo tandem favente eodemque concedente prout michi erat desiderio, quem diu
desideraveram, | quem longo tempore quesiveram inveni loco supradicto fratrem idoneum divinis
moribus instructum, quem multis precibus multisque supplicati|onibus postulavimus. Demum tamen
devictus nostris acquievit consiliis communi consensu fratrum ibi degentium, communi voluntate
nostrorum fidelium. Hunc | tamen aliter superare nequivimus, nisi abbatie respueremus potestatem
imperandi et faciendi illas res quas inibi feceramus usque ad illud tempus, excepta abbatię b | investitura et abbatis consecratione divina. Si autem vel ego vel mei successores aut per meos aut per
suos tante presumptionis fuerimus, ut per annum | exinde studiose accipiemus c ultra unum bisantium d et infra dies triginta e non emendaverimus si tamen infra patriam et incolumes fuerimus et ab |
abbate aut a ceteris fratribus inquisitum fuerit centum f libras de auro loco pene persolvamus, medietatem heremitorio de Camalduli | medietatem potestati cui conquesti fuerint g. Abbates vero vel monachi prefati monasterii de Puliciano, si instigante diabolo mediocres fuerint | prior prenominati loci
de Camalduli habeat potestatem trahendi reos ac mittendi bonos. Et si eiusdem loci prior abbatem
vel monachos miserit | ibi non regulares nec idoneos Vulterrensis ęcclesię episcopus similem habeat
licentiam eos proiciendi foras et adquirendi religiosos alias h. | Hoc scriptum *** Ego Herimannus
omnium episcoporum minimus *** confirmo et generali sinodalis concilii consensu | celebrato octavo
idus mensis augusti, illud corroboro, et anathematis vinculis et auctoritate sanctorum patrum et ex
potestate michi indigno | concessa a Deo illum maledico et excommunico et a gremio sancte Ecclesie i
separo et a fidelium consortio illum secerno. Qui commutare | vel rumpere hoc factum studiose et
se scienter voluerit et qui consilium dederit nisi condigne satisfecerit j. Ad salutem enim anime mee
meorumque precessorum | ac successorum episcoporum hoc est visum michi iuste fecisse.
Ego Herimannus D(e)i gratia episcopus confirmavi et subscripsi
Ego Farolfo ar(c)hipresbiter subscripsi + Ego Petrus presbiter et kanonicus subscripsi + Ego
Dominicus presbiter subscripsi
Ego Ugo archilevita subscripsi + Ego Atjo levita et canonicus subscripsi + Ego Drudo subdiaconus subscripsi k.
a. In B monachum. b. In B abati. c. In B accipiamus. d. In B bizantium. e. In B XXXta. f. In B .C. g. fuerint aggiunto in tempo diverso con inchiostro diverso. h. In B manca Et si eiusdem… religiosos alias. i. In B sanctę
ęcclesię. j. nisi condigne satisfecerit aggiunto nell’interlineo superiore e con segno di inserzione in tempo diverso con
inchiostro diverso. k. In B, sul primo rigo sono riportate nell’ordine le sottoscrizioni ovviamente non autogafe di
Erimanno, Farolfo e Ugo; nel rigo sottostante nell’ordine quelle di Pietro, Domenico, Azo e Drudo.
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Dedicationes e Imitationes del Santo Sepolcro:
l’esempio di Badia Adelmi
Andrea Conti
Et ideo Christo auctore ego quidem Adelmo, filio bone memorie Supi, manifestusum quia
pro Dei timore et remedium anime mee et de parentibus meis a fundamento edificavit
oratorio in propriis rebus meis in loco qui dicitur Fonte Pintjiaria prope fluvio Elsa in
onore beatissimi Sancti Sepulcri et Sancte Marie
Questo è il solenne protocollo della charta dotationis con cui intorno al 1034 Adelmo
di Suppo confermava al monastero del Santo Sepolcro e di Santa Maria, da lui e dalla
moglie Gisla fondato nella località di Fonte Pinzaria lungo il fiume Elsa, il possesso di
alcuni beni posti negli attuali territori dei comuni di San Gimignano e Gambassi, e lo poneva sotto la regola di san Benedetto.
La fondazione del cenobio, avvenuta per iniziativa di un nobile locale, Adelmo di Suppo
appunto 1, vassallo dei conti Cadolingi 2, fa sì che il monastero possa considerarsi un
Eigenkloster, ossia un istituto religioso legato a una famiglia, secondo la celebre espressione coniata da Ulrich Stutz 3, rientrando, cioè, tra quelle fondazioni «promosse da signori laici
1. Il patronimico di Adelmo ci consente di formulare l’ipotesi circa una sua appartenenza ai Supponidi, stirpe di funzionari regi giunti in Italia con Carlo Magno, che ricevette, seppur non stabilmente, molteplici distretti nell’Italia settentrionale e centrale, talvolta anche molto lontani l’uno dall’altro (cfr. in proposito C. Violante, Le strutture familiari,
parentali e consortili delle aristocrazie in Toscana durante i secoli X-XII, in I ceti dirigenti in età precomunale, Atti del
1° Convegno di studi, Comitato di studi sulla storia dei ceti dirigenti in Toscana, Firenze, 2 dicembre 1978, Pisa 1981,
pp. 1-51: 4). Pur nella consapevolezza che a oggi non sia stata ancora disegnata una genealogia completa e convincente
di tale consorteria, stante l’impossibilità di individuare precisi rapporti di parentela tra i vari membri di essa, sappiamo
che in Toscana Suppo detto il Nero (Suppo comes qui Niger vocabatur) fu conte di Arezzo, come lo fu il figlio Ugo. Se
il nipote Guido in un atto del 972 si firma addirittura marchese di Tuscia, senza tuttavia esserlo (P. Delumeau, Equilibri
di potere ad Arezzo dal periodo tardo carolingio al primo periodo comunale, in Arezzo e il suo territorio nell’Alto
Medioevo, Atti del convegno di studi, Arezzo, 22-23 ottobre 1983, Cortona 1985, pp. 87-110: 94 n. 23), il pronipote
Ranieri, già duca di Spoleto e marchese di Camerino (e forse egli pure conte di Arezzo come gli antenati) fu effettivamente investito del marchesato di Toscana dall’imperatore Enrico II nel 1014 o ’15 (Delumeau, Equilibri cit., p. 96),
mantenendo tale ufficio fino al 1027, quando ne fu sollevato da Corrado II il Salico verso il quale non aveva mostrato
quell’obsequium che il monarca si attendeva, rifiutandosi di accoglierlo in Toscana e negandogli il conductus proprio
mentre questi si accingeva a ricevere dalle mani del pontefice la corona del Sacro Romano Impero (R. Davidsohn, Storia
di Firenze, I: Le origini, trad. it., Firenze 1956, pp. 232-233. Per questi personaggi ed episodi cfr. anche S. Salvi, Nascita
della Toscana. Storia e storie della marca di Tuscia, Firenze 2001, pp. 192-193 e 240-248). Seppur in forma dubitativa
è stato ipotizzato che fossero delle Supponidi anche quelle due sorelle, di cui ignoriamo il nome, mogli l’una di Atto de
comitatu parmensi e l’altra del fratello di questi Sigefredo de comitatu lucensi, antenati rispettivamente dei conti di Parma
il primo e dei conti di Reggio il secondo, e persino Ildegarda († 982 ca.), nuora di Sigefredo in quanto moglie di Adalberto
Atto detto di Canossa, conte di Reggio, di Modena e di Mantova e perciò bisnonna della celeberrima Matilde [M.G.
Bartolini, Note di genealogia e storia canossiana, in I ceti dirigenti cit., pp. 111-149, in part. p. 133, che tuttavia rimanda a P. Scheffer-Boichorst, Kaiser Friedrich’ I. lekter Streit mit der Kurie, Berlin 1866, rist. anast. Darmstadt 1969, p.
16, e a R. Schumann, Authority and the Commune. Parma 833-1133 (Impero e Comune. Parma 833-1133), Parma
1973, pp. 56-59]. Infine la presenza di membri della famiglia è attestata anche in area senese. La supponide Berta figlia
di Adalgiso II conte di Piacenza sposò, infatti, Berardo di Winigis, conte di Siena, uno dei più antichi membri di quella
stirpe che sarà poi conosciuta come Berardenga (cfr. la tavola genealogica pubb. da Violante, Le strutture cit., p. 52; e
anche P. Cammarosano, La famiglia dei Berardenghi. Contributo alla storia della società senese nei secoli XI-XIII,
Spoleto 1974, p. 70). Alla luce di quanto detto non è impossibile un legame di Adelmo di Suppo con questa dinastia,
anche se allo stato attuale dell’indagine e della documentazione esso risulta del tutto indimostrabile.
2. W. Kurze, I reperti d’argento di Galognano come fonti di storia, in Id., Monasteri e nobiltà nel senese e nella Toscana
medievale. Studi diplomatici, archeologici, genealogici, giuridici e sociali, Siena 1989, pp. 203-242: 235.
3. U. Stutz, Die Eigenkirche als Element des mittelalterlich-germanischen Kirchenrechts, Berlin 1895; Id., Eigenkirche,
Eigenkloster, in Realenzyklopädie für protestantische Theologie und Kirche, XXIII, Leipzig 1913, pp. 364-377.
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Badia Elmi
in cerca sia di consolazione spirituale che di affermazione sociale e politica» cui icasticamente si riferisce Francesco Salvestrini nel suo contributo all’interno del presente volume.
Compiere una donazione a una comunità monastica si configurava come un atto meritorio
in se stesso, tanto più se il dono era il monastero medesimo e se le preghiere e le mortificazioni dei religiosi si rivolgevano all’Onnipotente a tutela del donatore e dei suoi congiunti
in vita, non meno che delle loro anime in morte. Tuttavia la fondazione avveniva anche per
altre ragioni, di opportunità dinastica per esempio, onde provvedere a quei membri della
stirpe che non avrebbero potuto essere altrimenti difesi da una dannosa frammentazione
ereditaria dei patrimoni; oppure per affermare il prestigio sociale del benefattore o il suo
potere politico, assicurandosi in tal modo il controllo su un determinato territorio.
Il fenomeno era già conosciuto in epoca longobarda 4 come espressione di questa stessa
molteplicità di intenti, al punto che noi vediamo come la soddisfazione della devozione personale e della gratitudine verso la divinità 5, nonché le esplicite finalità missionarie 6, si coniugassero con precise istanze di natura amministrativa e politica, quali la necessità di assicurare una penetrazione più intensa del dominio dei sovrani e dei ceti dirigenti longobardi
nei territori conquistati 7, non meno che l’esigenza di amministrare i beni demaniali 8, e infine l’organizzazione o la riorganizzazione dei percorsi verso Roma, sede del capo visibile
della Chiesa, così come della zona costiera tirrenica o dei passi appenninici. Ciò è evidente, ad esempio, per rimanere in un ambito toscano, nella fondazione delle abbazie di San
Michele di Marturi, di Sant’Antimo o di San Salvatore sul Monte Amiata 9.
4. Sull’istituzione dei monasteri di famiglia durante il periodo longobardo restano fondamentali gli studi di K.
Voigt, Die Königlichen Eigenklöster im Langobardenreiche, Gotha 1909 (rist. anast., Aalen 1969), e, in lingua italiana, di G.P. Bognetti, Santa Maria foris portas di Castelseprio e la storia religiosa dei langobardi, in G.P. Bognetti,
G. Chierici, A. de Capitani d’Arzago, Santa Maria di Castelseprio, Milano 1948, ora in G.P. Bognetti, L’età longobarda, Milano 1966-68, II; P. Delogu, Il Regno Longobardo, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, I, Torino 1980;
v. anche J. Jarnut, Storia dei Longobardi, Torino 1965, rist. Il Giornale – Biblioteca Storica, 22, s.n.t., 2002, passim.
Un recente ed esauriente contributo si trova in W. Kurze, La Via Francigena nel periodo longobardo, in Id., Scritti di
storia Toscana. Aspetti territoriali, diocesi, monasteri dai longobardi all’età comunale, a cura di M. Marrocchi, Pistoia
2008, pp. 441-452.
5. Paolo Diacono scrive che la fondazione del monastero di Sant’Agata a Pavia da parte di Perctarit fu compiuta
nel luogo in cui il sovrano era riuscito a sfuggire all’usurpatore Grimuald (Pauli Diaconi Historia Langobardorum,
ed. L. Bethmann, G. Waitz, lib. 5, cap. 34, in Monumenta Germaniae Historica [da ora in poi MGH], Scriptores
rerum langobardicarum et italicarum saec. VI-IX, Hannoverae 1878, p. 156); così come il monastero di San Giorgio
a Coronate sull’Adda era stato eretto da Cunincpert sul campo in cui si era svolta la battaglia al termine della quale
aveva sconfitto Alachis duca di Trento suo avversario (lib. 6, cap. 17, ibid., p. 170).
6. Il monastero di Bobbio sull’Appennino ligure, ad esempio, fondato nel 612 da Agilulf, primo sovrano longobardo a impegnarsi nell’erezione di monasteri, sostenne l’evangelizzazione nell’Italia nord-occidentale per tutto il VII
secolo e anche oltre (V. Polonio, Il monastero di San Colombano di Bobbio dalla fondazione all’epoca carolingia,
Genova 1962).
7. Esemplare possiamo considerare la fondazione nel 753, a Brescia, del monastero di San Salvatore da parte del
re Desiderio e della moglie Ansa, di cui lo stesso sovrano nominò badessa la figlia Anselperga e alla cui giurisdizione
sottomise numerosi chiostri in Lombardia, in Emilia e in Toscana, creando una potente federazione di istituzioni regolari soggetta al suo diretto intervento (Voigt, Die Königlichen Eigenklöster cit., pp. 20ss.).
8. Kurze, La Via Francigena cit., pp. 446-447.
9. Ivi, pp. 448-449. Possiamo cogliere come esemplare delle intenzioni dei fondatori e della convergenza tra atto
religioso e obiettivo politico ciò che scrisse Carlomanno, re dei Franchi e dei Longobardi, nel 770, nel diploma diretto all’abbazia di Granval in Alsazia, in cui la concessione sovrana dell’immunità era finalizzata a ottenere, tramite le
preghiere dei monaci, il perdono dei peccati non meno che l’ordine e la perpetuità del regno: unde per Aeternum retributorem veniam mereamur adipisci et eos delectet pro stabilitate regni nostri iugiter exorare vel in omni parte fideliter ergo nostrum regimen assistere (MGH, Diplomata Karolinorum, I, Pippini, Carlomanni, Caroli Magni diplomata, Hannoverae 1906, doc. 54, p. 75. Anche in Jo. Daniel Schoepflini, Alsatia aevi merovingici, carolingici, saxonici,
salici, suevici diplomatica, I, Mannhemii 1772, doc. XL, p. 43).
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Dedicationes e Imitationes del Santo Sepolcro: l’esempio di Badia Adelmi
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Durante i secoli successivi l’erezione di chiese e monasteri di famiglia non cessò. Anche
in Toscana, dopo un periodo di parziale riduzione del fenomeno durante l’età carolingia,
si ebbe un incremento in epoca ottoniana, per l’incontro di varie concause, quali il ristabilimento dell’ordine politico dopo decenni di disordini, invasioni e guerre civili; l’ondata di spiritualità che percorse anche questa come altre regioni d’Europa e, certamente non
ultimo, l’esempio lasciato dalla propensione per questo stesso entusiasmo religioso, non
disgiunta da un realistico calcolo politico di sostegno all’Impero, da parte del marchese
Ugo di Toscana, all’origine di numerose fondazioni e riforme 10.
Naturalmente, se è vero che nell’istituzione di comunità regolari non è difficile evidenziare anche la motivazione politica, saremmo in errore se vedessimo di tali interventi soltanto questa causa; allo stesso modo in cui lo saremmo se valutassimo i medesimi unicamente come atti di mera devozione, poiché per la mentalità dell’epoca non vi era inconciliabilità od opposizione tra queste due istanze.
Dunque: in onore beatissimi Sancti Sepulcri et Sancte Marie. Qui troviamo il titolo di
Badia Adelmi: Santo Sepolcro e Santa Maria. Se la titolazione mariana è comune a molte
abbazie benedettine, forse alla maggior parte di esse, più insolito e curioso appare il titolo del Santo Sepolcro. A un primo sguardo esso potrebbe trovare una sua logica spiegazione nella collocazione del cenobio lungo uno dei tratti della via Francigena o Romea
che attraversavano la Valdelsa, poiché questo percorso, aperto dai longobardi nel corso
del VII secolo 11 e consolidato dal successivo dominio franco e carolingio, era quello che,
pur con molte diramazioni e varianti, permetteva di raggiungere sia Roma che la
Terrasanta, e quindi Gerusalemme e il Santo Sepolcro, appunto 12.
Nel lembo di territorio toscano che ci interessa siamo in presenza di due direttrici principali della strada: quella collinare che da San Miniato al Tedesco attraversava la Val
d’Egola e, costeggiando Montaione e Gambassi, raggiungeva San Gimignano, e quella di
fondovalle che passava per Castelfiorentino, Certaldo e Poggibonsi. La direttrice collinare sembrerebbe quella percorsa da Sigeric, arcivescovo di Canterbury, che ha lasciato una
celeberrima descrizione del suo viaggio di ritorno da Roma alla sua sede episcopale negli
anni Novanta del X secolo. Egli ricorda, infatti, di essere passato da Sancte Gemiane, San
Gimignano, quindi da Sancte Maria Glann, Santa Maria a Chianni alle porte di Gambassi,
e infine per Sancte Dionisii, ovvero Borgo San Genesio 13.
10. P.F. Kehr, Italia Pontificia, III, Etruria, Berolini 1908, ha censito sedici fondazioni nell’VIII secolo, tre nel IX,
nessuna nel X almeno fino al 978, anno della fondazione della Badia Fiorentina ad opera dello stesso Ugo, ma addirittura diciannove nei trent’anni che seguirono questa data. Cfr. anche W. Kurze, Adel und Klöster im frühmittelalterlichen Tuszien, in «Quellen und Forschungen aus italianischen Archiven und Bibliotheken» (da ora QFIAB), 52,
1972, pp. 90-115, trad. it. come Monasteri e nobiltà nella Tuscia altomedievale, in Id., Monasteri e nobiltà nel senese cit., pp. 295-316: a onor del vero «Ugo [non intese] mai fondare monasteri di famiglia, ma abbazie marchionali o
forse addirittura imperiali» (ivi, p. 308); il suo nome è qui ricordato perché il suo esempio riattivò e incoraggiò «la
propensione dei nobili a fondare monasteri e ad affidare a devoti monaci la cura delle anime» (ivi, p. 313).
11. Nel XIX secolo fu creato persino il nome di Via Sacra Langobardorum, senza che tale dominazione avesse
alcun riscontro nella documentazione storica. Circa l’intervento dei longobardi su questo/i percorso/i v. Kurze, La
Via Francigena cit., pp. 441-452.
12. Cfr. F. Salvestrini, Storiografia ed erudizione storica in Valdelsa. Le motivazioni di un progetto, in Storiografia
ed erudizione storica in Valdelsa fra Medioevo ed Età moderna, numero monografico a cura di F. Salvestrini, in corso
di stampa in «Miscellanea Storica della Valdelsa».
13. Per l’itinerario di Sigeric, W. Stubbs, Rerum Britannicarum Medii Aevii Scriptores, or, Chronicles and
Memorials of Great Britain and Ireland During the Middle Ages, London 1874, vol. 63, cap. VII, pp. 391-399;
R. Stopani, Le vie di pellegrinaggio del Medioevo. Gli itinerari per Roma, Gerusalemme, Compostella, Firenze
2003³, pp. 43-56, in part. p. 47.
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Badia Elmi
La strada di fondovalle sembra, invece, essere quella attraversata da Nikulas Bergsson
abate del monastero benedettino di Munkathvera, nel nord dell’Islanda, che dalla remota Terra dei Ghiacci raggiunse Gerusalemme verso la metà degli anni Cinquanta dell’XI
secolo. Egli afferma, infatti, di aver compiuto un percorso che da Santinusborg, presumibilmente Borgo San Genesio, raggiungeva Martinusborg o forse Marturusborg – per una
non corretta interpretazione e conseguente errata trascrizione del documento autografo
– cioè Borgo Marturi, ovvero l’attuale Poggibonsi. Nikulas non descrive tappe intermedie, come invece fa Sigeric, e ciò autorizza a valutare la possibilità di un percorso diretto
e quindi l’inevitabile passaggio – non oso dire ‘sosta’ – per Badia Adelmi 14.
Ma è solo al percorso verso la Terrasanta che vuol alludere il titolo dell’abbazia? O in
realtà non possiamo tentare anche altre interpretazioni?
In primo luogo l’edificazione del monastero nel primo trentennio dell’XI secolo sembra collocarsi in quella straordinaria fioritura di chiese di cui Rodolfo il Glabro dà un’efficace descrizione nel terzo libro delle sue Storie: erat enim instar ac si mundus ipse excutiendo semet, rejecta vetustate, passim candidam ecclesiarum vestem indueret 15; e che nel
quarto libro egli mette in relazione proprio con la diffusione dei pellegrinaggi verso
Gerusalemme: Per idem tempus – Rodolfo si riferisce all’anno a passione Domini millesimo, a ben guardare più foriero di grandi impulsi di rinnovamento che carico di attese
escatologiche – ex universo orbe tam innumerabilis multitudo coepit confluere ad sepulchrum Salvatoris Hierosolymis, quantam nullus hominum prius sperare poterat; primitus enim ordo inferioris plebis; deinde vero mediocres; posthaec permaximi quique reges,
et comites ac praesules. Ad ultimum vero, quod nunquam contigerat, mulieres multae
nobiles cum pauperibus illuc perrexere 16.
Se per Rodolfo il Glabro l’incremento dei pellegrinaggi e la costruzione di nuove chiese erano interdipendenti, si dirà anche che entrambi trovavano la loro ragion d’essere nella
rinascita generale che pervase l’Occidente rendendo possibile un risveglio nei vari settori
della vita sociale e religiosa.
La fine delle grandi scorrerie saracene e magiare del periodo precedente la rinascita della
città – scrive Gregorio Penco – l’aumento demografico, il miglioramento delle condizioni
economiche, il risveglio culturale sono tutti fattori e indizi di una ripresa che [investì] anche
l’ambito religioso nella complessità delle sue manifestazioni […] proprio in forza di tale
rinascita generale si acuisce il contrasto [e la relativa percezione] tra l’ideale e la realtà, come
appare in modo evidentissimo negli ambienti monastici […] Il mondo cristiano [si pose] alla
ricerca di un nuovo universalismo spirituale 17.
14. Il resoconto del viaggio di Nikulas di Munkathvera è stato pubblicato per la prima volta da E.C. Werlauff, in
Symbolae ad geographiam Medii Aevi ex Monumentis Islandicis, Copenhagen 1821; cfr. anche F.P. Magoun, The
Pilgrim Diary of Nikulas of Munkathvera: the Road to Rome, «Medieval Studies», 6, 1944, pp. 347-350; Stopani, Le
vie di pellegrinaggio cit., pp. 57-72. Cfr. in proposito anche F. Salvestrini, San Genesio. La comunità e la pieve fra VI
e XIII secolo, in Vico Wallari – San Genesio. Ricerca storica e indagini archeologiche su una comunità del Medio
Valdarno Inferiore fra Alto e pieno Medioevo, Atti della Giornata di studio, San Miniato, 1 dicembre 2007, a cura di
F. Cantini, F. Salvestrini, Centro Studi sulla Civiltà del Tardo Medioevo-San Miniato, Firenze 2010, pp. 25-80: 45-47.
15. Rodulfi Glabri historiarum sui temporis libri quinque, in Patrologiae cursus completus … series latina accurante J.P. Migne (da ora in poi PL), 142, col. 651.
16. Ivi, col. 680.
17. G. Penco, La Chiesa nell’Europa medievale, Casale Monferrato 2003, rist. in Il Giornale-Biblioteca Storica
38, s.n.t., pp. 69-70.
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In sostanza, si era di fronte a uno sforzo compiuto per ridare alla Chiesa la sua dignità
e la sua purezza. In tale ottica la Terrasanta, Betlemme, Nazareth e soprattutto
Gerusalemme non vennero progressivamente percepite solo come i luoghi in cui Gesù era
storicamente nato e vissuto, dove aveva insegnato e compiuto miracoli, nei quali era morto
e risorto, poiché nella percezione collettiva la Terrasanta, e soprattutto Gerusalemme,
superavano la loro dimensione geografica e storica per assurgere a supremi significanti
simbolici. Da luoghi del passato essi si trasformavano in tappa esistenziale, addirittura in
un programma di conversione che avrebbe dovuto interessare anche il contesto sociale,
nonché, a mio avviso, l’ambito ecclesiale di appartenenza – sebbene vi sia da domandarsi quanto le due realtà non sfumassero l’una nell’altra, si compenetrassero e si confondessero –, e quindi in un luogo del futuro, quello del giudizio universale, ossia della dimora definitiva e del compimento escatologico della vita cristiana. Oserei dire che
Gerusalemme si trasfigurasse in un tópov teologico.
Questa percezione era presente fin dall’età apostolica. Nei testi neotestamentari la città
non si configurava soltanto come il luogo nel quale era avvenuta la redenzione. Essa risultava allo stesso tempo figura della nova Ierusalem. Il libro dell’Apocalisse contempla e
descrive la civitas sancta che, discendendo dal cielo, accompagna la creazione dei cieli
nuovi e della nuova terra:
Et vidi coelum novum et terram novam. Primum enim coelum et prima terra abiit, et mare
iam non est. Et ego Ioannes vidi sanctam civitatem, Ierusalem novam, descendentem de
coelo a Deo, paratam sicut sponsam ornatam viro suo. Et audivi vocem magnam de trono
dicentem: Ecce tabernaculum Dei cum hominibus et habitabit cum eis; et ipsi populus eius
erunt, et ipse Deus cum eis erit eorum Deus, et absterget Deus omnem lacrimam ob oculis eorum, et mors ultra non erit, neque luctus neque clamor neque dolor erit ultra, quia
prima abierunt (Apoc. 21, 1-4).
Soprattutto dopo l’avvento della libertas ecclesiae decretata da Costantino con l’editto
dell’anno 313 i pellegrinaggi alla città santa conobbero un processo di notevole intensificazione, a partire da quello compiuto dalla madre stessa dell’imperatore, l’augusta Elena,
che fu il prodromo alla costruzione delle grandi basiliche, massime di quella che il sovrano e la madre vollero sul luogo della crocifissione, della sepoltura e della risurrezione del
Cristo 18. Coevo al pellegrinaggio di Elena fu quello di un anonimo pellegrino di Bordeaux 19,
che testimonia la precoce devozione per il santo luogo; così come fanno il viaggio successivo di Silvia o Silvania descritto da Palladio nella sua Storia Lausiaca 20, quello di una pia
donna cui gli studiosi hanno attribuito il nome di Eteria o Egeria, forse originaria della
Galizia, forse una monaca o addirittura badessa di un monastero, forse semplicemente un’aristocratica vicina ad ambienti di grande fervore spirituale e spesso confusa con la prece18. Eusebii Pamphili de Vita Beatissimi Imperatoris Constantini, III, 25-39, in Patrologiae cursus completus …
series graeca accurante J.P. Migne (da ora PG), 20, coll. 1086-1099; Rufini Aquileiensis presbiteri in suam et Eusebii
caesariensis latinam ab eo factam historiam, I, 7-8, in PL, coll. 475-478; Beati Theodorethi episcopi cyrensis ecclesiasticae historiae libri quinque, I, 17, in PG, 82. coll. 858-862.
19. Anonymi itinerarium a Burdigala Jerusalem usque et ab Heraclea per Aulonam et per urbem Romam
Mediolanum usque, in PL, 8, coll. 784-796; testo reperibile anche in P. Geyer, Itinera hierosolimitana saeculi IVVIII, in Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 39, Wien 1898, pp. 1-33.
20. Palladii Episcopi Helenopoleos Historia ad Lausum, CXLII, in PG, 65, col. 1244 (trad. lat. 1246); Id., Historia
Lausiaca, CXLII, in PL, 73, col. 1210.
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Badia Elmi
dente 21; e poi come dimostrano il passagium di Paola, la grande benefattrice di Girolamo,
che vi fu accompagnata proprio dal suo protetto 22, la peregrinatio di Melania la Giovane 23,
quella del cosiddetto Antonino di Piacenza 24, quella del vescovo Arculfo 25 e così via. Da
questi devoti itinerari nascevano dei diari nei quali la relazione di fatti sovente avventurosi accaduti agli stessi pellegrini si coniugava alla minuziosa descrizione dei luoghi già celebrati dalla Bibbia, contribuendo ad accendere nell’animo dei lettori sentimenti di meraviglia, di devozione e di emulazione 26.
La Gerusalemme cristiana trovò il suo centro nel grande complesso basilicale designato a
custodire sia lo sperone roccioso del Golgotha, sia la tomba vuota di Gesù; ed essa lo ha in
seguito mantenuto, nonostante la successive ridefinizioni strutturali che lungo i secoli hanno
coinvolto questi ben noti edifici. Il complesso originario delle magnificenti costruzioni costantiniane (Fig. 1) era costituito dal Martyrium, una basilica a cinque navate divise da colonne e
pilastri che sorreggevano un soffitto a cassettoni dorati; quindi da un cortile detto triportico,
circondato su tre lati da portici, appunto, in un angolo del quale si stagliava la roccia del
Golgotha nel suo aspetto naturale; e infine, dal grandioso mausoleo dell’Anastasis, a pianta
circolare, con al centro l’aedicula eretta a custodia della tomba, il tutto attorniato da colonne
e pilastri a formare un deambulatorio sormontato da una tribuna, e questa da una grande
cupola, in modo da rendere visibile la basilica da tutta la città. L’impianto complessivo fu più
volte modificato. In primo luogo vi intervenne il patriarca Modesto nel VII secolo, dopo il sac21. Il pellegrinaggio è narrato in un manoscritto che l’archeologo e paleografo Gian Francesco Gamurrini scoprì negli anni Ottanta dell’Ottocento nella biblioteca di una confraternita laicale di Arezzo e che diede alle stampe
nel 1887 e 1888: Sancti Hilarii tractatus de mysteriis et Hymni et Sanctae Silviae Aquitanae peregrinatio ad loca
sancta, accedit petri diaconi liber de locis sanctis, in Biblioteca dell’Accademia storico-giuridica, IV, Roma 1887;
Sanctae Silviae Aquitanae peregrinatio ad loca sancta, in Studi e documenti, IX, Roma 1888, pp. 97-174. Il Gamurrini
attribuì all’anonima redattrice della cronaca il nome di Silvia o Silvania, identificandola con l’omonima pellegrina
di cui parla Palladio, ma questa attribuzione fu contestata dapprima da Geyer, Itinera Herosolymitana cit., e poi
dal monaco benedettino dom Mario Férotin, che identificò l’autrice con la beatissima sanctimonialis et virgo di cui
parla un documento del VII secolo, la lettera di Valerio monaco del Bierzo ai propri confratelli. A questo personaggio femminile Valerio dava il nome di Aetheria (o Heteria, Etheria, Eitheria, Echeria, Egeria, a seconda della
tradizione manoscritta della lettera stessa che assumiamo come riferimento) ed è questo il nome ormai universalmente accettato dagli studiosi (M. Férotin, Le véritable auteur de la ‘Peregrinatio Silviae’, la vierge espagnole Éthérie, «Revue des Questions Historiques», 74, 1903, II, pp. 367-397; Z. García Villada, La lettre de Valérius aux moines du Vierzo sur la bienheureuse Aetheria, «Analecta Bollandiana», 29, 1910, pp. 377-399: 393-399; Egeria,
Pellegrinaggio in Terra Santa, a cura di P. Siniscalco-L. Scarampi, Roma 1985; Ead., Diario di Viaggio, a cura di
E. Giannarelli, Milano 2000²).
22. Sancti Eusebii Hieronymi Epistolae, CVIII (Ad Eustochium virginem epitaphium Paulae matris), in PL, 22,
coll. 878-906; cfr. anche Id., Epistolae, XLVI (Paulae et Eustochii ad Marcellam de locis sanctis), in PL, cit., coll.
483-492.
23. Vie de Melanie, a cura di D. Gorce, «Sources Chrétiennes», 90, Paris, 1962.
24. Antonini Placentini Itinerarium, in PL, 72, coll. 898-918; anche Geyer, Itinera hierosolymitana cit., pp. 157218. Intorno all’identità dell’autore del testo, in realtà sconosciuta, è aperto un dibattito. Scartata l’attribuzione al
martire Antonino di Piacenza poiché questi morì fra la fine del III secolo e l’inizio del IV, mentre l’Itinerarium non
può essere avvenuto prima del VI, lo stesso abate Migne, ivi, Prologus, confermava il nome di Antonino più per consolidata consuetudine che per intima convinzione. Probabilmente l’attribuzione derivava dall’errata lettura della presentazione che l’autore fa di se stesso, quando afferma di aver iniziato il suo pellegrinaggio praecedente beato Antonino
Martyre, dove il termine praecedente, che significa più o meno sotto la protezione di…, è stato letto con il senso di
al seguito di...
25. Adamanni Scotohiberni Abbatis celeberrimi de situ Terrae Sanctae libri tres … nunc primum in luce prolato
studio Jacobi Gretseri Societatis Jesu, Ingolstadt 1619; reperibile anche in Sancti Adamnani abbati hiiensis de locis
sanctis ex relatione Arculfi episcopi galli libri tres, in PL, 88, coll. 779-814.
26. F. Mian, Gerusalemme città santa. Oriente e pellegrini d’Occidente (sec. I-IX/XI), Rimini 1988, pp. 18-21 e
passim.
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Dedicationes e Imitationes del Santo Sepolcro: l’esempio di Badia Adelmi
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Fig. 1. Santo Sepolcro di Gerusalemme, pianta del
complesso monumentale costantiniano
cheggio e l’incendio seguiti all’occupazione
persiana; poi nell’810 Carlo Magno intervenne per far riparare i danni provocati da
un violento terremoto. Ma le principali trasformazioni si verificarono negli anni
Quaranta dell’XI secolo, dopo che il fanatismo del sesto Imām fatimide al-Hakim (9851021) aveva decretato la distruzione radicale delle strutture, tanto che, secondo la
testimonianza dello storico islamico Yahia
ibn Sa’id «furono risparmiate solo quelle
parti che erano molto difficili da distruggere» 27. Per iniziativa dell’imperatore Costantino IX Monomaco (ca. 1000-1055) l’insieme assunse le dimensioni odierne, ridotto
essenzialmente all’Anastasis con l’aggiunta
di alcune cappelle sparse nell’area occupata
precedentemente dal triportico e dal
Martyrium costantiniani. Durante la prima
metà del XII secolo, in epoca crociata, il
monumento assunse l’aspetto attuale, con
una nuova definizione dell’area del triportico e del Martyrium 28 (Fig. 2). Ciò che appare evidente è la conservazione dell’Anastasis,
che infatti conobbe numerose repliche in
tutta Europa.
Gerusalemme e quindi il Santo Sepolcro
furono per l’uomo della tarda antichità e
poi del Medioevo il centro fisico e allo
stesso tempo ideale del mondo. Già nella tradizione giudaica la città era percepita come
umbilicus mundi (Ezec. 5, 5: Haec dicit Dominus Deus: ista est Jerusalem; in medium gentium posui eam et in circuitu eius terras; e 38, 12: et super populum qui est congregatus
ex gentibus qui possidere coepit et esse habitator in medio terrae), in quanto si riteneva
che essa coincidesse con il giardino dell’Eden, con il sito, cioè, della creazione di Adamo,
ma anche con il monte di Moriah, ossia il luogo dove avrebbe dovuto avvenire il sacrificio di Isacco. Soprattutto in essa vi era la presenza del Beit Adonai, del Beit ha Mikdash,
del tempio, con il Qedosh ha Qedoshim.
27. D. Baldi, Enchiridion Locorum Sanctorum. Documenta Sancti Evangelii loca respicientia, Jerusalem 1955,
p. 652, n. 942.
28. La ricostruzione storica delle vicende occorse all’edificio sacro in V. Corbo, Il Santo Sepolcro di Gerusalemme.
Aspetti archeologici dalle origini al periodo crociato, I-III, Jerusalem 1981-82.
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Fig. 2. Santo Sepolcro di Gerusalemme, pianta dell’attuale basilica
Se Paolo Orosio, fra IV e V secolo, nell’introduzione geografica alle sue Historie adversum paganos affermava che le terre emerse si estendono nel senso della longitudine per
un arco di 180° e che i loro estremi limiti sono a est il fiume Gange e a ovest le Gades
insulae, le colonne d’Ercole, ossia lo stretto di Gibilterra, è evidente che, equidistante di
90° dall’uno e dall’altro non poteva che trovarsi Gerusalemme 29. Questa convinzione
venne sottolineata anche da Isidoro di Siviglia: In medio autem Judaeae civitas
Hieroslyma est, quasi umbilicus regionis totius 30 e, più tardi, quasi con le stesse parole,
da Rabano Mauro nel De Universo 31, per riversarsi, infine, nelle raffigurazioni geografiche successive alla prima crociata, quali ad esempio la carta detta di Ebstorf (redatta
verso la metà del XIII secolo), il mappamondo circolare di Hereford (inizio del XIV) e il
planisfero del Vesconte (primo quarto del Trecento) 32. E non possiamo dimenticare che
tali concezioni furono destinate a perdurare ancora a lungo e a trovare un interprete d’eccezione in Dante. Il grande poeta collocò, infatti, Gerusalemme in un punto equidistan29. Per la descriptio mundi di Paolo Orosio, v. Pauli Orosii Historiarum libri septem, in PL, 31, coll. 675-697.
30. Sancti Isidori Etymologiarum libri viginti, XIV, III, 21, in PL, 82, col. 499.
31. In medio autem Judaeae civitas Hierosolyma est, quasi umbilicus regionis et totius terrae, Beati Rabani Mauri
de universo libri viginti duo, XII, 4, in PL, 95, col. 339.
32. Cfr. A. Scafi, Il paradiso in terra: mappe del giardino dell’Eden, Milano 2007, rispettivamente a p. 127 e Tav.
9, alle pp. 122-123 e Tav. 7 e alle pp. 164-165.
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te dai margini della terra, quello orientale, ossia il Gange, e quello occidentale, costituito delle Colonne d’Ercole 33, nonché dai limiti settentrionale e meridionale delle terre abitabili, in sostanza, al «colmo» dell’ecumene:
E se’ or sotto l’emisperio giunto
…
… sotto ’l cui colmo consunto
fu l’uom che nacque e visse sanza pecca (Inf. XXXIV 112-115).
Del resto è proprio dalla città santa che, nell’opera, il poeta inizia «lo cammino alto e
silvestro» – è sotto di essa, infatti, che il poeta immagina aprirsi la voragine dell’Inferno –
per giungere infine alla contemplazione dell’«amor che move il sole e l’altre stelle» 34.
Come si è detto Gerusalemme rapresenta il centro fisico ma anche quello ideale dell’universo. Tuttavia nella tradizione cristiana l’identificazione dell’umbilicus mundi si sposta dal Qedosh ha Qedoshim al Santo Sepolcro, operando un trasferimento del baricentro ideale dell’universo: il Tempio si trovava a sud est, il Santo Sepolcro si trova a nordovest. Cirillo di Gerusalemme scrive nelle sue Catechesi che operatus est salutem in medio
terrae; e anche: medius enim terrae est hic Golgothas. Tertulliano nell’Adversus
Marcionem aggiungeva: Hic medium terrae est, hic est victoriae signum 35.
Per chi tornava in patria il racconto del viaggio e l’esperienza fisica del «toccare e vedere» diventavano exempla da diffondere e da proporre all’imitazione altrui. Nella celebrazione e nell’enfatizzazione del viaggio compiuto, nella volontà di comunicarne i significati e infine nella necessità di sostituire la mèta con elementi spaziali più facilmente raggiungibili si trovano, dunque, le ragioni dell’edificazione dei Santi Sepolcri.
Dai primi esempi noti di questo fenomeno – se ne potrebbero individuare gli inizi a
Roma, nella costruzione di una basilica dedicata alla Croce ma detta in Hierusalem, e che
il Liber Pontificalis attribuisce allo stesso Costantino 36, e a Ravenna, nell’edificazione della
stessa cattedrale intitolata alla Hagia Anastasis nel 396 dal vescovo Urso 37 – fino a oggi
sono sorte nell’ecumene cristiano vere e proprie imitazioni topomimetiche, attraverso le
quali è stato riprodotto in architetture fisse, al vero o in scala, l’intero complesso gerosolimitano. Ma sono state realizzate anche imitazioni parziali, impostate sulla replica di un
solo elemento, per lo più l’Anastasis (ed è questo il gruppo più numeroso). Infine si anno33. Nam, ut communiter ab omnibus habetur, hec habitabilis extenditur per lineam longitudinis a Gadibus, que
supra terminos occidentales ab Hercule positos ponitur, uscque ad hostia fluminis Ganges, ut scribit Orosius. Que
quidem longitudo tanta est, ut occidente sole in equinoctiali existente illis qui sunt in altero termino rum, oritur illis
qui sunt in altero, sicut per eclipsim lune compertum est ab astrologis. Igitur oportet terminos predicte longitudinis
distare clxxx gradus, que est dimidia distantia totius circumferentiae (Quaestio 54, in Dante Alighieri, La «Quaestio
de aqua et terra», a cura di E. Pistelli, in Opere di Dante, Firenze 1921; cfr. M. Pastore Stocchi, Quaestio de aqua et
terra, in Enciclopedia Dantesca, IV, Roma 1973, pp. 761-765.
34. Un interessante contributo relativo alla cosmologia dantesca in C. Cedrati, I confini d’Italia e i confini del
mondo, in Stella forte. Studi danteschi, a cura di F. Spera, Napoli 2010, pp. 57-79.
35. Le citazioni sono tratte da F. Cardini, In Terrasanta. Pellegrini italiani tra Medioevo e prima età moderna,
Bologna 2002, p. 392-393; per un’ampia conoscenza del rapporto tra fede e immaginario, ivi, pp. 389-447.
36. Eodem tempore fecit Constantinus Augustus basilicam in palatio sessoriano, ubi etiam de ligno sanctae crucis Domini nostri Iesu Christi posuit, et auro, et gemmis conclusi, ubi etiam et nomen ecclesiae dedicavit, quae cognominatur usque in hodiernum diem Hierusalem (Le Liber Pontificalis. Texte, introduction et commentaire par l’abbé,
L. Duchesne, Paris 1886, I, 179). Cfr. Anastasii S.R.E. Bibliothecarii Historia de Vitis Romanorum Pontificum,
Maguntiae 1602, p. 21.
37. D. Neri, Il Santo Sepolcro riprodotto in Occidente, Jerusalem 1971, p. 61.
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A sinistra, sopra (fig. 3): Mausoleo di Costantina
o Santa Costanza (Roma), interno. Sotto (fig.
4): Santo Stefano Rotondo (Roma), interno
verano imitazioni memoriali e
devozionali nelle quali non appare
una vera e propria duplicazione
degli spazi, quanto piuttosto un rinvio agli ipsissima loca, spesso attraverso il semplice titolo. La stessa
dissomiglianza e l’inconciliabilità
architettonica fra questi edifici se da
una parte meravigliano lo spettatore, più che dichiarare la non riconducibilità a una tipologia architettonica fissa dovuta evidentemente
alla variazione dell’impianto basilicale gerosolimitano lungo i secoli e
alla difficoltà di percepirne l’unità,
evidenziano tangibilmente la preminenza del significato simbolico di
quest’ultimo sul suo aspetto reale.
Anche se una trattazione delle chiese costruite ad instar Sancti Sepulchri
esula, seppur parzialmente, dal tema
che mi è stato affidato e impegna
davvero in maniera eccessiva, non
credo di abusare della pazienza del
lettore se mi soffermerò su alcuni
exempla. Il riferimento alla tipologia
dell’Anastasis della basilica costantiniana appare assai precocemente
nell’architettura sacra cristiana,
anche in assenza del titolo del Santo
Sepolcro – il comune o almeno il
maggioritario consenso degli studiosi ne identifica le prime espressioni in due fra i più antichi edifici sacri romani, ovvero il mausoleo di Costantina, ormai conosciuto come chiesa di Santa Costanza 38 (Fig. 3), e la chiesa
di Santo Stefano in Coelio Monte, detta di Santo Stefano Rotondo, appunto 39 (Fig. 4).
Tuttavia fu soprattutto a partire dal IX secolo che tale richiamo divenne esplicito. Rabano
Mauro, che tra l’820 e l’822 collaborò con l’abate Engil all’edificazione della chiesa cimite38. G.P. Tesei, Le chiese di Roma, Roma 1986, p. 488; S. Zanzottera, S. Costanza a Roma, in Rotonde d’Italia.
Analisi tipologica della pianta centrale, a cura di V. Volta, Milano 2008, pp. 143-149.
39. Tesei, Le chiese di Roma cit., p. 54; E. Rizzi, S. Stefano Rotondo a Roma in Rotonde d’Italia, cit. pp. 150-156.
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A sinistra e sotto (figg. 5-6): Sankt Michael a
Fulda, interno e pianta
riale di Sankt Michael a Fulda, in
Germania (Figg. 5 e 6), nella sua
dedica per l’altare maggiore non
lascia dubbi in proposito: In primo
altare: Hoc altare Deo dedicatum est maxime Christo cuius
hic tumulus nostra sepulchra
juvat 40.
Nei secoli successivi si riscontra un incremento di strutture
esplicitamente evocative del Santo
Sepolcro all’interno di chiese a
esso intitolate non meno che altrimenti dedicate: sono i casi, ad
esempio, della Jerusalem di Santo
Stefano a Bologna (Fig. 7), chiesa
che già l’imperatore Carlo il
Grosso in un diploma dell’887
chiamava Sanctus Stephanus qui
vocatur Hierusalem 41; del sacello
posto al centro della cappella a
pianta circolare in San Maurizio,
la Mauritiusrotunde (Fig. 8) edificata a Costanza dal vescovo
Corrado di Altdorf in un anno incerto fra la prima e la seconda metà del X secolo, annessa alla cattedrale cittadina e strettamente connessa al pellegrinaggio del presule a Gerusalemme; della struttura cilindrica con copertura conica fatta erigere durante il primo
quarto del secolo XI nella basilica di Aquileia dal patriarca Poppone (Fig. 9) e funzionale alle liturgie del venerdì e del sabato santi, giorni commemorativi della passione, morte
e resurrezione di Gesù; dei due sacelli presenti l’uno nella grandiosa cripta dell’attuale cattedrale di Acquapendente, cubico con una copertura piramidale 42 (Fig. 10), e l’altro a
Cambrai, non più esistente, ma di cui sappiamo che fu espressamente voluto rotundo
40. Beati Rabani Mauri Carmina, XLIII (Tituli et inscriptiones altarium basilicae Sancti Salvatoris fuldensis; In
coemeterio fratrum in ecclesia sancti Michaelis, in primo altare), in PL, 112, col. 1624.
41. Codice diplomatico della Chiesa bolognese: documenti autentici e falsi (secoli IV-XII), a cura di M. Fanti, L.
Paolini, Roma 2004, p. 141; F.I. Apollonio, La Rotonda di Bologna: il Santo Sepolcro del complesso stefaniano, in
Rotonde d’Italia cit., pp. 82-88; Neri, Il Santo Sepolcro cit., pp. 51 ss.
42. R. Salvarani, San Sepolcro a Milano nella storia della crociate, in Deus non voluit. I Lombardi alla prima crociata (1100-1101). Dal mito alla ricostruzione della realtà, a cura di G. Andenna, R. Salvarani, Milano 2003, pp.
263-288: 264-265. Per il sacello di Acquapendente v. in particolare M. Ruspantini, La basilica del Santo Sepolcro di
Acquapendente e il sacello del Santo Sepolcro esistente nella sua cripta, in Militia Sancti Sepulchri: idea e istituzioni,
Atti del colloquio internazionale tenuto presso la Pontificia Università del Laterano, 10-12 aprile 1996, a cura di K.
Elm, C.D. Fonseca, Città del Vaticano 1998, pp. 411-418.
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A sinistra (fig. 7): la Jerusalem di Santo Stefano a Bologna: la cappella rotonda con la riproduzione dell’aedicula del Santo
Sepolcro. A destra (fig. 8): la cappella di San Maurizio, “Mauritiusrotunde”, a Costanza, in Svizzera, con al centro l’imitazione dell’aedicula gerosolimitana. Sotto (fig. 9): la riproduzione dell’aedicula del Santo Sepolcro nella basilica di Aquileia
schemate, in modo scilicet Sepulchri, quae
est Hierosolimis dal vescovo Gerardo di
Florennes 43. Il fatto che queste ultime due
strutture siano state impiantate all’interno
degli spazi cultuali di due abbazie entrambe dedicate al Santo Sepolcro e per di più
affidate dai fondatori all’obbedienza benedettina apre lo sguardo su un panorama
particolarmente interessante ai fini della
nostra indagine, poiché ci troviamo di
fronte a una situazione che presenta delle
analogie con ciò che abbiamo modo di
osservare relativamente alla Badia Adelmi.
Il fatto che Meinwerk, vescovo di Paderborn,
in Westfalia, abbia inviato l’abate Wino di
Helmarshausen a Gerusalemme perché registrasse le dimensioni dell’Anastasis al fine di
edificare una chiesa ad similitudinem Sanctae
43. Cfr. Vita Lietberti episcopi Cameracensis auctore Rodulfo, cur. di A. Hofmeister, in MGH, Scriptores, XXX, II,
Lipsiae 1934, p. 867.
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Sopra (fig. 10): la riproduzione dell’aedicula del Santo Sepolcro nella cattedrale di Acquapendente. Sotto (fig. 11):
pianta della basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme redatta da Adamnano, abate di Iona, sulla base dei racconti e dei disegni di Arculfo, vescovo di Périgueux
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A sinistra (fig. 12): chiesa del Santo Sepolcro
a Brindisi. Sotto (fig. 13): chiesa del Santo
Sepolcro a Pisa
Jerosolimitanae ecclesiae da dedicarsi alla Madonna e ai santi Pietro
e Andrea 44, ha indotto a ipotizzare
che il puntuale riscontro tra le strutture possa essere messo in relazione
anche con la vasta diffusione dei De
Locis sanctis libri tres, un testo
redatto dall’abate Adamnano sulla
base dei resoconti e dei disegni di
Arculfo (Fig. 11), un vescovo franco – forse di Périgueux – vissuto
nella seconda metà del VII secolo, il
quale, intrapreso un pellegrinaggio
in Terra Santa, dopo avervi soggiornato per nove mesi e aver visitato i principali luoghi della venerazione cristiana, durante il viaggio di
ritorno in patria era stato colto da
una tempesta ed era approdato fortunosamente sull’isola di Iona nelle
Ebridi, sede di un famoso monastero il cui abate era proprio Adamnano, cui aveva consegnato i suoi
ricordi e i suoi appunti 45. Appare,
comunque, indubbio che fu con la
riconquista della Terrasanta in
seguito alla prima Crociata e con il
ripristino di un più agevole accesso
a quelle regioni da parte dei pellegrini europei che il fenomeno conobbe una crescita esponenziale e si diffusero in Europa numerose chiese
intitolate al Santo Sepolcro di Gerusalemme o costruite a imitazione di
esso. Ecco allora riproporsi l’aedicula del Santo Sepolcro a Brindisi (Fig. 12), a Pisa (Fig. 13), a San Candido in provincia di
Bolzano (Fig. 14), a San Pietro in Consavia nell’astigiano (Fig. 15); ma anche l’edificazione
44. Vita Meinwerci Episcopi Patherbrunnensis, ed. F. Tenckhoff, cap. 217, in MGH, Scriptores rerum germanicarum in usum scholarum separatim editi, 59, VII, Hannover 1921, p. 129.
45. Sancti Adamnani de locis sanctis, cit., in PL, 88, coll. 779-784.
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Sopra (fig. 14): chiesa del Santo Sepolcro a San Candido (Bolzano). Sotto (fig. 15): chiesa di San Pietro in Consavia
(Asti)
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Fig. 16. Chiesa di San Galgano a Chiusdino (Siena)
di luoghi di culto in cui la riproduzione dell’aedicula non ha alcun riferimento memoriale
all’edificio gerosolimitano: in terra senese ricordo la cappella di San Galgano sul Montesiepi,
nel territorio del comune di Chiusdino 46 (Fig. 16).
Il fenomeno non è solo italiano, bensì si riscontra in tutti i maggiori paesi europei, soprattutto dopo che il successo della prima Crociata e la conquista di Gerusalemme ebbero incrementato i pellegrinaggi, e un censimento delle imitationes sarebbe davvero troppo lungo 47.
46. Sul celebre monumento A. Conti, San Galgano, il santo, l’eremo, l’abbazia, Firenze 2011, pp. 75-87, in part.
p. 77, che sviluppa una riflessione già presente in A. Conti, M.A. Iannaccone, La spada e la roccia. San Galgano: la
storia, le leggende, Milano 2007, p. 129 n.
47. Si rinvia pertanto a R. Salvarani, La fortuna del Santo Sepolcro nel Medioevo. Spazio, liturgia, architettura,
Milano 2008. È anche importante rilevare come il fenomeno si sia esteso oltre l’Europa. Durante gli ultimi decenni del
XII secolo e nei primi di quello successivo il negus nagast di Etiopia Lalibela volle riprodurre sui monti del Lasta i luoghi della Terra Santa in cui era stato pellegrino tramite la realizzazione di un complesso di chiese rupestri edificate traforando, incidendo e intagliando la montagna, tanto che i santuari sono un tutt’uno con la rossa roccia vulcanica. Il sito
da lui prese poi il nome di Lalibela. Il negus non duplicò spazi, misure o parti dei luoghi di Terrasanta, ma lì evocò solamente nei nomi e nei titoli. I fedeli potevano compiere il loro iter salvificum che dalla Tomba di Adamo, attraverso la
Beta Meskal, la cappella della Croce, e la Beta Golgota, il sepolcro simbolico di Cristo, li avrebbe condotti alla Beta
Medhane Alem, letteralmente la chiesa del Salvatore del mondo, senza bisogno di recarsi lontano dalla loro patria. Il
messaggio del negus Lalibela, sovrano che la cristianità etiope ha elevato agli onori degli altari, appare allora chiaro: nel
momento in cui Gerusalemme e la Terrasanta cadevano di fronte agli eserciti del Saladino – la capitolazione della città
santa è del 1187 – in Etiopia egli ricreava una nuova possibilità per i cristiani del mondo (cfr. J. Perruchon, Vie de Lalibala,
Roi d’Éthiopie. Texte éthiopien et traduction française, Paris 1892, pp. 130-161; J. Doresse, Ancient Cities and Temples
of Ethiopia, London 1959; S. Hable-Selassiè, Ancient and Medieval Ethiopian History to 1270, Addis Abeba 1972; cfr.
anche il contributo di R. Salvarani, Una imitatio dei Luoghi Santi del XIII secolo nel cuore dell’altopiano etiopico:
Lalibela, in Fedi a confronto. Ebrei, Cristiani e Musulmani fra X e XIII secolo, Atti del convegno di studi, MontaioneFirenze, 22-24 settembre 2004, a cura di S. Gensini, Firenze 2006, pp. 79-114).
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Del resto neppure dopo la perdita della Terrasanta si determinò l’attenuazione di questo
fenomeno, benché l’arte e l’architettura si siano indirizzate verso espressioni diverse, quale
la creazione dei Sacri Monti: in terra toscana e fiorentina, in particolare, ricordo la presenza del Sacro Monte di San Vivaldo, nel territorio dell’attuale comune di Montaione 48.
Non sappiamo, allo stato attuale dell’indagine, se l’abbazia del Santo Sepolcro e di
Santa Maria in Fonte Pinziaria, ossia l’intero complesso della Badia Adelmi o la chiesa
abbaziale in particolare, fossero una imitatio del Santo Sepolcro, e nemmeno se tale struttura contenesse elementi riconducibili all’edificio gerosolimitano e in quali termini.
Qualsiasi conclusione in tal senso è purtroppo impedita sia dalle modifiche dell’impianto costruttivo apportate dai Camaldolesi, che acquisirono l’abbazia nel 1073, sia e soprattutto dalla ridefinizione delle strutture architettoniche che, successivamente alla soppressione decretata da papa Innocenzo X nell’ambito della riduzione degli insediamenti monastici (XVII secolo) 49, fu funzionale alla trasformazione di essa in fattoria. Sono proclive,
comunque, a credere che in questo caso siamo in presenza del solo titolo: dobbiamo infatti tener presente due dati importanti, cioè che Badia Adelmi fu edificata circa sessant’anni prima della riconquista di Gerusalemme e della Terrasanta, ossia in un periodo in cui
si era accentuata la difficoltà dei viaggi in Oriente, e poi che al momento della sua costruzione la basilica gerosolimitana era ridotta a un cumulo di macerie da venticinque anni a
seguito della demolizione di essa ordinata da al-Hakim nel 1009 (solo fra il 1042 e il 1048
l’imperatore Costantino IX Monomaco ne completò la ricostruzione) 50.
Ma ancora non ha trovato, pertanto, risposta la domanda se siano state considerazioni di tipo unicamente geografico e viario, se cioè sia stato l’alloggiamento dell’abbazia
lungo la strata francigena, a indurre nel 1034 Adelmo di Suppo e Gisla a intitolare il monastero al Santo Sepolcro.
Renata Salvarani ha riscontrato che nelle dedicationes e nelle imitationes del Santo
Sepolcro è doveroso anche riconoscere la catalizzazione di istanze di riforma liturgica ed
ecclesiologica interne alla Chiesa cattolica 51. Benché, come sostiene tale studiosa, «la volontà
di duplicare il modello gerosolimitano all’interno di un preciso programma edificatorio
[sia] espressamente documentata, in più casi, in relazione con pellegrinaggi a
Gerusalemme» 52, in ogni caso lo stretto legame con gli itinerari di pellegrinaggio non esclude la relazione con le aspirazioni alla riforma ecclesiastica o forse più propriamente eccle48. F. Cardini, G. Vannini, San Vivaldo in Valdelsa: problemi topografici ed interpretazioni simboliche di una
«Gerusalemme» cinquecentesca in Toscana, in Religiosità e Società in Valdelsa nel basso medioevo, Atti del Convegno,
San Vivaldo, 29 settembre 1979, Biblioteca della «Miscellanea Storica della Valdelsa», 3, 1980; A. Agnoletto, E.
Battisti, F. Cardini, R. Pacciani, G. Ferri Piccaluga, G. Vannini, Gli abitanti immobili di San Vivaldo il Monte Sacro
della Toscana, Firenze 1987. Per una conoscenza generale del fenomeno: La Gerusalemme di San Vivaldo e i Sacri
Monti in Europa, Centro Internazionale di Studi «La Gerusalemme di San Vivaldo», Atti del convegno internazionale di studi, Firenze-Montaione, 11-13 settembre 1986, a cura di S. Gensini, Pisa 1989; Come a Gerusalemme.
Evocazioni, riproduzioni, imitazioni dei luoghi santi tra Medioevo ed Età Moderna, a cura di A. Benvenuti, P. Piatti,
Firenze 2013.
49. Per un panorama generale dell’operazione condotta dal pontefice in questo ambito, E. Boaga, La soppressione innocenziana dei piccoli conventi in Italia, Roma 1971.
50. Così come per la coeva abbazia del Santo Sepolcro a Borgo Sansepolcro in provincia di Arezzo, il cui titolo è
dovuto soltanto alla presenza di alcune reliquie, senza alcuna espressione architettonica imitativa della basilica gerosolimitana (A. Czortek, Un’abbazia, un comune: Sansepolcro nei secoli XI-XIII, Città di Castello 1997; A. Varisco,
Borgo Sansepolcro: città di Cavalieri e pellegrini, Pessano con Bornago 2012).
51. Salvarani, La fortuna del Santo Sepolcro nel Medioevo cit., p. 10.
52. Ivi, p. 24.
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siali. Del resto l’incremento dei pellegrinaggi in Terrasanta a partire dall’XI secolo accompagnò il desiderio di renovatio, e le Crociate, in un certo senso, ne furono il frutto compiuto.
L’autrice rileva come nella dedicazione della ricordata chiesa dei Santi Pietro e Andrea
di Paderborn, espressamente voluta dal vescovo Meinwerk ad similitudinem Sanctae
Jerosolimitanae ecclesiae (25 maggio 1036), si possano riscontrare le caratteristiche
«[dell’]appartenenza dell’edificazione al contesto della riforma in atto nella Chiesa […]
per la scelta di Meinwerk di insediarvi canonici regolari, che avrebbero dovuto condurre
vita comune, in povertà» 53; e noi abbiamo visto come sia l’abbazia di Acquapendente che
quella di Cambrai, in cui il riferimento al Santo Sepolcro era sottolineato in duplice forma,
attraverso il titolo, cioè, e tramite la riproduzione dell’aedicula dell’Anastasis, fossero affidate a monaci benedettini.
Anche Francesco Salvestrini nel ricordato intervento propone alla nostra attenzione un’ipotesi interessante, e cioè che sia Adelmo che la moglie Gisla «partecipassero di quel clima
di riforma e di rinnovamento religioso che nella non lontana Firenze si esprimeva nella denuncia contro il clero simoniaco e concubinario 54 perseguita con tenacia [dai Vallombrosani;
un clima di riforma] che di lì a pochi decenni avrebbe portato anche molti toscani a combattere per la liberazione della tomba di Cristo» 55.
La dedicazione dell’abbazia di Fonte Pinziaria al Santo Sepolcro potrebbe dunque essere la risposta di Adelmo di Suppo e di Gisla al fervore spirituale che fra il X e l’XI secolo
percorse tutta la cristianità. Uno slancio per il quale il termine stesso di ‘riforma’ appare in
ultima istanza inadeguato, poiché, ben più che uno sforzo di sradicare degli abusi, esso si
configurava come l’aspirazione al cambiamento, talvolta drastico, della realtà coeva. La
critica al lusso e alla ricchezza dei monasteri, il biasimo per la mancanza di mortificazione
e di penitenza, la condanna senza appello dell’esibizionismo mondano dei monaci e dei
chierici nonché del loro coinvolgimento negli affari del mondo, il desiderio di una rigorosa ed eroica povertà quale primo passo da compiere per una significativa rinascita, più che
dal recupero totale della regola di san Benedetto sembrano essere stati ispirati proprio dalla
riscoperta della vita apostolica, dal desiderio di imitare l’esistenza della comunità di
Gerusalemme, nella povertà, semplicità e mutua carità; per cui l’intero movimento, almeno in ambiente monastico, viveva e sembrava giovarsi, ma spesso anche soffrire, del dinamismo creato dalla necessità di un’autentica ermeneutica della regola e allo stesso tempo
dal bisogno di oltrepassarla 56.
In proposito mi sembra particolarmente significativo e illuminante il confronto con l’opera svolta da Guglielmo detto da Volpiano, uno dei più grandi esponenti del movimento
53. Ivi, p. 84 n.
54. Ma anche contro il clero regolarmente uxorato: l’obbligo del celibato, infatti, pur imposto agli ecclesiastici di
rito latino con il canone 33 della sinodo di Elvira del 306, non fu osservato che tardivamente, anzi è certo che ancora nell’XI secolo tale pratica non fosse comune, dato che nel 1059, nel 1074 e nel 1075 le sinodi lateranensi comminavano la scomunica per i chierici uxorati e proibivano ai laici l’assistenza alle messe da loro celebrate. Lo stesso fu
decretato ancora nelle sinodi di Melfi del 1089 e di Clermont del 1095, anche se esistettero chierici uxorati fino a
tutto il XII secolo (cfr. H. Leclercq, Célibat, in Dictionnaire d’Archéologie chrétienne et de Liturgie, 2, Paris 1908,
coll. 2802-2832; A.M. Stickler, Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici, Città del Vaticano
1994).
55. Cfr. in questo volume, p. 19.
56. L.J. Lekai, I Cistercensi. Ideali e Realtà, trad. it., Certosa di Pavia 1989, pp. 3-15.
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Sopra e a sinistra (figg. 17-18): interno e pianta della cripta della chiesa di Saint-Bénigne a Dijion. Si noti il doppio
peribolo
cluniacense, relativamente alla riforma dell’abbazia di Saint-Bénigne a Digione. La critica al modo di vivere dei monaci e dei chierici, in nulla dissimile da quello del popolo,
e la necessità di riaffermare l’essenza della vita regolare nell’ascesi e nella solitudine, si
espressero in una restaurazione disciplinare che passò anche attraverso una nuova definizione delle strutture architettoniche abbaziali, soprattutto della sua chiesa che, al pari della
comunità che la officiava, versava in rovina. Guglielmo, infatti, disegnò un nuovo tempio
che comprendeva un impianto basilicale e un edificio rotondo, a tre piani e a doppio peribolo in corrispondenza del capocroce, di cui oggi si conserva soltanto la parte inferiore. Il
richiamo ai monumenti costantiniani di Gerusalemme appare palese 57 (Figg. 17 e 18). La
stessa operazione Guglielmo compì nella fondazione ex novo dell’abbazia di San Benigno
di Fruttuaria, nei pressi di Torino. La chiesa ricevette una reliquia del Santo Sepolcro che
determinò la costruzione di una piccola rotonda nel settore orientale della crociera.
Altri episodi mi sembra possano essere di aiuto per rispondere alla nostra domanda,
sebbene siano tutti avvenuti in luoghi distanti dal territorio sangimignanese e posteriormente agli anni in cui Adelmo e Gisla fondavano l’abbazia di Fonte Pinziaria. Mi riferisco, anzitutto, all’ambito milanese e alla grande contestazione nei confronti del vescovo
57. È tuttavia necessario rilevare la discordanza esistente in proposito tra gli studiosi. W. Schlink, La rotonde de
Guillaume et ses influences, in Guillaume de Volpiano et l’architecture des rotondes, Actes du Colloque organisé
par le Musée archéologique, Dijon, 24-25 septembre 1993, sous la direction de M. Jannet, C. Sapin, Dijon 1996,
pp. 35-43: 35, 39, 43, ha sottolineato i legami con il Pantheon in considerazione del fatto che il giorno della consacrazione, il 13 maggio, e la dedicazione alla Madonna sono gli stessi del celeberrimo tempio romano. La data della
consacrazione del Pantheon è ricordata nel Liber Pontificalis, ed. L. Duchesne cit., I, 317; per la trasformazione del
tempio in chiesa cristiana v. M. Colucci, Bonifacio IV (608-615). Momenti e questioni di un pontificato, Roma 1976,
pp. 25-36. Sul personaggio: Guglielmo da Volpiano. La persona e l’opera, Atti della giornata di studio, San Benigno
Canavese, 4 ottobre 2003, a cura di A. Lucioni, Cantalupa 2005; e anche N. D’Acunto, S. Moretti, Guglielmo da
Volpiano (Guglielmo da Digione), Santo, in Dizionario Biografico degli Italiani, 61, Roma 2004, pp. 46-50.
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locale Guido da Velate guidata da Arialdo da Cucciago, Attone, Landolfo Cotta e dal fratello di questi Erlembaldo, nonché da Anselmo da Baggio, che poi ascenderà al soglio
pontificio col nome di Alessandro II, esponenti tutti del movimento conosciuto come
Pataria 58. Ebbene, all’interno di questo acerrimo contrasto, quando tali accesi riformatori lombardi si stabilirono nella chiesa della Santissima Trinità a Milano – peraltro una
Eigenkirche edificata nel 1027 in memoriam locorum quae Christus Deus nascendo
moriendoque, et interim baptizatus, excruciatusque a judaeis, et novissime caelos adscendens sacravit 59 – compirono una nuova dedicazione mutandone il titolo proprio in quello del Santo Sepolcro 60. A differenza delle due abbazie fondate da Guglielmo da Volpiano,
il tempio ambrosiano non presenta elementi di mimesi con il complesso gerosolimitano,
né la documentazione superstite, del resto molto ridotta, fornisce indicazioni in questa
direzione. In tal caso possiamo legittimamente ritenere che la trasformazione del titolo
dalla Santissima Trinità al Santo Sepolcro abbia una connotazione devozionale e dedicatoria e non topomimetica e che non possa essere letta se non nell’ottica che abbiamo
descritto, ovvero come anelito alla reforma ecclesiae.
Restando in area lombarda, risultano particolarmente significativi i titoli di alcune locali fondazioni dell’Ordine vallombrosano, lo stesso che, nato come radicale sequela della
regola benedettina, sostenne con l’Ordine camaldolese le istanze riformatrici in Italia. Si
tratta di quelli relativi ai monasteri di Santa Maria di Gerico, di Santa Maria di Monte
Oliveto e di Santa Maria di Galilea a Lomello in diocesi di Pavia; e non mancano neppure cenobi dedicati al Santo Sepolcro come quello sempre situato a Pavia e la fondazione di Astino, nell’attuale comune di Bergamo 61. La densità di tali riferimenti alla Terrasanta
nell’area lombarda, laddove furono più vigorose la passionalità e l’entusiasmo per la riforma, non può essere casuale 62.
58. C. Castiglioni, I santi Arialdo ed Erlembaldo e la Pataria, Milano 1944; C. Violante, La Pataria milanese e la
riforma ecclesiastica, I: Le premesse (1045-1057), Roma 1955; La Pataria. Lotte religiose e sociali nella Milano dell’XI
secolo, a cura di P. Golinelli, Milano-Novara 1984; F. Salvestrini, Il monachesimo vallombrosano in Lombardia.
Storia di una presenza e di una plurisecolare interazione, in I Vallombrosani in Lombardia (XI-XVIII secolo), a cura
di F. Salvestrini, Milano-Lecco 2011, pp. 3-51: 7-14; Id., La prova del fuoco. Vita religiosa e identità cittadina nella
tradizione del monachesimo fiorentino (seconda metà del secolo XI), in Storia del cristianesimo fiorentino, a cura di
M.P. Paoli, L. Tanzini, numero monografico di «Annali di Storia di Firenze», in corso di stampa .
59. Tristani Calchi mediolanensis historiographi Historiae patriae liber VII, in Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae … collectus cura et studio Joannis Georgii Graevii, t. II, 1, Leida 1704, col. 191.
60. Ambrosianae Mediolani Basilicae ac Monasterii hodie Cistercensis monumenta … auctore Joanne Petro
Puricello, Mediolani 1645, pp. 478-485; cfr. Salvarani, La fortuna del Santo Sepolcro cit., pp. 134-140.
61. Per questi monasteri si rinvia alle schede redatte da E. Sartoni, Le fondazioni vallombrosane della regione
Lombardia. Repertorio, in I Vallombrosani in Lombardia cit., pp. 75-90 (Santo Sepolcro, poi San Lanfranco); 102-105
(Santa Maria di Gerico); 106-110 (Santa Maria di Monteoliveto); 111-121 (Santa Maria di Galilea); 130-145 (Santo
Sepolcro di Astino). Cfr. anche F. Salvestrini, Il monachesimo vallombrosano e le città. Circolazione di culti, testi, modelli architettonici e sistemi organizzativi nell’Italia centro-settentrionale (secoli XII-XIV), in Circolazione di uomini e scambi culturali tra città (Secoli XII-XIV), Atti del XXIII Convegno internazionale di studi, Centro Italiano di Studi di Storia
e d’Arte, Pistoia, 13-16 maggio 2011, Roma 2013, pp. 433-470.
62. Intenti analoghi ispirarono la titolazione di fondazioni relative anche ad altri Ordini come ad esempio quello
cistercense, che raccolse gli ideali della riforma monastica nel secolo XII, cosicché in Francia, culla di questa obbedienza
regolare, troviamo l’abbazia di Bithaine nella diocesi di Besançon, in cui si è soliti vedere un riferimento a Betania, quella di Mont de Sion, a Marsiglia, quella di Notre-Dame d’Olivet nella diocesi di Bourges e quella di Mont des Olives in
Alsazia (M.A. Dimier, Clarté, paix et joie. Les beaux noms des monastères de Cîteaux en France, Lyon 1944, pp. 3638). Per quanto riguarda l’Italia, fra le numerose fondazioni cistercensi troviamo due abbazie intitolate a Santa Maria
di Nazareth, una a Treviso e l’altra a Piacenza, l’abbazia di Santa Maria di Galilea di nuovo a Piacenza, di Santa Maria
di Monte Oliveto a Castellarquato ancora nel piacentino, di Santa Maria di Betlemme a Foligno, e non manca nemmeno l’intitolazione al Santo Sepolcro di un’abbazia a Sampierdarena presso Genova (L. Dal Prà, Abbazie cistercensi
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Resta da domandarsi se il fervore religioso della fine del X secolo, protrattosi poi e
propagatosi nell’XI, che pure ravvivò e incoraggiò la propensione dei laici a fondare
monasteri di famiglia – come è, appunto, il caso di Adelmo di Suppo e di Fonte Pinziaria –,
ma anche pievi e altre chiese in cura d’anime 63, abbia coinvolto gli stessi aristocratici e
quindi i cenobi e le chiese da loro istituite. Anche in questo caso la risposta risulta affermativa. È ormai assodato che anche le chiese ‘private’ parteciparono a tale movimento,
se non altro perché l’integrità dei costumi dei monaci e dei chierici appariva funzionale
all’efficacia delle loro preghiere per i fondatori / benefattori. In quasi ogni cartha fundationis si chiedeva di pregare omni tempore die noctuque per le anime dei patroni laici
affinché fosse loro concesso di ottenere il perdono dei peccati: «con un esercito di monaci devoti – scriveva Wilhelm Kurze – si pretendeva di invadere il cielo» 64.
