Istituto Universitario Sophia
Dipartimento di Ontologia Trinitaria
TESI DI LAUREA
Essere, libertà, Trinità
Per un’ontologia trinitaria della libertà in dialogo con Luigi Pareyson
Relatore:
Piero Coda
Candidata:
Elena Destefanis
1
Ai miei nonni Mario, Maria, Mario, Caterina
2
Sommario
INTRODUZIONE ....................................................................................................... 4
La parabola del concetto di libertà in Luigi Pareyson ............................................. 10
1.
Dall’esistenzialismo al personalismo ontologico ............................................... 10
2.
L’ontologia dell’inesauribile e l’interpretazione della verità ............................. 23
3.
Libertà come inizio e scelta: l’ontologia della libertà ........................................ 27
Dopo Pareyson: recezione, prospettive e criticità di un’ontologia della libertà ..... 41
1.
Natura teologica della filosofia di Pareyson e capovolgimento del rapporto
essere-libertà: Giovanni Ferretti .............................................................................. 41
2.
Paradosso e dono dell’essere: Claudio Ciancio ................................................. 50
3.
Ontologia trinitaria e libertà nella Trinità: Piero Coda ....................................... 60
Verso un’ontologia trinitaria della libertà ............................................................... 73
1.
L’ermeneutica dell’esperienza religiosa: guadagni e limiti di Pareyson ............. 74
2.
Il male e la sofferenza: una nuova prospettiva................................................... 81
3.
Libertà, amore, relazione: dall’ontologia all’etica ............................................. 89
CONCLUSIONI ........................................................................................................ 94
BIBLIOGRAFIA ...................................................................................................... 99
3
INTRODUZIONE
La libertà è stata ed è al centro delle ricerche di numerosi pensatori. Per Pareyson,
però, essa non costituisce il punto di partenza, bensì il punto di arrivo della sua
riflessione. Il suo primo interesse, il quale si incontra con il tema della libertà, è l’uomo,
la sua esistenza, la sua vita. Gli scritti di Pareyson coprono un arco di tempo che va
dallo scoppio della seconda guerra mondiale, attraversano il boom economico degli anni
Sessanta, le contestazioni, la guerra fredda, fino agli anni Ottanta e Novanta, preludio
della crisi economica e umana che caratterizza gli anni più recenti. Il filosofo
piemontese ci racconta la storia dell’Europa vista con i suoi occhi, arricchita dalle sue
riflessioni. Egli non si risparmia dalle domande scomode, ricerca soluzioni ai problemi
dell’uomo del suo tempo, accoglie e abbraccia il grido di dolore proveniente da
un’umanità che ha vissuto tragedie inaudite. Per questi motivi la sua ricerca è genuina e
attuale in ogni periodo e ha suscitato, fin dalla prima lettura, la nostra attenzione.
In particolar modo, il concetto di verità e l’ontologia dell’inesauribile presentate
in Verità e interpretazione ci sembrano traguardi oggi imprescindibili per chiunque
voglia affrontare il problema del rapporto fra filosofia e religione, filosofia e politica o
filosofia e scienza oppure la più che mai urgente questione del dialogo interreligioso.
Ontologia della libertà, poi, ci ha colpiti in modo particolare: il Dio sconcertante di cui
parla Pareyson suscita fascino e sgomento, l’attenzione posta sulla croce e il pensiero
tragico suggeriscono un nuovo sguardo sulla trascendenza, in modo particolare
sull’esperienza cristiana.
Tuttavia, la lettura di Pareyson ha lasciato alcuni interrogativi in sospeso. L’arrivo
presso l’Istituto Universitario Sophia ha riaperto queste domande arricchendole di
nuove riflessioni, non solo grazie allo studio delle discipline teologiche, ma grazie ad un
ambiente di vita e pensiero stimolante e fecondo. È stato il profondo intreccio fra lo
studio e l’esperienza concreta a farci intuire nuove piste di approfondimento del
pensiero di Pareyson. In modo particolare, vale la pena ricordare due eventi.
Il primo è stato l’incontro con l’ontologia trinitaria nello specifico del corso tenuto
dal rettore dell’Istituto Piero Coda. Infatti, nel parlare delle sfide che hanno dato origine
alle riflessioni attorno all’ontologia trinitaria, abbiamo ritrovato una forte comunanza
con ciò che mosse Pareyson verso lo sviluppo dell’ontologia della libertà. In entrambi i
casi, infatti, si tratta di cercare un’ontologia integrale che possa valere come risposta al
grido di dolore dell’umanità dilaniata dai conflitti e dagli stermini, un’ontologia che
4
sappia porsi alla frontiera fra studio e vita, fra discipline diverse, fra credenti e non
credenti. L’ontologia trinitaria, infatti, si propone come metodo di studio e ricerca
collettivo, e l’Istituto Universitario Sophia è il luogo in cui si tenta di fare questa
esperienza.
Ecco, allora, il secondo evento che ci ha segnato: la vita vissuta presso l’Istituto
Sophia, in modo particolare la profonda esperienza di circolarità fra ciò che veniva
appreso e studiato e ciò che veniva vissuto. Lo studio, infatti, arricchiva la vita
quotidiana, e quest’ultima offriva importanti riflessioni allo studio. È in questo modo
che si è aperta una riflessione nuova sull’ontologia e sul senso della libertà. Lo studio
collettivo, l’incontro con altre culture, talvolta le incomprensioni e la mancanza di
riconoscimento sono state un invito a rileggere Pareyson con occhi nuovi.
L’intento era, fin da subito, quello di capire se e come l’ontologia della libertà
poteva trovare uno spazio di ulteriore sviluppo nell’orizzonte dell’ontologia trinitaria
che si era di recente aperto di fronte a noi. Questo ci era suggerito dallo stesso Pareyson
e dalla sua intuizione per cui l’ontologia della libertà non poteva che svilupparsi come
ermeneutica dell’esperienza religiosa cristiana. Ma se, allora, al centro occorreva porre
la rivelazione di Gesù, che dice che Dio è Trinità, perché nelle argomentazioni del
filosofo piemontese non c’era nessun accenno all’aspetto relazionale di Dio? Perché il
Dio-libertà ci pareva così lontano dal Dio-amore-Trinità presentato nei Vangeli,
nonostante l’intento di Pareyson fosse quello di interpretare l’esperienza cristiana a
partire dai testi neotestamentari? E ancora, in quale senso la Trinità è libertà e che senso
ha, per Dio e per gli uomini, l’evento dell’abbandono di Gesù in croce descritto dai
Vangeli? A partire da queste domande è iniziata la nostra ricerca articolata qui in tre
capitoli.
Nel primo, si ripercorre l’itinerario filosofico di Pareyson, cercando di porre
l’accento sull’avvento e lo sviluppo del concetto di libertà. I primi scritti del Nostro,
influenzato da Barth, Kierkegaard e l’esistenzialismo, si occupano del rapporto fra finito
e infinito, fra Dio e l’uomo, fra il tempo e l’eternità. Si tratta delle prime prove
teoretiche alle quali si alternano riflessioni più ampie sull’attualità, sulla crisi della
cultura occidentale, sulla necessità di ritrovare un cristianesimo autentico che abbandoni
la pretesa di fossilizzarsi in una determinata cultura. Fin da subito, insomma, Pareyson
mette in mostra il suo talento speculativo di filosofo ben formato, affiancato sempre da
un’attenta e profonda riflessione da uomo del suo tempo preoccupato del destino
5
dell’umanità. Vita e studio si intrecciano in ogni suo scritto e si armonizzano ancor
meglio con il passare degli anni. Lo si vede nella produzione degli anni Sessanta,
nell’intuizione della definizione di persona come coincidenza di autorelazione ed
eterorelazione, che funge da pilastro per i successivi sviluppi teoretici. L’uomo, infatti,
in quanto persona, è sempre in relazione con se stesso e con l’Altro da sé, cioè con colui
dal quale riceve l’esistenza: Dio. La sua vita è segnata da questo essere in relazione,
relazione che, poiché è libera, può essere rifiutata, anche se questo comporta la
negazione di se stessi. Sono, in nuce, le riflessioni che condurranno verso l’ontologia
della libertà. La vita, dice Pareyson, è tutta appesa alla libertà, alla scelta sempre da
compiere di fedeltà a se stessi nell’essere fedeli a Colui da cui si proviene o nel rifiuto
che comporta la negazione del proprio essere. Con fedeltà non si intende l’adesione
confessionale, anzi, il linguaggio adottato dal Nostro non può lasciare spazio a
fraintendimenti, in modo particolare nei saggi contenuti in Verità e interpretazione.
Qui la fedeltà all’essere è intesa come ascolto della verità, una e inesauribile, che
ognuno di noi è in grado di accogliere e della quale ognuno dà la sua personale, unica e
irripetibile interpretazione. Se l’ascolto è sincero e onesto, e lo è se, in quanto
autorelazione ed eterorelazione, si è fedeli a se stessi, il linguaggio e il pensiero non
solo esprimono un contenuto ma rivelano la verità senza esaurirla. Questo è ciò a cui è
chiamata la filosofia, la quale ha il compito di servire da guida per la politica, la scienza
e la religione. L’alternativa al pensiero rivelativo è il pensiero espressivo e ideologico,
causa delle fratture nel mondo, in politica, fra le religioni. Come nei saggi precedenti, le
mire speculative si intrecciano con le esigenze morali che l’attualità fa sorgere.
La lettura di Dostoevskij, la riscoperta dell’esistenzialismo di Heidegger e
dell’ultima produzione di Schelling, le domande pesanti sul senso del dolore e la
malattia vissuta negli ultimi anni portano allo sviluppo delle riflessioni più mature,
quelle riportate nei saggi di Ontologia della libertà. Le riflessioni sono attuali, scomode,
sconcertanti, affascinanti, ma mai eccessivamente pessimiste. Dio inteso come libertà
appare con un volto di certo inatteso e più ambiguo rispetto a quello presentato dai vari
Spinoza e Hegel, per i quali Dio è un essere necessario. In Pareyson non c’è spazio per
il Dio rassicurante dei filosofi: lo studio e la vita, l’incontro con alcuni pensatori e il
dramma ancora vivo del conflitto mondiale gli suggeriscono di porsi di fronte all’abisso
della libertà. A sostegno delle sue riflessioni, non trovando aiuto nel linguaggio
filosofico, Pareyson si rivolge al mito religioso, in modo particolare all’esperienza
ebraico-cristiana narrata nella Bibbia. Così, l’ontologia della libertà prende forma
6
attraverso i racconti della creazione e della caduta di Adamo, il male e la sofferenza
cercano un senso nell’evento dell’abbandono di Gesù in croce, come suggerito dai
protagonisti dei romanzi di Dostoevskij.
Se nei primi scritti era predominante il risvolto etico della libertà, a partire dagli
anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta, la riflessione del Nostro a proposito vira
nettamente verso l’ontologia, dedicandosi al rapporto fra essere e libertà. I due termini,
dapprima solo accostati, sono adesso intercambiabili: l’essere è la libertà e la libertà è
l’essere, Dio è libertà e la libertà è Dio. Si tratta di riflessioni preziose ma impegnative
che aprono un dibattito fra diversi pensatori negli anni successivi alla morte di
Pareyson.
Nel secondo capitolo, per approfondire la riflessione riguardo l’essere e la libertà
e il rapporto fra filosofia e religione, si entra in dialogo con tre Autori contemporanei
che hanno impreziosito la ricerca di Pareyson con il loro contributo. Sono Giovanni
Ferretti, Claudio Ciancio e Piero Coda.
Giovanni Ferretti riconosce nel filosofo piemontese il merito di aver aperto nuove
vie di dialogo fra filosofia e teologia, anche se, a causa di una conoscenza parziale delle
riflessioni teologiche e un filone, all’epoca preponderante, più dogmatico e
conservatore, Pareyson non ebbe mai in simpatia la disciplina e non perse occasione per
rimarcare la differenza rispetto alla “sua” ermeneutica dell’esperienza religiosa
cristiana. D’altro canto, è proprio l’ermeneutica, secondo Ferretti, a riaprire il dialogo
fra filosofia e teologia, perché rimette al centro qual è il vero statuto epistemologico
della teologia, al di là degli irrigidimenti dogmatici. Infatti, il metodo che un teologo
dovrebbe seguire è lo stesso che Pareyson suggerisce ai filosofi che vogliono
interpretare il mito senza piegarlo al lògos: si tratta di mettersi in ascolto della verità, o
della Parola di Dio, se si parla di un teologo. In questo modo, le discipline si possono
incontrare e lavorare insieme. Per quanto riguarda, invece, l’aspetto teoretico, ossia il
rapporto fra essere e libertà, Ferretti s’impegna a sciogliere i nodi più problematici
nell’argomentazione
del
Nostro,
concentrandosi,
in
modo
particolare,
sul
capovolgimento fra primato dell’essere e primato della libertà. L’Autore sostiene che il
progressivo radicalizzarsi del concetto di libertà rischia di compromettere alcune delle
riflessioni centrali nella produzione pareysoniana, in particolare il concetto di persona,
la centralità dell’essere e la sua positività originaria. La libertà, inizialmente pensata
7
come dono e gratuità, rischia di tendere al mero arbitrarismo, avvicinandosi così all’idea
di libertà presentata da Sartre contro cui, in più riprese, si scaglia lo stesso Pareyson.
Claudio Ciancio, allievo di Pareyson, suo profondo conoscitore, onde evitare
alcuni fraintendimenti e per chiarire meglio alcune riflessioni del maestro, introduce il
tema dell’alterità: la libertà pone, da sempre e per sempre, un altro da sé, l’essere, dal
quale si lascia determinare e senza il quale non può sussistere. Essere e libertà
rimangono così distinti ma inseparabili formando un’unità nell’alterità. Vi è, poi, una
dinamica di dono fra i due: la libertà si dona all’essere il quale, donandosi a sua volta, è
ciò che determina l’altra pur dipendendo da essa. In questo modo, Ciancio prova a
conciliare la dialettica di dono e consenso con l’idea di libertà come inizio e scelta,
ribadisce il primato della libertà allontanando i rischi di confusione con l’arbitrarismo.
Tuttavia, nella sua riflessione non affronta direttamente il discorso religioso, mettendo
in sordina il metodo con il quale il maestro aveva dedotto l’ontologia della libertà, ossia
l’ermeneutica dell’esperienza religiosa cristiana.