Le famiglie eminenti fondavano monasteri in cui doveva condurre una corretta vita
regolare; e il recupero della vita vere religiosa fu in realtà favorito proprio da quei domini laici che in passato una certa storiografia individuava come gli artefici della sua decadenza. Non riteneva forse Oddone di Cluny che anche i laici potessero svolgere un ruolo
riformatore nella Chiesa, attraverso un retto comportamento e la sottomissione ai precetti della legge divina e ai consigli di uomini spirituali? 65; e non è forse vero che Pier
Damiani, pur combattendo apertamente la corruzione del clero, non si sia preoccupato
minimamente del problema dell’investitura laica? 66 Siamo a conoscenza del fatto che talvolta i fondatori si riservavano la facoltà di allontanare dal monastero i religiosi indegni
e di sostituirli con altri migliori, nonché, in certe circostanze, addirittura la facoltà di
rimuovere un abate simoniaco 67. Esiste una serie di precedenti più che illustri. Innanzitutto
proprio a Cluny, simbolo stesso della riforma monastica e suo centro propulsore. All’inizio
del X secolo Guglielmo duca di Aquitania, marchese di Gotia, conte d’Alvernia, del Berry,
di Mâcon, del Limosino e di Lione, un principe ‘carolingio’ 68 passato alla storia come
Guglielmo il Pio, ob amorem Dei et salvatoris nostri Jhesu Christi trasferì i beni di sua
in Italia, Repertorio, in Lekai, I Cistercensi. Ideali e Realtà cit., pp. 541-587). A Santa Maria di Monte Oliveto era
dedicata anche l’abbazia cistercense di Lenno, in provincia di Como, conosciuta come Santa Maria di Acquafredda (G.
Picasso, Tra umanesimo e ‘devotio’. Studi di storia monastica raccolti per il 50° di professione dell’Autore, a cura di
G.C. Andenna, G. Motta, M. Tagliabue, Milano 1999, p. 119 n).
63. Kurze, Monasteri e Nobiltà cit., p. 314.
64. Ivi, p. 304.
65. Maiolo, abate di Cluny, papa mancato. Siro il Monaco, a cura di G. Spinelli, D. Tuniz, [Milano-Novara] 1998,
p. 17. Oddone di Cluny scrisse la vita di Gerardo d’Aurillac esattamente con questo intento: Sancti Odonis abatis cluniacensis II de vita Sancti Geraldi auriliacensis comitis libri quatuor, in PL, 122. coll. 639-710.
66. Penco, La Chiesa nell’Europa medievale cit., p. 70.
67. Tali, ad esempio, sono i casi di due abbazie nel territorio senese, quella di San Salvatore a Fontebona fondata nell’867 da Winigis conte di Siena e meglio conosciuta come abbazia della Berardenga nell’attuale comune di
Castelnuovo Berardenga, e quella, con lo stesso titolo, fondata dalla contessa Ava e dai suoi figli nel 1001 all’Isola,
nei pressi di Monteriggioni e nota come Badia a Isola (Kurze, Monasteri e nobiltà cit., p. 315).
68. Guglielmo il Pio (ca. 860 /865-918) era legato da vincoli di sangue alla stirpe dei Carolingi in quanto discendente diretto – bisnipote – di un omonimo Guglielmo fondatore dell’eremo di Gellone, quello stesso che, una volta
canonizzato, da lui fu detto di Saint-Guillaume-du-Désert. Egli era figlio a sua volta di Teodorico I conte di Autun e
di Aldana figlia di Carlo Martello (P. Riché, I Carolingi. Una famiglia che ha fatto l’Europa, Firenze 1988, tav. XXIII).
Benché la paternità e la maternità di Guglielmo di Gellone ci siano comunicati da lui stesso proprio attraverso i documenti di fondazione dell’eremo sopra ricordato (R. Thomassy, Critique des deux Chartes de fondation de l’abbaye
de Saint-Guilhem-du-Désert, Bibliothèque de l’École des Chartes, serie I, tomo II, Paris 1840-44, p. 179), sulla paternità di Aldana gli storici non sono concordi, anche se le prove contrarie non si sono mai dimostrate convincenti. Del
resto lo stesso Eginardo indica come Teodorico di Autun fosse legato da vincoli di parentela a Carlo Magno. Scrive,
infatti, che nel 782 il sovrano inviò i suoi tre missi Adalgiso camerario et Geilone Comite stabuli et Worado Comite
palati a incontrare in […] Saxonis […] Theodericus propinquus regis (Einhardi Annales 782, MGH, Scriptores, I,
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proprietà dalla propria signoria a quella dei santi apostoli Pietro e Paolo con l’espresso
fine di edificare su di essi un’abbazia in onore dei due apostoli sottoposta alla regola benedettina (ut in Clugniaco in honore sanctorum apostolorum Petri et Pauli monasterium
regulare construatur, ibique monachi juxta regulam beati Benedicti viventes congegentur), concedendo altresì ai monaci la facoltà di eleggere il loro abate senza interferenze né
sue né di qualsivoglia altra autorità (habeant idem monachi potestatem et licentiam quemcunque sui ordinis […] eligere maluerint abbatem adque rectorem, ita nec nostra nec alicui potestatis contradictione contra religiosam duntaxat electionem inpediantur) 69. Alla
luce di quanto letto, è ampiamente condivisibile ciò che afferma Clifford Hugh Lawrence,
e cioè che Cluny dovette proprio al duca «il tratto caratteristico della sua costituzione»,
quello «che le permise di conservare la propria identità mentre forniva la base su cui doveva essere costruita la sua futura grandezza» 70.
Possiamo trovare anche altri esempi. Fu grazie all’iniziativa di due patroni laici che
qualche anno dopo, Oddone, abate di Cluny, poté intraprendere la riforma di due celebri abbazie, quella di Romainmôtier, sulle pendici del Giura svizzero, e quella di Fleury,
sulla Loira: fu infatti Adelaide, sorella di Rodolfo I di Borgogna e moglie di Riccardo il
Giustiziere a chiamare a Romainmôtier il grande abate 71; e Fleury passò nell’orbita cluniacense per il desiderio del suo proprietario, Elisardo conte di Orléans, anch’egli legato
alla casa di Borgogna. Questi, infatti, vassallo del re Rodolfo e fratello di Adelaide, ne
aveva ricevuto in dono Fleury come ricompensa per i servigi resi. In quanto ammiratore
di Cluny Elisardo non aveva indugiato nell’affidarne la riforma a Oddone 72.
In quegli stessi anni o in un periodo immediatamente successivo fu sotto l’attivo patronato di Arnolfo I il Grande, conte di Fiandra, che Gerardo di Brogne ristabilì l’osservanza benedettina prima in due abbazie di Gand, quella di Saint-Bavo e quella di San Pietro
sul Mont Blandin, quindi nei monasteri di Saint-Bertin (di essa il conte Arnolfo fu abate
laico, come lo furono il figlio Baldovino III e il nipote Arnolfo II) e di Saint-Amand, nell’attuale dipartimento francese del Pas-de-Calais 73.
Nella penisola iberica la diffusione della riforma, attraverso la penetrazione cluniacense, fu possibile grazie all’entusiasta patronato di Sancho III Garcès el Mayor, re di
Pamplona e conte di Aragona, nonché, qualche decennio dopo, di Alfonso VI re di
Castiglia e Leόn. Nel 1027 Sancho inviò i monaci di San Juan de la Peña a Cluny per
p. 163), e l’ipotesi più verosimile e accreditata è che tale consanguineità derivi proprio da Aldana (cfr. anche C.
Settipani, P. van Kerrebrouck, La préhistoire des Capétiens 481-987, I, Mérovingiens, Carolingiens et Robertiens.
Nouvelle histoire généalogique de l’auguste maison de France, Villeneuve d’Ascq 1993, p. 173). Anche la moglie di
Guglielmo il Pio Engelberga (ca. 877-917) era di sangue carolingio: se il padre di lei era infatti Bosone re di Provenza
(† 887), la madre era Ermengarda (852/855-896) figlia dell’imperatore Ludovico II il Giovane (ca. 825-875) e quindi nipote di Lotario (ca. 795- 855) bisnipote di Ludovico il Pio (778-840) e infine trisnipote dello stesso Carlo Magno
(748-814). Per questa genealogia cfr. Riché, I Carolingi cit., tavv. VI, VIII, XII, XXIII.
69. Recueil des chartes de l’abbaye de Cluny, éd. par A. Bernard, A. Bruel, I (802-954), Collection de documents
inédits sur l’histoire de France. Première série. Histoire politique, Paris 1876, p. 127. Fondamentale per la conoscenza della celebre abbazia e del movimento riformatore che da essa si generò risulta il saggio di G.M. Cantarella, I monaci di Cluny, Torino 1997.
70. C.H. Lawrence, Il monachesimo medievale. Forme di vita religiosa in Occidente, trad. it., Cinisello Balsamo
1993, p. 126.
71. Cantarella, I monaci di Cluny cit., pp. 59-60.
72. Lawrence, Il monachesimo medievale cit., pp. 138-139.
73. Ivi, p. 126.
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imparare l’osservanza della regola e introdurla nella loro abbazia. Per desiderio del re
la vita monastica fu riformata anche nelle abbazie di San Pedro de Cardeña e San
Salvador de Oña in Castiglia e di Santa Maria de Hirache, San Millán de la Cogolla,
San Martín de Albelda e infine e soprattutto San Salvador de Leyre, ovvero il cenobio
della dinastia reale 74. Nel regno di Castiglia e Leόn la riforma monastica partì dall’abbazia di Sahagún, ma solo dopo che Alfonso VI ebbe obbligato quei monaci ad accettare le consuetudini cluniacensi, ivi compreso il rito romano, e un monaco proveniente dall’abbazia borgognona come abate 75.
Lo stesso possiamo dire per quanto riguarda l’Inghilterra. Cluny iniziò a penetrarvi dopo
la conquista normanna, ma l’iniziativa venne dal re e dall’aristocrazia anglo-normanna. La
fondazione del priorato di Lewes, che si configurò come la prima casa cluniacense
d’Oltremanica, fu il risultato dell’iniziativa e dell’insistenza di Guglielmo di Warenne, il
primo conte del Surrey di origine normanna, e di sua moglie Gundrada, i quali, durante
un viaggio nel continente, avevano sostato nell’abbazia borgognona ed erano rimasti
impressionati dall’accoglienza ricevuta nonché affascinati dallo splendore della liturgia che
ivi si celebrava 76.
Diversa dai precedenti, ma più pertinente al contesto di fondazione della Badia Adelmi
risulta l’azione riformatrice del sopra ricordato Guglielmo da Volpiano, allievo di Maiolo
quarto abate di Cluny. Guglielmo propugnò, infatti, in un diversificato ed esteso ambito
geografico – i monasteri che gli furono affidati o che fondò ex novo si trovavano in
Borgogna, in Normandia, in Lorena, nell’Île-de-France, nel Canavese e nella Sabina – una
singolare e peraltro riuscita integrazione fra riforma monastica in senso rigorista e penitenziale e radicamento patrimoniale delle famiglie aristocratiche. Egli non toccò, infatti,
lo statuto di Eigenkloster proprio ai monasteri di cui gli fu affidata la riforma, proponendosi piuttosto come un patronus con compiti di visita e di controllo spirituale 77.
Sulla stessa linea si pone il successivo affidamento della quasi totalità di questo tipo di
monasteri agli ordini di Camaldoli e Vallombrosa, spesso da parte delle famiglie fondatrici – un dato che, appare necessario precisare, non è quello di Badia Adelmi, per cui questo
affidamento venne decretato dal vescovo di Volterra, cui l’abbazia era stata donata a seguito dell’estinzione della famiglia di Adelmo di Suppo. Tali scelte dei patroni se da un lato
dichiaravano il fallimento del sistema di controllo esercitato dalla consorteria fondatrice,
per altro verso confermavano la volontà di proseguire lungo la strada di rigore esemplare
della vita religiosa.
Riprendendo dunque il nostro discorso sulla Badia Adelmi, sembra di poter trovare
un’ulteriore, seppur tenue, prova circa la motivazione dell’intitolazione al Santo Sepolcro
nella charta fondationis / dotationis del monastero. Poiché il documento è stato fatto oggetto di un’attenta disamina da parte di Laura Neri in questo stesso volume, mi limiterò alla
citazione dell’escatocollo, laddove si contiene la minaccia di celesti sanctiones per coloro
che non avessero adempiuto la scrupolosa defensio dell’abbazia:
74. Cantarella, I monaci di Cluny cit., pp. 143-144.
75. Lawrence, Il monachesimo medievale cit., p. 137.
76. Ivi, pp. 139-140.
77. N. D’Acunto, L’età dell’obbedienza. Papato, Impero e poteri locali nel secolo XI, Napoli 2007, pp. 13-15.
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Badia Elmi
Et super ec omnia veniad super eum qui oc facere presumserit, maledictjionem da trecentum decem et octo sanctorum patrum et de omnes sancti Agneli et Arhaneli et de omnes
troni et dominatjiones, principatus et potestates et de omnes virtutes celorum, fiant participes eos cum Dafan et Abiron, qui aperuit terra os suum et deglutivit eos, sit participes
eos cum Iudas qui Cristum tradidit, sit separatus a consortjio omnium iustorum, ut in die
iudicii non resurgant in numero illorum...
Il riferimento biblico alla triste sorte di Giuda Iscariota che, spinto dalla vergogna e
dal rimorso, in preda a una feroce disperazione, andò a impiccarsi (Mt 27, 3-10; At 1,
18), e a Datan e Abiron (Abiran), due fratelli di cui si parla nel libro dei Numeri, i quali
si ribellarono a Mosè e Aronne nel deserto e per questo dirupta est terra sub pedibus
eorum et aperiens os suum devoravit illos cum tabernaculis sui et universa substantia
eorum: descenderuntque vivi in infernum operti humo et perierunt de medio multitudinis (Num 16, 32-33), è comune a numerosi documenti di questo tipo 78. Più originale appare il riferimento ai Trecentodiciotto Padri: si tratta del numero dei vescovi che
furono presenti al concilio tenutosi al palazzo imperiale di Nicea nel 325, i quali formularono e sottoscrissero il Simbolo che fu detto appunto niceno, il Credo della messa.
Anche se in realtà non si sa esattamente quanti vescovi abbiano partecipato all’assise –
gli scrittori coevi o di epoca immediatamente successiva oscillano tra l’indicazione di
duecentocinquanta e trecentodiciotto, ma non è questa la sede per risolvere la dotta
disquisizione 79 – mi sembra significativo, in primo luogo, che l’invocazione della maledizione dei Trecentodiciotto Padri si riscontri soprattutto e con altissima frequenza in
documenti dell’area dalmata o ungherese e, per quanto concerne l’Italia, in atti calabresi o sardi, quindi quasi esclusivamente nelle zone di influenza bizantina 80; e che, fra
le comunità cristiane d’Oriente, sia diffuso il culto liturgico dei padri conciliari niceni,
celebrato in modo particolare durante la domenica dei Trecentodiciotto Padri, la VII
domenica dopo la solennità di Pasqua. Questi ultimi fatti, al pari dell’intitolazione al
Santo Sepolcro, ci conducono ancora una volta nel clima della riforma della Chiesa.
Wilhelm Kurze, infatti, formulava l’ipotesi che prodromi dell’«ondata di movimento
spirituale che percorse tutta l’Italia» alla fine del X secolo e all’inizio del successivo,
78. Così M.L. Ceccarelli Lemut, I conti Gherardeschi e le origini del monastero di S. Maria di Serena, in Nobiltà
e chiese nel Medioevo e altri saggi. Scritti in onore di Gerd G. Tellebach, a cura di C. Violante, Roma 1993, pp. 4775: 50 e n.; Ead., Venerabilis sanctorum Dei locus. Le origini e le prime vicende del monastero, in In claustro Sanctae
Mariae. L’abbazia di Serena dall’XI al XVIII secolo, a cura di A. Benvenuti, M.L. Ceccarelli Lemut, Pisa 2009, pp.
121-138: 127 e n.
79. Atanasio, che fu presente, nella Historia Arianorum, 2, nella Apologia contra Arianos, 23, e nel De Synodis,
43, afferma la presenza di trecento vescovi, ma nella Epistula ad Afros episcopos, 2, scrive trecentodiciotto. Eusebio
di Cesarea nella Vita Constantini, 3, 8, parla di duecentocinquanta vescovi e così Eustazio di Antiochia in una lettera
citata da Teodoreto di Cirro, Historia Ecclesiastica, 1, 8, 1, il quale, tuttavia, in 1, 7, 3, contraddice Eustazio e se stesso riferendo di trecentodiciotto padri. Rufino di Concordia nella sua Historia Ecclesiastica, 1, 1-2 menziona di nuovo
trecentodiciotto prelati, e così Socrate Scolastico nella Historia Ecclesiastica, 1, 8, 31, Epifanio di Salamina nel Panarion,
69, Ambrogio di Milano nel De Fide, Prologo, 3, e quindi Gelasio di Cizico nella Historia Concilii Nicaeni, 2, 7. Per
i vari brani si rimanda a PG, voll. 20; 25; 26; 41; 67; 82; 85; e PL, voll. 16; 21. Le ragioni del favore accordato al
numero trecentodiciotto non sono chiare. Forse si trattava di una cifra simbolica e gli storici ecclesiastici vollero fare
un riferimento ai trecentodiciotto servitori di Abramo con i quali il patriarca liberò il nipote Lot da Chedarlaomer e
dai re suoi alleati (Gen 14, 14).
80. P. Battifol, Chartes byzantines inédites de Grand Grèce, «Mélanges d’Archéologie et d’Histoire», 10, 1890,
pp. 98-111; G. Lucio, V. Brunelli, Storia del regno di Dalmazia e di Croazia, Trieste 1983, pp. 147, 200; cfr. anche
Imprecationes libris adscriptas … in Academia Lipsiensi publice recensebit praeses M. Gottlob Henricus Pipping
respondente Iohanne Gottlieb Hartwig, Lipsiae 1721, p. 35.
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Dedicationes e Imitationes del Santo Sepolcro: l’esempio di Badia Adelmi
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potessero essere rintracciati proprio nell’ambiente bizantino: «per lo meno – scriveva
lo storico renano – si ripresero di là forme in cui si poteva esprimere emozione religiosa personale, ad esempio fuga dal mondo e vita eremitica», dal momento che «tutti i
famosi eremiti del tempo [avevano] avuto contatti con zone d’influenza bizantina:
Marino viveva nelle paludi tra Ravenna e Venezia, il suo celebre discepolo Romualdo
era di Ravenna; Nilo era attivo in Calabria, Bononio ebbe contatti con il mondo bizantino tramite un viaggio in Oriente durato alcuni anni» 81. A san Bononio peraltro ricorse Ugo il Grande, marchese di Toscana – è nota l’inclinazione di questo principe e prima
di lui quella della madre, la marchesa Willa, per i movimenti religiosi e sono noti i suoi
stretti contatti con esponenti di alta spiritualità – per la riforma dell’abbazia di San
Michele di Marturi presso Poggibonsi, che il marchese aveva riedificato 82. Infine ricordiamo che Giovanni Gualberto fondatore dei Vallombrosani assunse per volontà dei
confratelli il titolo di archimandrita 83, un titolo equivalente a quello di abate ma usato
prevalentemente nelle chiese cristiane d’Oriente.
Come molte esempi di chiese e monasteri con riferimento al Santo Sepolcro, a
Gerusalemme, a Sion, a Betania, a Gerico o al Monte degli Ulivi, più che un signaculum
indicativo della direzione da percorrere per giungere in Terrasanta, la titolazione dell’abbazia di Fonte Pinziaria al Santo Sepolcro sembrerebbe dunque alludere al desiderio dei
fondatori, Adelmo di Suppo e Gisla, così come dell’abate e dei monaci che ricevettero la
donazione, di tornare alla Ecclesiae primitivae forma, e quindi a una loro condivisione
dei valori espressi dal composito movimento di rinnovamento spirituale e di riforma ecclesiale che interessò la Chiesa nell’XI secolo.
In ambito monastico già Smaragdo, abate di Mont Saint-Michel (IX secolo), nel suo
commento alla regola di san Benedetto era giunto a dichiarare che il monachesimo era
nato in epoca apostolica: coenobitarum disciplina a tempore praedicationis apostolicae
sumpsit exordium 84. Due secoli dopo Rupert di Deutz si spingeva fino a dire che la Chiesa
stessa aveva avuto inizio dalla vita monastica: Si vis omnia Scripturarum consulere testimonia, nihil aliud videtur dicere quam Ecclesiam inchoasse a vita monastica 85; mentre
Pietro il Venerabile poteva domandare all’amico Bernardo di Chiaravalle: Quae namque
est vita monachia, nisi quae tunc dicebatur apostolica? 86
Lo scopo dichiarato della riforma era il ripristino della disciplina e dell’ordine vigenti
nella comunità cristiana delle origini. Da qui la particolare importanza di un appello che
partiva dal presente ma si rivolgeva a un passato già remoto, nella convinzione che la scelta monastica fosse la perfetta realizzazione della ‘vita apostolica’ così come ce la descrive
Luca negli Atti degli Apostoli: erant autem perseverantes in doctrina apostolorum et communicatione fractionis panis et […] omnis etiam qui credebant erant pariter et habebant
81. W. Kurze, Monasteri in Toscana e monachesimo in Europa, in Id. Scritti di Storia toscana cit., pp. 165-188:
180-181.
82. Id., Die Gründung des Kloster Marturi im Elsatal, in QFIAB, 49, 1969, pp. 239-272, trad. it. in Id., Monasteri
e nobiltà nel Senese cit., pp. 165-201. I documenti sono stati pubblicati alle pp. 186-199.
83. Cfr. F. Salvestrini, Disciplina caritatis. Il monachesimo vallombrosano tra medioevo e prima età moderna,
Roma 2008, pp. 219-220.
84. Smaragdi abbatis Commentaria in Regula Sancti Benedicti, I, in PL, 102, col. 724.
85. De vita vere apostolica dialogorum libri V, auctore Ruperto Abbate Tuitiensi, IV, 4, in PL, 170, col. 644.
86. Petri Venerabilis Epistolarum libri sex, I, 28, in PL, col. 118.
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Badia Elmi
omnia communia; possessione set substantias vendebant et dividebant illa omnibus prout
cuique opus erat (Act. 2, 42-45).
In quest’ottica il monastero era esso stesso Gerusalemme, e Bernardo di Chiaravalle,
un secolo dopo la fondazione di Badia Adelmi, avrebbe potuto scrivere ad Alessandro
vescovo di Lincoln di come Filippo, uno dei canonici di questi diretto in Terrasanta, una
volta giunto a Clairvaux si fosse accorto di essere già giunto a destinazione, e come avendo questi compreso di aver trovato nel monastero la città santa che cercava, non avesse
potuto che stabilirvisi indossando l’abito cistercense, diventando, cioè, nello stesso tempo
monachus et hierosolymita, cittadino a tutti gli effetti della vera Gerusalemme 87.
87. Sancti Bernardi abbatis Claraevallensis Epistola LXIV ad Alexandrum Lincolniense Episcopum, in PL, 182,
col. 169-170.
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La badia di Adelmo e i Camaldolesi nell’alta Valdelsa (secoli XIII-XV).
I rapporti con San Gimignano*
Raffaello Razzi
1. Premessa
Agli inizi del secolo XIII la badia di Adelmo si trovava al centro di un piccolo Verband
camaldolese che dispiegava la sua presenza religiosa, economica e culturale su ampi territori dell’alta Valdelsa.
I monaci dell’Ordine di san Romualdo rappresentarono, fin dall’inizio della loro esperienza di vita nella zona, la più coerente adesione alla regola benedettina, ricevendo numerose e consistenti donazioni 1. Accanto ai monasteri di Adelmo e di San Pietro a Cerreto,
entrambi sorti intorno alla metà dell’XI secolo sulla riva sinistra dell’Elsa 2, nacquero successivamente il cenobio di Mucchio e quello di San Mariano, costituendo quello che sarà
in pratica un unico insediamento dei religiosi casentinesi, anche se formato da monasteri
distinti, ciascuno con una propria organizzazione interna e con specifici possedimenti fondiari. Mentre i tre istituti maggiori (Badia Elmi, San Pietro a Cerreto e San Pietro a
Mucchio) ebbero la loro origine da atti di donazione che prevedevano la costituzione di
monasteri, la fondazione di San Mariano sembra derivata dall’evoluzione di questa diffusa presenza romualdina sul crinale dell’alta Valdelsa. L’esistenza, documentata, intorno al monastero di San Mariano di vari altri enti di influenza camaldolese, fenomeno che,
come vedremo, non si nota per gli altri cenobi, rafforza questa ipotesi.
Le distanze minime che separavano i vari insediamenti in questione, e soprattutto la continuità dei rapporti intessuti fra loro attraverso procure incrociate, interessi comuni per le
proprietà fondiarie e per i mulini, atti d’acquisto di beni e terreni effettuati da abati di monasteri diversi da quello proprietario o rogati negli altri cenobi confratelli, fanno sì che si possa
*Ringrazio l’amico Silvano Mori per l’indicazione di alcuni documenti inediti tratti dal fondo Notarile
Antecosimiano dell’Archivio di Stato di Firenze.
1. Sull’Ordine camaldolese durante il periodo in esame cfr. G. Vedovato, Camaldoli e la sua congregazione dalle
origini al 1184. Storia e documentazione, Cesena 1994 (per il passaggio di Badia Elmi ai Camaldolesi, pp. 46-50); C.
Caby, De l’érémitisme rural au monachisme urbain. Les Camaldules en Italie à la fin du Moyen Âge, Rome 1999. In
rapporto alla sua distribuzione insediativa, F. Salvestrini, Camaldolesi e Vallombrosani nell’Italia medievale. Modalità
di insediamento e distribuzione geografica a confronto, in Architettura eremitica. Sistemi progettuali e paesaggi culturali, Atti del Terzo Convegno Internazionale di Studi, Camaldoli, 21-23 settembre 2012, a cura di S. Bertocci e S.
Parrinello, Firenze 2012, pp. 505-509.
2. Ripercorriamo brevemente i momenti principali della formazione delle abbazie camaldolesi di Adelmo e San Pietro
a Cerreto. Nel 1034 per volontà di Adelmo di Subbio vennero eretti presso Fonte Pinzaria una cappella ed un monastero dedicati a Santa Maria e al Santo Sepolcro [Volterra, Archivio Vescovile (d’ora in poi AVV), Pergamene, 1034 ottobre 2]. Nel 1042 questi ed altri beni furono donati al vescovo di Volterra da Pietro di Amizio, probabile esecutore testamentario di Adelmo (AVV, Pergamene, 1042, maggio 24). Nel 1059, nel monastero del Santo Sepolcro, venne donata
all’eremo di San Salvatore di Camaldoli la chiesa di San Pietro a Cerreto con tutte le sue pertinenze [Firenze, Archivio di
Stato (d’ora in poi, ASF), Diplomatico, Camaldoli, 1059, ottobre 22] intorno alla quale, circa due anni dopo, sorse il
primo monastero camaldolese in Toscana posteriore alla morte di san Romualdo. Nel 1073 il vescovo di Volterra
Erimanno, che aveva fino ad allora governato il «monastero di Pulicciano», visto che i monaci avevano «declinato dalla
Regola di san Benedetto», poneva il chiostro sotto la direzione spirituale dei Camaldolesi (ASF, Diplomatico, Camaldoli,
1073, agosto 6). Nel documento il presule riservava a sé e ai suoi successori l’esazione annua di un bisante come memoria della dipendenza episcopale, prevedendo anche che, se l’abate o i monaci del detto istituto fustigante diabolo mediocres fuerunt, il priore di Camaldoli aveva facoltà di sostituirli, come anche il vescovo stesso.
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Badia Elmi
Fig. 1. I quattro monasteri camaldolesi (con ellisse) e loro zone di influenza diretta; località facenti parte della zona
di influenza del monastero di San Mariano (con il pentagono); località facenti parte del ‘distretto’ della Badia Elmi
(sottolineate) (rielab. dalla carta allegata a Rationes decimarum Italiae cit.)
parlare dell’esistenza di qualcosa di molto simile ad un ‘distretto’ camaldolese dell’alta
Valdelsa, nell’ambito del quale i singoli monasteri svolsero una funzione talvolta intercambiabile. Quando poi i due chiostri minori di San Mariano e Mucchio videro ridursi la
loro popolazione fino a scomparire, vedremo come il ruolo di capofila delle fondazioni
camaldolesi presenti nella zona sia stato assunto dalla badia di Adelmo, nonché, successivamente, intorno alla fine del XIV secolo, dal monastero di San Pietro a Cerreto.
Nel 1652 la soppressione innocenziana dei piccoli monasteri porrà definitivamente
termine al ruolo religioso anche dei due maggiori cenobi, ma lascerà inalterata la vasta
proprietà fondiaria che ciascun insediamento aveva gestito e che, con la soppressione
napoleonica del 1808, vedremo tornare a far capo alla Badia Elmi, in virtù della funzione di centro dell’attività fondiaria ed agricola comune (‘fattoria’) che il monastero
aveva assunto intorno agli inizi del Quattrocento. Si tratta di un dato che non riscontriamo in rapporto agli altri Ordini regolari stanziati in Valdelsa a partire dalla metà
del XIII secolo. I conventi francescani di Colle, Poggibonsi, San Gimignano e
Castelfiorentino, pur essendo anch’essi situati a breve distanza l’uno dall’altro, non
ebbero mai fra loro rapporti così frequenti come quelli camaldolesi. Anche i cenobi agostiniani, presenti, del pari, a Colle, San Gimignano e Certaldo, vissero ciascuno proprie
distinte vicende.
Queste considerazioni, che vedremo dispiegarsi dall’esame che faremo dei monasteri di
Mucchio, San Mariano ed Elmi, si fonderanno con altre più propriamente geografico-
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La badia di Adelmo e i Camaldolesi nell’alta Valdelsa (secoli XIII-XV)
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politiche le quali, per ciascuno dei cenobi esaminati, vedremo intersecarsi continuamente con la formazione e l’espansione del comune di San Gimignano.
L’abbazia di Adelmo si trovava sul percorso della via Francigena di fondovalle, fra i
confratelli monasteri di San Pietro a Cerreto e San Pietro a Mucchio, nella zona dalla quale
partiva la strada che collegava lo storico percorso Romeo e quello che qui giungeva da
Firenze col crinale che divideva la Valdelsa dalla Valdera, sul quale si trovava il chiostro
di San Mariano. In quest’area la strada proveniente dall’Elsa, dopo aver percorso la costa
di San Vittore e intersecato la Francigena collinare che veniva da Cellole (percorso di
Sigeric), si congiungeva con quella proveniente da San Gimignano e diretta al porto di
Pisa e a Volterra. Tutte le zone che vedevano la presenza camaldolese si trovavano, pertanto, in territori importanti per i disegni espansionistici di San Gimignano, ambizioso
centro che conosceva allora la stagione del suo maggiore sviluppo economico e sociale 3.
L’interesse di quel comune per il castello di Pulicciano, ove si trovava la badia di Adelmo,
fu quindi costante, sia per la posizione geograficamente essenziale che tale comunello occupava, sia in quanto sede di quello che venne progressivamente identificandosi come il centro dei Camaldolesi nell’alta Valdelsa.
Il presente lavoro prende in esame la vicenda dei due monasteri minori, Mucchio e San
Mariano, per poi passare ad esaminare lo sviluppo del ben più importante cenobio di
Badia Elmi e il ruolo propulsore da esso avuto nel ‘distretto’ camaldolese valdelsano fino
alla sua sostituzione nella funzione di ‘capofila’ da parte della vicina Badia a Cerreto.
2. Il monastero di Mucchio
In data 2 luglio 1085 Bulgarello di Rodolfo ed Ermingarda di Guititi sua moglie, Teberto
di Guido e Giolitta figlia di Brittulo sua moglie, Lamberto di Petrone e sua moglie Ciderna
figlia di Petrone, Aldibrando di Gerardo e la consorte Offemia figlia di Rusticho, Guido
di Petrone e Ragineri di Gerardo donavano alla chiesa ed eremo di San Salvatore a
Camaldoli le porzioni di proprietà que ad ipsos pertinebant per successionem vel per ius
conquisitum di cinque chiese: eccl. S. Petri sito Funtiano et eccl. S. Ilarii prope castellum
quod vocatur Collemusculi et eccl. S. Agneli Michaelis sito Letitiano et eccl. S. Petri sito
Libbiano et eccl. S. Cerbonii sito Piaggia. Questo gruppo familiare dell’entourage cadolingio 4 donava i beni descritti promettendo, sotto pena del pagamento di xx lire d’argento all’eremo di Camaldoli, di non ‘molestare’ in alcun modo il nuovo cenobio per i beni
a lui lasciati, inserendo però nell’atto una precisa condizione:
in integrum in ipsa sancta ecclesia et monasterio Sancti Salvatoris dare et tradere atque
offerre previdimus ea conditione ut suprascripta ecclesia Sancti Petri sito Funtiano usque
in perpetuum monasterium esse debeant (sic) et firmum et stabile permanead semper 5.
3. Cfr. E. Fiumi, Storia economica e sociale di San Gimignano, Firenze 1961, rist. anast. a cura della Società Storica
della Valdelsa, 1993.
4. Si trattava di signori legati al conte Guglielmo Bulgaro dominus di Fucecchio [cfr. A. Duccini, Il castello di
Gambassi. Territorio, società, istituzioni (secoli X-XIII), Castelfiorentino 1998, pp. 67-100].
5. ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1085, luglio 2. L’atto risulta rogato dal notaio Guido in Funtiano, territurio
Voloterense [Cfr. G.B. Mittarelli, A. Costadoni, Annales Camaldulenses Ordinis Sancti Benedicti, Venetiis 1755-73, III
(1758), XXXVI, p. 29 e App., XLIX, 73; Regesto di Camaldoli, a cura di L. Schiaparelli e F. Baldasseroni, Regesta
Chartarum Italiae 5, I, Roma 1907, pp. 516, 517, ove però non compare l’obbligo della costituzione di un monastero
presso la chiesa di San Pietro a Funtiano]. Le zone donate erano parte di un più grande nucleo territoriale soggetto all’autorità della famiglia cadolingia originaria, il quale, per successive ripartizioni ereditarie, aveva portato i discendenti ad
essere proprietari di terreni anche molto distanti fra loro, come ad esempio Libbiano rispetto a Funtiano e Collemusculi.
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Badia Elmi
Le chiese di San Michele Arcangelo a Letitiano e San Cerbone alla Piaggia non emergono da altra documentazione e non sappiamo localizzarle. Esiste invece ancora oggi la
chiesa di San Pietro a Libbiano, situata nel territorio di San Gimignano ai confini con il
comune di Volterra. La chiesa di Sant’Ilario, anch’essa in seguito non più menzionata,
sorgeva invece prope castellum di Collemuccioli, luogo situato circa a metà strada fra la
pieve di Cellole e quella di Sancto Pietro sito Funtiano, toponimo poi scomparso ma corrispondente all’attuale borgo di Mucchio nel comune di San Gimignano 6.
Qualche anno dopo troviamo i membri dello stesso gruppo familiare, nel quale figurano ora i figli dei deceduti Teberto, Lamberto e Gerardo, nonché un certo Ugo filius bone
memorie Bolgari 7, tutti con le rispettive mogli, in altri due atti rogati nel marzo del 1109.
Queste persone, stante ... a casa abitationis nostre in loco intus castello de Muchi 8, ciascuno per la propria parte, donavano a Martino custode e preposto della chiesa ed eremo
di San Salvatore di Camaldoli e ai suoi successori il castello denominato Mucchio con la
chiesa ivi edificata e dedicata a San Michele, vel in antea ibidem fuerit in onore aliorum
sanctorum, con mura, fossato, carbonaia e relativi exito et introito. Promettevano, inoltre, di difendere e non togliere i beni donati e quindi di non recare in futuro molestia all’eremo di Camaldoli, sotto pena bonorum denariorum lucentium solidos centum, ricevendo nel contempo a prepositus ecclesie Sancti Petri sito Fontiano [nomine eremi] crosna
una. Il secondo documento integrava la donazione al monastero con:
modiorum tres a stario de dece panis a iusta mensura qualis consuetudo est istius terre, de
terra illa duo modiorum que est posita prope ipso castello, fini via desuper et fini aia de
filii Teberti de subto, alio modiorum de terra illa est posita in loco qui vocatur Faita 9.
6. S. Mori, Pievi della Diocesi Volterrana Antica dalle origini alla Visita Apostolica (1576). Una griglia per la
ricerca, «Rassegna Volterrana», 63-64, 1987-88, pp. 163-188; 67, 1991, pp. 3-123; 68, 1992, pp. 3-107: 1991, pp.
93-94: «Gli annali camaldolesi ... ricordano il monastero come esterno al “castello detto Mucchio” col nome di “eccl.
s. Petri sito Funtiano”, mentre la chiesa interna “hedificata in eodem castro” ha il titolo di S. Michele. È risaputo che
i monasteri hanno spesso scardinato antiche strutture di pievi e rettorie; ma questo sembra aver fagocitato almeno
due chiese “eccl. s. Ilarii prope q.v. Colle Musculi” e la “eccl. s. Michaelis sitio Letitiano” mai più ricordate».
7. E. Castaldi, Santo Bartolo, Il Giob della Toscana ed il suo meraviglioso sepolcro di Benedetto da Maiano,
Firenze 1928, p. 9. Alla ricerca delle origini nobili della famiglia di santo Bartolo, il sacerdote e storico sangimignanese don Enrico Castaldi esaminava questi documenti e, riferendosi a quel «Ugo figlio di Bolgaro», scriveva: «Questo
è certamente un Cadolingio».
8. Il castello di Mucchio (attuale Mucchio di Sotto nella carta topografica di San Gimignano) ebbe una sua specifica nobiltà nelle leggende che avvolsero la nascita del comune di San Gimignano. Mattia Lupi, Annales
Gemignanenses della metà del XV secolo, ms. conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, II.II.12, narra
per primo la storia dei fratelli Silvio e Muzio, facendoli discendere da Enea. Essi sarebbero fuggiti da Roma in quanto implicati nella congiura di Catilina (63 a. C.). Giunti nella nostra zona avrebbero fondato due centri abitati poco
distanti fra loro. Silvio scelse il colle più alto, che dal suo nome si chiamò Silvia o castello di Silvio, successivamente
mutato in San Gimignano, mentre Muzio fondò un altro luogo fortificato poco distante, che da lui prese il nome di
Mucchio. Successivamente, anche il beato Bartolo Buontemponi (Santo Bartolo per la popolazione) fu indicato da fra
Giunta agostiniano, contemporaneo di Bartolo e autore della sua prima Vita, discendere dagli antichi nobili di Mucchio
(Giunta Heremitano, La historia, vita e morte del glorioso beato Bartolo da San Gimignano con li miracoli che fece
in vita et dopo morte, tradotta in lingua toscana, Firenze 1575).
9. ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1109, marzo. Nei due atti compaiono: Guido, Gualfredo, Ildebrando, Ugo,
Alberto e Teberto germani, figli del fu Teberto e di Giolitta genitrice figlia del fu Brittulo, nonché Adalasia moglie
dello stesso Guido e figlia di Alberto, Ildebrando e Raineri, germani e figli del fu Gerardo, Emma moglie dello stesso Ildebrando e figlia di Gerardo, Suffia moglie dello stesso Raineri e figlia anche di Rainero, Guido figlio del fu
Lanberto e Adorna genitrice sua e figlia del fu Pietro, e Ugo figlio del fu Bulgaro e Sussia moglie dello stesso Ugone
e figlia di Rolando (cfr. Mittarelli, Costadoni, Annales cit., III, II, pp. 135, 136 e App., CXLVIII, 214-216; Regesto
di Camaldoli cit., II, 698, 699, 700). Cfr. anche E. Repetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, Firenze
1833-46, rist. anast. Reggello 2005, III, p. 624. L’autore, non menzionando le pergamene di fondazione, scriveva:
«La chiesa di Mucchio fu poi ceduta ai monaci Camaldolesi della non lontana Badia di S. Pietro a Cerreto, i quali ne
istituirono un priorato dipendente dall’abate di quest’ultimo monastero».
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La badia di Adelmo e i Camaldolesi nell’alta Valdelsa (secoli XIII-XV)
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L’eremo di San Pietro a Funtiano era quindi esistente già nel 1109, anche se il monastero di Mucchio compare per la prima volta (con il nome mutuato dal castello donato)
solamente nel 1113, nella bolla di conferma dei privilegi concessa a Camaldoli da papa
Pasquale II 10. Durante questo periodo andò definendosi il quadro delle proprietà camaldolesi in una vasta zona situata dalla valle dell’Elsa a quella dell’Era, con atti di donazione e di vendita che portarono alla diffusa presenza dell’Ordine di san Romualdo in tutto
quel territorio. Il fatto che queste donazioni fossero state compiute nelle immediate vicinanze della badia di Adelmo evidenzia la funzione trainante esercitata dal monastero in
tale processo espansivo 11. Va notato che i monaci benedettini di Volterra, i quali avevano fondato la badia del Santissimo Salvatore di quella città nel 1030, appena quattro anni
prima della nascita della Badia Elmi, aderirono all’Ordine camaldolese solo intorno al
1113, proprio sulla spinta delle ormai numerose presenze nella zona di cenobi appartenenti a questa famiglia regolare. Nel 1115 i conti di Catignano cedettero al vescovo di
Volterra i loro diritti su vasti territori:
Catignano castello et curte de Catignano, Riparotta, Arsicile, Ganbasi, Sancto Benedicto
cum curte, Muchio cum curte, Pullicciano, Colle Musciori, Camporbiano, Casallia, Fusci,
Morrona, Montevaso, Petracassa 12.
Molte di queste località divennero di lì a breve oggetto delle contese fra il vescovo di
Volterra, nuovo signore che non aveva ancora il completo controllo dei territori acquisiti, e i centri più importanti della zona, fra i quali stava emergendo con forza il castello di
San Gimignano. Già intorno al 1130 quel comune aveva cercato di occupare il castello di
Casaglia, nelle immediate vicinanze di Mucchio, ufficialmente a causa di contrasti con
alcuni abitanti e col clero locali per un cimitero costruito senza il parere della propositura sangimignanese, nella cui giurisdizione religiosa l’area ormai ricadeva 13. La questione,
poi risolta con la mediazione del priore della badia di Marturi, mise in luce la posizione
di difensore della pieve di San Giovanni che la comunità di San Gimignano aveva ormai
assunto, nonché il ricorso a questo atteggiamento per giustificare e alimentare le sue ambizioni territoriali. Nel 1169 i cattani di Casaglia fecero atto formale di «spontanea dedizione» – scrive il Pecori –; e quel territorio entrò a far parte di fatto del contado di San
10. P. Cammarosano, L’articolazione dei poteri laici ed ecclesiastici nel territorio altovaldelsano fra XI e XIII
secolo, in Chiese medievali della Valdelsa. I territori della via Francigena, II, Tra Siena e San Gimignano, Empoli
1996, pp. 9-19: 19; I. Bettarini, S. Bezzini, San Pietro a Mucchio, ivi, pp. 217-219; Caby, De l’érémitisme cit., pp. 75,
82, 215.
11. ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1109, febbraio 1. Con atto rogato dal notaio Guido presso l’abbazia di Santa
Maria a Pulicciano, nel territorio della pieve di Santa Maria di Cellole, comitato volterrano, il conte Ugo del fu
Uguccione donava al monastero di San Salvatore e Maria Vergine in Campo Amabili, nelle mani di don Martino priore camaldolense, tutto il fabbricato e il da fabbricarsi in luogo detto Morrona, riservandosi il padronato, ossia l’alto
dominico, col dovere di difendere detto luogo dai nemici. Seguirà, qualche mese dopo (ivi, 1109, aprile 6), la vendita alla chiesa e monaci di Santa Maria e San Benedetto presso Morrona, rappresentati da Gerardo abate, della metà
dell’intera porzione della corte Aquiliana con la metà del castello detto ‘Vivario’ e tutte le relative pertinenze, eccetto il castello di Santa Lucia con la torre (nell’odierna località di San Benedetto). Atto rogato dal notaio Guido in
Pancole, presso la chiesa di San Pietro nel piviere di Cellole, comitato volterrano (probabilmente l’attuale chiesa di
Santo Pietro situata a circa 4 km dal centro murato di San Gimignano e nelle immediate vicinanze della villa di San
Cassiano, che costituiva una porzione importante dei terreni dotali che Adelmo aveva lasciato alla stessa badia).
12. Duccini, Il castello cit., p. 256 (doc. 4, Chartula venditionis, 1115, gennaio 26).
13. Carte della Badia di Marturi nell’Archivio di Stato di Firenze (971-1199), a cura di L. Cambi Schmitter, Firenze
2009, p. 117.
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Badia Elmi
Gimignano 14, anche se il vescovo di Volterra continuò a reclamare a lungo i suoi diritti
signorili su tutta la zona 15.
In un privilegio di papa Lucio III (1182) vennero elencate come soggette alla propositura sangimignanese, oltre alle chiese urbane S. Sthepani de Castello e S. Lucie, anche
quelle presenti nelle corti di Sancto Geminiano, Montis Acuti, Castello Veteri, Castello
Fusci, Casaglia, Ulignano, Pullicciano, Monte Grabo, Monte Tinioso 16. Tutte le zone indicate costituivano le direttrici di espansione territoriale che il comune aveva in parte già
maturato o che cercherà di conseguire nei tempi immediatamente successivi, fondando
quasi sempre le proprie pretese sulla giurisdizione ecclesiastica acquisita dalla propositura sangimignanese.
Solo nel giugno del 1187 troviamo un Iohannes prior de Muchio 17; mentre nel privilegio di Onorio III del 1220 appare per la prima volta l’ecclesia S. Petri de Mucchio, evidenziando lo svolgimento di una funzione parrocchiale soggetta alla propositura di San
Gimignano nell’ambito di una zona ormai inserita entro il contado di tale comunità 18. Nel
1228, infatti, il comune riscuoteva il dazio dalla villa di Mucchio tramite un ‘vicedomino’ vescovile 19, e il podestà di San Gimignano vi amministrava la giustizia 20. Nel 1229 il
camarlengo sangimignanese Pantaleo di Buonaccorso, «per timore di incendi», dava tre
soldi per distruggere le capanne que erant in castro, sottolineando così la responsabilità
ormai assunta dal comune in rapporto alla salute pubblica degli abitanti del castello a suo
tempo donato ai Camaldolesi 21.
14. L. Pecori, Storia della terra di San Gimignano, Firenze 1853, rist. anast. Roma 1975 (rist. a cura di V. Bartoloni,
Città di San Gimignano 2006), p. 37; Fiumi, Storia economica cit., p. 24 e nota 31: «I Cattani di Casaglia confermano la loro sottomissione al comune nel 1177. Si obbligano a tenere a disposizione dei consoli di San Gimignano
il fortilizio di Casaglia, a far guerra, accatto e rappresaglie, tutte le volte che dal comune sarà loro richiesto, ad aiutare il comune nell’accrescimento del castello e dei borghi di San Gimignano … a costruire case in San Gimignano
per abitarvi due mesi l’anno in tempo di pace e tre mesi in tempo di guerra» [cfr. Biblioteca Comunale di San
Gimignano (d’ora in poi BCSG), Libro Bianco, c. 2r].
15. F. Schneider, Regestum Volaterranum. Regesten der Urkunden von Volterra (778-1303), Roma 1907 (d’ora
in poi RV), 472, 1230, gennaio 24, p. 167. Vedi nota 85 del presente lavoro.
16. Archivio della Collegiata di San Gimignano (d’ora in poi ACollSG), Pergamene, Velletri, 1182, gennaio 29.
Privilegio concesso da papa Lucio III al proposto e al capitolo di San Gimignano.
17. Mori, Pievi cit., 1991, p. 94.
18. ACollSG, Pergamene, Urbemveterem, 1220, luglio 30. Privilegio di papa Onorio III confermante al proposto
e al capitolo di San Gimignano i privilegi già concessi da Lucio III. Vi si elencano gli edifici di culto soggetti alla giurisdizione diretta della Chiesa sangimignanese, fra i quali emerge S. Petri de Muchio.
19. O. Muzzi, San Gimignano. Fonti e Documenti per la storia del Comune, I, I Registri di entrata e uscita 12281233 (d’ora in poi Muzzi, Entrata e uscita), Firenze 2008, p. 148 (1228, dicembre 17). In questo periodo si ebbe di
fatto una cogestione fiscale di Mucchio da parte del comune e dei vicedomini del vescovo. Contrariamente alle altre
ville del contado, nelle quali i vari balitori versavano direttamente le somme riscosse al camarlengo del comune, per
Mucchio vediamo (ibidem) che l’ufficiale: habui a domino Visconte Asseduti pro presa de Muchio, in denariis, XXXVI
libras et, pro datio excomputato hominibus, qui prestamtiam fecerunt Comuni Sancti Geminiani tempore domini Filippi
Paltronerii, olim potestatis Sancti Geminiani, de Muchio, VI libras et XXXIIII denarios. Cfr. anche ivi, pp. 151, 407.
In data 18 dicembre 1231 appariva invece che: in castro de Muchio est electus balitor dominus Vicecomes [O. Muzzi,
San Gimignano, Fonti e Documenti per la storia del Comune, II, I Verbali dei consigli del Podestà 1232-1240, 1 (d’ora
in poi Muzzi, Verbali Podestà, I), Firenze 2010, p. 123]. Rileviamo che nel castro de Muchio, dove sono ancora presenti le mura di cinta, il balitore era un vicedomino, mentre nel borgo di Muchio risultava essere un certo Rainerio.
20. Muzzi, Entrata e uscita, p. 126 (1228, agosto). Sempre il camarlengo registrava: habui a Galganetto de Muchio
pro pena bestiarum suarum, X soldos, in quibus fuit comdenatus a domino Gualcerio, potestate Sancti Geminiani. Nel
settembre 1233 nelle carte del Comune si leggeva: habui X soldos a Manovello de Muchio, in quibus fuit condepnatus, quia defuraverat et astulerat unam palam, cum qua mondificatur blava in area prioris de Muchio (ivi, p. 415).
21. Muzzi, Entrata e uscita, p. 198 (1229 marzo): dedit provisoribus Comunis III soldos pro victuris et expensis,
cum iverunt Mucchium ad faciendum destrui capannas, que erant in castro, ob timorem ignis. Cfr. anche ivi, p. 201.
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La badia di Adelmo e i Camaldolesi nell’alta Valdelsa (secoli XIII-XV)
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Nel 1233, dopo la guerra del 1229-30 fra il vescovo di Volterra e San Gimignano, la
‘cogestione tributaria’ di Mucchio notata in precedenza appariva superata 22 e il comune
otteneva dal monastero un contributo per terminare la costruzione della sua seconda cerchia muraria. Il camarlengo di San Gimignano Bonagiunta di Ildebrandino Mantellini registrava nel mese di ottobre: habui ab abatiam de Muchio pro auxilio predicto [muri castri]
III libras 23.
Nel 1231, durante una ‘visita’ effettuata ad monasterium Sancti Petri de Muchio da
Orlandus vicarius Camaldulensis et Philipus Sancti Zenonis de Pisis abbas, si registrava
un Maurus prior et rector eiusdem loci, nonché la presenza nell’abbazia di cinque conversi 24, numero considerevole per quel tempo, che indicava il buono stato di salute del
cenobio 25.
Il sito di Mucchio nel 1250 aveva ancora le sue mura, come emerge da un atto rogato
in castro de Muchio desuper, iusta murum suprascripti castri, in platea ante domum Guitti
… coram presbitero Galgano rectore ecclesie Sancte Marie de Villacastello, ed esisteva
anche la porta castellana, presso la quale, nello stesso giorno, veniva stilato un altro contratto (super portam de Muchio) 26. Durante la seconda metà del XIII secolo iniziava, però,
un periodo di decadenza per i monasteri camaldolesi della zona, tanto è che nel 1282 la
chiesa di San Pietro a Mucchio aveva bisogno di restauri, «da farsi … a spese di quei cenobiti» che ne erano proprietari 27.
L’abbazia appare nelle decime del 1275-76 e del 1302-03, quindi nel sinodo Belforti
del 1356, sempre sotto la denominazione di monasterium S. Petri de Mucchio 28. Il reddito tassato proveniva essenzialmente dalle proprietà fondiarie che il monastero gestiva fin
dalla sua fondazione. Dopo quel periodo abbiamo rinvenuto un unico acquisto: nel 1332
Nerio e Montuccio, fratelli e figli del fu Toscii di Mucchio vendevano domino Martino
priore della locale abbazia un pezzo di terra vineata e lavorata posta nella villa di
Macinatico, in luogo detto Poggialulivo e un altro pezzo di terra sempre in Macinatico in
loco dicto Lignaia, per il prezzo di 160 lire di fiorini piccoli 29. Vari rogiti testimoniano,
comunque, la presenza di altre proprietà fondiarie del monastero, come un podere con
casa, parte lavorato e alberato e parte a vigna, situato nel comune di Certaldo, loco dicto
22. Nel 1233 il camarlengo non riportava più l’intermediazione di alcun vicedomino vescovile: habui a Ugolino
Corsi, balitore de Muchio, pro datio eiusdem terre, in bonis denariis, XXVI libras (Muzzi, Entrata e uscita, p. 535
ed anche p. 525). Sulla formazione e sviluppo della famiglia di vicedomini vescovili Asseduti cfr. Fiumi, Storia economica cit., pp. 42-45.
23. Muzzi, Entrata e uscita, p. 519 (1233, ottobre). Il camarlengo aveva registrato qualche riga prima della citazione di cui sopra: habui a domino preposito Sancti Geminiani pro se et clericis suis in auxilium muri castri XXVII
libras (ivi, p. 518).
24. ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1231, luglio 28. Oltre al priore risultarono presenti Marinus... multum infirmus
et vir bone fame, e i conversi Pallia, Martinellus, Dietisalvi e Ceppus (cfr. Regesto di Camaldoli cit., III, n. 1959, p. 306).
25. Mori, Pievi cit., 1991, p. 93.
26. Cfr. ASF, Notarile antecosimiano, 11253, c. 36v.
27. Repetti, Dizionario cit., III, p. 624.
28. Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, Tuscia, I, La decima degli anni 1274-1280, a cura di P. Guidi,
Città del Vaticano 1932 (d’ora in poi, Tuscia I), pp. 153, 161; Tuscia II, a cura di M. Giusti, P. Guidi, Le decime degli
anni 1295-1304, Città del Vaticano 1943 (d’ora in poi, Tuscia II), p. 200; A.F. Giachi, Saggio di Ricerche Storiche
sopra lo stato antico e moderno di Volterra dalla sua origine fino ai tempi nostri, Firenze 1887 (1 ed. 1786), rist. Bologna
1979: Censo delle chiese della Diocesi di Volterra al tempo di Mons. Belforti, pp. 583-594, (d’ora in poi Belforti 1356)
p. 594: il monastero di Mucchio risulta censito fra gli esenti per libr. 40 (vedi tavola 1 in appendice al presente testo).
29. Atto rogato nella chiesa di San Matteo di San Gimignano (Cfr. ASF, Notarile Antecosimiano, 5851, 1332,
giugno 6, cc. 84v-87r).
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Badia Elmi
all’Angareccia, affittato il 23 agosto 1371 per cinque anni da dominus Donatus prior abatie de Muchio a Lorenzo del fu Signore da Certaldo e Bartolo del fu Lorenzo per trigintasduos starios boni grani ad mensuram Comunis Florentie 30.
Numerosi atti mostrano lo stretto legame esistente fra il monastero di Mucchio e gli
altri cenobi camaldolesi. Risulta stilato nel 1317, nel chiostro della badia di San Pietro a
Mucchio, un contratto di vendita di due poderi nell’interesse, però, del confratello monastero di Cerreto 31. Nel 1335 e nel 1365 sono documentati due mandati di procura dai
quali emerge la dipendenza di Mucchio dai cenobi vicini 32.
Non abbiamo notizia di lasciti al monastero. Compare solo il testamento di un certo
Masi di Michele della villa di Sant’Andrea nel distretto di San Gimignano, che da altro
atto risulta proprietario confinante con beni del cenobio 33. In base a tale documento il 13
giugno 1374 egli chiedeva di essere sepolto presso la chiesa Sancti Petri de Mucchio 34.
Nel 1390 si registrava la collazione della chiesa di San Pietro a Mucchio condotta dal
priore di Camaldoli in favore di don Filippo del fu messer Giorgio da Esculo, monaco
dell’Ordine, deputato priore di detta chiesa 35. Quattro anni dopo don Francesco priore di
Mucchio, in questa occasione vicario di padre Andrea priore di Camaldoli, presenziava
all’elezione della nuova badessa del monastero camaldolese di Santa Maria a Querceto,
nella persona di suor Bartolomea di Giovanni di Simone Buonaccorsi 36. Nel 1400 risultò
designato abate di Mucchio don Antonio di Bartolo da Cesena monaco camaldolese 37.
Sono queste le ultime volte che vediamo l’istituto indicato come monastero. La funzione
parrocchiale era già apparsa preminente in molti degli atti citati in precedenza, nei quali si
faceva riferimento, quasi sempre, alla chiesa di San Pietro a Mucchio e se ne indicava il rettore con il termine di prior, anche quando, nello stesso atto, il superiore del monastero di
Cerreto veniva definito abbas. Il monastero, comunque, continuò a vivere, appoggiandosi alle abbazie di Elmi e di Cerreto, nella sua qualità di ente proprietario dei poderi e della
chiesa stessa 38.
Sul piano strettamente religioso la chiesa di San Pietro a Mucchio mantenne la funzione parrocchiale officiata da sacerdoti di San Gimignano, ma in maniera sempre più sal30. Cfr. ivi, 20297, V fasc., 1371, agosto 23, cc. 52v, 53r.
31. ASF, Diplomatico, S. Maria degli Angioli, 1317, gennaio 24. Vedi nota 138 del presente lavoro.
32. Ivi, 1335, settembre 8 (mandato di procura emesso nella badia di Mucchio da Martino priore a Gregorio prete
rettore della chiesa d’Elmi e a don Fazio abate del monastero di Volterra); ASF, Diplomatico, S. Maria degli Angioli,
1365, gennaio 24 (mandato di procura, rogato in San Gimignano, emesso da don Donato priore di San Pietro a
Mucchio, nelle persone di don Michele abate della badia di Cerreto, don Tommaso del fu Sozzo da San Gimignano
priore della canonica di Castelvecchio, don Lodovico priore di San Cipriano di Volterra, ser Niccolò del fu Maro da
Arezzo notaio del vescovo di Volterra, Bruno di Donato da Arezzo e Bonaiuta di Dino da San Gimignano. Questi atti
evidenziano i collegamenti di Mucchio con i vicini monasteri camaldolesi (soprattutto con quello di Cerreto, che in
quest’epoca stava assumendo un ruolo di rilievo fra i cenobi valdelsani), ma anche con il clero di San Gimignano e la
struttura legale del vescovado volterrano.
33. Cfr. ASF, Notarile Antecosimiano, 20927, 1374, ottobre 16, c. 23r.
34. Ivi, 1374, giugno 13, cc. 33r-33v.
35. ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1390, maggio 30.
36. ASF, Diplomatico, S. Maria degli Angioli, 1394, dicembre 9.
37. ASFi, Diplomatico, Camaldoli, 1400, giugno 13.
38. Mori, Pievi cit., 1991, p. 94. Il 23 settembre 1491 don Gabriello del fu Giovanni di Bartolo priore di San Pietro
di Mucchio dava a livello un pezzo di terra parte lavorativa e parte soda posta nella villa di Casale, luogo detto
Savornaia, per l’annuo canone di lire 7 fiorentine, con l’obbligo della riconduzione annua. Atto stilato nella pieve di
San Gimignano (ASF, Diplomatico, S. Maria degli Angioli, 1491, settembre 23).
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La badia di Adelmo e i Camaldolesi nell’alta Valdelsa (secoli XIII-XV)
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tuaria. Si stava perdendo, inoltre, la memoria delle sue origini. Nel 1576 il vescovo Castelli,
durante la sua visita apostolica, non riuscì a capire in base a quali documenti la chiesa di
San Pietro a Mucchio risultasse annexa congregationi camaldulensi, annis abhinc viginti, vigore eorum privilegiorum 39. La situazione era ormai tale che il visitatore apostolico
non trovò ad attenderlo né un prete né un monaco. I due rustici con i quali parlò il prelato, in una chiesa che presentava il tetto puntellato e le canneggiole alla finestrella sulla
facciata, non seppero dire niente di certo sui redditi dell’istituto. Riferirono solo che nei
giorni festivi celebrat ser Petrus de Dolciatis ... et dominus Desiderius cappellanus abbatie de Cerreto audit confessiones.
Visite pastorali successive mostrano l’edificio religioso in condizioni sempre più precarie 40, fino a quando, con decreto di Pietro Leopoldo del 25 febbraio 1782, la parrocchia di San Pietro a Mucchio, che nel 1776 veniva indicata come S. Pietro a Vinculis 41,
venne annessa ufficialmente alla chiesa di Santa Maria a Villa Castelli 42.
3. Il monastero di San Mariano
Il monastero di San Mariano ebbe origine su territori di giurisdizione del vescovo di
Volterra. Il toponimo Sancti Mariani, indicativo dell’esistenza perlomeno di una chiesa
rurale, compare per la prima volta nel 1179 in un atto di conferma dei privilegi spettanti ad Hugone ep. Vulterrano da parte di papa Alessandro III 43. Solo nel 1194 emerse la
canonicam Sancti Mariani, citata insieme a Sancti Victoris in una lista di castelli riconosciuti alla giurisdizione del vescovo Pagano 44. Il monastero era probabilmente già costituito alla fine del secolo XII, anche se la prima menzione documentaria risale solo al 1236,
legata al nome di Benedicto priore mon. S. Mariani, indicato come testimone in un atto
relativo alla badia di Adelmo 45. In questi anni i Camaldolesi di questo cenobio avevano
già assunto una notevole influenza su tutto il crinale che separa la Valdelsa dalla Valdera,
come emerge chiaramente dall’atto con cui
39. AVV, 473, Mons. Castelli, Visita del 1576, cc. 597r-598v. Il vescovo nei suoi decreta relativi alla visita chiese im
primis che il priore di Santa Maria degli Angeli di Firenze entro un mese exibeat iura cessionis huius ecclesiae, et quomodo Congregatio ipsa possideat, et Rev.mus Ordinarius decernat prout iuris fuerit. «Della chiesa di S. Pietro a Mucchio
già sottoposta al Capitolo dei sigg. Canonici non ne ho mai visto alcuna collazione et oggi è unita alla Badia a Elmi nel
Contado di Certaldo et a Monaci di essa Badia quali hanno ancora la Cura delle anime del Populo di detto luogo ... Fu
detta chiesa renunziata a Monaci di Camaldoli da Mess. Domenico Tegolacci l’anno 1557 a di 23 aprile con istrumento rogato da Ser Bernardo di Francesco Albizi fiorentino» [ACollSG, 3, Copie di testamenti antichi et di cose tanto antiche quanto moderne occorse in San Gimignano-Marsili, 1643-1776 (d’ora in poi, ACollSG, ms. Marsili), c. 161r].
40. AVV, 489, Visite pastorali vescovo Del Rosso dal 1683 al 1700, 1683, settembre 24, cc. 100r-101r. Il presule constatava che non esisteva più il rettore della chiesa, ma solo un economo al quale i monaci versavano 30 fiorini
(mentre il vescovo indicò come necessaria una congrua di 100). Si celebrava unicamente in qualche solennità e neanche tutte le domeniche. La chiesa era ancora carente negli arredi liturgici e «anche le statue sono in cattivo stato».
41. Cfr. R. Razzi, Gli enti ecclesiastici e assistenziali a San Gimignano. Le proprietà fondiarie dal sec. XVI alla
dissoluzione dei patrimoni, Poggibonsi 2007, pp. 220-223.
42. L. Chellini, Le iscrizioni del territorio sangimignanese, «Miscellanea Storica della Valdelsa», 41, 1933, 1-2,
pp. 31-48: 38 e nota 3.
43. A. Duccini, Monasteri, pievi e parrocchie nel territorio di Gambassi (secoli X-XIII), «Miscellanea Storica della
Valdelsa», 106, 2000, pp. 191-233: 209. In un altro privilegium confirmationis del 28 agosto 1186 Enrico VI comprendeva sia Sancti Mariani che Sancti Vittoris in un elenco di castelli soggetti alla giurisdizione del vescovo di Volterra
Ildebrando (ivi, p. 205). Il toponimo Sancti Mariani compare in altro documento relativo al vescovo Pagano del 24
novembre 1220 (ivi, p. 209).
44. Duccini, Monasteri cit., p. 209.
45. Ibidem.
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Badia Elmi
nel 27 ottobre del 1234 fra Bartolommeo monaco di detto monastero e il priore della
canonica di S. Mariano, stando nel claustro della Badia dell’Elmo confermarono l’elezione fatta tre giorni innanzi in Castel-Fiorentino del rettore della chiesa di S. Andrea
e S. Agata alla Pietra dai patroni nella persona del suddiacono Alberto del fu Uguccione
della Pietra 46.
Tutto il territorio dei castelli di Montignoso e della Pietra era ormai controllato da San
Gimignano. In questa zona fin dal gennaio 1118 Malatesta di Drudone, ad onore di tutto
il popolo di San Gimignano e dei canonici di detta chiesa, aveva donato al pievano Alberto
duobus casis et cassinis, quod una est posita in castro de Petra et alia est posita intus burgo
de iam dicta Petra, affinché quei beni rimanessero in perpetuo alla chiesa sangimignanese 47. Tale donazione era pervenuta alla pieve di San Gimignano in tempi nei quali il comune doveva ancora raggiungere la propria autonomia, ma la giurisdizione o le proprietà
della propositura furono ancora una volta il motore per l’ampliamento del contado di San
Gimignano. Nel 1181 – scrive il Pecori –, in occasione di una controversia confinaria, i
volterrani «già riconoscevano [ai sangimignanesi] il diritto ormai acquistato di territorio,
se non che volevano limitarne i confini» 48. Seguì una lunga serie di contrasti con Volterra
per il possesso di quelle zone che videro una prima sottomissione di Montignoso e della
Pietra a San Gimignano il 15 maggio 1199 e, dopo altre vicende, ancora nel 1236 e poi
nel 1250 49. Questi territori erano importanti per San Gimignano allo scopo di esercitare
un controllo sulle vie di comunicazione che congiungevano il comune e la valle dell’Elsa
con la valle dell’Era e Pisa. Tale rilievo veniva sottolineato in uno dei quattro atti di sottomissione degli uomini di Montignoso e della Pietra (1250) in riferimento ai proventi del
passadium riscosso a Montignoso sulla via per Pisa attraverso Villamagna, proventi che
fin dalla sottomissione a San Gimignano del 1199 si era stabilito di assegnare a tale comune in cambio di una franchigia di cinque anni dai servizi che lo stesso metteva a disposizione dei sottoscrittori dell’atto 50.
Ancora più vicine al centro murato di San Gimignano, e quindi ancor più sottoposte
alle pressioni di questo comune, erano le zone nelle quali sorgevano il monastero vallombrosano delle monache di San Vittore e quello camaldolese di San Mariano, che, nonostante la giurisdizione vescovile ripetutamente confermata da privilegia imperiali e papali 51, entrarono a far parte del distretto di San Gimignano con le ville di San Vittore e San
Martino 52. Nel 1233 San Gimignano aveva già costruito una torre di difesa del cenobio
vallombrosano, sorto anch’esso intorno ad una cappella donata nel 1075 dai Cadolingi
alla badessa Berta del monastero di Cavriglia. Questo chiostro appare con la dizione ufficiale di «monastero» nel 1207. Le religiose si posero il 16 dicembre 1224 sotto la prote46. Repetti, Dizionario cit., IV, p. 205.
47. ASF, Diplomatico, San Gimignano, 1118, gennaio.
48. Pecori, Storia cit., p. 39.
49. Duccini, Il castello cit., pp. 83-88.
50. Il Libro Bianco di San Gimignano. I documenti più antichi del Comune (secoli XII-XIV), I, a cura di D.
Ciampoli, con un saggio di D. Waley, Siena 1996, pp. 203-207 (1250, luglio 23). Da notare che la prima sottomissione di Montignoso del 15 maggio 1199 venne condotta al tempo del primo podestà di San Gimignano Maghinardo
de’ Malavolti di Siena (Pecori, Storia cit., p. 743).
51. Duccini, Il castello cit., p. 89.
52. E. Fiumi, Volterra e San Gimignano nel Medioevo, Raccolta di studi a cura di G. Pinto, Reggello 20062 (1 ed.
1983), tav. I, pp. 131 e 136.
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La badia di Adelmo e i Camaldolesi nell’alta Valdelsa (secoli XIII-XV)
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zione del comune di San Gimignano. Nel 1240, poi, quel comune acquistò tutta la villa
di San Vittore dai nobili di Catignano, stabilizzando così i propri diritti anche nei confronti del vescovo volterrano 53.
Già nel luglio 1229 risulta comunque che il camerario del comune dava a Rigepto
Baldoli XII denarios, quia ivit ad Sanctum Marianum pro balitore pro facto datii, e nel
settembre dello stesso anno pagava a Cavicchie, nunzio del comune, VIII denarios quia
ivit Marianum pro auferendo bandum bestiarum 54. Questi territori, insieme ad altri, furono oggetto della guerra che scoppiò in quegli anni fra San Gimignano e il vescovo di
Volterra Pagano, il quale nel 1230 richiese anche per essi il rimborso dei danni inferti dalle
masnade sangimignanesi 55.
Nell’atto di sottomissione di Montignoso e della Pietra a San Gimignano (1250) figurò
come testimone lo stesso presbitero Alberto quondam Uguiccionis, rectore ecclesie castri
de Pietra che abbiamo visto eletto a quella carica nel 1234 56. Si tratta dello stesso Alberto
di Uguccione che vediamo, sempre come testimone, nell’atto del 13 luglio 1272 con il
quale l’abate camaldolese della badia di Santa Maria di Adelmo costituì in rettore della
chiesa di San Mariano un canonico della pieve di San Giovanni di Monte Fani 57. Da questo ulteriore documento emerge la continuità dell’influenza camaldolese nella zona, oltre
che la diretta dipendenza della chiesa di San Mariano dalla Badia Elmi 58. Tuttavia la nomina a rettore della chiesa di un secolare, invece che di un monaco, indicava probabilmente la già diminuita presenza camaldolese nella zona conseguente alla situazione di progressiva urbanizzazione che l’Ordine attraversava in quel periodo 59.
Del cenobio di San Mariano abbiamo scarse notizie dopo la fine del secolo XIII. Esso
perse rapidamente il suo prestigio di ente religioso ma, come gli altri monasteri confratelli, conservò le proprietà fondiarie, che vennero amministrate da un rettore o fattore
residente nella zona. Quando nel 1486 l’abate della Badia Elmi don Giusto di Giovanni,
nella sua qualità di procuratore del monastero stesso, concesse in enfiteusi diversi pezzi
di terra con casa da lavoratore posti sul Poggio di San Martino in luogo detto San Mariano,
stipulò l’atto senza passare attraverso alcun monaco locale 60.
L’importanza del monastero di San Mariano, soprattutto per San Gimignano, risiedeva anche nell’influenza che questo esercitava su altre istituzioni religiose vicine. Abbiamo
già visto come entrambi i soggetti avessero comuni interessi nel castello della Pietra, e pro53. Pecori, Storia cit., pp. 424-431, 638-640; Duccini, Monasteri cit., p. 205; Ead., Il castello cit., p. 89. Sulle
vicende più tarde di San Vittore cfr. F. Salvestrini, Monaci in viaggio tra Emilia, Romagna e Toscana. Itinerari di visita canonica dell’abate generale vallombrosano nella seconda metà del secolo XIV, in Uomini Paesaggi Storie. Studi
di Storia Medievale per Giovanni Cherubini, a cura di D. Balestracci, A. Barlucchi, F. Franceschi, P. Nanni, G. Piccinni,
A. Zorzi, Siena 2012, II, pp. 765-778: 770-771.
54. Muzzi, Entrata e uscita cit., I, p. 226 (1229, luglio); p. 234 (1229 settembre). Nel settembre 1231 il camarlengo riceveva IIII libras ab Ugolino, balitore ville Sancti Mariani, de datio ibi inposito (ivi, p. 410), e nel dicembre
dello stesso anno pagava X soldos ***, balitori de Sancto Mariano (ivi, p. 363). Niente era emerso nel 1228 per
San Mariano, probabilmente compreso entro la villa di San Vittore; e niente emerse nel 1233, probabilmente per la
stessa ragione.
55. RV, 472 (24 gennaio 1230); Fiumi, Storia economica cit., p. 25 e nota 32.
56. Ciampoli, Il libro Bianco cit., p. 211 (1250, luglio 11). Vedi nota 46.
57. Repetti, Dizionario cit., III, p. 385.
58. Duccini, Monasteri cit., p. 210.
59. Cfr. in proposito Caby, De l’érémitisme cit.
60. ASF, Diplomatico, Innocenti, 1486, marzo 17.
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Badia Elmi
babilmente anche nel vicino borgo della Pietrina, la cui chiesa dipendeva dalla Pietra 61.
La canonica di San Mariano si trovava nelle immediate vicinanze del monastero, se non
inglobata direttamente in esso, e ne subì la stessa sorte. Il Monasterium S. Mariani è documentato nelle decime papali del 1276-77 e del 1302-03, mentre in quelle del sinodo Belforti
del 1356 emerge la dizione Ecclesia S. Mariani Ordinis Camaldul. 62. Poi non se ne sa più
niente fino a quando non ricompare in un inventario del 1688 come oratorio 63.
Don Socrate Isolani ci dà notizia di altri due oratori appartenuti ai monaci camaldolesi. Uno di essi, l’oratorio di Santa Lucia in San Mariano, era situato «a poche centinaia
di metri ad oriente di S. Mariano appartenente anch’esso ai frati di S. Pietro a Cerreto».
Nella visita apostolica di monsignor Castelli del 1576 appariva essere in pessime condizioni e i monaci «non vi celebravano mai». Ad esso, o al monastero di San Mariano,
appartenevano i poderi «S. Mariano ... e Casa al Priore presso il Casino, che pure apparteneva a quei Monaci con nome di Casa al Gabbro» 64. L’altro oratorio risulta essere stato
presso il podere Sciolta 65.
Tracce meno significative dell’influenza camaldolese appaiono per altri enti. Il manoscritto
Grifoni nella biblioteca di San Gimignano, riferendosi al Libro Bianco del comune, accosta
il Monasterio S. Mariani e l’Hospitale S. Leonardi de Bosco 66. Non è affatto improbabile
che questa piccola istituzione assistenziale, indicata anche come San Leonardo alla Striscia,
oppure San Leonardo in bosco di Camporena, vista la sua vicinanza al castello della Pietra,
potesse essere entrata a far parte, perlomeno nel suo periodo iniziale che si fa risalire ai primi
anni del XIII secolo, della zona di diretta influenza dei monaci camaldolesi 67.
Una citazione del Pecori relativa al monastero femminile di San Vittore sollecita una riflessione sul ruolo che i Camaldolesi svolsero anche in quel cenobio vallombrosano: «troviamo
... che il numero delle monache di S. Vittore era assai ristretto, dappoiché s’incontra dagli
61. «Rovinata dopo le devastazioni del 1430 [la chiesa di Sant’Andrea della Pietra], l’ufficiatura e il titolo furono trasferiti nel vicino Oratorio della Pietrina sia perché meno rovinato aveva ancora annesse delle case abitate e perché più prossimo alle abitazioni costruite dopo quel tempo alle radici di quel fortilizio. Intanto i Monaci della Badia
a Cerreto, anche per la decadenza di quel Monastero, avevano abbandonata l’ufficiatura di quella Chiesa che, per
essere stata per secoli officiata da quei Monaci, è rimasta nel popolo la tradizione che vi sia stato un convento.
Nonostante il suo trasferimento continuò ad essere Parrocchia con cura di anime ed a distinguersi con il nome di Cura
di S. Andrea alla Pietra fino al 1843 in cui contava 240 individui» (S. Isolani, Storia politica e religiosa dell’antica
comunità di Montignoso Valdelsa, Volterra 1919, rist. Bologna 1999, pp. 334-335, cfr. anche pp. 336-338). Per notizie ulteriori cfr. ACollSG, ms. Marsili, c. 166r; Siena, Archivio di Stato (d’ora in poi ASS), 226, Estimo armato 1674,
c. 463r; Repetti, Dizionario cit., IV, p. 205; Mori, Pievi cit., 1992, p. 9.
62. Vedi tavola 1.
63. «Per cui è da supporre che rovinasse ab antico e sia stato ricostruito interamente verso il 1650. Il podere annesso apparteneva all’Oratorio e quindi agli stessi Monaci di Adelmo, poi di Cerreto, finché passò ai Monaci degli Angeli
di Firenze i quali verso i primi del sec. passato [1800] lo vendettero ai signori Landi di Certaldo insieme con la famosa Badia di cui faceva parte» (Isolani, Storia politica, Montignoso cit., p. 321).
64. Il podere San Mariano è probabilmente quello concesso in enfiteusi nel 1486 sul Poggio di San Martino (vedi
p. 90 e nota 60).
65. Ivi, p. 323.
66. «Nel Libro Bianco della comunità di San Gimignano si legge quanto appresso in uno strumento: “Pro Castro
Petra: Monasterium S. Mariani; Hospitale S. Leonardo da Bosco a.d. 1350”. Da ciò si vede che nel comune della Pietra
di Padronato della Comunità vi era lo spedale di S. Leonardo, e questo serviva per alloggiarvi i Pellegrini, Passeggeri
per la strada del Castagno che conduce alla volta di Pisa» (BCSG, manoscritto Grifoni, tomo II, cc. 42r-43r).
67. «La chiesa o oratorio dello spedale di S. Leonardo fu dichiarato oratorio e non chiesa come al libbro della
Provvisione del comune di San Gimignano dell’anno 1545 ... e lo spedaletto di S. Leonardo, Patronato di quella
Comunità, si conferisce da essa a uno cittadino suo secolare et fu conferito all’eccell.mo Messer Francesco di Leone
Becani [? abrasione nel documento] essendo vacato per esser morto l’eccell.mo ms. Lodovico di Iacobo Coppi, ultimo spedaliere» (ACollSG, ms. Marsili, c. 159r). Cfr. anche Isolani, Storia politica, Montignoso cit., pp. 339-340.
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Spogli dello Strozzi che nel 1246 ve ne stavano tre con 15 tra converse, conversi e Monaci,
i quali tutti dovevano costituire la famiglia di servizio economico e spirituale» 68. Il corsivo
nella citazione è dello stesso storico sangimignanese ed esprime la sua perplessità per quella situazione. Poiché non era comune che monaci e conversi condividessero con le monache
lo stesso tetto, appare probabile che esistesse un nucleo maschile al quale le religiose si appoggiavano per le loro necessità. Dato che non abbiamo nessuna notizia di un eremo di altro
ordine nella zona, appare naturale che il ruolo di confessori o assistenti spirituali, nonché il
disbrigo delle attività connesse ai beni del monastero, fosse svolto dai vicini monaci camaldolesi di San Mariano, molto attivi in quel momento. Del resto un’organizzazione maschile a supporto del monastero vallombrosano emerge anche da altri studi 69.
4. La Badia Elmi e il comune di San Gimignano nel XIII secolo
I sangimignanesi elessero il loro primo podestà nella persona di Maghinardo da Siena nel
1199, completando così il percorso di indipendenza dalla giurisdizione signorile del vescovo di Volterra. Avevano già incluso nel loro territorio le ville di Casaglia, Montalto,
Montauto, Montignoso e della Pietra, e nel 1205 acquisirono i Fosci, Santa Lucia,
Pietrafitta e Monti 70. Nel 1206, e poi nel 1209, le magistrature municipali stipularono
con Colle val d’Elsa e Poggibonsi accordi di pace che misero sostanzialmente al riparo da
futuri contrasti i loro confini lungo il torrente i Riguardi e il fiume Elsa. Da quel momento il comune riservò tutte le sue energie e le sue attenzioni alla zona a ovest e a nord del
centro murato, ove viceversa erano aperte molte questioni con il comune di Volterra 71
(che stava anch’esso lottando per la sua autonomia dall’autorità politica del vescovo) e
con il presule stesso, il quale dal 1115 aveva acquistato dai Cadolingi la giurisdizione su
gran parte del territorio nel quale San Gimignano ambiva ad espandersi 72.
Il comune cercò ripetutamente di acquisire il controllo di Pulicciano, talvolta con la
forza, talvolta con la politica o con il denaro. Già nel 1204 San Gimignano aveva occupato i castelli di Ulignano, Pulicciano e Gambassi provocando distruzioni alle chiese della
zona che, il 21 gennaio 1205, fu costretto a risarcire pagando al vescovo di Volterra cento
lire di buona moneta pisana 73. Nel 1208 troviamo un documento con cui un certo
Ildebrandino da San Cassiano faceva atto di ricognizione degli uomini ascritti alla badia
di Adelmo abitanti nella villa di San Cassiano, rinnovando così un antico obbligo verso
il monastero 74. Fin dall’atto di fondazione della badia, infatti, erano stati donati da
Adelmo, come dote del cenobio stesso, una serie di beni fra i quali era compresa
68. Pecori, Storia cit., p. 425.
69. Mori, 1991 cit., p. 65, in riferimento al 1276, cita un «Pone priore s. Victoris districtualis S. Geminiani» che
identifica col priore Napoleone sub collettore delle decime tra il 1274 e il 1280. «Siamo di fronte – scrive –a un’organizzazione maschile che regge la parrocchia alle dipendenze delle monache di Cavriglia le quali nel 1337 si trasferirono entro San Gimignano nel monastero di S. Girolamo». Cfr. in proposito anche Duccini, Monasteri cit., p. 208.
70. Fiumi, Storia economica cit., pp. 23-25 e nota 32, p. 24.
71. Pecori, Storia cit., pp. 132-133 e 141, doc. XXXI, p. 608. Solo con la pace di Casole del 1309, che mise fine
alla rovinosa guerra con Volterra dell’anno precedente, furono fissati dei confini sostanzialmente stabili su questo
lato, che videro successivamente qualche limitata modifica a seguito di periodici contrasti con Volterra, per poi essere tracciati definitivamente nel 1575.
72. Vedi nota 11.
73. RV, 273 (1205, gennaio 21); Duccini, Il castello cit., pp. 69-71.
74. ASF, Diplomatico, S. Maria degli Angioli, 1208, ottobre 4. /
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Badia Elmi
medietatem de ecclesia, que est nostra pars, que est edificata in onore Sancti Ipoliti et
Cassiani, cum medietate de burgo et cum integris duo sortibus et rebus que ad ipsa curte
sunt pertinentes, illa una in loco qui dicitur al Culto, adque alia in loco qui dicitur a
Cignano 75.
Si configurava, fin dalla nascita della badia, un vero e proprio ‘distretto’ del monastero che aveva al centro della sua zona più importante, quella di San Cassiano, la chiesa
omonima con parte della medesima villa comprendente anche le località di Sant’Andrea,
Villa Castelli 76, Macinatico e San Benedetto 77. Era esattamente a questo ius vestrum che
Ildebrandino si ricollegava tramite l’atto di cui sopra, rinnovando l’impegno per sé e i suoi
successori a difendere l’abate e l’abbazia contro chiunque.
La riaffermazione di vecchi obblighi in questo momento poteva anche sottendere la
volontà di esercitare una sorta di protettorato sulla badia da parte dello stesso
Ildebrandino, persona cresciuta socialmente ed economicamente sulle proprietà del monastero. Il fatto che l’atto sia stato rogato dal notaio sangimignanese Benintendi nel castello di San Gimignano, nella casa dei figli di Angiliero e Forciore (casata dei Mangeri), può
far pensare proprio al tentativo di dare forza ad un nominativo ‘amico’ in una zona che
il comune di San Gimignano ambiva a controllare.
Non è dato sapere se l’atto citato abbia avuto effettivamente questo significato; è certo,
però, che non produsse alcun esito per San Gimignano. Anche altri tentativi in questa direzione non ebbero seguito 78, pur consolidando l’influenza del comune sulla zona 79. Anzi il
vescovo, onde bilanciare le pressioni sangimignanesi, finì per rivolgersi sempre più spesso a cittadini fiorentini 80, suscitando in San Gimignano rimostranze e risentimenti anco75. Duccini, Il castello cit., p. 45.
76. Mori, Pievi cit., 1991, p. 91. Il privilegio di Eugenio III del 1147 tuteleva l’abate di Elmi nel suo ius vestrum
in villa S. Andree, villa Castelli, eccl. S. Cassiani cum burgo et ortis suis.
77. Ancora il 28 marzo 1434, quando la badia di Elmi era ormai solo ‘fattoria’ dei poderi camaldolesi, essendo
vacante la chiesa di San Benedetto (piviere di Cellole) per la morte del suo rettore, domini Tommasii Lari de Sancto
Geminiano, l’abate di Badia Elmi, domnus Bernardus Bastiani de Florentia, cui spettava la nomina del rettore di questa chiesa de iure et antiquata consuetudine, dava mandato a Luca Geminiani canonico plebis Santi Geminiani per
la presentazione del candidato al proposto della pieve di San Gimignano (ASF, Notarile Antecosimiano, 20351, c.
58v). Già nel 1421 Thomeus canonicus plebis S. Geminiani risultava rettore della chiesa di San Benedetto, il cui patrono era l’abate di Elmi unitamente al monastero di San Gaggio di Firenze (che aveva proprietà nella zona) e a fra
Cataldo degli Agostiniani di San Gimignano, i quali avevano anch’essi proprietà fondiarie in quei territori (Mori,
Pievi cit., 1991, pp. 30-31; 19 dicembre 1421).
78. Muzzi, Entrate e uscite, p. 6. Nel gennaio del 1228 si invitavano a San Gimignano i domini di Montignoso,
La Pietra, Gambassi e Pulicciano, causa audiemdi legi comstitutum Sancti Geminiani, probabilmente per concordare con loro eventuali condizioni o rubriche, nel caso di una loro adesione al comune. Anche se i primi statuti
scritti di San Gimignano datano solo al 1255 (pubblicati in parte dal Pecori, nella sua citata Storia di San
Gimignano, pp. 662-741), è documentato che il comune aveva elaborato un proprio autonomo complesso di leggi
e disposizioni fin dai primi decenni del Duecento (M. Ascheri, Introduzione, in Gli albori del Comune di San
Gimignano e lo statuto del 1314, a cura di M. Brogi, Siena 1995, pp. 17-18. Cfr. anche Muzzi, Verbali Podestà I
cit., pp. 399-402, 407).
79. Muzzi, Entrate e uscite cit., p. 72. Nell’ottobre del 1228 dominus Gualcerius, potestas Sancti Geminiani, si
recava a Catignano per comporre una discordia nata fra nobiles homines de Catignano e pedites et homines de populo eiusdem loci ... de eligendo domino seu rectore de Catignano et in Catignano. La cosa fu risolta dal podestà nel
dicembre (ivi, p. 96).
80. RV, 363 (1218, giugno 9); S. Isolani, Storia politica e religiosa dell’antica comunità e potesteria di Gambassi
(Valdelsa), Castelfiorentino 1924, rist. Bologna 1999, p. 173. «Nel 1218 il vescovo Pagano, per pagare i debiti del
suo antecessore Ildebrando, diede in pegno le rendite di alcuni castelli, fra cui Pulicciano, a una società di banchieri
fiorentini» (Duccini, Il castello cit., p. 71).
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ra più forti 81. Nel giugno 1229 il comune, armata manu, occupò i castelli di Pulicciano,
Ulignano, Gambassi, Montignoso e altri luoghi di giurisdizione episcopale 82. La guerra
aperta contro il vescovo si estese anche ad altre zone, e San Gimignano giunse ad assediare il presule nel castello vecchio di Gambassi, ove peraltro si trovava insieme all’abate di Elmi Benedicto, che figurò come testimone in due documenti stilati in quell’occasione 83. L’alto prelato riuscì a fuggire e a rifugiarsi a Volterra dove, dalla cattedrale, rinnovò la scomunica contro le autorità di San Gimignano e lanciò l’interdetto sulla terra.
Richiese, inoltre, ai sangimignanesi una serie infinita di danni (che furono risarciti solo
parzialmente nel 1231) 84, inserendo nell’elenco delle località colpite anche quelle che da
tempo non erano più sotto il suo reale controllo 85.
Il dato più significativo di questo periodo è senz’altro il fatto che i sangimignanesi non
si siano limitati ad occupare le zone contese, ma le abbiano di fatto annesse al loro territorio, riscuotendovi dazi e amministrando la giustizia 86. Nel settembre 1231 il camarlengo del comune incassava da Dato e Ingilerio, balitoribus et dominibus de Pulicciano, de
datio ibi inposito et ordinato, la somma di lire 450 87. È questa la prima ed ultima volta
che troviamo il territorio di Badia Elmi inserito concretamente nel contado di San
Gimignano 88.
Senza dubbio l’abbazia aveva raggiunto un ruolo importante all’interno dell’Ordine
camaldolese, visto che nel 1220 il suo abate Benedetto, insieme a Filippo superiore del
monastero di San Zenone di Pisa, veniva chiamato a risolvere una delicata questione sorta
fra Guido priore della chiesa maggiore di Camaldoli e Orlando priore della chiesa ed
81. RV, 476 (1230, novembre 22). Sembra che il vescovo avesse concesso (Gianfante dicebat) al fiorentino Gianfante
di Berbellotto dei Finfanti di Firenze la segnorie seu vescontarie sui castelli di Gambassi, Pulicciano e Ulignano. Ne era
nata una vertenza fra il comune di San Gimignano e lo stesso Gianfante che fu composta dal podestà di Firenze Ottone
nel gennaio del 1230 con la restituzione dei territori (ASF, Diplomatico, Comune San Gimignano, 1230, gennaio 23),
i quali, in ogni caso, erano stati nel frattempo occupati dai sangimignanesi. Cfr. anche Duccini, Il castello cit., p. 71.
82. RV, 467 (1229, giugno 17).
83. RV, 471 (1230, gennaio 24, 25, 26).
84. RV, 479 e 480 (1231 marzo 20 e 21). Il vescovo chiese il rimborso dei danni causati da ferite da pietre, frecce e fuoco durante gli assalti (4000 marche), nonché quelli per incendi rapine e distruzione di castelli ed edifici (7000
marche), oltre ad altre 5000 marche per risarcimento dei diritti di fodro, albergaria, pedaggi, giuramenti di fedeltà e
di giurisdizione vescovile, e altre 1200 marche per richieste di denaro e beni in natura (vino, biade ed altro) fatte dai
sangimignanesi a chiese e monasteri (si citano esplicitamente i monasteri di Elmi, Cerreto e Mucchio, ma non San
Mariano) in tutte le zone occupate. Si chiedeva inoltre che il comune venisse interdetto dall’esercitare ulteriormente
la giurisdizione vescovile ed azioni forensi in tutte le zone contese, fra le quali si comprendevano esplicitamente i
castelli di San Gimignano, Ulignano, Pulicciano, Mucchio, Gambassi nuovo e vecchio, Montignoso, Castelvecchio e
Picchena. Il pagamento dei danni richiesti sarà solo parziale ed effettuato probabilmente dopo il 1231 (Fiumi, Storia
economica cit., p. 25 e nota 32).
85. RV, 472 (1230, gennaio 24).
86. Muzzi, Entrata e uscita, p. 417.
87. Ivi, pp. 406-407 (settembre 1231).
88. Dopo la fine della guerra con San Gimignano il vescovo Rainiero concedeva la zona di Pulicciano a Neri di
Iacopo degli Uberti, dal quale tentò poi ripetutamente di riscattarlo prendendo prestiti da vari banchieri (RV, 635,
1251 giugno 4). Il vescovo in quegli anni era in trattative proprio con il comune di San Gimignano per un ulteriore
mutuo, quando Neri degli Uberti nel 1254 vendette quel territorio alla repubblica fiorentina per la somma di lire 2800
(Fiumi, Storia economica cit., p. 28 e nota 39; Duccini, Il castello cit., p. 72 e nota 33). Nel 1263, dopo la vittoria
ghibellina di Montaperti, Pulicciano fu restituito formalmente al vescovo, anche se di fatto rimase feudo degli Uberti.
Nel 1269, dopo la sconfitta ghibellina, il re Carlo d’Angiò assegnò Pulicciano a San Gimignano con l’ordine di distruggerne il castello (D. Waley, Il Comune di San Gimignano nel mondo comunale toscano, in Ciampoli, Il Libro Bianco
cit., pp. 11-43: 30); cosa che sembra il Comune abbia fatto nel 1274 (G. Cecchini, E. Carli, San Gimignano. Notizie
storiche, Milano 1962, p. 31). Il comunello di Pulicciano venne poi inglobato definitivamente nella repubblica fiorentina (Fiumi, Storia economica cit., p. 28 e nota 39; Duccini, Il castello cit., p. 72 e nota 33).
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Badia Elmi
eremo di San Frediano di Pisa 89. Ma anche il comune di San Gimignano ebbe modo di
servirsi ripetutamente dei buoni uffici di questi religiosi valdelsani. Una discordia et lite
sorta nel febbraio del 1228 fra Boncristiano e Ventura da Certaldo, da una parte, e
Borgognone Budelli e i suoi fratelli da San Gimignano, dall’altra, trovò soluzione dopo
che il podestà Gualciero e il giudice sangimignanese Ruberto si incontrarono presso l’abbazia di Adelmo con il podestà di Certaldo 90. Se in questo caso era stato naturale servirsi della mediazione della badia per la sua posizione geografica fra i due comuni, la scelta
di San Gimignano di farne la sede di un negozio segreto non può che essere stata dettata
dalla reputazione del suo abate e dalla fiducia che il comune riponeva in lui.
Nel 1228 San Gimignano stava ancora cercando di acquisire il controllo del castello
della Nera, nel quadro delle continue lotte contro Volterra 91. Nel novembre di quell’anno
l’abate di Elmi veniva investito del ruolo di negoziatore per tale vicenda 92, alla quale era
presumibilmente stato interessato già dall’aprile. Durante quel mese, infatti, altri contatti
si erano avuti fuori del castello e della corte di San Gimignano con l’intermediazione di un
certo Raniero Gianni, il quale «andò in qualche posto per qualche negozio segreto» su
disposizione del «Consiglio Generale e Speciale». Anche il potestà Gualcerio e il giudice
sangimignanese domino Gemtili si attivarono ripetutamente per lo stesso ‘affare’ 93. Non
sappiamo con certezza a quale negotio ci si riferisse. Visto, però, che in quei giorni il podestà mandava il nunzio del comune a cercare l’abate di Elmi nella villa di Agresto, nella cura
di Catignano, affinché si presentasse al potestà 94, e dato che sempre in quel periodo si registravano numerosi pagamenti del camarlengo sangimignanese per l’esercito stanziato al
castello della Nera 95, riteniamo che l’argomento delle riunioni fosse proprio la situazione
militare intorno a quel sito.
Nel gennaio del 1231 l’abate di Elmi, questa volta insieme a quello di Mucchio e al plebano di Cellole, divennero giudici eletti dal papa in una lunga contesa nata fra il comune
di San Gimignano e il monastero di Sant’Almazio, presumibilmente per danni arrecati
dalle masnade sangimignanesi durante le loro scorrerie nel volterrano 96. La questione, che
era sorta nell’aprile del 1228, proseguì con la nomina di Bomdie pizicaiulo, simdico ordinato pro Comuni Sancti Geminiani, incaricato di ricercare una composizione amichevole della faccenda. La soluzione della lite si ebbe, però, solo dopo la nomina del collegio
arbitrale che abbiamo indicato, e a seguito di alcune visite del notaio sangimignanese
Cambio alla Badia Elmi e del plebano di Cellole a Ponzano, al vescovo di Volterra, al
89. ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1220, ottobre 31. La questione riguardava, oltre che l’eremo di Camaldoli,
anche il vicino cenobio di Fontebuono, ed era relativa a tres calices argenti et cuppam auri et suprascriptas duas planetas albas cum fresciis ed altri corredi liturgici che l’abate di San Frediano dovette restituire a don Guido dopo che
il lodo arbitrale del 2 novembre di quell’anno dispose il pagamento, da parte dell’eremo di Camaldoli al monastero
confratello, di 170 lire pisane divise in tre rate.
90. Muzzi, Entrata e uscita cit., pp. 18-19, 21 (febbraio 1228).
91. Notizie sulle lotte per il castello della Nera in Pecori, Storia cit., pp. 49, 58; Fiumi, Storia economica cit., p.
33; Ciampoli, Il Libro Bianco cit., p. 98.
92. Muzzi, Entrata e uscita cit., p. 83 (novembre 1228). Il camarlengo Bonagiunta registrava: dedi, parabola potestatis, Micchaeli de Nigra pro victura sui romzini, quem equitavit Bommisterius ad abatiam de Elmo pro quodam
negotio secreto Comunis Sancti Geminiani, II soldos.
93. Muzzi, Entrata e uscita cit., pp. 43-44 (aprile 1228).
94. Ivi, p. 46 (aprile 1228).
95. Ivi, pp. 41-46 e segg. (aprile 1228).
96. Ivi, p. 258 (gennaio 1231).
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monastero di Coneo e soprattutto al monastero di Sant’Almazio. In questo luogo il simdico si recava per parlare ripetutamente con la badessa onde cercare di comporre la causa
con il consenso delle monache e delle converse. Nell’agosto 1231, finalmente, il camarlengo del comune Guicciardo del fu Pietro registrava nel libro delle spese di aver dato 65
lire alla badessa di Sant’Almazio, domine Bigaille ... pro fine et refutatione, quam Comuni
fecit 97. Nel novembre di quell’anno anche il magistrato Gradalone si recava all’abbazia
camaldolese di Cerreto con l’incarico di parlare per conto del comune di San Gimignano,
non sappiamo su quale argomento, con l’arcidiacono di Firenze 98.
La badia di Elmi era importante per San Gimignano anche dal punto di vista economico. Alle proprietà donate da Adelmo fin dalla costituzione del monastero si erano aggiunti, durante la seconda metà del secolo XI, altri lasciti di terreni per una trentina di staiora,
oltre alla metà della chiesa di San Martino e San Quirico a Mantiano con relative pertinenze 99. Ma l’abbazia rivestiva un particolare rilievo economico soprattutto per il possesso di mulini, gestiti sia insieme alla badia di Cerreto, come vedremo, sia col monastero di
Mucchio, secondo quanto appare dall’elenco delle attività di ser Domenico di ser Iacopo,
notaio e prestatore di Certaldo «concessionario della quarta parte dei mulini del monastero di S. Maria a Elmi e dell’ottava parte di quelli del monastero di S. Pietro a Mucchio» 100.
Nel 1192 il vescovo di Volterra Ildebrando per estinguere un debito di 45 denari pisani
che aveva contratto con la chiesa di Sant’Eusebio, dava in pegno a Fede, presbitero e rettore della chiesa stessa, l’affitto e il reddito del mulino gestito dal monastero di Elmi e dai
priori di Certaldo, valutato in tre moggia di grano 101. Nel 1209 sempre il vescovo Ildebrando
concedeva in enfiteusi perpetua a Benedetto abate di Elmi il reddito del mulino posto alla
foce del torrente Casciani, in cambio di una pensione annua pari a sei denari 102. Non sappiamo se le due citazioni si riferiscano alla stessa struttura. In seguito figurano molti riferimenti a le molina nuove, e ai mulini dell’Anghareccia. Certo è, comunque, che la gestione dei mulini era considerata di interesse rilevante sia per la Badia Elmi che per la vicina
abbazia di Cerreto. In qualche caso vedremo apparire nuovamente anche il confratello
monastero di Mucchio.
Le ruote idrauliche e la loro gestione figurano anche nel conflitto che il 30 maggio
1287 si aprì fra il monastero di San Pietro a Cerreto e il capitolo della canonica dei Santi
Michele e Iacopo di Certaldo a motivo di decime non pagate dai monaci da circa venti
anni su terreni, poderi, pascoli nei boschi, diritti di pesca e di molitura e altre cose e beni
che i regolari possedevano nella parrocchia della canonica. Si trattava probabilmente
97. Ivi, p. 318 e pp., 52, 53, 58, 63, 64, 67, 81, 87, 92, 96, 98, 176, 195, 196, 197, 199, 202, 205, 227, 243, 265,
270, 275, 278, 280, 283, 284, 285. Badia Elmi è ancora documentata nel 1472, quando il suo abate (a questa data
esistente sostanzialmente solo di nome) fu nominato, con bolla di papa Sisto IV, come giudice in una causa fra il
comune di San Gimignano, da una parte, e i frati di Sant’Agostino, il capitolo dei canonici di San Gimignano e il rettore della chiesa di Sant’Andrea dall’altra (ASF, Diplomatico, Comune di San Gimignano, 1472, ottobre 21).
98. Muzzi, Entrata e uscita cit., p. 89 (ottobre 1228).
99. Duccini, Monasteri cit., pp. 198-199.
100. O. Muzzi, Un castello del contado fiorentino nella prima metà del trecento: Certaldo in Valdelsa «Annali
dell’Istituto di Storia, Facoltà di Magistero, Università di Firenze», 1, 1979, pp. 67-111: 88. Per la zona di Mucchio
la presenza di mulini appare documentata nel 1231, quando il camarlengo di San Gimignano registrava: habui XXV
soldos a Galganecto de Muchio, quos receperat ultra quam debebat, secundum extimationem quorundam, pro mendo
sui molendini conbusti (Muzzi, Entrata e uscita cit., p. 422, novembre 1231).
101. RV, 235 (1192, agosto 13); Fiumi, Volterra e San Gimignano cit., p. 263.
102. RV, 290 (1209, gennaio 23); Duccini, Monasteri cit., p. 200.
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Badia Elmi
delle stesse sostanze che nel 1192 comprendevano il mulino gestito dalla badia di Elmi
dato in pegno a Fede dal vescovo di Volterra, che nel 1287 appariva, però, di competenza dell’abbazia di Cerreto. In quell’anno, davanti a don Enrico abate del monastero
camaldolese di Firenze, il priore Giandonato, procuratore della canonica di San Michele
e Iacopo di Certaldo, sosteneva che i monaci avrebbero dovuto pagare alla canonica ogni
anno lire XXV di fiorini ‘poveri’ che, per il periodo dei venti anni, significavano la somma
di 500 lire. Restorus, abate del monastero camaldolese, insieme ai confratelli Iuncte,
Benedicti, Iacobi et Bossi, qui sunt maior pars capituli, sosteneva, invece, che il monastero di Cerreto era esente dalla prestazione delle decime. Con lodo del 19 agosto 1287
don Enrico, assistito dal consiglio del ‘giusperito’ magister Ottavanti, acclarava le ragioni del cenobio 103.
Nel 1305 il monastero di San Pietro a Cerreto cedeva a fitto a Moncio del fu Gatto da
Certaldo per la durata di dieci anni i mulini nuovi e la casa spettante a detti mulini, oltre
alla metà, per indiviso, delle analoghe infrastrutture dell’Anghareccia poste sul fiume Elsa
nella corte di Certaldo 104. Il 26 gennaio 1317, nel chiostro della badia di San Pietro a
Mucchio, don Giovanni, ‘maggiore’ dell’eremo di Camaldoli, stipulava l’atto di ‘riacquisto’ dei beni di cui sopra nel corso di una complessa e lunga manovra relativa al monastero di Cerreto 105. Nel 1371 fu il priore dell’abbazia di Mucchio, dominus Donatus, che
concesse in affitto un podere con casa, parte lavorato e alberato e parte a vigna, nel comune di Certaldo, in loco dicto All’Angareccia (lo stesso dei mulini citati nel 1305) a Lorenzo
del fu Signore da Certaldo e a Bartolo del fu Lorenzo 106. Una vigna situata nel popolo di
San Iacopo di Certaldo, alla Langareggia (ancora lo stesso sito) figura poi in inventario
del 1445 fra le proprietà del monastero di Mucchio 107.
Non appare semplice districarsi fra i vari documenti dei tre cenobi, alcuni dei quali
appaiono rogati sotto il controllo di Camaldoli al solo scopo di alleggerire i prestiti usurari che gravavano su qualcuno di essi. I collegamenti fra i monasteri di fondovalle appaiono comunque evidenti. Anche da un ulteriore documento del 1405, stilato in un periodo
nel quale tutti i cenobi dei figli spirituali di san Romualdo avevano perso il loro originario rilievo e versavano in difficoltà economiche, emergono comuni problemi. In quell’occasione don Antonio di maestro Giovanni, canonico fiorentino e collettore delle decime
apostoliche per la provincia toscana, dichiarava con decreto che sia il monastero di San
Pietro a Cerreto che quello di Santa Maria dell’Elmo, a motivo delle guerre devastatrici e
delle alluvioni che avevano rovinato i mulini di detti monasteri, avrebbero dovuto paga103. ASF, Diplomatico, S. Maria degli Angioli, 1287, maggio 17; maggio 30, giugno 13; agosto 17.
104. ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1305, aprile 25: Moncio del fu Gatto da Certaldo doveva dare annualmente
al monastero di Cerreto 10 moggia di grano, oltre a 42 staia di grano e 42 di miglio a un certo Povito Conte di
Certaldo. Ci furono comunque dei problemi, in quanto il 9 giugno 1312 don Giovanni abate di Cerreto, con il consenso di don Andrea dell’eremo di Camaldoli, dava mandato a don Bartolo monaco del monastero di San Giusto in
Volterra di agire nella lite contro Baglio e Ciuccio del fu Guidotto, Nante del fu Bertino e Moccio del fu Gatto, affittuario di cui all’atto precedente. Una nuova locazione fu stipulata il 10 luglio 1312, stavolta quinquennale, per un
podere con casa nel comune di Certaldo, luogo detto Le mulina nuova, concessa da don Giovanni abate del monastero di Cerreto a Guarduccio di Pietro da Cerreto e a suo figlio, per l’annuo canone da versare nel mese di agosto di
staia 3 e ¾ di grano picchiato e trigliato (ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1312, luglio 10).
105. ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1317, gennaio 26. Contratto rogato dal notaio Pino del fu Corso di Palmiero
da San Gimignano. Vedi nota 138.
106. Cfr. ASF, Notarile Antecosimiano, 20927, fasc. V, cc. 52v-53r.
107. Mori, Pievi cit., 1991, pp. 93-94. Vedi tavola 2 del presente lavoro.
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re alla camera apostolica la minor somma di 12 fiorini piccoli fiorentini, invece che lire
42 e soldi 15 il primo, e lire 10 anziché fiorini 30 piccoli il secondo 108.
Una lite sulle decime era scoppiata anche nel 1323, questa volta con il confratello monastero di San Giusto di Volterra. I monaci volterrani avevano ricevuto in donazione «dal
beato Iacopo Guidi e dal di lui fratello cav. Inghirami di Certaldo» due poderi, uno detto
Casciano nelle vicinanze di Elmi e l’altro in Certaldo 109. Sui frutti del podere più vicino
alla badia sorse una ulteriore questione per le decime. Don Bonaventura, priore generale
dell’Ordine, dovette pronunciarsi in merito, e con lodo del 22 giugno stabilì che dovessero essere versate annualmente al monastero di Santa Maria di Adelmo 8 staia di grano
nel mese di agosto e lire 25 nel mese di luglio per l’arretrato 110.
5. La decadenza di Badia Elmi
Intorno alla seconda decade del secolo XIII i monasteri camaldolesi furono investiti, sempre più frequentemente, da problemi interni all’Ordine e da contrasti con il clero secolare 111. Alcuni episodi evidenziavano un clima di scarsa disciplina regolare 112 e di crescente rilassatezza morale 113. Si era ormai creata una situazione ben diversa rispetto a
quando si chiamavano i figli spirituali di san Romualdo a riformare i costumi dei monasteri benedettini. Durante la prima metà del Duecento fu il messaggio francescano ad
incontrare il gradimento maggiore della popolazione valdelsana, sedimentandosi gradatamente sul territorio. Ai primi conventi dei frati Minori seguirono, sul finire del secolo
XIII, insediamenti agostiniani e poi domenicani 114.
Anche la badia di Adelmo risentì profondamente del clima in cui l’Ordine venne a trovarsi fin dalla terza decade del secolo. Durante quel periodo troviamo citato in vari atti
Benedicto, abas de Elmo. Appare nel 1228 in un documento con il quale il vescovo Pagano
dava in feudo un podere posto in castro de Pulicciano ad censum XII sestariorum grani 115;
poi nel 1230, in due rogiti stilati nel castello di Gambassi assediato dai sangimignanesi 116,
ancora nel 1233 in un altro atto relativo a una proprietà dello stesso vescovo in castro de
108. ASF, Diplomatico, S. Maria degli Angioli, 1405, maggio 9.
109. L. Consortini, La Badia dei SS. Giusto e Clemente presso Volterra. Notizie storiche e guida del Tempio e del
Cenobio, Lucca 1915, p. 62. «Non sappiamo perché costoro preferissero l’Abbazia volterrana a quella di Adelmo
che del resto era della stessa regola, forse lo fecero perché essi abitavano nella prima e perché il beato Iacopo che vi
fu abate dal 1268 al 1272, meglio ne conobbe i bisogni e volle in qualche modo provvedervi e lasciare un ricordo
della disimpegnata dignità abbaziale» (Isolani, Storia politica, Gambassi cit., p. 167).
110. ASF, Diplomatico, S. Maria degli Angioli, 1323, giugno 22. Nel 1383 si svolse presso la Badia Elmi una riunione per risolvere alcuni problemi sorti fra don Girolamo di Egidio da Firenze abate di Elmi e don Giusto superiore del monastero di San Giusto fuori Volterra, alla presenza dell’auditore M. Lodoviso, cardinale di Venezia, e di don
Niccolo, cardinale prete del titolo di San Ciriaco revisore delle finanze dell’Ordine (ASF, Diplomatico, S. Maria degli
Angioli, 1383, settembre 21).
111. Cfr. ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1230, maggio 21; 1231, febbraio 28, aprile 24, aprile 30; 1233, marzo
17; 1233, dicembre 13; 1234, gennaio 17; 1234, gennaio 21; 1234, gennaio 28.
112. Ivi, 1236, giugno 27, settembre 3, settembre 24, ottobre 19, 1236, senza giorno e mese.
113. Ivi, 1238, febbraio 9, febbraio 23; 1242, settembre 29; 1244, agosto 18; 1248, luglio 18. Nel 1251, dal 9 al
18 dicembre, papa Innocenzo IV emanò dieci bolle relative ai Camaldolesi afflitti da problemi morali e disciplinari
riscontrati nei rapporti dell’Ordine con i vescovati di Arezzo, Fiesole e Ravenna (ivi, 1251, dicembre 9 - 4 bolle -,
dicembre 12 - 1 bolla -, dicembre 16 - 3 bolle -, dicembre 18 - 2 bolle).
114. Cfr. Gli ordini Mendicanti in Val d’Elsa, Atti del Convegno di studio, Colle Val d’Elsa, Poggibonsi, San
Gimignano, 6-8 giugno 1996, Castelfiorentino 1999.
115. RV, 454 (1128, giugno 7).
116. RV, 471 (1230, gennaio 24, 25, 26).
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Badia Elmi
Bibone 117, e quindi nel 1236, in un documento relativo ad una questione sorta fra plebanus et capitulum plebis de Chianni e il popolo di Gavignalla, al quale il vescovo concedeva una parrocchia autonoma 118.
Al termine del lungo mandato dell’abate Benedetto si apriva un periodo di instabilità
che durò con fasi alterne per tutto il secolo e portò ad un impegno sempre più diretto del
vescovo di Volterra nella vita dell’abbazia, superando quanto previsto nell’atto di conferimento della medesima ai Camaldolesi nel 1073, il quale lasciava al presule il solo diritto di investitura dell’abate, ma non la sua nomina, che spettava invece al priore generale
di Camaldoli.
Il 4 febbraio 1236, essendo il monastero di Elmi vacante del suo pastore, i monaci radunati in capitolo eleggevano abate concorditer unanimiter il monaco Aldobrando, consenziente don Spata rettore della chiesa di San Quirico delegato del vescovo. Al nuovo
superiore venne affidata, cum libro et clavibus, l’amministrazione spirituale e temporale
della badia. L’elezione fu ratificata da Guido priore di Camaldoli, il quale ex officio suo
examinavit vota monacorum 119. Aldobrando restò in carica solo fino al 21 marzo del
1239, quando venne rimosso per motivi che ci sono sconosciuti 120.
Fu solo il 21 marzo del 1240 che i monaci Ristorus e Mapheus (che formavano l’intero capitolo della Badia), insieme a tutti coloro che haberent ius in electione facienda (il
riferimento è chiaramente al vescovo), elessero abate di Elmi don Iacopo del fu Albertino,
già priore della badia di San Giusto di Volterra. Questi accettò la carica solo il giorno
seguente e solo dopo che don Martino, abate dell’abbazia di San Giusto, cui obedire tenetur, aveva approvato l’elezione 121. Dopo altri nove mesi, però, anche Albertino rinunciava alla carica e veniva nominato responsabile del monastero, in attesa dell’elezione di un
nuovo abate, don Micchaelis eletto dall’eremo di Camaldoli 122.
Nonostante le difficoltà interne la badia non poteva sottrarsi ai suoi ‘doveri’ nei confronti del potere politico. Nel 1260 partecipava all’elargizione di un moggio di grano per
l’approvigionamento dell’esercito fiorentino nella guerra fra Siena e Firenze 123; lo stesso
esercito nel quale si trovavano anche le milizie di San Gimignano 124.
I problemi economici divennero particolarmente evidenti durante le ultime decadi del
secolo. Nell’aprile del 1277 l’abate Henricus chiedeva al vescovo Raynerius, visitans abbatiam de Elmi, che il monastero venisse esonerato dal pagamento della procuratione dovu117. RV, 503 (1233, novembre 30).
118. AVV, Mensa Vescovile, n. 35 (1237, dicembre 1, indizione decima). Non è chiaro se in quest’ultimo documento l’abate Benedicto appaia come superiore in carica, oppure come olim abbas de Elmo secondo quanto riporta
la Duccini (Monasteri, cit. p. 200 e nota 54). In questa seconda ipotesi Benedicto il 1 dicembre 1236 non era più alla
guida di Elmi (aveva dato le dimissioni dalla carica oppure era stato rimosso) giustificando così l’elezione di un successore, che avvenne il 4 febbraio 1236.
119. ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1236, febbraio 4; trattasi di 14 carte nelle quali si esamina l’elezione degli
abati della badia fino al 24 ottobre 1279 (Cfr. Regesto di Camaldoli cit., III, a cura di E. Lasinio, Roma 1914, n.
2091, p. 374, 4 febbraio 1236). All’elezione presenziava come testimone anche don Benedicto, priore del monastero
di San Mariano.
120. ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1236, febbraio 4.
121. Ibidem (cfr. Regesto di Camaldoli cit., IV, 1928, nn. 2189, 2190, pp. 45-46, 1240, marzo 21 e 22).
122. Duccini, Monasteri cit., p. 201.
123. Ibidem [cfr. Il Libro di Montaperti (an. MCCLX), a cura di C. Paoli, Firenze 1889, rist. a cura di C. Fabbri,
Firenze 2004, p. 117].
124. Pecori, Storia cit., p. 80.
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ta, a causa delle condizioni di povertà nelle quali l’abbazia era caduta, promettendogli,
comunque, obbedienza 125. Qualche mese dopo, il 20 giugno, troviamo che l’alto prelato,
questa volta senza alcuna traccia di intermediazione da parte del capitolo dei monaci, constituit ad gubernandam abbatiam de Elmi il presbitero Iacobo rettore della chiesa di San
Donato della pieve di San Gimignano familiarem suum. La gravità del momento obbligò
il pastore a fare questa scelta, forzato anche dal fatto – scriveva l’Isolani – «che il priore
generale di Camaldoli era stato scomunicato» 126.
Nel 1296 il vescovo Raniero, dopo il trasferimento ad altro monastero del precedente
abate Aldobrando, dovette impegnarsi ancora una volta direttamente per l’elezione del
nuovo superiore di Elmi Uberto, già abate di Berradenga, il quale però renuntiavit. Visto
che anche in quel periodo il priore don Frediano di Camaldoli risultava scomunicato, il
vescovo richiese di nuovo a Uberto di accettare, e questi infine acconsentì 127. Due anni
dopo, nel novembre 1298, rimasta nuovamente vacante la carica suprema, il presule ordinava al suo procuratore Iacobo Pagani da Piperno, cappellano del cardinale Pietro arcidiacono di S. Marie nove, ... ad confirmandum cum Davino priori generali ord.
Camaldulensis, di nominare abate della badia di Elmi il camaldolese Francesco da
Castelfiorentino, che godeva della piena fiducia del cardinale stesso. L’elezione fu perfezionata pochi giorni dopo 128.
La fine del secolo vedeva quindi la badia di Elmi in serie difficoltà, con problemi forse
maggiori di quelli del confratello monastero di San Pietro a Cerreto, che proprio in questo
periodo assunse progressivamente un ruolo di riferimento per le fondazioni camaldolesi
della zona. L’Isolani sostiene che ciò accadde «per la sua migliore ubicazione», intendendo probabilmente che la zona intorno alla Badia Elmi, in seguito ad una scarsa cura dei
terreni, era divenuta meno salubre rispetto a quella ove sorgeva il monastero di Cerreto 129.
A quest’ultimo, che nel 1303 acquisiva come abate un non meglio precisato magistro G.
de Sancto Geminiano 130, nell’agosto del 1310 don Accorso, priore generale di Camaldoli,
concesse licenza di poter permutare alcuni debiti che arrecavano grave pregiudizio al monastero con altri meno gravosi; e poi, nel settembre, il permesso di prendere a cambio fino
alla somma di lire mille di fiorini piccoli per far fronte ad altre pendenze 131. Risulta evidente che queste autorizzazioni riguardavano non solo Cerreto ma anche agli altri cenobi,
visto che nel giro di pochi anni tutti i monasteri valdelsani se ne avvalsero.
Le ‘licenze’ che abbiamo menzionato derivavano dalla necessità di sanare situazioni debitorie intricate e pregresse, come appare evidente dalla vicenda di due poderi del monastero di Cerreto. Già nel febbraio 1310 don Giovanni abate di Cerreto cedeva a Fabbro del
fu Tolesino e a Tegghia del fu Guido di Tolesino del popolo di San Simone di Firenze il
125. RV, 836 (1277, aprile 10); Duccini, Monasteri cit., p. 201.
126. RV, 841 (1277, giugno 20); Isolani, Storia politica, Gambassi cit., p. 204.
127. RV, 970 (1296, ottobre 19 e 20, novembre 2). Cfr. Isolani, Storia politica, Gambassi cit., pp. 166-167;
Duccini, Monasteri cit., p. 201.
128. RV, 985, 986 (1298, novembre 13 e 28); Isolani, Storia politica, Gambassi cit., p. 167; Duccini, Monasteri
cit., pp. 200, 201.
129. Isolani, Storia politica, Gambassi cit., p. 167.
130. RV, 998 (1303, febbraio 13).
131. ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1310, agosto 29 e settembre 27. La prima licenza era concessa a Gagliafune
converso della badia. La seconda all’abate di Cerreto don Giovanni. Entrambi gli atti furono stilati presso il monastero di San Salvatore di Camaldoli.
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podere detto Monteformicole, sito nel popolo dell’abbazia di San Pietro a Cerreto, per il
prezzo di lire settecento di fiorini piccoli 132, somma che servì a quest’ultima per pagare 120
fiorini a Lapo di messer Iacopo giudice di Certaldo e ‘liberare’, quindi, un podere nei confini di Catignano che Lapo aveva ricevuto in pegno da don Pietro precedente abate fino a
quando non fosse stata pagata quella somma 133. Quindi nel 1315 don Benedetto abate di
Cerreto, insieme a don Simone unico monaco della badia, con l’autorizzazione di Accorso
priore di Camaldoli, onde estinguere alcuni debiti usurari del loro monastero, stilavano tre
atti diversi con Fabbro e Tegghia di Tolesino al solo scopo di acquisire denaro dando nuovamente in pegno le proprietà del monastero. Con il primo atto si cedeva in permuta un
podere con casa nel comune di Certaldo (popolo della Canonica vecchia, luogo detto Le
mulina nuova) 134, in cambio di un podere con due case situate nel popolo della badia in
luogo detto Monteformicole della corte di Catignano 135. Con il secondo si vendeva alle stesse persone un podere con casa nel popolo di San Pietro a Cerreto, in luogo Piano d’Elsa,
unitamente ad altri due pezzi di terra, per il prezzo di lire 1433.6.8 136. Tramite il terzo
Fabbro e Tegghia si impegnavano a rivendere a don Benedetto e a Simone il podere di cui
sopra con i due appezzamenti di terra e quello ceduto a titolo di permuta, ma per il maggior prezzo di lire 2133.6.8. Con questa complessa manovra, fatta sotto l’egida del priore
generale di Camaldoli, si otteneva sostanzialmente un finanziamento, garantito dai possessi del monastero, da restituire nel tempo con il sovraprezzo di lire 700 137. Questa lunga
e complicata vicenda coinvolse anche il monastero di Mucchio, all’interno del cui chiostro,
nel 1317, venne stilato il rogito di riacquisto da Fabbro e Tegghia per opera di don Giovanni
maggiore di Camaldoli, dei due poderi, uno posto nel popolo di San Pietro di Cerreto, nel
comune di Catignano luogo detto Piano d’Elsa, e l’altro nel comune di Certaldo in luogo
detto al Mulino Nuovo 138, per i quali fino ad allora il monastero aveva versato un affitto
annuo a Fabbro e a Tegghia 139.
132. ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1310, febbraio 12. I compratori pagavano anche lire 11 soldi 13 e denari 4
per la gabella della vendita in favore di Simone appaltatore della gabella stessa.
133. ASF, Diplomatico, S. Maria degli Angioli, 1310, marzo 16. Nel 1306 lo stesso abate Pietro aveva venduto a
Scapornella di Buonaccorso da Firenze un podere e un credito di lire 600 che il monastero di Cerreto aveva con un
certo Raglio del fu Guidotto de Fugneto della corte di Catignano. Lo Scapornella riuscì ad avere dal Raglio vari pagamenti ad estinzione del credito cedutoli, che evidentemente il monastero non era riuscito fino ad allora ad ottenere
(ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1306 luglio 17).
134. Era lo stesso podere che abbiamo visto in nota 104.
135. Lo stesso podere di cui alla nota 132.
136 ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1315, agosto 6: licenza accordata da don Accorsio, priore dell’eremo di
Camaldoli, a don Benedetto priore di San Pietro a Cerreto di vendere un podere con casa posto nel popolo di Catignano
in luogo detto Pian d’Elsa, e un altro podere situato nel comune di Certaldo, luogo detto a Mulin Nuovo per il prezzo di lire 1400.
137. ASF, Diplomatico, S. Maria degli Angioli, 1315, aprile 13. Nell’ottobre del 1316 risulta saldato un debito
di venti fiorini piccoli ancora in vigore per una sentenza con Moccio del fu Gatto da Certaldo (ASF, Diplomatico,
Camaldoli, 1316, ottobre 3).
138. Ivi, 1317, gennaio 26. Questo riacquisto sarà probabilmente l’atto finale di tutta l’operazione, ed era stato
preceduto, il 24 gennaio, dalla procura concessa a Lapo di Bellino da Fabbro e Tegghia di Tolosino per vendere a
don Giovanni, superiore di Camaldoli, un podere con case situato nel popolo di San Pietro a Cerreto nel comune di
Catignano, luogo detto Piano d’Elsa (ivi, 1317, gennaio 24), vedi nota 105.
139. Ivi, 1317, gennaio 26: don Benedetto di Mugello abate di Cerreto, ‘confessa’ di tenere e far lavorare un podere con casa posto nel comune di Certaldo, luogo detto al Molino Nuovo pagando il fitto a Fabbro di Tosolino e a
Tegghia del fu Guido Tolosini da Firenze. Ivi, 1317, gennaio 28: quietanza generale di Fabbro e Tegghia, per loro
stessi e per i loro eredi, a don Giovanni da Volterra superiore dell’eremo di Camaldoli ricevente per conto di don
Benedetto abate del monastero di San Pietro a Cerreto.
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La badia di Adelmo e i Camaldolesi nell’alta Valdelsa (secoli XIII-XV)
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Una manovra simile venne condotta nel 1319 anche dall’abbazia di Elmi, questa volta
con l’aiuto di alcuni confratelli. Nel marzo di quell’anno risulta che Benedetto, abate di
Santa Maria di Adelmo, vendeva a don Giovanni da Volterra, ‘maggiore’ dell’eremo di
Camaldoli, 20 staiora di terra per il prezzo di 100 fiorini d’oro 140. Nel dicembre dello stesso anno il medesimo Benedetto e due monaci del capitolo, anch’essi per voler dimettere
alcuni debiti usurari, e con il consenso di don Bonaventura priore generale di Camaldoli,
vendevano a don Gerardo priore e ad Alessandro e Andrea, monaci del monastero di Santa
Maria degli Angeli di Firenze, altre 30 staiora di terra del podere di Olmeto nella corte di
Pulicciano, con due parti di una casa posta nel podere stesso per il prezzo di 287 fiorini
d’oro. Anche questa vendita, fatta nel rispetto dello spirito della licenza accordata da don
Accorso nel 1310 al monastero di Cerreto, appare finalizzata solo ad ottenere liquidità
per il monastero. Si prevedeva, infatti, nello stesso atto che il terreno venduto venisse concesso a fitto per venti anni ai monaci della badia per il canone di lire 33 di fiorini piccoli
da pagarsi alle calende di ottobre. Con questo meccanismo i religiosi ottenevano il tempo
necessario a restituire la somma ricevuta 141.
La situazione di difficoltà era comune anche agli altri monasteri. Nel 1321 don
Leonardo, priore di San Mariano della corte di Monte Tignosole, chiesa suffraganea
di quella di Adelmo, otteneva da don Bonaventura priore generale di Camaldoli licenza di contrarre un debito pari a lire 100 per provvedere al bestiame necessario al monastero 142. Nel 1372 fu dominus Donatus prior habatie de Mucchio, nella sua qualità di
commissario nominato dal reverendo viro domino Ihoanni priore generale dell’Ordine
camaldolese e per intervento reverendi domini viri Micchaelis abatis abatie sive monasterii de Cerreto, a vendere a Michele soprannominato Riccio del fu Migliore della
villa di San Vittore, distretto di San Gimignano, un pezzo di terra situato in quella
località, di proprietà probabilmente del monastero di Cerreto, per il prezzo di 8 fiorini d’oro 143. Nel 1375 Dominus Dyonisius Guelfucii de Aretio abbas abbatie Sancte
Marie de Aelmo, su licenza domini Donati prioris de Mucchio vulterrane diocesis commissarii reverendi viri domini Iohannis prioris generalis totius Ordinis Camaldulensis,
fu costretto a vendere un altro pezzo di terra con orto in Pulicciano pro solvendo impositam comunis Florentie 144.
La caotica situazione economica che emerge dal susseguirsi degli atti di vendita, di permuta, di affitto e poi di riacquisto degli stessi poderi derivava dalla concezione patrimoniale propria a tutti gli enti ecclesiastici del periodo, per la quale i poderi non dovevano
essere venduti se non in casi del tutto eccezionali, e comunque dopo specifica e motivata
autorizzazione da parte delle autorità superiori. Monaci e chierici erano, pertanto, costretti a ricorrere a forme contrattuali diverse dalla vendita vera e propria, in ogni caso garantite dalla proprietà immobiliare, che potessero assicurare la liquidità necessaria per la vita
140. Ivi, 1319, marzo 24. Non abbiamo rintracciato altri atti relativi al proseguo di questa cessione.
141. ASF, Diplomatico, S. Maria degli Angioli, 1319, dicembre 1.
142. Ivi, 1321, novembre 16. Atto stilato nel monastero di Fontebuono, rogato da Ranieri del fu Iacopo di Lapo
da Prato, giudice e notaio.
143. Cfr. ASF, Notarile Antecosimiano, 20927, fasc. VI, 1372, settembre 2, cc. 130v-131v.
144. La vendita fu fatta a Bartolo del fu Ciampolo del popolo di Sant Eusebio del comune di Pulicciano, per 82
fiorini d’oro. Si trattava di un pezzo di terra sito nel popolo di Santa Maria di Adelmo e di una casa con orto posta
nello stesso luogo (cfr. ASF, Notarile Antecosimiano, 20927, fasc. VIII, c. 113r, 1375, settembre 25).
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Badia Elmi
delle istituzioni religiose 145. Le notevoli difficoltà incontrate dai monaci nel gestire la situazione patrimoniale erano in parte conseguenza dalla loro stessa diminuzione. Vediamo
che la badia di Adelmo contava nel 1319 su una popolazione composta dal priore e da
due monaci, e che nel 1315 la badia a Cerreto era abitata solo dal priore e dal monaco
Simone. A Mucchio la situazione non risultava migliore: un secolo più tardi, nel 1427 e
poi nel 1445, vi riscontriamo la presenza del solo priore e di un chierico 146.
Anche la realtà politica conosceva una svolta irreversibile. Intorno al 1329 i banchieri
fiorentini Peruzzi acquistavano nella zona di Mucchio terreni, case e torri appartenenti
alla casata dei Pellari, iniziando così la penetrazione fiorentina nel contado di San
Gimignano 147. Il consolidamento di questa nuova presenza avvenne nel 1370 con il matrimonio fra Matteo dei Pellari del fu messer Battista con Sandra figlia del fu Ridolfi de
Peruççiis de civitate Florentie. La dote pagata da Adonardo, fratello carnale di Sandra, fu
versata in castro de Mucchio in domo dicti Adonardi 148.
6. Verso la trasformazione in ‘fattoria’
La situazione non cambiò durante la seconda metà del XIV secolo. L’Ordine camaldolese continuò a dover affrontare non pochi problemi, sia dal punto di vista organizzativo
che disciplinare 149. Fra l’altro i monaci sembravano non intrattenere più un legame molto
stretto con la popolazione valdelsana, visto che solo per il 1374 troviamo una donazione, da parte di Margherita del fu Vannetto di Barone da Certaldo, pari a 30 fiorini d’oro
al monastero di San Pietro a Cerreto e al suo abate Michele 150. L’isolamento dei religiosi,
spesso occupati dalle diatribe per le decime o nella ricerca di finanziamenti, appare anche
nel 1404, quando don Bartolomeo di Martino da Firenze abate di Elmi si rivolgeva al
superiore generale di Camaldoli chiedendo aiuto contro alcuni che lo molestavano vantando diritti sopra il monastero di Santa Maria 151.
Nel 1405 le incerte condizioni economiche dei chiostri valdelsani venivano riconosciute
dallo stesso collettore generale delle decime apostoliche per la provincia di Toscana, il
quale concesse una notevole riduzione delle somme che i monasteri di San Pietro a Cerreto
e Santa Maria di Elmi avevano pagato in precedenza 152. La soluzione a questa realtà di
generale declino fu trovata nel 1419. Il 10 febbraio don Paolo, abate del monastero di San
Martino al Pino e commissario apostolico, deputato da papa Martino V, deliberò l’unio145. Cfr. in proposito L’uso del denaro. Patrimoni e amministrazione nei luoghi pii e negli enti ecclesiastici in Italia
(secoli XV-XVIII), Atti del Convegno, Trento, 19-20 novembre 1998, a cura di A. Pastore, M. Gabellotti, Bologna
2001, in particolare i saggi di A. Pastore, Usi e abusi nella gestione delle risorse (secoli XVI-XVII), pp. 17-40; F. Landi,
Per una storia dei falsi in bilancio: le contabilità pubbliche dei conventi e luoghi pii, pp. 41-58; F. D’Esposito, Patrimonio
fondiario e ricchezza mobiliare del Minori Conventuali napoletani. San Lorenzo Maggiore fra XVI e XVII secolo, pp.
275-300, in partic. p. 287. Cfr. anche R. Razzi, Gli enti ecclesiastici e assistenziali a San Gimignano, Le proprietà fondiarie dal secolo XVI alla dissoluzione dei patrimoni, Poggibonsi, 2007, cap. 4, pp. 35-48.
146. Mori, Pievi cit., 1991, p. 93.
147. Fiumi, Storia economica cit., pp. 214-215.
148. Cfr. ASF, Notarile Antecosimiano, 20927, fasc. VI, c. 191r, maggio 1370.
149. Cfr. ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1324, ottobre 10; 1381, ottobre 10.
150. ASF, Diplomatico, S. Maria degli Angioli, 1374, settembre 18. Margherita era vedova di Angiolo Cini da
Lucca, nonché autorizzata al contenuto del testamento da Chele del fu Baldo del popolo di San Pietro a Cerreto, suo
mondualdo.
151. Ivi, 1404, giugno 7.
152. Ivi, 1405, maggio 9. Vedi nota 108.
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ne del cenobio di San Pietro a Cerreto, «per evidente utilità di questo monastero», a quello di Santa Maria degli Angeli di Firenze 153, abbazia camaldolese fondata nel 1295 che
aveva ormai assunto un ruolo di primo piano nell’Ordine 154. Sebbene fosse indirizzata al
solo monastero di Cerreto, la bolla riguardava anche gli altri cenobi, come appare chiaramente da un’ulteriore disposizione del medesimo pontefice risalente al 10 aprile, che
prevedeva per don Benedetto di Pietro, abate di Santa Maria dell’Olmo, la traslazione dal
suo monastero a quello di San Giusto fuori delle mura di Volterra. Si volevano probabilmente evitare problemi o questioni che potessero disturbare l’unione con il monastero
degli Angeli decisa nel febbraio ma non ancora operativa 155.
L’‘evidente utilità’ indicata nella bolla era dovuta, secondo l’Isolani, alla maggiore vicinanza di Cerreto e dei cenobi valdelsani al monastero fiorentino degli Angeli, il quale, pertanto, avrebbe potuto meglio risolvere quei problemi che il priore di Camaldoli non aveva
affrontato in maniera adeguata 156. Non sembra, comunque, che la decisione del papa abbia
suscitato particolari entusiasmi nel monastero fiorentino, poiché fu solo il 12 maggio del
1421 che fu data procura a don Andrea da Mongiona e ad altri religiosi di prendere possesso dell’abbazia di Cerreto, cosa che venne fatta due giorni dopo da Stefano di Lorenzo,
converso del monastero fiorentino 157. Al momento del loro insediamento nella badia di
Cerreto i monaci degli Angeli trovarono una situazione che, nonostante le agevolazioni
ottenute in precedenza dall’istituto 158, appariva essere particolarmente difficile, come emerge dalla ‘portata’ dei beni dell’abbazia del 5 giugno 1427:
trovammo la decta Badia, quando noi Frati degl’Agnoli l’avemmo, in pessimo stato però
che rovinava la chiesa e l’abitatura della Badia e le chase de’ lavoratori, Abbiamvi spesa
dal 1421 in qua che allotta l’avemmo tra murare e rifare il tetto della chiesa e tavole d’altari v’abiamo mandate, e messale, e ’l chericato del sexto d’imposta fiorini settantadue,
cioè fiorini sei per fiorino, e dicano che a volere sodisfare il debito del sexto le toccherà
ancora a pagare oltre a settantadue fiorini, trentasei o anchora c’a a spendere in acconciare la decta badia nuova quantità di denari.
Riferendosi poi alla Badia Elmi si diceva:
a paghare la decta Badia a’ romiti dell’Ermo orcia due d’olio et al Generale fiorini due.
Teniamovi uno monacho a fiorini sette l’anno e le spese et uno famiglio, et uno factore,
vogliono di spese e chalzare e vestire et il salario del monacho fiorini quaranta e più 159.
I rapporti con San Gimignano si erano da tempo stabilizzati. Mucchio era inserito nel
contado del comune, al cui interno figuravano formalmente anche i territori di Montignoso,
153. Ivi, 1419, febbraio 10. Atto rogato in Firenze nel monastero degli Angeli.
154. Ivi, 1295, maggio 13. A questa data veniva acquistato dai monaci camaldolesi un pezzo di terra in località
Cafaggiolo per il prezzo di fiorini piccoli 200, su cui fabbricare un ritiro eremitico e la sua chiesa, sotto il titolo di
Santa Maria degli Angeli.
155. Ivi, 1419, aprile 10.
156. Isolani, Storia politica, Gambassi cit., p. 167.
157. ASF, Diplomatico, S. Maria degli Angioli, 1421, maggio 12 e 14.
158. Ivi, 1426, febbraio 13: gli ufficiali delle entrate e delle uscite della città di Firenze prendevano atto di una dichiarazione rilasciata dai loro predecessori la quale prevedeva che il monastero di San Pietro a Cerreto non dovesse essere
gravato da ulteriori tasse. Ivi, agosto 13: Gli ufficiali delle entrate e uscite della città di Firenze dichiaravano che la badia
di Cerreto non era tenuta a pagare le nuove imposizioni. Ivi, 1427, gennaio 28: si ricordava che, secondo la bolla di
Martino, il monastero di Cerreto, insieme ad altri, non doveva essere gravato per più di 10 fiorini, pena la scomunica.
159. AVV, Inventari antichi, c. 147r: Portata della badia di Sancto Piero da Cerreto, vescovato di Volterra, sexto
di Valdelsa la quale il papa Martino diede a’frati degl’Agnoli nell’anni 1421, facta il 5 di giugno 1427.
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Badia Elmi
della Pietra, San Vittore e San Mariano, che di fatto erano stati ceduti in enfiteusi alla casata dei Rossi di Firenze 160. La zona di Pulicciano e della Badia Elmi, che era entrata invece
a far parte del contado di Gambassi, non ebbe sostanzialmente più alcun contatto con il
comune di San Gimignano. La propositura sangimignanese si scontrò, invece, coi
Camaldolesi in più di una occasione, la più importante delle quali fu senz’altro quella che
si aprì nella seconda metà del XVI secolo, con l’aggregazione all’abbazia di Elmi della pieve
di Cellole.
Questa antica pievania del territorio sangimignanese era rimasta vacante del suo rettore, come succedeva sempre più spesso, dalla seconda metà del Trecento, anche per le
chiese di una certa importanza, a causa della riduzione del reddito del religioso incaricato di amministrarle conseguente al progressivo spopolamento delle campagne.
Probabilmente lo stato di sostanziale abbandono della pievania durò per qualche tempo,
fino a quando, come scrive il Pecori, nel 1566 «i monaci degli Angeli di Firenze vi s’intrusero siccome rettori della Badia di Cerreto» 161. Il capitolo dei canonici di San
Gimignano e il vescovo di Volterra, entrambi «indignati per sì strana usurpazione», dopo
aver avanzato inutili proteste, citarono i Camaldolesi davanti alla Sacra Rota. Nel 1588
si aggiunse ad essi anche il comune di San Gimignano, «massime per le rimostranze del
popolo di S. Piero di San Gimignano», la cui parrocchia, situata entro le mura davanti
alla chiesa di Sant’Agostino, era da sempre unita alla pieve di Cellole. Se le lamentele dei
parrocchiani sparsi per la campagna potevano non costituire un problema, le rimostranze
di parte della popolazione sangimignanese, «priva da oltre 23 anni del suo pastore»,
meritavano maggiore considerazione. La causa si protrasse a lungo in quanto «si contendeva ancora nel 1595»; poi finalmente il canonico don Vincenzo Vannelli, «che già
n’era stato investito dal Capitolo di San Gimignano», riprese possesso della pieve, «allontanandosene» i Camaldolesi 162.
160. Repetti, Dizionario cit., IV, pp. 204-205. Quando San Gimignano perse la sua indipendenza a favore di
Firenze il comunello della Pietra si trovava sotto il suo dominio e vi rimase ancora per un certo periodo, anche se
occupato di fatto dal fiorentino Giovanni di Francesco de’ Rossi, il quale nel 1381 lo restituì formalmente alla
comunità sangimignanese (ASF, Diplomatico, Comune di San Gimignano, 1381, gennaio 21). Nel 1406 la
Repubblica assolveva il comune di Monte Tignoso, nell’ambito del quale la Pietra, si trovava dal pagamento di
dazi e imposte (ASF, Diplomatico, S. Maria Maddalena di San Gimignano, 1406, luglio 30). Nel 1512 i beni di
quei territori, che non troviamo inseriti negli estimi del comune di San Gimignano in virtù dell’esenzione precedente, passarono ufficialmente in enfiteusi alla casata De’ Rossi di Firenze in cambio di un’offerta simbolica al
comune di San Gimignano (Isolani, Storia politica, Gambassi cit., p. 103). Solo nel 1776, con decreto del Granduca
Pietro Leopoldo, il comune della Pietra con il suo popolo di Sant’Andrea furono immessi negli estimi del comune
di San Gimignano (Razzi, Gli enti ecclesiastici e assistenziali cit., pp. 220-223) e risulteranno descritti nelle Stime
del comune di San Gimignano del 1564 e della Pietra e Picchena del 1776 (ASS, 223, seconda aggiunta, c. 73r).
Ancora nel 1800 il ‘livellante’ Manfredo de’ Rossi pagava al comune di San Gimignano il canone annuo di lire 12,
soldi 13 e denari 4 per il bosco e terre della Pietrina [Archivio Storico del Comune di San Gimignano (d’ora in poi
ACSG), Dazzaiolo 1799-1800, cc. 57r ss.]. Nel 1833 il comune di Montaione, che dal 1774 aveva incorporato
quello di Gambassi, nel cui territorio si trovavano Pulicciano e Badia Elmi, permutava con il comune di San
Gimignano queste località in cambio della Pietra, di Camporena, San Vivaldo e Iano (Isolani, Storia politica,
Montignoso cit., p. 276).
161. Pecori, Storia cit., p. 408. BCSG, ms. 106, c. 265r: «Dal libro di Provvigioni Capitolari del 1566 apparisce
sotto il 25 novembre una deliberazione in causa dei Monaci degl’Angioli che ricusavano pagare il solito censo per la
Chiesa di S. Piero di San Gimignano unita alla Pieve di Cellori, e questa a detti monaci».
162. «Il canonico Vannelli la resse poi fino al 1608» (Pecori, Storia cit., p. 408). Cfr. ASF, Miscellanea Medicea,
348-6, anno 1565; ACSG, Busta verde e nera, p. 16 (25, gennaio 1589): copia di una lettera del gennaio 1589 dei
Capitani e degli Huomini della Terra di San Gimignano, firmata da Camillo Ridolfi, Ascanio Gamucci, Antonio
Vecchi e Pietro Marsili; ivi, novembre 1592, pp. 15-17: copia di altre due lettere sull’argomento; BCSG, ms. 106, cc.
258r-261r: copie di lettere dirette alla curia romana che ricostruiscono tutta la vicenda.
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I canonici di San Gimignano avevano già un contenzioso con quei monaci per il mancato pagamento alla propositura del quartese relativo alle rendite della loro chiesa di
Mucchio. La prima sentenza di tale questione era stata favorevole ai monaci e contro di
essa i canonici ricorsero in appello nel 1568 163. A questa seguì nel 1662 un’altra lite agitata sul pagamento della congrua al prete Antonio Chiarenti, «vicario della Parrocchia di
Mucchio già eretta in Vicaria perpetua», che celebrava gli uffici religiosi nella chiesa. La
causa dell’ulteriore litigio derivava anche stavolta dal rifiuto dei regolari di pagare quanto
richiesto «essendo la detta chiesa per l’addietro annessa al monastero dei detti Monaci» 164.
7. La consistenza patrimoniale dei monasteri camaldolesi
A cavallo fra XIII e XIV secolo i cenobi camaldolesi andarono circoscrivendo il loro rilievo in alta Valdelsa, con l’unica eccezione di una presenza religiosa più attiva dell’abbazia
di Cerreto. I monaci e i priori che talvolta vediamo indicati in saltuari documenti posteriori erano meri amministratori delle vaste proprietà fondiarie destinate a sussistere ancora per molto tempo, anche dopo che, il 15 ottobre 1652, tanto l’abbazia di Elmi quanto
quella di Cerreto furono soppresse dalla riforma innocenziana dei piccoli conventi 165.
Per evidenziare l’importanza dei monasteri camaldolesi in tutta la zona ed il loro peso
economico abbiamo riassunto alcuni dati in due tabelle. Nella prima abbiamo immesso le
decime ecclesiastiche cui furono sottoposti gli enti religiosi di cui ci siamo occupati durante
il periodo compreso fra il 1275 e il 1350; nella seconda abbiamo evidenziato le proprietà
fondiarie che formavano il loro patrimonio durante la prima metà del Quattrocento. In
entrambi i casi abbiamo riportato i dati di ciascun monastero mettendo poi a confronto le
risultanze complessive dei Camaldolesi con quelle che, negli stessi periodi, avevano i maggiori enti religiosi della zona. Anche l’imposizione delle decime esposta nella prima tabella
derivava essenzialmente dagli introiti che ciascun monastero ricavava dai poderi di proprietà.
Elemosine, pedaggi, donazioni e quant’altro costituivano solo elementi aggiuntivi al reddito dei terreni e non alteravano, nella sostanza, il peso economico di ciascun monastero.
Le proprietà fondiarie dei vari cenobi emergono da atti diversi e di differente valore
documentario. Riportiamo di seguito, per ciascun monastero, quelli che riteniamo più
significativi e che in parte ritroveremo nella tabella 2.
Gli appannaggi immobiliari di Mucchio possono essere desunti dagli Estimi del contado e nei Dazzaioli delle rendite e della tassa prediale del comune di San Gimignano dal
1314 fino al 1800 166. Tuttavia la consistenza di queste sostanze non sempre si desume
163. ACollSG, n. 91, anno 1568: Appello alla sentenza data contro il capitolo a favore dei Monaci degli Angioli
circa il quartese [tassa ecclesiastica a favore del clero secolare] della chiesa di Mucchio.
164. ACollSG, 90, anno 1662: Lite agitata a Roma fra il prete Antonio Chiarenti, vicario della Parrocchia di
Mucchio, già eretta in Vicaria perpetua, ed i Monaci degli Angeli di Firenze i quali ricusano di pagargli la congrua,
essendo la detta chiesa per l’addietro annessa al monastero dei detti Monaci, ritenendone avessi i Beni, unitamente
al diritto di nominare il Vicario.
165. Repetti, Dizionario cit., I, p. 188. Sull’argomento cfr. E. Boaga, La soppressione innocenziana dei piccoli
conventi in Italia, Roma 1971; G. Clemente, La soppressione innocenziana dei conventi carmelitani in Capitanata
nel XVII secolo, [Bari 1993].
166. Fiumi, Storia economica cit., tavola p. 222. I dati catastali del 1428 certificano un patrimonio valutato in
fiorini 635.0.9, superiore, fra i conventi maschili sangimignanesi, solo a San Domenico (ivi, p. 187). Dall’Estimo del
contado di San Gimignano del 1509 (ASS, 207, c. 118v) e da quello del 1516 (209, c. 91v) risulta un reddito fondiario desunto coi criteri di cui sopra e immesso fra le chiese del contado, per m. 18; nel 1564 (211, c. 100v) m. 25;
nel 1616 (217, c. 419r) m. 28.4; nel 1674 (225, c. 41v) m. 28.4. Dall’ACSG, Dazzaiolo delle rendite e tassa predia-
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Badia Elmi
chiaramente da tali documenti. Onde disporre di dati più omogenei dal punto di vista cronologico e favorire così il confronto tra i vari cenobi, abbiamo assunto, per la stesura della
tabella 2 relativa alle proprietà fondiarie, quanto emerge dall’inventario del 13 gennaio
1445 del Prioratus sive monasterium S. Petri a Mucchio:
un podere nel popolo di Mucchio, con pezzi di terra al Petriccio, “confina fossato
d’Acquabona”, e a Scopeto. Raccoglie “di mezzo, sbattuto il seme” staia 40 di grano, spelda st. 15, orzo st. 5, fave st. 3, vino barili 25, fichi st. 4, noci st. 3, zafferano once 3. Inoltre:
un podere a Villa Castelli nel piano d’Elsa con pezzi di terra a Macinatico; un podere a
Elmi con pezzi di terra oltre Elsa nel popolo di S. Michele piviere di S. Lazaro, e una vigna
nel popolo di S. Iacopo di Certaldo “alla Langareggia” 167.