Al contrario, Piero Coda, in quanto teologo, prende le mosse dalla rivelazione
cristiana e cerca di rileggere l’ontologia della libertà in una prospettiva trinitaria. In
modo particolare, si concentra sui racconti genesiaci della creazione, i quali mostrano
che Dio è in sé relazione d’amore. Si pone gli stessi interrogativi che hanno stimolato la
nostra ricerca, e grazie al suo contributo dal punto di vista teologico, comprendendo in
modo più profondo in quale senso il Dio rivelato da Gesù Cristo è Trinità e libertà,
abbiamo potuto muovere i primi passi verso un’ontologia trinitaria della libertà.
Nel terzo capitolo si presentano le riflessioni nate a seguito del dialogo con
Pareyson e con gli altri Autori. Inizialmente, ci si concentra sull’ermeneutica
dell’esperienza religiosa, sui traguardi e i limiti del filosofo piemontese. Infatti, grazie
agli studi teologici, si è potuto comprendere meglio il messaggio evangelico e in quale
senso esso sia rivelativo di Dio Trinità, e ci si è allontanati da una visione a tratti
ambigua e dialettica di Dio presentata in alcuni saggi di Ontologia della libertà. Poi, si è
deciso di concentrarsi sul tema del male e della sofferenza, non solo perché centrale in
Pareyson, ma perché, focalizzandosi sulla vita di Gesù, si è compreso che è proprio
nell’evento pasquale che Dio si rivela pienamente come Trinità.
Infatti, l’evento della croce va letto come evento trinitario nel quale,
paradossalmente, l’amore fra Padre, Figlio e Spirito tocca l’apice e mostra chiaramente
il tipo di relazione che incorre fra i Tre nel loro essere una cosa sola. Dunque
8
l’abbandono non va interpretato, come ha fatto Pareyson, come momento dialettico in
Dio, come scontro nel quale Gesù subisce l’ira del Padre al posto degli uomini, ma
come vero e autentico atto d’amore e di libertà delle Tre Persone, atto che si riversa
sull’umanità, redimendola, e proponendosi come modello da vivere nelle relazioni di
tutti i giorni. Dio è sì libertà, come aveva intuito il Nostro, ma libertà relazionale, libertà
come dono, amore, libertà che si consegna all’altro, che si fa dire e dare dall’altro.
Questa è la libertà vissuta da Dio e rivelata, in modo particolare, in Gesù
Abbandonato, il quale si mostra cruciale per la comprensione di Dio e dell’uomo. Non a
caso Chiara Lubich, alla quale fu donato il carisma che ha ispirato e ispira la riflessione
di Piero Coda e lo studio presso l’Istituto Sophia, parlava di Gesù in croce come la Fede
tutta dispiegata, come il Dio dei nostri tempi: il più vicino all’uomo e alle sue domande,
il più vicino a Dio perché totalmente immerso nel Suo amore nella libertà. Gesù
Abbandonato ci è apparso come modello di libertà, offrendoci una chiave per
comprendere non solo Dio, ma anche un modo nuovo di vivere le relazioni umane:
grazie anche all’esperienza vissuta all’Istituto Sophia, si è compreso che non c’è libertà
più grande di quella che si vive nel momento in cui ci si lascia ricevere dall’altro in
totale fiducia, ci si abbandona all’altro, ci si lascia dire e dare dall’altro da sé, con la
consapevolezza che, data l’imperfezione umana e l’ambiguità della libertà che si
afferma anche negandosi, come giustamente ha insegnato Pareyson, vi è sempre il
rischio del non riconoscimento, dell’assenza di reciprocità.
In tal caso, però, è ancora l’evento della croce a offrirsi come modello e senso,
perché Gesù, nella sua fedeltà nell’assenza di reciprocità avvertita con il Padre, dimostra
che l’amore e la libertà sono più forti del rifiuto, e lo può dimostrare chiunque abbia
fatto una vera esperienza di relazione vissuta nella libertà.
In questo circolo continuo di studio e vita, sposando l’ermeneutica dell’esperienza
religiosa cristiana come metodo di ricerca filosofica, dialogando con la filosofia e la
teologia ponendosi alla frontiera fra le due discipline, mettendosi in ascolto del
contributo passato e presente di grandi pensatori, si offre qui un primo, piccolo
contributo verso la comprensione e la descrizione di un’ontologia trinitaria della libertà,
con Pareyson e oltre Pareyson.
9
CAPITOLO I
La parabola del concetto di libertà in Luigi Pareyson
L’itinerario filosofico di Luigi Pareyson (1918-1991), sviluppatosi nell’arco di
quasi cinquant’anni, presenta alcune costanti e alcuni momenti di svolta radicale. In
quest’orizzonte, lo sviluppo del concetto di libertà evidenzia sia la conservazione sia la
continua evoluzione della riflessione pareysoniana, e per questo motivo può offrire
un’onesta chiave d’interpretazione di tutto il lavoro intellettuale del filosofo. Nel
capitolo si cercherà quindi di porre l’accento su come la ricerca di Pareyson, pur nella
diversificazione dei temi toccati, ponga al centro l’uomo e la sua esistenza, e di
conseguenza il suo essere libero. Dunque il filo d’oro con il quale cercheremo di
presentare la vasta produzione del filosofo piemontese è il concetto di libertà. Di
conseguenza, per garantire una certa coerenza nello svolgimento, si è deciso di non
trattare esplicitamente la teoria estetica della formatività elaborata dal Nostro nel corso
degli anni Sessanta e Settanta. Ci si concentrerà, invece, su una serie di saggi contenuti
nelle seguenti opere: Esistenza e Persona, Verità e Interpretazione e il postumo
Ontologia della Libertà. Inoltre, per una migliore visione d’insieme e un confronto
critico si entrerà in dialogo con il testo di Francesco Paolo Ciglia, Ermeneutica e
libertà, il quale si è dimostrato estremamente utile non solo al fine della stesura di
questo capitolo ma dell’intero elaborato.
1. Dall’esistenzialismo al personalismo ontologico
Luigi Pareyson studia a Torino in un periodo in cui i riflettori della scena
filosofica sono puntati sull’idealismo di Croce e Gentile. Studia con Augusto Guzzo, il
primo a scorgere il talento dell’allora ventenne, e dedica le prime ricerche
all’esistenzialismo, dialogando in particolare con Jaspers e Heidegger. Da questi ultimi
prende però, inizialmente, le distanze, perché, sebbene si senta loro vicino per la critica
all’Idealismo, è mosso già da allora da un altro intento: volgere sì lo sguardo
all’esperienza, ma salvaguardando e conservando la persona. È infatti influenzato e
guidato da altri due autori, un filosofo, Kierkegaard, e un teologo protestante, Karl
Barth. È attratto dal concetto di trascendenza abissale che traspare dal pensiero dei due,
dal modo problematico ed esistenziale di vivere la fede da parte di Kierkegaard,
10
dall’incommensurabilità e opposizione che caratterizza il rapporto fra uomo e Dio
secondo Karl Barth.1
Sono proprio i due pensatori a influenzare maggiormente la prima prova teoretica
del Nostro, un saggio redatto nel 1943 dal titolo Tempo ed eternità. Qui s’indaga il
rapporto fra la storia, quindi fra tutto ciò che è temporale, e l’eternità, ciò che riguarda
Dio. È il primo tentativo di parlare del rapporto che s’instaura fra l’uomo e ciò che lo
trascende, e se pur nei suoi sviluppi persino radicali, questo tema rimarrà al centro della
ricerca pareysoniana fino agli ultimi scritti. Dunque, che tipo di rapporto intercorre, se
c’è, fra storia ed eternità? La domanda ha luogo all’interno di un contesto più ampio nel
quale si parla di esperienza e iniziativa morale. Pareyson, infatti, definisce la storia
come iniziativa, coincidenza di conservazione e innovazione, chiamata a una decisione
e a una valutazione date da un’esigenza. Ora, i tre termini coincidono. Infatti, per
esigere qualcosa occorre aver già deciso, in qualche modo, di non esigere qualcos’altro:
l’esigenza allora è necessariamente anche valutazione e già decisione, discriminazione
di un’alternativa. L’iniziativa è quindi la coincidenza di questi tre termini, è «opzione,
che è al tempo stesso posizione, risoluzione e discriminazione dell’alternativa: esigenza,
decisione, e valutazione».2 In questo modo essa si pone anche a fondamento della
scansione temporale, poiché l’esigenza è ciò che guarda al futuro, qualcosa che non si
ha ancora, la decisione è presa nel presente, e la valutazione è un giudizio espresso
rispetto a qualcosa di già avvenuto e quindi passato. Questo è ciò che riguarda dunque il
tempo, la storia, l’esperienza morale.
Sorge però un interrogativo: se iniziativa è esigenza di qualcosa, significa che
manca qualcosa, vi è un’insufficienza. Ma se è così com’è possibile prendere una
decisione? Agli occhi di Pareyson l’iniziativa si mostra contraddittoria: «L’iniziativa è
dover far valere. Se io debbo far valere, ciò è perché non valgo. Ma se io non valgo,
come posso far valere?».3 È qui che secondo il Nostro diventa necessario che
l’esperienza morale si risolva nell’esperienza religiosa, la quale rimanda all’altro
termine del rapporto: l’eternità. Se la storia è l’essere nel tempo, l’eternità è l’essere
Cfr. L. PAREYSON, Nota kierkegaardiana, in “Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa”, fasc.
1, 1939; IDEM, L’esistenzialismo di Karl Barth, in “Giornale critico della filosofia italiana”, fasc. 3-4,
1939. Per un ulteriore approfondimento si rimanda alle opere dei due Autori, in modo particolare S.
KIERKEGAARD, Enten Eller. Un frammento di vita, a cura di A. Cortese, 5 voll., Milano, Adelphi, 1976;
IDEM, Briciole di filosofia e postilla non scientifica, a cura di C. Fabro, Milano, Zanichelli, 1962; K.
BARTH, L’Epistola ai Romani, trad. it. G. Miegge, Milano, Feltrinelli, 1962.
2
L. PAREYSON, Esistenza e Persona, Genova, Il Melangolo, 2002 [19854], p. 154.
3
Ivi, p. 158.
1
11
oltre il tempo: non ciò che si oppone al temporale, ma ciò che è di là da ogni
opposizione, e per ciò è il totalmente trascendente, l’incommensurabilità. Ma come è
possibile che questa trascendenza radicale entri in rapporto con la storia? Siamo di
fronte ad un rapporto impossibile, che può però diventare possibile solo se la stessa
incommensurabilità è la condizione d’essere dell’altro termine del rapporto, cioè della
temporalità: l’eternità è Dio che entra in rapporto con l’uomo in quanto sua condizione
d’esistenza. Dio è coincidenza di relatività e incommensurabilità, è nel rapporto in
quanto lo pone rimanendo radicalmente trascendente ad esso. Si delinea così l’idea
pareysoniana del rapporto fra uomo e Dio, eredità di Barth, che sarà al centro dell’intera
riflessione e della produzione del filosofo. Ora, come la storia è al centro
dell’esperienza morale, così l’eternità, Dio, è il centro dell’esperienza religiosa. Così
che, dimostrata l’insufficienza della prima, essa si può risolvere soltanto nella seconda.
Dio non si esaurisce nella relazione con l’uomo, ma la pone e solo all’interno di essa si
rivela, pur rimanendone fuori, poiché solo l’irrelatività può porre la relatività. Dio è
coincidenza dei due termini: «Dio è fuori d’ogni rapporto possibile, eppure è termine di
rapporto: irrelatività e relatività», 4 la relazione non Lo include ma è Lui che include la
relazione. Se Dio è il centro dell’esperienza religiosa, e quest’ultima è l’unico modo in
cui si può risolvere l’antinomia dell’esperienza morale, allora Dio è colui che completa
l’insufficienza umana: l’esigenza morale diventa bisogno di Dio, e la valutazione è il
giudizio di Dio, la storia acquista senso perché è Dio a garantirlo. Ma così non si corre il
rischio di pensare Dio come essere necessario che è solo garante della storia? Pareyson
specifica: «porre Dio in continuazione col mondo, farne il coronamento delle possibilità
umane, concepirlo solo come complemento dell’insufficienza significa ridurlo a
grandezza umana. Dio è tutt’altro: non accanto o di fronte o sopra il mondo storico
umano, ma assolutamente di là da esso e ad esso imparagonabile e irraportabile». 5
Occorre tenere ben saldi sia la relatività di Dio, il suo includere la relazione, sia la sua
irrelatività, la sua radicale trascendenza. Dio è l’assolutamente altro che si fa relazione
gratuitamente. Lo straripare dell’essere da Lui è dono, e come tale è gratuito, Dio
liberamente dà. Come l’esigenza è bisogno di Dio e la valutazione è giudizio di Dio,
così la decisione che si consuma nel presente è dono di Dio, e in questo modo «nel
presente dell’iniziativa vive la presenza di quell’eternità che la costituisce». 6
4
Ivi, p. 159.
Ivi, p. 160.
6
Ivi, p. 162.
5
12
Si può notare come già in questo primo saggio Pareyson rifiuti l’idea di Dio come
essere necessario, quel Dio dei filosofi che spesso sarà oggetto delle sue critiche. Inoltre,
vale la pena sottolineare la dimensione del dono e della gratuità, che subito richiama
alla libertà: Dio, assoluta assolutezza, che però si pone in relazione con l’uomo non per
necessità ma per dono gratuito, pur rimanendo oltre la relazione. Occorrerebbe forse
specificare meglio questo passaggio, capire come mai Dio ponga la relazione, uscendo
in qualche modo da se stesso pur rimanendo in se stesso. Pareyson ha in mente il Dio
che è al centro dell’esperienza religiosa, in particolare il Dio della rivelazione ebraicocristiana. In questo orizzonte, allora, la relatività di Dio si può illustrare solo attingendo
ai testi che narrano questa esperienza, entrando in dialogo con la teologia, in modo da
spiegare meglio non solo la coincidenza di relatività e irrelatività, ma in quale senso Dio
è libertà. Pareyson riprenderà questo argomento a partire dalla metà degli anni Settanta,
se pur in nuove forme e dopo quasi cinquant’anni di ricerca: e noi seguiremo la sua
riflessione provando ad entrare in dialogo con lui per eventualmente approfondire le sue
posizioni in questa luce.