I beni della badia di Elmi, invece, non figurano mai nei registri tributari di San
Gimignano e non possiamo, pertanto, delineare l’evoluzione del loro reddito agrario. La
consistenza delle proprietà del monastero emerge solo da qualche inventario:
negli anni tra il 1345 e 46 sono registrati gli affitti, da parte dell’abate Benedetto, nel popolo di Pulicciano, di 4 poderi “cum domo, culumbaria, furno, area et petiis terrarum” nei
luoghi dal “chiasso”, dal “bosco, poggiarello e da uliveto” oltre a pezzi di terra singoli,
tra cui il “chiuso della badia”, e “alpelago de Monaci”. I primi due poderi sono affittati
per “otto modios de grano” ciascuno ... Il 12 gennaio 1444 l’abate [di Badia Elmi] don
Ranieri, fa “Ricordo di tutti i poderi e possessioni, terreni e rendite et entrate che à la Badia
d’Elmi piviere di Cellole”. Consistono nei soli poderi “al chiasso” e “a boscho”, tenuti a
mezzadria, per un introito di lire 270 e soldi 17 per parte. Il prodotto consiste in Grano
moggia 11 che vale lire 237 e soldi 12, Spelda staia 25 che vale lire 6 e soldi 5, Panico staia
20 che vale lire 10, Fave staia 4 che valgono lire 2, Vino barili 12 che vale lire 15. A ciò si
aggiungono 7 staia di grano per Decima, che valgono lire 6 e soldi 6. Oltre all’abate risiedono don Ranieri monaco prete, Lionardo chierico e Bartolo di Nicolò, “fante della Badia”
che “ave di salario l’anno fiorini 10”. Pagano ogni anno “al generale di Chamaldoli, per
colta, lire 8 di moneta” 168.
Per le proprietà della badia di San Pietro a Cerreto abbiamo rinvenuto numerose tracce, ma sempre parziali e confuse dall’uso di toponimi diversi, per cui assumiamo le informazioni patrimoniali dalla portata al Catasto del 1427:
tre poderi posti nel popolo della decta Badia ànne in parte la decta Badia, rechando la
biada e la carne e polli e grano, staia duecento di grano, barili quaranta di vino o orcia
quattordici d’olio. Item uno mezzo podere posto nel popolo della Chalonica vecchia trovammo di ficto fiorini dieci 169.
Ancora più problematica si è presentata la ricostruzione del patrimonio fondiario ascrivibile alle proprietà camaldolesi che facevano capo al monastero di San Mariano. Solo
l’Isolani le indica nei poderi di Casa al Gabbro, Casa al Priore (o podere Sciolta), ai quali
le del 1711-12 (595, c. 114r) m. 37.4; Dazzaiolo, 1776-77 (662, c. 65r), emergono moggia 37.8 determinate dalle
seguenti proprietà: «podere S. Lorenzo, m. 14.4; podere di Mucchio, m. 13.11, podere di Macinatico, m. 8.2, altri
beni, m. 1.2». Nel Dazzaiolo del 1799-1800 (687, c. 53r) il cenobio, ormai definito costantemente Prioria, risulta fra
gli enti tassati sotto la dizione di «Badia di S. Piero a Mucchio de’ Monaci degl’Agnoli di Firenze».
167. Mori, Pievi cit., 1991, pp. 93-94. Segue: «le “uscite” indicate sono queste: fiorini 13 d’imposta al Comune
di Firenze, fiorini 4 per l’ufficiatura, fiorini 3 per la festa, fiorini uno e mezzo “al generale di Camaldoli per la colta
dell’ordine”, inoltre “di decime grano staia 18”, certamente alla Pieve (cfr. AVV, Inventari I, 295; II, 34)».
168. Mori, Pievi cit., 1991, p. 27. Cfr. anche la tavola 2 del presente lavoro.
169. AVV, Inventari antichi, c. 147r: Portata della badia di Sancto Piero da Cerreto, vescovato di Volterra sexto
di Valdelsa la quale il papa Martino diede a’frati degl’Agnoli nell’anni 1421, facta il 5 di giugno 1427.
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La badia di Adelmo e i Camaldolesi nell’alta Valdelsa (secoli XIII-XV)
107
abbiamo aggiunto la proprietà, senz’altro già esistente da tempo, che nel 1486 l’abate
della Badia Elmi dava in enfiteusi: diversi pezzi di terra, con casa da lavoratore, posti nel
Poggio di San Martino, in luogo detto San Mariano 170.
Mettendo a confronto le risultanze complessive dei Camaldolesi con i patrimoni dei
maggiori enti ecclesiastici di San Gimignano durante lo stesso periodo vediamo che la rilevanza complessiva delle proprietà ascrivibili all’Ordine in alta Valdelsa appare in tutta la
sua evidenza fino al XIII secolo. Confrontando i dati relativi ai monasteri con quelli degli
altri istituti religiosi, in entrambe le tabelle, ma soprattutto nella seconda, constatiamo
che soprattutto gli enti ecclesiastici e benèfìci sangimignanesi conobbero un notevole sviluppo nei secoli successivi, a fronte di un trend inverso per quanto riguarda le antiche fondazioni regolari.
170. ASF, Diplomatico, Innocenti, 1486, marzo 17. Vedi nota 60.
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108
Badia Elmi
Appendice
Tab. 1. Importo delle decime papali della Tuscia I e II e del sinodo Belforti (1356)
Monasteri camaldolesi e altri enti religiosi
anni
1275/76
1302/03
1356
Riferimenti:
32
15
130
Tuscia I, 1275/76, p. 153, esente, lib. xxxii.
Tuscia II, 1302/303, p. 200, esente, lib.xv.
BELFORTI 1356 cit., p. 594, esente, libr. 130.
Monasterium S. Petri de Cerreto
42.10
21.7
225
Tuscia I, 1275/76, p. 153, esente, lib. xlii,
sol. x.
Tuscia II, 1302/1303, p. 200, esente, lib. xxi,
sol. vii.
BELFORTI 1356 cit., p. 594, Abbadia de
Cerreto, esente, libr. 225.
Monasterium S. Petri de Mucchio
8
2
40
TUSCIA, I, 1275/76, p. 153, esente, lib. viii;
1276-1277, p. 161, esenti, lib. vii.
Tuscia II, 1302-1303, p. 200, esente, lib. ii.
BELFORTI 1356 cit., p. 594 , esente, libr. 40.
- (75/76)
4 (76/77)
-
27
TUSCIA, I, 1275/76, = ;1276-77, p. 162, esente,
lib. iiii.
TUSCIA, II, 1302-1303, p. 200, esente, lib. - (in
nota lib. 2.5)
BELFORTI 1356 cit., p. 594, come Eccl. S.
Mariani Ordinis Chamaldul., esente, libr. 27.
Totale monasteri camaldolesi
86.10
48.7
422
Episcopatus Vulterranus
100
70
400
Tuscia I, 1275/76, p. 153, esente, lib. c.
Tuscia II, 1302/1303, p. 199, cum Canonica
de Paurano, esente, lib. lxx.
BELFORTI 1356 cit., p. 593, cum Canonica
de Paurano, esente, libr. 400.
Capitulum Vulterranum
32.9
14.10
200
Tuscia I, 1275/76, p. 155, non esente, lib. c.
Tuscia II, 1302/03, p. 203, non esente, lib.
xiiii sol. x
BELFORTI 1356 cit., p. 583, non esente, cum
Eccl. S. Laurentii, libr. 200.
Plebes de Sancto Geminiano
31.4
16
99
Tuscia I, 1275/76, p. 155, non esente, lib. xxxi
sol. iiii; 1276/77, p. 164, non esente, libr. xxx.
Tuscia II, 1302/1303, p. 205, non esente, lib. xvi.
BELFORTI 1356 cit., p. 584, non esente, libr. 99.
- (75/76)
9 (76/77)
4
Monasterium S. Marie de Elmi
Monasterium S. Mariani
Plebes de Celloli
25
Tuscia I, 1275/76, p. 156, non esente, -;
1276/77, p. 165, non esente, libr. viiii.
Tuscia II, 1302/1303, p. 207, non esente, lib. iiii.
BELFORTI 1356 cit., p. 585, non esente, libr. 25.
Note: I valori immessi sono omogenei solo all’interno di ciascuna colonna. Unicamente ad essi possiamo fare riferimento per confrontare il ‘peso’ economico dei diversi monasteri camaldolesi fra loro e quello della somma di questi con i singoli altri enti.
Tuscia I cit., Introduzione, XXXV, nota 1: «Non occorre avvertire che il fatto di essere esenti dall’autorità ecclesiastica locale e di dipendere immediatamente dalla Santa Sede, non costituiva una ragione, o un titolo per essere liberati dalla decima, estesa pure agli esenti di qualunque grado e condizione».
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La badia di Adelmo e i Camaldolesi nell’alta Valdelsa (secoli XIII-XV)
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Tab. 2. Proprietà fondiarie dei monasteri camaldolesi.
Prima metà del XV secolo
Enti religiosi e benefici
Consistenza patrimoniale
Fonte
Badia Elmi
3 poderi, orto e due vigne a Catasto 1428/1429
(chiesa di S. Maria ordine di Camald.) Pullicciano e Catignano
(p. 78 , cfr. ASF, 193, c. 601v).
Monastero di Mucchio
Il podere a Mucchio con pezzi di terra Inventario del 13 genn. 1445
al Petriccio e a Scopeto; 1 podere a (MORI, Pievi cit., 1991, pp. 93-94,
Villacastelli nel piano d’Elsa con pezzi cfr. AVV, Inventari, II, 34 ).
di terra a Macinatico; 1 podere a Elmi
con pezzi di terra oltre Elsa e una
vigna nel popolo di S. Iacopo di
Certaldo alla Langhereccia
Monastero di Cerreto
3 poderi nel popolo della Badia
Monastero di S. Mariano
3 poderi, S. Mariano, Casa al Gabbro, Isolani, Storia politica Montignoso
Casa al Priore
cit., p. 88.
Totale delle proprietà camaldolesi
12 poderi e mezzo, più molti altri
appezzamenti e vigne
Portata dei beni del 5 giugno 1427
(AVV, Inventari antichi, c. 147r).
Enti religiosi e benèfici di San Gimignano, 1428
Convento S. Agostino
1 podere del convento, 2 poderi nella Catasto 1428/1429
villa di Ciuciano, un colto in (pp. 76-77, Cfr. ASF, 183, c. 471r;
Gamboccio con fornace, un pezzo di 193, c. 597v).
terra vignato in Paterno, della Comp.
dei disciplinati di S. Croce di S.
Agostino (che verranno donati al convento l’8 nov. 1441)
Monastero di S. Maria Maddalena
5 poderi (Cellole, S. Michele a Strada, Catasto 1428/1429
San Quirico, S. Benedetto, Montemorli) (p. 76, cfr. ASF, 193, c. 399r)
più alcuni colti e vari pezzi di terra
Monastero di S. Girolamo
4 poderi (2 a Mucchio, 1 a S. Quirico, Catasto 1428/1429
1 nel contado di Firenze) e molti pezzi (p. 76, cfr. ASF, 193, c. 579v).
di terra sparsi
Spedale di S. Fina
13 poderi (3 nel Cornocchio, 2 a Catasto 1428/1429
Libbiano, 2 a Mucchio, 1 a Cellole, 1 (p. 76, cfr. ASF, 183, c. 500r).
a Paterno, 1 a Piscille, 2 a Casaglia, 1
detto Stecchaia) più vari colti e pezzi
di terra oltre alla metà delle mulina di
S. Galgano.
Spedale degli Innocenti
(o della Scala di San Gimignano)
14 poderi (3 poderi a Barbiano, 2 Catasto 1428/1429
poderi a Poggibonsi, e altri 9 poderi (p. 76, cfr. ASF, 183, c. 578r).
sparsi per il contado) più un tenere,
vari pezzi di terra e vigne.
Note: Lo scopo della tabella è quello di visualizzare la proprietà fondiaria complessiva dei Camaldolesi, confrontandola con quella dei conventi, monasteri e spedali di San Gimignano considerati sempre patrimonialmente molto
ricchi. I monasteri valdelsani dell’Ordine di san Romualdo sono stati invece sempre considerati singolarmente, senza
vederli nel loro insieme, come invece deve essere fatto per gli indubbi legami che per secoli li hanno uniti. Proprio
allo scopo di favorire questo confronto abbiamo cercato di uniformare, per quanto possibile, le fonti dei nostri rilevamenti scegliendo quelle temporalmente più vicine fra loro. Da questa tabella, che vuole avere solo un valore indicativo, emerge l’indubbio peso economico che i Camaldolesi hanno avuto per secoli.
Emerge anche che solo lo spedale di Santa Fina e quello degli Innocenti, i massimi enti proprietari di San Gimignano,
avevano, nel periodo indicato in tabella, un patrimonio fondiario di poco superiore a quello camaldolese. Va da sé
che tutti gli enti sangimignanesi furono destinati ad avere un notevole incremento successivo, contrariamente a ciò
che succederà ai cenobi camaldolesi. I dati indicati come Catasto 1428/1429, sono tratti da G. Casali, San
Gimignano. L’evoluzione della città tra XIV e XVI secolo, Firenze 1998.
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Per una storia camaldolese di Badia Elmi
Cécile Caby
C
ome ricordano i vari studi storici che compongono il presente volume, Badia Elmi
entrò a fare parte dell’Ordine camaldolese il 6 agosto 1073 per volontà del vescovo
volterrano Ermanno (1064-1073) 1, che la cedette ai Camaldolesi affinché la riformassero.
L’anno successivo l’abbazia valdelsana venne confermata a Camaldoli tramite un privilegio di papa Gregorio VII 2. Questa incorporazione era stata preceduta qualche anno prima
dalla donazione, sempre al sacro Eremo, di San Pietro di Cerreto, anch’esso in diocesi di
Volterra 3. Per mezzo delle suddette aggregazioni la rete di Camaldoli, che era rimasta fino
a quell’epoca un insieme di fondazioni aretine, la cui diffusione si limitava, addirittura, al
nord della diocesi di Arezzo, cominciava la sua espansione al di fuori del suo contesto originario. Tale diffusione fu accompagnata da una progressiva strutturazione istituzionale e
da una produzione normativa originale, costituita inizialmente da consuetudini e poi da
statuti 4 , che contribuirono a trasformare la piccola unione regolare toscana in un Ordine
religioso, soprattutto a partire dal momento in cui la sua identità istituzionale di
Camaldulensis heremi sive cenobii religio fu riconosciuta da papa Pasquale II nel 1113 5.
Badia Elmi rimase durante tutto il medioevo un membro attivo di quest’Ordine e, in
quanto tale, partecipò ai vari meccanismi e procedure che furono di volta in volta messi in
atto per mantenerlo unito. Senza ricoprire quasi mai cariche di particolare rilievo, l’abate
di Elmi partecipò regolarmente ai capitoli generali e accolse le visite canoniche inviate dai
priori generali e dal capitolo per assicurare unità e osservanza nell’Ordine. In ogni occa-
1. Su Er(i)manno cfr. M.L. Ceccarelli Lemut, Ermanno, in Dizionario Biografico degli Italiani, 43, Roma 1993,
pp. 211-212 <http://www.treccani.it/enciclopedia/ermanno>.
2. Regesto di Camaldoli, a cura di L. Schiaparelli, F. Baldasseroni, E. Lasinio, 4 voll. Roma 1907-1922 [Regesta
chartarum Italiae, 2, 5, 13, 14], I, n. 386; Annales Camaldulenses ordinis sancti Benedicti, 9 voll., Venezia 1755-1773
(da ora in poi Ann. Cam.), II, App., col. 238; W. Kurze, Monasteri e nobiltà nel Senese e nella Toscana medievale,
Siena 1989, pp. 283-285; G. Vedovato, Camaldoli e la sua congregazione dalle origini al 1184. Storia e documentazione, Cesena 1994, pp. 46-50, 257-258; C. Caby, De l’érémitisme rural au monachisme urbain. Les Camaldules en
Italie à la fin du Moyen Âge, Roma 1999, p. 75.
3. Vedovato, Camaldoli e la sua congregazione cit., pp. 31-32; Kurze, Monasteri e nobiltà cit., pp. 275-324.
4. Su questa produzione C. Caby, Règle, coutumes et statuts dans l’ordre camaldule (XIe-XIVe siècle), in RegulaeConsuetudines-Statuta. Studi sulle fonti normative degli ordini religiosi nei secoli centrali del Medioevo, Atti del I e
II Seminario internazionale del Centro italo-tedesco di storia comparata degli ordini religiosi/ Italienisch-deutsches
Zentrum für vergleichende Ordensforschung «Secundum regulam vivere», a cura di G. Andenna e G. Melville, Münster
2005, pp. 195-221; Consuetudo Camaldulensis. Rodulphi Constitutiones. Liber Eremiticae Regulae, a cura di
P. Licciardello, Firenze 2004; P. Licciardello, Legislazione camaldolese medievale (XI-XV secolo). Un repertorio,
«Benedictina», 54, 2007, 1, pp. 23-60; Id., Le Costituzioni di Placido, priore di Camaldoli (1180-1189/1190), «Revue
Bénédictine», 118, 2008, 1, pp. 69-88.
5. Regesto di Camaldoli cit., II, n. 754, pp. 58-59; Ann. Cam., III, App., coll. 243-245; Vedovato, Camaldoli e la
sua congregazione cit., pp. 72-73 e doc. II 5, pp. 181-183. Su questa evoluzione cfr. C. Caby, Camaldulensis heremi
sive cenobii religio: nascita e sviluppo dell’ordine camaldolese (sec. XI-XIV), in San Romualdo. Storia, agiografia e
spiritualità, Atti del XXIII convegno del Centro di studi avellaniti, Fonte Avellana, 23-26 agosto 2000, Negarine
(Verona) 2002, pp. 221-241; e P. Licciardello, I Camaldolesi tra unità e pluralità (XI-XII sec.). Istituzioni, modelli,
rappresentazioni, in Dinamiche istituzionali delle reti monastiche e canonicali nell’Italia dei secoli X-XII, Atti del
XXVIII Convegno del Centro Studi Avellaniti, Fonte Avellana, 29-31 agosto 2006, a cura di N. D’Acunto, S. Pietro
in Cariano (VR) 2007, pp. 175-238.
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112
Badia Elmi
sione la comunità valdelsana si impegnò a pagare la parte che le spettava delle collette sancite dai capitoli generali per alimentare la cassa comune della famiglia regolare 6. Per tutte
queste ragioni troviamo spesso l’abbazia di Elmi e i suoi monaci fra le pagine dei volumi
nei quali i priori generali, posti al vertice dell’Ordine, erano soliti registrare le missive fatte
pervenire ai vari componenti della familia, a partire dalla fine del Duecento 7.
Prima ancora, l’associazione precoce di Elmi alla rete camaldolese era stata sancita dall’inserzione delle carte relative alla sua aggregazione in quello che possiamo definire il
‘monumento’ dell’espansione camaldolese compilato negli anni Settanta del XIII secolo
dai copisti Simone e Ranieri, ossia i Summaria instrumentorum et privilegiorum, conosciuti come Regesto di Camaldoli. Le carte relative a Cerreto aprono la sezione dedicata
alle diocesi di Pisa, Lucca, Firenze e Volterra. Di seguito compaiono le carte di Mucchio
e, appunto, quelle di Elmi 8.
Oltre alla documentazione prodotta a livello dell’abbazia, nell’ambito della gestione del
patrimonio e dei rapporti con le varie comunità locali (in particolare San Gimignano) o ad
alcuni atti amministrativi provenienti dal caput ordinis e conservati presso il destinatario
sotto forma di carte originali pergamenacee – documentazione in parte confluita presso
l’Archivio di Stato di Firenze, nei fondi Diplomatico di Camaldoli o Santa Maria degli
Angeli a seguito dell’unione con questo monastero avvenuta nel 1419 9 –, conserviamo, in
rapporto ad Elmi, anche una documentazione di carattere amministrativo, spesso cartacea, prodotta dai vertici dell’Ordine nella cancelleria dei priori generali. Risulta, pertanto,
opportuno prendere in considerazione queste testimonianze provenienti dal cuore della
congregazione, e in particolare i registri dei priori generali, spesso ignorati dagli studi locali 10. È, pertanto, un appello a studiare tali fonti quello che intendo lanciare attraverso le
poche pagine che seguono e con questa selezione arbitraria di alcuni documenti rinvenuti
a proposito di Badia Elmi nel suddetto, ricchissimo, deposito documentario.
Una delle prime liste capitolari conservate per l’Ordine camaldolese risale al novembre
1279 e sancisce la disposizione rituale dei padri attorno al priore di Camaldoli e quella
dei definitori del capitolo seduti al centro dell’ambiente in cui si teneva l’assemblea. Come
riferisce questa testimonianza, l’abbas Adhelmensis prendeva posto sul lato destro, più in
alto, nella gerarchia delle fondazioni, rispetto al monastero di Mucchio, ma più in basso
dell’abate di Cerreto (il tredicesimo della lista a sinistra) 11.
Durante i decenni successivi l’abate di Elmi venne menzionato con regolarità nelle liste
contenenti i destinatari delle lettere di convocazione per i capitoli generali. Nei casi in cui
conserviamo un resoconto dettagliato delle procedure messe in atto durante tali assemblee
6. Su questi organismi cfr. Caby, De l’érémitisme rural cit., pp. 126-139.
7. Su questi registri, ivi, pp. 35 e 139-141.
8. Archivio di Stato di Firenze (da ora in poi ASFI), Camaldoli Appendice, 8, rispettivamente c. 173r (Cerreto),
174rv (Mucchio), 177rv (Elmi); cito direttamente dal manoscritto, dal momento che l’edizione (Regesto di Camaldoli,
cit.) ne sconvolge l’ordinamento topografico (cfr. Caby, De l’érémitisme rural cit., pp. 172-173).
9. Cfr. il contributo di R. Razzi in questo volume.
10. L’unica via di accesso a questa documentazione negli studi locali sono spesso le Annales Camaldulenses, i cui
autori conoscevano e usavano i registri dei priori generali. Su di loro cfr. Caby, De l’érémitisme rural cit., pp. 20-30;
e A. Barzazi, Gli affanni dell’erudizione. Studi e organizzazione culturale degli ordini religiosi a Venezia tra Sei e
Settecento, Venezia 2004.
11. ASFI, Camaldoli Appendice, 19, c. 10r; per gli atti del capitolo del 1284 la lista dei padri presenti con la stessa disposizione è conservata solo in modo lacunoso (ivi, 20, c. 46v).
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Per una storia camaldolese di Badia Elmi
113
possiamo seguire da vicino il superiore del cenobio valdelsano nell’atto di compiere i suoi
doveri. Ad esempio durante il capitolo di Fontebuono del mese di giugno 1360, l’abate
Guido, al pari degli altri prelati, espresse la sua scelta per la nomina dei quattro definitori 12.
Uno degli obblighi più significativi che confermavano la concreta appartenenza all’Ordine
consisteva nel versamento della tassa che quest’ultimo esigeva dai suoi membri secondo una
ripartizione approvata dai capitoli generali. La prima attestazione di una tale pratica
nell’Ordine camaldolese risale al 1278, quando il priore generale impose successivamente
due collette: la prima di 50 libre pro procuratore existente in curia Romana, per la quale
Badia Elmi doveva versare 10 soldi, la seconda di 600 libre pro eundo ad curiam domini
pape, per la quale egli doveva corrispondere 6 libre 13. L’anno successivo il capitolo generale sopra ricordato decise l’esazione di una colletta generale pari a 350 libre da ripartire fra
i vari monasteri. Come in rapporto all’anno precedente, Elmi compare nella lista di ripartizione dopo San Giusto di Volterra e prima di Cerreto e Mucchio, per la somma di 3 libre e
10 soldi (5 libre e 10 soldi per Cerreto e 42 soldi per Mucchio) 14. L’anno successivo Elmi
partecipava di nuovo al rifornimento della cassa comune con la somma di 3 libre (di fronte a una contribuzione complessiva pari a 300 libre), la metà del contributo di San Giusto
di Volterra 15. Nel luglio 1282 un’altra colletta di ben 500 libre stabilì che il monastero valdelsano versasse per suo conto 5 libre (di nuovo l’1% del totale) 16. Meno di dieci anni dopo,
nel 1301, Elmi contribuì soltanto per 36 soldi alle 200 libre di una colletta ordinaria 17.
Invece di aggiungere altre attestazioni tratte da queste liste di ripartizione, che l’Ordine
camaldolese continuò a produrre in occasione di ogni colletta e che sono documentate in
modo seriale per tutto il Trecento 18, vorrei segnalare, in rapporto agli ultimi decenni del
12. Ivi, 32, c. 79r.
13. Archivio di Stato di Modena, Vangadizza, 7, carte non numerate (terza e quarta prima della fine): Cerreto e
Mucchio contribuirono con 15 e 6 soldi per la prima colletta, con 9 libre e 3 libre e 12 soldi per la seconda; mentre
San Giusto di Volterra versò 20 soldi la prima volta e 12 libre la seconda. Su questo registro (il primo della serie dei
registri generalizi conservati a Firenze) si veda T. Malaguzzi, L’archivio di Stato di Modena durante il triennio 188889-90, Modena 1981, pp. 32-36; Caby, De l’érémitisme rural cit., pp. 35 e 49.
14. ASFI, Camaldoli Appendice, 19, c. 14r.
15. Ibidem, c. 30v: Cerreto pagò 6 libre e 10 soldi; Mucchio una libra e 16 soldi.
16. Ibidem, c. 75r: 10 libre, 13 soldi per Volterra; 3 libre per Mucchio.
17. Ivi, 22, c. 12r (Volterra 6 libre, quasi il triplo; Cerreto 3 libre e 4 soldi; Mucchio 12 soldi).
18. Segnalo, senza alcuna pretesa di esaustività: ASFI, Camaldoli Appendice, 83, senza numerazione, colletta di 300
fiorini d’oro, di cui 3 fiorini e 50 soldi per Elmi (capitolo di Poppiena, 1315); colletta di 950 fiorini d’oro (capitolo del
1321), di cui 9 fiorini e 19 soldi per Elmi, che pagò il 23 dicembre 1321. Ibidem, 23, c. 38v: colletta di 600 fiorini
d’oro, ossia 1.800 libre pisane, da versare in due termini, e consistente per Elmi in 10 libre e 2 soldi e 10 libre; ibidem,
23, c. 101v: nuova colletta di 600 fiorini d’oro (ottobre 1318), di cui 9 fiorini e soldi 20 per Elmi (7 fiorini e 40 soldi
per Cerreto, 3 fiorini e 49 soldi per Mucchio); ibidem, 23, c. 149v: 1.300 fiorini d’oro (1319), di cui 14 fiorini e 20
soldi per Elmi (7 fiorini e 40 soldi per Cerreto, 3 fiorini e 48 soldi per Mucchio); ibidem, 25: distributio collecte (1320),
13 fiorini e 20 soldi per Elmi (7 fiorini e 40 soldi per Cerreto, 3 fiorini e 49 soldi per Mucchio) per un totale di 1.200
fiorini d’oro; ibidem, 26, c. 113r: colletta di 1.200 fiorini d’oro decisa il 25 luglio 1323, di cui 13 fiorini e 20 soldi pisani dovuti da Elmi (7 fiorini e 40 soldi per Cerreto; 3 fiorini e 48 soldi per Mucchio); ibidem, 27, cc. 189-203: distributio collecte (1329) 13 fiorini e soldi 20 pisani per Elmi e in più 1 fiorino, 48 soldi e 3 denari pro expensibus capituli generali et quibusdam provisionibus; ibidem, 27, cc. 331-337: ripartizione della colletta di 1.200 fiorini d’oro (1331)
di cui 14 fiorini e 20 soldi per Elmi (7 fiorini e 40 soldi per Cerreto, 3 fiorini e 48 soldi per Mucchio); ibidem, 27, cc.
418-423: ripartizione di una colletta di 900 fiorini di cui 10 fiorini e 45 soldi per Elmi (5 fiorini e 45 soldi per Cerreto,
2 fiorini e 51 soldi per Mucchio); ibidem, 29, c. 11v: colletta di 600 fiorini d’oro (1338) di cui 7 fiorini e 10 soldi imposti ad Elmi (3 fiorini e 50 soldi per Cerreto; 1 fiorino e 54 soldi per Mucchio); ibidem, 29, c. 107v: stesse somme al
capitolo dell’anno 1343; ibidem, 34, c. 6v: colletta del 1355; ibidem, 34, cc. 167r-174v (rationes collectarum ordinis
novarum et veterum usque ad presentem annum mccclxxxvi inclusive): abbas Adelmensis habebat solvere pro viii collectis novis flor. XVIII / soluit pro prima flor. IIII / Restat solvere flor. XIIII (c. 169v).
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Badia Elmi
secolo precedente, un altro tipo di estimo, non più destinato a calcolare una tassa interna, ma dettato allo scopo di ripartire una decima imposta dal papato e la cui riscossione
fu affidata in Tuscia al canonico fiorentino Alcampo 19. Oltre ai particolari circa la natura delle entrate allora disponibili ad Elmi (doc. 1), va sottolineata la conclusione dell’estimo, ossia l’esonero concesso all’abbazia poiché essa risultava, per pubblica fama, ridotta alla in estrema povertà. Una conclusione, va detto, che potrebbe non essere stata accolta dal collettore e che risulta, comunque, difficile da accordare con le rationes di Alcampo,
le quali registrano Badia Elmi fra gli imponibili, per la somma di libre 22, in rapporto agli
anni 1275-1276 e per libre 30 e soldi 4 in relazione agli anni 1276-1277 20.
Oltre a queste varie forme di estimo, troviamo l’abbazia di Elmi quale meta dei visitatori nei resoconti delle inchieste che questi condussero nelle varie case dell’Ordine 21. In
genere i visitatori si fermavano al chiostro valdelsano appena prima o subito dopo aver
visitato i monasteri volterrani; talvolta sulla strada da o per Firenze, quasi sempre lo stesso giorno in cui si recavano a Mucchio e a Cerreto 22. In queste occasioni venivano fornite informazioni, ancora tutte da indagare, sulla familia, la sua osservanza e, più raramente,
lo stato del patrimonio e degli edifici attraverso la consegna di inventari veri e propri. Nel
1317, per esempio, su richiesta del priore generale e in previsione del capitolo generale
successivo, l’abate di Elmi – così come un gran numero di altri superiori dell’Ordine – fece
registrare da un notaio volterrano l’inventario dei beni della sua comunità e la dichiarazione dei debiti su di essa gravanti. Il bilancio – che si legge ancora oggi in un documento conservato presso l’archivio di Camaldoli – rivela una situazione assai preoccupante,
segnata dalle conseguenze delle recenti vicende connesse al passaggio dell’imperatore, probabilmente Enrico VII, in Toscana (doc. 2) 23.
Badia Elmi figura, inoltre, fra le pagine dei registri generalizi in relazione a numerosi
affari nei quali il priore di Camaldoli fungeva sia da massima autorità in grado di concedere licenze o missioni di vario tipo, sia da arbitro, come nel caso della lite fra una certa
donna Vanna uxor condam Corsolini de Rubeis, da un lato, e l’abate di Elmi e il priore
19. Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII-XIV. Tuscia, I, La decima degli anni 1274-1280, a cura di P. Guidi,
Città del Vaticano 1932.
20. ASFI, Camaldoli Appendice, 22, cc. 83v-84r (doc. 1 per Elmi); Rationes decimarum Italiae cit., pp. 153-161.
21. Sulla visita nell’Ordine camaldolese cfr. Caby, De l’érémitisme rural cit., pp. 132-135; e per un esempio specifico P. Licciardello, Le visite pastorali all’abbazia di Sansepolcro nel Duecento, «Archivio Storico Italiano», 171,
2013, 1, pp. 35-82.
22. ASFI, Camaldoli Appendice, 24, c. 217v: instrumentum visitationis monasterii Adelmensis (15 marzo 1326).
Ibidem, 31, c. 34r: visita e giuramento di fedeltà dell’abate Guido di Elmi al priore generale Giovanni (31 dicembre
1349); ibidem, 89, c. 10r-11r: visita ad Elmi dell’8 aprile 1351, a Cerreto del 7 e a Mucchio del 9 prima di ripartire
verso Firenze. Ibidem, 24, cc. 243v-244r e ibidem, 90, cc. 94v-96r: visita a Badia Elmi del 5 marzo 1406 seguita da
quella a Mucchio nello stesso giorno prima di partire per Volterra, mentre il giorno prima i visitatori provenienti da
Firenze via San Miniato avevano visitato Cerreto. Ibidem, 90, cc. 214r-215v: visita a Elmi, Mucchio e Cerreto del 15
marzo 1474 prima di andare a Volterra; il priore di Mucchio, quod monasterium distat a Sancto Geminiano circiter
tribus milibus, risiedeva, però, a San Gimignano (ob guerras iam alias emit ibi domum et optime se ibi locavit ...
sociumque habet monachum eius nepotem et sacerdotem cum matre vetula et uno clerico. Ibidem, c. 359v: il generale Pietro Dolfin visitava Elmi il 2 marzo 1481 prima di recarsi il giorno dopo a Mucchio e il 4 a Volterra. Il 13 febbraio 1357 il priore generale si trovava ad Elmi, dove rogava un atto in presenza dell’abate del luogo e di quello di
Cerreto (ASFI, Diplomatico, Camaldoli, 1357, febbraio 13 e ASFI, Camaldoli Appendice, 34, c. 34v). Il 17 febbraio
il generale si trovava a Mucchio e dal 21 febbraio al 15 marzo a Cerreto (ivi, 34, cc. 34v-35v).
23. Per quanto riguarda il fondo nel quale il documento è conservato cfr. U. Fossa, S. Cambrini, L’archivio storico dell’eremo e monastero di Camaldoli: origini, vicende storiche, ordinamento attuale, in Il Codice forestale camaldolese. Legislazione e gestione del bosco nella documentazione d’archivio romualdina, a cura di F. Cardarelli, Bologna
20092, pp. 121-143, in partic. 133-134.
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Per una storia camaldolese di Badia Elmi
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di San Mariano dall’altro a proposito di beni e denari contesi (1323) 24; sia infine come
censore e giudice.
Secondo l’uso dell’Ordine camaldolese, che prevedeva il trasferimento dei monaci e, a
maggior ragione, dei prelati fra le varie dipendenze della sua rete, l’abbaziato di Elmi non
era sempre l’incarico di una vita e poteva diventare una tappa in una carriera percorsa all’interno della famiglia regolare. Fu probabilmente così per un tal Guido, che abbandonò Elmi
nel 1277 per diventare priore claustrale di San Michele in Borgo a Pisa 25, oppure per un tal
Dionisio, trasferito come abate di Urano il 3 febbraio 1377 dal priore generale Giovanni
degli Abbarbagliati 26. Lo stesso priore generale, sempre alla ricerca di rappresentanti in grado
di sbrigare in loco le faccende dell’Ordine, nominò l’abate successivo, un certo Girolamo,
precedentemente abate di Poppiena, come suo vicario: un incarico in virtù del quale vediamo il superiore di Elmi agire da arbitro fra l’eremo del Vivo e un suo priorato 27.
Malgrado piccole mansioni di questo tipo 28, Badia Elmi perse progressivamente il suo
peso nell’Ordine man mano che questo crebbe e venne meno il prestigio derivante dalla
precedenza cronologica dell’aggregazione dell’abbazia alla compagine camaldolese. Quando
nel 1343 il capitolo di Borgo San Sepolcro stilò un elenco dei maiora e mediocra monasteria, Elmi non rientrò in nessuna di queste categorie, ma solo in quella dei minora monasteria, mentre San Giusto di Volterra apparteneva alla prima e Cerreto alla seconda 29.
Per quanto riguarda l’abate Girolamo, citato prima, che era stato superiore di Poppiena
ed aveva ricevuto l’incarico di raccogliere la colletta dell’Ordine per i mesi di ottobre,
novembre e dicembre 1383, si ritrovò nel febbraio 1385 al centro di un’inchiesta con interrogazione di testimoni mossa dal vicario e coadiutore apostolico nominato per affiancare nel governo il vecchio priore generale Giovanni degli Abbarbagliati, un certo Giacomo
da Padova. I diversi punti dell’inquisitio tendevano a dimostrare la notoria infamia del
personaggio, pubblicamente manifestata dai vari crimini commessi contro la vita monastica (nascita illegittima incompatibile con lo statuto clericale, furto, dilapidazione di beni
monastici, traffico di benefici in curia, incontinenza, abuso nell’esercizio delle sue funzioni
di camerlengo del generale e così via), nei confronti dei visitatori dell’Ordine e di altri suoi
rappresentanti, nonché contro il cardinale di San Marco, vittima della sua pubblica diffamazione espressa tramite lettere e libelli 30. In realtà Girolamo sembra aver usato il beneficio di Poppiena (e forse anche quello di Elmi) per finanziare i suoi studi a Bologna, come
24. ASFI, Camaldoli Appendice, 26, c. 85v (da San Giusto di Volterra, 1323 gennaio 5).
25. Ann. Cam., VI, p. 134 (21 giugno 1277).
26. Ann. Cam., VI, p. 127; si tratta probabilmente del Dyonisius Guelfucii de Aretio che compare in un atto del
1375 citato da R. Razzi nel presente volume.
27. Ann. Cam., VI, p. 140.
28. Ancora nel 1244 l’abate di Elmi era incaricato della visita alle dipendenze camaldolesi della marca di Ancona
dal priore generale Guido (Donnus Ubertus abbas Athalmensis, in cunctis monasteriis de ordine Camaldolensi in
Anconitana marchia constitutus, a venerabili domino Guidone priore Camaldolensi visitator et reformator generalis
ordinatus), cit. in L’abbazia di Sant’Elena dell’Esino. Memorie storiche e artistiche, a cura di C. Pierucci, Camaldoli
1981, pp. 81-83, doc. 9). Nel 1415 l’abate di Elmi dominus Benedictus de Forlivio era commissarius reverendi in
Christo patris et domini domni Antonii de Parma dicti ordinis Camaldumensis prioris generalis (Archivio di Stato di
Siena, Diplomatico, S. Mustiola, 1415, gennaio 15).
29. Ann. Cam., VI, App. col. 321. Sulla divisione dei monasteri secondo questo criterio cfr. Caby, De l’érémitisme rural cit., pp. 113-115.
30. ASFI, Camaldoli Appendice, 35, cc. 182r-194r (con carte disordinate), febbraio 1385.
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denunciarono vari testimoni, i quali ricordarono, inoltre, che mentre soggiornava come
studente nella città emiliana fungeva da cappellano delle monache di Santa Cristina 31. Si
scopre, infine, che Girolamo era in realtà spergiuro ed apostata in quanto pare fosse entrato nell’Ordine a Camaldoli di Firenze dopo esser stato professo nella familia degli Umiliati
presso il convento di Ognissanti della stessa città, da dove era fuggito, circa diciotto anni
prima, onde scampare alla prigionia alla quale era stato condannato per aver ordito un
complotto contro la vita del priore Luca Manzuoli! Si tratta di una vicenda complessa e
ricca di particolari talvolta rocamboleschi (come il racconto del tentativo di fuga e poi
dell’evasione da Ognissanti), che copre una decina di carte nell’ultimo registro del priore
generale Giovanni degli Abbarbagliati e rimane interamente da studiare 32.
In definitiva, mi sembra che quanto osservato finora basti a dimostrare l’importanza
decisiva – in particolare per quanto riguarda la produzione documentaria – dell’inserimento di insediamenti monastici paragonabili a Badia Elmi nell’ambito di una compagine monastica strutturata secondo i criteri di una rete regolare centralizzata. Per questa
ragione ho ritenuto necessario richiamare l’attenzione – accanto alla corposa messe di
documenti di produzione locale, spesso scoperti e analizzati per la prima volta nei ricchi
contributi che compongono il presente volume – sulla testimonianza dei documenti amministrativi prodotti al centro dell’Ordine, presso i vari organi di potere e nell’ambito dei
loro compiti di controllo e uniformazione 33.
31. Per esempio, ivi, 35, c. 191r: toto tempore predicto non stetit continue per unum mensem in dicto monasterio sed ibat Bononiam ad studium et dicit se audisse quod se gerebat pro capellano in monasterio monialium Sancte
Cristine de Bononia dicti ordinis Camaldulensis.
32. La vicenda deve, in particolare, essere contestualizzata nei difficili anni durante i quali si concluse il generalato di Giovanni degli Abbarbagliati. Sul priore generale cfr. R. Manselli, Abbarbagliati Giovanni, in Dizionario
Biografico degli Italiani, 1, Roma 1960, pp. 16-17; E. Guerrieri, Iohannes de Abbarbagliatis prior generalis, in Clavis
degli autori camaldolesi (secoli XI-XVI), a cura di E. Guerrieri, Firenze 2012, pp. 101-106. Sulle difficoltà dei
Camaldolesi alla fine del suo abbaziato cfr. C. Caby, À propos du De seculo et religione. Coluccio Salutati et Santa
Maria degli Angeli, in Vie active et vie contemplative au Moyen Âge et au tournant de la Renaissance, dir. C. Trottman,
Roma 2009, pp. 483-529.
33. Per un esempio di approccio analogo cfr. C. Caby, Conflits d’identités dans un ordre religieux au XIVe siècle:
l’abbé de San Giusto de Volterra et le chapitre général camaldule, in Institution und Charisma. Festschrift für Gert
Melville, Münster 2009, pp. 111-126.
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Per una storia camaldolese di Badia Elmi
Appendice documentaria
Doc. 1 – ASFI, Camaldoli Appendice, 22, cc. 83v-84r: Estimo per la decima del canonico
Alcampo, 1274-1282.
Monasterium de Adelmo
Grani
Star. CCXLVIIII
Libr. CXLVIIII s. VIII
Segali
Star. I
s. IX
Ordei
Star. X
s. XXXVIII dr. VIII
Milii
Star. VIII
Libr. III s. IIII
Panichi
Star. XVIII
Libr. V s. VIII
Sagme
Star. VIIII
s. XXXV dr VI
Cicerum
Tertium I
s. X dr. VI
Fabarum
Star. VII et tertii II
s. VI dr. VIII
Olei
Libr. XII
Libr. IIII
De lino
Libr. III s. XII
De cannis et foliis cannarum
Libr. VI
De oblationibus
Libr. V s. XI dr. IIII
Summa suprascriptorum proventuum
secundum extimationem comunem
domini Alcampi ad misuram pisanam
et monetam
Libr. XCI dr. XVI
Flor. auri VI s. VII d. III
Decimam non solvuunt quare publice mendicanti
Doc. 2 – Archivio del Monastero di Camaldoli, Diplomatico Camaldoli, 547: inventario di
Badia Elmi (18 maggio 1317).
In Dei nomine Amen. Anno Domini Millesimo trecentesimo septimodecimo, indictione quintadecima die octavadecima mensis madii. Reverendus vir dompnus Franciscus abbas monasterii Sancte
Marie de Elmi ordinis Camaldulensis coram me notario et testibus infrascriptis fecit hoc inventarium et assignationem de massaritiis et rebus ac debitis prelibati monasterii Elmi.
In primis unum calicem argenteum deauratum, unam planetam de sirico a et aliam planetam de
bambigeno b. Unum dorsale de serico et quinque camiscias sive albas et viginti tobalias altaris et
duas coctas.
Item unum missale et unum epistolare et duo homeliaria, unum yemale et unum estivum. Vitas
Patrum. Unum psalterium. Unum manuale. Unam consuetudinem in Regulam Beati Benedicti.
Item quattuor libros parvos quorum tituli ignorantur.
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Badia Elmi
¶ Ista sunt debite abbatie predicte.
In primis tenetur Comaldo de Castro Florentino: quadraginta florenos aureos.
Item Petro Perioli de eodem Castro Florentino: vigintinovem florenos aureos.
Item Tingo Barberio: novem aureos florentinos.
Item Lentio de eodem Castro Florentino: sex florenos aureos.
Item Rubeo de Guarneriis de Certaldo: octo florenos aureos.
Item Scapronelle de Florentia: sex florenos aureos.
Item heredibus ser Clari de Sancto Geminiano: octo florenos aureos.
Item heredibus Tancredi de Gambasso: duodecim florenos aureos.
¶ Summa omnium floren. centum decem et octo de quibus solvitur meritum usurale quattuor
denarios pro qualibet libra.
¶ Que debita florenorum pro maiori parte fuerunt contracta pro refectione molendini et aliarum domorum que fuerunt combusta quando dominus imperator transivit per Valle Else eundo
Senas.
¶ Item Ceschus Ceti de eodem Castro Florentino debet recipere ab eodem monasterio de Elmi
annuatim septem modia frumenti usque ad quinque annos.
Facta fuit prefata assignationis debitorum et inventarium librorum, paramentorum et rerum in
monasterio de Vangadicia, presentibus dompno Bartholo abbate Sancti Iusti de Vulterris et dompno Benedecto de Florentia testibus ad hec vocatis.
(S. N.) Ego Benvenuctus filius condam Tabbiani de Vulterris imperiali auctoritate notarius predictis interfui et rogatus subscripsi et publicavi.
a. Lettura ipotetica a causa di una macchia della pergamena. b. Bambacinum, Italis bambagino: tela di cotone, cfr.
<http://ducange.enc.sorbonne.fr/BOMBAX1>.
Doc. 3 – ASFI, Camaldoli Appendice, 35, cc. 192r-194r: inchiesta condotta presso il convento
di Ognissanti di Firenze nell’ambito dell’inchiesta sulla vita e i costumi di Girolamo abate di Badia
Elmi (febbraio 1385).
Die ultima mensis februarii.
Dictus dominus vicarius cum pervenisset Florentia prosequendo sue visitationis officium nichilominus quare in monasterio Omnium Sanctorum ordinis Humiliatorum civitatis predicte fuit
conversatus in habitu et professione dicti monasterii supradictus abbas Adelmensis per plures
annos in principio sue conversationis de seculo ad religionem, voluit inquirere et investigare de
conversatione, vita, moribus et honestate ac religiosi observatione dicti abbatis Adelmensis a religiosis et honestis viris stantibus in dicto monasterio Omnium Sanctorum et qui stabant tempore quo dictus abbas Adelmenesis in dicto monasterio regularem et expressam fecit professionem
et cum ipso fuerunt annis pluribus conversati in eodem monasterio.
Eadem die
Summo mane dictus vicarius inposuit et mandavit Denesio suo nunptio iurato quatenus vadat
ad monasterium Omnium Sanctorum supradictum et quod sui parte citet et requirat fratrem
Dominicum de Florentia professum dicti monasterii et in sacerdotum constitutum quatenus hoc
compareret coram dicto domino vicario in monasterio Angelorum de Florentia ordinis
Camaldulensis ad iurandum dicere veritatem et testimonium perhibere veritati in hiis que scit de
visu vel auditu, visibiliter super articulis inquisitionis supradicte.
Qui nunptius iens et rediens retulit dicto domino vicario quod personaliter citavit fratrem
Dominicum et quod omnia alia fecit prout sibi erant imposita per dictum vicarium.
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Per una storia camaldolese di Badia Elmi
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Dicta die hora tertiarum
Religiosus et honestus vir frater Dominicus supradictus comparuit coram dicto vicario in supradicto monasterio Angelorum offerens se paratum dicere, facere et respondere de iure in omnibus que
dictus vicarius noluerit ipsum examinare, inquirere et visitare. Statim post hec, dictus vicarius mandavit sibi cum delatione iuramenti quod diceret veritatem quam scit super articulis antedictis cum fuerit exanimatus per dictum vicarium, remoto odio, amore, prece, precio et omni humana gratia.
Qui frater Dominicus tactis Scripturis quas dictus vicarius tenebat in manibus iuravit dicere veritatem quam sciebat et scit prout fuerit interogatus et etiam examinatus per dictum vicarium super
articulis antedictis.
Statim post hec, dictus vicarius legit sibi omnes et singulos suprascriptos articulos ad plenam
intelligentiam, qui respondit et dixit prout inferius describetur.
Super primo articulo qui incipit «Primo quod de mense iunii etc.» Interrogatus suo iuramento
respondet se nichil scire.
Super II° qui incipit «Secundo quod dictus abbas Adelmensis etc.» Interrogatus suo iuramento
respondet se nichil scire.
Super III° qui incipit «Tertio quod dictus abbas Adelmensis de anno etc.» Interrogatus suo iuramento respondet quod bene audiverat aliquid de contento in presenti articulo sed quare non erat
nec est bene informatus dicit se non posse aliquid veridice respondere cum integritate conscientie.
Super IIII° qui incipit «Quod dictus abbas Adelmensisest habitus etc.» Interrogatus suo iuramento
respondet se adscire de contento in presenti articulo. Interrogatus quod scit et qualiter scit, respondet quod audivit a dompno Stephano nunc abbate monasterii Sancti Fridiani de Pisis ordinis
Camaldulensis, dicente sibi testi existenti in civitate Pisane, iam sunt sex anni vel circa, dum loquerentur ad invicem et sermo accederet circa personam dicti abbatis Adelmensis: «que carongia ca.vete
mandate a nostro ordine!». Intelligens de predicto abbate Adelmensi qui prius fuit professus ordinis Humuliatorum et postea transivit ad ordinem Camaldulensem. Interrogatus quam opinionem
habet verisimiliter de predicto abbate Adelmensi, respondet quod credit, tenet et reputat ipsum fuisse et esse virum contensiosum, scandalosum, reprobum, seditiosum et specialem molestantem, turbantem et inquietantem loca et monasteria in quibus moratur et habitat ac contra personas in eisdem commorantibus et habitantibus. Interrogatus quomodo scit, respondet quare tempore quo dictus abbas Adelmensis a stabat in dicto monasterio Omnium Sanctorum, presente ipso teste et ibidem commorante, vidit, audivit et cognovit quod dictus abbas Adelmensis inutiliter, inobservanter et irreligiose vivebat et vixit in dicto monasterio, tempore quo ibi stetit. Dicit etiam quod audivit pluribus et pluribus vicibus a multis annis citra a pluribus monachis de quibus dixit se non recordare ad presens et aliis personis Camaldulensis ordinis quod dictus abbas Adelmensis est inquietus, contensiosus et scandalosus b in dicto Camaldulensi ordine et reputatur ac tenetur male condicionis et vite et de eo est publica vox et fama in dicto Camaldulensi ordine.
Super V° articulo qui incipit «Quod dictus abbas Adelmensis est dilapidator etc.» Interrogatus
suo iuramento respondet se nichil scire de contento in predicto articulo.
Super VI° articulo qui incipit «Quod dictus abbas Adelmensis est discolus etc.» Interrogatus suo
iuramento, respondet quod, tempore quo conversabatur in dicto monasterio Omnium Sanctorum
dictus abbas, erat teneris et parvulus etate nec adhuc aptus ad carnalia et inhonesta ac impudica et
posquam recessit a dicto monasterio dicit ipse testis quod de factis suis non multum curavit scire.
Super VII° qui incipit «Quod nescitur etc.» Interrogatus suo iuramento, respondet quod scit aliquid de contento in presenti articulo. Interrogatus quod scit et qualiter scit, respondet quod audivit a dicto abbate Adelmensi dum esset parvulus, tempore quo habitabat in dicto monasterio
Omnium Sanctorum dicente sibi testi quod pater suus vocabatur Egidius et solebat habitare in comitatu Florentino et iuxta Florentiam per V milia, in loco qui dicitur a Fontebono, eundo versus
Scarpariam. Interrogatus si vidit dictum Egidium et si audivit ab aliis personis fide dignis quod dictus abbas Adelmensis haberetur, teneretur et reputaretur tamquam filius et pro filio dicti Egidii,
respondet se non vidisse dictum Egidium nec ab aliquo audisse quod dictus Egidius fuisset pater
dicti abbatis Ademensis nec ab ipso abbate Adelmensi. Interrogatus si aliquid scit de generatu et
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Badia Elmi
progenie dicti abbatis Adelmensis, respondet se non esse bene informatum nec posse aliquid cum
veritate dicere.
Super octavo qui incipit «Quod dictus abbas Adelmensis cum de anno Domini etc.» Interrogatus
suo iuramento, dicit se nichil scire.
Super IX° qui incipit «Quod dictus abbas dum iret etc.» Interrogatus suo iuramento, respondet
se non bene esse informatum de contento in eodem.
Super X° qui incipit «Quod dictus abbas Adelmensis qui vocatur frater Ieronimus c propter sua
facinora etc.» Interrogatus suo iuramento, respondet vera esse contenta in prima parte articuli.
Interrogatus quomodo scit verum esse, respondet quod dum ipse testis esset iunior et staret atque
habitaret in dicto monasterio Omnium Sanctorum tamquam frater professus ipsius monasterii una
cum dicto abbate Adelmensi fratre professo et in sacris ordinibus constituto tunc etiam habitante
et commorante in eodem monasterio ipse abbas minus domestice et familiariter conversabatur cum
una femina, uxore cuiusdam hospitii tunc habitantis in vicinia dicti monasterii, ex qua causa venerabilis pater magister Lucas, tunc et nunc prepositum dicti monasterii Omnium Sanctorum, mandavit dicto fratri Ieronimo nunc d abbati Adelmensi quod non deberet conversari cum dicta muliere nec cum ea aliquam domesticitatem habere; qui frater Ieronimus nunc abbas Adelmensis dum
staret illo tunc in biblioteca dicti monasterii, presens testis ut dixit, accessit ad eum et dixit: «quare
stas in tanta rebellione et contra mandata domini prepositi supradicti, conversatus cum muliere
predicta?» Respondet dictus frater Ieronimus, nunc abbas Ademensis: «dictum mandatum fuit nisi
factum a dicto preposito ex mala voluntate et displicentia quam gerit contra me, sed certe ego vindicabo me de dicto preposito et occidam eum cum isto pugnone seu gladio venenato». Tunc presens testis dixit se dixisse fratri Ieronimo: «quomodo venenasti istud gladium?». Respondet dictus
frater Ieronimus nunc abbas Adelmensis: « Ego posui cuspidem sive aciem gladii in uno cepe et alia
feci propter que dictus gladius est in tantum venenatum quod pro unoquoque vulnere moriretur
dictus propositus a me percussus et potitus evadere. Quod scelus detestandum et abhorrendum dictus testis, ut dixit, vehementer aborrens, revelavit dicto venerabili magistro Luce preposito. Qui
prepositus statim convocavit capitulum et conventum dicti monasterii exortans fratres suos ibi capitulariter convocatos ad regularem vitam et conversationem honestam, annuptians vere et virtuose
premia celestis regni et malis dampnationis inferii. Qua exortatione finita, vocavit ante se dictum
fratrem Ieronimum nunc abbatem Adelmensem et dixit ei: «Habes arma offensalia in cella tua».
Qui respondit et dixit se non habere. Tunc dictus prepositus mandavit duobus fratribus eiusdem
capituli et † congregatis quod irent ad cellam predicti fratris Ieronimi ac perquirerent caute et diligenter si invenirent arma offensalia in dicta cella et si invenirent quos statim aportarent coram
ipsum. Qui fratres immediate accesserunt et intraverunt dictam cellam fratris Ieronimi et invenerunt secus introitum celle unum cutellum seu pugionem vel gladium intra cellam predictam latente absconditum, quo ablato per ipsos attulerunt eum coram dicto preposito et aliis fratribus constantibus capitulariter congregatis. Qui frater Ieronimus videns se esse compertum in machinatione sua
pessima et pestifera supradicta arripuit fugam et evasit de medio dictorum fratrum et saliens per
scalas dormitorii unus frater dicti ordinis Humiliatorum, tunc prepositus monasterii Pistoriensis
eiusdem ordinis, transiens per dictum dormitorium obviavit dicto fratri Ieronimo et videns eum
fugientem et alios fratres eum persequentes super scalam tenuit eum fortiter, ita quod supramentionati fratres ceperunt dicum fratrem Ieronymum et de mandato dicti prepositi clauserunt eum in
carceribus eiusdem monasterii et in compedibus allegarunt. Et dixit predictus testis quod in nocte
sequenti post dictam carcerationem immediate dictus frater Ieronimus conquassavit fenestram ferream predictorum carcerum atque fregit et evasit carceres predictos ac in compedibus predictis
repens se intravit per unam fenestram domum unius vicini dicti monasterii, qui vicinus eum sic a
dictis vinculis liberatum abire dimisit. Interrogatus si de licentia dicti prepositi dimisit habitum sue
prime professionis antedictus frater Ieronimus et assumpsit habitum Camaldulensis ordinis, respondet quod credit quod dictus frater Ieronimus misit unum procuratorem suum ad petendam licentiam a dicto preposito e trascendendi ad habitum dicti Camaldulensis ordinis; sed dicit se non credere quod dictus prepositus aliquam habiti licenciam sibi dedit quare dare non poterat et dixit quod
omnia predicta fuerunt publica manifesta et notoria tunc temporis quando fuerunt perpetrata in
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Per una storia camaldolese di Badia Elmi
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dicto monasterio Omnium Sanctorum apud omnes fratres tunc ibidem commorantes. Interrogatus
si fuit presens etiam ipse, respondet quod sic et vidit quasi omnia sic gesta et perpetrata ut supra
dixit per dictum fratrem Ieronymum nunc abbatem Adelmensem. Interrogatus si dictus frater
Ieronymus est inimicus eius, respondet quod non questioni in ipso teste est. Interrogatus si ex odio
vel ex displicentia deposuerat super dicta et testificatus fuerat, respondet quod non, sed solum propter meram et puram veritatem quam scit et iuravit dicere et respondere.
(S. N.) Et ego Iohannes de Hetsroede clericus Leodiensis dyocesis, publicus imperiali auctoritate notarius quare promissis, visitationi, examinationi et inquisitioni ac omnibus aliis et singulis
contentis in XII cartas manu mea scriptas f, immediate precedentibus, una cum dictis dompnis vicario et dompno Matheo priore monasterii Sancte Margrete visitatoribus, presens interfui eaque omnia
et singula sic fieri vidi et audivi. Idcirco predictas XII cartas signo meo publico et consueto signavi.
Has dictiones «cartas manu mea scriptas» non vicio sed errore omissas approbo.
a. dictus abbas Adelmensis aggiunto in interlinea. b. scandalisosus nel documento. c. qui vocatur frater Ieronimus
aggiunto in interlinea. d. fratri Ieronimo nunc aggiunto sul margine sinistro. e. a dicto preposito aggiunto in interlinea. f. cartas manu mea scriptas aggiunto in interlinea e sul margine destro.
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Badia Elmi: vita e patrimonio di una fattoria camaldolese
dal XVI al XIX secolo*
Enrico Sartoni
I
ndagare l’evoluzione storica moderna del complesso di Badia Elmi potrebbe apparire,
a un primo esame, un’operazione di scarso interesse, data la collocazione geografica
periferica dell’ente, la sua non cospicua consistenza patrimoniale e l’assoluta frammentarietà dei documenti che ne registrarono l’attività 1. Per di più, la frettolosa evanescenza
con la quale la datata pubblicistica locale, spesso tesa alla laudatio della piccola patria 2,
si è confrontata con il soggetto, ha fatto emergere soltanto i pochi e salienti tratti architettonici dell’edificio, spesso interpretando la presenza monastica della familia romualdina quale elemento di ‘disturbo’ per i più autentici valori di un ideale governo di questo
specifico territorio 3. Tali caratteri dell’indagine storiografica hanno orientato anche gli
*
Questo contributo deve molto ai suggerimenti e alla cortesia di don Ugo Fossa, archivista bibliotecario della
Congregazione Camaldolese, dell’ing. Silvano Mori, del dott. Alessandro Furiesi archivista della Diocesi di Volterra, e
della dott.ssa Lucia Ricciardi, responsabile dell’Archivio dello Spedale degli Innocenti di Firenze, ai quali intendo esprimere la mia gratitudine. Verso Marcello Bessi sciolgo un debito di gratitudine per il sequestro del suo ‘Asus’, senza il quale
una parte di questo lavoro non sarebbe mai stata scritta. Una menzione speciale vorrei riservare ad Elvira Anna Milone
dell’Archivio di Stato di Siena per la sua gentilezza e disponibilità nella ricerca. Al prof. Francesco Salvestrini dell’Università
di Firenze va la gratitudine per la fiducia e per la revisione, mentre al prof. arch. Luigi Zangheri del medesimo Ateneo va
il ringraziamento per aver permesso di spendere parte del mio tempo, sottratto al lavoro che svolgo presso l’Accademia
delle Arti del Disegno, in favore di questa ricerca. Nella compilazione delle note al testo si è seguita la seguente tavola delle
abbreviazioni: AAFI = Archivio Storico dell’Arcidiocesi di Firenze; ASFI = Archivio di Stato di Firenze; ASFI, Corporazioni
= Corporazioni religiose soppresse dal Governo francese; ASSI = Archivio di Stato di Siena; ASI = Archivio dello Spedale
degli Innocenti di Firenze; ASC = Archivio Storico della Congregazione Camaldolese, Monastero di Camaldoli; ASDV =
Archivio Storico della Diocesi di Volterra; ASUP = Archivio Storico dell’Università di Pisa.
1. La complessa e ben nota vicenda a cui i conventi e i monasteri andarono soggetti nel periodo della dominazione napoleonica ha purtroppo alterato, ancorché ne abbia permesso una fruizione pubblica, la fisionomia degli archivi degli enti religiosi. Ciò che oggi possiamo apprezzare nell’ambito degli istituti di conservazione toscani sono le ricostruzioni basate sul metodo bonainiano, conosciuto anche con il nome di metodo storico, dei materiali sopravvissuti ai numerosi spurghi e ai trasferimenti cui furono sottoposte le unità archivistiche degli enti soppressi. In questo contesto oggi sopravvivono soltanto poche testimonianze relative al complesso di Badia Elmi. Appena una decina di piccoli registri permettono di ripercorrere un complessivo arco cronologico il cui estremo remoto si situa nel 1684, mentre il più recente data al 1810. La commenda, l’unione con il monastero fiorentino degli Angeli e il rapido ricambio
degli agenti camaldolesi che si occuparono del governo del centro valdelsano non dovettero, d’altra parte, favorire
un’ordinata amministrazione dell’archivio abbaziale, dal momento che ancora in una lettera del 24 ottobre 1791 spedita dal converso Giusto Moretti residente alla badia al camerlengo fiorentino Antonio Duccini si legge: «al libro intitolato debitori e creditori segnato di lettera D […] cioè la chiamata del libro vecchio a carte 303 che qui non si trova
libri di tante carte» (ASFI, Corporazioni, 86, 90, affare n. 3). La documentazione precedente è invece reperibile sporadicamente nelle filze di scritture varie del monastero degli Angeli e negli altri archivi degli enti che esercitarono giurisdizione sia civile che ecclesiastica sul territorio, sebbene sia noto da un inventario redatto nel 1636 che presso l’archivio della procureria generale a Santa Maria degli Angeli in Firenze si trovava un faldone contenente carte relative
a Badia a Elmi (ASFI, Corporazioni, 86, 183, affare n. 54). La lacuna più grave da segnalare rimane l’irreperibilità
dei più risalenti libri di ricordi del monastero fiorentino degli Angeli (alcuni registri tardo settecenteschi, sebbene non
sia stato possibile consultarli, si trovano nell’Archivio Storico della Congregazione Camaldolese), i quali dovevano
costituire una fonte precisa, per quanto sussuntiva, circa le principali notizie relative alle varie fondazioni legate al
monastero fiorentino (numerosissimi sono i rinvii ai registri dei ricordi nella documentazione consultata).
2. M. Cioni, La Valdelsa, Firenze 1911, p. 164; S. Isolani da Montignoso, La Badia di Adelmo (Certaldo). Preziosa
Scoperta, «Arte e Storia. Rivista Mensile», 39, n. 3, 1920, pp. 88-92; L. Chellini, San Gimignano e Dintorni (Siena),
2 ed. Siena 1921, pp. 177-178; S. Isolani, Storia politica e religiosa dell’antica comunità e podesteria di Gambassi
(Valdelsa), Castelfiorentino 1924, pp. 164-169.
3. Isolani, Storia politica e religiosa cit., p. 159; Chellini, San Gimignano cit., p. 235.
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Badia Elmi
autori moderni verso la compilazione di eruditi spicilegi documentari piuttosto che verso
una matura riflessione. Eppure quelle stesse caratteristiche di scarsa consistenza patrimoniale, di frammentarietà documentaria e di perifericità, espressione di una non originaria, e quindi acquisita, fragilità tardomedievale, rendono Badia Elmi un caso paradigmatico di quell’universo spirituale ed economico composto da piccoli o piccolissimi insediamenti che la religiosità dell’età di mezzo consegnò all’epoca moderna, e che gli uomini del Cinque e Seicento si trovarono a dover gestire e riorganizzare sotto gli impulsi di
nuove identità, le quali sempre vedevano nel ritorno al passato salde radici per una sicura progressione nel futuro 4. Si trattò di una difficile eredità che può portare l’odierna ricerca storica ad una nuova conoscenza dei territori e delle congregazioni religiose, indagando le singole fondazioni nei loro rapporti con gli Ordini e con gli altri monasteri di appartenenza, nella loro gestione economica e nelle scelte della vita spirituale. Questo è il caso
della badia di Elmi, che rappresentò per tutta l’età moderna il più grande centro agricolo
appartenente al monastero fiorentino di Santa Maria degli Angeli, offrendo così la possibilità di una ricognizione da un punto di vista periferico, e quindi inconsueto, di quella
che era allora l’articolata galassia camaldolese.
Finanche la storiografia contemporanea, fuorviata dalle vicende del contiguo monastero di Cerreto, ha dibattuto il tema della data di unione della badia di Elmi al monastero fiorentino degli Angeli, con la conseguenza di assegnare alla stessa il valore di termine entro il quale leggere il collasso della struttura sanzionato dalla perdita della propria autonomia 5. Dobbiamo però tenere in debita considerazione che le prime unioni di
monasteri alla suddetta casa fiorentina si ebbero tra il 1414 e il 1419, periodo di grande
espansione per questo istituto, circondato da una fama in costante crescita legata per gran
parte all’attività del monaco umanista Ambrogio Traversari (ca. 1386-1439, dal 1431
priore generale dell’Ordine) 6. Le bolle papali ottenute dall’antipapa dell’obbedienza pisana Giovanni XXIII e poi da Martino V riguardarono il monastero di San Giovanni decollato del Sasso in diocesi di Arezzo e di San Pietro a Cerreto nella diocesi di Volterra 7, con
l’evidente scopo «che avendo il monastero [fiorentino] entrate insufficienti per alimen4. Cfr. in proposito A.M. Pult Quaglia, Il patrimonio fondiario di un monastero toscano tra il XVI ed il XVIII
secolo, in Ricerche di Storia Moderna, con una premessa di M. Mirri, I, Pisa 1976, pp. 143-208. Più in generale, F.
Landi, Il paradiso dei monaci. Accumulazione e dissoluzione dei patrimoni del clero regolare in età moderna, Roma
1996.
5. Il più recente contributo in tal senso si legge nel volume Nuovo atlante storico geografico camaldolese, a cura
di F. di Pietro e R. Romano, [Roma 2012], p. 173, dove si asserisce che l’unione, confondendo la data con quella di
Cerreto, avvenne nel 1421, senza tenere conto di quanto già segnalato da Gregorio Farulli, storico camaldolese del
XVII secolo, nella sua Istoria Cronologica degli Angeli, il quale faceva risalire l’unione di Elmi agli anni del generalato di don Antonio di Lorenzo Corsi nobile pisano (1553-1563) (cfr. G. Farulli, Istoria cronologica del nobile ed
antico monastero degli Angioli di Firenze del sacro ordine camaldolese dal principio della sua fondazione fino al presente giorno..., Lucca 1710, p. 75).
6. Cfr. Ambrogio Traversari nel VI centenario della nascita, Atti del Convegno, Camaldoli-Firenze, 15-18 settembre 1986, a cura di G.C. Garfagnini, Firenze, 1988; C. Caby, Culte monastique et fortune humaniste: Ambrogio
Traversari ‘vir illuster’ de l’Ordre camaldule, «Mélanges de l’École Française de Rome-Moyen Âge», 108, 1996, pp.
321-354, Ead., De l’érémitisme rural au monachisme urbain. Les Camaldules en Italie à la fin du Moyen Âge, Rome
1999, pp. 708-720.
7. J.B. Mittarelli, A. Costadoni, Annales Camaldulenses Ordinis Sancti Benedicti, VI, Venetiis 1761, coll. 729731. Cfr. anche ASFI, Corporazioni, 86, 184, affare 18. Una memoria camaldolese narra come il monastero di Cerreto
fosse stato concesso da Giovanni XXIII, trovandosi egli in Firenze il 26 giugno 1413; e come, dopo la sua morte, figurasse ancora in bolle del 1419, fino all’unione del 1421 (cfr. ASC, Fondo San Michele di Murano, Codice 624, pp.
320 e 323).
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Badia Elmi: vita e patrimonio di una fattoria camaldolese dal XVI al XIX secolo
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tarvi bocche .52. potesse con le dette unioni e rendite di badie di entrata di scudi cinquecento circa in tutto sostentarvi la famiglia» 8.
In realtà Badia Elmi non fu coinvolta in queste vicende patrimoniali e rimase legata al
Sacro Eremo; sebbene la sua struttura economica e la sua vita religiosa risultassero, fin
dalla fine del Trecento, sempre più fragili. Il monastero di Elmi, seppur considerato nobilior per origine, nell’ultimo quarto del XIV secolo aveva una capacità contributiva identica a quella di Cerreto (18 fiorini per il 1386) 9; mentre nel 1405 doveva già essere a quest’ultima inferiore per possedimenti e rendite, se in una pergamena del 9 maggio si legge
come don Antonio di Maestro Giovanni 10, collettore generale delle decime in Toscana,
avesse stabilito che i monasteri camaldolesi di San Pietro di Cerreto e Santa Maria
dell’Elmo, i quali pagavano lire 42, soldi 15 il primo e lire 30 il secondo, dovessero in
seguito corrispondere ciò che per lungo tempo avevano versato, cioè rispettivamente 12
e 10 fiorini, a motivo delle guerre devastatrici e delle alluvioni che avevano rovinato i
mulini di dette comunità 11. Purtuttavia la casa valdelsana di Elmi mantenne la sua autonoma fisionomia, non comparendo, infatti, nelle numerose elencazioni di unioni e privilegi che affollano la documentazione del XV secolo. È quindi necessario interrogarsi circa
il significato, alle soglie dell’età moderna, dell’autonomia del monastero di Elmi e cercare nel contempo di delinearne il ruolo.
Governata da un abate nominato per la durata della sua vita, che più volte appare nei
documenti pervenuti e che periodicamente rinnovava il suo legame spirituale col Sacro
Eremo nel sottostare alla pratica delle numerose visite canoniche 12, la badia di Elmi, a cui
era direttamente collegato il romitorio di San Mariano 13, alla fine del XV secolo era popolata anche da un altro monaco e da un «fante», che nel complesso gestivano un piccolo
patrimonio rurale composto ormai da due soli poderi e senza più i mulini, che avevano
composto gran parte del reddito durante i secoli precedenti 14. In una zona al confine tra
quelle che sono state delineate dalla storiografia come due aree distinte, ossia quella delle
città e del fiume rispetto «all’altra Toscana» 15, le caratteristiche della proprietà monastica nella zona diventavano in qualche modo precipue, esprimendo insieme un alto indice
di appoderamento ma anche una bassa antropizzazione, che forse era stata più consistente
durante il Trecento, ma che nel secolo successivo si era fortemente ridotta. Lo rivela, ad
esempio, l’analisi delle proprietà che appartenevano alla chiesa di Mucchio e che di lì a
poco sarebbero entrate nel possesso della badia di Elmi: piccoli appezzamenti tra 5 e 11
8. Si legge in una nota del 1640 conservata in ASFI, Corporazioni, 86, 92, affare 149. La frase è una copia della
expositio della bolla di Martino V circa l’unione del monastero di Cerreto a quello degli Angeli di Firenze (cfr. Annales
Camalulenses cit., VI, coll. 729-731).
9. ASFI, Camaldoli Appendice, 34, c. 169v.
10. Antonio di Maestro Giovanni di Maestro Bartolommeo Casini ricoprì numerosi incarichi all’interno della diocesi fiorentina fino a diventarne vicario generale. Fu poi vescovo di Pesaro e quindi di Siena, nonché tesoriere di
Giovanni XXIII e Martino V. Ricevette la porpora cardinalizia nel 1426 (cfr. S. Salvini, Catalogo cronologico de’
canonici della chiesa metropolitana fiorentina, Firenze 1782, p. 27).
11. ASFI, Diplomatico, Santa Maria degli Angeli-Firenze, 1405, maggio 9.
12. ASFI, Camaldoli Appendice, 37, c. 33r. Il giorno 2 marzo 1482 Badia Elmi fu visitata personalmente dal priore generale Pietro Dolfin.
13. Abbatia Sancte Marie de Elmi cum heremitorio Sancti Mariani. L’informazione si ricava da ASFI, Camaldoli
Appendice, 37, c. 97v.
14. ASDV, Inventari antichi, c. 296r.
15. La teoria è quella espressa nel libro di C. Pazzagli, La terra delle città. Le campagne toscane dell’Ottocento,
Firenze 1992.
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Badia Elmi
staiora, di cui soltanto uno dotato di una capanna posta su quattro colonne di legno e gli
altri privi di abitazione 16. Risulta chiaro, pertanto, dall’attività contrattuale del priore don
Gabriello di Giovanni di Bartolo de Frassineta (1491-1496) il ruolo palingenetico esercitato dai monaci attraverso clausole che imponevano l’obbligo di costruire entro due o
quattro anni case nei terreni locati 17, dando inizio al tardo processo di antropizzazione
del territorio che si sarebbe concluso con la realizzazione di quella che è stata definita
‘consociazione integrale’ 18.
Così caratterizzato il possesso di Badia Elmi rimase autonomo per tutto il XV secolo,
mentre i beni facenti capo al contiguo monastero di Cerreto andarono a costituire una
delle primarie fonti di approvvigionamento alimentare per il monastero fiorentino degli
Angeli, il quale, d’altra parte, risultava invece possedere un consistente numero di immobili in città atti a garantire un rilevante censo monetario, caratterizzando così – come ben
ha delineato Cécile Caby – il monachesimo camaldolese come monachesimo progressivamente più urbano 19.
La natura economico-immobiliare di questa matrice monastica non si tradusse, però,
in un’altrettanto oculata gestione finanziaria, se intorno agli anni Ottanta del Quattrocento
Badia Elmi, analogamente a tutti gli altri monasteri della famiglia camaldolese, si trovò a
dover pagare una somma (nel suo caso pari a 16,4,9 fiorini) per contribuire a sanare l’enorme debito di 3.000 fiorini che gravava sul monastero fiorentino degli Angeli 20, in un
momento nel quale si acuiva la fragilità della stessa casa valdelsana ormai popolata dal
solo abate titolare, cui l’Ordine, nell’estremo tentativo di preservare il centro spirituale,
concedeva facoltà, nel 1493, di acquisire da una casa vicina un monaco e un novizio 21.
Appena pochi anni più tardi, nel 1499, l’autonomia di Badia Elmi era nuovamente mutata restringendosi soltanto a quella dell’abate titolare, che aveva scelto di non risiedere più
tra le mura del monastero e si era ritirato presso i suoi familiari a Certaldo, dove si faceva difendere da armati per non essere molestato né, del resto, intendeva far ritorno al suo
monastero 22. Questa autonomia che ancora persisteva quando Elmi fu ricompresa tra le
82 case (ripartite in 17 principali) che nel 1513 andarono a formare la congregazione
denominata del Sacro Eremo e di San Michele di Murano 23, sarebbe stata destinata ben
presto a scomparire.
1. La commenda
Ben note sono le dinamiche storico-sociali che causarono la cessione in commenda di benefici monastici periferici e la trasformazione di gran parte dei loro possedimenti in cospicue
16. Cfr. il libro di livelli della prioria di Mucchio (1491-1610) legato al termine della filza ASFI, Corporazioni,
86, 74. Cfr. anche ASFI, Diplomatico, Santa Maria degli Angeli, 1491, settembre 23.
17. ASFI, Corporazioni, 86, 74, libro dei livelli di Mucchio, cc. 7r-10r.
18. Caratteristica per la quale nessuna parte del podere doveva rimanere improduttiva (cfr. Pazzagli, La terra delle
città cit., p. 64).
19. Caby, De l’érémitisme rural cit. Cfr. anche A. D’Addario, Aspetti della controriforma a Firenze, Roma 1972,
p. 393.
20. ASFI, Camaldoli Appendice, 37, c. 97v.
21. Questo è l’esito di una visita canonica compiuta al tempo del generale Dolfin (cfr. ASFI, Camaldoli Appendice,
38, c. 13r).
22. ASFI, Camaldoli Appendice, 38, c. 45r.
23. C. Fantappiè, Il monachesimo moderno tra ragion di Chiesa e ragion di stato. Il caso toscano (XVI-XIX sec.),
Firenze 1993, pp. 107-108.
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Badia Elmi: vita e patrimonio di una fattoria camaldolese dal XVI al XIX secolo
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pensioni per i commendatari 24. Anche Badia Elmi, come del resto il vicino monastero di
Cerreto 25, non sfuggì a questa dinamica e fin dall’inizio del XVI secolo fu affidata a cosiddetti locatari intermedi. Elmi dovette gravitare fin dal principio nell’orbita della famiglia
fiorentina dei Doffi, consorteria per lo più residente nel quartiere fiorentino di Santa Croce,
appartenente all’intraprendente piccola ‘borghesia’ che tra la fine del Trecento e la prima
metà del Quattrocento era riuscita a raggiungere una buona posizione economica e alcune cariche pubbliche 26, presentandosi divisa tra ortodossia medicea e libertà di pensiero,
caratteristica che aveva causato l’esilio di alcuni suoi membri 27.
Non conosciamo le modalità attraverso le quali la famiglia riuscì a godere del beneficio, né l’anno dell’immissione nel possesso dei beni. Siamo però a conoscenza del fatto
che il primo membro della casata cui venne assegnata la badia fu Andrea Doffi, definito
in una bolla papale di Clemente VII monaco vallombrosano 28. Non vi è certezza circa
l’appartenenza del Doffi alla prosapia spirituale di Giovanni Gualberto, sebbene la sua
famiglia fosse stata legata al monastero di Santa Verdiana in Firenze 29. Gregorio Farulli
nella sua Istoria Cronologica, descrivendo le benemerenze acquisite dallo stesso Andrea
Doffi verso il monastero fiorentino degli Angeli, riferisce che egli «fece ornare a sue spese
il refettorio […] e d’altre pitture e istaurò la cappella della Santissima Annunciata», connotandolo semplicemente con il titolo di «nobil fiorentino abbate della badia d’Elmi nella
Valdelsa» 30. Giorgio Vasari ricorda, invece, nelle storie dei «Ghirllandai» annotate nella
seconda edizione delle Vite del 1568, come Ridolfo Ghirlandaio, che aveva un fratello
monaco nel chiostro degli Angeli, fece «un molto bel cenacolo che è in testa al refettorio
dei medesimi monaci, e questo gli fece fare don Andrea Doffi Abbate, il quale era stato
monaco di quel monastero, e si fece ritrarre da basso in un canto» 31. È quindi possibile
che Andrea Doffi avesse trascorso alcuni anni nel monastero camaldolese 32 o che avesse
cambiato professione e avesse voluto esprimere la propria munificenza con un’opera tale
24. Cfr. G. Picasso, Commenda, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, 2, Roma 1975, coll. 1246-1250.
25. Cerreto fu concessa in commenda a Ugolino di Pietro di Onofrio dell’Antella priore S. Georgii de Suarca (cfr.
Annales Camaldulenses cit., VIII, Venetiis 1764, coll. 122-124).
26. Nel 1393 fu priore Francesco di Giovannino Doffi, e ancora per tre volte Bernardo di Ludovico tra il 1417 e il
1430, mentre Piero di Ludovico fu notaio della Signoria tra il 1420 e il 1433 (cfr. D. Toccafondi, Doffi Iacopo, in
Dizionario Biografico degli Italiani, XL, Roma 1991, pp. 364-365). Ludovico, padre di Piero, era stato a sua volta
notaio, nonché nominato legale degli Ufficiali sopra i mulini (cfr. ASFI, Provvisioni, registri, 58, provv. 18, 21 giugno
1370, c. 11r; 22 giugno 1370, c. 24r). Il figlio Piero, anch’egli notaio, sposò Isabella Spinelli e dalla loro unione nacque, tra gli altri, Leonardo. Per informazioni su altri membri della famiglia Doffi cfr. Ph. Jacks, W. Caferro, The Spinelli
of Florence. Fortunes of a Renaissance merchant family, Pennsylvania University 2001, pp. 44, 54-55, 109, 227, 265.
27. Nel 1434 il fratello di ser Piero, Bernardo, fu esiliato al ritorno di Cosimo in Firenze (cfr. Jacks, Caferro, The
Spinelli cit., p. 44).
28. ASFI, Corporazioni, 86, 178, affare 21.
29. Il notaio ser Piero Doffi aveva partecipato all’erezione dell’altare maggiore del monastero vallombrosano fiorentino di Santa Verdiana (cfr. G. Richa, Notizie Istoriche delle Chiese Fiorentine divise ne’ suoi quartieri, II, Firenze
1755, p. 226, notizia ripetuta pedissequamente dagli autori successivi, ma che trova conferma solo nella presenza
dello stemma Doffi sulle specchiature ai lati della mensa dell’altar maggiore).
30. Farulli, Istoria Cronologia cit., p. 80.
31. Giorgio Vasari, Delle vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori scritte da M. Giorgio Vasari Pittore
et Architetto Aretino…, secondo et ultimo volume della terza parte, In Firenze 1568, p. 572. Su Ridolfo Ghirlandaio
cfr. il recente contributo di E. Capretti, Ridolfo del Girlandaio, in Ghirlandaio. Una famiglia di pittori del Rinascimento
tra Firenze e Scandicci, Firenze 2010, p. 87.
32. Una nota del monastero fiorentino degli Angeli del 1541 definisce effettivamente Andrea Doffi «nostro monaco» (ASFI, Corporazioni, 86, 190, affare 18).
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Badia Elmi
da commemorare (1543), nel centrale monastero fiorentino, la sua persona altrimenti
legata alla periferica fondazione di Elmi 33. Sicuramente tra gli elementi che portarono il
Doffi a commissionare l’opera vi fu anche una sensazione di insicurezza, tale da spingere
il monaco a legare alcune delle sue sostanze alla salvezza della sua anima. Il 28 aprile
1541, infatti, appena due anni prima della commissione dell’affresco, il Doffi «lasciò allo
Spedale degli Innocenti scudi .700. con carico di detto Spedale ci desse ogni anno per San
Romualdo scudi .14. per fare detta festa durante la vita sua di detto abate e dopo la sua
morte, in cambio di detta festa un ufitio de’ morti il dì seguente o il dì della morte di detto
abate; il quale obbligo dura anni cento e cioè fino a giugno 1642» 34. Ancora definito nell’atto con la qualifica di abate di Santa Maria a Elmi, egli legò 16 scudi alla compagnia
dello Spirito Santo di Firenze per celebrare la festività di san Benedetto 35. Si dimostra così
una forte devozione del Doffi verso l’abito romualdino che in parte attenua l’ipotesi di
una connotazione vallombrosana della commenda, ipotesi che torna però a trovare campo
nella copia della bolla con la quale Clemente VII, fiorentino della famiglia Medici, concesse nel 1531 36 il beneficio vacante di Elmi a Johanni Jacobei Doffis scolari florentino,
grazie alla avvenuta resignazione proprio da parte di Andrea per mezzo del procuratore
vallombrosano Riccardum de Milanensibus scrittore apostolico, nonché potente intermediario fiorentino con la Sede apostolica 37. La bolla, stilata secondo i consueti formulari col richiamo a vacationis incommoda deplorare noscuntur ut gubernatorum utilium
fulciantur praesidio prospicit diligenter, disponeva che il monastero Beate Marie de
Adelmo prope Certaldum fosse assegnato a Giovanni di Jacopo Doffi, ancora d’età puerile, affinché potesse avere le sostanze per diventare sacerdote.
L’avvicendamento tra Andrea e Giovanni nel beneficio di Elmi fu probabilmente diretta conseguenza della morte di Jacopo Doffi, padre di Giovanni, avvenuta l’anno precedente (1530). Jacopo, infatti, mercante fiorentino iscritto pochi anni prima della morte
(1525) all’Arte della Seta come «setaiolo grosso», nonostante i suoi 66 anni lasciò quattro figli piccoli 38. A Giovanni, probabilmente il più grande, che nella bolla fu dichiarato
avere 13 anni ed una vocazione religiosa, fu concesso il beneficio di Elmi, calcolando che
gli procurasse un reddito di circa 100 ducati d’oro di camera, somma sufficiente ad intraprendere gli studi per la carriera ecclesiastica. Nella carta si dispose, inoltre, che al momen33. Anche se gli autori parlano di Badia d’Elci, il riferimento chiaro è al Doffi. Purtroppo non esiste più l’affresco
raffigurante quest’ultimo; mentre quello relativo all’ultima cena fu staccato nella sua integrità dalla lunetta superiore durante i lavori di ristrutturazione condotti negli anni Trenta del Novecento per opera del prof. Dino Dini e probabilmente la parte inferiore andò perduta (cfr. D. Savelli, Il convento di S. Maria degli Angeli a Firenze, Firenze 1983,
pp. 27-28; D. Savelli, R. Nencioni, Il chiostro degli Angeli, Storia dell’antico monastero camaldolese di Santa Maria
degli Angeli, Firenze 2008, pp. 31, 57-58).
34. ASFI, Corporazioni, 86, 190, affare 18; ASI, 5391, c. 20v.
35. ASI, 5391, c. 20v; e 4314, c. 333r.
36. Negli Annales la data è riferita, invece, al 1526 (cfr. Annales Camaldulenses cit., VIII, p. 47).
37. F. Thomas, Die Kanzlei der Päpste der Hochrenaissance (1451-1527), Tübingen 1986, pp. 438, 470, 475.
Sappiamo che il Milanesi fu ingaggiato a Roma, con scarsa soddisfazione, da Pierfrancesco Riccio, maestro di Casa
e maggiordomo maggiore di Cosimo I, per la vicenda del palazzo di Cosimo a Cerreto Guidi (cfr. E. Ferretti, G.
Micheli, Il Palazzo di Cosimo I a Cerreto Guidi. La villa medicea dalla fabbrica di Davitte Fortini alla corte di
Isabella, [s.l.] 1998, p. 32. Il Milanesi figura anche tra i finanziatori della cappella di San Giovanni dei Fiorentini a
Roma (cfr. F. Guidi Bruscoli, San Giovanni dei Fiorentini a Roma. Due secoli di finanziamenti tra pontefici e granduchi, prelati e mercatanti, «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 86, 2006, pp.
294-320: 300).
38. Toccafondi, Doffi cit., p. 365.
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to dell’ordinazione sacerdotale Giovanni sarebbe divenuto abate, continuando ad usufruire del beneficio purché si impegnasse a ben gestire l’abbazia e a restaurarla. Non conosciamo la data di ordinazione di Giovanni, ma egli compare con la qualifica di abate di
Badia Elmi e clericus florentinus in alcuni contratti redatti durante gli anni della guerra
tra Firenze e Siena (1552-1559) che documentano per la prima volta, sebbene in modo
frammentario, la gestione economica della badia. Il primo, del 10 dicembre 1552, ha per
oggetto la cessione in enfiteusi «per linea mascolina» di un casolare e di alcuni beni posti
nel castello di Certaldo tra «via Baldrachi et via Burgi», locati al conduttore Vincenzio
del fu Bernardo Baldassarre de Urmetti fiorentino 39. Il secondo, del 1 gennaio 1558, riguarda il podere detto «di sopra» locato ai conduttori «Bastiano di Morgante et Ulivieri Tonino
et Mone sua figliuoli», e quindi nel 1563 a Nencio e Giovanni fratelli «de’ Salvestrini
nuovi lavoratori» 40. In questo negozio giuridico «il detto messer Giovanni si obliga a dar
loro a mezo pro et danno per tutti e bestiami hanno di bisogno per lavorarlo», con ulteriori e consueti patti, senza cioè che potessero usare il bestiame fuori dal podere o per trasporto e che «il fitto» fosse pagato il primo giorno di ogni mese in questo modo: «huova
.12.» e in più per «Ogni Sancti paia .2. di capponi, per Carnovale paia uno di galline, per
Santa Maria a mezzo agosto paia .2. di pollastri et paia .2. di galletti» 41. Si trattava, quindi, di un contratto di colonia parziaria in cui il proprietario poteva agevolmente recuperare la disponibilità della terra e adeguare i canoni in rapporto all’evoluzione della congiuntura economica, con una limitata influenza sull’ordinamento delle culture 42. Il contratto mette anche in evidenza come la gestione delle sostanze materiali, analogamente a
quella dei beni spirituali, fosse affidata dal Doffi ad «Alexandro di Casentino», un cappellano stipendiato che probabilmente risiedeva ad Elmi 43.
Un terzo contratto di allogazione del 2 febbraio 1555 per due possessioni della badia
nella podesteria di Gambassi locate a «Bastiano di Giovanni e Lapo detto Marzo e
Michelagnolo figliuoli di detto Bastiano», rogato da Giuliano di Mariotto Luperelli da
Certaldo, non si discosta molto da quelli già analizzati 44; mentre da una portata del cittadino fiorentino Alfonso Becci del quartiere Santa Maria Novella, gonfalone della Vipera,
siamo a conoscenza del fatto che egli teneva a livello un pezzo di terra lavorata a Santa
Maria a Pulicciano, luogo detto Il Sasso, «hoggi padrone messer Giovani Doffi», per 9
staia di biada di censo 45. Il Doffi, inoltre, dovette essere molto attento alle sue rendite, non
soltanto amministrando il suo beneficio, ma cercando di espandere la propria influenza
e i relativi proventi, come nel caso del 1552, quando dai registri di cassa dell’istituto degli
Angeli si apprende che Giovanni aveva preso in locazione le vigne che il monastero fiorentino ancora gestiva a Pulicciano 46.
39. ASFI, Corporazioni, 86, 178, affare 21.
40. Ivi, 86, 179, affare 22.
41. Ibidem.
42. Notevole è la messe degli studi sulla mezzadria prodotti dalla scuola medievistica fiorentina di Elio Conti,
Giovanni Cherubini e Giuliano Pinto. Per la zona oggetto di studio risultano ancora oggi fondamentali i lavori di
Enrico Fiumi (cfr. E. Fiumi, Storia economica e sociale di San Gimignano, Firenze 1961).
43. Nel contratto del 2 febbraio 1555 si parla di Alessio di Casentino (ASFI, Corporazioni, 86, 181, affare 2).
44. Ibidem.
45. ASFI, Corporazioni, 86, 186, affare 49.
46. Ivi, 86, 3, c. 12v.
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Badia Elmi
Il governo temporale del Doffi durò fino al 1564, quando in data 1 gennaio una nota
del primo segretario di Cosimo I, Lelio Torelli, dichiarò: «dessi licentia al reverendo padre
priore del monastero delli Angeli di Firenze di pigliare il possesso della badia di S[anta]
Maria Aelmo dell’ordine di Camaldoli diocesi volterrana, vacata per dimissione del reverendo messer Giovanni Doffi canonico fiorentino» 47. Due anni prima, infatti, il prelato era
entrato in possesso del decimo canonicato di libera collazione della cattedrale di Santa
Maria del Fiore di Firenze per morte di un altro suo parente, Leonardo Doffi di Piero di
Leonardo, canonico dal 1514 48. Tuttavia nel 1563 erano stati pubblicati i decreti del concilio di Trento che ponevano delle limitazioni all’acquisizione, per resignazione o accesso
alle cariche, al cumulo delle stesse e alla residenzialità nelle commende, costringendo, con
tutta probabilità, l’appena eletto canonico a resignare il beneficio di Badia Elmi 49. Non sappiamo se la rinuncia del Doffi sia avvenuta a titolo gratuito o se sia stata compensata con
una qualche remunerazione. La seconda possibilità parrebbe però confermata dai registri
di cassa del monastero fiorentino, che evidenziano tra le uscite, almeno fino al 1568, una
pensione annua intestata a Giovanni Doffi pagata in rate semestrali di 385 scudi, la prima
«per San Giovanni», cioè il 24 di giugno, e l’altra per Natale 50.
I contatti del Doffi con la famiglia romualdina non furono, comunque, destinati ad
interrompersi. Infatti trent’anni più tardi, nel 1597, egli dettò il suo testamento alla presenza del notaio Francesco degli Albizzi proprio «nella badia o vero monastero di Sancta
Maria delli Agnoli di Firenze e nella stanza del camarlingo dell’ordine di Camaldoli, alla
presenza dell’abate Giulio di Piero Guadagni» 51.
2. La grangia camaldolese alla fine del XVI secolo
Il ritorno del pieno possesso da parte del monastero degli Angeli su Badia Elmi avvenne in
un periodo nel quale l’istituto fiorentino riuscì a rafforzare le proprie entrate, e in generale la congregazione camaldolese tornò a gestire direttamente, anche in linea con i canoni
tridentini, diversi enti concessi nel tempo in commenda, come nel caso della badia di San
Giusto di Volterra, che venne riacquisita dall’Ordine per resignazione di Giovan Battista
Riccobaldi del Bava 52, o dello spedaletto di San Martino di Pisa, resignato nelle mani di
47. Ivi, 86, 180, affare 20. Cfr. anche Annales Camaldulenses cit., VIII, p. 47.
48. Salvini, Catalogo cronologico cit., p. 97. Alla morte di Leonardo che, divenuto vedovo, aveva intrapreso la
carriera del religioso vestendo anche l’abito dei cavalieri di Malta e di Santo Stefano, gli eredi furono Giovanni,
Damiano, Leonardo e Alessandro di Jacopo Doffi (cfr. ASFI, San Piero a Monticelli, 206, cc. non num.).
49. Il Costadoni nei suoi Annales Camaldulenses cit., VIII, p. 47 scrive: fuit commendata Jacobo Doffo Florentino
qui canonicus postea factus, anno 1564, eam cessit.
50. «A messer Giovanni Doffi a dì 28 dicembre detto lire 385 portò detto di contanti sono per la pensione di Natale
della Badia a Elmi polizza in filza» (ASFI, Corporazioni, 86, 4, c. 118v) e ancora: «a Messer Giovani Doffi a dì 2 luiglio [1568] lire 385 tanti portò lui di contanti per la pensione di mesi 6 finiti per San Giovanni passato» (ivi, c. 138r).
51. Si tratta del penultimo testamento stilato dal Doffi (ASFI, Notarile Moderno, Francesco Albizzi n. 4577-4589,
11 marzo 1597), uguale per contenuti a quello del 1598 tranne che per la presenza tra gli eredi di una sua nipote,
suor Giulia, deceduta poco tempo dopo il rogito e che indusse Giovanni a dettare nuovamente le sue volontà. Giovanni
morì il 6 febbraio 1604, ultimo membro della sua famiglia, e fu sepolto secondo le sue volontà nel sepolcro dei canonici del duomo di Firenze. Nell’ultimo testamento (ivi, n. 4577-4589, 25 gennaio 1598) lasciò alle nipoti professe in
conventi di varie ubbidienze (Monticelli, Santa Verdiana, San Giuseppe, San Girolamo delle Poverine) legati in denaro, la parte di casa che ancora possedeva nel popolo di San Martino a Montughi e i suoi arredi sacri (un inventario
delle cose sacre lasciate alla sua morte si trova in ASFI, San Pietro a Monticelli, 206, cc. non num).
52. Cfr. Annales Camaldulenses cit. IX, Venetiis 1773, coll. 117-118; L. Consortini, La Badia dei SS. Giusto e
Clemente presso Volterra. Notizie storiche e guida del Tempio e del Cenobio, Lucca 1915, p. 64.
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Paolo III a favore dell’unione con il chiostro degli Angeli 53, o ancora di Santa Maria di
Agnano tornata direttamente nelle mani dei monaci fiorentini 54.
La riorganizzazione di tutti i possedimenti camaldolesi della media Valdelsa trovò in
questo novero di anni, tra le maglie della giurisdizione dell’ordinario volterrano, di quella pontificia e di quella dell’Ordine stesso, nuovi momenti di espressione. Le decisioni del
sacerdote Domenico del fu maestro Andrea Tegolacci furono importanti in tal senso. Il
prelato, infatti, che dal 1532 cumulava la titolarità, nella zona di Elmi, della vicina prioria di Mucchio e di quella della pieve di Cellole 55, decise nel 1557 di resignare proprio il
beneficio di Mucchio nelle mani del priore generale camaldolese Antonio da Pisa, che a
sua volta, con atto rogato da ser Francesco Albizi il 23 aprile di quell’anno, lo unì al monastero degli Angeli di Firenze 56. Quest’ultimo ne prese possesso appena tre giorni dopo con
atto rogato da ser Piero della Rena da Certaldo 57. A dieci anni di distanza, inoltre,
Domenico lasciava anche la pieve di Cellole, che il 24 aprile 1565 Pio V unì al monastero di San Pietro in Cerreto, avendo questi religiosi avanzato petizione in tal senso 58; e nel
1566 donò direttamente i suoi possedimenti privati di Collemuccioli al monastero fiorentino devotionis et charitatis motu et amore Dei 59.
Le dipendenze degli Angeli nella zona risultarono, quindi, d’un tratto rinvigorite grazie al priorato di Mucchio, già aggiudicato nell’anno 1500 alla mensa vescovile di
Volterra 60, quindi recuperato nel 1515 61 ed infine annesso agli Angeli nel 1557, a quello di Cerreto già unito all’istituto fiorentino 62 ed ora arricchito della dipendenza della
53. ASFI, Corporazioni, 86, 178, affare 50. Prima allogato a livello maschile a Maso di Luca degli Albizzi, quindi a monsignor Gaspare del Monte camaldolese vescovo di Civitate, cugino di papa Giulio III, originario di Monte
San Savino (cfr. per una precisa disamina G. Marini, Degli archiatri pontifici, I, Roma 1734, pp. 260 e 287). Il vescovo civitatense resignò nel 1543 (due anni prima della sua morte) nelle mani di Paolo III a favore dell’unione con il
monastero di Santa Maria degli Angeli, con obbligo di fondare a Monte San Savino un monastero nella chiesa di
Santa Maria di Vertighe (cfr. anche A. Fortunio, Cronichetta del Monte San Savino in Toscana, Firenze 1583, p. 11).
54. Lettera del 20 febbraio 1562 di Lelio Torelli contenente l’ordine di prendere possesso del monastero (ASFI,
Corporazioni, 86, 198, affare 80).
55. Ivi, 86, 69, affare 108.
56. Ivi, 86, 70, affare 21. Cfr. anche L. Chellini, Le iscrizioni del territorio sangimignanese, V. Contado,
«Miscellanea Storica della Valdelsa», 41, 1933, 1-2, pp. 31-48: 38.
57. ASFI, Corporazioni, 86, 70, affare 25. Vi è conservata la nota dell’auditore Lelio Torelli, sul retro della quale
compare la memoria della presa di possesso, cui seguono gli affari concernenti il passaggio delle allogagioni e quello
del bestiame. Piero di Baldassarre di Verdiano della Rena da Certaldo era della stirpe che dette origine alla beata
Giulia da Certaldo; stirpe che «oggidì è molto nobile in Firenze» (cfr. L. Torelli, Secoli Agostiniani, VI, Bologna 1680,
p. 131). Egli era cugino del mercante fiorentino in Pisa Francesco di Michele di Verdiano e si occupò dell’amministrazione pupillare delle sue figlie (cfr. ASI, Eredità diverse – Estranei, Verdiani).
58. Cfr. Annales Camaldelenses, IX cit., coll. 124-128. Appena 14 anni più tardi, l’ 8 aprile 1579 Gregorio XIII
sopprimerà la pieve e la unirà al monastero di San Giusto di Volterra (cfr. ivi, coll. 178-181). Il Pecori, nella sua Storia
di San Gimignano, tracciando sommariamente alcune vicende moderne della pieve scrive che essa fu unita a quella
di Elmi, ma si tratta di una semplificazione indicante, in realtà, i Camaldolesi fiorentini (cfr. L. Pecori, Storia della
terra di San Gimignano, Firenze 1853, rist. anast. Roma 1975, rist. a cura di V. Bartoloni, Città di San Gimignano
2006, pp. 406-408, in partic. 408). Per altre notizie al riguardo cfr. ASFI, Corporazioni, 86, 183, affare 2 e 19. Circa
la presa di possesso da parte dell’abate di Cerreto Paolo Miniati, con atto rogato dal notaio Michelangelo del fu ser
Paolo di ser Pietro Tramontani di San Gimignano, cfr. ivi, 86, 70, affare 48). Per una memoria giudiziaria della controversia che ne seguì cfr. ivi, 86, 198, affare 81.
59. ASFI, Corporazioni, 86, 74, c. 55v. Sulle proprietà di Collemuccioli cfr. ivi, 86, 69, affari 110 e 112.
60. Annales Camaldulenses cit., VII, Venetiis 1762, p. 373.
61. Per la nascita della congregazione Camaldolese dell’Eremo di Camaldoli in unione coi padri di San Michele
di Murano cfr. Annales Camaldulenses cit., VII, p. 420.
62. Papa Callisto aveva disposto che sarebbe tornato al monastero degli Angeli alla fine della locazione in commenda a Ugolino di Pietro di Onofrio dell’Antella priore S. Georgii de Suarca (cfr. Annales Camaldulenses cit., VIII,
coll. 122-124).
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Badia Elmi
pieve di Cellole, e all’appena recuperata Badia Elmi. Il monastero fiorentino si trovò,
pertanto, a dover gestire una vasta area di possesso che improvvisamente veniva a coagularsi proprio intorno all’unione più recente di Badia Elmi. Preso il pieno possesso della
badia nel 1563, l’istituto fiorentino non si preoccupò di riattivare una vita comune regolare all’interno della casa, ma si limitò a ricomprare dal Doffi, tra il 1564 e il 1565, il
bestiame che insisteva sui poderi dell’antico cenobio 63, riuscendo ad ottenere un bilancio in utile di appena 48 scudi soltanto nel 1567 64. Del resto il chiostro fiorentino da cui
Elmi dipendeva fronteggiava una propria crisi vocazionale con appena trenta monaci
residenti nel decennio 1552-1562 65. La casa degli Angeli, inoltre, aveva la necessità di
utilizzare i pochi ordinati disponibili negli istituti, come presso la badia a Cerreto 66, che
avevano cura d’anime, e al tempo stesso era gravata da un’enorme crisi finanziaria causata, come scrissero gli stessi Camaldolesi, da tasse quali «lo studio di Pisa 67, la decima
apostolica e pensioni», nonché, dal 1571, l’imposizione pontificia per la spedizione contro i turchi 68.
All’interno di questo quadro economico e religioso si colloca la visita apostolica di monsignor Giovan Battista Castelli vescovo di Rimini, che per ordine di Gregorio XIII fu incaricato di verificare l’applicazione dei dettami del concilio nel territorio della diocesi volterrana 69. La relazione della visita è un importante strumento per conoscere le impressioni del presule sulla diocesi e, per quel che attiene al presente studio, sull’istituto di Elmi.
Le scarne ma precise parole tradiscono una realtà difforme dal modello tridentino di vita
consacrata ristretto alla comunità di appartenenza, in cui l’attività esterna del religioso
era quasi esclusa e la quotidianità comunitaria indicata come modello per il raggiungimento della perfezione individuale 70. L’organizzazione cenobitica che il presule romagnolo
rinvenne ad Elmi era composta, infatti, dal solo monaco sacerdote Jacobus de
Pratoveteri 71, che celebrava messa singulis diebus dominicis et festivis et praeterea bis in
63. «26 febbraio 1564 io Giovanni Doffi canonico fiorentino ho ricevuto questo dì detto sopra dal monasterio
delli Agnoli di Firenze et per detti da don Innocentio camarlingo settanta di moneta cioè lire sette per e quali mi pagono per parte di cento trentasei simili per conto di bestiami havuti da me in Valdelsa alla Badia a Elmi presso Certaldo
e per fede del vero o fatto questi versi di mia mano proprio dì et anno sopradetto in Firenze. E più ho ricevuto addì
30 di aprile 1565 sessantasei per resto di sopradetto bestiame in Firenze» (ASFI, Corporazioni, 86, 181, affare 5).
64. ASFI, Corporazioni, 86, 4, c. 46v. Nello stesso anno Badia a Cerreto versò nelle casse del monastero più del
doppio di Elmi.
65. D’Addario, Aspetti della controriforma cit., p. 393.
66. Abbatia […] quae parrochialis est (cfr. ASDV, Visita Castelli, c. 203v).
67. Numerosissime risultano le annotazioni in tal senso nei registi di cassa, ad esempio: «allo studio di Pisa a dì
6 [luglio] 286.1.0 portò il camerlengo di Santa Maria Nuova per lo Studio della pieve di Cellole e sua annessi, per
Mucchio, Elmi, Orticaia, Spedale di San Martino et Fridiano et San Viriano e Monte Muro et San Benedetto» (ASFI,
Corporazioni, 86, 4, c. 127r).
68. A causa dell’imposizione di 400.000 scudi calcolata sui beni di 12 congregazioni monastiche per la spedizione contro i turchi promossa da Pio V nel 1570 la congregazione camaldolese dovette pagare 18.336 scudi alla camera apostolica. 4.050 d’oro gravarono sui monasteri della provincia toscana e il monastero degli Angeli in particolare
dovette versarne 600. Altri 200 uscirono dalla cassa per pensioni varie (cfr. ASFI, Corporazioni, 86, 73, cc. non num.,
ad annum 1571).
69. G. Fragnito, Castelli Giovan Battista in Dizionario Biografico degli Italiani, 21, Roma, 1978, pp. 722-726: 724.
70. Cfr. Fantappiè, Il monachesimo cit., p. 37. La Santa Sede iniziò, inoltre, a far valere il principio del numerus
minimus (il numero minimo di monaci per rispettare la conventualità) e quello del numerus clausus cioè adeguato
alle rendite effettive dei religiosi. Tali principi furono ancor più rigidamente applicati dal 1605, quando Paolo V fissò
la quota potenziale dei religiosi per ogni comunità mediante la cosiddetta forma Pauli (cfr. ivi, p. 32).
71. Non si trattava, come scriveva l’Isolani, di «Giacomo da Prato» (cfr. Isolani, Storia politica e religiosa cit., p.
167). A Cerreto, d’altra parte, vi erano tre soli monaci, mentre nella vicina chiesa di Mucchio non dimorava nessuno.
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hebdomada. La chiesa doveva presentarsi in condizioni assai precarie. L’altare maggiore
era sormontato da un’icona della quale il Castelli chiese il restauro entro quattro mesi;
ma ancor più modesta dovette risultare la condizione generale dell’edificio, dato che il
presule annotava: ecclesia in ea parte quae incrustatione et in ea parte quae dealbatione
indiget, incrostetur et dealbetur 72. Simili annotazioni, certo non distanti dai decreti che
riguardano anche le altre chiese camaldolesi del territorio, aprivano de jure e de facto l’avvio di lavori e riforme spesso dispendiosi per le esigue casse degli istituti, mostrando un’intransigenza del presule riminese che provocò nella zona numerosi malumori 73.
Risulta chiaro, quindi, che tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo la piccola Badia
Elmi non fosse più un centro di vita religiosa, sebbene ancora nel 1604 vi si continuasse
a celebrare messa nei giorni festivi 74. Mantenendo il titolo di abbatia simplex, essa si configurava, de facto, come un vero e proprio centro agricolo necessario al monastero degli
Angeli anche per far fronte alla notevole crescita della fiscalità imposta dalla camera apostolica sulle congregazioni religiose a seguito della nuova spinta dell’assolutismo pontificio che caratterizzò tutto il XVII secolo 75. La camera richiese, infatti, al fine di ripartire le
imposizioni, continui rendiconti sulla conduzione economica delle singole case; e proprio
da un rapporto stilato dai monaci degli Angeli nel 1607, a soli due anni dall’elezione del
senese Camillo Borghese a Papa Pio V e riguardante l’ultimo decennio di amministrazione, siamo a conoscenza di come la rendita di Badia Elmi nel 1596 fosse stata calcolata per
la somma di 552,0 scudi, l’anno successivo di 3.471,7,0, quindi nel 1598 di 2.100, nel
1599 di 1.330, e ancora per i successivi di 3.711, 1.659, 1.960, 2.649, 2.841 e 1.911 76. I
bilanci dell’azienda agricola non furono, quindi, mai costanti, influenzati dalle contingenze ambientali ed evenemenziali. La varietà delle semenze e del raccolto risultano le più
cospicue voci del bilancio annuale di ogni podere, ma componente essenziale rimase per
molto tempo anche il bosco con tutti i suoi prodotti, prerogativa economica generale di
tutto l’Ordine camaldolese, su cui gli stessi granduchi toscani nutrivano numerosi interessi, tanto che nel 1628 la funzione sociale ed economica legata al patrimonio forestale
fu posta, dal consigliere di Stato Niccolò Dell’Antella, alla base del diniego all’unione della
congregazione camaldolese con quella di Monte Corona 77. Proprio durante gli anni in cui
una forte crisi aveva investito il settore del legname 78, siamo a conoscenza del fatto che il
72. ASDV, Visita Castelli, c. 203r.
73. Il granduca Francesco I nel maggio 1576 chiese al papa di «liberarci da questo terremoto, avendo stracco gli
orecchi de’ lamenti e querele de’ preti e delle monache, dei laici e delle università che gridano al cielo per i modi di
costoro», rimproverando al Castelli di «seminare triboli e far danno al pubblico e al privato» (cfr. D’Addario, Aspetti
della Controriforma cit., pp. 165-167).
74. ASFI, Corporazioni, 86, 180, affare 22. Durante una controversia sorta nel 1604 davanti al vicario di Certaldo,
ascoltati diversi contadini, tutti affermarono di assistere alla messa presso la badia di Elmi. Antonio di Meo di Michele
di anni 67 del popolo di San Filippo detto «ca’ cannonica a Pulicciano» dichiarò, ad esempio, di essere «sempre andato a detta chiesa a messa che non v’è nessuna altra che quella dove stanno tutti padri»; Piero di Domenico di Meo
de’ Bettini del popolo di San Giovanni a Pulicciano disse di «essere andato alla messa di molte volte a detta chiesa
come fa ogn’uno».
75. Fantappiè, Il monachesimo cit., pp. 29, 98-99.
76. ASFI, Corporazioni, 86, 180, affare 72.
77. Fantappiè, Il monachesimo cit., pp. 115-116. Sull’importanza del legname di Camaldoli per l’economia granducale cfr. F. Salvestrini, Disciplina caritatis. Il monachesimo vallombrosano tra medioevo e prima età moderna,
Roma 2008, pp. 129-148.
78. C.M. Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, Bologna 1980, ed. or. ingl. 1974, pp. 249-250.
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Badia Elmi
granduca Ferdinando II comprò per mezzo di Carlo Capponi suo ministro delle possessioni tutte le cataste di legna che si potevano fare (ivi compreso «polloni e legname infruttifero») nella foresta di San Mariano, mentre era fattore di Badia Elmi don Giusto Bardini
da Volterra, «a giuli quattro la catasta […] per servitio dell’edifitio di Vetrioli» 79. Il ministro Capponi reperiva, così, secondo la consueta politica granducale, nel vicino territorio
e da fornitori ben conosciuti come i monaci camaldolesi, le risorse necessarie alla costruzione delle miniere per l’estrazione del vetriolo nel volterrano 80. Per questi lavori furono
inviati da Badia Elmi, che nel frattempo era passata sotto il governo dell’agente don Flavio
da Pescia, in tutto 540 cataste di legna per un totale di introito straordinario pari a
1.493,6,8 scudi 81. Del resto l’importanza del bosco di San Mariano e della zona silvestre
di Mucchio è attestata anche in un documento del 1655: «si pensa che i monaci introducessero la cura, fabbricate le dette case dove la coltivazione erano i boschi» 82; e appare
già in un documento del gennaio 1594, quando la legna prodotta nelle terre dei poderi
«in loco detto la Casa al piviere et altro detto in loco Sammariano» allivellati a Matteo
di Francesco Niccolini, essendo stato condannato lo stesso Niccolini per una somma di
oltre 800 scudi, era stata posta all’incanto dall’auditore Paolo Vinta con atto pubblico 83
e comprata dagli stessi monaci fiorentini per 220 scudi 84.
3. Immagini di una grangia. Mobili, immobili e terre negli inventari della prima metà del
XVII secolo
Le decadi che compongono la prima metà del secolo XVII segnarono grandi turbolenze
all’interno della congregazione camaldolese, lacerata da una costante tensione tra spinte
federative e secessioniste favorite ora dal papato, ora dal governo granducale toscano 85.
Esse non volsero a miglior sorte anche per il governo della badia degli Angeli di Firenze,
minacciata più volte della soppressione del suo noviziato 86 e quindi in causa per la distribuzione degli oneri fiscali relativi ai monasteri della provincia veneta 87. In questo contesto, nel 1640, a sei anni dalla creazione della congregazione unica camaldolese e a dieci
dalla terribile epidemia di peste che investì l’Italia centro-settentrionale 88, la situazione del
cenobio fiorentino era molto peggiorata. Il monastero, uno dei nove camaldolesi in
79. ASFI, Corporazioni, 86, 180, affare 76.
80. Numerose sono state le miniere di vetriolo in Toscana. Per un panorama sull’estrazione di questo materiale
nel Volterrano d’età moderna (zona di probabile destinazione delle cataste di legna) cfr. G. Batistini, I Vetrioli nelle
zone del Volterrano, «Rassegna Volterrana», 63-64, 1987-88, pp. 3-20. Per una possibile valorizzazione di queste
risorse ad opera di Giovanni Targioni Tozzetti cfr. Id., Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana
per osservare le Produzioni Naturali, e gli Antichi Monumenti di essa. Edizione seconda con copiose giunte, II, Firenze
1751, pp. 451-453.
81. ASFI, Corporazioni, 86, 180, affare 76.
82. Ivi, affare 119.
83. Vendere ligna existentia super eis que ad presens sunt matura et cedua et ut vulgo dicit ‘da taglio’ (ASFI,
Corporazioni, 86, 192, affare 32).
84. Ivi, 86, 180, affare 3. In realtà i monaci fiorentini comprarono la legna a patto che il Niccolini decadesse come
livellario alla fine di marzo 1595-1596 (ivi, 86, 192, affare 32).
85. Fantappiè, Il monachesimo cit., pp. 116-124.
86. Ivi, p. 125.
87. La situazione peggiorò alquanto dal 1642, dopo l’introduzione di misure da parte della Repubblica di Venezia
a protezione dei propri monasteri col divieto di versare contributi alla procureria (cfr. ivi, pp. 100-101, 125).
88. F. Rondinelli, Relazione del contagio stato in Firenze l’anno 1630 e 1633, Firenze 1634.
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Badia Elmi: vita e patrimonio di una fattoria camaldolese dal XVI al XIX secolo
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Toscana (¼ dei cenobi totali, che erano 36) 89, ospitava 12 sacerdoti, appena 9 giovani nel
noviziato, e 8 conversi, oltre a qualche altro lavorante per l’orto e il trasporto delle grasce. I monaci si lamentavano perché «non si possono più vestire quanti novizi si vuole»,
una restrizione che aveva fatto diminuire il numero dei professi, e perché dopo aver formato l’estimo di tutta la congregazione camaldolese tra il 1637 e il 1639 90 assegnando ad
ogni monastero una rata per sostenere il peso dei frutti che maturavano sui censi, i monasteri toscani non volevano pagare i debiti delle altre province, ma soltanto i debiti pubblici della familia 91. Badia Elmi risultava una fra le 18 chiese e una fra le 13 fattorie unite
al monastero, ma confrontata con le altre manteneva il ruolo della più grande delle fattorie che alimentavano il complesso fiorentino 92. Elmi, presso la quale risiedeva di diritto un monaco sacerdote inviato dalla congregazione, risultava amministrare ben 12 poderi (rispetto alla media di tre propria alle altre aziende rurali) 93, dei quali è possibile stilare un articolato elenco toponomastico. Si trattava cioè dei cosiddetti: Podere di sotto,
Podere di sopra, il Piano d’Elsa, il Piano di Mucchio, Mucchio, Badiola, San Mariano,
Casa al priore, Bosco, Buca, Uliveto e la Fonte 94.
A tre secoli di distanza dalla redazione del primo inventario patrimoniale della Badia
Elmi conosciuto possiamo constatare come fossero entrate nell’orbita amministrativa dell’istituto quasi tutte le terre camaldolesi del comprensorio medio-valdelsano le quali, a vario
titolo, erano divenute proprietà del monastero fiorentino degli Angeli. Se compariamo,
infatti, questo elenco con un altro di dieci anni più tardo, comprendiamo come al nucleo
di possesso originario di Elmi e del suo romitorio di San Mariano (Poderi di Sopra 130
staiola 95, di Sotto 100 staiola 96, Mariano e Casa al Priore) 97 si fossero aggiunti i possedi89. Fantappiè, Il monachesimo cit., p. 142. In tutto il territorio granducale si avevano 10 congregazioni benedettine maschili con 59 monasteri principali.
90. ASFI, Corporazioni, 86, 191, affare 27.
91. Ivi, 86, 187.
92. I dati si ricavano da ASFI, Corporazioni, 86, 92, affare 149. Le altre quattro fattorie maggiori con residenza
di un sacerdote o un converso erano: Fiesole, Badia del Sasso, Borselli e Pisa.
93. La fattoria di San Benedetto nel piano di Firenze aveva tre poderi, la fattoria in Val di Greve sette poderi, la
fattoria di Pisa quattro, quella di Monte San Savino due poderi, la fattoria di Ronta tre poderi, la fattoria di Santa
Margherita a Borselli nove poderi, la fattoria di Fiesole due poderi, la fattoria di Badia del Sasso un podere, la fattoria di Orticaia due poderi, quella di Dudda un podere, la fattoria di San Ciriano due poderi, la fattoria Monte Murlo
un podere (ivi, 86, 92, affare 149).
94. Ibidem.
95. «Con casa et abitazione per lavoratore posto nel sopra detto popolo di staiola cento trenta lavorativa, vignata, sodata et boscata […] semina ogni anno moggia dua di grano. Biade diverse staia diece. Rende in nostra parte
moggia cinque di grano cavato il seme. Et biade di più sorte in nostra parte quaranta. Vino in nostra parte barili venti.
Pascolo et ghiande scudi otto in nostra parte. Questo anno 1650 ghiandi nulla» (ivi, 86, 188, affare 61).
96. «Con casa et abitatione per lavoratore di staiola cento trenta in circa fra lavorativa, vignata, boscata et sodata […] quale semina ogn’anno moggia dua di grano. Biade di più sorte staia diece. Rende in nostra parte ogn’anno
moggia cinque di grano cavatone il seme. Biade di più sorte in nostra parte staia quaranta. Vino in nostra parte barili quaranta. G<hi>ande et pascoli in nostra parte scudi diece. Hoggi 1650 ghiande nulla» (ibidem).
97. Al tempo allivellati a Bernardo Niccolini per 11 scudi (ibidem). Per contratto rogato ser Piero Orlandi il dì 8
maggio 1487 l’abate di Santa Maria a Elmi concesse a livello a Bernardino di Otto Niccolini e ai di lui eredi alcuni
effetti con case poste nel comune di Gambassi, luogo detto San Mariano, per l’annuo canone di fiorini 21 d’oro. Dopo
la morte di Bernardino i beni passarono a Matteo (1534) e da questo ad Alessandro e Francesco suoi figli, quindi nel
1559 per metà a Bernardino, Giovanni e Alessandro fratelli e figli di Alessandro, mentre per l’altra metà rimasero a
Francesco di Matteo. Dopo altri passaggi tutti gli effetti vennero in mano di Francesco di Matteo Niccolini, e Matteo
di Francesco di Matteo il 21 marzo 1596 li retrocedette ai monaci di Santa Maria degli Angeli (ASFI, Corporazioni,
86, 192, affare 32 e ivi, 86, 87, c. 131r).
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Badia Elmi
menti della chiesa di Mucchio (Mucchio 70 staiola 98 e Piano di Mucchio) 99 e anche i principali poderi della badia di Cerreto (Uliveto 72 staiola 100, alla Fonte 90 staiola 101, la Buca
60 staiola 102, il Piano d’Elsa 37 staiola 103). Il patrimonio doveva essere composto anche da
una piccola rendita immobiliare, come attesta l’atto del 14 febbraio 1611 con il quale veniva riassegnata a Badia Elmi e al suo governatore Nicolai de Pacis una casa di 9 stanze con
orto e cisterna nel castello di San Gimignano, nella via vulgo dicta al Sasso in contrada di
Piazza, sotto la giurisdizione della chiesa di San Domenico, che era stata data in enfiteusi
al sacerdote sangimignanese don Tommaso per sé e sua madre 104 e che già era appartenuta al patrimonio del priorato di Mucchio 105. Proprio attraverso il controllo di quest’ultima
chiesa Elmi aveva, inoltre, il giuspatronato sulla cappella di San Paolo posta nella chiesa
di San Jacopo in Certaldo, a cui la proprietà immobiliare di tale castello era connessa 106.
98. Il podere era costituito da tre appezzamenti di terreno «con casa del padrone et lavoratore di staiora settanta
lavorativa vignata, sodata, et boscata […] Item un pezzo di terra posta in detta villa, detto in Faeta di staiola trenta
in circa lavorativa et boscata […] Item un altro pezzo di terra con casa posta nella villa di San Michele a Marcinatico
detto il Poggio alla Badia di staiola cinquanta in circa lavorativa sodata et boscata […] Quali beni sopra detti semina ogni anno staia trentacinque in tutto di grano et staia dodici di più sorte di biade. Rende in nostra parte staia sessanta cavato il seme di questo. Biade di più sorte staia venti cinque in nostra parte. Vino in nostra parte barili diece.
Olio barili uno in nostra parte. Pascoli et g<h>iande scudi sei in nostra parte» (ivi, 86, 188, affare 61).
99. L’attribuzione di questo podere è incerta. Dovrebbero essere sei appezzamenti di terra così composti: «Item
un podere detto il poderino della Scala nella Villa d’Elmi et podesteria di Gambassi di staiola quaranta in circa lavorativa, vignata sodata et boscata con casa per lavoratore […] Item un altro pezzo di terra lavorativa detto alla Lama
podesteria et popolo di Certaldo di staiora nove in circa […] Item un altro pezzo di terra lavorativa di staiola quattro in circa posto nel popolo di Certaldo […] Item un altro pezzo di terra lavorativa posta nel popolo di Pulicciano
staiola tre in circa […] Seminano detti beni in tutto staiola diciotto di grano et biade di più sorte staia otto. Rende
ogn’anno di nostra parte cavato il seme staia trenta di grano. Vino in nostra parte barili dodici. Pascoli et g<h>iande
in nostra parte scudi sei» (ivi, 86, 188, affare 61).
100. «Con casa et habitatione per lavoratore con terre lavorate boscate, vignate, olivate et sodate di staiola settanta dua in circa […] il quale podere semina ogni anno staia 24 di grano et staia 10 di più sorte di biade, rende in
nostra parte ritratto il seme moggia uno et mezzo di grano. Biade di più sorte staia trenta. Vino di nostra parte barili dieci. Olio barili cinque. Di g<h>iande et pascoli scudi nove» (ivi, 86, 188, affare 61).
101. «Lavorative, vignate, ulivate, boscaglia di staiola novanta in circa quali serviva ogni anno staia trenta di
grano, in tutto rende di nostra parte ritratto di seme moggia dua e mezzo di grano. Et più biade di più sorte cioè segola, vecciato, vena, spelda in tutto staia quaranta. Item vino barili dieciotto. Olio barili sei in nostra parte. Et più di
g<h>ianda et pasture in nostra parte scudi 8» (ivi, 86, 188, affare 61).
102. «Con casa et terreni lavorativi vignati, olivati, boscati di staiola sessanta in circa […] quale semina ogni anno
staia venti di grano, biade di più sorte staia sei, rende ogn’anno in nostra parte moggia uno con staia 10 di grano.
Biade di più sorte in nostra parte staia 20. Vino in nostra parte barili sei. Olio in nostra parte barili uno. Di g<h>iande
e pascoli scudi 6 ogn’anno» (ivi, 86, 188, affare 61).
103. Era composto da «un podere detto il Piano posto nel popolo di Sant’Andrea alla Colonica et podesteria di
Certaldo con casa et abitatione per lavoratore di staia trenta due in circa lavorative et vignato et sodato […] Item un
altro pezzo di terra in detto popolo detto il Farro di staiola cinque in circa […] semina ogn’anno staia dieciotto di
grano, biade sei, rende ogn’anno in nostra parte cavato il seme moggia dua di grano. Vino barili sedici in nostra parte.
Biade di più sorte in nostra parte staia 22» (ivi, 86, 188, affare 61).
104. Ivi, 86, 181, affare 23.
105. La stessa casa era stata concessa in enfiteusi perpetua nel 1553 dal priore di Mucchio Domenico Tegolacci
a Gimignano Maffei per 8 libre all’anno e una libra di cera bianca di falcole (ivi, 86, 74, cc. 101v-102v). Nel 1556
era stato stipulato un nuovo contratto con Simone di Francesco di Pietro de’ Berti di Firenze (ivi, 86, 178, affare 57,
e per i pagamenti ivi, 86, 4, c.1r). Nel 1602 il fattore di Elmi Placido Fabroni aveva cercato di recuperare il bene. Del
tentativo si conserva ancora una breve lettera inviata da un parente del Berti: «Molto reverendo[…] Noi siamo a gravezze nel quartiere di S. Maria Novella Gonfalone Vipera, non ho mai saputo che alcuno della mia famiglia habbia
havuto beni da Elsa in costà. Nell’heredità di questo testatore è oggi Monna Margherita donna fu di Filippo di Albizzo
da Fontana et figlia di Simone di Michele Berti, non so se lei paghi le gravezze sotto al medesimo quartiere et gonfalone, per che si trova che di una medesima famiglia e’ le pagono per un quartiere et alcuni per un altro. Dio li conceda pace et salute. Da Sirino in Valdelsa, 22 di febbraio 1602» (ivi, 86, 180, affare 21).
106. Ivi, 86, 183, affare 44. Nell’affare si fa riferimento anche alla causa con sentenza a favore del monastero
camaldolese per il recupero della casa e dell’orto di Certaldo giudicata da monsignor Filippo Galilei già uditore della
nunziatura di Toscana e quindi vescovo di Cortona (cfr. Salvini, Catalogo cronologico cit., p. 126). Nel 1790, sotto
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La badia di Elmi continuava ad essere gestita da un monaco il cui compito era quello «di
mantenere i luoghi, chiesa e fabriche, e quel che avanza lo rimett[e] in Firenze in mano al
camarlingo del monastero» 107; mentre i versamenti di viveri alla casa fiorentina avvenivano attraverso un sistema centralizzato dato in appalto in quel tempo a Lorenzo e Santi
d’Antonio Somigli per «vettureggiare e potarci in monasterio tutte le nostre grascie di vino,
grano, olio, biade, legne grosse, farine, bracie, frutta et altro che ci sarà bisogna condurre
da tutte le nostre fattorie per servizio e consumo del nostro monasterio» 108.
L’immagine della badia alla metà del XVII secolo ci viene fornita da un documento unico;
unico per la completezza con la quale fu redatto ed unico perché il solo ad essere rinvenuto per tutta l’età moderna. Si tratta dell’«inventario de’ mobili della badia nostra d’Elmi a
Certaldo consegnato da me don Pietro Petri camarlingo del monastero degli Angioli di
Fiorenza al priore don Marsilio Pacini governatore di detta badia» 109. L’itinerario descritto nell’inventario prende avvio dalla sacrestia della chiesa, per poi descrivere l’edificio religioso, quindi le camere e gli ambienti contigui riservati al governatore, e si conclude con la
cucina, le corti e gli ambienti annessi. Un’attenta analisi del documento permette di rilevare non soltanto l’esatta configurazione spaziale della badia, ma anche la sua peculiare caratteristica di fattoria, alla cui testa, nel ruolo di fattore, era un professo. L’ormai vecchia chiesa abbaziale si presentava agli occhi del camarlingo con un presbiterio sufficientemente
vasto, all’interno del quale per toni e proporzioni doveva stagliarsi il paliotto di cuoio dipinto alla base dell’altare sul quale poggiavano i «gradini d’albero», anch’essi dipinti, e la pala,
sicuramente Tre-Quattrocentesca, descritta come «antica tripartita in lunette titolo d’Ogni
Santi, con uno adornamento d’albero dipinti con predella» 110. L’altare era corredato di otto
candelieri in legno dipinto, di cuscini in cuoio per i libri sacri e di una pace, anch’essa «di
legno antica». Il complesso della chiesa doveva quindi apparire molto risalente, dato che
sopra la porta d’ingresso si trovava una tavola, anch’essa antica, e alle pareti erano descritti «quadri antichi di vari santi» in numero di quattordici; e tra questi il camarlingo fiorentino si premurava di segnalare il beato Michele camaldolese, inventore della Corona del
Nostro Signore Gesù Cristo, altrimenti detta Corona del Signore, tipica devozione controriformista che i Camaldolesi avevano propagandato anche in quelle zone 111.
Per altro verso trovavano spazio in chiesa un «Christo d’alabastro» – materiale d’elezione per l’area di Volterra, che testimonia lo stretto rapporto della comunità oltre che
il governo dell’agente Giusto Moretti, la casa risultava in affitto a Filippo Conti (ASFI, Corporazioni, 86, 188, affare 61, carta sciolta). Presso l’altare di San Paolo nel 1658 fu sepolto il pittore Francesco Bianchi Buonavita (cfr. F.
Sricchia Santoro, Bianchi Buonavita Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, X, Roma 1968, p. 178).
107. ASFI, Corporazioni, 86, 183, affare 44.
108. Ivi, 86, 191, affare 88.
109. Ivi, 86, 187, affare 25. Cfr. Appendice 1 al presente lavoro.
110. Non possiamo inferire circa l’identificazione di questo quadro con la famosa tavola di Lorenzo Monaco ora
alla National Gallery di Londra e proveniente da Badia Elmi, che si è voluto, in ossequio ad una vaga osservazione
del Follini-Rastrelli a Firenze fino al 1792 (V. Follini, M. Rastrelli, Firenze antica e moderna illustrata, Firenze 1792,
p. 83-84). Per approfondimenti cfr. nel presente volume S. Spannocchi, Sul patrimonio artistico di un’antica badia
camaldoldese.
111. Michele Pini, eremita camaldolese, riscosse fin da subito una grande attenzione, sia all’interno che all’esterno dell’Ordine. L’approvazione e le indulgenze concesse da Leone X alla sua Corona ne ampliarono la fama fino a
tutto il Seicento (cfr. S. Razzi, Vita e regola del Padre Santissimo Benedetto tradotte e di alcune notazioni illustrate,
Fiorenza 1593, pp. 65-66; F. Marchese, Pane quotidiano dell’anima, cioè esercitii divoti per ciascun giorno ad onore
del Venerabilissimo Sacramento dell’Altare, II, Venezia 1682, p. 332; Corona del Signore, suo significato, origine e
indulgenze, Roma 1831; G. Moroni, Dizionario di erudizione storico ecclesiastica, XVII, Venezia 1842, p. 200).
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Badia Elmi
con la casa fiorentina anche con la zona di insediamento – e tre inginocchiatoi, insieme a
dieci panchette per le donne. Attraverso due porte ai lati dell’altare maggiore, adornate
con portiere di «sargia gialla», si accedeva alla sacrestia, spazio di modeste dimensioni
ricavato appena al di là dell’altare stesso. Gli arredi sacri risultavano tutti radunati in un
«armadio d’albero» addossato al retro dell’altare. Nello scorrere l’elenco degli oggetti non
è possibile rilevare la presenza di peculiarità artistiche, sebbene siano degni di nota il paliotto giallo «antico con fregio di santi ricamati di seta», insieme ad alcuni paramenti vecchi
e a cinque pianete dai consueti colori liturgici, comprese due nere, ad evidenziare la possibilità della celebrazione di riti funebri e, più in generale, di una attività pastorale in cura
d’anime evidenziata, del resto, anche dai vasi per l’olio santo, cresima e catecumeni. I vasi
da fiori «di terra», insieme ad un libro in canto fermo a cui mancava l’inizio e la fine, sottolineavano la povertà dell’ambiente, per il quale si annotava una scarsa oggettistica realizzata in peltro e in ottone. Soltanto il calice, «di forma moderna», è descritto con la
coppa d’argento e la patena di rame indorata.
Contiguo all’edificio religioso si trovava l’appartamento «di sotto attaccato alla chiesa», nel quale era un letto con colonne decorate con «sopracielo e tornaletto». Vicino al
letto, probabilmente destinato alle preghiere del governatore, stava un piccolo altarino di
legno, sopra cui era attaccato «un quadro di carta stampata cornice a torno dove è Christo
crocifisso». Al lato di questa camera ve ne era un’altra del tutto simile, con il letto a baldacchino decorato e un altare, qui di cipresso, con un’immagine di Gesù crocifisso. Vero
centro dell’appartamento inferiore era la sala. Nella stanza si trovavano un tavolo, quattro seggiole «a braccialetti» e molti sgabelli, le brocche di rame stagnate per l’acqua in
tavola e l’infrescatoio. Inoltre, per ricreare un ambiente adatto al raccoglimento monastico, ma a basso costo, si era adornata la parete di un «cenacolo piccolo in stampa»,
senza però che mancasse un ben più grande ritratto di «Cosimo II° Granduca di Toscana»,
il quale era privo però di cornice. Un’ulteriore camera identica alle altre, con il letto a baldacchino in legno di pero, era affiancata all’altra stanza fulcro della fattoria, cioè lo scrittoio. Questo, forse di non grandi dimensioni e ingombro di arnesi, che vennero puntualmente registrati, come «un seghetto da nesti, un succhiello et una sega maggiore», era il
luogo deputato alla conservazione delle carte di amministrazione. Vi si trovava, infatti,
«uno scaffale grande da libri sopra d’un tavolino d’albero con uno scannello grande et
una cassa panca al muro con sue cassette».
Superata la stecca delle stanze situate l’una accanto all’altra, attraverso un camerino nel
quale si trovava un altarino con san Rocco, si accedeva all’appartamento del piano superiore, identico in pianta a quello sottostante. La descrizione dell’appartamento superiore
lascia però comprendere come questo fosse inutilizzato. Le stanze, infatti, risultavano quasi
tutte vuote e nella sala sono registrate appena due sedie senza tavolo o altra mobilia. Segue,
nell’inventario, la descrizione della cucina, che si doveva trovare staccata dagli appartamenti.
Essa era dotata dei rami per il cibo: tre teglie, due paioli, tre padelle e «Piatti e pignatte a
sufficienza». Dalla cucina si accedeva alla «loggia di sotto», organizzata come un chiostro
conventuale: il pozzo al centro, le panche addossate alle pareti e affissi ai muri perimetrali
sette dipinti di «illustrissimi padroni». Una loggia poteva, d’estate, essere anche coperta per
il sole con i tendaggi che in quel settembre 1649 erano stati riposti in uno piccolo stanzino.
La loggia superiore coronava il cortile con qualche pezzo di mobilio lasciato al vento. La
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corte della fattoria si chiudeva con il forno, dove era tutto l’occorrente per fare il pane 112, le
cantine con cinque tini e quindici botti, e il granaio con i sacchi di grano, lo staio, la pala e
un vaglio alla francese, cioè a piano inclinato 113.
4. La soppressione del 1652. Problemi e soluzioni
È questo lo stato patrimoniale e amministrativo con cui Badia Elmi fu censita nella grande inchiesta voluta da papa Innocenzo X per il riordino delle famiglie monastiche. Egli,
dopo aver varato nel 1649, con la costituzione Inter cetera 114, un’inchiesta sugli Ordini
religiosi, tramite la costituzione Instaurandae del 1652 decretò la soppressione dei conventi con un numero inferiore di sei religiosi e il trasferimento dell’amministrazione delle
parrocchie dipendenti nelle mani dei secolari 115. Se l’intervento ebbe scarso significato per
i maggiori monasteri toscani e per i Camaldolesi, che evitarono, anche grazie all’interessamento granducale, la chiusura dell’ospizio di Firenze 116, ben altro fu l’impatto sulle loro
dipendenze. Carlo Fantappiè ha calcolato che con la decretale del 10 dicembre 1652 (nella
quale si comprendevano anche le grange) si cancellarono in Toscana 110 grange, circa il
20% di quelle possedute dai Benedettini nell’intera Italia. Stando a questi dati, tra il 20 e
il 25% delle grange soppresse in Toscana apparteneva ai Camaldolesi (24 in tutto) 117.
Il provvedimento innocenziano fu il primo atto con il quale, anche nella diocesi volterrana, dove si soppressero sette istituti 118, venne riorganizzato e in parte cancellato quel complesso reticolo che dal Medioevo giunse alla Rivoluzione Francese. Se questo è vero per ciò
che riguarda la giurisdizione ecclesiastica, che vide reciso il rapporto monaco-fedele a vantaggio dei secolari e delle diocesi, il caso di Elmi testimonia come non sempre l’azione pontificia valse a smantellare la ramificazione territoriale dei monasteri benedettini. Nella zona
di influenza camaldolese tra Montaione, Gambassi e San Gimignano se, infatti, furono soppresse la badia con cura d’anime di San Pietro a Cerreto, per la quale fu trovato un iniziale accordo con mons. Giovanni Gerini vescovo di Volterra, al quale seguì un acceso contenzioso con il successore Orazio degli Albizzi 119, la chiesa di Mucchio, che non figura nei
112. «Un’arca da farina. Madia da fare il pane. Un’asse. Tavola e tavoletta da spianare. Stacci tre. Teli da coprire il pane numero cinque. Raspa di ferro».
113. Era uno strumento di uso comune per la conservazione del grano (per la descrizione cfr. G. Gherardini,
Supplemento a’ vocabolarj italiani, IV, Milano 1857, p. 230).
114. Copia della costituzione Constitutio circa statum Regularium in Italia et insulis adjacentibus, Romae 1649
e di quella Inter caetera quae ad regularem disciplinam instaurandam consarvandamque sacrosancta Tridentina synodus salubriter decrevit… si trova a stampa in ASFI, Corporazioni, 86, 184, affare 149.
115. E. Boaga, La soppressione innocenziana dei piccoli conventi in Italia, Roma 1971; Id., 1652. La soppressione innocenziana, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, 8, Roma 1978, coll. 1814-1817; Fantappiè, Il monachesimo cit., p. 32.
116. Fantappiè, Il monachesimo cit., pp. 153-157.
117. Dodici unite agli Angeli di Firenze, 5 unite a Santa Maria in Grado di Arezzo, 2 unite alla Rosa di Siena, 2 a
Santa Maria in Bagno, 2 a Santa Maria delle Carceri, 1 a San Michele in Borgo (cfr. Annales Camaldulenses cit., VIII,
pp. 354-356). Secondo Fantappiè 22 appartenenti ai cenobiti camaldolesi, 13 agli eremiti (cfr. Fantappiè, Il monachesimo cit., p. 163).
118. «SS. Nunziata di Guardistallo, S. Lucia di Roscia degli Agostiniani, S. Pietro di Cerreto et Elmi in campagna
della congregazione camaldolese, Grancia de Celestini, Legoli de’ Servi, S. Pietro in Vinea di Vallombrosa» (Copia
della lettera del card. Spada e di mons. Fagnani al vescovo di Volterra del 16 maggio 1653 in ASFI, Corporazioni,
86, 199, affare 55).
119. Il primo sacerdote secolare fu Andrea Laghi. Alla di lui rinunzia seguì l’elezione, nel 1658, del sacerdote della
diocesi aretina Domenico Salvi di Paolo Salvi e l’apertura del contenzioso con la curia volterrana (ivi, 86, 199, affare 54 e ivi, 86, 191, affare 76).
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decreti ufficiali in quanto compresa nei possedimenti di Elmi 120, e quella di Elmi stessa, l’assetto di influenza della congregazione rimase inalterato, grazie anche agli sforzi compiuti
da quest’ultima.
Emblematico appare in tal senso il caso di Mucchio. All’epoca della soppressione non
vi era canonica o casa del curato e la cura era esercitata, su ventisette anime divise in cinque case, da un prete amovibile dall’abate, salariato per 15 o 20 scudi, che abitava a San
Gimignano 121. «Il vescovo ha però posto l’occhio su Mucchio sebbene non è nel numero
delle soppresse», così scrivevano i monaci a proposito delle rimostranze del presule; «essendo andato a Roma in visita ad limina ha esposto il problema come gli è parso e ha ottenuto lettere apostoliche del quale si dice esecutore. Così passati sei mesi ha preteso di attaccare l’editto per la collazione di detto beneficio spedendo le bolle in vicaria ad un tal prete
Antonio Chiarenti di San Gimignano che poi ha fatto fare un sequestro dei beni della chiesa» 122. Era accaduto che dopo la soppressione Mucchio fosse stata eretta in vicaria perpetua. Non avendo i Camaldolesi fiorentini provveduto all’elezione di un titolare, il vescovo nel 1659 nominò come tale il sangimignanese Pier Antonio Chiarenti con rendita di
100 scudi annui 123, il quale doveva riuscire ad ottenere dalla Segnatura Apostolica un
decreto che gli riconoscesse gli arretrati a die vacationis, cioè dal 1652 124. I monaci per
difendere il loro possedimento ricorsero anch’essi alla Sede Apostolica, ottenendo a loro
volta un breve che però non sortì l’effetto sperato. Gli atti ostili proseguirono per quasi
un decennio dall’emanazione dei decreti innocenziani e furono seguiti anche da parte dei
monaci di Volterra 125, finché proprio con il Chiarenti non si trovò un accordo più accomodante sborsando, grazie alla corruzione di un alto funzionario granducale 126, una cifra
molto elevata 127, la quale comprendeva anche il riacquisto di tutti gli animali insistenti sui
suoi terreni 128. La vicenda, spogliata delle mere valenze cronachistiche, dimostra quale
fosse l’importanza per l’istituto fiorentino di mantenere integro il patrimonio di Badia
Elmi, la cui «soppressione» fu molto meno osteggiata e in fondo si risolse con la riunio120. Nec non sub eorum generalitate comprehensa etiam ecclesia parrocchiali loco dicto di Muccio (ivi, 86, 199,
affare 55).
121. In tutta la diocesi di Volterra vi erano 18 chiese presso le quali il prete non era residente (ivi, 86, 180, affare 119).
122. Ivi, 86, 180, affare 119.
123. Ivi, 86, 191, affare 84.
124. Ibidem.
125. «15.10.8 tanti spese don Silvano quando era camarlingo di Volterra per questo monasterio a quel vescovado di Volterra l’anno 1653 in causa delle chiese et cure di Mucchio, di Cerreto e di Elmi» (ivi, 86, 17, c. 135v). La
lista delle spese occorse per la lite di Mucchio si trova ivi, 86, 191, affare 89.
126. «Cortigiano grande di palazzo» per pagare il quale il monastero fiorentino dovette cedere perfino «un quadro qual valeva molto più».
127. Dai registi risultano in tutto 410 lire (cfr. ivi, 86, 16, cc. 86v, 87r, 88v, 90v), dati all’abate Tiburzio Buffa
viceprocuratore generale a Roma (fu abate dell’abbazia di Santa Maria di Urano a Bertinoro, cfr. O. Tarditi, Mottetti
a voce sola con due violini opera XXXXI al reverendissimo padre don Tiburzio Buffa, Bologna 1670; G. Colucci,
Delle Antichità Picene, IX, Fermo 1790, p. CLXXXVIII), e all’avvocato Terenzio Fantoni, famoso giureconsulto e
auditore dello Studio Pisano (cfr. E. Gerini, Memorie storiche d’illustri scrittori e uomini insigni dell’antica e moderna Lunigiana, II, Massa 1829, pp. 163-165).
128. «Spese in regalare un cortigiano grande di palazzo che per far servitio al nostro monasterio s’intromesse per
l’aggiustamento tra noi et il prete Chiarenti priore della nostra chiesa di Mucchio, quale haveva fatto gravare scudi
dugento e spirato il tempo del detto gravamento ci havrebbe dato spesa di tutta lo somma di 800, onde per sfuggir
la molestia, la spesa et il danno […] si ricorse al detto signore quale prese l’ordine dal Signor Cardinale Giancarlo [de’
Medici] et però che detto prete si quietasse […] il regalo fu un quadro qual valeva molto più. E portò il prete abbate
[Ignazio] Controni» (ASFI, Corporazioni, 86, 16, c. 84r, e ivi, 86, 191, affare 89).
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ne ufficiale di tutti i poderi sotto la dipendenza della casa valdelsana, unitamente all’obbligo per il sacerdote che risiedeva a Cerreto di celebrare messa anche ad Elmi 129 e con un
piccolo aumento della congrua per il cappellano di Mucchio, il quale non poteva più usufruire del sacerdote fin a quel momento residente ad Elmi 130.
Le modalità della soppressione sono ben descritte in una lettera che il cardinale
Bernardino Spada e monsignor Prospero Fagnani segretario indirizzarono al vescovo di
Volterra. In essa si specificava: «dovendo i superiori regolari rimuovere […] li religiosi che
vi dimorano et collocandoli ne’ monasteri d’osservanza»; mentre a proposito dell’amministrazione scrivevano: «permettendo solamente […] che i superiori […] quando non habbino persone secolari idonee e fideli […] possino in ciò valersi dell’opera de’ lor conversi».
Altra importante raccomandazione veniva segnalata in materia di cura pastorale: «et con
questo che nelle chiese o cappelle di detti membri e grancie dove già hora è stato solito di
celebrarsi la messa si faccia celebrare anco per l’avvenire […] Parimenti nelle grancie et
membri che in qualunque modo hanno annessa la cura dell’anime […] non vuole la Santità
sua che detta cura si eserciti in modo alcuno da regolari». Infine nella lettera ben si specificava la forma giuridica della soppressione: «non intende però la Santità Sua che dalla
detta estinzione et soppressione nel possesso et proprietà de’ beni et altre ragioni d’essi
minori et grancie sia generato alcun pregiudizio ai lor monasteri ai quali di ragione si devono» 131. In questo caso, infatti, i monaci fiorentini non osteggiarono il provvedimento perché ciò che Badia Elmi perse dal 1652, non fu, come genericamente si scrive 132, la giurisdizione camaldolese su di essa, ma semplicemente la titolarità giuridica di una «autonoma» gestione, con l’impossibilità – canonica – di farvi risiedere un monaco professo.
5. La riorganizzazione della nuova grangia nella seconda metà del XVII secolo
Di fatto anche quest’ultimo precetto venne disatteso. Infatti il sistema di governo della
badia rimase inalterato fin quando, il 1 marzo 1655, don Marsilio Pacini, già governatore di Elmi e confessore delle monache di Boldrone, fu eletto camarlengo del monastero
fiorentino 133. In qualità di governatore venne allora nominato Benedetto Gibboli per un
brevissimo periodo e quindi don Giusto Cavalli 134. Del governo di don Giusto conosciamo un contratto di livello datato 11 dicembre 1661 rogato da ser Francesco Maria
Gamucci, con il quale il governatore concedeva a livello «a messer Zanobi di Giovanni
129. Si può vedere la piccola misura dell’obbligo verso Elmi nell’elenco degli obblighi contratti con giuramento da
Domenico Salvi sacerdote a Cerreto: «risiedere alla detta chiesa personalmente et esercitare la cura di quella, somministrare i santissimi sacramenti, celebrare o far celebrare le messe e i divini offiti e le feste anco della Purificatione, siccome ancora celebrare o far celebrare dodici messe ciascun anno alla cappella di Santa Lucia e particolarmente il dì de la
festa di detta Santa, et altre messe quattro nella chiesa dell’abbatia d’Elmi et il tutto a mie spese» (ivi, 86, 191, affare 76).