Tornando agli anni Quaranta, abbiamo visto che fin da subito Pareyson pone al
centro delle sue riflessioni l’uomo e il suo rapporto con Dio, l’esperienza morale e
l’esperienza religiosa. Proprio nell’ottica di indagare meglio quale sia il ruolo che
quest’ultima gioca in rapporto con la società del dopoguerra, Pareyson approfondisce
quale possa essere il ruolo del cristianesimo nell’attualità. I saggi in cui ne parla sono
anch’essi contenuti in Esistenza e Persona: La situazione religiosa attuale, scritto nel
1947, e Possibilità di un esistenzialismo cristiano?, presumibilmente della fine degli
anni Quaranta.
Nel primo saggio, il filosofo piemontese parte dalla costatazione che il tempo in
cui ci si trova è un tempo di crisi della cultura. La filosofia ha il compito di prendere
coscienza di questa crisi, e per farlo occorre comprendere quale cultura si stia
dissolvendo. Se infatti la filosofia si pone come coscienza della crisi, essa «presuppone,
evidentemente, una filosofia che si ponga come coscienza di conclusione». 7 Pareyson la
individua nell’idealismo storicistico. Dunque, per comprendere quale sia il destino del
cristianesimo all’interno di questa crisi, bisogna capire in quali rapporti esso stia con
l’idealismo in dissoluzione, se si trovi anch’esso compreso nella crisi oppure no, e se lo
fosse come eventualmente possa o debba uscirne. È necessaria però una premessa:
7
Ivi, p. 109.
13
occorre fin da subito prendere una posizione non indifferente riguardo al cristianesimo e
alla problematica che si sta affrontando, perché questo «è uno di quei problemi che non
si possono porre senza insieme deciderli, perché non è una questione astratta ma
un’alternativa concreta, radicata nella storia che stiamo vivendo». 8 Così il Nostro rende
esplicito il fatto d’aver già preso una posizione al riguardo, di essersi schierato, come
dimostrerà nel saggio. Stabilita l’identità della crisi, occorre comprendere quale
rapporto intercorra fra idealismo storicistico e cristianesimo. Secondo lo stesso
idealismo e prima di esso secondo il razionalismo metafisico e gran parte della cultura
moderna è grazie al loro contributo che il cristianesimo è stato purificato e liberato dal
dogmatismo. Essi affermano, infatti, di aver preso la parte migliore della religione. Ciò
significa che la crisi della cultura coincide con la crisi del cristianesimo. Sembra uno
scenario apocalittico, ma per Pareyson le cose non stanno così: è vero che la cultura
moderna e l’idealismo storicistico contemporaneo, che fa capo a Benedetto Croce,
hanno pensato d’aver fatto propria la parte migliore del cristianesimo inglobandolo in
sé, ma in realtà si è trattato di una mera secolarizzazione, della pretesa che la cultura
cristiana coincida con la loro cultura. Dunque, in un’epoca di crisi è il cristianesimo
laico quello destinato a dissolversi ed è necessario che questo avvenga al fine di
recuperare un cristianesimo più autentico. Per questo motivo diventa importante lo
sviluppo di una feroce critica e di un anticristianesimo. Davanti a questo scenario, è
ancora possibile che il cristianesimo abbia qualcosa da dire?
La risposta di Pareyson è affermativa e delinea una proposta: «perché il
cristianesimo abbia qualcosa da dire nel momento presente, bisogna che il cristiano
riconosca la realtà della crisi, e si ponga non prima, ma dopo la crisi. Il che significa che
un cristianesimo valido al giorno d’oggi è quello che non si limita a opporsi
all’anticristianesimo, ma è capace di oltrepassarlo». 9 In queste poche righe è già
concentrato in nuce il programma filosofico che il Nostro vuole perseguire: si fanno
evidenti le già menzionate influenze di Kierkegaard e Barth, un certo approccio
esistenzialistico alla religione, l’esigenza di difendere un cristianesimo che pensa il
tragico e lo accoglie, senza la pretesa di eliminarlo dai suoi orizzonti, rinunciando a un
Dio rassicurante per abbracciare invece un Dio sconcertante. Il cristianesimo, in una
parola, per continuare a vivere deve dissociarsi dalla cultura attuale, e può farlo in
quanto esso è un fatto eterno, oltre il tempo. È un fatto eterno perché riguarda Dio, e
8
9
Ivi, p. 108.
Ivi, p. 113.
14
l’atto con cui Lo considera come tale è la fede. Se il cristiano è consapevole dell’eternità
del cristianesimo, del suo essere Parola di Dio, allora non sarà problematico veder
tramontare una cultura che si dice cristiana, perché il cristianesimo trascende le forme
storiche nelle quali tuttavia necessariamente si incarna. Ma essendo oltre il tempo oltre
che dissociarsi può dare vita a una cultura nuova, che è sì cristiana, se non ha la pretesa
di fossilizzarsi in una determinata forma escludente altre interpretazioni. Per Pareyson la
costruzione di una nuova cultura è problema sia religioso sia filosofico, riguarda tutti, e
per questo occorre decidersi: negare o riaffermare il cristianesimo, distruggerlo o
ritrovarlo. Bisogna scegliere per o contro il cristianesimo. Chi si schiera contro, però,
non deve fermarsi alla confutazione di quel cristianesimo laico destinato a dissolversi
con la crisi della cultura, ma dovrà essere in grado di confutare un cristianesimo che si
ritrova dopo la crisi. Di quale tipo di cristianesimo si parla? Quello di cui si diceva
prima, quello che ha il coraggio di affrontare la crisi, di porsi contro la secolarizzazione
avvenuta con la cultura moderna e di accettare le istanze sollevate da chi si dichiara
anticristiano. Da questa decisione, dal ritrovamento o meno del cristianesimo, dipende
lo sviluppo o meno di una nuova cultura:
Il cristiano si trova oggi al centro dei compiti imposti dalla cultura odierna: ha di fronte a sé
l’assunto di fondare una nuova cultura cristiana e di dar vita a un nuovo modo di ritrovare il
cristianesimo. Impresa impossibile, se si tratta di riesumare un antichissimo frammento di
tempo; compito difficilissimo, se si tratta di calare nel tempo un frammento d’eternità. Ma
il cristiano ha oggi una formidabile posizione iniziale di vantaggio: la nuova cultura
dipende anche da lui. La crisi stessa ha una funzione chiaramente apologetica nei riguardi
del cristianesimo, e, inoltre, ha spazzato via molti ostacoli a una riaffermazione veramente
religiosa di esso. Il cristiano può oggi sperare in quell’unità di cultura e cristianesimo
religioso che s’è venuta affievolendo durante tutto il corso dello sviluppo della cultura
10
moderna.
Nel saggio successivo, Possibilità di un esistenzialismo cristiano?, Pareyson
approfondisce ulteriormente il discorso sulla crisi della cultura e sulle sue possibili
conseguenze. Individua nell’esistenzialismo quella corrente filosofica che si pone come
cosciente della crisi ma incapace di storicizzarla perché fa dell’uomo odierno un
assoluto, lo trasforma nell’uomo in generale, senza avere la consapevolezza della
propria storicità. Si pone infatti come anticristianesimo, in totale opposizione con il
cristianesimo laico figlio della cultura idealista che va dissolvendosi. Ma un tale
10
Ivi, p. 122.
15
esistenzialismo è destinato a risolversi necessariamente in un materialismo, ricreando
condizioni analoghe a quelle createsi con lo sviluppo del materialismo storico
nell’Ottocento. E tuttavia vi è un’altra strada percorribile, quella di un esistenzialismo
consapevole della sua storicità e capace d’interpretarla alla luce di concetti più generali:
«all’esistenzialismo che non è se non l’assolutizzazione dell’uomo d’oggi nella sua crisi
si contrappone in tal modo l’esistenzialismo che riconduce la crisi dell’uomo d’oggi alla
natura dell’uomo in sé».11 Questo secondo tipo di esistenzialismo è denominato da
Pareyson esistenzialismo cristiano, in quanto prima di tutto compie quella scelta
cruciale di ritrovare il cristianesimo dopo la crisi della cultura abbandonando
definitivamente quel cristianesimo laico incapace di essere eterno; sa inoltre parlare
della crisi avendo coscienza della sua storicità, parla dell’uomo d’oggi avendo in mente
chi è l’uomo in sé. Questo tipo di esistenzialismo per il Nostro si risolve in uno
spiritualismo rinnovato, spiritualismo che poggia le sue basi sull’esistenzialismo, e che
per questo dà origine a una filosofia della persona.
Si viene così configurando quello che più avanti lo stesso Pareyson definirà
«personalismo ontologico», che rappresenta il tentativo di conciliare l’esistenzialismo
con il cristianesimo ritrovato, per scacciare via definitivamente il fantasma di Hegel che
ancora aleggia negli sviluppi filosofici degli anni Cinquanta e contribuire in questo
modo alla nascita di una nuova cultura. Tutti i saggi contenuti in Esistenza e Persona
richiamano questa tesi di fondo: l’esistenzialismo nasce e si sviluppa per dissolvere
l’hegelismo, si pone dopo la crisi ma non riesce a superarla, e questo perché non ha la
coscienza della storicità della crisi. Solo un esistenzialismo cristiano, che si sviluppi in
uno spiritualismo rinnovato che prenda forma in un personalismo ontologico, può porsi
non solo dopo la crisi ma all’inizio e a fondamento di una nuova cultura.
Occorre a questo punto fare una precisazione sull’opera sin qui presa in
considerazione. Esistenza e Persona è stata pubblicata in ben quattro edizioni: 1950,
1960, 1966 e 1985. Questo perché, come vedremo, il pensiero del Nostro è andato
evolvendosi, talvolta prendendo posizioni decisamente diverse. È lo stesso Pareyson a
spiegare genesi ed evoluzione dell’opera nella premessa alla quarta edizione, nella quale
inserisce anche un importante saggio del 1975, Rettifiche sull’esistenzialismo, che sarà
cruciale per lo sviluppo dell’ultima fase del suo pensiero. Ciò non annulla l’importanza
dei saggi che stiamo prendendo in considerazione, che rimangono in ogni caso
11
Ivi, p. 127.
16
fondamentali per capire gli sviluppi successivi, solo occorre aver presente che non tutte
le posizioni prese negli anni Cinquanta sono state confermate nei decenni a seguire.
Tornando alla prima fase dell’operato di Pareyson, nei saggi sinora esaminati si
scorgeva l’esigenza di ritrovare il cristianesimo per dare via a una nuova cultura e a un
rinnovato spiritualismo che il Nostro preferisce chiamare «filosofia della persona». In
questo senso, uno dei saggi cruciali, una sorta di manifesto programmatico del suo
personalismo ontologico, viene pubblicato nel 1946 col titolo Persona e società. Il
punto di partenza è una presa di posizione netta a favore di un cristianesimo ritrovato,
che fornisce alla filosofia il criterio fondamentale del rispetto della persona, criterio che
funge da punto di unione fra la religione e la cultura moderna. Dopo di che si passa al
tentativo di definire la persona, o per lo meno di dire quello che non è: non è soltanto
individuo, cioè uno di molti, né solamente una parte del tutto. È la lezione aristotelica
della parte maggiore del tutto, del particolare che viene prima dell’universale. Ma
questo non è solo l’essere dell’uomo bensì il suo dover essere, poiché «il concetto di
umanità è normativo: nell’essere dell’uomo è implicito l’impegno dell’individuo a
realizzare tale essenza». 12 Se la persona è una parte maggiore del tutto, se «fa parte della
sua definizione l’essere per sé e il non essere in altro», 13 allora abbiamo le basi per
parlare di rispetto della persona, perché ogni uomo ha valore in sé, non è un frammento
insignificante o sostituibile nel tutto. In quest’ottica non è da dimenticare l’apporto
dell’esistenzialismo (e prima ancora e a fondamento di esso di Kierkegaard) grazie al
concetto di singolo, che è unico e irripetibile. Solo che, segnala il Nostro,
l’esistenzialismo non è stato in grado di conciliare il concetto di singolo, senz’altro una
conquista, con l’universalità della persona, in quanto ciascuno, per quanto unico, è
accomunato agli altri proprio dal fatto che condivide con essi la stessa struttura
ontologica. Questa deficienza crea problemi non indifferenti soprattutto per quanto
riguarda il riconoscimento dell’alterità e quindi lo spazio di relazione fra le persone.
Pareyson sembra qui muovere una critica al «carattere asociale del singolarismo
esistenzialistico»,14 e questo perché muove da una visione cristiana della persona. Ci si
può però domandare se, nello sviluppo del suo pensiero, egli abbia saputo tematizzare la
relazionalità o se invece il problema sia rimasto in sordina per poi scomparire nel
momento in cui, a partire dagli anni Settanta, cambia anche il suo sguardo
sull’esistenzialismo, in particolare su Martin Heidegger.
12
Ivi, p. 165.
Ibidem
14
Ivi, p. 166.
13
17
D’altro canto, l’idealismo ha prediletto l’universalità, e in questo vi è sicuramente
del positivo, ma non ha tematizzato la singolarità, e questo apre, allo stesso modo che
nell’esistenzialismo, il problema del riconoscimento dell’alterità particolare. Vi è
dunque bisogno di pensare sia l’universalità sia la particolarità della persona, perché le
due si implicano vicendevolmente e hanno lo stesso fondamento. Ma qual è questo
fondamento? Qui Pareyson riprende il discorso sull’iniziativa già affrontato nel 1943:
essa infatti, nella forma della decisione, concreta un’esigenza, quindi la rende
particolare, e la valutazione la valorizza, cioè la universalizza. Se si volge lo sguardo
all’iniziativa, all’esperienza morale, alla storia, si comprende in quale senso la persona
sia particolare e universale sempre e al medesimo tempo: «la persona, in ogni attimo
della sua esistenza, è quel ch’è riuscita a fare di se stessa, e ogni attimo riassume e
condensa tutta intera la storia della persona, portandone in sé la valutazione
complessiva». 15 Non solo, ma in ogni attimo, specifica Pareyson, nella persona
convivono la totalità, il traguardo a cui si giunge giorno dopo giorno, le decisioni prese,
le valutazioni, ciò che richiama alla dimensione universale, e ciò che non è ancora, o ciò
che non è più, la particolarità che caratterizza ogni istante, nessuno uguale all’altro, e
quindi l’insufficienza.