130. «Prima della bolla di Innocenzo X risiedeva un monaco col titolo di governatore alla badia d’Elmi distante
tre miglia in circa dalla chiesa di Mucchio, cui pure prestava servizio negli urgenti bisogni della detta chiesa, onde a
tenore di detta bolla essendo ritornato al monastero degli Angeli il detto monaco, conseguentemente venendosi ad
accrescere gli incomodi al cappellano della chiesa di Mucchio, fu accresciuta la pensione fino a scudi 30 al nuovo cappellano» (ivi, 86, 194, affare 16).
131. Copia della lettera del cardinal Spada e di monsignor Fagnani al vescovo di Volterra del 16 maggio 1653 ivi,
86, 199, affare 55.
132. Notevole risulta la confusione ingenerata negli autori dal provvedimento papale. Cfr. ancora oggi Nuovo
atlante storico geografico cit., p. 173.
133. ASFI, Corporazioni, 86, 17, c. 19v.
134. Ivi, c. 47r.
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Landi da San Gimignano e a Jacopo suo fratello […] due campi soliti allivellarsi posti e
confinanti nel contado di San Gemignano nella via di Casale annessi a detta badia lavorativi ulivati e vitati» 135 per 20 lire, da pagarsi annualmente il 5 agosto con ricognizione
ventinovennale, alla quale corrispondeva un canone di una libbra di cera bianca. Il contratto, del tutto ordinario, stabiliva però una data certa alla quale legare una mutazione
della trama devozionale del territorio. Nell’atto, infatti, don Giusto è definito «al presente governatore della Badia di Santa Maria della Neve a Elmi». Le motivazioni che portarono alla traslatio della dedicazione del tempio, forse in parte legate alla trasformazione
dovuta alla soppressione, rimangono sconosciute, sebbene sia rilevabile come il culto
secondo lo schema dell’iperdulia tributato a Maria con il titolo ad nives conoscesse nella
religione riformata tra Cinque e Seicento un forte irrobustimento.
Durante gli stessi anni, del resto, doveva essere avvenuta anche un’importante, seppur
breve, cesura nel governo temporale della fattoria, come risulta da un articolato contratto stipulato da don Giusto con la famiglia Parasacchi di Pontremoli. La scritta privata non
datata, conservata nell’Archivio di Stato fiorentino, si configura come una compera da
parte dell’istituto degli Angeli di tutti i bestiami esistenti sui poderi della fattoria di Elmi 136.
È probabile, quindi, che a seguito della soppressione l’intero complesso fosse stato affidato – anche se non vi sono contratti conservati che attestino l’operazione – alla famiglia
Parasacchi, che proprio in quegli anni potrebbe aver avuto contatti con il monastero degli
Angeli per mezzo di don Francesco e don Tobia Galli, entrambi di Pontremoli 137. Può
anche darsi che tra il 1661 e il 1662 138 i Parasacchi decidessero «non per forza ma spontaneamente et per sé et suoi eredi» di retrocedere nei diritti, incassando 611 scudi per la
valuta di tutto il bestiame esistente 139.
Il quadro delineato dal contratto è quello di un’articolata azienda, in cui tutti i poderi possedevano almeno due giovenche, animali fertili che potevano essere impiegati per i lavori da
traino, insieme ad agnelli e porci, con una differenziazione che secondava la morfologia della
zona appoderata, come ad esempio la preponderanza di agnelli e pecore nei poderi Bosco e
Buca (34) e di bovini nel podere di San Mariano (3 paia di giovenche, 7 vacche e una vitella,
una somarina) 140. Più difficile, a causa della mancanza di una specifica documentazione come
ad esempio i libri di stime, risulta argomentare circa l’andamento economico dei singoli poderi. Per questo periodo possiamo osservare soltanto il movimento di cassa contante che la fat135. ASFI, Corporazioni, 86, 90, affare 3. La linea dei Landi continuerà a coltivare questi campi per oltre cento
anni, fino al 1745.
136. ASFI, Corporazioni, 86, 179, affare 82.
137. Ivi, 86, 180, affare 127. Fu creato un censo redimibile nel popolo di San Gervasio e Protasio fuori porta Pinti
per Tobia Galli e quindi per il fratello Francesco, il cui rappresentante era proprio un membro della famiglia Parasacchi.
Don Tobia figurerà poi quale governatore della badia di Elmi.
138. L’attribuzione della data si ricava dalla durata della carica di don Giusto Cavalli in qualità di agente di Elmi
citato esplicitamente nel contratto «a spesa di gabella trentotto soldi nove paghai a nome del senatore Vincenzio
Parasacchi per la compra fatta di tutte le nostre bestie della badia a Elmi» (ASFI, Corporazioni, 86, 191, affare 80).
139. Cfr. ibidem.
140. ASFI, Corporazioni, 86, 179, affare 82. Il podere di Sopra lavorato da Simone di Fiorenzo Pineschini possedeva 2 giovenche, 1 troia, 14 agnelli e 16 porci; il podere di Sotto lavorato da Simone di Domenico Francini 2 giovenche, 1 asina, 2 vitelle, 11 agnelli, 6 temporili, 2 troie e 11 castroncelli; il podere della Casetta lavorato da Francesco
Boldrini 2 giovenche, 2 somare, 10 agnelli, 6 temporili, 1 troia e 10 castroncelli; i poderi la Fonte e Oliveto lavorati
da Francesco di Giovanni Verchi 2 giovenche, 1 vitella, 1 somarina, 11 porci; i poderi Bosco e Buca lavorati da Piero
di Jacopo Mangioni 2 giovenche, 1 vitella, 2 somarine, 34 tra pecore e agnelli; il podere San Mariano lavorato da
Alessandro di Bastiano 3 paia di giovenche, 7 vacche e una vitella, una somarina, 30 capre, 24 pecore, 14 porci.
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toria di Elmi nel suo complesso versava al monastero fiorentino, attento esattore. Ad esempio nel 1662 proprio la casa degli Angeli si preoccupò di riscuotere 150 lire che «Anibal
Bertini» aveva come debito verso don Marsilio «per tanto di grano e biade dateli in quando
detto prete stava a Elmi» 141. Per comprendere l’impatto della contribuzione di Elmi sulle casse
dell’istituto fiorentino in un momento in cui queste erano «sbattut[e] dall’ingiuria degli anni
correnti scars[e] di utili et abbondanti d’aggravi» 142, possiamo analizzare, ad esempio, il bilancio del 1658 e notare come la badia valdelsana versasse alle casse fiorentine 1.415,9,9,9 scudi,
a fronte di una media delle altre fattorie pari a 168, eccettuate le fattoria di Borselli e Bocchette,
rispettivamente con 2.800 e 1.064 143. Badia Elmi e il suo governatore durante questi decenni servirono, inoltre, al monastero fiorentino per approvvigionarsi della carta necessaria alla
propria attività. Numerose, infatti, sono le segnalazioni nei libri di cassa, come ad esempio
per «lisme di carta comperata alla Badia Elmi a 4.10 la lisma. 85.10» 144, o ancora «per lisme
comprate a Colle» 145, città nella quale da secoli prosperava l’industria cartaria 146.
La carica di governatore della badia, l’unico a godere di tale appellativo tra i titolari di
benefici rurali al cui governo erano generalmente applicati fattori o agenti 147, spesso seguiva il carattere temporaneo dell’elezione dell’abate fiorentino. Nel 1664 governatore della
badia risulta, infatti, «don Tubbia Galli» 148, in carica fino al 1667, quando per un breve
periodo fu sostituito da Cosimo Friani 149. A questo seguì, nel 1669, epoca di Silvano Tanucci
da Stia abate degli Angeli, «don Eutitio Ghinassi», che rimase in carica fino al 1674 150.
Don Eutitio sarà l’ultimo professo ad amministrare Elmi. Con gli anni Ottanta del
Seicento si chiuse, infatti, la lunga serie di monaci sacerdoti cui fu demandato il compito
di gestire la badia. Da allora, anche in ordine alla decretale del 1652, venne nominato un
converso per la guida della fattoria. Al luglio del 1684 risale, infatti, il registro di amministrazione «della badia di Elmi e sua annessi tenuta da me fra Ubaldo Baglioni 151, converso camaldolese, sotto il governo del reverendo padre abate don Romualdo Becchi abba141. Ivi, 86, 16, c. 13r.
142. Ivi, 86, 191, affare 92. Inoltre l’istituto fiorentino nel 1660 assunse 3.290 scudi di debito dal capitolo metropolitano Fiorentino «a ragione di scudi tre e tre quarti per cento» per pagare le tasse alla curia romana (ivi, 86, 17, c. 77r).
143. Ivi, 86, 17, c. 47r. I denari versati da Badia Elmi al monastero fiorentino rientreranno nei due successivi decenni entro tale media: nel 1664 erano 1.032, nel 1666 1.820, nel 1673 880 e l’anno successivo 1.400 (cfr. ivi, 86, 18).
144. Ibidem, c. 116r.
145. Nel 1667, sotto la voce Elmi, cfr. ivi, 86, 18, nota del 17 luglio 1667.
146. E. Repetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, I, Firenze 1833, pp. 758-759; Carta e Cartiere
a Colle. Miscellanea di studi, raccolti a cura del Comitato Scientifico per l’allestimento del Museo, Firenze 1983.
147. Ad esempio nel 1669 le cariche erano così ripartite: don Andrea Gerardo Poggi fattore alle Bocchette di Pisa,
fra Salvatore Mecheri fattore alla Badia al Sasso, fra Romolo Pavoletti fattore di Borselli, fra Santi Conti fattore a
Borro, fra Severo Manzuoli agente a Ronta (cfr. ASFI, Corporazioni, 86, 18, cc. non num.).
148. Ivi, c. 1r. Tobia Galli trascorse gran parte della sua vita nelle comunità della Valdelsa. Nel 1646 era, infatti, priore di San Piero a Cerreto (ivi, 86, 191, affare 44) e nel 1669 morì ad Elmi: «il padre reverendo don Tobia Galli
camarlingo alla badia a Elmi passò da questa vita il dì 23 ottobre 1669 come apparisce al libro dei morti n. 87 e fu
confessato con tutti i sacramenti dal padre d. Niccolo Pollari del medesimo ordine et in quel tempo curato della badia
di San Giusto di Volterra et hebbe sepoltura per mano del prete Salvi del Salvi curato di detta badia a Cerreto» (ivi,
86, 180, affare 127).
149. Probabilmente lo stesso che sarà camarlingo della Lega dei sette popoli di Catignano e del Comune di
Pulicciano tra il 1672 e il 1673 (cfr. L’archivio storico del comune di Montaione, 1383-1955, a cura di S. Gensini e
F. Capetta, Firenze 2002, p. 82).
150. ASFI, Corporazioni, 86, 18, pagina di guardia del registro.
151. Fra Ubaldo era succeduto a fra Marco Pretelotti (ASFI, Corporazioni, 86, 191, affare 115). Il Pretelotti era
un converso originario di Fabbrica in Val di Pesa (ivi, 86, 191, affare 143).
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te delli Angioli di Fiorenza» 152, primo registro (impostato con la lettera A) 153 interamente
dedicato alla casa valdelsana 154. Il patrimonio della badia risultava così composto: un podere detto la Casetta lavorato da Santi Fanfani, un podere detto di Santa Maria di Sopra lavorato da Simone di Fiorenzo Pineschi, un podere detto di Santa Maria di Sotto lavorato da
Paolo Landi, il podere di San Mariano lavorato da Bastiano Nicolai, il podere del Cassero
lavorato da Marco Nesi, il podere del Piano d’Elsa e quello ancora detto della Fonte e
Oliveto lavorati da Piero Verdiani, il podere del Bosco e Buca lavorato da Giovan Bastiano
Verdiani. L’entrata era composta da numerose voci, per lo più derivanti da scambi commerciali, vendite e baratti, ma alcuni piccoli censi venivano tratti anche da livelli: a San
Gimignano ve ne erano due, uno allogato al pittore Marco Ciardi 155 per 10 lire annue e
l’altro a Jacopo Landi per 20 lire; a Macinatico il podere la Fornacetta era allogato alla
famiglia Mangioni per 42 lire annue 156, mentre l’orto di Certaldo era affidato a Sebastiano
Viti per 7 lire. La vendita dei numerosi prodotti dei singoli poderi alimentava, inoltre, un
florido commercio. Tra i beni maggiormente scambiati vi erano suini (temporili) 157, ovini
(regolare la vendita degli agnelli nel mese di maggio all’agnellaio Mazzocchielli 158 o di
«agnelli grossi» al macellaio di Certaldo) 159, ma anche animali da bassa corte (come galline, capponi 160 e piccioni) 161, insieme alla tradizionale vendita di lana 162 e di granaglie (il
grano era per la maggior parte ceduto al fornaio di Volterra Carlo Vannetti) 163 e assorti152. Ivi, 86, 133.
153. «Sarà segnato lettera A» (cfr. ivi, 86, 133, c. 1r). L’amministrazione della casa valdelsana dovette interrompersi e riprendere varie volte. Sappiamo, ad esempio, da un atto di un notaio dell’esistenza di un «libro di broglio intero carta reale di carte numero 285 coperto con carta pecorina bionda legato con due corregge verde intitolato entrata et uscita della Badia Elmi segnato A cominciato il dì primo di giugno 1639 da Padre Pietro Damiano
Rastrelli romano professo delli Angeli governatore di detta Badia Elmi» oggi irreperibile (ivi, 86, 191, affare 89).
154. Dalla fitta notazione del registro traspare chiaramente come l’amministrazione contabile fosse regolata con
la metodica tipica della divisione in serie archivistiche: nel registro si fa infatti riferimento al libro dei saldi e al libro
di stima, al libro creditori e a quello dei debitori. Tali registri sono a tutt’oggi dispersi o non identificabili.
155. Marco Ciardi doveva essere già in età avanzata. La sua opera è documenta alla metà del XVII secolo. I
Ciardi furono una famiglia di pittori beneficiata nel 1612 dall’eredità di Bernardino Barbatelli Poccetti (cfr. F.
Baldinucci, Notizie de’ professori del disegno, parte seconda secolo quarto, Firenze 1688, p. 253; Pecori, Storia della
terra di San Gimignano cit., p. 503). Marco era figlio del più famoso Lorenzo (cfr. P. Zani, Enciclopedia metodica
critico-ragionata delle belle arti, VI, Parma 1820, p. 194) detto il Pittorino, anche fabbricante e suonatore di organi (G.V. Coppi, Annali, memorie et huomini illustri di Sangimignano, Firenze 1695, p. 222).
156. Il podere, di cui si riscontrano i pagamenti fin da epoca alquanto risalente (cfr. 10 novembre 1558 «Da Jacopo
di Giovanni Mangioni da San Gimignano nostro livellario al podere della Fornace della nostra chiesa di Mucchio»,
ASFI, Corporazioni, 86, 4, c. 9v), derivava da una permuta realizzata con autorizzazione apostolica tra questa terra
e un podere in luogo Bagnoli (ivi, 86, 185, affare 102) che faceva parte delle terre che nel 1496 Donato detto Cincio,
Landino, Sebastiano, Antonio e Bernardo fratelli e figli di Giovanni di Donato del Mangia della villa di Sant’Andrea,
contado di San Gimignano, avevano preso a livello dalla chiesa di Mucchio nel popolo di San Michele a Macinatico.
L’albero genealogico della famiglia fino al 1610 si trova illustrato nel «Libro dei livelli di Mucchio», ivi, 86, 74, c.
13r e contratti cc. 3r-6v.
157. I temporili, o tampaioli o lattoni, sono maiali che dopo lo svezzamento arrivano a pesare dai 20 ai 30 kg.
Nel marzo del 1684 ne vennero venduti 11, e 12 di due diversi poderi (cfr. ASFI, Corporazioni, 86, 136, c. 3v); e
ancora ad aprile 8 e 9 (cfr. ivi, c. 3v).
158. Nel maggio del 1685 22 e 25 (cfr. ivi, 86, 136, c. 4r). Nel 1691 il totale tra agnelli e capretti venduti al
Mazzochielli sarà di 86 (ivi, c. 21v). Nel 1693 raggiungerà le 120 unità (ivi, c. 27r).
159. Cfr. ivi, 86, 136, c. 4v. Nel 1686 alcuni agnelli grossi del podere di sotto furono venduti al macellaio di
Certaldo Francesco di Laro (ivi, cc. 7r e 22r).
160. I capponi venivano venduti a lire 2 e una crazia il paio (cfr. ivi, 86, 136, c. 3r).
161. I piccioni venivano venduti a 10 soldi il paio (cfr. ivi, 86, 136, c. 2v).
162. Ivi, 86, 136, c. 2v.
163. Il prezzo era di 7 lire il sacco nel 1684 (cfr. ivi, 86, 136, c. 3r). Al fornaio di Volterra si vendettero 175 staia nel-
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mento di avena, segale, saggina e miglio 164. Non mancava un piccolo commercio di vino 165
e si trattava anche legname di varia qualità 166, che talvolta poteva dar luogo, similmente
a quanto accaduto in passato, ad entrate straordinarie, come nel 1685, quando si vendette legna tonda del bosco di San Mariano a Giovacchino Barberani di Montaione che
si occupava di vetro 167, versando l’entrata, non appartenente al bilancio ordinario della
fattoria, direttamente alla casa fiorentina 168.
Una parte del commercio derivante dalla fattoria e dai suoi poderi alimentava lo stesso sistema camaldolese a cui soprintendeva il camarlengo fiorentino 169. Tuttavia la parte
più consistente delle transazioni si svolgeva in forma di baratto tra gli stessi contadini 170
e tramite le vendite nei mercati della bassa Valdelsa 171, sebbene non infrequenti fossero
anche le registrazioni di alienazioni realizzate «a casa». Il più battuto tra i mercati era,
comunque, quello di Castelfiorentino, dove avveniva la maggior parte del commercio di
animali (capponi, piccioni, porci grassi, galline), ma anche di grano, panico e vecciato;
seguito da San Casciano 172, dalla fiera dedicata a San Luca dell’Impruneta 173 e, in ottobre, dalla fiera di Empoli 174.
L’uscita del bilancio di Elmi, oltre al vitto e «vestimento» per il governatore e al salario per la serva 175, registrava notevoli variazioni nella voce straordinaria delle spese
l’ottobre 1685 a 12 lire il sacco; soldi che ricevette direttamente al mulino il camarlingo degli Angeli di Firenze (ivi, c.
4v). A novembre furono 125 staia (ivi, c. 5r). Nell’aprile 1687 390 staia per 1.170 lire (ivi, c. 8v). Ma quantità sostenute furono vendute anche al fornaio di Certaldo, come ad esempio 264 staia nel dicembre 1684 (cfr. ivi, 86, 136, c. 3r).
164. L’avena era venduta a lire una lo staio (cfr. ivi, 86, 136, c. 3r). La saggina a lire due, sei soldi e otto denari
il sacco (cfr. ibidem), Il miglio a lire 4 il sacco (cfr. ibidem), la segale a lire due lo staio (cfr. ivi, c. 3r), le fave a lire
otto il sacco (ivi, c. 4r).
165. 14 barili e poi 12 a lire 3 il barile (cfr. ivi, 86, 136, c. 3r). Nel 1686 furono venduti a San Gimignano 40 barili di vino (ivi, c. 6v). Il vino veniva venduto anche ad altri commercianti, come ad esempio l’oste di Pancole, che nel
settembre 1688 lo comprò con il patto di conservarlo presso le cantine camaldolesi fino al maggio successivo (ivi, c.
14v), oppure ad alcuni istituti, come testimonia l’acquisto effettuato dal fattore delle monache di San Girolamo in
San Gimignano di 80 barili nel maggio 1691 (ivi, c. 21v).
166. Come nel marzo 1684, per la steccaia del mulino (cfr. ivi, 86, 136, c. 3v). Nel 1686 «capitozzi cattivi cioè
fradici» (ivi, c. 6r); nel 1687 legnami venduti al camarlingo dei frati di Certaldo (ivi, c. 9v); nel gennaio 1688 al fattore dei Ridolfi per fare 200 pali da viti (ivi, c. 13v).
167. Sul quale cfr. G. Vannini, La spezieria: formazione e dotazione, in Una farmacia preindustriale in Valdelsa.
La Spezieria e lo spedale di Santa Fina nella città di San Gimignano. Secoli XIV-XVIII, San Gimignano 1981, pp.
37-121: 49.
168. ASFI, Corporazioni, 86, 133, alla data. Per il contratto col Barberani: «con patto e conditione che deve lasciare boschato conforme è stato lasciato altra volta che fu tagliato che ogni venticinque braccia ci sia cerro» (ivi, 86,
191, affare 115).
169. Ad esempio temporili e saggina alla fattoria camaldolese di Borro per ordine del camarlingo degli Angeli (cfr.
ivi, 86, 136, c. 5v) o agnelli al podere di Mucchio.
170. «Baratto fatto alla fiera di Empoli [da] Paolo Nardi contadino di Sotto […] di uno paro di buoi di sei anni
in uno paro di due anni con giunta 109.10» (cfr. ivi, 86, 136, c. 7v).
171. Si intuisce chiaramente che il baricentro degli scambi era situato in area fiorentina. Meno intensi risultavano i contatti con il senese, pur essendo l’economia della media Valdelsa imperniata sul mercato di Poggibonsi (cfr.
Pazzagli, La terra delle città cit., p. 151).
172. Ancora nel 1830 lo Zuccagni Orlandini indicava il mercato settimanale di San Casciano come di «molto
concorso» (cfr. A. Zuccagni Orlandini, Atlante geografico fisico e storico del Granducato di Toscana, Firenze 1832,
rist. anast. 1974, tav. XIII).
173. Celebre è la quasi coeva raffigurazione della fiera dell’Impruneta realizzata da Jacques Callot nel 1620 (cfr.
Le incisioni di Jacques Callot nelle collezioni italiane, Milano [1992], pp. 186, 286).
174. Al mercato di Empoli si ricorreva anche in altre stagioni. Per esempio nel marzo 1685 veniva segnalata una
vendita di temporili del podere di Sopra per 84 lire (cfr. ASFI, Corporazioni, 86, 136, c. 3r).
175. Per esempio ivi, 86, 133, c. 66v.
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destinate ai risarcimenti incostanti, ma soprattutto ai cospicui pagamenti quasi mai legati ad interventi programmati. Se nel giugno 1685 furono versate 43 lire per risarcimenti
a San Mariano e alla «casa del Pinescho» 176 e nell’agosto alla Badia Elmi lire 24 tra
muratore e manovale 177, nel novembre dello stesso anno fu costruita una capanna al
podere del Cassero costata 105 lire tra muratori calcina e tinta; a cui si aggiunse la spesa
saldata l’anno successivo per i mille mattoni impiegati nella costruzione 178. Nel maggio
del 1686 si realizzava presso il podere di Santa Maria di Sotto «uno forno da fondamenti con suo porticho e altro» 179. Nell’ottobre il rifacimento del tetto della badia e
della casa della Fonte era costato 136 lire, per 12 giornate di lavoro e duecento tegoli
«compri dal Parenti» 180. Nel 1687 alcuni lavori alla casa del Piano d’Elsa e la costruzione del forno avevano richiesto l’utilizzo di ottocento mattoni 181. E non mancarono
gli interventi alle travature, come nel gennaio 1688 alla casa del podere di Mucchio
(«rimesse due trave che andonno giue») 182. In ogni caso l’opera più dispendiosa fu commissionata nell’aprile del 1693, quando fu eseguita la revisione totale del tetto della
badia di Elmi e si procedette alla costruzione del nuovo forno con l’impiego di novecento tegoli da parte del muratore Giuseppe Taddei e del manovale Raffaello Bargi per
un totale di 153 lire 183.
Se i risarcimenti erano spesso imprevisti, lo erano anche, sebbene di gran lunga minori quanto a consistenza, le spese di foresteria, che tornano ad evidenziare alle soglie del
XVIII secolo il ruolo medievale di ospitale svolto dalla casa valdelsana posta sull’asse
che da Firenze conduceva al monastero di San Giusto di Volterra. Se nell’ottobre del
1685 il padre maestro dei professi e i suoi discepoli con il camarlingo di Firenze si erano
recati tutti a Badia Elmi facendo sborsare alle casse dell’azienda 37 lire 184, spesso sostavano nella fattoria l’abate di Volterra e il priore di Firenze 185 o il padre lettore della stessa città 186, ai quali dovevano essere offerti vitto e alloggio. Le spese ovviamente variavano a seconda della carica del personaggio ospitato. Se ad alimentare il padre lettore
potevano bastare delle uova, per il camarlingo di Firenze Paolo Martuzzi occorrevano
pesce e frutta, con la spesa di 4 lire 187; mentre al procuratore Bucherelli carne e frutta 188,
così come per i padri superiori di Firenze accompagnati dai loro servitori che sostarono
a Elmi nel novembre 1687 189, ai quali furono serviti anche dieci fiaschi di Vernaccia di
San Gimignano 190. Del resto, approvvigionamenti straordinari di viveri venivano effet176. Ibidem, c. 66r.
177. Ibidem, c. 66v.
178. Ibidem, cc. 67r, 68r.
179. Ibidem, c. 68v.
180. Ibidem, c. 70r.
181. Ibidem, c. 73r.
182. Ibidem, c. 78v
183. Ibidem, c. 102v.
184. Ibidem, c. 67r.
185. Ibidem, c. 67v.
186. Ibidem, c. 70r.
187. Ibidem, c. 74r.
188. Ibidem, c. 73r.
189. Ibidem, c. 74r.
190. Ibidem, c. 74r.
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tuati soltanto in occasione della festività di Santa Maria della Neve, il 5 di agosto, quando ad imitazione delle feste che fin dal Medioevo si usava preparare a cura delle compagnie laicali, il governatore di Elmi, dopo aver celebrato il sacrificio eucaristico sia all’abbazia che nell’oratorio di San Mariano, offriva ai contadini un banchetto. Nel 1690 era
stato preparato del pesce, 6 libbre di tinche, una frittura dell’Elsa, e poi fichi, mandorle
e limoni 191. Nel 1692 erano state elargite ai contadini 30 libbre di «carne grossa, quindi
si era acquistato un salsicciotto, un capretto, due libbre di fegato, poponi, fichi, pinoli e
uve passe 192. La festa poteva anche essere l’occasione per rassettare qualche arredo o rinnovare alcuni paramenti, come nel 1694, quando fu acquistata da «Marcho Rossi banderaio» una «pianeta fiorata di seta» 193. Del resto gli acquisti di «masserizie» dovevano
essere molto ridotti, se troviamo la sola notazione del 1688 per l’acquisto di «sei seggiole di noce con due tavolini di noce compri da Pier Antonio Bonelli legnaiolo a
Marcialla» 194.
6. L’amministrazione della fattoria in un periodo di riforme: gli anni leopoldini
L’amministrazione della fattoria di Elmi proseguì immutata nei decenni successivi. A fra
Ubaldo Baglioni, terminato il quinquennio di carica, succedette fra Luca soltanto per un
anno. Nel 1690, infatti, tornò a governare la tenuta fra Ubaldo, fino a quando il 5 ottobre 1697, per ordine del camarlingo della casa fiorentina Angelico Bonifazio Fei, fu sostituito da fra Buono Bartolini 195. Pochi anni più tardi venne nominato governatore padre
Luigi Constabili (o Contestabili) 196, monaco al quale furono affidati vari incarichi all’interno della congregazione, compreso quello di predicatore in Corsica e all’Elba, ma soprattutto esperto botanico 197, qualità che gli valse probabilmente la nomina a Elmi nel tentativo di migliorare il governo della fattoria.
Per il complesso valdelsano l’ormai definitivo assetto della proprietà fondiaria realizzato nel XVII secolo e la mancanza di rilevanti mutamenti istituzionali lasciarono corso,
nel Settecento, soltanto agli accadimenti legati alle singole famiglie coloniche e alle congiunture stagionali. L’avvicendarsi nel governo civile della dinastia Lorenese a quella
Medicea, l’affacciarsi prima ed il prorompere poi delle nuove politiche amministrative e
giurisdizionaliste di stampo austriaco, nonché, nel governo degli istituti religiosi, i problemi di natura teologica ed ecclesiastica vissuti all’interno delle comunità monastiche e
il loro ambiguo rapporto con il riformismo leopoldino non lambirono l’andamento dell’azienda agricola di Elmi. La sopravvivenza del monastero fiorentino, d’altra parte, fu
più volte minacciata. L’impulso laicista con cui la reggenza lorenese aveva improntato i
servizi di assistenza coinvolse indirettamente anche il monastero degli Angeli, di cui fin
dal 1742 furono proposte, per la sua ubicazione contigua allo spedale di Santa Maria
191. Ibidem, c. 85v.
192. Ibidem, c. 97v.
193. Ibidem, c. 109v.
194. Ibidem, c. 78v.
195. Ibidem, c. 41v.
196. Ivi, 86, 191, affare 131.
197. Fu amico del fiorentino Pier Antonio Micheli (cfr. G. Targioni Tozzetti, Notizie della vita e delle opere di
Pier’Antonio Micheli botanico fiorentino, pubblicate per cura di A. Targioni Tozzetti, Firenze 1858, pp. 57, 59-61).
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Badia Elmi
Nuova, la soppressione e l’incorporazione a questo istituto assistenziale, al fine di realizzare un vasto programma di ampliamento dei suoi locali 198.
Per le prime cinque decadi del XVIII secolo non disponiamo, purtroppo, che di sporadici documenti riguardanti il complesso valdelsano, testimonianze di episodi sopravvissuti senza coerenza alla dispersione archivistica. Nel 1706, ad esempio, i monaci camaldolesi, per mezzo dell’agente di Elmi fra Sante Simoni, accusarono Bastiano Nardi e fratelli per il taglio di tre querce nelle loro terre di villa Macinatico ordinato dalle monache
di Santa Maria Maddalena di San Gimignano. I Nardi si difesero adducendo, appunto,
l’ordine delle Agostiniane romite che si erano dette proprietarie del terreno e che di fatto
vinsero, dopo un anno, la causa, non riuscendo i Camaldolesi a dimostrare i loro diritti
di possesso 199. Proprio per evitare questi incidenti, durante il lungo governo più che ventennale del converso Bonifazio Agostini 200 si introdusse una nuova figura nell’amministrazione della fattoria. Si trattava del «guardia dei beni dei monaci degli Angeli alla Badia
a Elmi» 201, il cui compito era evidentemente quello di evitare le controversie e i continui
sconfinamenti che dall’inizio del XVIII secolo si erano verificati nei possedimenti valdelsani. Nello stesso contesto di precisa definizione degli appannaggi territoriali e di difesa
dei beni si inserisce anche il tentativo iniziato nel 1717 da parte dell’abate Martin Angiolo
Franchi 202 della casa fiorentina di comporre un cabreo intitolato «Libro delle piante degli
effetti del monastero degli Angeli di Firenze» nel quale illustrare in scala la dimensione e
lo stato delle proprietà del monastero. Il libro originale, oggi disperso, sopravvive in alcune copie di piante realizzate in un codice del 1735 proveniente dal monastero di San
Michele di Murano e conservato nell’Archivio Storico del monastero di Camaldoli. Il tentativo di ribadire i diritti di proprietà del chiostro fiorentino tramite la compilazione dell’inventario figurato dei beni non andò a buon fine in quanto non «fu autenticato dai pubblici ministri e perciò esse non possono servire di alcuna utilità in caso di bisogni o di
liti» 203. Tuttavia questa raccolta rimanda a noi la più antica immagine del complesso monastico valdelsano che conosciamo, con una pianta e un alzato sostanzialmente identici a
quelli che descriveva mezzo secolo prima l’inventario del monastero di Elmi.
198. «Desiderare continuamente con sollecitudine e laudevole passione di potere una volta coll’aiuto e protezione e mediazione sovrana acquistare quell’angolo ov’è tutto il contiguo recinto del monastero dei camaldolesi detto
degli Angeli» (A. Cocchi, Relazione dello spedale di Santa Maria Nuova di Firenze, a cura di M. Monnelli Goggioli,
Introduzione di R. Pasta, Firenze 2000, p. 138; cfr. anche L. Passerini, Storia degli stabilimenti di beneficenza e d’istruzione elementare gratuita della città di Firenze, Firenze 1853, p. 382; Fantappiè, Il monachesimo cit., p. 206). Le
cause con l’ospedale di Santa Maria Nuova proseguivano da secoli. Si pensi, per esempio, ai problemi sorti durante
l’edificazione del nuovo dormitorio di Santa Maria degli Angeli, che aveva suscitato i dubbi del granduca nel 1504
(ASFI, Corporazioni, 86, 198, affare 65); e si consideri la vendita, sempre imposta dal granduca, di un pezzo dell’orto nel 1658 (ivi, 86, 77, affare 86).
199. Ivi, 86, 187, affare 94.
200. Non disponiamo di molti documenti relativi al governo dell’Agostini. Sappiamo che i Camaldolesi tornarono in possesso del livello assegnato nel 1661 «di due campi che teneva Jacopo Landi a llivello per la morte di Niccola
Landi suo figlio, logo detto Casale» (ivi, 86, 90, affare 3). I beni di Villa Casale erano già tornati in possesso del monastero degli Angeli nel 1581 per la morte di Antonio de’ Baroncini di San Gimignano ed erano stati locati con contratto triennale a ser Niccolò di ser Francesco de Fichellis di San Gimignano notaio fiorentino e a favore di Mario e
Pandolfo suoi nipoti di fratello germano (ivi, 86, 74, c. 52r). L’Agostini rimase in carica fino al 1770 (ivi, 86, 246,
cc. non num.)
201. Il primo di cui si ricorda il nome fu Lorenzo Crudeli (ivi, 86, 250, c. 85r).
202. Cfr. Farulli, Istoria Cronologia cit., p. 168. Il padre Franchi morì pochi anni più tardi, nel 1725 (cfr. Richa,
Notizie Istoriche cit., VIII, p. 164).
203. ASC, Fondo San Michele di Murano, Codice 624, p. 284.
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Archivio Storico del Monastero di Camaldoli, Fondo San Michele di Murano, codice 624, p. 284
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Archivio Storico del Monastero di Camaldoli, Fondo San Michele di Murano, codice 624, p. 278
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Con la morte del granduca Giangastone, ultimo erede della dinasia medicea, per la
Toscana si aprirono le porte alla successione di una nuova casa regnante, quella degli
Absburgo Lorena, che dal 1765 trovò un sovrano stabilmente residente nel giovane Pietro
Leopoldo. Egli, presa coscienza dello stato in cui versava il suo stato, aprì per la regione
un periodo di radicali riforme, specialmente in ambito ecclesiastico. Dal 1769 il governo
granducale emanò provvedimenti volti a limitare i privilegi ed il potere delle istituzioni
religiose, abolì l’esenzione fiscale nel 1770, nel 1777 l’immunità di foro, e nel 1784 istituì i patrimoni ecclesiastici 204. Nel 1778 indisse un’inchiesta diretta ad accertare la consistenza delle congregazioni, dalla quale risultò che i cenobi camaldolesi toscani erano investiti da un forte calo delle vestizioni 205. Emerse, successivamente, che tra il 1767 e il 1782
i Camaldolesi erano passati da 200, tra professi e conversi, a 165, divisi in undici sedi 206.
Per il monastero degli Angeli puntuale arrivò la nota della segreteria di Gabinetto del
1786: «mancando i soggetti si sopprime e si unisce al patrimonio ecclesiastico e la fabbrica servirà per un’Accademia ecclesiastica» 207. Il monastero, che secondo le stime ufficiali dell’epoca in venti anni aveva perso una popolazione pari a nove unità, arrivando
alla cifra di trentatre tra professi e conversi, non venne però del tutto chiuso, rimanendo
di fatto funzionante e divenendo sede di un educandato, mentre nella chiesa monastica fu
traslata, con decreto granducale del 27 febbraio 1792, la sede della parrocchia di San
Michele Visdomini 208.
Nella Badia Elmi immutato rimaneva il complesso amministrativo. I registri del periodo oltre all’ordinaria gestione dei poderi rimandano alla precisa amministrazione delle parrocchie del comprensorio dipendenti dalla fattoria: la congrua per i sacerdoti secolari che
risiedevano a Mucchio (Ubaldo Moggi, prima affiancato nell’infermità da padre Liborio
Conti e quindi sostituito nel 1762 da Giovanni Grifoni, 100 scudi) 209, e a Cerreto (Giovanni
Nicola Temperani, sostituito nel 1759 da Lorenzo Maria Ciulli, 50 scudi) 210; nonché le più
sporadiche spese connesse all’ufficiatura della cappella di Santa Lucia a San Mariano. Dal
1770 al 1772 fu nominato agente di Elmi frate Raimondo Danielli, che poi lasciò il posto
a frate Romolo Pesci, cui seguì, dal primo aprile 1773, frate Serafino Cantagalli 211, con204. Apologia delle leggi di giurisdizione, amministrazione e polizia ecclesiastica pubblicate in Toscana sotto il
regno di Leopoldo I, Firenze 1858; O. Fantozzi Micali, P. Roselli, Le soppressioni dei conventi a Firenze. Riuso e trasformazioni dal sec. XVIII in poi, Firenze 1980, p. 274; A. de Ruggiero, La politica ecclesiastica e le soppressioni
negli anni di Piero Leopoldo (1765-1790), in La soppressione degli enti ecclesiastici in Toscana secoli XVIII-XIX.
Nodi politici e aspetti storiografici, a cura di Z. Ciuffoletti, Firenze 2008, pp. 33-109.
205. Relazione di don Silvano Grifi (ASFI, Segreteria del Regio Diritto, 485, cc. 143-145).
206. Fantappiè, Il monachesimo cit., p. 243; Fantozzi Micali, Roselli, Le soppressioni dei conventi cit., pp. 1318, 267. Cfr. anche ASFI, Corporazioni, 86, 194, affare 36.
207. ASFI, Segreteria di Gabinetto, 49, n. 1. Cfr. Fantozzi Micali, Roselli, Le soppressioni dei conventi cit., p.
189; U. Fossa, Il convento di Santa Maria degli Angeli e l’ordine camaldolese, in Il chiostro camaldolese di Santa
Maria degli Angeli a Firenze, a cura dell’Ufficio Restauri della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Firenze
Prato Pistoia, Firenze 1998, pp. 19-20: 20.
208. L’educandato si distinse per gli insegnamenti fisici e matematici tenuti da monaci come Guido Grandi e
Ambrogio Soldani (cfr. Fantappiè, Il monachesimo cit., p. 258). Per il trasferimento della parrocchia cfr. Savelli,
Nencioni, Il chiostro degli Angeli cit., p. 43. Il Biadi asserisce che il clero di Visdomini subentrò negli Angeli dopo la
soppressione del 1808 (cfr. L. Biadi, Notizie sulle antiche fabbriche di Firenze non terminate, Firenze 1824, p. 85),
ma in realtà i lavori di ampliamento della chiesa degli Angeli, con la demolizione della cappella del Santissimo
Sacramento, iniziarono fino dal 1792 (cfr. ASFI, Corporazioni, 86, 195, affare 4 e affare 15).
209. Ivi, 86, 246, cc. non num.
210. Ibidem.
211. Ibidem.
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Badia Elmi
verso ben inserito nel contesto devozionale del luogo, data anche la sua appartenenza, con
la carica di centurione, alla congrega di San Giuseppe con sede nella Badia a Cerreto 212. I
Camaldolesi erano ancora ben attenti alla cura dei loro beni e non cedevano alle pressioni dei grandi proprietari della zona, come nel caso dei marchesi Ximenes, livellari di un terreno della Badia Elmi, che nel 1782 volevano affrancare «dovendo i livellari tirarsi a decima i beni che tengano in enfiteusi per farsi rimborsare sul canone dai proprietari» 213. Per
il livello i marchesi versavano alla badia 4 staia di avena e 5 staia di spelda all’anno, e adducevano la considerazione di non sapere più distinguere quale fosse il terreno dei Camaldolesi,
perché «dapertutto nel loco detto il Sasso è Ximenes». La risposta dei monaci, nell’eloquente diniego, si dimostra conscia del periodo che essi stavano vivendo: «onde risponde
che senza un evidente utilità sua non vuole concedere all’istanze del signore marchese nè
vuol pensare a chiederne il permesso al Sommo Pontefice che se Sua Altezza Reale glielo
comanderà allora ubbidirà».
Del resto i monaci tesero sempre a rafforzare i propri possedimenti, piuttosto che a
cederli, e a consolidare una zona omogenea di proprietà e produzione. Se l’auditore
Vincenzo Martini trasmise l’autorizzazione a fare offerte per un pezzo di terra contiguo
ai possedimenti dei monaci a Villa Castelli, in esecuzione al rescritto del 29 maggio 1784,
essa giunse troppo tardi per partecipare all’asta e la terra fu aggiudicata al senatore Ippoliti.
I Camaldolesi scrissero allora una lettera di richiesta per quel pezzo di terra «che fa corpo
agl’altri effetti del medesimo per essere in mezzo alle terre del podere del Cassero», ma
l’Ippoliti negò il consenso adducendo la motivazione che l’acquisto era stato compiuto
per la fattoria Torrigiani 214.
La definizione dei confini e la regolazione delle liti derivanti dal possesso delle terre continuarono a lungo ad animare la vita della comunità di Elmi. Sotto il governo di fra Giusto
Moretti, nominato nel 1787 215, fu siglato un accordo con Niccola Luparelli per i limiti territoriali e l’uso delle strade vicine al cosiddetto Podere di Sopra, essendo «stata aperta un’altra superiore per quel che credesi dai rispettivi lavoratori per loro maggior comodo, e sia
perciò stato abbandonato il pezzo di detta strada vecchia», giungendo così ad asserire che
«sia permesso ai lavoratori del monastero passare colle loro bestie per detti due pezzi di
strada nuova e vecchia e di poter mantenere la fossetta che è nel pezzo della strada vecchia
acciò l’acqua non scoli nei beni inferiori del monastero» 216, ponendo infine tre termini di
pietra a imperitura memoria dei confini 217. Così ancora nel novembre 1791 si introdusse
nella corte di San Gimignano una causa tra le monache di San Gaggio di Firenze e i monaci degli Angeli per il taglio di alcune piante avvenuto da parte di Domenico Niccolai lavoratore del podere la Buca per ordine di fra Giusto Moretti agente di Elmi in un luogo detto
212. Ivi, 86, 194, affare 3.
213. Ivi, 86, 194, affare 37.
214. Ivi, 86, 194, affare 69.
215. Su Giusto Moretti cfr. G.M. Croce, Monaci ed eremiti camaldolesi in Italia dal Settecento all’Ottocento. Tra
soppressioni e restaurazioni (1769-1830), in Il monachesimo italiano dalle riforme illuministiche all’unità nazionale
(1768-1870), a cura di F.G.B. Trolese, Cesena 1992, pp. 199-306: 305. Prima di Giusto Moretti era stato agente di
Elmi Antonio Maria Bartoli (cfr. ivi, 86, 248, cc. non num.)
216. Ivi, 86, 90, affare 47.
217. «Il primo al principio del bivio di detti due pezzi di strada nuova e vecchia, il secondo nella strada vecchia
accanto al suddetto fossetto, distante dal primo circa braccia 100 che fa un angolo retto. Il terzo pure nella strada
vecchia fra detta strada ed il fosso lontano dal secondo circa braccia 40» (ivi, 86, 90, affare 47).
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Renaccio. L’agente delle monache Lorenzo Gori si era interposto rivendicando la proprietà
del bosco e avviando una causa che, dopo aver prodotto un voluminoso incartamento, vide
due anni più tardi vittoriosi i monaci camaldolesi, facendo sentenziare al podestà Antonio
Violi, in quella che fu intitolata Geminianensis reintegrationis: «accade spesse volte che le
cause anche di lor natura più piccole e di poca rilevanza diventino poscia nel loro proseguimento più impegnose e le più ostinate» 218. La vicenda proseguì, infatti, per vie legali fino
al 1796 219; e si arrivò soltanto nel 1800 ad un attestazione di possesso da parte del notaio
Giacinto Gamucci 220.
Le strade e i confini, del resto, erano al centro di un’attenta riflessione in quei decenni
anche da parte del governo centrale, che con la riforma comunitativa, nel 1774, portò
Badia Elmi a gravitare nel territorio della comunità di Montaione 221. Meno di dieci dopo
la riorganizzazione della giurisdizione ecclesiale determinò, tra il 1781 e il 1782, l’unione della parrocchia di Mucchio a quella di Villa Castelli, con la rinuncia al giuspatronato da parte dei Camaldolesi, che rimasero obbligati alla sola congrua e al pagamento di
una cifra straordinaria di 600 scudi per fabbricare la canonica nella seconda località 222.
La stessa politica stradale leopoldina nella zona operò numerosi cambiamenti e consistenti
rifacimenti, i quali comportarono, nel 1798, la vendita alla comunità di Montaione di un
pezzo di terra della fattoria «ad oggetto di fare la strada che dal Castagno conduce a
Volterra» 223.
Queste non furono le uniche riforme che investirono la proprietà camaldolese. Nel 1788,
infatti, il governo granducale propose l’eliminazione del debito pubblico attraverso la vendita dei diritti fiscali 224. Il monastero degli Angeli, avvalendosi della legge del 7 marzo 1788
che permetteva di affrancare le poste di tassa di redenzione per liberarsene in perpetuo,
spese «centosettantacinque per ottenere la cassazione perpetua di scudi 6 lire 0.17.6 tangente per annualità di tassa di redenzione sopra agli suoi beni stabili situati nella comunità
di Certaldo», e ancora 225 per la comunità di Montaione 225, mentre per Mucchio si provvide all’estinzione del legato pio di Elisabetta Germani Franci 226. L’operazione coinvolse
tutti i livelli amministrativi della congregazione. Infatti «per affrancare questi beni di
Montaione ci siamo serviti di luoghi 7¼ del monastero e di luoghi 4½ comprati dalla cassa
di provincia e degli spogli e ceduti al monastero coll’obbligo di pagarli il frutto al 3 per
218. Ivi, 86, 195, affare 53. Per gli atti completi della causa ivi, 86, 250.
219. Ivi, 86, 246, ricevuta 12 giugno 1796 del perito Simone Cencetti.
220. Ivi, 86, 246, ricevuta del notaio Giacinto Gamucci.
221. F. Nerli, Problemi di confine in Valdelsa: il territorio del Comune di Montaione dal secolo XVIII, tesi di laurea in Giurisprudenza, Università d.S. di Siena, relatore prof. M. Ascheri, a.a. 2001/2002, pp. 5-11.
222. ASFI, Corporazioni, 86, 246; ivi, 86, 248, c. 3r. «Si avverte però che la religione è libera ed assente perpetuamente da ogni peso tanto di paramenti che di utensili e altre cose ecclesiastiche relativamente alle chiese di Mucchio
e Villa Castello quanto ancora di rovina o altro danno come per decreto del regio diritto fu approvato sotto il dì 25
febbraio 1782» (ivi, 86, 245).
223. Ivi, 86, 86, c. 1r. Sulla politica stradale di Pietro Leopoldo nella zona cfr. L. Magni Pratelli, Condizioni sociali a S. Gimignano dopo le riforme leopoldine (1768-1790), «Miscellanea Storica della Valdelsa», 72-73, 1966-67,
pp. 7-105.
224. Cfr. Memoriale alfabetico ragionato della legislazione toscana dalla prima epoca del principato fino al presente secondo lo stato della medesima a tutto l’anno 1815, I, Colle 1846, pp. 149-151; A. Zobi, Storia Civile della
Toscana, II, Firenze 1850, pp. 441-446.
225. ASFI, Corporazioni, 86, 90, affare 76.
226. Ivi, 86, 90, affare 92.
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Badia Elmi
100» 227. Tale operazione fu annullata pochi anni più tardi, quando con l’avvento al trono
di Ferdinando III nel 1794, si emanò l’editto del 26 settembre che revocava l’affrancazione iscrivendo nuovamente presso il monastero fiorentino i capitali 228.
L’intero complesso di Elmi, secondo quanto riportato dal sacerdote Socrate Isolani nei
suoi saggi dedicati alla storia della badia, dovette essere oggetto nel 1791 di un completo restauro e ampliamento. La testimonianza del religioso ricorda come una lapide nel
chiostro dichiarasse che in quell’anno si erano svolti dei lavori tanto nell’oratorio quanto nel monastero 229. Non conosciamo, purtroppo, alcun tipo di documentazione da cui
emergano tali evidenze, sebbene l’attuale assetto della chiesa, purtroppo non direttamente osservabile a causa degli impedimenti interposti da alcuni degli attuali proprietari, rimandi sicuramente a canoni estetici settecenteschi. Qualche nota successiva fa comunque pensare ad un consistente intervento. In tal senso possono essere lette l’attività di approvvigionamento e vendita di materiali edilizi documentate per gli anni successivi al 1796 230, o
la ricevuta del fonditore Antonio Tognozzi Moreni per comprare una campana usata 231;
anche se la confusione con le spese per Badia a Cerreto, come per esempio la doratura di
un calice 232, e quelle per la completa ristrutturazione del podere e della chiesa di San
Mariano 233, non aiutano a chiarire il quadro complessivo, che, in ogni caso, si doveva considerare ben riuscito, dal momento che durante la visita pastorale di monsignor Alliata la
chiesa di Elmi apparve ben ordinata e in ottimo stato 234.
Questo fu forse l’ultimo intervento significativo sul complesso condotto dai Camaldolesi,
divisi in questi anni tra l’intensa attività di adeguamento alle riforme e l’ordinaria gestione
economica testimoniata da una rara lettera dell’agente Giusto Moretti ad Antonio Duccini
camarlingo degli Angeli: «Subbito doppo Ogni Santi li manderò circa 80 barili vino e questo non ha bisogno di governo essendo cavata tutta l’uva bianca per fare il vino bianco, il
resto lo manderò verso Natale, se lo vogliano governo non si pole sul tino avendoci la parte
il contadino, guardino di essere le botte all’ordine a ciò subbito i barrocciai possino votare
i barili e riportarli […] e resto salutandola caramente» 235.
Il converso rimase agente fino alla sua morte, avvenuta tra il settembre e l’ottobre del
1796 236, quando venne sostituito da fra Buono del Medico da Pratovecchio 237. La presenza
del nuovo agente permise di reimpostare, dopo l’intenso periodo leopoldino, nuovi campioni, nuovi libri di conti e stime e di regolarizzare l’intera amministrazione 238, come nel caso
227. Ivi, 86, 90, affare 93.
228. Ivi, 86, 196.
229. Isolani, La Badia di Adelmo cit., p. 91.
230. ASFI, Corporazioni, 86, 246, cc. non num.
231. Ivi, 86, 246, ricevuta 11 aprile 1796.
232. Ivi, 86, 246, ricevuta 4 giugno 1796 di Pietro Giovannini argentatore.
233. Ivi, 86, 246, fatture del legnaiolo Andrea Lucii, del muratore Andrea Pieragnoli e del ferraio Antonio da Vela.
234. ASDV, Visite, 47, cc. 18r-v.
235. Ivi, 86, 90, affare 3.
236. Ivi, 86, 246, lettera del 28 marzo 1796.
237. Fra Buono dovette essere in buoni rapporti con Luigi Anastagi procuratore generale di Andrea Ostili, famoso professore di fisica, e col cognato di quest’ultimo. Infatti al converso fu concesso ed intimato di procedere alla
destituzione dell’agente dell’Ostili Giuseppe Taddei e di prendere in consegna tutti i poderi e i beni, compresa la villa
del podere del Monte nella comunità di Certaldo (ivi, 86, 248, atto 14 agosto 1797).
238. Cfr. ivi, 86, 245.
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della congrua di badia a Cerreto dovuta a don Francesco Gori, cui fu intimato di non toccare il cimitero dei monaci di Cerreto così come l’orto nel chiostro e il pozzo 239.
All’epoca di fra Buono risale l’ultimo e più completo campione della fattoria, nel quale
tornano, sistematicamente riassunti, obblighi, censi e fitti fin qui analizzati nel corso dei
secoli. Il libro si apre, infatti, con un censo per i padri di Ognissanti di Firenze pari a 15
barili di vino bianco da saldare il primo di ottobre, quindi prosegue con le congrue per i
sacerdoti regolari di Mucchio, Villa Castelli, Cerreto, San Michele di Macinatico, Santa
Lucia a San Mariano (quest’ultima per tredici messe all’anno, una il giorno della dedicazione alla santa). Seguono i livelli: quello Ximenes (4 staia di avena e 5 di spelda), cavaliere Michelozzi per le terre di Badia a Cerreto (3 staia di grano buono e mercantile), Luigi
Leoncini per le terre site in luogo La Valle sulle pendici di Volterra; quindi le case: Filippo
Conti per la casa di Certaldo 240, le due case ricavate alla badia di Cerreto (ognuna di 3 stanze) 241, le tre stanze presso San Casciano 242, la casa di San Gimignano (Domenico Celati, lire
20) 243, infine l’orto di Certaldo (Lazzero Viti) 244. Vi erano poi le decime da pagare. Badia
a Cerreto doveva avere ogni anno per decime parrocchiali staia 6 di grano (da rivalersene
la metà dai rispettivi lavori, per il podere del Bosco 3, per il podere della Fonte 2, per il
podere d’Oliveto 1) 245. La comunità di San Gimignano doveva avere ogni anno per decime parrocchiali dei poderi di Mucchio, Cassero e Fornacette staia 9 di grano in contanti,
scudi 9, soldi 4 e denari 4 da rivalersene la metà coi rispettivi lavoratori 246. Alla comunità
di Montaione si dovevano le decime parrocchiali dei poderi di Santa Maria di sopra (13,6,8),
Santa Maria di sotto (13,6,8), Casetta (6.13.4), San Mariano (13,6,8 a metà coi rispettivi
lavoratori) 247. La propositura di San Tommaso di Certaldo doveva ricevere ogni anno il 15
agosto staia uno di grano per decima parrocchiale del podere di Pian d’Elsa a metà col lavoratore. Chiudeva la lista dei pagamenti il guardia dei boschi, pagato ogni anno il mese di
giugno staia 4 di grano, barili 2 di vino e lire 10 in contanti 248. Dal 1802 al 1807, inoltre,
i monaci camaldolesi avevano in affitto un podere a Macinatico dalle monache della Vergine
Maria e Santa Caterina di San Gimignano, concedendo la casa compresa nelle terre a loro
volta in affitto a Michele Bettini.
7. L’epilogo camaldolese: assetti proprietari dal regno d’Etruria all’Italia unita
Il punto di non ritorno fu segnato non tanto dal regime granducale lorenese, interessato
ancora a mantenere attivo il ruolo della Chiesa entro parametri legati, comunque, al controllo sociale, ma si ebbe con l’arrivo delle truppe napoleoniche e per la turbolenta organizzazione che nel primo decennio del XIX secolo vide anche un valdelsano, il dott.
239. Ivi, 86, 248, atto 11 dicembre 1796; ivi, 86, 195, affare 92.
240. Sostituito dal 1798 col muratore Andrea Pieragnoli (cfr. ivi, 86, 245, ad vocem).
241. Una affittata a Giuseppe Malatesti, quindi fino al 1799 a Filippo Marconi, e poi a Benedetto Marconi fino
al 1802 e a Celeste Provedi da quest’ultimo anno. L’altra a Piero di Paolo Chiavistelli e Teresa Chiavistelli vedova
Maestrini fino al 1804 e quindi a Giuseppe Manni (cfr. ivi, 86, 245, ad vocem).
242. Affittate a Gaspero Galgani fino al 1803 e quindi a Maria vedova di Piero Lacheri (cfr. ivi, 86, 245, ad vocem).
243. Ivi, 86, 245, ad vocem.
244. Ibidem.
245. Ibidem.
246. Ibidem.
247. Ibidem.
248. Ibidem.
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Badia Elmi
Francesco Chiarenti, arrivare ai massimi gradi del potere tra il 1800 e il 1801 249. Il breve
periodo napoleonico comportò per la conquistata Toscana un cambiamento copernicano nella concezione sociale ed economica della Chiesa. Il sistema di governo introdotto
dai francesi, infatti, riconobbe a una rete ecclesiatica secolare di tipo gallicano asservita
all’imperatore un ruolo socio-politico, ma destituì di ogni legittimità la religiosità regolare, dei cui beni, peraltro, il demanio francese aveva bisogno al fine di incassarre l’enorme
quantità di denaro che poteva essere messa a bilancio da un esproprio generale delle sostanze pertinenti agli enti ecclesiastici. Non è questa la sede per analizzare le modalità che condussero alla soppressione e all’incameramento dei beni da parte dell’Impero. Difficile è
del resto desumere dalla documentazione esistente se le congregazioni – quella camaldolese nel nostro caso – avessero messo in atto strategie di mobilizzazione delle proprietà.
Per Badia Elmi i registri non sembrano contenere nessun dato valutabile come straordinario in rapporto agli anni che dal 1804 sfociarono nel 1808, quando giunsero per tutte
le famiglie religiose i provvedimenti di totale soppressione 250. Si continua, infatti, a segnalare l’ordinarietà dell’amministrazione, coadiuvata per questi anni anche da una donna
con il ruolo di fattoressa, Nunziata Olmi 251, ben conosciuta anche dal camerlengo della
casa fiorentina degli Angeli. I toni generali della corrispondenza non fanno trasparire alcuna preoccupazione da parte dei monaci, come si evince da questa lettera diretta all’agente di Elmi: «vi ringrazio per le galline, e del vino beato, che mi avete favorito, il reverendo generale vi saluta e vi ringrazia tanto del vino mandatogli che ha gradito moltissimo.
Vi mando l’astuccio del Biozzi ed il cucchiaione, forchettone, e trinciante del reverendo
Bianchi tutti bruniti e ripuliti e ho speso per la brunitura lire 14.[…] Salutate la Nunziata,
che sento abbia deposto il proposito di prendere marito. Vogliatemi bene» 252.
Mentre il padre Francesco Gori stava ricomprando, con i denari dei Camaldolesi, gran
parte dell’arredo per la Badia a Cerreto (compreso un breviario monastico con santi fiorentini camaldolesi) 253 e a Badia Elmi risiedeva il converso Romualdo Bandelli con il suo
servitore Luigi Naldi, che continuava ad amministrare regolarmente i possedimenti e che
nel maggio del 1808 versò persino la quota di 4 lire e 16 soldi al fornaio Francesco Scali
affinché fornisse del pane ai frati di San Vivaldo per fare elemosine 254, giunse il decreto di
soppressione del 24 marzo 1808. Il contenuto della legge era semplice e chiaro. Risultavano
soppressi tutti gli Ordini religiosi e i loro beni dovevano essere ipso facto amministrati da
Ricevitori posti alle dipendenze dell’Amministratore generale del Registro e del Demanio
della Toscana. Le ordinanze del 16 e 29 aprile successivi stabilirono le modalità con cui i
beni avrebbero dovuto essere trasferiti al Demanio. Si prevedeva, peraltro, che si procedesse subitaneamente alla messa a frutto, in capo all’Impero, dei beni stabili, vendendo o
ripartendo quanto attenesse ad arredi e mobilio. Ad un mese di distanza dalle ordinanze,
il 27 giugno 1808, il solerte commissario delegato e abile politico sangimignanese Antonio
249. Il perfido giacobino dottor Chiarenti. I manoscritti inediti di e su Francesco Chiarenti, medico, politico,
maire, agronomo, a cura di R. Salvestrini, Firenze 2009.
250. Cfr. a tale proposito il libro di stime e conti correnti dall’anno 1807 segnato C (ASFI, Corporazioni, 86, 248).
251. Ivi, 86, 247, lettera 31 gennaio 1806.
252. Ibidem.
253. ASFI, Corporazioni, 86, 247, nota del 7 novembre 1806 e seguenti.
254. Ivi, 86, 247, nota del 9 maggio 1808.
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Moggi 255 della sottoprefettura di Livorno – dipartimento del Mediterraneo – espelleva l’agente di Elmi Romualdo Bandelli e firmava i registri contenenti le stime del bestiame rinvenuto nei poderi 256, sancendo così la fine di otto secoli di presenza camaldolese nella zona.
La repentina azione provocò un conflitto burocratico con la prefettura del dipartimento
dell’Arno, più lenta nell’attuazione del decreto e delle ordinanze. I commissari fiorentini
nel redigere i conti relativi al monastero degli Angeli scrivevano, infatti: «il presente stato
non dimostra la preciosa annua rendita del convento suddetto perché mancano l’entrate
della Fattoria di Certaldo […] essendo stato espulso l’agente 257 per ordine del signor
Commissiario Antonio Moggi coll’espressa dichiarazione che quei beni appellavano alla
di lui giurisdizione furono da esso chiusi i libri di amministrazione per mezzo de’ quali se
ne dovevano ricavare gli annui prodotti» 258. Con alcune insistenze e riconoscendo la giurisdizione del Moggi su Badia Elmi (anche se poi egli fu accusato dalla stessa polizia di
aver rubato tutta la biancheria del monastero) 259, gli impiegati prefettizi fiorentini riuscirono comunque ad entrare in possesso dei conti di ogni singolo podere, con particolare
attenzione ai crediti dovuti ancora dai contadini al cenobio fiorentino, annotando però
che «il credito risultante dallo stato contro i coloni attuali … non può considerarsi esigibile nella sua totalità mentre simili debitori sono affatto privi di mezzi onde estinguerlo
ed in qualunque tempo e circostanze in cui si siano dovuti fare atti contro i medesimi i tribunali istessi non hanno considerato il loro debito che per la quinta parte, poiché è da
aversi riflesso che questi hanno creato il debito o per mortalità di bestiame o per scarsità
di raccolte, motivo per cui i proprietari degli effetti sono spesso obbligati a somministrare ai medesimi il necessario sostentamento. Il costringere i coloni attuali al pagamento non
è che pregiudicare all’agricoltura» 260.
Se a Firenze ci si era concentrati sul complesso generale dei beni camaldolesi degli Angeli,
a Volterra, nella sottoprefettura del luogo, il 30 novembre dello stesso anno si era già completata la pratica, aggiudicando l’intero complesso di Elmi al signor Ranieri Doveri. Lo stesso affittuario, contemporaneamente al perito nominato dal ricevitore del demanio di Colle,
si recò in quel giorno alla fattoria per stabilirne le confinazioni e le stime del bestiame e per
255. Antonio Moggi, originario di San Gimignano, figlio di un medico condotto, decorato insieme al fratello
Giovacchino della croce al merito, venne poi interdetto dai pubblici uffici nel 1799 perché sospettato di un avanzato progressismo. Fu riabilitato nel 1804. Per conto del governo francese ricoprì numerosi incarichi fino a provveditore della camera fiorentina (cfr. Pecori Storia della terra di San Gimignano cit., p. 309).
256. ASFI, Corporazioni, 86, 248. A Santa Maria di Sopra: 4 manzi, 1 somara con 2 allievi, 2 maiali, 22 pecore
comprese le allieve, Giuseppe Pineschi lavoratore; a Santa Maria di Sotto: 4 manzi, una cavalla con muletto, una
somara, 8 tra scrofe e maiali, Niccola Pertici e Amaddio Pertici nipote lavoratori; a La Casetta: 2 manzi, una mula,
50 agnelli (venduti), 3 maiali, Giuseppe Montagnani Lavoratore; a Pian d’Elsa: 2 manzi, 2 vitelli, Giovanni Bandini
lavoratore; a la Fonte: 2 manzi, 3 vacche, una somara, 7 scrofe e maiali, 23 pecore comprese l’allieve, Giuseppe
Ciampalini lavoratore; a Oliveto: 2 manzi, 2 maiali, 25 pecore comprese l’allieve, Francesco Verdiani lavoratore; a
Bosco: 2 manzi, 4 manze e una reda, cavallo, una scrofa e 2 maiali, 25 pecore, Giovan Battista Verdiani lavoratore;
a San Mariano: 2 giovenchi, 2 manze e una reda, una somara con redo, 2 scrofe e maiali, 112 pecore e allieve, Giuseppe
Marrucci lavoratore; a Fornacette: 2 manzi, 2 cavalle, 12 maiali, pecore e allieve n. 70, Giuseppe Ciappi lavoratore;
a Mucchio: 2 manzi, 3 maiali, pecore e allieve 20, Luigi Pasqualetti lavoratore; a Cassero: 2 manzi, 2 manze e un
redo, una somara, 7 scrofe e maiali, Gaetano Magnaioni lavoratore.
257. Ritroviamo il converso Romualdo Bandelli prendere in affitto insieme ad altri non meglio precisati locatari
una fattoria vallombrosana a Sant’Ellero (Valdarno superiore), anch’essa soppressa con i decreti del 1808 (cfr.
Fantappiè, Il monachesimo cit., p. 297).
258. ASFI, Corporazioni, 86, 249.
259. G. Marcotti, Cronache segrete della Polizia Toscana, Firenze 1898, p. 181.
260. ASFI, Corporazioni, 86, 249.
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Badia Elmi
procedere alla descrizione dello stato delle fabbriche. I poderi che la fattoria allora contava
erano dieci. Del patrimonio che un tempo apparteneva ai religiosi rimanevano uniti i poderi denominati: Santa Maria di Sopra, Santa Maria di Sotto, della Casetta, di Mucchio, delle
Fornacette, del Cassero, di San Mariano, del Bosco, dell’Uliveto e della Fonte. Vi erano,
quindi, la casa a San Gimignano di 10 stanze e la casa unita alla chiesa di Cerreto, mentre
la fattoria di Elmi si era notevolmente ampliata grazie alle ristrutturazioni condotte alla fine
del secolo precedente, contando adesso quaranta stanze, due colombaie, due tinaie con dieci
tini di sasso, due terrazze e tre logge. La coltivazione in grandissima misura più diffusa era
quella della vite, con alcuni poderi che andavano dalle 4.700 alle 5.500 piante, seguita da
quella dei pioppi e maglioli (probabilmente vicino all’Elsa), cui ben si adattavano i letami
prodotti dagli ovini, l’allevamento dei quali occupava gran parte dei poderi che contavano
greggi tra le 70 e le 140 unità 261.
La complessa amministrazione imperiale e la moltitudine di problemi a cui cercò di porre
una soluzione resero ben presto necessario il ricorso ai beni di Elmi. Le rendite dell’affitto
del Doveri, infatti, furono convertite a favore del mantenimento dello studio Pisano a norma
dei decreti del 21 novembre 1808, e 4 maggio e 5 agosto 1809, tramite i quali il governo
francese assegnava all’università di Pisa, in sostituzione dei 16.000 scudi individuati per il
mantenimento dall’ordinamento leopoldino, 112.500 franchi che non andavano a gravare direttamente sulle casse statali, ma provenivano da affitti di beni immobili già appartenuti alle congregazioni religiose da poco soppresse 262. Tra i beni conferiti all’università pisana, composti complessivamente da 16 fattorie e 21 poderi, vi era anche Badia Elmi 263. La
gestione complessiva delle sostanze, analizzata in un saggio di Romano Paolo Coppini,
sembra avvenisse con grande profitto per l’ateneo, grazie alle cure del professore di diritto
canonico Francesco Foggi; ma ancora una volta il nuovo assetto finanziario ed istituzionale raggiunto non fu destinato a permanere.
Pochi anni più tardi il ritorno al trono delle casate regnanti nel generale quadro di restaurazione seguito alla sconfitta del sogno imperiale napoleonico portò nuovamente in auge
la tradizionale politica ecclesiastica degli ultimi Lorena. Ai trattati con la Santa Sede per il
ripristino delle prerogative proprietarie e fiscali del granducato 264, nei quali si prospettava
il reintegro dei beni agli istituti soppressi, e alla diffidenza che Neri Corsini e tutto il nuovo
ambiente di corte nutrivano nei confronti dello studio pisano palesata nel regolamento di
polizia per l’università del 13 dicembre 1814, l’ateneo cercò di fare fronte nella speranza
di mantenere l’appannaggio concesso dal precedente governo e quindi anche la proprietà
di Badia Elmi. Il professor Beniamino Sproni, provveditore generale dell’università di Pisa,
nel tentativo di difendere la nuova autonomia raggiunta dall’ateneo, propose di riconoscere la qualità di «beni alienati» agli effetti concessi a norma dei decreti del 1808-1809,
in modo da impedire de jure la restituzione degli stessi alle ripristinate congregazioni reli261. ASFI, Miscellanea B Demanio Francese, fascicolo 648. Cfr. l’Appendice 2 al presente lavoro.
262. R. Boudard, Le décret de création de l’Université impériale de Pise et son application entre 1810 et 1814
dans le trois départements toscans, Pisa 1978, p. 75.
263. ASUP, Università, E. III. 2. Cfr. anche R.P. Coppini, Dall’amministrazione francese all’unità (1808-1816),
in Storia dell’Università di Pisa, 1737-1861, II parte I, a cura della Commissione rettorale per la storia dell’Università
di Pisa, Pisa 2000, pp. 135-267: 138.
264. G. Paolini, Il concordato toscano del 1815 sugli ordini religiosi. Documenti inediti, Firenze 2006; Id.,
Toscana e Santa Sede negli anni della Restaurazione 1814-1845, Firenze 2006.
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giose. I suggerimenti economico-fiscali dello Sproni non fecero breccia, però, all’interno
del restaurato tessuto culturale, e allo scadere delle locazioni, tra il 1814 e il 1817,
Rospigliosi restituì tutti i beni fondiari, tra cui Badia Elmi, alle rispettive autorità ecclesiastiche cui erano appartenuti 265. Per brevissimo tempo, così, Badia Elmi tornò ad essere una
proprietà camaldolese. La precaria situazione del monastero degli Angeli di Firenze sempre più accerchiato da quell’ospedale di Santa Maria Nuova che ne ingloberà tutto il complesso 266 e le sempre più flebili risorse umane e materiali della stessa congregazione provata da cinque anni di sbandamento e povertà causate dalla soppressione, non suggerirono
ai Camaldolesi di mantenere il possesso valdelsano.
Certo è che negli anni immediatamente precedenti il 1829, sebbene l’Isolani lo voglia
venduto nel 1826, il monastero di Elmi doveva essere ancora di proprietà camaldolese,
come ben si evidenzia in un diario di viaggio di tre religiosi edito in una recente tesi di dottorato 267. Il canonico Gaetano Talej originario di San Gimignano, il sacerdote Jacopo
Bartolini originario di Volterra, economo spirituale della Badia a Cerreto, insieme al converso camaldolese Silvestro Bernardini originario di Pisa, evidentemente residente alla fattoria di Elmi e organizzatore del viaggio, in quell’anno varcarono le soglie del granducato per recarsi a visitare la città eterna. «In origine di questi pensieri, nella cucina della
Badia a Elmi propose il Bartolini a fra’ Silvestro, quanto dava, o prendeva, per andare, e
tornare da Roma» 268. Appare, quindi, chiaro che il viaggio era stato pianificato almeno
l’anno precedente, nel 1828, e che a quella data a Elmi risiedeva ancora un converso della
congregazione.
Il paradosso della conservazione documentaria, di pubblica fruizione e piuttosto completa quella dovuta alla centralizzazione degli archivi voluta dall’Impero napoleonico, al
contrario frammentaria e di non facile fruizione quella ancora conservata presso gli Ordini
religiosi, tende a mantenere per queste date, seppur così vicine al nostro presente, una qualche incertezza. Nonostante che Emanuele Repetti nel suo Dizionario abbia voluto vedere
Badia Elmi negli anni Quaranta dell’Ottocento di proprietà dell’abbazia di San Giusto di
Volterra 269 – notizia riportata nel 1864 anche dal Cappelletti nel volume XVIII de Le chiese d’Italia 270 –, Luigi Consortini, religioso della congregazione della Madre di Dio, nel suo
volume sulla badia dei Santi Giusto e Clemente di Volterra ben evidenzia come dopo la
soppressione napoleonica il monastero volterrano fosse stato ricostituito, nel 1816, soltanto con l’assegnazione di due poderi già in possesso dell’istituto a Certaldo e a
Pulicciano 271. È quasi certo, infatti, che alla fine degli anni Venti del XIX secolo l’intero
complesso fu aggiudicato a Michele Landi di Antonio, un maggiorente di Castellina in
265. Coppini, Dall’amministrazione cit., pp 158-161.
266. Le trattative per la permuta del monastero degli Angeli con altro locale andarono avanti durante tutto il
1839, condotte dal priore generale Ambrogio Bianchi (cfr. AAFI, Segreteria degli arcivescovi, mons. Ferdinando
Minucci, 31, 31 1-10).
267. P. Cipriani, Viaggiare tra Risorgimento e Restaurazione. Tre religiosi toscani a Roma nell’anno 1829, Tesi
di dottorato, Corso di Dottorato di Ricerca in Storia e cultura del viaggio e dell’odeporica in età moderna, XXII ciclo,
tutor prof. G. Platania, a.a. 2006, Università d. S. della Tuscia.
268. Cipriani, Viaggiare cit., p. 318.
269. Repetti, Dizionario cit., I, p. 50.
270. G. Cappelletti, Le chiese d’Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni, XVIII, Venezia 1864, p. 263.
271. Consortini, La Badia dei SS. Giusto e Clemente cit., p. 62.
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Badia Elmi
Chianti la cui famiglia aveva già acquisito nel 1780 la tenuta di Bibbiano, che Michele nel
1833 rivendette a Tommaso di Bartolomeo Corsini 272. Il Landi proprio negli anni in cui
entrava in vigore il catasto geometrico, risultò l’unico possessore della tenuta di Elmi, una
delle quattro fattorie presenti nel comune di San Gimignano 273, a cui la zona di Pulicciano
era stata allora annessa 274; e figurò come uno dei più grandi latifondisti della medesima
località, con una superficie totale di proprietà pari a 16.300.757 braccia quadre 275. Pochi
anni più tardi, il 31 ottobre 1838, il Landi vendette ai monaci di San Giusto di Volterra
parte delle terre poste nella sezione D del catasto 276; e ancora nel 1857 furono vendute
all’abbazia volterrana altre terre della sezione B e D 277. Si esprimeva, così, un tardo tentativo camaldolese di riappropriarsi di ciò che un tempo aveva costituito la proprietà valdelsana in termini di tradizione, di storia, ma anche prettamente di risorsa economica.