Qui però si ripropone l’interrogativo che era già stato proposto nel 1943: come si
può da questa insufficienza, da questa esigenza di qualcosa d’altro, costituire una
validità universale? «Come può dal negativo uscire il positivo?» 16. Si ripresenta così, in
termini più personalistici, quel problema della limitatezza dell’esperienza morale che
deve necessariamente risolversi nell’esperienza religiosa. Anche nel presente saggio si
sottolinea che l’iniziativa trova il suo fondamento ultimo nella trascendenza, cioè in ciò
da cui ha origine, ciò che la inizia. Così, allo stesso modo che in Tempo ed eternità il
discorso apre a Dio il quale deve mostrare di avere quelle caratteristiche che permettano
alla persona di essere tale, cioè di essere allo stesso tempo universale e particolare. Si
deve allora parlare di un Dio-Valore-Persona. Valore, perché solo così si spiega il dover
essere della persona e Persona, perché ne spiega la particolarità, l’indipendenza, la
totalità. In questo modo, il rispetto della persona trova il suo fondamento in Dio, e
questo permette che ognuno venga rispettato anche all’interno della società.
A questo punto Pareyson prova ad affrontare il discorso dell’alterità, memore
della critica mossa ad esistenzialismo ed idealismo. La persona è di per sé caratterizzata
15
16
Ivi, p. 170
Ivi, p. 172.
18
dalla sociabilità e dalla socialità, per essere così universale e particolare, insufficiente e
totale. Essendo particolare, unica e irripetibile, la persona è chiusa in sé, non ha bisogno
d’altro per essere tale, ma essendo universale necessita del riconoscimento altrui e deve
dare lo stesso riconoscimento, e quindi è aperta agli altri. Realizza la propria umanità se
è disposta a riconoscere anche negli altri lo stesso sforzo, e quindi «l’alterità si pone
come reciprocità normativa del riconoscimento delle persone». 17 Inoltre, la sua
insufficienza è colmata da Dio che è Persona: si tratta dunque sempre di un rapporto
persona-Persona, e questo apre alla totalità, a pensarsi costituzionalmente in rapporto
con un’alterità. È la relazione con l’Altro a costituire la persona. Ma qui il Nostro
specifica ulteriormente: mentre il rapporto con Dio è costitutivo della persona, che è tale
proprio perché è da sempre in relazione con Lui, il rapporto con gli altri rimane una
possibilità che trova il suo fondamento nella relazione uomo-Dio. Ecco allora che
Pareyson può proporre una prima definizione ontologica di chi è l’uomo: «più che
essere in rapporto con Dio, o avere un rapporto con Dio, è rapporto con Dio».18
Questa idea è un’acquisizione definitiva per il pensiero di Pareyson e sarà il punto
di partenza per lo sviluppo della sua ontologia della libertà. E proprio a proposito di
libertà, il saggio si conclude delineando quest’ultima come caratteristica imprescindibile
e di valore assoluto dell’essere e dell’agire umano. Libertà è iniziativa, presa di
posizione, indipendenza. È grazie alla libertà che si parla di rispetto della persona. Il
saggio non approfondisce ulteriormente quest’ultimo punto, non c’è nessun tentativo di
parlare di libertà riferendosi a Dio, e ci si ferma ad una concezione dell’uomo orientata
a evidenziarne le qualità e le potenzialità più che i limiti. Questo è caratteristico degli
scritti del Nostro di questi anni, dove in effetti prevale una concezione positiva che
mette un po’ in ombra quell’iniziale tematizzazione del lato problematico dell’esistenza
a cui l’avevano portato Kierkegaard e Barth nel primo saggio del 1943, ma che ben
presto ritornerà in modo ancor più radicale. Per trovare un ulteriore approfondimento
del concetto di persona verso la costituzione di un personalismo ontologico occorre
attendere le edizioni successive di Esistenza e Persona, quelle degli anni Sessanta.
Tuttavia, prima di svolgere nel dettaglio il discorso sulla persona in questi anni, ci
sembra opportuno soffermarci su un saggio del 1953, La conoscenza degli altri, in cui
Pareyson non tratta esplicitamente della persona ma della relazione fra le persone. Un
saggio importante perché, in esso più che negli altri, viene maggiormente tematizzata la
17
18
Ivi, p. 177.
Ivi, p. 181.
19
relazionalità. Vi si specifica infatti che cosa comporti la considerazione di un’alterità e
le implicazioni che ciò può avere. Innanzitutto, si sottolinea che la conoscenza di sé e la
conoscenza degli altri si implicano vicendevolmente, l’una è il prolungamento dell’altra,
poiché grazie alla visione che gli altri hanno di noi possiamo incrementare la
conoscenza di noi stessi e in questo modo ci è anche più facile imparare a conoscere
l’altro e metterci nei suoi panni. Questo ha delle conseguenze sì sul piano gnoseologico,
ma anche in campo etico, nonostante l’autore non ne parli esplicitamente, spostando
invece il discorso sul campo ermeneutico. È proprio in questi anni in effetti che
Pareyson va sviluppando la prima teoria dell’interpretazione e la teoria della
formatività. Avremo modo di trattare dell’ermeneutica del Nostro più avanti, ma si può
dire che già in questo saggio e nel corso di tutti gli anni Cinquanta e Sessanta è presente
e pregnante il tema dell’interpretazione. La conoscenza degli altri è interpretazione
perché è sempre uno sguardo personale, particolare, su un altro che è a sua volta
qualcuno di unico e irripetibile: «mi è possibile giungere a conoscere gli altri solo in un
incontro, nel quale mi rivelo a me stesso nella mia singolarità nell’atto stesso in cui
penetro gli altri nella loro». 19 Si tratta di un’implicazione reciproca fra me e l’altro da
me, di un entrare nell’interiorità dell’altro lasciando che questo entrare sia rivelativo,
dica qualcosa a me di chi sono. Tutto questo, secondo l’autore, non è possibile se non
grazie a un sentimento di solidarietà, che mi spinge a tentare di comprendere l’altro
come simile, come insieme particolare e universale. Il saggio si conclude con una frase
che riportiamo per intero, in quanto contiene spunti di riflessione di rilievo per la
prosecuzione di questo stesso lavoro:
Si può dunque concludere che la conoscenza degli altri è immersa nell’ambiente nutritivo
della libertà: essa implica un esercizio di libertà, come il dialogo, la conversazione,
l’interpretazione, la comprensione, lo sforzo di mettersi al posto degli altri, e culmina in un
appello alla libertà, come la collaborazione, la solidarietà, il ricorso alla legge della
ragione, la volontà di giudicare e d’esser giudicati nel nostro modo sempre personale di
assolvere un compito comune.
20
Da queste poche righe traspare un concetto di libertà legata alla relazione con
l’altro, una sorta di libertà relazionale, come se sia il suo esercizio, sia la sua attuazione
e sia la sua richiesta implicassero in qualche modo la presenza di un altro. Per ora
19
20
Ivi, p. 197.
Ivi, p. 200.
20
sospendiamo la riflessione a proposito per ritornare agli sviluppi pareysoniani del
personalismo ontologico negli anni Sessanta.
Il saggio forse più cruciale ed emblematico di questa stagione speculativa è
Situazione e Libertà del 1960, che non a caso verrà ripreso nelle lezioni di Napoli del
1988 nelle quali Pareyson delinea la sua ontologia della libertà. Nel saggio si
approfondisce l’essere persona come coincidenza di relazione con sé e relazione con
l’altro, ma anche il rapporto fra la situazione in cui l’uomo si trova e la libertà. Per
quando riguarda il primo punto, si è già visto nei saggi precedenti come il filosofo
sostenga a più riprese la reciproca implicanza di conoscenza di sé e conoscenza degli
altri, che ha la sua origine nell’essere stesso della persona, unica da un lato e universale
dall’altro. D’altra parte si è già anche parlato della libertà come caratteristica primaria
dell’uomo, che in un qualunque momento, per il suo valore intrinseco, può decidere di
sé. Eppure ci troviamo in una situazione storica precisa, in un tempo e in un luogo che
non abbiamo scelto, e la nostra esistenza si snoda a partire da una necessità originaria.
In questo si coglie la lezione dell’esistenzialismo, tanto che di primo acchito pare che i
due termini, la libertà e la situazione, siano tragicamente inconciliabili. Come scegliere
di essere se già sono? In questo senso, c’è una passività originaria sia della situazione
(basti pensare alla nascita) sia della libertà, perché non si può non essere liberi; tuttavia
si tratta di una passività che ha il suo prolungamento naturale nell’attività, perché la
persona, proprio nella sua libertà, si fa attività, è iniziativa: si passa così da una
condizione di limitazione ad una di possibilità. «La limitazione istituita dalla situazione
diventa possibilità concreta nella vita della persona, e la necessità che inerisce alla
struttura e al possesso della libertà si riduce alla base ineliminabile su cui si erge
operosa ed efficace la libertà di ogni atto umano»21.
Fin qui non si è fatto altro che approfondire quel discorso sull’iniziativa morale
già toccato negli anni Quaranta, e che quindi riguarda l’autorelazione della persona.
Tuttavia, abbiamo visto come questo non basti: la passività dell’iniziativa e
dell’esistenza umana ha radici più profonde, per questo è necessario volgere lo sguardo
alla trascendenza, alla dimensione eterorelativa della persona. Come fa la passività a
volgersi in attività? Ci deve essere un richiamo, un appello: la situazione, dice Pareyson,
è prima che collocazione storica collocazione metafisica, cioè apertura ad Altro,
all’Essere, a Dio. È questa relazione con altro che chiama l’uomo a fare della passività
21
Ivi, p. 221.
21
iniziale un’attività. E qui si apre la possibilità di scegliere di chiudersi a questa chiamata
oppure aprirsi, ma è una scelta che a questo punto è messa totalmente nelle mani
dell’uomo: qui emergono la grandezza e la tragicità della libertà che verrà sviluppata dal
Nostro negli anni a venire. La situazione è appello alla nostra libertà, ed essa «possiede
realmente questo carattere perché è relazione con altro, e lo rivela a chi sa attraverso ad
essa recuperare il proprio originario rapporto con l’essere». 22 Allo stesso modo, anche la
passività iniziale della libertà si svolge in attività, se si apre lo sguardo
all’eterorelazione. Infatti, è vero che l’uomo non può non essere libero, ma è anche vero
che la libertà si realizza come tale solo nel momento in cui è esercitata: il momento in
cui è donata non è anteriore al momento in cui è ricevuta, i due momenti si implicano a
vicenda, si tratta di una dialettica di dono e consenso. Il dono non è dono fino a quando
non è accolto, e il momento di accoglierlo non è una necessaria conseguenza ma è ciò
che fa essere il dono in quanto tale. In questo consiste la libertà dell’uomo: è data, ma è
solo in quanto ricevuta, «l’iniziativa non cessa d’esser tale, cioè di cominciare da sé,
anche se è principiata, perché l’esser principiata non si realizza se non nella forma
dell’iniziarsi», 23 e ancora «il mio inizio, il mio esser principiato è un dono di me a me;
la mia iniziativa, il mio cominciare è un mio consenso ad essere». 24 Certo che per poter
accogliere questa visione è opportuno pensare l’uomo come persona, come coincidenza
di autorelazione ed eterorelazione, come sintesi di attività e passività, come rapporto
ontologico, apertura all’essere, giacché, come si è detto, l’uomo non è in rapporto con
l’essere o ha un rapporto con l’essere ma è rapporto. Questi sono i punti cardine del
personalismo ontologico di Pareyson.
Finora ci sembra di scorgere una dimensione relazionale molto forte nel pensiero
di Pareyson, quasi come se fosse naturale avere una concezione dell’essere come
relazione. Invece negli anni successivi il Nostro si concentrerà dapprima sul rapporto fra
la persona così come fin qui delineata e la verità, sviluppando una teoria
dell’interpretazione nell’ottica di un’ontologia dell’inesauribile, mentre negli ultimi anni
egli andrà non solo verso un’ontologia della libertà ma anche verso una concezione più
pessimistica dell’uomo, che rischia di compromettere il personalismo ontologico
presentato in queste pagine.
22
Ivi, p. 223.
Ivi, p. 225.
24
Ibidem.
23
22
2. L’ontologia dell’inesauribile e l’interpretazione della verità
Verità e interpretazione viene pubblicato nel 1970 e raccoglie la produzione
pareysoniana degli anni Sessanta. Come anticipato, l’autore si occupa del rapporto fra la
persona e la verità. Siamo negli anni della contestazione sociale, i dibattiti etico-politici
sono molto accesi, occorre riflettere più a fondo sull’agire umano. La sua teoria
dell’interpretazione non è perciò distaccata dalla prassi, anzi la interroga e ne dà
un’importante rilettura in chiave ontologica a trecentosessanta gradi. 25
Il punto di partenza è il traguardo raggiunto dalla produzione sopra analizzata,
ovvero l’idea di persona come coincidenza di autorelazione ed eterorelazione. L’uomo è
rapporto con l’essere, e questo si dà nel rapporto con Dio, costituendolo, pur rimanendo
irrelativo e oltre il rapporto. Ma la dignità della persona umana risiede nella libertà,
ovvero nel suo poter scegliere se essere fedele all’essere (e quindi fedele a se stesso in
quanto rapporto ontologico) oppure rifiutarlo. Da questo dipende tutta la storia, ciò che
l’uomo produce, come l’uomo pensa. Infatti, il saggio con cui si apre Verità e
interpretazione, indaga proprio il modo di pensare partendo dalla situazione del tempo
in cui viene scritto. Già negli anni precedenti Pareyson aveva parlato di una crisi della
cultura e dell’esigenza di una cultura nuova, adesso cerca di scavare più a fondo e di
fornire alcune caratteristiche di questa cultura in declino e del suo modo di fare
filosofia. Egli prende da subito posizione contro lo storicismo che porta a deviazioni
scettiche e relativistiche. Dire che ogni filosofia è semplicemente figlia del suo tempo
significa negarne la portata veritativa e quindi rinunciare alla verità stessa, ma questo
implica un rifiuto a considerare la persona umana per ciò che è: infatti, se l’uomo è
apertura all’essere, è conseguentemente apertura sulla verità, se pur questa si possa dare
solo nella storia. Ecco che si prospettano le due strade, apertura o chiusura all’essere,
ricerca o rinuncia alla verità, adottare un pensiero espressivo o un pensiero rivelativo:
«l’uomo deve scegliere se essere storia o avere storia, se identificarsi con la propria
situazione o farne un tramite per attingere l’origine, se rinunciare alla verità o darne una
rivelazione irripetibile». 26 Ma cosa caratterizza pensiero espressivo e pensiero
rivelativo? Che cosa li distingue? Il pensiero rivelativo è anche pensiero espressivo, il
pensiero espressivo è solo questo. Infatti, la verità si dà sempre in modo personale, e
quindi in una situazione storica. Il pensiero e la parola sono sempre espressione del
tempo in cui si vive, ma se si rimane fedeli all’essere la parola sarà parola di verità, il
Cfr. F. P. CIGLIA, Ermeneutica e libertà. L’itinerario filosofico di Luigi Pareyson, Roma, Bulzoni,
1995, in particolare cap. 11, pp. 191-281.
26
L. PAREYSON, Verità è interpretazione, Milano, Mursia, 2014 [1970], pp. 16-17.
25
23
pensiero sarà espressivo e rivelativo, sarà uno sguardo personale sulla verità. Ma questo
significa che la verità è molteplice e in definitiva irraggiungibile? No, e ciò proprio in
quanto la persona è costituzionalmente in rapporto con essa: ciò che occorre piuttosto
specificare è che la verità è inesauribile, e solo come tale «si affida alla parola che la
rivela, conferendole una profondità che non si lascia mai esplicitare completamente né
interamente chiarire». 27 D’altro canto, il pensiero solamente espressivo è un pensiero
che non va oltre la storia e ne rimane schiacciato, identificandosi totalmente col contesto
nel quale viene esperito. Questo ha conseguenze pericolose e attuali considerando non
solo l’epoca in cui Pareyson scrive: si produce un pensiero ideologico e strumentale, un
pensiero sì di successo nell’attualità, ma che schiavizza l’uomo privandolo della libertà.
Mentre il pensiero rivelativo è in rapporto con la verità, il pensiero espressivo si limita
alla produzione di idee:
La verità ispira gli uomini, le idee se ne impadroniscono. La verità trasporta gli uomini,
esaltandoli sopra di sé […], le idee si impossessano degli uomini, li assoggettano alla
realizzazione del loro programma, li riducono a meri strumenti, si tratti dell’eroe cosmicostorico o della massa spersonalizzata. Nessuna schiavitù è paragonabile a quella dell’uomo
rispetto alle idee ch’egli stesso ha prodotto: si pensi all’imperio esercitato dalla moda, dal
luogo comune, dal culto dell’attualità, dai più diversi conformismi, e soprattutto alla
violenza delle lotte ideologiche, del fanatismo politico e religioso, delle guerre cosiddette di
religione, e che sarebbe meglio chiamare di superstizione, che della religione è la
28
contraffazione puramente umana.
Oltre all’attualità sconcertante di queste parole, se si pensa che sono state scritte
nel 1964, il saggio Pensiero espressivo e pensiero rivelativo rappresenta anche il primo
tentativo di costituzione dell’ontologia dell’inesauribile. Abbiamo visto come nella
prospettiva del Nostro la verità si offra solo in uno spazio personale, in quell’apertura
ontologica che l’uomo è. Dunque non è possibile fare della verità un oggetto da
afferrare, essa non è in alcun modo oggettivante. Ma allora come si fa a stabilire la
validità della verità in modo oggettivo? Per spiegarsi meglio Pareyson offre l’esempio
dell’esecuzione di un’opera d’arte: essa non può pretendere di uscire da sé, non si può
offrire se non nell’interpretazione che se ne dà perché è oggetto di se stessa. Così la
verità si può dare solo nell’interpretazione e non c’è che interpretazione della verità.
Ogni sguardo è tutta la verità nel modo in cui essa si dà, ma non la potrà mai esaurire,
27
28
Ivi, p. 18.
Ivi, p. 31.
24
essa sarà sempre oltre, come l’essere. Non si tratta tuttavia di una prospettiva negativa,
essa va anzi cautamente distinta dall’ineffabile: la verità si rivela, la parola la pronuncia,
non ammutolisce, non ci si trova davanti al nulla. In questa distinzione Pareyson
richiama Heidegger nel tentativo di metterlo contro se stesso:29 si tratta da un lato di
accogliere la polemica verso una metafisica oggettivante esposta in particolare in Che
cos’è metafisica?, dall’altro di evitare l’ontologia negativa a cui giunge il filosofo
tedesco per parlare appunto di inesauribilità invece che di ineffabilità. In questo è
fondamentale il contributo dello Schelling delle Conferenze di Erlangen,30 il quale
invece sembra proprio andare verso una concezione dell’essere come inesauribile e
ulteriore. «L’inesauribilità è ciò per cui l’ulteriorità […] mostra la sua vera origine, ch’è
ricchezza, ridondanza: non il nulla, ma l’essere […], non l’Abgrund, ma l’Urgrund».31
L’incontro con Heidegger e Schelling sarà cruciale negli anni a venire e nello sviluppo
dell’ontologia della libertà.
D’altronde, già in alcuni scritti di Verità e interpretazione si nota che l’accezione
di persona è colorata con sfumature più grigie, si percepisce un velo di pessimismo che
era assente in Esistenza e persona, dove al contrario l’esigenza primaria era proprio
quella di dimostrare la positività dell’uomo. Questo si può già notare nella distinzione
appena fatta fra pensiero espressivo e pensiero rivelativo, che scava più a fondo di una
semplice teoria ermeneutica, è un problema esistenziale davanti al quale ogni uomo è
posto ogni giorno: scegliere o non scegliere di essere fedeli all’essere, di essere o non
essere veicoli di verità, e «questa stessa alternativa ontologico-esistenziale si fonda, a
sua volta, in definitiva, sulla libertà umana, che può decidere, e di fatto decide, caso per
caso, in un senso o nell’altro». 32 Pareyson, nei saggi Filosofia e ideologia e Destino
dell’ideologia (1966), mette infatti l’accento sulle conseguenze che porta il rifiuto
dell’essere, e a partire da questo svilupperà negli anni Ottanta il tema del male e della
negatività.
Entrambi i saggi approfondiscono la differenza fra pensiero rivelativo e pensiero
espressivo, attribuendo il primo alla filosofia e il secondo a tutte le forme di ideologia.
C’è, come abbiamo rimarcato, una forte esigenza pratica propiziata dal momento
storico, occorre ricomprendere quale sia il ruolo della filosofia e in quale rapporto essa
29
Cfr. F. P. CIGLIA, Ermeneutica e libertà, pp. 224-232.
Cfr. F. W. J. SCHELLING, Conferenze di Erlangen (1821) in Scritti sulla filosofia, la religione, la
libertà, Mursia, Milano, 1974.
31
L. PAREYSON, Verità e interpretazione, cit. p. 28.
32
F. P. CIGLIA, Ermeneutica e libertà, cit. p. 277.
30
25
stia con la scienza, la religione, la politica. Pareyson specifica da subito che la filosofia,
se vuole essere tale, non può in nessun modo essere un’ideologia, anzi, quest’ultima è
proprio la morte della filosofia, come il pensiero solamente espressivo è la morte del
pensiero rivelativo. Tutto va posto sempre sul piano della scelta esistenziale pro o
contro l’essere, in ascolto o in rifiuto della verità. Nell’ideologia il pensiero viene
totalmente storicizzato, la ragione tecnicizzata, si va verso uno sterile pragmatismo. Si
diviene schiavi del proprio tempo, della tecnica, della prassi fine a se stessa, non c’è più
un oltre a cui tendere. E ciò che è peggio, nell’ideologia si ha la pretesa di possedere la
verità, si assolutizza il proprio storicismo, si pretende di spiegare tutto. I sistemi
ideologici per questo non possono che essere in conflitto fra loro, perché pensando di
possedere la verità in modo esclusivo ed escludente rifiutano il dialogo e la
comunicazione con altri sistemi, ammettono solo la lotta perenne. Le conseguenze sono
sotto gli occhi di tutti: incapacità di dialogo in politica, fondamentalismo religioso,
dominio della tecnica sulla scienza, in pratica allontanamento dell’uomo da se stesso, da
ciò a cui è chiamato, dall’essere rapporto con l’essere, dall’essere persona in ascolto
della verità. Al contrario, la filosofia deve essere la casa del pensiero rivelativo, deve
favorire quel dialogo che il pensiero ideologico rifiuta. Il filosofo non deve però ritirarsi
dal mondo, ma è chiamato prima di tutto ad una scelta esistenziale, e solo in un secondo
momento all’impegno concreto:
[…] decidersi per la verità richiede molto più coraggio che scegliere il successo; il pensiero
rivelativo esige un impegno originario, con cui si consente all’essere anzi che rifiutarlo, e si
accetta di renderne testimonianza anzi che sacrificarlo alla storia; esige la chiara
consapevolezza che tocca al tempo farsi degno di ascoltare l’eterno, non all’eterno di farsi
udire dal tempo; esige un decisione radicale, con cui si fa della propria persona l’organo per
affermare la verità in modo accettabile al proprio tempo anzi che il gerente dell’idea-forza
che guida il tempo di cui è il prodotto, l’annunziatore d’un rinnovamento prima di tutto
personale anzi che il profeta di una palingenesi soltanto terrestre.
33
In questo modo Pareyson propone un’etica della testimonianza, del farsi
portavoce della verità nella consapevolezza della sua inesauribilità. Vi è però un’ombra
a minacciare costantemente l’operato umano: la sua libertà. Accettare di essere
testimoni di verità comporta sempre la possibilità inversa, vi è sempre il rischio
dell’errore. Il pensiero ideologico, secondo il nostro autore, è sempre erroneo, e occorre
prenderne nettamente le distanze, abbandonando qualsiasi tentativo di conciliazione.
33
L. PAREYSON, Verità e interpretazione, cit. p. 124.
26
Inoltre è importante ammettere l’esistenza del male e dell’errore come realtà a se stanti,
non come momenti dialettici necessari al bene (e qui vi è una chiara presa di posizione
contro la dialettica hegeliana): è l’essere creature libere che fa sì che ci si trovi
costantemente di fronte alla possibilità di fare il bene o fare il male, di essere giusti o di
cadere nell’errore, fa parte della tragicità dell’esistenza, della «natura ancipite e
contraddittoria dell’uomo, preso fra gli opposti e teso fra gli estremi». 34 Per questo
l’errore esiste, è la negazione del bene e del vero, è la libertà che decide, in quanto tale,
di rifiutare l’essere. Se non si vede questo non si dà giustizia della tragicità
dell’esistenza umana.
Si può notare come Pareyson comincia ad occuparsi dell’aspetto negativo
dell’umano. Questo non è in contraddizione con ciò che finora è andato sviluppando,
ma forse si sente chiamato a tematizzare una realtà così pregnante come il male.
Dopotutto, non va dimenticato che il filosofo piemontese partecipò alla resistenza
partigiana sulle alpi cuneesi insieme a Duccio Galimberti, vivendo dunque in prima
persona la tragicità del male e la vertiginosa profondità della sofferenza. Inoltre, vi sono
alcuni incontri cruciali in questi anni che lo influenzeranno nelle produzioni future:
l’ultimo Schelling, la sua filosofia positiva e della libertà; il grande romanziere russo
Dostoevskij, uno dei primi a farsi portavoce dell’ambiguità dell’esistenza umana
accompagnata sempre dal male e dalla sofferenza; la riscoperta di Martin Heidegger e
con lui una nuova visione dell’esistenzialismo che lo porteranno a scrivere nel 1975
Rettifiche sull’esistenzialismo, oggi contenuto nella quarta edizione di Esistenza e
Persona. Sarà l’incontro fra questa esigenza di pensare il tragico e un approfondito
studio della libertà a portarlo verso l’ultima fase del suo pensiero, l’ontologia della
libertà.
3. Libertà come inizio e scelta: l’ontologia della libertà
Prima di passare al volume postumo Ontologia della libertà, ci sembra opportuno
soffermarci sulla svolta del 1975 rappresentata dalle Rettifiche. Si tratta infatti di un
ripensamento della propria posizione riguardo all’esistenzialismo, senza il quale forse
non si comprende a fondo l’ultima stagione della produzione dell’autore.
Pareyson dedica le prime pagine del saggio ad illustrare le tappe che ha
attraversato il suo rapporto con l’esistenzialismo: l’incontro con Jaspers, Kierkegaard,
Barth, Heidegger, Marcel, Berdjaev, e riconferma la tesi già sostenuta in Esistenza e
34
Ivi, p. 142.
27
Persona della presenza di tre correnti esistenzialistiche, quella tedesca, quella francese e
quella russa. Rettifica invece quanto sostenuto a proposito del rapporto fra
esistenzialismo e idealismo: ora Pareyson non solo sostiene di non aver distinto in modo
sufficientemente chiaro le due correnti, ma non è più dell’opinione che l’esistenzialismo
sia destinato a risolversi o in un materialismo storico o in uno spiritualismo rinnovato, il
“suo” personalismo ontologico. Il termine persona scompare dalla riflessione
pareysoniana, a favore di una rivalutazione della filosofia dell’esistenza, vista sempre
come conseguenza della dissoluzione dello hegelismo in alternativa al marxismo, ma
«tutt’altro che instabile, dotata di una fisionomia propria, che non introduce che a se
stessa».35 E se nasce in confutazione di Hegel e dell’idealismo, essa non può non
riconoscere in Schelling una figura cruciale, che si pone prima e dopo Hegel, in
continuazione e in rottura nel momento in cui volge lo sguardo all’essere, al reale,
all’incommensurabile, elaborando la sua filosofia positiva. Da queste istanze prende
avvio la riflessione esistenzialista, prima in Kierkegaard e poi nei contemporanei. Il
riconoscimento della centralità di Schelling porta Pareyson a difendere l’esistenzialismo
dall’essere tacciato di umanismo, perché al contrario esso pone al centro della
riflessione il rapporto fra l’esistenza umana e l’essere, e in questo orizzonte la libertà. È
tutt’altro che un umanismo, una filosofia del finito, una forma di materialismo. Il Nostro
conclude il saggio delineando quali sono, secondo lui, le prospettive di sviluppo
dell’esistenzialismo, nonché l’eredità lasciata da quest’ultimo alla meditazione odierna:
pensare l’essere e la libertà come inseparabili e convertibili, l’essere è la libertà e la
libertà è l’essere, in un orizzonte che non esclude la tragicità dell’esistenza umana, ma
al contrario la abbraccia e la tematizza, evitando così sia l’eccessivo ottimismo sia
l’apocalittico pessimismo. L’esistenzialismo si va così articolando in un’ontologia della
libertà.