Il tentativo, in parte anche riuscito, naufragò successivamente a causa della legislazione emanata dal nuovo governo nazionale dell’Italia unita, che nel 1866 impose un nuovo
decreto di soppressione generale delle congregazioni religiose, determinando così che la
quota di possessi della ex Badia Elmi ricomprata dal monastero di Volterra divenisse dal
1868 di pertinenza del Demanio nazionale 278. La parte più consistente della proprietà
camaldolese valdelsana, compresa la fattoria di Elmi, rimase sempre saldamente nelle mani
di Michele Landi, obliterando il nome dell’antichissimo monastero con il nuovo e decisamente più borghese epiteto di Villa Landi con il quale il complesso verrà identificato
fino a tempi a noi molto recenti.
La famiglia Landi continuò a mantenere attraverso le generazioni il quasi totale possesso dell’antica proprietà camaldolese. Il 2 maggio del 1845 la proprietà passò da Michele
Landi in eredità indivisa a Luigi, Giovanni, Filippo e Giuseppe suoi figli 279. Nel 1857 la creazione di un nuovo fosso portò alla perdita di alcune porzioni della fattoria a favore della
comunità locale, e nello stesso anno piccoli appezzamenti furono ceduti dai Landi ai fratelli Lorenzo e Gaspero Barnini di Gaetano 280. Nel 1870, epoca alla quale risale la creazione
di un bosco di cipressi e querce nella zona di Mucchio 281, la proprietà era ancora intestata
ai fratelli Luigi e Filippo 282, il primo dei quali, accusato di conservatorismo e clericalismo,
272. Cfr. C. Pazzagli, La proprietà fondiaria tra Otto e Novecento, in La Val di Pesa dal Medioevo a oggi, a cura
di I. Moretti, «Il Chianti Storia Arte Cultura Territorio», 21, 2000, pp. 93-108: 101.
273. Le fattorie erano: Elmi, Cusona, Del Monte e Pietrafitta (cfr. L. Verdiani, Analisi all’impianto del catasto
geometrico leopoldino per il comune di S. Gimignano, tesi di laurea in Geografia, Università d. S. di Siena, relatore
Prof. B. Vecchio, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1981/1982, p. 118).
274. Nerli, Problemi di confine cit., p. 47.
275. Ivi, p. 142. Il più grande proprietario di terre a San Gimignano risultò il marchese Luigi Tempi del marchese Ferdinando, seguito da Vittorio e Alamanno Vecchi di Niccolò, quindi dal monastero della Madonna di Siena, dal
conte Francesco Guicciardini (Cusona) e da Michele Landi proprietario di 14 poderi e una fattoria a Elmi. In totale
Michele Landi possedeva nella sezione A 4.264.218 braccia quadre, nella sezione B 9.642.747, nella sezione C 787.668,
nella sezione D 433.706, nella sezione P 1.172.418.
276. ASSI, Catasto, San Gimignano, Campione n. 4, c. 575.
277. Ivi, Campione n. 4, c. 630.
278. Ivi, Campione n. 1, c. 1.
279. Ivi, Campione n. 4 da 574 a 781, c. 575.
280. Ivi, Campione n. 4 da 574 a 781, c. 629.
281. Segnalato di età di circa 60 anni nel 1934 come proprietà della signora Ida Landi (Tenuta Badia Elmi), cfr.
A. Pavari, Monografia del cipresso in Toscana, Firenze 1934, p. 156.
282. ASSI, Catasto, San Gimignano, Supplemento campione n. 2, c. 2491.
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Badia Elmi: vita e patrimonio di una fattoria camaldolese dal XVI al XIX secolo
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risulta connesso a varie imprese in cui il localismo espresso nella donazione (1888) delle
nuove campane di Sant’Eusebio alla Canonica 283 si mescolava con gli interessi economici
per il mulino sull’Elsa 284, o con quelli di portata regionale legati al coinvolgimento nella
Società per il patrocinio dei liberati dagli stabilimenti penitenziari 285.
Nel 1882 Luigi Landi di Michele diventò usufruttuario di tutti i beni, cedendo però l’intera proprietà a favore dei figli Michele, Tristano e Augusto 286. Alla morte di Luigi nel 1889
per un breve periodo il complesso rimase indiviso, fino a che il 30 giugno 1899 venne ripartito tra Augusto, Michele e Tristano con atto registrato il 20 luglio e quindi recepito dal
catasto il 18 gennaio 1900 287. La stessa fattoria di Badia Elmi, descritta con le sue 36 stanze, cantina e tinaia, venne separata in tre unità immobiliari di due piani ciascuna, quella di
Tristano, la maggiore, con 15 stanze 288, quella di Augusto, con 12 289, e quella di Michele
con 9 290. La parcellizzazione dette inizio ad un vasto processo di frazionamento e dispersione. Se la parte di Augusto rimase intatta per essere venduta alla sua morte, avvenuta il
30 agosto 1938, a Pier Luigi Ridi di Alfredo il 29 aprile 1939 291, la parte di Michele, che
comprendeva la cripta, era già stata alienata l’8 novembre 1910 a Moderato Bordoni 292;
mentre la porzione di Tristano fu a sua volta divisa ricavandone una unità immobiliare di
due stanze per Lida Landi 293.
Affrancato nuovamente dalla proprietà privata e dall’epiteto di Villa, segnalato dal
sacerdote Socrate Isolani nel giugno del 1920 al colto pubblico dei lettori della rivista
«Arte e Storia» per i suoi «avanzi» architettonici 294, dichiarato in parte, fino dal settembre dello stesso anno, monumento di interesse nazionale 295, il complesso camaldolese,
smarrita la propria identità nel mercato immobiliare e nel ‘miracolo economico’ italiano
degli anni Sessanta del Novecento, ha trovato recentemente, attraverso la forza dei suoi
abitanti, la strada di una riscoperta storica e sociale che ha offerto nuova luce a quanti,
in un millennio di storia, hanno vissuto la propria vita tra quelle mura ed hanno amato e
maledetto quella terra; ai tanti nomi di religiosi, di contadini, di proprietari e di visitatori che hanno condotto, come potevano o sapevano, Badia Elmi fino a noi.
283. Chellini, San Gimignano cit., p. 251.
284. Schiarimento tra il sig. Luigi Landi e il sig. ingegnere Josia per la cessione delle acque del molino dell’Elsa a
Certaldo onde costruire una nuova grandiosa fabbrica, San Miniato 1876.
285. Società caritatevole per il patrocinio per i liberati dagli stabilimenti penitenziari del Granducato di Toscana,
rapporto 1854, 1855, 1856, Firenze 1858, p. 27.
286. ASSI, Catasto, San Gimignano, Supplemento campione n. 2, c. 2519.
287. Ivi, Registro partite, partita 193 e 707. È probabilmente a questa data che risale la vendita al Galli Dunn
della pala d’altare di Lorenzo Monaco (cfr. nel presente volume S. Spannocchi, Sul patrimonio artistico di un’antica
badia camaldoldese).
288. Ivi, Registro partite, partita 8650.
289. Ivi, Registro partite, partita 1034,
290. Ivi, Registro partite, partita 1035.
291. Ivi, Registro partite, partita 1034.
292. Ivi, Registro partite, partita 1035.
293. Ivi, Registro partite, partita 8650.
294. Isolani, La Badia di Adelmo,(Certaldo) cit.
295. Provvedimento del 23 settembre 1920 riguardante Avanzi dell’antica Badia di Adelmo. Un altro provvedimento a tutela del bene è stato emesso il 5 febbraio 1992 (Archivio SBAP Siena, 00384112, anno 1994, A. Callaioli).
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Badia Elmi
Appendice n. 1
(ASFI, Corporazioni, 86, 187, affare 25)
Inventario de’ mobili della badia nostra d’Elmi a Certaldo consegnato da me don Pietro Petri camarlingo del monastero degli Angioli di Fiorenza al priore don Marsilio Pacini governatore di detta badia
[1649].
In sagrestia.
Un calice, con coppa d’argento e patena di rame dorata di forma moderna.
Una pianeta rosa, una bianca, una paonazza usate e due nere delle quali una rotta, numero cinque
in tutto.
Due tonicelle gialle antiche.
Un paliotto simile antico con fregio di santi ricamati di seta.
Camici due vecchi 296, con suoi amitti e cordoni.
Una cotta vecchia.
Tovaglie per l’altare vecchie numero quattro.
Veli da calici di più colori numero sei usati.
Purificatoi tra rotti e buoni numero sedici.
Corporali usati numero sei e palle numero tre.
Un messale romano, tre vasetti di peltro per l’olio santo, chresima e chathecumenorum. Fazzoletti
per l’ampolle numero due.
Turribile, navicella e cucchiaro d’ottone usati numero uno.
Cartella inscritta indulgenza plenaria.
Un libro di canto fermo nel quale mancheno in principio e nel fine.
Vasi di fiori di terra a sufficienza, senza fiori lavorati. Tutta questa roba in un armadio d’albero 297 dietro all’altare.
//
In chiesa.
All’altare un paliotto di corame dipinto ed uno di maglia fondo di tela rossa attaccato alle cornicie dell’altare sopra del quale sono i gradini d’albero dipinti con tavola sopra antica tripartita in
lunette titolo d’ogni santi, con uno adornamento d’albero dipinti con predella ed otto candellieri
di legno dipinti, tavoletta per leggere, due cuscini di corame, un campanello per l’elevatione e una
pace di legno antica.
Una lampada d’ottone piccola, con sua palla e cappelletto decente.
Un Christo d’alabastro sull’altare.
Due portiere di sargia gialla dipinte alle due porticelle che vanno dietro l’altare.
Sono alle mura della chiesa:
Quadri antichi di varii santi attaccati n. .14., tra quali è il beato Michele camaldolese.
Una tavola vecchia antica sopra la porta della chiesa.
Inginocchiatoi tre d’albero, panchette per le donne numero dieci.
Prima cammera nell’appartamento di sotto attaccato alla chiesa.
Un letto d’albero con colonne e pere simili sopra, e sopra cielo tornaletto giallo d’accia. Un saccone, uno stramazzo di capretto e uno di lana, con suo capezzale. Una coperta di lana nuova e un coltrone usato.
Altarino d’albero con un quadro di carta stampata cornice a torno dove è Christo crocifisso.
Due seggiole a braccialetti e due scabelli 298, uno scannello con suo sottopiede.
//
296. Bis script ed espunto.
297. D’albero in interlinea superiore.
298. Così nel ms.
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Badia Elmi: vita e patrimonio di una fattoria camaldolese dal XVI al XIX secolo
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Una cassa d’albero et un cappellinaio.
Impannata alla finestra e serrature e chiave 299 alla porta.
Cammera a lato alla detta.
Un letto d’albero, con colonne, e pere simili sopra, con suo sopracielo.
Un saccone e materassa di lana e capezzale.
Una coperta di lana nuova. Un cortinaggio di filodente bianco e vecchio attaccato a detto letto
con tornaletto verde da piedi e due cuscini di piuma.
Due casse d’albero e dua cappellinai simili.
Un tavolino d’albero e panno verde torno.
Uno scaffale piccolo sopra detto tavolino et una panchetta.
Un altarino di cipresso con un’immagine di Christo crocifisso incorniciato.
Impannata alla finestra e serratura alla porta.
In saletta a lato alla detta camera.
Un tavolino d’albero con panca al muro simile.
Una credenza d’albero, un altro tavolino sopra per far credenza. Due paia di stadere, una che
porta libbre .230. e l’altra libbre .60.
In sala.
Un tavolino d’albero di braccia tre in circa.
Seggiole a braccialetti numero quattro.
Scabelli di noce cinque.
Seggiole di stiancia tre. Un cenacolo piccolo in stampa.
Un quadro di Cosimo II° Granduca di Toscana senza cornice.
Un tavolino vicino all’acquaio d’albero con suo gradino simile per far credenza.
Tre piede di legno con il catino da levar le mani.
Tazze e sottocoppe numero otto che due sono rotte.
Un’infrescatoio di rame e secchia e due brocche simili di rame.
Due staniate simili per metter l’acqua in tavola.
Due tondi di stagno.
Due candellieri antichi d’ottone per la tavola.
Lucernina d’ottone, al focolare due coprifuochi di ferro cattivi.
Alle quattro porte viti 300 in detta sala toppe e chiave a sufficienza.
Cammera a lato della detta sala.
Un letto con sue colonne di pero e sopra pere simili.
Saccone e matarassa di lana e capezzale con un coltrone usato.
Tornaletto, cortinaggio e sopracielo e coperta di filaticcio turchino e giallo usato.
Tre guanciali. Due casse di cipresso con sua serratura.
Un tavolino di 301 cipresso. Un altarino con un gradino d’albero dipinto di noce, con un quadro
di stampa dipinto Christo crocifisso, con sue cornice a torno.
//
Segue l’inventario della Badia a Elmi.
Impannata alla finestra e chiave alla porta.
Seggiole a braccialetti e attaccacappe.
299. Chiave sottolineato nel ms.
300. Nel significato di cardini.
301. Segue Albero espunto.
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Badia Elmi
Nello scrittoio.
Uno scaffale grande da libri sopra d’un tavolino d’albero con uno scannello grande et una cassa
panca al muro con sue cassette. Uno caldaletto vecchio. Un marco da bollare di ferro. Una seghetta da nesti 302. Un succhiello et una sega maggiore.
Cammerino per andar di sopra.
Un letto d’albero con semplice sopracielo.
Un saccone sopra del quale è distesa una tenda della loggia per l’estate.
Un altarino d’albero con l’immagine di San Rocco.
Un cantero.
Cammera prima dell’appartamento di sopra acanto 303 alla chiesa.
Un letto d’albero con saccone e materassa e capezzale usati bene.
Un coltrone cattivo.
Cammera .2°. e .3°. non c’è niente.
Sala di sopra.
Due seggiole di stiancia cattive serratura e chiave alla porta.
Cammera ultima di sopra.
Un letto d’albero con capezzale e due materassi, uno di copecchio e l’altro di lana. Un coltrone
colorito. Due tavolini//d’albero vecchi e una cassa d’albero grande.
Cucina.
Due capi fuochi. Una catena da fuoco. Tegle di rame numero due. Paletta e molle. Catini di rame
due. Un tozzo per la mielata di rame. Padelle numero tre con una che non s’adopera.
Spiedi numero tre. Mannaio, ramaiolo e mescola di ferro. Tafferia di legna. Paioli numero due tra
grandi e piccoli. Un calderotto. Mortaio di petra. Pestapepe di legno. Piatti e pignatte a sufficienza.
Nella loggia di sotto.
Due secchie di rame rotte al pozzo.
Quadri sette dipinti di illustrissimi padroni e senza cornice.
Panche affisse al muro.
Nella loggia di sopra.
Ordita o da tele. Credenza vecchia. Una para di ceste e due gabbrie da piccioni e un paio di panchette da letto.
Nel forno.
Un’arca da farina. Madia da fare il pane. Un’asse.
Tavola e tavoletta da spianare. Stacci tre. Teli da coprire il pane numero cinque. Raspa di ferro.
Caciaia.
Coppi sette tra buoni e cattivi.
Cantina.
Botte tra buone e cattive tra piccole e grandi quindici.
Tini cinque vecchi, un tinello piccolo con penera.
302. Innesti.
303. Così nel ms.
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Badia Elmi: vita e patrimonio di una fattoria camaldolese dal XVI al XIX secolo
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In granaio.
Sacca tra buone e cattive numero quattordici.
Vadlio 304 alla franzese.
Un pettine da lino. Bugnole numero otto tra buone e cattive.
Uno staio, una pala e una misura d’un quarto.
Biancheria.
Lenzuola nuove numero sei, viate numero dodici, cattive numero due, due pezzi di lenzuoli rozzi
e grossi dalli quali se ne sono fatte 305 impannate per le finestre dal meglio delli .4. ultimi pezzi.
Tovaglie numero due grande usate, una sottile et una grossa.
Un cortinaggio di filodente usato. Uno sciugatoio usato.
Grembiali per la cucina numero cinque, che tre ne sono de’ rotti e stracciati.
Lavamani vecchi numero sette, che tre stramiati. Federe sei fra buone e cattive. Tovaglioli
usati numero quattordici. Tovaglioli nuovi grossi numero venti. Tovaglietta grossa per la cucina braccia .26. di panno.
//
Io infrascritto Marsilio camarlingo della Badia a Elmi ho ricevuto in consegna il sopradetto
inventario di mano proprio ho sottoscritto.
Questo di primo settembre 1649 in Elmi.
Appendice n. 2
(ASFI, Miscellanea B Demanio Francese, fascicolo 648)
Processo verbale di descrizione degli effetti e fabbriche, stime di bestiame e semi attenente alla
fattoria di Badia a Elmi proveniente dal convento degli Angeli di Firenze aggiudicata al sig. Ranieri
Doveri come dal contratto stipulato alla sottoprefettura di Volterra.
Questo dì 30 novembre 1808 io infrascritto perito nominato dal sig. ricevitore del Demanio di
Colle ed approvato dal signore Sottoprefetto di Volterra mi sono trasferito in compagnia del detto
signore ricevitore e del sig. Renieri Doveri affittuario alla Badia a Elmi per devenire alla descrizione dello stato attuale delle terre e di comune consenso ho fatto un esatto dettaglio dell’estensione
e confinazioni di esse. Numerazione delle piante e specie di coltivazioni come dall’annesso stato
segnato di lettera A.
Di poi ho formato altro stato quale racchiude la stima di tanto del bestiame che dei semi che ho
ritrovato nei suddetti effetti come vedesi sotto lettera B.
Finalmente mi sono occupato della descrizione dello stato delle fabbriche e case coloniche attenenti a dette terre come ritrovasi sotto lettera C.
Il tutto in conformità delle istruzioni e secondo le regole dell’arte.
Fatto alla Badia a Elmi lì 30 novembre 1808.
L’anno milleottocentootto questo dì 30 novembre io infrascritto perito eletto dal signore Sotto
Prefetto di Volterra con decreto del 30 mese ed in seguito dell’istruzioni ricevute dal sig. Ricevitore
del Demanio del Cantone di Colle mi sono trasferito nei seguenti poderi componenti la Fattoria
della Badia a Elmi proveniente dal già patrimonio degli Angioli di Firenze all’effetto di prendere
congnizione dello stato attuale delle case coloniche attenenti a detti poderi, la quale operazione è
304. Così nel ms.
305. Segue finestre depennato.
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Badia Elmi
stata da me eseguita alla presenza del predetto signore ricevitore e del signore Ranieri Doveri di
Firenze fittuario dei predetti beni, che unitamente a me si sono sottoscritti in piè del presente processo verbale come appresso.
N. 1 podere di Santa Maria di Sopra
Una casa da lavoratore composta di .9. stanze abitabili, .5. stalle, cantina e n. .2. celle, due logge,
forno, pollaio, due stabbi per i maiali e capanna segregata 306.
N. 2 podere di Santa Maria di Sotto
Una casa da lavoratore composta di .3. stanze abitabili , n. .4. stalle, n. .3. celle, una cantina,
una colombaia, tre logge, forno e capanna segregata.
Osservazioni: in detta casa vi mancano due travi di rimettersi, rilegare alcune aperture e rivedere i tetti.
N. 3 podere della Casetta
Una casa da lavoratore composta di .7. stanze abitabili, n. .4. stalle, n. .3. celle, un pollaio, .3.
logge, cantina e colombaia e capanna segregata.
Osservazioni: la detta casa bisogna rimettere dei correnti, rivedere i tetti e fare delle catene.
N. 4 podere di Mucchio
Una casa da lavoratore composta di .4. stanze abitabili, .5. stalle, una cella ed una cantina, un
terrazzo, forno, una capanna segregata ed unita alla medesima una cappella.
Osservazioni: in detta casa bisogna rifondare la parete rimettere dei correnti e mattoni, rivedere i tetti. Vi è un tino di legno di tenuta barili circa .38.
N. 5 podere delle Fornacette
Una casa da lavoratore composta di .5. stanze abitabili, .6. stalle, pollaio, cantina e tinaia con
un tino di sasso di tenuta barili circa .84. ed uno strettorio senza gabbia con più un forno, due loggie, tre stabbi per maiali e capanna segregata.
La qual casa dopo aver fatte le minute osservazioni l’ho ritrovata aver bisogno di rifare nella
stalla alcuni pezzi di mangiatoia, ripigliare alcuni pezzi di muro e rivedere i tetti.
N. 6 podere del Cassero
Una casa da lavoratore composta da n. .5. stanze abitabili, n. .5. stalle, due celle, in una d’esse
v’esiste un tino di sasso di tenuta barili .70.
Vi sono parimenti una colombaia ed una cantina con più due logge, forno, due stabbi per i maiali, e capanna segregata; la qual casa dopo aver fatte le più minute osservazioni l’ho ritrovata aver
bisogno di rifare alcuni pezzi di palchi, risarcire una cantonata, riguardare i tetti.
N. 7 podere di San Mariano
Una casa per uno del contadino composta di n. .7. stanze abitabili, n. .4. stalle, .2. celle, una
tinaia, ove v’esiste un tino di legno di tenuta barili .40.
Con più una cappella, n. .2. logge, forno, un terrazzo, n. .3. stabbi, e capanna segregata.
Qual casa dopo essere state fatte da me le opportune osservazioni l’ho ritrovata abbisognante
dei seguenti rifacimenti, cioè di rimettere .3. travi accomodare due mangiatoie, risarcire il muro
della capanna e rivedere i tetti.
N. 8 podere del Bosco
Una casa ad uso del contadino composta di n. .3. stanze abitabili, n. .5. stalle, una cella, colombaia, due logge, un terrazzo, forse e due stabbi per i maiali. Segregata da questa è la cantina e la
capanna;
306. A margine destro, poi depennato: la detta casa merita di rifarci alcuni pezzi di mattonato, visitare i tetti,
rimettere dei correnti, la spesa ascenderà a lire .120.
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Badia Elmi: vita e patrimonio di una fattoria camaldolese dal XVI al XIX secolo
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Qual casa dopo essere state fatte le opportune osservazioni l’ho ritrovata abbisognante dei seguenti risarcimenti: di rimettere una trave e correnti, rifare alcuni pezzi di mattonato e rivedere i tetti.
N. 9 podere dell’Uliveto
Una casa da lavoratore composta da n. .7. stanze abitabili, n. .4. stalle, una cella, due logge, un
terrazzo, forno, due stabbi per i maiali e una capanna segregata;
Dopo di essere state fatte le opportune osservazioni l’ho ritrovata abbisognante dei seguenti rifacimenti: di rimettere dei correnti, rifare alcuni pezzi di mattonato, e rivedere i tetti.
N. 10 podere della Fonte
Una casa da lavoratore composta da n. .13. stanze comprese n. .5. stalle, una cella, colombaia
ed uno stanzino per il cacio con più un terrazzo, forno, tre logge, due stabbi per i maiali e capanna segregata; in detta casa vi sono due serrami a stanghetta,
Qual casa dopo d’essere state fatte le opportune osservazioni l’ho ritrovata abbisognare dei seguenti rifacimenti: rimettere tre travi con alcuni correnti e rivedere i tetti, che ammonterà alla somma di
lire .140.
Una casa in S. Gimignano appigionata a Giuseppe Celati composta da terra a tetto di n. .10.
stanze compresa la cantina, due terrazzi e forno; considerato il necessario per risarcire la detta casa
ammonterà la somma di lire 50.
Una casa situata ed unita alla chiesa a canonica di San Pietro della Badia o sia Cerreto, composta di .9. stanze con più terrazzo, forno; in detta casa vi sono attualmente tre pigionali. Considerato
il necessario per risarcire la detta casa ammonterà alla somma di .80. lire.
4 novembre 1808.
Stima di paglie, fieni e conci dei poderi della fattoria della Badia a Elmi del soppresso monastero dei monaci degli Angioli.
Santa Maria di Sopra
Paglie .270.
Fieni .100.
Conci .130.
Totale .500.
Santa Maria di Sotto
Paglie .260.
Fieni .70.
Conci .190.
Totale .520.
Casetta
Paglie .200.
Fieni .70.
Conci .120.
Totale .390.
Mucchio
Paglie .90.
Conci .70.
Totale .160.
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Badia Elmi
Cassero
Paglie .190.
Fieni .40.
Conci .85.
Somma .313.
San Mariano
Paglie .160.
Conci .160.
Totale .320.
Fornacette
Paglie .240.
Fieni .70.
Conci .140.
Totale .450.
Fonte
Paglie .180.
Fieni .90.
Conci .120.
Totale .390.
Uliveto
Paglie .96.
Fieni .40.
Conci .100.
Totale .236.
Bosco
Paglie .200.
Fieni .150.
Conci .140.
Descrizione ed inventario del suolo e fabbriche della fattoria della Badia a Elmi del già soppresso
monastero dei monaci degli Angioli della città di Firenze.
4 novembre 1808
Casa di fattoria della suddetta Badia a Elmi posta nel popolo di Sant’Usebio alla Canonica comune di Montaione composta da terra a tetto di n. .40. stanze compreso due cantine, una cella, orciaia,
due colombaie, due tinaie, che in una d’esse insiste uno stettorio nuovo da stringere le vinaccie e n.
.10. tini di sasso di tenuta barile .775., una stalla, una rimessa, una cappella pubblica, una capanna, un pollaio e sette stanzini per diversi usi con più due terrazzi piccoli ed uno grande per stendere uve, forno e n. .3. logge coperte di terrecotte che una per il sugo, una per il germe e l’altra nel
cortile. A dette stanze vi è tutto il suo serrame di diverse qualità.
La spesa che potrà occorrere per i pronti risarcimenti con dover rimettere un cavalletto in granaio, risarcire due logge e rivedere le terra ascenderà a lire .160.
L’orto attenente a detta fattoria e la sua estensione quadrati .1 ½. parte seminativa e parte per
piantar postime, nel quale attualmente esiste:
n. .1155. viti che .260. poco buone,
.11. ulivi poco buoni,
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.14. peschi tutti piccoli,
.7. fichi poco buoni,
.30. cipressi tutti piccoli,
.3. gelsi,
.7. meli tutti piccoli,
.1. albicocco,
e vi sono ancora due piantonai, che una d’ulivi di numero .170. e l’altra di pioppi n. .160.; per
il mantenimento dell’orto vi abbisognano .200. pali per la buona manutenzione delle viti ed un pò
di semeria.
Podere di S. Maria di Sopra posto nel suddetto popolo e comune con casa lavoratore unita a
quella di fattoria composta da terra a tetto di .16. stanze e compreso n. .5. stalle cantina, n. .2. celle
con più due logge, forno, pollaio, due stabbi per i maiali e capanna segregata.
In detta casa vi esiste n. .4. serrami che n. .3. con toppa e chiavaccio ed uno con chiave.
I pronti rifacimenti che in essa sono da farsi con rimetter dei correnti, rifare alcuni pezzi di mattonati e riveder le tetta, la spesa ascenderà a lire .120.
Il suddetto podere è composta di quadrati .29., salvo terra seminativa che quadrati .23. pomata e il restante spogliata, al quale confina a levante il signore marchese Tempi, ed a ponente il signor
abate Martelli; contiene in esso l’appresso piante cioè:
.5418. viti che .370. cattive,
.1700. pioppi che .240. cattivi,
.162. maglioli ai quali manca n. .90. pioppi,
.16. peri poco boni,
.34. meli che .10. cattivi,
.16. susini che .10. cattivi,
.27. cipressi che .4. dei grossi e gl’altri dei piccoli,
.42. gelsi che .4. cattivi,
.55. alberi tutti piccoli il più giovane di anni .2.,
una noce,
un canneto,
con annesso a detto podere vi sono due campi spezzati che uno è denominato il Campino di .½.
quadrato terra seminativa con .26. viti e .17. pioppi in cattivo stato, al quale confina a levante con
il signor Tommaso Mugnai e da ponente con il signor Niccolò Luparelli. L’altro denominato il
Campaccio di quadrati uno a seme spogliato, col quale confina a levante il suddetto Luparelli ed a
ponente il signor marchese Xime[ne]s.
In detto podere vi abbisogna per il mantenimento delle viti e maglioli .250. pali.
Podere di S. Maria di Sotto posto in detto popolo e comune con casa da lavoratore composta
da terra a tetto di .11. stanze compreso .4. stalle, .3. celle, una cantina ed una colombaia con più
tre logge, forno, tre stabbi per i maiali e capanna segregata.
In detta casa vi è tre serrami che .3. a chiave e l’altro a chiavaccio.
I pronti rifacimenti in essa da farsi con rimettere due bravi, rilegare alcune aperture rifare un
uscio, rivedere le tetta, in tutto sarà la spesa di lire .180.
Il suddetto podere è composto di quadrati .32. salvo terra seminativa che quadrati .28. pomata
ed il restante spogliata al quale confina a levante il signor marchese Tempi, ed a ponente il podere
della casetta ed in esso contiene l’appresso piante:
.4650. viti che .220. cattive,
.1030. pioppi che .140. cattivi,
.300. maglioli ai quali manca n. .110. pioppi,
.15. peri che .6. cattivi,
.16. gelsi che .9. cattivi,
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Badia Elmi
.22. meli che .10. cattivi,
.3. noci che uno piccolo,
.330. alberi, che .60. mezzani, ed il resto di .2. anni,
due canneti.
Nel di là detto podere abbisogna per il mantenimento delle viti e maglioli n. .280. pali.
Podere della Casetta posto in detto popolo e comune, con casa da lavoratore composta da terra
a tetto di .16. stanze compreso n. .4. stalle, tre celle, cantina, colombaia ed un pollaio, due stabbi
per i maiali e capanna segregata.
In detta casa vi è cinque serrami che tre con toppa e chiave e due con chiavaccio.
I pronti rifacimenti sono: rimettere diverse correnti e fare alcune leghe per assicurarsi da una
rovina e rivedere le tetta, in tutto la spesa sarà di lire .140.
Il suddetto podere è composto di quadrati .26., salvo (ma assai danneggiato dal fiume Elsa come
pure gl’altri due poderi contigui, S. Maria di Sopra e S. Maria di Sotto) terra seminativa ed a pastura che quadrati .22. pomata, quadrati due spogliata e quadrati due sodiva a pastura, al quale confina a levante il podere di S. Maria di sotto, a ponenti il signor marchese Dolfi ed in esso esistevi l’appresso piante:
.3610. viti che .200. cattive,
.780. pioppi che .122. cattivi,
.325. maglioli i quali manca .80. loppi,
.27. tra meli, peri e ciliegi che .12. poco buoni,
.59. ulivi che .9. grossi ed il resto piantati anni sono .14.,
.712. alberi che .400. mezzani ed il resto piantati l’anno scorso.
Nel suddetto podere vi è un paretaio con casino murato, toppa e chiave.
Similmente esiste in detto podere una fornace da calcina e lavora in buon grado con parapetti e
corso murato e due logge, nella quale trovasi mattoni .1100., quadrucci .1000., mattoncini .300.,
quadroni .400. e calcina moggia .4.
Vi sono annessi a detto podere due campi che uno è posto nel comune di Certaldo e popolo di
S. Tommaso di detto luogo di quadrati .½. di terra seminativa e pomata, luogo detto la Casetta,
confina a levante il signor marchese Tempi ed a ponente il signor Antonio Landi e vi sono le appresso piante:
.290. viti che .42. cattive,
.142. pioppi che .60. cattivi,
.134. maglioli ai quali manca n. .60. loppi.
L’altro campo situato nel popolo di S. Piero alla Badia comune di Montaione, luogo detto i
Capperi, quadrati .2. terra seminativa e pomata confinata da ambo le parti dal sig. abate Martelli,
e vi sono l’appresso piante:
.320. viti che .5. cattive,
.130. pioppi che .15. cattivi.
A detto podere e campi annessi v’abbisogna per il mantenimento delle viti e maglioli .240. pali.
Podere di Mucchio posto nel popolo di S. Maria Villa Castelli comune di S. Gimignano con casa
da lavoratore composta da terra a tetto di n. .11. stanze compreso .5. stalle, una cella ed una cantina con più un terrazzo, forno, una capanna segregata ed unita alla medesima, una cappella. Ci è
un tino di legno di tenuta di barili .38.
In detta casa vi è tre serrami tutti a stanghetta e chiave.
I pronti rifacimenti da farsi sono: rifondare la parete del muro che resta a ponente a scanso d’una
rovina, e riveder le tetta la spesa sarà di lire .136.
Il di là detto podere è composto di quadrati .25., salvo terra seminativa ed a pastura che quadrati .7. pomata, quadrati .14. spogliata e quadrati .4. sodiva a pastura, al quale confina a levante il signor Antonio Landi e a Ponente il Mannucci ed in esso esiste l’appresso piante.
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.780. viti n. .90. cattive,
.200. pioppi che .30. cattivi,
.60. maglioli ai quali manca i pioppi n. .60.,
.228. ulivi che n. .8. cattivi,
.24. peri e meli che .10. cattivi,
.16. fichi che .6. cattivi,
.23. alberi .9. dei grossi ed il più piccolo ha .2. anni.
Vi sono annessi a detto podere due campi che uno chiamato la Ripa di quadrati .1 ½. terra seminativa spogliata, confina a levante e ponente con il sig. Antonio Landi.
L’altro campo chiamato la Badiola di quadrati .3 ½. terra in parte seminativa, spogliata e parte
sodiva, confina a levante il Mannucci a ponente il podere delle Fornacette.
Per il mantenimento di vite e maglioli v’abbisognano di .100. pali.
Podere delle Fornacette posto nel popolo di S. Lucia a S. Benedetto comune di S. Gimignano con
casa da lavoratore composta da terra a tetto di .14. stanze compreso .6. stalle, pollaio, cantina e tinaia,
entrovi un tino di sasso di tenuta barili .84. ed uno strettoio da stringer vinaccie senza gabbia con più
un forno, due loggie, tre stabbi per i maiali e capanna segregata. In detta casa vi sono tre serrami stanghetta e due a chiavaccio.
I pronti resarcimenti ivi da farsi sono rifare alcuni pezzi di mangiatoia ripigliare due pezzi di
muro e rivedere le tetta, la spesa ascenderà a lire .60.
Il suddetto podere è composto di quadrati n. .23., salvo terra seminativa ed a pastura che quadrati .6. pomata, quadrati .12. spogliata e quadrati .5. sodiva a pastura, al quale confina a levante il sign. Pesciolini ed a ponente il sig. Ciulli, in esso vi sono le appresso piante cioè:
.1150. viti che .66. cattive,
.180. pioppi che .33. cattivi,
.100. maglioli che quattro poco buoni,
.26. peri e meli che .12. cattivi.
Vi sono annessi a detto podere tre campi.
Il primo denominato Sermonti di quadrati .16. terra seminativa che quadrati .12. pomata ed il
resto spogliata, confina a levante con il suddetto Pesciolini e ponente Ciulli e vi sono l’appresso
piante.
.1720. viti che .70. cattive,
.500. pioppi che .89. cattivi,
.34. meli e susini che .9. poco buoni.
Secondo campo denominato le Badiole di quadrati .4 ½. terra seminativa spogliata; a levante
confina con il podere di Mucchio ed a ponente con il sig. Giovanni Ciulli.
Terzo campo denominato la chiesa di Macinatico di quadrati uno terra seminativa spogliata,
confinato da ambe due le parti da beni della chiesa di S. Benedetto.
I pali che v’abbisogna per il suo mantenimento sono .60.
Podere il Cassero posto sotto di S. Maria a Villa Castelli comune di S. Gimignano con casa da
lavoratore composta da terra a tetto di .14. stanze compreso .3. stalle, .2. celle che in una d’esse
v’esiste un tino di sasso di tenuta barili 70, una colombaia ed una cantina con più due logge, forno,
due stabbi per i maiali e la capanna segregata.
In detta casa vi sono due serrami, uno a stanghetta l’altro a chiavaccio.
I pronti rifacimenti da farsi sono: rifare alcuni pezzi di palchi, resarcire una cantonata e riveder
le tetta, la spesa ascenderà a lire .100.
Il suddetto podere è composto di quadrati n. .24. salvo terra seminativa ed a pastura che qua-
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Badia Elmi
drati .13. pomata quadrati .9. spogliata e quadrati .2. sodiva, al quale confina a levante il Veri della
Zambra ed a ponente gl’Innocenti ed in esso vi sono le appresso piante:
.2650. viti che .180. cattive,
.560. pioppi che .110. cattivi,
.200. maglioli ai quali manca .100. loppi,
.19. peri e meli cattivi n. .6.
.30. alberi che .12. grossi e gl’altri piccoli,
un canneto.
Vi sono annessi detto podere due campi, il primo nominato le Cantinacce di quadrati in terra
seminativa spogliata, confina a levante e ponente il soppresso monastero di San Gaggio.
Ed il secondo denominato di Lebbio di quadrati .1. terra seminativa spogliata, confina a levante il Contri ed a ponente gl’Innocenti.
I pali che abbisognano per il suo mantenimento n. .200.
Podere di S. Mariano posto nel popolo di S. Ferdinando a Montignoso nel comune di Montaione
con casa da lavoratore composta da terra a tetto di .15. stanze compreso .4. stalle, .2. celle, una
tinaia entrovi un tino di legno tenuta barili .40. ed una cappella con più due logge forno, terrazzo,
.3. stabbi per i maiali e capanna segregata.
In detta casa vi sono .4. serrami che due a chiavaccio e .2. a stanghetta.
Pronti risarcimenti da farsi sono rimettere tre trave, accomodare due mangiatoie, resarcire a
mezzo giorno il muro della capanna e riveder le tetta, in tutto sarà la spesa di lire .210.
Il suddetto podere è composto di quadrati .37. terra seminativa ed a pastura che quadrati .7.
pomata, quadrati .16. spogliata, quadrati .14. sodiva, al quale confina a levante il sig. marchese
Ximenes e da ponente il sign. conte del Venino, vi sono in esso le appresso piante:
.1860. viti che .110. cattive,
.500. pioppi che .120. cattivi,
.100. maglioli succisi,
.2. gelsi buoni,
.6. meli e susini che .6. poco buoni,
.20. fichi che .10. cattivi.
I pali che abbisognano per il suo mantenimento sono .50.
Podere del Bosco posto nel popolo di S. Piero alla Badia o sia Cerreto comune di Montaione con casa
da lavoratore composta da terra a tetto di n. .10. stanze, compreso .5. stalle, una cella e colombaia con
più due logge, un terrazzo, forno e due stabbi per i maiali e segregato da detta casa vi è la cantina e la
capanna.
In detta casa vi sono tre serrami che due a chiavaccio e uno a stanghetta.
I pronti resarcimenti da farsi sono rimettere una trave e correnti, rifare alcuni pezzi di mattonato e riveder le tetta, in tutto sarà la spesa di lire .90.
Il suddetto podere è composto di quadrati .55., salvo terra seminativa ed a pastura che quadrati .26. pomata, quadrati .14. spogliata e quadrati .15. sodiva, al quale confina a levante il podere
della Fonte ed a ponente il marchese Ximenes ed in esso vi è l’appresso piante cioè:
.3241. viti che .480. cattive,
.1035. pioppi che 0 cattivi,
.440. ulivi che .100. poco buoni,
.12. peri e meli che .4. cattivi.
I pali che abbisognano per il suo mantenimento sono .200.
Podere l’Uliveto posto nel suddetto popolo e comune con casa da lavoratore composta da terra
a tetto di .12. stanze compreso .4. stalle ed una cella con più due logge, un terrazzo, forno, due
stabbi per maiali, e segregato vi è la capanna.
In detta casa vi sono tre serrami, due a chiavaccio ed uno a stanghetta.
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I pronti risarcimenti ivi da farsi sono rimettere alcuni correnti e riveder le tetta, in tutto sarà la
spesa di lire .20.
Il suddetto podere è composto di quadrati .16., salvo terra seminativa ed a pastura che quadrati .11. pomata, quadrati .3. spogliata, quadrati due a pastura, al quale confina a levante il podere
della Fonte ed a ponente il podere del Bosco e vi sono l’appresso piante cioè:
.980. viti che n. .30. cattive,
.304. pioppi che .150. cattivi,
.50. maglioli ai quali manca .12. loppi,
.220. ulivi tra grossi e piccoli, tra i quali ve ne sono .75. cattivi,
.31. peri e meli che .9. cattivi,
.2. alberi piccoli,
.8. pini piccoli,
.2. cipressi buoni.
I pali che abbisognano per il suo mantenimento sono .60.
Podere detto la Fonte posto nel suddetto popolo e comune con casa da lavoratore composta da
terra a tetto di n. .13. stanze compreso .5. stalle, una cella, colombaia e uno stanzino per il cacio
con più un terrazzo, forno, tre loggie, due stabbi per i maiali e capanna segregata.
In detta casa vi sono due serrami a stanghetta.
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Badia Elmi, interno dell’oratorio (foto Francesco Salvestrini 2008)
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La chiesa protoromanica di Badia Elmi
Fabio Gabbrielli
L
a chiesa dell’abbazia di Adelmo, con la sua cripta perfettamente conservata, costituisce, malgrado le profonde modifiche subite nel corso del tempo, uno tra i più
significativi episodi di architettura monastica della Valdelsa e della Toscana centrale.
La chiesa, dedicata al Santo Sepolcro e a Santa Maria, faceva parte del monastero benedettino fondato nel 1034 dal nobile volterrano Adelmo di Suppo 1. Nel 1042 l’abbazia
fu ceduta ai vescovi di Volterra e nel 1073 passò ai monaci camaldolesi 2.
Allo stato attuale l’interno della chiesa si presenta suddiviso in due settori: quello occidentale è occupato da una cappella dai caratteri sei-settecenteschi, quale riduzione dell’originario luogo di culto, mentre quello orientale presenta al piano inferiore un vano
adibito a magazzino 3 e al piano superiore i locali di una civile abitazione 4. Tutte le superfici interne sono intonacate, salvo qualche lacerto nella zona absidale, mentre quelle esterne sono occultate da costruzioni di varie epoche, a eccezione dell’abside e della facciata.
Ciò nonostante l’impianto medievale risulta sostanzialmente conservato e le principali fasi
architettoniche appaiono ricostruibili con una certa attendibilità.
Già in una planimetria edita alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso 5, che qui
riproponiamo (Fig. 1), le strutture medievali della chiesa risultavano ben delineate. Si
tratta di un’unica navata, a forte sviluppo longitudinale, conclusa da un’ampia abside
semicircolare (circa 26x8,40 m, abside e muri perimetrali inclusi). Una possente torre,
oggi priva della cella campanaria, si eleva a circa metà della lunghezza, in corrispondenza
del fianco sinistro, distanziata dal muro perimetrale della chiesa di appena 50 cm.
Al di sotto della metà orientale della navata si sviluppa una cripta, anch’essa riprodotta in planimetria nel medesimo volume 6 (Fig. 2), l’unica a essersi conservata in Valdelsa,
le cui murature, diversamente da quelle soprastanti, sono libere da sovrastrutture e pienamente leggibili. Questa presenta un impianto di grande chiarezza compositiva: un vano
quadrato spartito in tre navatelle e concluso da un’abside semicircolare. Lo spazio è suddiviso in nove campate quadrate coperte con volte a crociera munite di sottarchi. Due
semivolte e una volta a crociera insistono sul vano absidale. Le volte e i sottarchi di divi-
1. Regestum Volaterranum. Regesten der Urkunden von Volterra (778-1303), a cura di F. Schneider, Roma
1907, n. 119.
2. M. Cavallini, Vescovi volterrani fino al 1100. Esame del Regestum Volaterranum, con appendice di pergamene trascurate da Fedor Schneider, «Rassegna Volterrana», 36-39, 1969-72, pp. 3-83: 52; Regesto di Camaldoli,
I, a cura di L. Schiaparelli, F. Baldasseroni, Roma 1907, n. 386. Per approfondimenti si vedano i saggi sulla storia dell’abbazia presenti in questo stesso volume.
3. In età moderna la sistemazione a cantina di questo locale ha portato alla realizzazione di un solaio ligneo sorretto da due file di pilastrini.
4. Per la descrizione dell’edificio cfr. pure I. Moretti, R. Stopani, Chiese romaniche in Valdelsa, Firenze 1968, pp.
43-49; I. Bettarini, S. Bezzini, Santo Sepolcro e Santa Maria a Elmi, in Chiese medievali della Valdelsa, I territori
della via Francigena, 1. Tra Firenze, Lucca e Volterra, Empoli 1995, pp. 225-228.
5. Moretti, Stopani, Chiese romaniche in Valdelsa cit., p. 46.
6. Ivi, p. 47.
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Badia Elmi
A sinistra (fig. 1): Badia Elmi, planimetria della
chiesa, stato attuale (da Moretti, Stopani, Chiese
romaniche in Valdelsa cit., p. 46). In alto (fig. 2):
Badia Elmi, planimetria della cripta, stato attuale
(da Moretti, Stopani, Chiese romaniche in Valdelsa
cit., p. 47)
sione si impostano su sei colonnette libere e su otto pilastrini semicilindrici addossati alle
pareti (Fig. 3).
Si tratta di una tipica cripta a oratorio, o a sala, una tipologia diffusa in tutta Europa a
partire dall’età ottoniana 7, della quale abbiamo numerosi esempi anche in Toscana riconducibili sia alla prima arte romanica, o protoromanico (fine X-1060/80 circa), sia alla maturità del romanico stesso (fine XI-primi XIII secolo). La tecnica muraria di quella di Badia
Elmi, a corsi sub-orizzontali di piccole bozze di arenaria sommariamente lavorate (Fig. 4),
orienta decisamente l’attribuzione cronologica alla fase protoromanica 8, e più esattamente
7. Sullo sviluppo e la diffusione delle cripte a oratorio nell’Europa meridionale si veda S. Rutishauser, Genèse et
développement de la crypte à salle en Europe du Sud, in Aux sources de l’art roman: convergences, permanences,
mutations, Actes des XXIV Journées Romanes, Cuxa, 10-16 juilliet 1991, «Les Cahiers de Saint-Michel de Cuxa»,
24, 1993, pp. 37-52. Più in generale, sul tema delle cripte altomedievali e dell’XI secolo si veda M.C. Magni, Cryptes
du haut Moyen Age en Italie: problèms de typologie du IX jusqu’ au début du XI siècle, «Cahiers Archeologiques»,
28, 1979, pp. 41-85, e le schede di F. Guidobaldi e di M.T. Gigliozzi, in Enciclopedia dell’arte medievale, V, 1994,
pp. 472-487.
8. Sulle tecniche murarie impiegate nell’architettura protoromanica toscana si veda F. Gabbrielli, All’alba del nuovo millennio: la ripresa dell’architettura religiosa tra il X e l’XI secolo, in L’architettura religiosa in Toscana, Il Medioevo, Cinisello
Balsamo 1995, pp. 9-55; Id., La “cappella carolingia” di Sant’Antimo e le tecniche murarie nelle chiese altomedievali
della Toscana, in Chiese e insediamenti nei secoli di formazione dei paesaggi medievali della Toscana (V-X secolo), a
cura di S. Campana, C. Felici, R. Francovich, F. Gabbrielli, Atti del Seminario, San Giovanni d’Asso-Montisi, 10-11
novembre 2006, Firenze 2008, pp. 337-368; G. Bianchi, Costruire in pietra nella Toscana medievale. Tecniche murarie
dei secoli VIII-inizio XII, «Archeologia medievale», 35, 2008, pp. 23-38.
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La chiesa protoromanica di Badia Elmi
Fig. 3. Badia Elmi, la cripta
Fig. 4. Badia Elmi, cripta, particolare della muratura
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Badia Elmi
Fig. 5. Badia Elmi, una base della cripta
all’XI secolo, giacché una collocazione un
po’ più arcaica (fine X) appare improbabile sia per la presenza dei sottarchi di
divisione 9, realizzati con pietre squadrate,
sia per la chiara definizione dello spazio
e del relativo sistema di copertura 10.
Con una datazione all’XI secolo risulta coerente anche il carattere sintetico e
‘primordiale’ degli elementi architettonici e decorativi, per quanto risultino
assenti, almeno apparentemente, pezzi
di reimpiego provenienti da più antichi
edifici, una pratica assai diffusa nelle
cripte italiane di questo periodo 11. Le sei
colonnine libere presentano basi ad anelli sovrapposti su un plinto quadrangolare (Fig.
5), fusti monolitici muniti di una leggera entasi, capitelli troncoconici ornati solo di un
anello sommitale e appariscenti pulvini caratterizzati, in corrispondenza delle nervature
delle volte, da quattro ‘ali’ smussate in forte aggetto (Figg. 6, 7, 8, 9). Questi ultimi mostrano, al centro di ogni faccia, semplici motivi decorativi, incisi o a bassorilievo, raffiguranti rettangoli, fogliette e croci greche. In un caso le incisioni del motivo vegetale, inserito
in un rettangolo, si estendono all’intero pulvino, secondo forme e modalità di esecuzione
simili a quelle dei capitelli, databili all’XI secolo, della cripta del monastero di San
Bartolomeo a Succastelli (Fig. 10), non lontano da Borgo Sansepolcro, anch’essa con tipologia a oratorio, abside semicircolare e voltine a crociera munite di sottarchi 12.
Per le basi ad anelli sovrapposti e soprattutto per le quattro ‘ali’ fortemente sporgenti
dei pulvini le colonnine di Badia Elmi richiamano quelle della cripta dell’abbazia di San
Baronto, nel Pistoiese. Una chiesa, quest’ultima, di non facile cronologia anche per gli
ingenti danni subiti durante il secondo conflitto mondiale. La cripta è infatti attribuita
all’XI secolo ma per i capitelli è stata suggerita la provenienza da un preesistente edificio altomedievale, soprattutto in virtù delle evidenti affinità decorative con quelli della
cripta di Aquileia 13. Anche quest’ultima, tuttavia, è di controversa datazione, essendo
9. Cfr. E. Arslan, L’architettura dal 568 al 1000, in Storia di Milano, II, Milano 1954, p. 528.
10. Per una rassegna delle cripte protoromaniche toscane: F. Gabbrielli, Le cripte della Toscana orientale e meridionale tra il X e l’XI secolo, in Le cripte del Santo Sepolcro di Acquapendente e del Santissimo Salvatore al Monte
Amiata nell’ambito delle cripte ad oratorium della Tuscia, a cura di R. Chiovelli, Atti del convegno, AcquapendenteAbbadia San Salvatore, 27-28 aprile 2013, di prossima pubblicazione. Concorda con un’attribuzione della cripta di
Badia Elmi all’XI secolo M. Frati, Architettura romanica in Valdelsa, Le correnti architettoniche e decorative, in
Chiese medievali della Valdelsa, I territori della via Francigena, 1 cit., p. 54.
11. Cfr. H.E. Kubach, Architettura romanica, Milano’, 1978, pp. 54-55.
12. F. Gabbrielli, Romanico aretino. Architettura protoromanica e romanica religiosa nella diocesi medievale
di Arezzo, Firenze, 1990, p. 75 fig. 42, 76.
13. Per la datazione all’XI secolo sia delle strutture della cripta sia dei capitelli di San Baronto si veda M. Salmi,
La scultura romanica in toscana, Firenze 1928, p. 49; P. Toesca, Storia dell’arte italiana, vol. 1.2, Il Medioevo, Torino
1927, p. 567. Per la datazione delle strutture agli anni 1051-1052 e dei capitelli al IX secolo si veda N. Rauty, Storia
di Pistoia, I, Dall’alto medioevo all’età precomunale, 406-1105, Firenze 1998, pp. 195-198. Più articolata ancora è
la posizione di F. Redi, Chiese medievali del Pistoiese, Milano 1991, pp. 60-61, 135, 140-142.
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La chiesa protoromanica di Badia Elmi
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Figg. 6-9. Badia Elmi, capitelli della cripta
state prospettate sia una collocazione nella prima epoca carolingia, sia una più tarda
sistemazione nella quale, come per San Baronto, sarebbero stati riutilizzati capitelli altomedievali 14. Il problema del reimpiego, in ogni caso, non coinvolge la nostra cripta, e i
motivi decorativi dei pulvini non sono confrontabili, se non per qualche aspetto, con
quelli dell’abbazia pistoiese 15.
Forme ancora più semplici presentano i sostegni addossati ai muri perimetrali, non
colonnine monolitiche ma pilastrini semicilindrici in bozzette di arenaria (Fig. 11), i cui
capitelli mostrano un ornamento a scudo che accompagna i sottarchi provenienti dalle
14. L. Villa, Edifici di culto in Friuli tra l’età paleocristiana e l’altomedioevo, in Frühe Kirchen im östlichen
Alpengebiet, hrsg. von H.R. Sennhauser, München 2003, II, pp. 560-561.
15. Ci riferiamo, in particolare, al motivo a rilievo con incisioni verticali che figura al di sopra dei rettangoli in
ciascuna faccia dei pulvini di Elmi, presente anche a San Baronto e ad Aquileia (per le immagini si veda Rauty,
Storia di Pistoia cit., p. 196 figg. 58 e 59).
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Badia Elmi
A sinistra (fig. 10): Badia Succastelli (Sansepolcro), un capitello della
cripta. Sotto (fig. 11): Badia Elmi, cripta, un pilastrino semicilindrico
volte. In un solo caso, nella curvatura absidale, lo scudo
reca scolpita una stilizzata testa umana, forse avvicinabile, per la primordialità dell’esecuzione, a quella di un
capitello reimpiegato in un edificio annesso alla pieve
di San Lazzaro a Lucardo, in Valdelsa 16. Una distribuzione analoga dei sostegni delle volte, vale a dire colonnine monolitiche nello spazio libero e pilastrini semicircolari lungo i muri perimetrali, lo ritroviamo nella
cripta di San Paragorio a Noli, in Liguria, importante
punto di riferimento cronologico per l’architettura protoromanica, databile entro la metà dell’XI secolo 17.
L’impianto originario della cripta di Badia Elmi non
si limitava all’ambiente con struttura a oratorio. Dietro la parete occidentale, quella
contrapposta all’abside, si sviluppa infatti
un vano rettangolare coperto con una volta
a botte trasversale rispetto all’asse principale della chiesa, le cui murature risultano
coeve, compresa la volta, a quelle della
cripta. Attualmente vi si accede da un
ingresso posto al centro della medesima
parete occidentale (Fig. 12). Ma questo
risulta ottenuto attraverso un taglio praticato nella muratura originaria, in sostituzione di una piccola abside semicircolare,
di 160 cm di diametro, della quale rimangono evidentissime tracce. In particolare si
conservano in alto un tratto consistente del
catino absidale (Fig. 13) e in basso, a destra
e a sinistra dell’attuale apertura, due tratti
di muro leggermente convergenti 18.
Quella di Badia Elmi, pertanto, si configurava, nella versione originaria, come
una cripta a oratorio, preceduta da un
vestibolo voltato a botte e caratterizzata da due absidi contrapposte, una a Oriente e
una a Occidente (Fig. 14). Il passaggio dal vestibolo alla cripta vera e propria doveva
16. Per un confronto fotografico si veda Chiese medievali della Valdelsa, I territori della via Francigena, 1 cit.,
tav. 32 (lo stato di conservazione e la leggibilità del capitello di Badia Elmi non consente valutazioni affidabili).
17. A. Frondoni, I bacini di S. Paragorio a Noli (SV), in I bacini murati medievali. Problemi e stato della ricerca,
Atti del XXVI Convegno internazionale della ceramica, Albisola 28-30 maggio 1993, Firenze 1996, pp. 271-282.
18. L’originaria presenza di un’abside era già stata segnalata in F. Gabbrielli, La pieve di San Gimignano nel
contesto dell’architettura romanica della Valdelsa, in La collegiata di San Gimignano. L’architettura, i cicli pittorici murali e i loro restauri, a cura di A. Bagnoli, Siena 2009, pp. 13-50: 15-16.
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La chiesa protoromanica di Badia Elmi
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Sopra (fig. 12): Badia Elmi, la cripta con al centro l’attuale apertura nella parete occidentale. Sotto (fig. 13): Badia
Elmi, cripta, resti dell’abside occidentale
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Badia Elmi
Fig. 14. Badia Elmi, planimetria della cripta, assetto originario (rielaborazione tratta dalla fig. 2)
avvenire attraverso due strette aperture,
ancora presenti sebbene tamponate, situate a destra e a sinistra dell’abside occidentale. Un’altra apertura, anch’essa tamponata, collocata nella parete meridionale del
vestibolo, doveva inoltre costituire l’accesso a quest’ultimo dall’esterno, vale a
dire dal chiostro del monastero (Fig. 15).
Tale ingresso, infatti, sia per la conformazione, con una risega posta a circa metà
dello spessore murario che ne amplia leggermente la luce verso l’interno, sia per le
dimensioni, pari a circa 65 cm di luce nel
tratto più stretto, mostra tali affinità con
le due menzionate aperture da farne prospettare la contemporaneità 19. La sua chiusura dovette avvenire nel 1621, data incisa, insieme alla scritta D. SIMEON, nell’intonaco del lato interno del tamponamento. A questa data possiamo pertanto
ricondurre, in via ipotetica, anche la demolizione dell’abside occidentale, il tamponamento dei due passaggi dal vestibolo
alla cripta e la conseguente apertura di un
accesso diretto a essa tramite la realizzazione, nella parete meridionale, dell’attuale ingresso 20.
La presenza dell’abside occidentale inserisce Badia Elmi nel filone, assai eterogeneo per
tipologia e cronologia, delle chiese e delle cripte ad absidi contrapposte. Il motivo, ben
attestato in epoca paleocristiana in Spagna e nel Nord Africa, insieme a qualche raro caso
in Italia (di qualche anno fa è il rinvenimento dell’aula biabsidata della pieve di Pava, in
provincia di Siena, databile tra la fine del V e l’inizio del VI secolo), riappare nell’Europa
carolingia per poi diffondersi con maggiore intensità tra il X e l’XI secolo 21. Per l’età caro19. Con tale ipotesi sembra contrastare il fronte del portale rivolto verso l’esterno, oggi parzialmente visibile dall’interno di un’abitazione, il cui arco, a tutto sesto nell’intradosso e a sesto decisamente acuto nell’estradosso, richiama una tipologia in uso per lo più nel XIII-XIV secolo. Ma la muratura circostante mostra segni di rimaneggiamento, con tanto di rimozione quasi completa di una lesena. L’arco, pertanto, potrebbe essere stato rifatto nel basso
Medioevo.
20. Rimane da verificare la presenza di un accesso diretto dalla chiesa, operazione difficile a causa dei rimaneggiamenti apportati dietro la parete occidentale del vestibolo, dove attualmente figura un piccolo vano dai caratteri
moderni.
21. Per un quadro approfondito sull’argomento si veda C. Tosco, Le chiese ad absidi contrapposte in Italia,
«Rivista dell’Istituto nazionale d’archeologia e storia dell’arte», s. III, 14-15, 1991-92, pp. 219-268. Per gli scavi
nella pieve di Pava: S. Campana, C. Felici, L. Marasco, Progetto Valle dell’Asso. Resoconto di otto anni di indagini, in Chiese e insediamenti nei secoli di formazione cit., pp. 7-35, in particolare pp. 23-26.
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Fig. 15. Badia Elmi, particolare del vestibolo con l’ingresso dal chiostro, ora tamponato, e uno dei due ingressi originari verso la cripta
lingia e ottoniana l’ipotesi più accreditata, specialmente per le cripte, mette in relazione la presenza delle absidi contrapposte allo sviluppo del culto delle reliquie, là dove
una delle due, quella occidentale, avrebbe avuto una funzione di reliquiario o di luogo
di sepoltura 22.
In Toscana il motivo, raro nelle chiese 23, è ben attestato in una serie di cripte principalmente riferibili alla fine del X e all’XI secolo. Lo troviamo, ad esempio, in quella dell’abbazia di Sant’Antimo (comune di Montalcino), forse riferibile all’età carolingia per quanto
riguarda i muri perimetrali e ai decenni intorno al Mille per l’attuale assetto a oratorio 24;
nella cripta dell’abbazia di Farneta (Cortona), fondata tra la fine del X e i primi dell’XI secolo, caratterizzata da un complesso impianto costituito da tre celle con nicchie disposte a trifoglio e da un corridoio occidentale voltato a botte al centro del quale si sviluppa una piccola abside 25; nella cripta dell’abbazia di Giugnano (Roccastrada), a oratorio, attribuibile all’XI
secolo, dove alla grande abside orientale si contrappongono, in questo caso, tre piccole absi22. Tosco, Le chiese ad absidi contrapposte in Italia cit., p. 239.
23. Oltre che nella già menzionata pieve paleocristiana di Pava (comune di San Giovanni d’Asso) il motivo figurava nella chiesa dell’abbazia di Succastelli (Sansepolcro), di XI secolo (cfr. supra nota 12), e in quella di San Piero
a Grado presso Pisa, dove però l’abside occidentale fu aggiunta solo nel XII-XIII secolo.
24. Gabbrielli, La “cappella carolingia” di Sant’Antimo cit., pp. 337-346. Per una recente attribuzione alla fine
del X secolo cfr. pure M. Frati, Il cantiere di Sant’Antimo: restauri, trasformazioni, fasi costruttive, scelte spaziali, in Nuove ricerche su Sant’Antimo, a cura di A. Peroni, G. Tucci, Firenze 2008, pp. 63-110: 73-76.
25. R. Scartoni, La chiesa abbaziale di Farneta: contributo all’interpretazione di alcuni aspetti dell’architettura dell’XI
secolo in Italia centrale, «Arte medievale», 5, 1991, 2, pp. 49-65. Un assetto simile a quello di Farneta era presente in origine anche nelle non lontane cripte di San Giusto a Tuscania e di Colle San Paolo in Umbria (ibidem).
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Badia Elmi
Fig. 16. Badia Elmi, l’abside
di nella parete occidentale 26. Nella Valdelsa, non lontano da Badia Elmi, un assetto simile a quello di
Giugnano, per la presenza di tre absidiole nel perimetrale ovest, figura nei resti della cripta della pieve
di San Lazzaro a Lucardo (Certaldo), sebbene la tecnica muraria a piccoli conci suggerisca una cronologia più tarda, verso la fine dell’XI o i primi del XII
secolo. Un po’ più a nord, infine, nei dintorni di
Firenze, la cripta protoromanica della Badia a
Settimo (Scandicci) mostra, in un impianto a oratorio affiancato da due vani absidati, un assetto murario articolato con una serie di piccole nicchie e con
un vano a pianta quadrangolare posto al centro della
parete occidentale, in origine forse un’abside semicircolare contrapposta a quella maggiore 27.
Il motivo è ben documentato anche nell’Italia
settentrionale, specie nei primi dell’XI secolo,
quando l’absidiola occidentale è spesso associata,
come a Badia Elmi, a un impianto a oratorio. È il
caso, ad esempio, di San Pietro ad Agliate, di San
Vincenzo in Prato a Milano e di Sant’Eufemia
nell’Isola Comacina, ai quali è da aggiungere la già menzionata cripta del duomo di
Aquileia, anch’essa a navatelle, ma con volte a botte e di controversa datazione 28.
Passiamo adesso a esaminare la soprastante chiesa. Diversamente dalla cripta la piena
leggibilità delle strutture murarie è compromessa sia dalla diffusa presenza dell’intonaco, sia dalle costruzioni che si addossano ai muri longitudinali. I pochi tratti di muratura a vista consentono comunque di avanzare ragionevoli ipotesi. In primo luogo è
completamente visibile, dall’esterno, la curvatura absidale sebbene alterata da un traumatico intervento che ne ha tagliato la calotta sostituendola con la terrazza di un’abitazione (Fig. 16). La struttura presenta una muratura a corsi orizzontali e paralleli di
conci di arenaria squadrati e spianati 29. Si tratta di una tecnica muraria del tutto diversa da quella della cripta, tipica della piena maturità del romanico e pertanto collocabile intorno al XII secolo. Tale cronologia è coerente con i caratteri delle due monofore
26. G. Marrucchi, Chiese medievali della Maremma grossetana, Empoli 1998, pp. 86-89; Id., Il monastero di S.
Salvatore di Giugnano e le chiese medievali del territorio di Roccastrada: architettura religiosa tra XI e XIII secolo,
in S. Salvatore di Giugnano, Un monastero tra storia e architettura nel territorio di Roccastrada, Roccastrada 2001,
pp. 69-82.
27. Sulla pieve di Lucardo e sulla Badia a Settimo si veda I. Moretti, R. Stopani, Architettura romanica religiosa
nel contado fiorentino, Firenze 1974, pp. 41, 115-117, 196, 207; M. Frati, San Lazzaro a Lucardo (Certaldo), in
Chiese medievali della Valdelsa, I territori della via Francigena, 1 cit., pp. 122-125.
28. Tosco, Le chiese ad absidi contrapposte in Italia cit., pp. 235-239.
29. La squadratura sembra priva di nastrino e pare realizzata con uno strumento a punta. Per un quadro delle
tecniche murarie in Valdelsa si veda A. Mennucci, Maestri di pietra in Valdelsa. Attrezzatura, circolazione delle
maestranze, restauri, in Chiese medievali della Valdelsa, I territori della via Francigena, 2 – Tra Siena e San
Gimignano, Empoli 1996, pp. 48-55.
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La chiesa protoromanica di Badia Elmi
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A sinistra (fig. 17): Badia Elmi, la torre campanaria.
Sotto (fig. 18): Badia Elmi, la torre campanaria, particolare della muratura
situate rispettivamente al livello della
cripta e della chiesa, la prima semplicemente architravata e la seconda con
archetto semicircolare ricavato in un sol
blocco. Decisamente insolita è invece la
presenza di una cornice, a semplice smusso, che percorre orizzontalmente l’abside
alla quota del davanzale della monofora
superiore. Simili cornici, infatti, sono in
genere collocate, nelle absidi, a coronamento della struttura o alla base di una
loggetta, oppure sono associate ad altri
elementi decorativi ma difficilmente sono
isolate come in questo caso.
La stessa muratura dell’abside, a opera
quadrata, caratterizza la massiccia torre
campanaria (Figg. 17, 18) e si ritrova,
all’interno della chiesa, in un tratto della
curvatura absidale dove è caduto l’intonaco e in un portale del fianco destro,
architravato e con arco a tutto sesto, ora
tamponato 30.
Non tutte le strutture, tuttavia, mostrano di appartenere alla piena età romanica. Un lungo tratto del fianco destro della
chiesa, visibile all’interno di alcuni locali
a esso addossati, presenta infatti, insieme
a tre lesene, una muratura a corsi suborizzontali di bozze di arenaria, un po’
più accurata di quella della cripta ma lontana dall’opus quadratum dell’abside e della torre campanaria. La stessa muratura è inoltre presente in un tratto del fianco sinistro, un tempo faccia esterna del muro perimetrale
e oggi visibile dall’interno della stretta intercapedine che separa la chiesa dalla torre. Nel
medesimo muro, in alto, si intravede pure una monofora, verosimilmente originale 31.
30. In questo caso i cunei dell’arco sono dotati di nastrino e presentano una finitura più accurata. L’ingresso
alla torre avviene dall’interno della chiesa, per mezzo di un portale romanico simile a quello presente nel fianco
destro, anch’esso con architrave e arco a tutto sesto. Secondo quanto riportato in Moretti, Stopani, Chiese romaniche in Valdelsa cit., p. 44, inoltre, nella parete esterna del fianco sinistro, verso la facciata, il paramento murario, spartito da lesene e visibile dall’interno di un annesso rurale, sarebbe realizzato «in perfetti filaretti di arenaria» (per la presenza delle lesene si veda pure la planimetria a p. 46).
31. Le pessime condizioni logistiche, dovute alla limitata ampiezza dell’intercapedine, non hanno permesso
un’adeguata lettura.
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Badia Elmi
Fig. 19. Badia Elmi, la facciata della chiesa
Non solo. Anche l’attuale facciata,
dall’accentuato sviluppo verticale,
mostra inequivocabili indizi protoromanici (Fig. 19). Il portale e la soprastante finestra sono di età moderna
mentre l’apparato ornamentale, a lesene e archetti pensili, è chiaramente
medievale 32. Tre lesene, in origine quattro, percorrono senza interruzioni l’intera superficie e spartiscono la facciata
in tre settori raccordandosi alla sommità con nove archetti, distribuiti a
gruppi di tre e assiali al piano dell’edificio. Un assetto identico, sebbene in
laterizi anziché in pietra, figura nella
testata del transetto, paragonabile a una
facciata pur essendo priva del portale,
della chiesa di Santa Maria Maggiore a
Lomello (Pavia), nota testimonianza
protoromanica dell’XI secolo 33. E allo
stesso periodo appare riconducibile
anche la facciata di Badia Elmi. Nei piccoli tratti in cui l’intonaco è caduto,
infatti, le lesene mostrano la stessa muratura a bozzette della cripta e delle strutture più antiche della chiesa (Fig. 20). L’unico archetto, inoltre, di cui si intravede la tessitura muraria, situato all’estremità sinistra, presenta una tecnica di esecuzione comune a
molte chiese protoromaniche, consistente in piccoli frammenti di pietre, o di laterizi, accostati tra loro lungo il profilo della semicirconferenza per il lato minore. Tra i numerosi
casi presenti anche in Toscana ci limitiamo a segnalare quelli dell’abbazia di San Salvatore
in Agna e delle pievi di Artimino e di Sant’Appiano 34.
In conclusione, i tratti visibili di muratura in pietra squadrata e quelli a piccole bozze
semilavorate offrono elementi sufficienti per ritenere che l’impianto attuale della chiesa
32. Nella controfacciata, al di sopra dell’attuale finestra, si intravedono, coperte dall’intonaco, le tracce di una
precedente apertura.
33. Ad es. Kubach, Architettura romanica cit., p. 69. Per la Toscana non siamo a conoscenza di facciate con un
assetto identico a quello di Badia Elmi. Anche il confronto con la Badia di San Savino, presso Pisa, è poco stringente: pur essendo la facciata spartita da lesene in tre settori, infatti, gli archetti pensili sono disposti orizzontalmente, anziché seguire i due spioventi del tetto, e il ritmo è di 2-3-2 anziché 3-3-3.
34. Per un quadro generale sull’architettura protoromanica in Toscana si veda Gabbrielli, All’alba del nuovo millennio cit., pp. 9-55 (per confronti con gli archetti di Badia Elmi: figg. 21-23). Per gli archetti di Sant’Appiano una
buona immagine è in Chiese medievali della Valdelsa, I territori della via Francigena, 2 cit., tav. 3A. Da informazioni che non abbiamo potuto verificare alcuni archetti pensili di analoga struttura si conserverebbero anche alla
sommità del fianco destro della Badia Elmi, ora visibili all’interno di un’abitazione, confermando quanto abbiamo
segnalato per la zona inferiore della medesima parete (cfr. in questo stesso volume l’intervento di Massimo Tosi).
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La chiesa protoromanica di Badia Elmi
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Fig. 20. Badia Elmi, facciata della chiesa, particolare della muratura
sia sostanzialmente quello originario, dell’XI secolo, parzialmente rinnovato intorno al XII, quando
l’abside e forse l’intera zona presbiteriale furono
ricostruite, risparmiando, però, le strutture interne della cripta. La presenza di una risega lungo
entrambi i muri longitudinali della chiesa, a circa
5,40 metri dall’abside e a 58 cm dal portale del
fianco destro, potrebbe indicare il limite del rifacimento romanico. A questa seconda fase è da ricondurre anche la costruzione della torre la quale, per
le caratteristiche architettoniche e dimensionali,
ovvero la presenza di strette feritoie e il forte spessore murario, pari a 160 cm, poteva all’occorrenza prestarsi a usi difensivi.
Tutto ciò appare in sintonia con i dati storici
che abbiamo a disposizione. I caratteri delle strutture più antiche, in particolare la cripta, possono
concordare con la fondazione del nobile Adelmo
del 1034 35. Del resto la presenza delle cripte è frequente nei monasteri benedettini toscani del X-XI
36
secolo . La possibilità di ancorarne la datazione all’anno di fondazione dell’abbazia fa
della cripta di Elmi un punto di riferimento cronologico di notevole rilievo nel panorama architettonico della Toscana medievale.
Malgrado l’estrema semplicità della chiesa, a unica navata e senza transetto, il monastero dovette avere un certa importanza, così situato com’era lungo uno dei percorsi
della Francigena e a metà strada tra i popolosi castelli di Certaldo e di San Gimignano.
E proprio la presenza della cripta, con il suo ben strutturato impianto a oratorio, ne è
la conferma 37.
Quando, nel 1073, ai monaci benedettini subentrarono i Camaldolesi, è assai probabile che la chiesa avesse già un impianto analogo a quello attuale. Come è attestato
in altri casi (ad esempio, l’abbazia della Berardenga), i monaci di Camaldoli ereditarono un edificio già funzionante e ne conservarono le strutture fino a quando, nel secolo
seguente, iniziarono a rinnovarne l’assetto, partendo dall’abside. Ma l’operazione, per
ragioni a noi ignote, avvenne solo parzialmente, con la ricostruzione della zona orientale e la realizzazione della grande torre campanaria 38.
35. Vedi supra nota 1.
36. Vedi supra note 10 e 34.
37. L’importanza del monastero, almeno a livello locale, è inoltre attestata dal diritto, concesso nel 1061 dal
vescovo di Volterra, di poter seppellire gli abitanti del vicino castello di Pulicciano nel cimitero dell’abbazia
(Regestum Volaterranum cit., nn. 128,129).
38. Anche nell’abbazia della Berardenga (comune di Castelnuovo Berardenga) i monaci camaldolesi, subentrati
ai Benedettini (1098), rinnovarono la chiesa tra XII e XIII secolo – questa volta integralmente – conservando la cripta protoromanica, anch’essa con impianto a oratorio (I. Moretti, R. Stopani, Badia Berardenga, «Antichità viva», 5,
1970, pp. 50-55; Gabbrielli, Romanico aretino cit., 68-70, 175-176).
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Le immagini che accompagnano questo saggio sono tratte da: Lorenzo Monaco. Tecnica e Restauro.
L’Incoronazione della Vergine degli Uffizi. L’Annunciazione di Santa Trinita a Firenze, a cura di M.
Ciatti e C. Frosinini, Firenze 1998, tav. I, p. 58 [ p. 193], tav. II, p. 76 [pp. 196 e 198], fig. 63, p. 143
[p. 199], fig. 64, p. 144, fig. 65, p. 145, fig. 66, p. 146 [p. 200]; Lorenzo Monaco. Dalla tradizione giottesca al Rinascimento, a cura di A. Tartuferi e D. Parenti, Catalogo della mostra (Firenze 2006), Firenze
2006, cat. 23, p. 171, cat. 23a, p. 165, cat. 33, pp. 200-201 [p. 202]; P. Ackroyd, L. Keith, D. Gordon,
The restoration of Lorenzo Monaco’s Coronation of the Virgin: Retouching and Display, «National
Gallery Technical Bulletin», 21, 2000, fig. 4, p. 47 [fig. 15, p. 203].