La formulazione più completa dell’ontologia della libertà viene data dal Nostro a
Napoli nel 1988. I contenuti di queste lezioni e altri saggi che ne approfondiscono le
riflessioni sono raccolti nel volume postumo Ontologia della libertà. Il male e la
sofferenza. Le lezioni sono articolate in quattro interventi e prendono avvio dalle
riflessioni sull’uomo come coincidenza di autorelazione ed eterorelazione e sul rapporto
fra la libertà e situazione, già presentate in Esistenza e persona. Dopo di che il discorso
prende una piega meno personalistica e più esistenzialistica, si tematizza l’ambiguità
35
L. PAREYSON, Esistenza e Persona, cit. p. 241.
28
della libertà non solo riguardo all’uomo ma soprattutto riguardo all’essere, a Dio. Qui
Pareyson ricorre all’esperienza religiosa, all’interpretazione del mito, applicando la sua
teoria dell’interpretazione; è proprio a partire da questa ermeneutica che il Nostro
comincia la riflessione sul male originario e sul significato della sofferenza, portando la
sua filosofia verso quel pensiero tragico appena accennato negli scritti precedenti.
La prima lezione di Napoli prende avvio dai contenuti del saggio del 1960
Situazione e libertà. L’uomo è rapporto ontologico, ossia è rapporto con l’essere,
rapporto costituito da un termine relativo, l’uomo, e uno irrelativo, l’essere, che pur
ponendo il rapporto è irriducibile ad esso. Sono temi che abbiamo già visto comparire
nei primi scritti dell’autore, sono le costanti irrinunciabili del suo pensiero. Allo stesso
modo riprende il problema del rapporto fra necessità e libertà e la dialettica di dono e
consenso. Ora si tratta di approfondire ulteriormente il discorso sulla libertà. Infatti,
proprio la dialettica di dono e consenso apre uno spiraglio verso una trattazione più
dispiegata del tema, perché la necessità del dato iniziale appare ora come libertà a sua
volta: essa è sì donata ma inizia ad essere solo se acconsente al dono, e i due momenti
non sono susseguenti, avvengono insieme. Dunque nell’uomo l’essere iniziato e
l’iniziativa coincidono, quella necessità, quella passività non è nient’altro che «un
diaframma fa due attività, di cui l’una si pone sul prolungamento dell’altra e ad essa
attinge slanci e contenuti e da essa deriva sostegno e guida». 36 Allora non si tratta di
tematizzare il rapporto fra libertà e necessità, ma fra libertà e libertà: occorre indagare
attorno al rapporto fra l’essere e la libertà, andare verso un’ontologia della libertà. I due
termini non vanno disgiunti, perché la libertà senza l’essere non è che pura attività
abbandonata a se stessa, è l’essere che la fa essere. Vi è perciò un certo primato
dell’essere sulla libertà, anche se il primo si affida alla seconda che, data la sua natura,
afferma se stessa anche negando l’essere. Questo principio di inseparabilità fra essere e
libertà si concreta poi negli aspetti fondamentali dell’attività umana, ovvero nella
fedeltà all’essere e nell’esercizio della libertà: l’uomo, in quanto rapporto ontologico, è
pienamente se stesso ed esercita la sua libertà se è fedele all’essere, ma questa stessa
libertà è esercitata anche negando l’essere, perché è sempre la libertà in quanto tale ad
agire. Questo è il segno tragico che accompagna l’esistenza umana, e che Pareyson
afferma: «io rivendico la illimitatezza della libertà. La libertà è illimitata o non è.
Meglio il male libero che il bene imposto».37 Pur essendo inseparabile dall’essere, la
36
37
L. PAREYSON, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino, Einaudi, 1995, p. 18.
Ivi, p. 19.
29
libertà lo può contestare, lo può tradire; allo stesso modo l’uomo, pur essendo rapporto
con l’essere può rifiutarlo, anche se in questo modo rinuncia egli stesso ad essere.
A questo punto l’Autore approfondisce il discorso attorno all’illimitatezza della
libertà deducendo dal principio di inseparabilità quello di convertibilità: l’essere è
libertà e la libertà è l’essere, «al culmine della scala della libertà l’essere stesso è libertà
e la libertà stessa è l’essere». 38 L’essere è libertà perché è appello alla scelta, perché si
mette nella condizione di poter essere rifiutato o affermato, e la libertà scegliendo
afferma in ogni caso l’essere anche negando se stessa: l’essere è libertà e la libertà è
l’essere perché è inizio e scelta. Dunque, se con la dialettica di dono e consenso
Pareyson era giunto a dire che solo la libertà precede la libertà, perché la necessità
veniva ridotta a diaframma fra due libertà, ora il filosofo aggiunge che solo la libertà
segue la libertà, la realtà è totalmente appesa alla libertà, e la libertà è in sé indivisibile:
non c’è differenza fra la libertà divina e la libertà umana. Stiamo giungendo, secondo lo
stesso Pareyson, in una zona in cui l’aria è rarefatta e la filosofia incontra grosse
difficoltà d’argomentazione. È così che il Nostro ricorre all’esperienza religiosa e al
mito, per trarne dei significati, perché la filosofia possa chiarirne e universalizzarne i
contenuti per tutti a prescindere dall’appartenenza religiosa. In fondo, si tratta di
recuperare l’essenza del cristianesimo. Si ricorderà come già nei saggi di Esistenza e
Persona questa fosse un’esigenza molto sentita dall’autore, che vedeva nel recupero
dell’essenza originaria del cristianesimo la possibilità di fondare una nuova cultura,
quella che sa porsi dopo la crisi del cristianesimo laicizzato e non ha paura di sviluppare
un pensiero tragico. Inoltre, nel corso degli anni, con lo sviluppo dell’ermeneutica
Pareyson ha chiarito il rapporto che intercorre fra l’uomo e la verità, che nel suo essere
unica e inesauribile si rivela nella storia all’uomo fedele all’essere, che a sua volta ne
può dare infinite interpretazioni senza esaurirla. Il filosofo deve dunque porsi di fronte
al mito religioso con questo atteggiamento, rifiutando ogni tentativo di oggettivare ed
esaurire la verità che contiene, e nella fedeltà all’essere darne un’interpretazione che
possa essere valida per ogni uomo.
Prima di affrontare l’argomento a Napoli, il Nostro ne aveva data un’ampia
trattazione in un saggio del 1985, anch’esso oggi contenuto (con qualche modifica
rispetto all’originale) nel volume Ontologia della libertà. Qui l’autore prende le mosse
da una radicale critica alla metafisica ontica, al cosiddetto Dio dei filosofi,
38
Ivi, p. 21.
30
assolutamente altro rispetto al Dio Vivente dell’esperienza religiosa: dal porre il primo
deriva il pensare la realtà come subordinata o alla contingenza o alla necessità, e questo
indebolisce la realtà stessa, che invece «non è che sia perché può e deve essere, ma può
e deve essere perché è»,39 e questo in coerenza col pensare la realtà appesa alla libertà.
È questa la realtà che apre all’esperienza religiosa, una realtà che precede contingenza e
necessità, e che piuttosto si trova sospesa fra la libertà e il nulla, nella drammaticità che
il vivere l’esperienza religiosa porta con sé, e che porta a rivolgersi a Dio dandogli del
Tu, per invocarlo, adorarlo, e soprattutto porgli i propri interrogativi esistenziali.
Pareyson preferisce parlare di trascendenza piuttosto che di Dio, per rendere il discorso
fruibile a chiunque, a prescindere dal credo religioso. Ogni uomo, prosegue, fa
esperienza di trascendenza, è per sé costantemente in rapporto con l’alterità. La natura,
la legge morale, la storia, nella sua duplice dimensione di passato e futuro, la memoria,
che rende visibile qualcosa nascondendo altro senza sapere perché, e che rimanda alla
dimensione dell’inconscio: noi siamo un mistero a noi stessi, anche quando cerchiamo
di capire quale sia la nostra vocazione, a cosa siamo chiamati, chi realmente siamo,
facciamo sempre esperienza di trascendenza, e per quanto essa possa provocare un certo
sgomento, è inutile e controproducente eliminare questa alterità dalla nostra vita. In
fondo, ci stiamo muovendo sempre all’interno di una concezione dell’uomo come
rapporto con l’essere: cosa più di questo richiama la trascendenza? L’uomo trascende se
stesso. Il Nostro sta approfondendo il discorso, lo arricchisce di esempi, di riflessioni
sull’attualità regalandoci alcune delle sue pagine più belle. Espressione massima di
questa trascendenza è la libertà: «per un verso essa è così libera, ch’è libera persino di
non esser libera, cioè libera anche di negarsi e asservirsi, e per l’altro verso essa è così
libera, che non è libera di non esercitarsi». 40 L’uomo religioso scorge in questa
trascendenza la presenza di Dio, nel nascondimento Egli si rivela, e in questo consiste
tutta l’ambiguità che solo un’esperienza di libertà assicura, come del resto, secondo il
Nostro, hanno egregiamente insegnato Pascal e Schelling41.
Dunque, l’esperienza religiosa è esperienza di trascendenza e quest’ultima
conserva sempre un’apertura religiosa. Di questa esperienza non si può fare una
trattazione oggettiva, che tutto cerca di comprendere in modo esauriente e definitivo:
39
Ivi, p. 87.
Ivi, p. 96.
41
Cfr. B. PASCAL, Pensieri, in Pensieri, opuscoli, lettere, a cura di A. Bausola, Milano, Rusconi, 1984; F.
W. J. SCHELLING, Filosofia della rivelazione, trad. it. A. Bausola, Milano, Bompiani, 2002.
40
31
l’uomo ha comunicato la sua esperienza con la trascendenza attraverso il mito, la
poesia, le immagini antropomorfiche. L’esperienza religiosa ebraica ne è un chiaro
esempio, poiché nel Primo Testamento ci troviamo davanti al tentativo di raccontare
come Dio si rivela nel corso del tempo, un Dio trascendente ma che si fa vicino.
Pareyson dedica qualche pagina a descrivere alcuni passi della Bibbia nei quali di volta
in volta a Dio vengono attribuite caratteristiche diverse, talvolta discordanti. Non si
tratta di contraddizioni, né di un linguaggio che va decifrato. Occorre invece difendere il
carattere tautegorico e rivelativo del mito, per questo ogni tentativo di demitizzazione è
fermamente rifiutato dal nostro:
L’espressione che intenda spogliarsi il più possibile di questo carattere poetico e
antropomorfico, e pretenda di riuscire in tal modo a cogliere la divinità e a palesarne la
natura, rischia d’essere proprio la meno rivelativa, perché nella sua astrazione non giunge a
penetrare la dialettica per cui Dio, nella sua inesorabile e imperativa trascendenza, si
nasconde, e nascondendosi si rivela, né si rivela se non nascondendosi, al punto che d’ogni
manifestazione si deve dire ch’essa vela nell’atto che svela e viceversa, e non si può dire
che scopra più di quanto non celi, né che occulti più di quanto non mostri.
42
Vi è qui una sorta di applicazione dei temi di Verità e interpretazione al contesto
religioso: la verità infatti è inesauribile, inoggettivabile, eppure si rivela ad ogni uomo
che ne può fare un’interpretazione che, in qualche modo, tutto dice e tutto tace. Si
potrebbe considerare anche la rivelazione cristiana come una sorta di nascondimento di
Dio, poiché Egli si rivela in Gesù Cristo fatto uomo, così che la kenosi è la
manifestazione più vicina di Dio. In tutto ciò c’è qualcosa di misterioso e paradossale.
Lo stesso Pareyson parla di inseparabilità tra fisicità e trascendenza, anche se, fino a
questo punto, mancano palesi riferimenti all’esperienza religiosa cristiana. La
trascendenza è dunque inoggettivabile, inesauribile, indicibile, è il mistero stesso di Dio,
e davanti ad esso la filosofia può svilupparsi come ermeneutica, non più interessata a
dire chi è Dio ma come accade, che cosa significa per l’uomo credere o non credere.
L’attenzione va posta sull’uomo e sulla sua esistenza, e solo a partire da qui sull’essere
e sulla trascendenza. In questo il Nostro si dimostra coerente con i suoi obiettivi iniziali
di rimettere al centro del discorso filosofico la persona, anche se ora preferisce parlare
semplicemente di uomo o soggetto kierkegaardianamente inteso. A maggior ragione
rifiuta di dare l’appellativo di Persona a Dio, almeno al Dio dell’esperienza religiosa: in
definitiva si tratterebbe di un tentativo di concettualizzare Dio, di ridurlo ad oggetto di
42
L. PAREYSON, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, cit. p. 103.
32
studio, è un cattivo antropomorfismo, non mitico ma mitologico. La persona come
categoria filosofica richiama a un Io, a un’egoità, per altro di difficile definizione,
mentre, sottolinea l’Autore, Dio prima di un Io è un Tu a cui ci si rivolge, il rapporto
uomo-Dio corrisponde a una reciprocità asimmetrica, per cui parlare di Io riferito a Dio
riduce la Sua trascendenza. Si può parlare di personalità di Dio riferita a un Tu e non a
un Io, ma questo secondo il Nostro rimanda a una personalità più profonda: l’essere di
Dio come libertà.
L’Autore parte dal riferimento a Es 3,14, passo del Primo Testamento nel quale si
racconta la rivelazione del Nome di Dio a Mosè, ‘ehjeh’ašer’ehjeh. Di questo passo
vengono date tre possibili traduzioni: «io sono colui che è», «io sono colui che sono»,
«io sono chi sono». Le prime due rimandano ad un tentativo di fare di Dio un oggetto,
di chiuderlo in qualche modo in un concetto filosofico, che sia l’essere o la persona; la
terza traduzione invece dice Dio come libertà:
Quando Dio, di fronte alla richiesta di Mosè di conoscere il suo nome per poterlo riferire ai
figli di Israele, risponde «Io sono chi sono», intende dire: «Il mio nome non te lo dico, anzi
non te lo voglio dire: non hai nessun bisogno di saperlo. Perché me lo chiedi? Io sono chi
sono, cioè chi mi pare, e tanto basti. Di questa questione non hai da occuparti: non
43
t’impicciare, la cosa non ti riguarda»
Da un lato vi è dunque un rifiuto a rivelare il proprio nome, dall’altro, specifica
Pareyson, si tratta comunque un rivelarsi nel nascondimento, e questi due atteggiamenti
sono entrambi possibili solo nel contesto della libertà. Libertà che non va confusa con
arbitrarismo capriccioso, non si tratta infatti di un agire dettato dal caso ma dal volere, e
questo genera certamente una certa ambiguità insita nell’esperienza religiosa. Si fa
infatti esperienza di un Dio al contempo misericordioso e iracondo, e l’una e l’altra
caratteristica Gli appartengono perché Egli è libertà assoluta, dispone del suo essere
come vuole, e per questo ha voluto rivelarsi all’uomo senza dire il suo Nome.
Approfondiremo il discorso sulla possibile traduzione di Es 3,14 nel terzo capitolo,
perché vedremo che una diversa esegesi del versetto può influenzare marcatamente
l’ontologia che si va sviluppando.
Tornando al saggio del 1985, se Dio è libertà così come l’abbiamo brevemente
descritta prima, qual è il tipo di relazione fra uomo e Dio che s’instaura all’interno
dell’esperienza religiosa? Non vi è più contrapposizione fra lo scegliere e l’essere scelti,
43
Ivi, p. 122.
33
fra il destino e la libertà: scegliendo si esercita la propria libertà, ma in questo modo allo
stesso tempo si è scelti dalla libertà divina. Eppure vi è un alone di ambiguità attorno a
questa libertà, perché l’uomo esercita la sua libertà anche rifiutando se stesso, e Dio può
sempre manifestarsi secondo ira o misericordia. Ciò non preclude la possibilità della
coincidenza fra lo scegliere e l’essere scelti, ma «ne rende accidentato e tortuoso
l’esercizio». 44 Si può parlare di libertà positiva e libertà negativa, libertà umana positiva
o negativa e libertà divina positiva o no. Non solo, le due libertà si implicano sempre
vicendevolmente, al culmine dell’una si incontra l’altra e viceversa: non c’è positività
che non possa diventare negatività, non c’è negatività che non si possa risolvere in
positività, solo questo, secondo Pareyson, dà giustizia del carattere abissale e ambiguo
della libertà. L’autore non si ferma qui, ma riferendosi ancora a Es 3,14 parla della
volontà originaria di Dio come ulteriore specificazione del suo essere-libertà. Si tratta di
un discorso articolato e complesso, nel quale è esplicita l’influenza di Plotino e
Schelling.45 È qui che forse si manifesta per la prima volta in modo chiaro una sorta di
rovesciamento nel rapporto fra essere e libertà: se prima si parlava di un primato
dell’essere, senza il quale la libertà sarebbe mera attività, capriccio, ora si dice che
«dalla libertà di Dio dipende l’essere stesso di Dio, nel duplice significato della sua
esistenza e della sua essenza». 46 È la traduzione di Es 3,14 in «Io sono chi sono» ad
aprire la strada a questa concezione di Dio come libertà. Inoltre va ricordato che lo
stesso Schelling nella sua «teoria delle potenze» aveva anch’egli fornito la sua personale
interpretazione del passo biblico, che per alcuni versi Pareyson riprende dato che è
proprio dal filosofo tedesco che adotta la concezione di Dio come libertà. 47 Allo stesso
modo il Nostro si inerpica nel difficile ma senz’altro provocatorio discorso di «Dio
prima di Dio»: prima ancora della creazione vi è un momento ulteriormente originario,
un abisso dal quale Dio sgorga come sorgente. Non vi è alcuna necessità iniziale, se no
si ricadrebbe in una concezione oggettivante del divino, bensì una volontà originaria
dettata dalla libertà che Egli stesso è, abissale, certo, ma originaria, da sempre vittoria
sul nulla perché da sempre è. Quindi in qualche modo Dio entra in contatto con il nulla,
44
Ivi, p. 127.
Cfr. L. PAREYSON, Essere e libertà. Il principio e la dialettica, «Annuario filosofico», X (1994);
PLOTINO, Enneadi, a cura di G. Faggin, Milano, Rusconi, 1992; F. W. J. SCHELLING, Filosofia della
rivelazione (1858).
46
L. PAREYSON, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, cit. p. 129.
47
Cfr. F. W. J. SCHELLING, Filosofia della rivelazione; P. CODA, Dalla “Kritik aller Offenbarung” di
Fichte alla “Philosophie der Offenbarung” di Schelling, «Lateranum», (1995).
45
34
anche se come possibilità mai verificata, da sempre e per sempre vinta, e questo fa sì
che rimanga una sorta di negatività latente in Dio, un aspetto inquietante.
Da qui il discorso si fa ancora più complesso, poiché si comincia a parlare di
storia dell’eternità, di eoni, intravedendo un possibile studio successivo sull’escatologia,
che però Pareyson non ebbe il tempo di approfondire e del quale rimangono solo
frammenti riportati nel volume postumo. 48 Anche qui è palese il riferimento a Schelling
e a Plotino, anche se si sottolinea il rischio di cadere in un discorso eccessivamente
teosofico che il Nostro rifiuta volendo rimanere in una prospettiva puramente filosofica
nel senso di ermeneutica dell’esperienza religiosa. Tuttavia, viene da chiedersi se
inoltrandosi in questo discorso di «Dio prima di Dio» a cui lo conduce l’intuizione del
primato della libertà sull’essere, in qualche modo Pareyson non tradisca le sue
intenzioni iniziali di riferimento al Dio vivente e all’esperienza religiosa, per non cadere
in una metafisica oggettivante. Certo, si tratta di un discorso intriso di difficoltà e
l’Autore ne è profondamente consapevole: ma è proprio questa complessità che ci
suggerisce oggi questa domanda. Le perplessità aumentano ulteriormente nel momento
in cui ci si affaccia sul problema del male e della sofferenza che Pareyson affronta in
particolar modo nel saggio del 1986 La filosofia e il problema del male.
La riflessione parte dal constatare l’insufficienza mostrata dalla filosofia a
proposito del tema del male e della sofferenza. Spesso infatti il male è stato ridotto a
problema etico, non se ne è approfondito invece il carattere ontologico. È questo il
compito del pensiero tragico: parlare dell’essere del male, senza avere la pretesa di
oggettivarlo, perché si tratta di un discorso radicato nella trascendenza, in quel rapporto
con l’essere che l’uomo stesso è. Il pensiero tragico, in fondo, non fa altro che affidarsi
all’esperienza religiosa, perché la sola ragione non può comprendere la realtà del male,
tenterà sempre di ridurla, e lascerà in questo modo sospeso un problema esistenziale che
chiede in ogni caso di essere affrontato. Il mondo ha vissuto la tragedia della seconda
guerra mondiale e dell’olocausto, eppure la filosofia invece che tentare di dare una
risposta a quel grido di dolore che giungeva da tutta Europa ha preferito occuparsi di
«problemi tecnici di estrema astrattezza e sottigliezza». 49 È il compito del pensiero
tragico nella figura di un’ermeneutica dell’esperienza religiosa ad ereditare questo
improrogabile e decisivo impegno. In particolar modo Pareyson intende riferirsi
all’esperienza della rivelazione giudaico-cristiana attestata nel Primo e nel Nuovo
48
49
Cfr. L. PAREYSON, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, pp. 293-350.
Ivi, p. 156.
35
Testamento prendendo in considerazione il contributo di Dostevskij, a cui proprio in
questi anni dedica una serie di saggi, a motivo del suo fondamentale apporto in
proposito. Dato che ci si sta muovendo sempre all’interno di quel rapporto ontologico
che l’uomo è, anche il tema del male andrà affrontato a partire dall’uomo e dalla sua
esperienza. Dopotutto anche i miti non fanno altro che raccontare, o per meglio dire
rivelare, una certa comprensione che l’uomo ha su di sé in rapporto con la trascendenza,
e quindi parlano sì di Dio in modo rivelativo e veritiero, ma sempre attraverso lo
sguardo umano, concentrati non tanto sul chi Egli è ma sul come si fa conoscere. Allo
stesso modo «il pensiero ermeneutico intende avvolgere e penetrare con un’intensa
problematizzazione un sapere che, sia pure in forma solamente reale, inconscia, muta e
non riflessa, già esiste, e si propone di metterne in luce con strumenti discorsivi e
speculativi adeguati all’originario carattere rivelativo e l’intrinseca partecipabilità». 50
Un’ontologia esistenziale del male dunque, e non una metafisica ontica, che rimanda
all’esigenza, già presente nei saggi di Esistenza e persona, di ripensare il cristianesimo.
È lo stesso Pareyson a ricordare che la scelta di muoversi in un’ottica cristiana dipende
da una previa presa di posizione di cui appunto aveva già parlato negli anni Cinquanta.
Detto ciò, possiamo entrare nel merito all’argomentazione del filosofo. Il male è
una realtà, non è una mera negazione dell’essere, visione che si presenta agli occhi
dell’Autore troppo accomodante e di facile risoluzione, e per questo insufficiente. Il
male è negazione nel senso di ribellione, rifiuto, disobbedienza nei confronti dell’essere.
Pareyson porta così su un piano più profondamente ontologico quello che già delineava
in Verità e interpretazione a proposito dell’ideologia. Esattamente come allora anche
qui il risultato di questa negazione si tramuta in un’autonegazione, nel senso che invece
di distruggere l’essere in questo modo l’uomo distrugge se stesso, così che «si ottiene la
distruzione della libertà mediante la libertà». 51 Questo processo è esemplificato dalla
caduta dell’uomo raccontata nel libro della Genesi. Tuttavia, se è vero che in questo
modo il male appare più tragico di quanto già è perché ontologicamente approfondito,
dato che è ribellione, rifiuto, dovrà essere ribellione e rifiuto di qualcosa. Vi è dunque
una positività originaria da tenere in considerazione. Questa positività è Dio stesso per il
solo fatto che è, e tuttavia conosce un carattere ambiguo, nel senso che è da un lato
vittoria ab aeterno sulla negazione, dall’altro ne costituisce lo stimolo, se no non si
spiega come sia possibile la ribellione: è l’ambiguità che si addice ad un Dio-libertà.
50
51
Ivi, p. 159.
Ivi, p. 168.
36
Dio infatti liberamente ha scelto di essere, cioè si è affermato positivamente come
libertà. In questo modo la negatività è sconfitta per sempre ma rimane come possibilità:
sarà l’uomo con il suo atto libero di disobbedienza a fare del male una realtà. Vi è
dunque una dialettica insita al principio, dialettica che non ha nulla a che fare con quella
di Hegel, perché non è necessaria, non presenta un momento in cui il negativo è
superato. È opposizione reale o, per dirla alla Guardini, è opposizione polare, 52 i due
termini sono inseparabili. Ma in che senso Dio è da sempre vittoria sul male e come si
concilia questo stato con la presenza reale del male nel mondo? Bisogna tenere a mente
che ci stiamo muovendo all’interno di un’ontologia della libertà e in un orizzonte
dialettico nel quale positivo e negativo non sono separabili. Dio è libertà in quel senso
ambiguo che si è detto, e questo implica che per quanto Dio abbia scelto il bene, il male
rimane come possibilità, da sempre vinta, certo, ma presente, come un’ombra. In questo
senso si parla di male in Dio, non come realtà, ma come possibilità, come unico modo
in cui la filosofia può affacciarsi al mistero del male senza oggettivarne la trattazione
ma neanche sminuirne la portata ontologica: «l’espressione “il male in Dio” significa
che ogni sforzo è stato fatto per comprendere il male e non resta altra conclusione se
non riconoscere ch’esso è inspiegabile». 53
Va tuttavia ancora fatta una precisazione: quando si parla di scelta del bene non
s’intende che il bene venga prima di Dio, il bene è da sempre bene scelto, cioè è libertà
positiva, Dio stesso. Non è sufficiente dire che Dio è bene, Dio è bene scelto, cioè è
libertà, e come tale mantiene sempre quel carattere ambiguo il quale fa sì che il male vi
sia se pur come possibilità. Ma è questa possibilità a tentare l’uomo, l’autore del male,
che risveglia ciò che Dio aveva debellato per sempre, fa di una possibilità da sempre
vinta una realtà, dando così origine alla storia, al tempo dell’uomo, tempo della lotta fra
positivo e negativo, tempo di libertà. Questa realtà del male è davanti ai nostri occhi
tutti i giorni, e dà vita alla sofferenza, non solo quella di chi volontariamente rifiuta il
bene, ma soprattutto quella degli innocenti, il grido di dolore dell’umanità. Ecco la
profondità del male, ecco cosa comporta la libertà abissale dell’uomo. Come uscire da
questa notte?
È ancora Dio ad intervenire, e non potrebbe essere altrimenti, perché l’uomo è sì il
ridestatore del male, ma non l’origine che invece abita in quell’ambiguità originaria.
Cfr R. GUARDINI, L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, Morcelliana,
1997. Non è certo che vi sia una relazione fra l’idea di opposizione presente nei due filosofi, ma si è
intuita una certa somiglianza soprattutto per quanto riguarda la presa di posizione contro la dialettica
hegeliana che caratterizza il pensiero di entrambi.
53
L. PAREYSON, Ontologia della libertà, cit. p. 180.
52
37
Dio interviene nella figura del Cristo sofferente, laddove il dolore raggiunge il suo
apice: nell’abbandono in croce. Pareyson chiama in causa Dostoevskij, l’unico, secondo
lui, ad essere stato in grado di indicare proprio nella sofferenza di Cristo il senso che si
può dare al dolore. L’autore russo, prima di qualsiasi teologo o filosofo, è stato in grado
di assolvere quel compito tanto urgente quanto difficile di universalizzare il
cristianesimo in modo che esso possa proporsi anche ad un non cristiano. Gesù in croce
non solo si sente abbandonato, ma vive l’abbandono, vive il silenzio di Dio, tanto da
suggerire la descrizione di quel momento come momento ateo della divinità. È la
suprema lotta del bene e il male, è l’unico modo in cui il mondo può giungere alla
redenzione: la sofferenza è portata nel cuore stesso della divinità perché solo il dolore è
più grande del male:
Col Cristo sofferente nasce il concetto d’un Dio dialettico, che ha in se stesso l’antinomia e
la contraddizione, l’opposizione e il contrasto, il dissidio e il conflitto. D’un Dio ch’è
insieme crudele e misericordioso, sia verso l’uomo sia verso se stesso. D’un Dio che per
amore (verso l’uomo) è crudele (verso di sé sino a voler soffrire verso il Figlio sino ad
abbandonarlo). D’un Dio che per amore è coinvolto nella morte e nell’autodistruzione,
secondo la squisita e insieme profonda espressione di Angelo Silesio: «L’amore trascina
Dio nella morte». Misteriosa convergenza di amore e crudeltà! Giacché è l’amore di Dio
che inventa il sacrificio del Cristo.