Abbreviazioni: ADV = Archivio Diocesano di Volterra; ASS = Archivio di Stato di Siena; MSV =
«Miscellanea Storica della Valdelsa».
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Sul patrimonio artistico di un’antica badia camaldoldese.
L’Incoronazione della Vergine di Lorenzo Monaco dalla badia
di Adelmo (San Gimignano) alla National Gallery di Londra
Sabina Spannocchi
Volterra, 21 aprile 1963
Carissimo Don Bramante,
ti ringrazio per l’occasione che m’hai dato di visitare Gavignalla e di fare il sopralluogo
a Badia a Cerreto. Tu ringrazierai a mio nome il Marchese Roti Michelozzi, perché le sue
informazioni sulle Badie d’Elmi e Cerreto, esattissime e preziose, hanno servito a schiarirmi alcune idee che m’ero fatto. Veramente ambedue i luoghi erano dei Camaldolesi: i
Vallombrosani ebbero in Valdelsa solo alcuni possessi terrieri ma nessuna residenza monastica; sono certo che furono di Camaldoli anche il convento di Mucchio poco sopra Elmi
e quello di San Mariano in alto verso il Castagno; anzi l’origine della casa di Cerreto come
residenza estiva della Badia d’Elmi divenuta paludosa è assai convincente, perché da documenti sembra che a Cerreto la chiesa preesistesse al convento… 1.
È un po’ con lo spirito che contraddistingue l’incipit di questa lettera, quello del franco dialogo e del vicendevole scambio di informazioni fra storici provvisti di competenze
diverse, che si è cercato di intraprendere l’analisi del patrimonio artistico di Badia Elmi 2.
Si tratta di una premessa ancor più necessaria per chiunque tenti di dipanare le fila dell’antico insediamento camaldolese, dal momento che a oggi non esiste presso l’Ufficio
Catalogo della Soprintendenza di Siena neppure una catalogazione dei beni artistici della
zona in cui si colloca questo monastero 3. Cerchiamo, quindi, di ripercorrere le tappe fondamentali del millenario complesso per poter ragionare sui dati certi di cui disponiamo.
A tal proposito converrà affidarsi per lo più alla ricostruzione che offre don Socrate Isolani,
un parroco particolarmente attento e sensibile alle vicende storico-artistiche dei territori
da lui battuti, che negli anni venti del Novecento fece riemergere dall’oblio l’antica cripta di Badia Elmi 4. Ma ci riferiremo anche alle recenti ricerche facenti capo principalmente ad Antonella Duccini 5.
1. Ringrazio Silvano Mori per avermi fatto conoscere e messo generosamente a disposizione una copia in suo possesso di questa lettera, scritta a Volterra da monsignor Mario Bocci (1924-2009), archivista diocesano e capitolare,
nonché studioso sensibile e raffinato, e inviata al parroco di Sant’Andrea a Gavignalla e Badia a Cerreto don Bramante
Brogi (1925-2005).
2. Questo studio ha potuto beneficiare dei proficui colloqui intrattenuti a vario titolo con Silvia Bartalucci, Alessandro
Furiesi, Fabrizio Iacopini, Fabio Gabbrielli, Silvano Mori, Francesco Salvestrini, Enrico Sartoni, Pier Giuseppe Spannocchi,
Raffaello Razzi. Un grazie particolare va ad Alessandro Bagnoli, sempre generoso di consigli e spunti di riflessione.
3. È quanto ha confermato la responsabile dell’Ufficio Catalogo della Soprintendenza (BSAE) di Siena e Grosseto,
Maria Mangiavacchi, in data 27 settembre 2011.
4. Per una sintetica ma coerente ricostruzione della storia della badia di Adelmo, in cui si dà notizia della scoperta della cripta trasformata in cantina, si segnala S. Isolani, La Badia di Adelmo (Certaldo), «Arte e Storia di Firenze»,
6, 39, 1920, pp. 88-92. L’esattezza dell’excursus risulta variamente confermata passando in rassegna la Istoria cronologica del nobile e antico Monastero degli Angioli di Firenze, Lucca MDCCX, p. 187; G. Cappelletti, Le chiese
d’Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni, s.l. 1864, pp. 263, 396; A.F. Giachi, Saggio di ricerche storiche sopra
lo stato antico e moderno di Volterra, in Firenze 1786 (rist. 1887), p. 251; M. Cioni, La Valdelsa. Guida storico artistica, Firenze 1911, pp. 164-165 (il Cioni attribuisce erroneamente il monastero degli Angeli di Firenze all’Ordine
cistercense); S. Isolani, Notizie Valdelsane, MSV, 28, n. 82, 1920, p. 116; E. Castaldi, Intorno alle origini di San
Gimignano, MSV, 36, nn. 36-38, 1928, pp. 75-97: 85, 86, 87 (con qualche imprecisione nella nota 1 a p. 86).
5. Per una recente ricostruzione storica dell’abbazia del Santo Sepolcro e Santa Maria a Elmi si rimanda ad A.
Duccini, Monasteri, pievi e parrocchie nel territorio di Gambassi (secoli X-XIII), MSV, 106, n. 3, 2000, pp. 191-233,
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Badia Elmi
Le rare notizie storiche ricordano la fondazione di un oratorio con un eremo intitolati al Santo Sepolcro e a Santa Maria nel lontano ottobre del 1034 per volere dei coniugi Adelmo e Gisla, pro remedio anime loro e di Ugo e Rolando, fratelli di Adelmo.
Quest’ultimo faceva parte dell’entourage dei Cadolingi conti di Catignano, che vantavano molti possedimenti nei dintorni 6. L’abbazia, in linea con quel proliferare di istituzioni monastiche ‘private’ che si produsse intorno al Mille e che tra i principali compiti
affidati ai monaci contemplava quello di pregare per la famiglia fondatrice, seguì la regola di san Benedetto. Nel 1042 un tal Pietro del fu Amizzo, ricevuti – parte in eredità e
parte per compravendita – i beni di Adelmo e del fratello Rolando, li cedette in toto al
vescovo di Volterra. Un passaggio, questo, che venne ratificato appena un decennio più
tardi, nel 1052, dall’imperatore Enrico III. Nel 1061 il vescovo Guido non solo confermò
all’abate Alberto quanto era stato donato al monastero dai suoi fondatori, attestando
peraltro un misero sviluppo del complesso avvenuto nel frattempo, ma concesse licenza
di seppellirvi coloro che, residenti in quel territorio, ne avessero fatto richiesta.
A quasi quarant’anni dalla sua fondazione, nel 1073, con autorizzazione del vescovo
Erimanno di Volterra, il monastero di Adelmo passò sotto la guida spirituale di Camaldoli,
con il preciso scopo di risanare lo stile di vita dei monaci che fino ad allora vi si erano
avvicendati 7. Da quel momento in poi il legame con l’Ordine camaldolese sarebbe stato
ininterrottamente riconfermato.
Nel 1420 la badia di Adelmo venne ricompresa, insieme a quella di Cerreto, nel patrocinio del monastero di Santa Maria degli Angeli di Firenze, ovviamente camaldolese, sebbene già nel 1576 il fabbricato, assumendo sempre più la funzione di grancia, ospitasse
le celebrazioni della domenica e delle feste ad opera di un solo monaco, il quale, dal 1555,
dovette provvedere anche alla pieve di Cellole. Nel 1652 il monastero di Elmi fu definitivamente soppresso, mentre l’antica chiesa, caduta in uno stato di progressivo abbandono, fu trasformata in oratorio dedicato a Maria SS. della Neve, come risulta nel 1796,
quando le rare celebrazioni venivano officiate dal rettore di Cerreto. In quegli stessi anni
vennero rimaneggiati sia il monastero che l’oratorio, sul cui altare in stucco si ammirava ancora una tavola antica. Infine nel 1826, con il permesso del granduca di Toscana,
i monaci degli Angeli venderono la badia con gli oratori dipendenti ai signori Landi di
Certaldo, che conferirono al complesso il nome comunemente usato di Badia Landi.
All’inizio del Novecento chi fosse entrato nell’oratorio avrebbe potuto ammirare sull’altare in stucco una tela centinata raffigurante lo Sposalizio della Vergine e poco altro.
Eppure molto doveva essere andato disperso e perduto nel corso degli anni, fin dal
lontano passato, se si considera che proprio in questo piccolo insediamento, nella casa
con particolare riferimento alle pp. 192-202 (con relativa bibliografia), oltre ovviamente ai saggi del presente volume. Per una ricognizione storiografica relativa ai monumenti e alle opere d’arte dell’area cfr. Bibliografia di San
Gimignano, a cura di I. Gagliardi, A. Galli, F. Salvestrini, N. Tirinnanzi, Poggibonsi 1996.
6. Per notizie relative alla famiglia di Adelmo di Suppo, con tanto di tavola genealogica, si rinvia ad A. Duccini,
Il castello di Gambassi. Territorio, società, istituzione, sec. X-XII, Castelfiorentino 1998, pp. 40-47, 221, e al contributo di Laura Neri nel presente volume. Sui possessi dei Cadolingi nell’area di Pulicciano cfr. R. Pescaglini Monti,
I conti Cadolingi, in I ceti dirigenti in Toscana nell’età precomunale, Atti del Primo Convegno del Comitato di studi
sulla storia dei ceti dirigenti in Toscana, Firenze, 2 dicembre 1978, Pisa 1981, pp. 191-205.
7. Il documento è stato pubblicato anche in G. Vedovato, Camaldoli e la sua congregazione dalle origini al 1184.
Storia e documentazione, Cesena 1994, p. 257, doc. IV-1; sulla badia di Adelmo, sotto la voce di Santa Maria a
Pulicciano, si rimanda alle pp. 46-50.
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Sul patrimonio artistico di un’antica badia camaldolese
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detta ‘Il Palagetto’, pare fosse nato il Beato Jacopo da Certaldo, un monaco camaldolese del XIII secolo che ricoprì la carica di abate della badia dei Santi Giusto e Clemente a
Volterra dal 1268 al 1272 e le cui sacre spoglie si venerano ancora oggi presso la cappella della Croce nella chiesa di San Francesco della stessa città 8. Se è assai probabile
ipotizzare che la badia di Adelmo gli abbia voluto rendere omaggio negli anni immediatamente successivi alla sua scomparsa commissionando opere d’arte che ne riproponessero l’esempio – come successe a Volterra 9 – l’ipotesi è destinata ad acquistare credibilità se si presta fede a quanto scriveva Ignazio Malenotti nel 1819 a margine della vita
di Beata Giulia della Rena:
In distanza circa un miglio da Certaldo, tra i fiumi Casciano, ed Elsa, presso la Fattoria
detta la Badiola degli Angeli di Firenze, vi esiste tuttora una casa chiamata il Palagietto,
con una Torre, e un Podere annesso, che l’antica tradizione vuole sia stato di proprietà e
abitata da questo servo di Dio [Jacopo Guidi da Certaldo]. Si osserva infatti alla metà della
torre il busto in rilievo del Beato medesimo, con mitra in testa indicante essere egli stato
Abate del mentovato Ordine Camaldolense 10.
Tale indizio parrebbe ulteriormente confermato da una memoria popolare che ricorda quella statua alloggiata in una nicchia vicina alle scale cui si accedeva per andare
nella colombaia della torre e che durante la Prima Guerra Mondiale dovette essere trasportata dai proprietari, i marchesi Migliorati, a San Miniato 11.
Di certo durante i primissimi secoli di vita della badia di Adelmo, coincidenti con il
periodo relativamente più florido del complesso, la volontà di rendere completo e funzionale l’arredo liturgico e artistico dell’insieme dovette costituire una delle priorità dei
8. Tra le biografie dedicate a Jacopo Guidi ricordiamo almeno Vita del beato Jacopo da Certaldo, in S. Razzi,
Vite de’ Santi e Beati Toscani de’ quali insino à hoggi comunemente si ha cognizione, Firenze MDXCIII, pp. 411416; Vita del Beato Iacopo da Volterra, in M. Giovannelli, Cronistoria dell’antichità e nobiltà di Volterra, cominciata dal principio della sua edificazione insin’al giorno d’hoggi, Pisa 1613, pp. 130-135; S. Guidotti, La vita del
Beato Jacopo da Certaldo monaco camaldolese, Firenze 1619, pp. 319-324. Vita del Beato Iacopo da Certaldo
camaldolese, in G.M. Brocchi, Vite de’ Santi e Beati fiorentini, parte seconda, Firenze MDCCLII, pp. 319-324;Sulla
figura del Beato Jacopo Guidi da Certaldo è stata tentata una raccolta di notizie da parte di don Luca Zanaga, che
ha portato alla pubblicazione di tre fascicoli per conto della propositura di San Tommaso Apostolo di Certaldo,
meritori per lo sforzo e da considerarsi quali agili letture propedeutiche a ulteriori approfondimenti (Il Beato Jacopo
da Certaldo, monaco camaldolese, 3 fasc.: I. La Vita; II. La Reliquia; III. Le Fonti, Propositura di S. Tommaso
Apostolo di Certaldo 2005). Sulla badia dei Santi Giusto e Clemente a Volterra, fondata nel 1030 e camaldolese
fin dal 1113, si rimanda, per il bell’apparato fotografico e per l’agile tracciato storico di Denise Ulivieri condotto
attraverso gli annali camaldolesi e altre memorie, a La Badia camaldolese, a cura di A. Furiesi, Ghezzano (Pisa)
2008. Cfr. anche C. Casini, SS.mo Salvatore presso la Badia Camaldolese, in Chiese di Volterra, III, a cura di U.
Bavoni, P.G. Bocci, A. Furiesi, Pontedera 2008, pp. 117-153.
9. Si veda l’affresco raffigurante il beato Jacopo Guidi proveniente dal chiostro della badia dei Santi Giusto e
Clemente di Volterra (Il Beato Jacopo da Certaldo, monaco camaldolese, fasc. III, p. 9), e ancora il dipinto con
l’Incoronazione della Vergine cui assistono i Santi Giusto e Clemente da Volterra oltre al Beato Jacopo Guidi da
Certaldo e San Romualdo (“Per bellezza, per studio, per piacere”. Lorenzo il Magnifico e gli spazi dell’arte, a cura
di F. Borsi, Firenze 1991, pp. 187-188). Nella parrocchia di Certaldo si conserva ancora oggi una statua lignea (h cm
147) raffigurante il beato Jacopo Guidi, realizzata dall’intagliatore Antonio Rossi (1805-1885) nel 1854, che insieme a quella del beato Davanzato adornava le nicchie della cappella ottocentesca dedicata alla beata Giulia nella chiesa dei Santi Jacopo e Filippo di Certaldo Alta. Sull’intagliatore senese Antonio Rossi si veda Chiarugi, S. Chiarugi,
La fortuna degli intagliatori senesi, in Siena tra purismo e liberty, a cura di B. Sani, Catalogo della mostra (Siena
1988), Milano 1988, pp. 298-310 in particolare pp. 298-302.
10. I. Malenotti, Vita della Beata Giulia Vergine da Certaldo, Colle 1819 (rist. anast. Poggibonsi 1992), pp. 139140, la cit. è a p. 140.
11. Si veda in: Il Beato Jacopo da Certaldo, fasc. II, 2005, pp. 10-12, in particolare p. 12.
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Badia Elmi
religiosi, anche solo giudicando gli spazi che la chiesa originariamente doveva occupare al di sopra della cripta 12. Parrebbe oltremodo verosimile che dovessero ammirarsi
immagini del fondatore dell’Ordine benedettino prima (san Benedetto) e camaldolese
poi (san Romualdo), con le relative insegne araldiche – due colombe rampanti ai lati di
un calice d’oro per l’Ordine camaldolese –, oltre a quelle dei novelli esempi. Purtroppo
il graduale declino cui fu sottoposta la nostra badia già nell’ultimo quarto del XIII secolo, coincidente al contrario con gli anni più prosperi per le commesse artistiche di altri
centri camaldolesi, non danno adito a generose ipotesi 13. Insieme all’abbazia di San
Pietro a Cerreto 14, il legame della badia di Adelmo con il più recente (fondato nel 1295)
e potente complesso camaldolese di Firenze intitolato a Santa Maria degli Angeli spiega, tuttavia, per il suo tramite, l’arrivo in tempi diversi di opere d’arte assai pregevoli 15.
Quali centri periferici, Cerreto ed Elmi ebbero semmai il gravoso compito di preservare quanto già in essere e di custodire al meglio quanto giungeva dal nucleo più prospero della zona.
La presenza, in particolare, fino al 1864 sull’altare maggiore della badia di Cerreto
di una grande tavola raffigurante l’Incoronazione della Vergine (Fig. 1), firmata da un
monaco camaldolese di Santa Maria degli Angeli, uno dei massimi campioni del tardogotico fiorentino, Lorenzo Monaco 16, ha, come vedremo, contribuito ad appannare
non poco, anche nei cultori locali, il ricordo delle opere conservate nella Badia di
Adelmo, generando, per di più, qualche confusione.
Nonostante due pilastri della moderna connoisseurship della pittura italiana, Joseph
Archer Crowe e Giovan Battista Cavalcaselle, nel 1864 avessero segnalato una
Coronazione della Vergine in una chiesa privata appartenente ai Signori Landi vicino a
12. Marco Frati, ipotizzando la presenza di uno xenodochium per i viandanti in molte abbazie valdelsane, lungo
i percorsi più frequentati dai pellegrini, cita anche Elmi. Frati suggerisce, inoltre, in maniera forse un po’ capziosa,
come la doppia titolazione dell’abbazia di Adelmo potesse corrispondere a una ripartizione che vedeva la prima titolazione, quella a Santa Maria, riferibile all’altare della chiesa, mentre la seconda, quella al Santo Sepolcro, riconducibile alla cripta (M. Frati, Architettura religiosa fra pellegrinaggio internazionale e devozione locale: il caso della
Valdelsa medievale, MSV, 104, n. 3, 1998, pp. 199-244: 204 e 223, con note 164 e 167).
13. Sulla decadenza dell’abbazia di Elmi negli anni settanta del Duecento si veda Monasteri, pievi cit., p. 201.
Tra gli insediamenti camaldolesi più importanti, insieme a San Maglorio di Faenza, San Benedetto a Padova e Santa
Maria degli Angeli a Firenze, ricordiamo quello di San Michele in Isola a Venezia, sorto nel 1212, in rapporto al
quale una recente mostra ha reso debitamente idea di che caratteristiche avesse l’arredo liturgico e artistico di una
chiesa camaldolese (San Michele in Isola. Isola della conoscenza, a cura di M. Brusegan, P. Eleuteri, G. Fiaccadori,
Catalogo della mostra, Venezia, Museo Correr, Museo Archeologico Nazionale, Biblioteca Nazionale Marciana,
2012, Torino 2012).
14. Monasteri, pievi cit., pp. 202-204.
15. Sul coinvolgimento degli artisti nel complesso fiorentino di Santa Maria degli Angeli si vedano: D. Savelli, Il
convento di Santa Maria degli Angeli a Firenze, Firenze 1983; Il chiostro camaldolese di Santa Maria degli Angeli a
Firenze, a cura dell’Ufficio Restauri della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Firenze, Pistoia e Prato, 4.
Quaderno dell’Ufficio Restauri della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Firenze, Pistoia e Prato, Firenze
1998; D. Savelli, R. Nencioni, Il chiostro degli angeli. Storia dell’antico monastero camaldolese di Santa Maria degli
Angeli, Firenze 2008.
16. Già Emanuele Repetti dava ampio spazio a quest’opera facendo perno sulle informazioni appena fornite da
Johann Wilhelm Gaye (E. Repetti, Introduzione al Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana, I, Firenze 1846,
ed. cons. 1969), I, p. 18). Relativamente alla tavola di Lorenzo Monaco, con un approfondito resoconto dei progetti
e delle acquisizioni emerse a seguito di un suo recente restauro, si rinvia a Lorenzo Monaco. Tecnica e Restauro.
L’Incoronazione della Vergine degli Uffizi. L’Annunciazione di Santa Trinita a Firenze, a cura di M. Ciatti e C.
Frosinini, Firenze 1998.
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Fig. 1. Firenze, Galleria degli Uffizi, Lorenzo Monaco, Incoronazione della Vergine
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Badia Elmi
Certaldo 17, verosimilmente identificabile con la chiesa di Badia Elmi, in pochi hanno prestato attenzione a quel dipinto e al suo ricordo. Ad esempio Luigi Pecori nella sua storia
di San Gimignano (1853), pur mostrando una grande ammirazione per la pregevole tavola di Lorenzo Monaco della badia di San Pietro a Cerreto, neppure si soffermò sulla badia
di Elmi 18.
Del resto, il fatto che il medesimo Isolani, autore della scoperta e della conseguente
rivalutazione della badia di Adelmo e della sua cripta, riferisse in chiesa di un «antichissimo quadro di buona pittura rappresentante la Concezione di Maria SS.» senza
tuttavia soffermarvisi troppo, contribuì al graduale oblio di quel dipinto 19. Fece eccezione ai più 20 Leone Chellini, che con la sua consueta precisione ricordò come sull’altare della chiesetta «al posto di una pregevole tavola di Lorenzo Monaco, l’Incoronazione
della Vergine venduta circa venti anni fa al Gallidunn, vedesi un quadro su tela (copia)
rappresentante lo Sposalizio della Madonna» 21. Si trattava di un’affermazione che, pur
isolata nella letteratura locale, era destinata ad acquistare ancor più forza, dal momento che il medesimo Chellini la ripeteva a oltre dieci anni di distanza 22. Ciononostante, la
straordinaria coincidenza del soggetto, una Coronazione della Vergine, nonché dell’autore, il pittore camaldolese Lorenzo Monaco, fece sì che nel corso degli anni l’attenzione si concentrasse sulla tavola degli Uffizi proveniente dalla badia di Cerreto, perdendo
completamente memoria del dipinto un tempo nella badia di Elmi.
Del resto, come qualche volta accade, la storia, percorrendo sentieri specialistici,
nasconde nelle sue pieghe notizie e informazioni preziose, sia pure senza perderle.
Volendo ricostruire il patrimonio artistico della badia di Adelmo conveniva scandagliare le carte d’archivio, concentrando l’attenzione in primo luogo sulle visite pastorali pertinenti alla diocesi di Volterra. Dalla visita di monsignor Giovanni Castelli si deduceva
come nel 1576 l’abbazia di Elmi si trovasse in uno stato assai modesto, bisognosa di
imbiancatura e con un arredo ridotto al minimo 23. La laconica descrizione veniva sostanzialmente confermata dalla visita di monsignor Alamanni del 1598-1616 24; mentre quella di monsignor Albizi del 1661 non menzionava neppure l’abbazia di Elmi 25. Si ha, tut17. J.A. Crowe, G.B. Cavalcaselle, A New History of Painting in Italy, I, London 1864, p. 554. Nell’edizione del
1903 i due curatori, Langton Douglas e Arthur Strong, aggiungevano in nota che la tavola si trovava alla National
Gallery di Londra, sebbene non ancora ricongiunta alle due ali da loro ritenute pertinenti al complesso (J.A. Crowe,
G.B. Cavalcaselle, A History of Painting in Italy. Umbria, Florence and Siena from the Second to the Sixteenth Century,
vol. II, London 1903, p. 299 nota 2).
18. L. Pecori, Storia della Terra di San Gimignano, Firenze 1853 (ed. cons. Firenze 2006), p. 561. Sul trasferimento della tavola di Lorenzo Monaco dalla badia di Cerreto alla Galleria degli Uffizi ci è gradito ricordare F.
Dall’Ongaro, Un quadro di Lorenzo Monaco, «L’Arte in Italia. Rivista mensile di Belle Arti», 2, 1870, p. 136.
19. Isolani, La Badia di Adelmo cit., p. 91.
20. Tra coloro che ricordarono la straordinaria tavola di Lorenzo Monaco in San Pietro a Cerreto, dimenticando completamente quella di Badia Elmi, ricordiamo anche Cioni, La Valdelsa cit., pp. 164-165. Altre guide relative
a San Gimignano non menzionano affatto Badia Elmi: A. Tognetti, Guida di San Gimignano, Firenze 1899; E. Marri,
Guida di San Gimignano, Firenze 1921.
21. Chellini, San Gimignano e dintorni cit., pp. 177-178, la cit. a p. 178.
22. Id., Guida storico artistica di San Gimignano, Firenze 1931; Id., Le iscrizioni del territorio di San Gimignano,
MSV, 41-43, 1934, p. 48-58: 58.
23. ADV, Visite Apostoliche, 2, c. 204v.
24. Ivi, 14, cc. 173v e 174r, oltre a c. 159v.
25. Ivi, 21. Sull’abbazia di Cerreto si vedano le cc. 360v-361r.
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tavia, maggior successo consultando la visita di monsignor Alliata del 1796 26, chiarissima nella scrittura e ricca di informazioni. Alla data del 23 aprile di quell’anno il visitatore apostolico registrava come l’oratorio dedicato a Maria SS. della Neve fosse:
in ottimo stato, non meno che gli arredi ed utensili sacri. L’altare è di stucco e ha la pietra
sacrata ben collocata. Il quadro è antico, ma in buon grado, e rappresenta la Coronazione
di Maria SS.ma 27.
Nella stessa occasione monsignor Alliata visitava anche la vicina chiesa di San Pietro a
Cerreto, nella quale annotava come sull’altare maggiore, in stucco, si trovasse un dipinto
antico raffigurante la Coronazione della Vergine, con San Pietro, alcuni apostoli e monaci camaldolesi; mentre sull’altare di Sant’Antonio si ammirava una tavola raffigurante il
Cristo Crocifisso con i santi Antonio e Sebastiano e su quello dedicato a Maria SS. del
Rosario una Madonna col Bambino in braccio 28.
Era dunque evidente non solo come la ristrutturazione dell’oratorio di Badia Elmi dovesse essere avvenuta tra il 1661 (visita Albizi) e il 1796 (visita Alliata), forse davvero nel
1791 come indicava un’epigrafe perduta collocata nel chiostro 29, ma anche che in entrambe le chiese, sia del monastero di Adelmo sia di quello di Cerreto, si ammirasse sull’altar
maggiore una tavola raffigurante un’Incoronazione della Vergine; e questo con buona
pace di don Socrate Isolani, che evidentemente aveva mal interpretato il resoconto di monsignor Alliata 30.
Seguendo perciò quanto avevano indicato, nelle edizioni aggiornate della loro nuova
storia pittorica in Italia, il Crowe e il Cavalcaselle 31 e poi, nei resoconti locali, il Chellini 32,
non restava che verificare l’esistenza presso la National Gallery di Londra di
un’Incoronazione della Vergine di Lorenzo Monaco proveniente dalla badia di Adelmo.
Era così da un accurato catalogo di quella galleria che ottenevamo la strabiliante prova
che andavamo cercando, allorquando sotto la provenienza del famoso dipinto n. 1897
(Fig. 2) scoprivamo la sua documentata presenza nella chiesetta della badia di Adelmo
all’incirca dal 1830-1840 fino alle soglie del Novecento 33, e che, alla luce di quanto registrato dal visitatore apostolico monsignor Alliata, potevamo aggiungere vi si trovasse
almeno dal 1796 34.
D’ora in avanti ripercorrere le tappe fondamentali degli spostamenti del dipinto sarebbe apparso assai più agevole. Nelle glosse alle celebri Vite di Giorgio Vasari, Gaetano
26. Ivi, 47, cc. 18r e 18v.
27. Ibidem, da c. 18r.
28. Ivi, cc. 18v-19r.
29. Isolani, La Badia di Adelmo cit., p. 91.
30. Socrate Isolani, richiamandosi alla visita di monsignor Alliata, aveva infatti trascritto erroneamente come sull’altar maggiore dell’oratorio di Elmi si trovasse una Concezione di Maria SS. anziché una Coronazione di Maria SS.,
pur specificando in nota – in questo concordemente con quanto affermerà di lì a poco il Chellini (San Gimignano e
dintorni cit. p. 178; Guida storico artistica di San Gimignano cit., p. 58) – che la pittura era stata venduta all’inizio
del Novecento dai signori Landi (Ibidem).
31. Si veda la nota 17.
32. Si confrontino le note 21 e 22.
33. M. Davies, The Earlier Italian Schools, London 1961, pp. 305-312, in particolare le pp. 306-309.
34. Si rimanda alla nota 27.
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Badia Elmi
Fig. 2. Londra, National Gallery, Lorenzo Monaco,
Incoronazione della Vergine
Milanesi aveva identificato la tavola
in questione con il centro della pala
realizzata da Lorenzo Monaco per il
monastero camaldolese di San
Benedetto fuori porta Pinti di Firenze,
poi trasferita – a causa della distruzione del complesso durante l’assedio
spagnolo del 1529 – nel monastero
degli Angeli, dove lo storiografo aretino la ricordava nella cappella degli
Alberti 35 e dove dovette vederla anche il Del Migliore (1684) 36. Tuttavia,
se ancora oggi non è possibile stabilire l’anno esatto, tra il 1792 e il
1796 37, in cui almeno la parte centrale della pala d’altare fu trasferita
nella chiesetta di Badia Elmi, essa
dovette essere certamente acquistata
insieme agli immobili dell’antica
badia nel 1826 dai signori Landi di
Certaldo 38, dai quali fu poi venduta al
cavaliere Marcello Galli Dunn, un noto
antiquario nonché proprietario del vicino castello di Badia – già di Marturi –
situato vicino a Poggibonsi 39. Questi, a
sua volta, nel 1902 la vendé alla
National Gallery di Londra per
«2739 £, 13 sh» 40.
35. Le Vite de’ più eccellenti pittori scultori ed architettori scritte da Giorgio Vasari pittore aretino con nuove
annotazioni e commenti di Gaetano Milanesi, Firenze 1906, tomo II, pp. 19-20 con nota 1.
36. F.L. Del Migliore, Firenze città nobilissima illustrata, Firenze MDCLXXXIV, p. 332.
37. Sia il Richa, nel 1759, sia il Follini e il Rastrelli, nel 1792, continuavano a segnalare la tavola di Lorenzo
Monaco nel monastero degli Angeli, dove la vide il Del Migliore (G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine
divise ne’ suoi quartieri, 8, Firenze 1759, p. 163; V. Follini, M. Rastrelli, Firenze antica e moderna illustrata, IV,
Firenze 1792, pp. 83-84).
38. Socrate Isolani ricorda che nel 1826 i signori Landi di Certaldo acquistarono la badia di Elmi dai monaci di
Santa Maria degli Angeli di Firenze previo consenso del granduca (Isolani, La Badia di Adelmo cit., p. 91; Id., Storia
politica e religiosa dell’antica comunità e podesteria di Gambassi, Castelfiorentino 1924, p. 168); mentre più generico, pur confermando il periodo, risulta il Chellini (San Gimignano e dintorni cit., p. 178).
39. Si veda in proposito A. Neri, Descrizione storico-artistica del Castello di Badia già di Marturi a Poggibonsi
del proprietario prof. Marcello Galli-Dunn, Castelfiorentino 1901.
40. O. Sirèn, Don Lorenzo Monaco, Strassburg 1905, pp. 65-66. Sull’interessante figura del cavaliere e antiquario Marcello Galli Dunn, che fra l’altro donò nel 1906 alla Pinacoteca Nazionale di Siena la celebre Madonna col
Bambino e angeli oggi riconosciuta a Dietisalvi di Speme (cfr. Duccio. Alle origini della pittura senese, a cura di A.
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Sul patrimonio artistico di un’antica badia camaldolese
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Fig. 3. Londra, National Gallery, Lorenzo
Monaco, Incoronazione della Vergine
Nell’Archivio della Galleria
Nazionale di Londra si conserva
un’interessante lettera inviata il
26 novembre 1901 dal signor
Charles Alexander barone de
Casson, un collezionista assai
conosciuto e apprezzato dagli
appassionati d’arte inglesi, all’allora direttore della National
Gallery Edward Poynter 41. Da
essa si evince che il barone aveva
ispezionato più volte il dipinto di Lorenzo Monaco dal Galli Dunn e ne garantiva l’autografia al futuro acquirente. Ma non solo. In veste di fidato informatore il barone de Casson
sosteneva di aver visionato il contratto con cui l’allora possessore l’aveva acquistata dagli
undici componenti della famiglia Landi e che, prima di perfezionare la vendita, il Ministro
della Pubblica Istruzione aveva fatto una stima di £ 100.000. Prestando fede, quindi, al
barone de Casson, dovrebbe esistere presso un archivio di Siena un memorandum relativo all’alienazione del dipinto. Tuttavia, dal momento che l’archivio storico della
Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici di Siena e Grosseto per
quelle date non offre alcun documento, ci si è rivolti all’Archivio di Stato, consultando in
particolare le filze degli Affari Generali delle Belle Arti e, nello specifico, quelle comprese
tra il 1888 e il 1902; purtroppo, anche in questo caso, senza alcun successo 42.
Resta perciò da rintracciare, oltre al memorandum citato dal de Casson, il relativo anno
di alienazione del dipinto da parte dei signori Landi al marchese Galli Dunn. Di certo la vendita avvenne dopo il 1864, quando cioè lo videro nella chiesa privata dei signori Landi il
Crowe e il Cavalcaselle 43, e prima del 1902, quando il dipinto passò dal marchese Galli Dunn
alla National Gallery di Londra. Neppure la data 1762 leggibile a fatica dietro la parte centrale della pala d’altare, insieme ad alcune lettere di difficile comprensione e a un disegno a
mano libera, ci offrono informazioni aggiuntive circa la storia dello smembramento del dipinto (Fig. 3).
Bagnoli, R. Bartalini, L. Bellosi, M. Laclotte, Catalogo della mostra, Siena 2003, Cinisello Balsamo 2003, p. 52),
manca ancora oggi una seria indagine storica.
41. Dell’esistenza di questa lettera si apprende in Davies, The Earlier Italian Schools cit., p. 309 nota 15. Ringrazio
vivamente Nicholas Donaldson e, insieme a lui, tutto lo staff dell’Archivio della National Gallery di Londra per avermi consentito di consultare agevolmente la lettera in questione. Charles Alexander barone de Casson (Durham, 28
agosto 1846-Firenze, 8 febbraio 1929) proveniva da una famiglia francese rifugiatasi in Inghilterra durante la rivoluzione. Nei moltissimi suoi viaggi sviluppò la passione per le armi diventando per l’appunto un importante collezionista di monete, armi e armature. Trasferitosi a Firenze nel 1901 vi trascorse il resto dei suoi giorni. Edward Poynter
(Parigi 1836-Kensington 1919), ricordato per lo più come artista accademico, fu direttore della National Gallery di
Londra dal 1894 al 1904. A lui si deve, nel 1899, il primo catalogo illustrato completo della raccolta. Preme sottolineare come nella lettera citata il barone de Casson si riferisse al cavaliere Galli Dunn nominandolo sempre quale possessore del dipinto, senza mai specificarne il nome. Lo scrivente tentò, inoltre, di offrire notizie su Lorenzo Monaco
nonché sulla badia di Elmi purtroppo non sempre attendibili.
42. ASS, Belle Arti, Affari Generali, filze 25-38.
43. Crowe, Cavalcaselle, A New History of Painting cit., p. 554.
Fig. 3.
Galler
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198
Badia Elmi
Fig. 4. Londra, National Gallery, Lorenzo Monaco, Incoronazione della Vergine e santi adoranti
Certo è che nel corso del Novecento le ricerche storico-artistiche hanno portato alla
ricostruzione di una buona parte della pala di Lorenzo Monaco per l’altar maggiore del
monastero maschile di San Benedetto fuori Porta Pinti 44. Alla parte centrale, oltre alle due
ali laterali (Fig. 4) 45, si sono aggiunte col tempo alcune tavole della predella: San Benedetto
ammette San Mauro e San Placido nell’ordine benedettino (Fig. 5); Un giovane monaco
tentato durante la preghiera; San Benedetto resuscita un giovane benedettino colpito dal
crollo di una costruzione (Fig. 6) 46; San Mauro salva San Placido e San Benedetto visita
Santa Scolastica (Fig. 7) 47; la Morte di San Benedetto (Fig. 8); l’Adorazione dei Magi (Fig.
44. Alla parte centrale della pala con l’Incoronazione della Vergine, già alla National Gallery di Londra insieme
alle due ali laterali con santi e apostoli adoranti, fece cenno anche il Pudelko menzionando in nota il suo ritrovamento
a Badia Elmi da parte di Crowe e Cavalcaselle. Fu seguito da Martin Davies, che rintracciò la recente provenienza
delle ali laterali prima di approdare alla galleria londinese (G. Pudelko, The Stylistic Development of Lorenzo Monaco.
I, «The Burlington Magazine for Connoisseurs», 73, 1938, pp. 237-250: 247 con nota 29; M. Davies, Lorenzo Monaco’s
“Coronation of the Virgin” in London, «La Critica d’Arte», 29, 1949, pp. 202-210: 208 nota 7).
45. La prima proposta di mettere in relazione le due ali laterali con Santi e apostoli adoranti della National Gallery di
Londra (n. 215 e n. 216), a quel tempo riferiti a Taddeo Gaddi, con la parte centrale della Coronazione della Vergine si deve
al Crowe e al Cavalcaselle (Crowe, Cavalcaselle, A New History of Painting in Italy cit., p. 554).
46. C. Pietrangeli, I dipinti del Vaticano, Udine 1996, fig. a p. 108, p. 109, la cit. a p. 91.
47. Sulle due ali laterali (n. 215 e n. 216), la parte centrale con la Coronazione della Vergine (n. 1897) e le due tavolette facenti parte della predella con San Benedetto ammette San Mauro e San Placido nell’Ordine benedettino (n. 2862)
e San Mauro salva San Placido e San Benedetto visita Santa Scolastica (n. 4062), si rimanda ancora oggi per l’accuratezza di informazioni e ricchezza bibliografica a Davies, The Earlier Italian Schools 1961 cit., pp. 305-312; seguito
dalla più recente e altrettanto coscienziosa analisi bibliografica, con tanto di proposta ricostruttiva della pala d’altare,
di D. Gordon, National Gallery Catalogues. The Fifteenth Century Italian Paintings, I, London 2003, pp. 162-187.
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Sul patrimonio artistico di un’antica badia camaldolese
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A sinistra, sopra (fig. 5), Londra,
National Gallery, Lorenzo Monaco, San
Benedetto ammette San Mauro e San
Placido nell’ordine benedettino. Sotto
(fig. 6), Roma, Pinacoteca Vaticana,
Lorenzo Monaco, Un giovane monaco tentato durante la preghiera; San
Benedetto resuscita un giovane benedettino colpito dal crollo di una
costruzione
9) 48; la Madonna Annunciata
(Fig. 10) nella cuspide, alla
destra del riguardante 49; il profeta Geremia (Fig. 11) nella
zona alta del pilastro destro
dell’incorniciatura 50; e
infine il Cristo benedicente (Fig. 12) in alto al
centro 51.
La pur parziale ricostruzione del complesso suggerisce evidentemente un programma
iconografico assai affine alla pala d’altare per
il monastero di Santa
Maria degli Angeli
giunta praticamente integra nella Badia di Cerreto. Entrambe le opere costituivano una precisa esaltazione dell’Ordine benedettino nel ramo riformato da san Romualdo, con un fermo
richiamo alla preghiera e alla vita cenobitica al fine di sconfiggere le tentazioni umane.
48. La tavola con l’Adorazione dei Magi del Museo Nazionale di Poznan è stata ricondotta alla pala di San
Benedetto da Marvin Eisenberg (M. Eisenberg, Lorenzo Monaco, Princeton 1989, pp. 138-145).
49. Riferita dal Pudelko alla pala del monastero di San Benedetto fuori Porta Pinti. Questa tavoletta, presente
nella collezione del principe del Liechtenstein dal 1894 al 1948, è poi giunta sul mercato antiquario, finché nel
1973 è stata donata alla Norton Simon Art Foundation (M.1973.5.P). Cfr. Pudelko, The Stylistic Development
cit., p. 247.
50. Il profeta Geremia venne messo in relazione con la pala d’altare di San Benedetto fuori Porta Pinti per primo
dal Boskovits (M. Boskovits, Su Don Lorenzo, pittore camaldolese, «Arte Cristiana», 82, 1994, pp. 351-364: 353).
51. Anche il Cristo benedicente – nel corso del Novecento parte della collezione di Charles Loeser, sul finire degli
anni Novanta nella collezione di Carlo De Carlo e nel 2002 acquistato dallo Stato Italiano per poi essere esposto nella
Galleria dell’Accademia di Firenze – venne collegato alla pala camaldolese dal Boskovits (ibidem). Per una scheda
riassuntiva, con bibliografia aggiornata sulle vicende della pala d’altare per San Benedetto fuori Porta Pinti, si veda
Lorenzo Monaco. Dalla tradizione giottesca al Rinascimento, a cura di A. Tartuferi e D. Parenti, Catalogo della
mostra (Firenze 2006), Firenze 2006, cat. n. 23, pp. 167-171. Sulla non pertinenza alla pala d’altare in questione
della tavoletta della National Gallery di Londra raffigurante San Benedetto nel Sacro Speco di Subiaco (NG5224)
proposta dalla Levi d’Ancona (M. Levi D’Ancona, Matteo Torelli, «Commentari», 9, 1958, pp. 244-258: 258) si
veda da ultimo Gordon, National Gallery Catalogues cit., pp. 198-200. E ancora sulla non pertinenza dei quattro
patriarchi (Noè, Mosé, Abramo, David) del Metropolitan Museum di New York, il cui riferimento era stato avanzato da Lawrence Kanter nel 1994, si veda la recente scheda, con bibliografia precedente dello stesso studioso, in
Lorenzo Monaco. Dalla tradizione giottesca al Rinascimento cit., cat. 28 e cat. 29, pp. 186-190.
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Badia Elmi
Dall’alto in basso (figg. 7-9): Londra,
National Gallery, Lorenzo Monaco, San
Mauro salva San Placido e visita di San
Benedetto, a Santa Scolastica; Londra,
National Gallery, Morte di San
Benedetto; Poznan, Muzeum Narodowe,
Adorazione dei Magi
I documenti e l’aspetto stilistico
indicano ormai concordemente
una anteriorità della pala di San
Benedetto fuori Porta Pinti,
risalente al 1407-1409, rispetto
a quella di Santa Maria degli
Angeli, datata 1414 52. Si rammenta, tuttavia, come una carta
conservata nel Fondo MediceoLorenese raffigurante sul recto
Sei Santi (Fig. 13) e sul verso San
Benedetto in trono (Fig. 14),
ascrivibile a Lorenzo Monaco o
a un suo allievo con la supervisione del maestro e confrontabile, in particolare, con il pannello laterale sinistro raffigurante Santi e apostoli in preghiera della National Gallery di
Londra (n. 215), sia stata al centro di una significativa discussione proprio per la datazione
del dipinto 53.
52. Sulla scoperta della documentazione che riferisce la commissione della pala destinata all’altare maggiore
del monastero di San Benedetto fuori Porta Pinti nel 1407 per volere di Luca di Pietro di Rinieri dei Berri, e per la
sua conclusione entro il 1409, dal momento che a quella data doveva risultare già collocata al suo posto, si rinvia
a D. Gordon, A. Thomas, A New Document for the High Altar-Piece for S. Bendetto fuori della Porta Pinti,
Florence, «The Burlington Magazine», 137, 1995, pp. 720-722; D. Gordon, The Altar-piece by Lorenzo Monaco
in the National Gallery, London, «The Burlington Magazine», 137, 1995, pp. 723-727. Un ulteriore momento
conoscitivo del dipinto è avvenuto durante un recente restauro, per il quale si rimanda a P. Ackroyd, L. Keith, D.
Gordon, The restoration of Lorenzo Monaco’s Coronation of the Virgin: Retouching and Display, «National
Gallery Technical Bulletin», 21, 2000, pp. 43-57. Sul restauro della pala per il monastero di Santa Maria degli
Angeli dal 1864 alla Galleria degli Uffizi, con un’accurata nota ricostruttiva circa la Coronazione della Vergine di
Londra e il suo restauro, si veda Lorenzo Monaco. Tecnica e restauro cit., in particolare l’Appendix a firma di
Dillian Gordon, alle pp. 143-156.
53. Si veda a tale proposito la scheda di Fiora Bellini che prende spunto da una considerazione di Luciano Bellosi, sulla
quale lo stesso studioso si trova poi a rimeditare (I disegni antichi degli Uffizi. I tempi del Ghiberti, a cura di F. Bellini,
Firenze 1978, cat. n. 28, pp. 28-29; L. Bellosi, Due note in margine a Lorenzo Monaco miniatore: il Maestro del codice Squarcialupi e il poco probabile Matteo Torelli, in Studi di Storia dell’arte in onore di Matteo Rotili, I, Napoli pp.
307-314, riproposto in Id., Come un prato fiorito. Studi sull’arte tardogotica, Milano 2000, pp. 55-61, in particolare
p. 60 nota 26). Per una scheda sui disegni: L. Melli, in Lorenzo Monaco. Dalla tradizione giottesca al Rinascimento cit.,
cat. 33, pp. 200-201. La convinzione che la pala del monastero di San Benedetto fuori Porta Pinti precedesse cronologicamente quella del monastero degli Angeli era stata espressa dal Boskovits già prima del ritrovamento dei documenti
(Boskovits, Su Don Lorenzo, pittore camaldolese cit., in particolare pp. 353-354).
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Sul patrimonio artistico di un’antica badia camaldolese
Fig. 10. Pasadena, Norton Simon Museum,
Lorenzo Monaco, Vergine annunciata
Assai diverso è, invece, il caso del
disegno che Johann Anton Ramboux fece della nostra Coronazione
della Vergine (Fig. 15). Considerando che il pittore tedesco fu protagonista di due significativi soggiorni in Italia, nel 1816-1822 e nel
1832-1842, è evidente che egli
dovette vederla proprio nella chiesa valdelsana, a testimonianza, presumibilmente, di una rinnovata
vitalità dell’antico centro camaldolese in seguito ai restauri di fine
Settecento. Non solo, quindi, Ramboux, Crowe e Cavalcaselle inserirono la chiesa di Badia Elmi tra i
loro itinerari di studio e scoperta,
ma seppero riconoscere e individuare la qualità artistica del dipinto in essa conservato. Dispiace, pertanto, che attualmente quanto
rimasto del patrimonio artistico di
questa chiesa, anche se presumibilmente non dello stesso livello qualitativo del dipinto di Lorenzo
Monaco, non possa essere studiato
come meriterebbe.
Secondo quanto ricordavano
l’Isolani e il Chellini all’inizio del
Novecento, la Coronazione della
Vergine di Lorenzo Monaco venne
sostituita da una tela centinata raffigurante lo Sposalizio della Vergine 54. Doveva trattarsi di una copia da Raffaello della celebre tavola del 1504 oggi conservata alla Pinacoteca di Brera, stando anche a una vecchia
foto dell’altare della chiesa di Badia Elmi. Probabilmente la tela fu realizzata nell’Ottocento,
in pieno recupero dei pittori classici rilanciati dalla corrente capeggiata da pittori quali il
famoso Anton Raphael Mengs. Un esame diretto avrebbe potuto verificarne la qualità e
l’eventuale presenza di iscrizioni sul retro, talvolta significative per rintracciarne l’autore e
una sua eventuale precedente provenienza. Purtroppo ciò non è stato possibile, così come
non è stato possibile vedere e studiare la suppellettile liturgica: calici, pissidi, candelieri,
54. Isolani, La Badia di Adelmo cit., p. 91; L. Chellini, San Gimignano e dintorni, Modena 1921, p. 178.
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Badia Elmi
A sinistra (fig. 11): New York, collezione Richard L. Feigen, Lorenzo Monaco, Il profeta Geremia. A destra (fig. 12):
Firenze, Galleria dell’Accademia, Lorenzo Monaco, Cristo benedicente
Figg. 13-14. Firenze, coll. Fondo Mediceo Lorenese, Lorenzo Monaco, Sei santi (recto); San Benedetto in trono (verso)
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Sul patrimonio artistico di un’antica badia camaldolese
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Fig. 15. A sinistra: Frankfurt, Städelsches Kunstinstitut Coronazione della Vergine, disegno di Johann Anton
Ramboux. A destra: Londra, National Gallery, Lorenzo Monaco, Incoronazione della Vergine
ostensori, croci, carteglorie, reliquiari e tutto quanto doveva servire per celebrare degnamente le sacre cerimonie.
Nella speranza che le ricerche storico artistiche sull’antica badia di Adelmo possano
proseguire in futuro con maggior successo, per il momento dobbiamo accontentarci di
aver riportato alla memoria la presenza nella chiesa dal 1796 alla fine del secolo successivo di un bellissimo capolavoro di Lorenzo Monaco.
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La badia di Adelmo. Ipotesi di ricostruzione
Massimo Tosi
Premessa
Lo stato di conservazione del complesso abbaziale di Badia Elmi risulta molto compromesso rispetto alla situazione originaria. Nella confusa aggregazione volumetrica l’unico elemento che segnala a livello ambientale la presenza di antiche vestigia è il campanile, il quale
conserva ancora la tozza e poderosa struttura romanica. La collinetta su cui sorge il fabbricato, prima propaggine della valle del fiume Elsa, è oggi circondata da insediamenti residenziali e industriali intensivi che soffocano irrimediabilmente l’edificio. Data, quindi, l’attuale situazione, è ancor più necessario, per la sua valorizzazione, conoscere a fondo la millenaria badia, studiandone le componenti ancora visibili e cercando di bloccarne il degrado.
Un disegno ricostruttivo che, mettendone in risalto l’importanza storica, sia anche facile da comprendere può divenire importante per formare, nei proprietari fra i quali il bene
è diviso, la coscienza della necessità di rispettare e conservare il bene storico. In quest’ottica è, altresì, veramente lodevole l’iniziativa dell’annuale festa di Adelmo, che vede una
crescente partecipazione degli abitanti della frazione sangimignanese, e altrettanto lodevoli gli incontri culturali che hanno per tema la stessa badia.
Fig. 1
Importante risulta essere la strada che toccava il monastero, corrispondente al percorso intermedio della Francigena, ossia a quello più antico 1. Tale tratto collegava fra loro
San Genesio, San Quintino, Collepatti, Varna, Catignano, Badia a Cerreto, Badia Elmi e
poi, passando per Santa Maria, il castello di Mucchio, Ulignano e lo spedale di Torri, giungendo all’abbazia regia di Marturi per proseguire, infine, verso Siena e Roma.
1. Nei recenti studi di Renato Stopani il tratto valdelsano intermedio è descritto come quello più antico, anche
perché collegava due abbazie regie: San Salvatore a Fucecchio e Marturi presso Poggibonsi (cfr. Bibliografia di riferimento: Stopani, Il tracciato più antico sulla sinistra dell’Elsa cit., pp. 62-64).
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Badia Elmi
Fig. 2
A poche centinaia di metri, nella valle, scorre l’Elsa, all’epoca molto importante per l’economia dell’area, anche in rapporto alla presenza di mulini. In prossimità dell’odierno ponte
sull’Elsa si colloca ancora un mulino (ora albergo) appartenuto ai Landi, fino a pochi anni fa
essi stessi proprietari della badia. Un’altra ruota idraulica si trovava sul torrente Casciani, che,
insieme all’Agliena sul versante di Certaldo, confluisce nell’Elsa proprio davanti alla badia.
Nella valletta del torrente Casciani, del pari inglobata all’interno della zona industriale,
è sopravvissuta la bella torre in laterizio denominata Torre del Palagetto, manufatto che
appartenne al beato Jacopo da Certaldo 2.
2. Quest’ultimo nacque dal cavaliere Albertino di Guido nel XIII secolo. La tradizione locale identifica il luogo della
sua prima dimora appena fuori Certaldo, tra il fiume Elsa e il torrente Casciano, in una vecchia casa con torre chiamata Palagetto. A metà della torre fu posto per ricordo un busto in rilievo del beato con in testa la mitria, ora scomparso. Anche il Malenotti affermava che questo edificio era la casa del beato camaldolese (Malenotti, Vita della Beata
Giulia cit.).
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La badia di Adelmo. Ipotesi di ricostruzione
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Possiamo ipotizzare, con buona approssimazione, l’esistenza di un ponte di legno
per il collegamento con il mulino, con Certaldo e quindi con la viabilità trasversale che
portava alla pieve di San Lazzaro, al castello di Lucardo e a Firenze.
La presenza in questo punto della valle, nel raggio di un solo chilometro, di ben due
abbazie e di un castello è testimonianza tangibile dello sviluppo economico del territorio, sicuramente dovuto all’esistenza di fiumi e torrenti, alla fertilità del terreno ed anche
ai traffici che accompagnavano il flusso di pellegrini e mercanti sulla via Francigena.
Un territorio che appariva, quindi, florido e aperto al transito di idee, usanze e moderne tecnologie costruttive, come l’adozione di stilemi lombardi e d’Oltralpe riscontrabili in numerose fabbriche valdelsane 3.
2. L’abbazia: caratteri costruttivi
L’impianto generale della fabbrica è abbastanza consueto, con la chiesa a sinistra e
il monastero a destra, e si conforma ad altri insediamenti monastici di influenza cadolingia presenti nella Toscana centro-settentrionale 4. Infatti anche a San Salvatore a
Settimo, a Vaiano e a Fucecchio abbiamo questa disposizione. La posizione della torre
campanaria varia, invece, anche in rapporto alla visibilità presente nelle varie zone. Solo
il campanile della Badia a Settimo presenta la medesima ubicazione e si presenta completamente staccato come a Badia Elmi. È chiaro che, rispetto ai monasteri citati, il complesso valdelsano appare molto più modesto. Meno numerosa, infatti, era la comunità
dei religiosi, e quindi più che sufficiente risultava una chiesa ad una sola navata, tipologia che troviamo anche nelle aule di edifici monastici quali San Pietro a Cerreto e San
Vittore 5. La struttura sorse in un ambito territoriale soggetto all’influenza politica dei
Cadolingi i quali, anche tramite la fondazione di edifici di culto, cercavano di consolidare il proprio controllo sulle terre di confine appartenenti all’episcopato volterrano e
a quello fiorentino, come anche sui principali assi della viabilità, primo fra tutti il tracciato della Francigena. I riferimenti, anche stilistici, ai suddetti monasteri, riferimenti
che faremo nel corso del presente saggio, derivano da queste considerazioni storiche,
ma anche dalla presenza nella valle di importanti pievi che risentono del romanico oltremontano e lombardo.
Nell’ipotesi ricostruttiva della badia (Fig. 3) abbiamo immaginato di liberare la chiesa dalle aggiunte successive di corpi di fabbrica, e lo stesso abbiamo fatto per il chiostro,
che risulta rettangolare, con sei arcate sul lato lungo e quattro su quello corto. Abbiamo
anche liberato il campanile, che appare possente e tozzo, e lo abbiamo dotato della più
che probabile cella campanaria.
3. Moretti, Stopani, Chiese romaniche cit.; Chiese medievali della Valdelsa cit.
4. Per l’influenza della famiglia sul territorio cfr. Salvestrini, I conti Cadolingi cit.
5. San Pietro a Cerreto, abbazia sita sulla collina di fronte a Badia Elmi, fu fondata nel 1059 su terreni di proprietà regia. Appartenne ai Camaldolesi fino al 1421. È stata oggetto di recenti restauri. A qualche chilometro di
distanza sulla via volterrana si trova il monastero fortificato di San Vittore, eretto nel 1075 sul luogo ove si trovava
una cappella appartenente al monastero femminile di Cavriglia. Unita a tale cenobio era una canonica. Infatti nelle
decime del 1302-03 veniva nominata, tra gli esenti, la canonica Sancti Victoris (Mori, Pievi della Diocesi cit.; Duccini,
Il castello di Gambassi cit.).
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Badia Elmi
Fig. 3
3. La facciata
Sono ancora visibili alcuni elementi stilistici, anche se ricoperti da intonaco (Fig. 4).
La lettura appare chiara e rispondente ad esempi canonici dello stile romanico lombardo.
Realizzata a semplice capanna, la facciata appare suddivisa in tre spazi da due lesene. Tali
spazi sono conclusi in sommità da tre archetti pensili.
Ritroviamo il modello di ripartizione spaziale più vicino nella chiesa di Santa Maria a
Filottele (Fig. 5), modello che vediamo riprodotto in una foto anteriore all’ultimo conflitto mondiale. La chiesa si trova in Val di Bisenzio, zona in età romanica controllata dai
Cadolingi. Attualmente il fronte è stato ricostruito in maniera molto arbitraria.
Riscontriamo altri modelli a cui accostare la nostra facciata in località disseminate lungo
la Francigena. Di volta in volta cambiano solo i materiali, per esempio nella pianura padana sono a mattoni (Fig. 6).
L’unica finestrella presente in facciata è sicuramente posteriore, aperta contemporaneamente ai lavori tardobarocchi del 1790, quando metà della chiesa fu trasformata in
cappella. Possiamo, quindi, ipotizzare una finestrella archeggiata o una bifora con colonnetta, spesso presente in chiesette romaniche valdelsane e anche recentemente ritrovata
nella vicina Badia a Cerreto (Fig. 7).
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La badia di Adelmo. Ipotesi di ricostruzione
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Figg. 4-7
4. Archetti pensili
Il motivo degli archetti pensili rinvia ad altri esempi valdelsani, come quello della chiesa di San Michele a Ponzano (Fig. 8). Essi sono presenti anche sul fianco e nell’abside della
Badia a Settimo (Fig. 9). Purtroppo non possiamo verificare la corrispondenza di quelli
absidali, in quanto nella nostra chiesa manca proprio la parte terminale, compresa la
copertura. Nel sottotetto di un appartamento abbiamo fotografato gli archetti visibili, che
denunciano una vistosa similitudine con quelli della Badia a Settimo, anche nel peduccio
in pietra (Fig. 10).
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Badia Elmi
Figg. 8-10
5. Lesene e paramento murario laterale
Le pareti laterali della chiesa sono costruite con conci in arenaria di grosse dimensioni
alla base, che diminuiscono nei filaretti superiori. Esse risultano suddivise in cinque spazi
da sei lesene che si raccordano agli archetti pensili in prossimità del tetto. Purtroppo le lesene non sono visibili perché inglobate all’interno delle costruzioni che nel tempo sono state
addossate alla chiesa. Infatti nei locali di un appartamento ricavato da una parte degli ex
locali del chiostro, grazie a un intervento di ristrutturazione lodevole e rispettoso delle antiche memorie architettoniche, è possibile apprezzarle (Figg. 11, 12). Gli archetti sono visibili nella soffitta di detto appartamento, come testimonia la foto fornita dal proprietario.
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La badia di Adelmo. Ipotesi di ricostruzione
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6. L’accesso alla cripta
Durante i lavori di ristrutturazione del citato appartamento, nell’angolo di una stanza destinata a camera, sono venuti alla luce l’arco e le scale di accesso alla sottostante cripta, come si può vedere nelle immagini (Fig. 13). Si tratta di un arco di ottima fattura con
conci leggermente estradossati in modo da formare, nella parte centrale, l’arco acuto; un
sistema costruttivo ripetuto anche nell’arco della porta di accesso al campanile.
Fig. 11
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Badia Elmi
Figg. 12-13
7. La cripta
È senza dubbio la parte più interessante e
meglio conservata del complesso architettonico abbaziale. Si tratta dell’unico esempio interamente leggibile di cripta presente in Valdelsa,
oltre a quella della pieve di San Lazzaro, che è arrivata a noi purtroppo smembrata e priva
delle volticine. È proprio con questo edificio che esistono forti assonanze, sia nei caratteri decorativi, sia nella ripartizione degli spazi, chiaramente di matrice lombarda (Fig. 14).
Sei risultano gli spazi fra le lesene e tre le navatelle della cripta, concluse con la parete
semicircolare dell’abside. La nostra cripta ha uno sviluppo orizzontale più accentuato
rispetto a modelli coevi, si sviluppa su quattro campate ed è preceduta da un vasto ambulacro nel quale si immetteva la scala d’ingresso. Si veniva a formare, quindi, una piccola
chiesa sottostante di lunghezza pari alla metà di quella superiore (Fig. 15). Due vani si
aprivano in corrispondenza delle navatelle laterali ora tamponate. Molto probabilmente
in corrispondenza della porta attuale si apriva una nicchia come nella cripta di San Lazzaro
(Fig. 16) e in quella della Badia a Settimo (Fig. 17) 6. Le cripte citate hanno, però, gli ingressi laterali che immettono direttamente nello spazio interno. Nel nostro caso, invece, la
scala introduce nell’ambulacro e solo successivamente nella cripta. Sembra, quindi, un
modello planimetrico più evoluto, con una distribuzione degli spazi maggiormente razionale ed anche più suggestiva, in quanto l’area sacra, che spesso conteneva reliquie o spoglie di religiosi in odore di santità, veniva raggiunta tramite un percorso più lungo, particolarmente adatto al raccoglimento.
Ritroviamo gli ambulacri anche in altri casi: l’abbazia di Farneta in Val di Chiana 7 e
la Badia a Settimo. In questi due complessi, però, si sviluppano trasversalmente collegandosi agli spazi absidali e sono raggiunti da due scale laterali. La cripta è divisa in tre navatelle (Fig. 18) da due file di tre colonnette che sorreggono le volte a crociera delle campa6. Le piante delle chiese sono tratte dai volumi Chiese medievali della Valdelsa cit.
7. Nel volume di Rombai, Stopani, Val di Chiana cit., p. 177, è inserito un disegno della struttura architettonica
dell’abbazia di Farneta con spaccato relativo alla cripta.
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Figg. 14-17
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Badia Elmi
Figg. 18-19
te perfettamente quadrate. La presenza dei
sottarchi, oltre a rinforzare staticamente
la struttura, rende più elegante l’insieme,
creando giochi di luce ed ombra molto
suggestivi (Fig. 19).
Le cripte possono essere costruite in
due modi, con o senza i sottarchi (Fig.
20). A Farneta (Fig. 21) e a Buiano di
Poppi (Fig. 22) abbiamo delle volte in
conci di pietra che si raccordano a spigolo vivo secondo una concezione che
rimanda al sistema costruttivo romano.
Altri esempi, compreso il nostro, hanno il sottarco che costituisce la nervatura portante, relegando gli spicchi della volta a semplici murature di tamponamento. La concezione progettuale appare, quindi, alquanto evoluta e tecnicamente all’avanguardia, in relazione ovviamente al periodo di costruzione, da ascriversi alla prima metà dell’XI secolo. Modelli simili, cioè con i sottarchi, risultano essere nella cripta della chiesa di Santo
Stefano in Pane a Rifredi (Fig. 23) 8 e in quella della Badia a Settimo (Fig. 23).
8. Cfr. Firenze romanica cit.
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Figg. 20-24
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Badia Elmi
8. Colonnette e capitelli
Le colonne sono monolitiche e presentano una leggera èntasi, poggiano su un semplice basamento circolare ed hanno capitelli troncoconici. Quelle addossate alla parete sono
costruite con conci sovrapposti con capitello monolitico. Nell’insieme appaiono snelle ed
eleganti rispetto a quelle delle altre cripte coeve prima richiamate.
Si configura come una soluzione originale la presenza sopra il capitello troncoconico di
una sorta di pulvino rinforzato da mensole sugli spigoli che svolgono la funzione statica di
scaricare il peso delle volte (Fig. 25). Grazie a questo espediente stilistico si raccordano le
pesanti volte a crociera con la colonnina senza dover necessariamente aumentarne il diametro e quindi appesantirle e renderle più tozze (vedi Badia a Settimo) (Fig. 26).
Figg. 25-27
9. La decorazione
I motivi decorativi sono appannaggio del pulvino, mentre il capitello troncoconico
appare sempre liscio. Tre risultano i motivi che si ripetono a due a due: la croce, la foglia,
il rettangolo; tutti sormontati da una sorta di corona quadripartita e irregolarmente mossa
che fa pensare ai raggi uscenti dal simbolo (Fig. 27).
La croce greca è un chiaro riferimento al martirio cristiano. Il rettangolo o quadrangolo suggerisce la squadratura della materia, che nell’antica simbologia cristiana sta proprio a significare la terra. La foglia graffita rimanda all’antica simbologia della palma del
martirio.
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La badia di Adelmo. Ipotesi di ricostruzione
Figg. 28-30
Nelle altre cripte le decorazioni appaiono più
casuali e senza una disposizione precisa. In alcuni casi i capitelli sono addirittura di riporto, cioè
di recupero da vestigia di epoca romana, come
a Farneta. Anche questo aspetto rinvia ad una
progettualità consapevole, non solo nelle strutture e partiture architettoniche, ma anche nel
repertorio decorativo, cosa che conferisce alla
badia una purezza stilistica pienamente inserita
nei canoni della grande architettura romanica
lombarda.
Le colonnine addossate non hanno il pulvino e il capitello appare più tozzo e decorato con
un semplice scudo (Fig. 28) ora alquanto consunto, che molto probabilmente conteneva scolpita o dipinta l’arme della famiglia. Il rigore stilistico è rotto da un unico episodio: un capitello delle colonnine addossate che reca al posto
dello scudo una faccina umana (Fig. 29). I tratti somatici, appena abbozzati, fanno pensare al
caso simile – a pochi chilometri di distanza – di
un massiccio capitello presente nel chiostro adiacente alla pieve di San Lazzaro a Lucardo (Fig.
30) 9.
A un attento esame delle superfici decorate
dei pulvini emergono, oltre ad evidenti segni di
nerofumo, anche tracce di colore rosso o cinabro (Fig. 31). La possibilità che i capitelli fossero dipinti non è quindi da escludere, in considerazione del fatto che anche nella cripta della
Badia a Settimo, di analoga matrice cadolingia,
è rimasto un capitello 10 con evidenti segni di
coloritura (Fig. 32). È noto che anche le strutture romaniche potevano essere dipinte, come
dimostra il celebre ciclo dei mesi nel portale centrale della pieve di Arezzo recentemente riscoperto (Fig. 33).
9. Allegri, Tosi, Certaldo cit., p. 142.
10. Il capitello è visibile in Frati Resti e contesti cit., p. 111.
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Badia Elmi
Figg. 31-33
10. L’abside
È la parte che ha subito le più gravi menomazioni. Infatti sono scomparsi il catino e la
copertura, compresi gli archetti pensili che probabilmente decoravano la parte terminale
sotto la sporgenza della gronda. Al posto del catino troviamo una terrazza con tanto di
balaustra in ferro e tettino in pvc verde, che purtroppo si vede anche da lontano (Fig. 34).
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Si tratta di un vero scempio, anche perché la muratura superstite risulta di notevole qualità ed è composta da conci regolari finemente tagliati con cornice in corrispondenza della
monofora superiore. Due sono, infatti, le finestrelle in corrispondenza della cripta e della
navata; e mentre quella inferiore presenta un architrave piano, quella superiore ha un bell’archetto ricavato da un monolite che funge da architrave.
Non rimane che immaginare la parte terminale, facendo riferimento agli archetti in
pietra della chiesa di Ponzano, sempre in Valdelsa (Fig. 35), e a quelli dell’abside di Settimo.
Figg. 34-36
11. La torre campanaria
È un solido e tozzo torrione, costruito con conci di arenaria fino all’altezza della cella
campanaria (Fig. 37). Le dimensioni dei conci diminuiscono man mano che la torre cresce in altezza ed è visibile, sul lato nord, il basamento su cui poggia la pesante struttura.
Abbiamo ipotizzato, per la cella campanaria, una finestra ad apertura unica su tutti i quattro lati e un’altezza complessiva della torre maggiore dello stato attuale. Il tetto odierno
è privo di cuspide e risponde, così, ai canoni dell’architettura romanica. Quindi nella ricostruzione l’abbiamo semplicemente riproposto.
Anche l’ubicazione della torre rispetto alla chiesa rinvia allo schema planimetrico della
Badia a Settimo. Appare, infatti, staccata rispetto alla chiesa per meno di un metro e posi-
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Badia Elmi
Fig. 37
zionata oltre la mezzeria del lato (Fig. 38). Il collegamento avviene attraverso due porte
architravate con soprarco estradossato. Così avviene anche a Settimo dove, però, il campanile risulta essere cilindrico alla base, per poi divenire ottagonale.
12. Il chiostro
Rimangono diverse parti dell’antico chiostro rettangolare, che si sviluppava su tutti e
quattro i lati. Nella ricostruzione abbiamo ipotizzato quattro arcate per il lato breve e sei
per quello lungo. Le arcate del lato breve, adiacenti alla chiesa, esistono ancora e sono
visibili all’interno di un appartamento. Il proprietario nel restauro le ha intelligentemen-
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Fig. 38 (sopra) e 39 (sotto)
te messe in evidenza (Fig. 39). Il lato
lungo, collegato alla chiesa, in origine
svolgeva quasi certamente le funzioni di
sacrestia e sala capitolare. Conserva al
piano terra una bella volta a botte per
tutta la lunghezza.
Considerando che la profondità dei
vani risulta uguale nei due lati presi in
esame, si può ipotizzare una ricostruzione che molto probabilmente si avvicina alla realtà (Fig. 40).
Il numero delle arcate sul lato lungo
è confermato dalla presenza di colonnette in pietra con capitello figurato
riscoperte recentemente e messe in evidenza dal proprietario dell’appartamento, ingegner Spannocchi. A lui e alla moglie
Annapaola si deve la riscoperta e il rilancio della badia (Fig. 41).
Nella ricostruzione non si può non tener conto della presenza, sulla collina di fronte,
della Badia a Cerreto, complesso monastico coevo oggetto attualmente di restauro.
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Badia Elmi
Fig. 40
Anch’essa è dotata di un suggestivo chiostro con archeggiature a colonne e pilastri al piano
inferiore e colonnette al piano superiore, elementi tutti in laterizio (Fig. 42).
13. Ala sud del monastero
Tracce evidenti dell’antico splendore sono presenti anche sulla parte sud del monastero:
murature con conci a filaretto di grandi dimensioni del tutto simili a quelle della chiesa e
del campanile (Fig. 43). Appare chiaro, quindi, che l’estensione originaria del complesso
comprendeva anche questo lato.
I fabbricati attuali hanno subito forti trasformazioni nel corso dei secoli e, anche recentemente, interventi non rispettosi delle antiche vestigia. Al piano superiore abbiamo una
muratura con elementi di conglomerato cementizio e finestre ad arco ribassato che, nate
in seguito alla trasformazione in fattoria, certo non valorizzano l’insieme. Nello spigolo
di sud-ovest è stato poi ricavato un appartamento con finiture ad intonaco, perdendo,
così, la splendida muratura romanica in pietra. Spero che il mio contributo ricostruttivo,
insieme a quello di altri studiosi, possa contribuire a far capire il grande valore storico e
monumentale di queste vestigia, in modo che si possa operare in futuro con maggiore sensibilità e più rispetto per le medesime.
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Figg. 41-43
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Badia Elmi
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Il recupero della meridiana di Badia Elmi
Renzo Palmieri
L
a chiesa di Badia Elmi possedeva, al culmine del suo splendore medievale, un orologio solare pensato, studiato e costruito in loco. La posizione iniziale non è attualmente ben nota perché le strutture murarie hanno cambiato con il passare dei secoli usi e
disposizioni. Risulta, comunque, che il disegno non era sostanzialmente diverso da quello odierno. Lo si desume dal fatto che le ore non a sole per la conformazione del terreno
circostante sono state disegnate equidistanti, e quindi non appaiono dettate dalla posizione astronomica.
Dallo strappo iniziale costituito solo dal ricalco di quanto rimaneva del disegno è emerso anche che l’orientamento del piano di appoggio differiva di molti gradi da quello del
calcolo di costruzione, errore troppo grande per chi era riuscito a realizzare questa accuratissima struttura. La bontà del manufatto emerge proprio dalla confusione dei tentativi di restauro precedenti: le aste d’ombra erano addirittura tre e tutte spezzate dal tempo
o dall’incuria all’altezza del piede, ma il punto centrale delle tre posizioni risultava sulla
linea del mezzogiorno, anche se di questa sono presenti pochi tratti.
Abbiamo detto inizialmente che una meridiana doveva in qualche modo appartenere
alla vicina chiesa, costruzione molto più antica rispetto alla parete su cui è collocato il
disegno, ma i dati di rilievo ci hanno convinto che questo sia stato salvato o forse copiato sulla parete attuale per cause adesso ignote. Tutto fa, comunque, pensare ad una datazione di esecuzione precedente alla costruzione dell’odierna muratura, anche se la certezza non ci è data a causa della quantità dei dati rinvenuti.
Ciò premesso, il nostro restauro si è limitato alla ricostruzione dello stilo mancante,
mantenendo fissi i dati originali del disegno e la posizione iniziale dello stesso così come
era stato a suo tempo calcolato. I tratti lineari sono stati riuniti e completati fino a riottenere il quadro dell’epoca.
Ricordiamo, infine, che a causa della mancanza di spazio e di visuale le misure astronomiche di confronto sono state eseguite all’esterno del chiostro nel quale è situata la
meridiana e che quindi si è reso necessario il trasporto dei dati per parallelismo all’interno della struttura muraria, senza poter operare direttamente sulla sua posizione come
sarebbe stato opinabile.
Vogliamo aggiungere che trattasi di uno splendido orologio, non fosse altro per il fatto
che ha in ogni modo un’origine locale, dato poco comune tra gli orologi solari di abbellimento frequenti in questa regione. L’oggetto risulta molto antico, anche se rimaneggiato nei secoli per sopraggiunte nuove esigenze.
Esecuzione dei lavori: controllo astronomico e riporto dati (Francesco Gigli, Renzo
Palmieri); strappo del disegno e ricostruzione (Marco Carraretto, Renzo Palmieri); completamento opere (Renzo Palmieri).
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Badia Elmi
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L’architettura del complesso abbaziale. Rilievi
Francesca Focardi
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Badia Elmi
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L’architettura del complesso abbaziale. Rilievi
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Badia Elmi
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L’architettura del complesso abbaziale. Rilievi
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