54
Secondo Pareyson solo un Dio così inteso dà senso al male nel mondo, e questo fa
del cristianesimo la religione che più si addice a un pensiero tragico, ma ha la
responsabilità di accogliere le riflessioni di Dostoevskij e provare a rendere questa
prospettiva valida anche per chi non abbraccia la fede cristiana. Approfondendo il
discorso sul Dio sofferente, il Nostro rende esplicito il riferimento al contributo
teologico di Lutero, che legge San Paolo secondo l’idea di scambio e di sostituzione
vicaria, per cui Cristo in croce subisce l’ira divina al posto degli uomini, come un
castigo che paga in sostituzione dell’umanità. In questo senso si comprende perché il
Nostro parli di un Dio dialettico, un Dio che è al contempo vittima e carnefice, grido e
silenzio. Eppure, questo silenzio forse non è sinonimo di crudeltà o peggio ancora
assenza, ma di sofferenza: Dio tace perché piange, perché ormai è totalmente coinvolto
nella sofferenza, e proprio in questo modo sconfigge il male. Pareyson non offre una
trattazione dettagliata di questo passaggio dalla sofferenza alla redenzione,
dall’impotenza alla potenza, forse perché dà per scontato il successivo momento della
54
Ivi, p. 201.
38
Resurrezione di Cristo. Certo, rimane un nervo scoperto nella sua argomentazione.
Viene quasi naturale chiedersi come il vertice del dolore sia la chiave per sconfiggere il
male. Forse, la spiegazione teologica di Lutero non è sufficiente. In ogni caso, è centrale
nel Nostro la figura del Cristo, tant’è che egli chiude il saggio con queste parole: «il
problema oggi non è più quello d’una teologia naturale, che sia accettabile alla pura
ragione, ma quello ben più attuale della cristologia, d’una cristologia per così dire laica,
la quale come pensiero tragico sia in grado di coinvolgere tutti, credenti e non
credenti».55
Un’ontologia cristologica all’interno di un’ontologia della libertà, questo sembra
suggerire Pareyson nelle pagine finali del saggio. Sorgono a questo punto alcune
questioni: parlare di cristologia non implica prendere in considerazione Gesù Cristo per
come Egli si è rivelato, ovvero nel modo in cui gli evangelisti, San Paolo e la Chiesa
apostolica dei primi secoli ne parlano, cioè Figlio di Dio, Verbo incarnato, vero uomo e
vero Dio, e che apre alla rivelazione di Dio come Trinità? E come conciliare l’idea
d’una libertà dialettica, ambigua, polare, con l’idea d’una relazione d’amore che
intercorre fra Padre, Figlio e Spirito Santo? Un ripensamento filosofico del
cristianesimo oggi può svolgersi fuori d’una prospettiva come questa, una prospettiva
trinitaria? Sono alcuni dei quesiti chiave che ci interpellano oggi, e che rimandano più
in generale al problema di comprendere meglio il rapporto fra essere e libertà.
Dopo questi saggi e le lezioni tenute a Napoli che riprendono questi stessi
argomenti, negli ultimi anni della sua vita Pareyson riprende alcune delle istanze del
saggio Rettifiche sull’esistenzialismo, in modo particolare cerca di mettere in dialogo in
modo più profondo Heidegger e Schelling, ereditando dal primo il concetto di nulla e
dal secondo l’idea di libertà. Ora, infatti, non si tratta più di parlare del rapporto fra
l’essere e la libertà ma fra la libertà e il nulla. Come in un cerchio che si chiude, il
Nostro che aveva mosso i primi passi teoretici sulle orme di Jaspers e Heidegger si
riscopre esistenzialista, anche se in forma nuova, nella stesura degli ultimi saggi alla
fine degli anni Ottanta. Riscopre e rivaluta il contributo heideggeriano, riferendosi in
particolare alla produzione degli anni Trenta, a Che cos’è metafisica? ereditandone il
tema dell’angoscia di fronte a un essere che si rivela coincidente col nulla. Tuttavia, in
questa riscoperta del cuore dell’esistenzialismo non può non includere quel pensatore
che ritiene non solo post-hegeliano, ma anche per certi versi post-heideggeriano, perché
55
Ivi, p. 233.
39
ha saputo parlare di libertà in senso totale e assoluto: Schelling. Il nulla è l’essere come
principio ma non fondamento, come libertà nella sua totale ambiguità e tragicità. Per
Pareyson Heidegger non è riuscito a mettere in rapporto il nulla e la libertà per il suo
radicale rifiuto del pensiero cristiano; Schelling non ha scorto dietro a questa profonda
libertà il nulla perché ancora legato alla categoria della necessità. Per un’ontologia della
libertà occorre far incontrare i due pensatori per svilupparne al meglio le istanze. 56 Resta
ancora da capire come conciliare quest’ultima esigenza teoretica con l’ermeneutica
dell’esperienza religiosa e con il pensiero tragico. Purtroppo la morte è sopraggiunta
prima che il Nostro riuscisse ad approfondire quest’ultima interessante riflessione.
Cercheremo di coglierne in qualche modo l’eredità, mossi dalla stessa esigenza di
sviluppare un’ontologia integrale, che sappia porsi come chiave d’interpretazione di ciò
che siamo in quanto uomini e delle sfide che ci attendono.
Per poter svolgere al meglio questo compito è doveroso ora rivolgersi a quegli
Autori che da più di vent’anni a questa parte si sono messi in dialogo con il filosofo
piemontese per valorizzarne il contributo, coglierne la positiva provocazione per il
pensiero, scioglierne i nodi tematici più ostici ed evidenziarne i traguardi raggiunti. In
particolare ci è sembrato proficuo concentrarci su tre Autori: Giovanni Ferretti, Claudio
Ciancio e Piero Coda.
56
Cfr. L. PAREYSON, Filosofia della libertà, Genova, Il Melangolo, 1989, pp. 9-34 (si tratta della ripresa
della lezione di congedo tenuta a Torino il 27 ottobre 1988); IDEM, Heidegger: la libertà e il nulla,
«Annuario Filosofico», V (1989).
40
CAPITOLO II
Dopo Pareyson: recezione, prospettive e criticità di un’ontologia della libertà
Nel primo capitolo abbiamo brevemente riassunto l’itinerario percorso da Luigi
Pareyson nell’arco di cinquant’anni, provando a evidenziarne i tratti costanti e i punti di
svolta, sottolineando la grande attualità del suo operato e le sfide che attendono
chiunque voglia tentare di proseguire la sua strada. Sono trascorsi più di venticinque
anni dalla sua scomparsa, eppure il filosofo piemontese continua a essere al centro della
riflessione di molti pensatori italiani e non. Per questo motivo ci sembra imprescindibile
provare a confrontarci con qualcuno di questi Autori, seguirli nei loro ragionamenti ed
eventualmente coglierne gli stimoli necessari per proseguire nella ricerca. Fra i tanti, si
è scelto di concentrarsi su tre punti di vista, i quali sono accomunati dal porre al centro
due grandi tematiche, una di carattere epistemologico e metodologico che riguarda il
senso del fare filosofia oggi in rapporto con l’esperienza religiosa; l’altra di carattere
essenzialmente teoretico e che scava l’affascinante ma controverso rapporto fra essere e
libertà così come si snoda in Pareyson. Come anticipato, gli Autori presi in questione
sono Giovanni Ferretti, Claudio Ciancio e Piero Coda.
1. Natura teologica della filosofia di Pareyson e capovolgimento del rapporto
essere-libertà: Giovanni Ferretti
Giovanni Ferretti può essere considerato uno fra i più attenti interpreti di
Pareyson, fedele al maestro ma pronto a fare luce sui nodi problematici del suo
pensiero. Egli si concentra in modo particolare sul rapporto fra filosofia ed esperienza
religiosa e nello specifico indaga la relazione che intercorre fra filosofia e teologia.
Nel corso della storia le due discipline si sono progressivamente allontanate e
questo ha comportato da un lato un irrigidimento dogmatico da parte della teologia, il
quale raggiunge il suo culmine nella riflessione neoscolastica, dall’altro una riduzione
della riflessione filosofica a problemi di carattere analitico oppure alle più radicali
posizioni nichiliste. Rifiutando il dialogo interdisciplinare entrambe sono giunte a
perdere la loro identità più profonda. Tuttavia, nel corso del Novecento si sono
susseguiti più tentativi di riconciliazione da parte sia dei filosofi sia dei teologi che
hanno intuito la sterilità conseguente alla separazione. Giovanni Ferretti, in quanto
filosofo e sacerdote teologo, è coinvolto personalmente in questa complessa relazione
fra filosofia e teologia cristiana e non può che cercare di dare il suo contributo
nell’ottica di unire le discipline pur riconoscendone le differenze. È lo stesso Autore a
41
descrivere il suo itinerario nelle prime pagine di Filosofia e teologia cristiana: egli si
forma presso la scuola della neoscolastica tomista, la quale nega che la filosofia possa in
qualche modo indagare sui contenuti di fede. L’incontro con la fenomenologia e in
particolare con la figura di Max Scheler 57 porta però l’Autore a rimettere in discussione
il rapporto fra filosofia e teologia. Inoltre, anche in campo teologico si fanno sempre più
pregnanti le influenze di Autori come Karl Rahner e Hans Urs von Balthasar. Decisive
poi sono le riflessioni della filosofia dialogica nelle figure di Rosenzweig, Buber e
Lévinas, oltre che il recupero di alcuni Autori moderni come Pascal e Schelling. 58 Sopra
tutti, però, è lo stesso Ferretti a riconoscere in Luigi Pareyson una posizione chiave per
aprire una nuova strada di dialogo fra filosofia e teologia, «una delle soluzioni più
avvincenti al nostro problema». 59
Il merito va alla sua teoria dell’interpretazione. Pareyson si pone il problema di
conciliare l’assolutezza della verità con la storicità nella quale si rivela, cercando di
evitare da un lato le posizioni assolutiste e dall’altro il relativismo. Il personalismo
ontologico, in particolare l’idea di persona come coincidenza di autorelazione ed
eterorelazione, conduce a pensare la verità come una e inesauribile ma non per questo
incomunicabile, anzi: l’uomo, essendo originariamente in rapporto con essa, può sempre
darne la sua personale interpretazione, «della verità non c’è che interpretazione e non
c’è interpretazione che della verità».60 Dunque da un lato Pareyson indica come via
d’accesso alla verità la persona che però, essendo libera, può anche scegliere di
chiudersi all’ascolto della verità; dall’altro lato il rapporto fra la verità e le infinite
interpretazioni possibili è un rapporto di identità e ulteriorità, e quest’ultimo elemento
verrà ripreso dal Nostro nella descrizione che farà del simbolo e del mito religioso 61.
Ferretti sottolinea che per questi caratteri l’ermeneutica di Pareyson offre importanti
spunti per chiarire il rapporto fra filosofia e teologia. Innanzitutto, anche la teologia
cristiana deve porsi in ascolto della verità, senza pensare di possederla, offrendo la sua
interpretazione al dialogo con altre interpretazioni, anch’esse libere dalla tentazione di
afferrare in modo ultimo e definitivo la verità. Se filosofia e teologia sapranno disporsi
Cfr. M. SCHELER, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, a cura di G. Caronello, Milano,
San Paolo, 1996; IDEM, La posizione dell’uomo nel cosmo ed altri saggi, a cura di R. Padellaro, Milano,
Fabbri, 1970.
58
Cfr. G. FERRETTI, Filosofia e teologia cristiana. Saggi di epistemologia ermeneutica, vol. 1, Napoli,
ESI, 2002. Per approfondimenti su K. Rahner e H. U. von Balthasar si veda P. CODA, Dalla Trinità.
L’avvento di Dio fra storia e profezia, Roma, Città Nuova, 2005.
59
G. FERRETTI, Filosofia e teologia cristiana. Saggi di epistemologia ermeneutica, vol. 1, cit. p. 56.
60
L. PAREYSON, Verità e interpretazione, cit. p. 53.
61
Cfr. L. PAREYSON, Filosofia ed esperienza religiosa, in Ontologia della libertà.
57
42
l’una di fronte all’altra in questo modo, se pur in tensione, allora sapranno affrontare
alcuni dei temi fondamentali per l’esistenza umana, come il problema del male, della
libertà, della storia, ecc. Dopotutto è proprio quello che lo stesso Pareyson ha tentato di
fare parlando di un’ermeneutica dell’esperienza religiosa: chiarire e universalizzare la
verità rivelata nei miti della tradizione ebraico-cristiana in modo che possa suggerire
una soluzione ai problemi esistenziali che riguardano tutti. Ma d’altro canto, secondo
Ferretti, la teologia condivide lo stesso compito, «è impregnata proprio nel cercare di
interpretare e reinterpretare incessantemente la verità cristiana proprio per renderla
accessibile a tutti, in ogni tempo, secondo l’universalità che le compete». 62
Secondo questo punto di vista, allora, non vi è una vera distinzione
epistemologica fra filosofia e teologia cristiana, ma solo una diversa tradizione
ermeneutica. Questa diversità è ciò che allontana le due discipline, ma il riconoscimento
del comune terreno epistemologico le può ulteriormente avvicinare, dando vita ad un
fecondo circolo ermeneutico, ossia a un «mettere in comunicazione come dono per
l’altro tutta la ritrovata ricchezza della propria tradizione interpretativa della verità». 63
Questa è la nuova direzione che, secondo Ferretti, devono seguire la filosofia e la
teologia, e che in qualche modo è stata dischiusa dalle importanti riflessioni di
Pareyson. Tuttavia, quest’ultimo non ha mai voluto prendere troppo in considerazione la
teologia e nei suoi saggi non manca l’occasione per rimarcare la differenza fra la
disciplina e l’ermeneutica dell’esperienza religiosa, che nel concreto è un ripensamento
filosofico del cristianesimo.64 Augura sì un dialogo, ma non riconosce alla teologia
cristiana quella capacità di chiarire e universalizzare i contenuti di fede, prerogativa
lasciata alla filosofia. Secondo Ferretti, Pareyson prende le distanze da un certo modo di
fare teologia, in particolare dall’impostazione dogmatico-positivista, ma non da ciò che
la teologia è da un punto di vista strettamente epistemologico, cioè «riflessione radicale
sulla fede a partire dalla fede, per mostrarne e comunicarne universalmente la verità». 65
A sostegno della sua tesi l’Autore indica le implicazioni teologiche che secondo lui
sono contenute in alcune riflessioni pareysoniane.
Innanzitutto, ricorda che fin dall’inizio il Nostro muove le sue ricerche all’interno
di una decisione esistenziale presa a favore del cristianesimo e di un suo ritrovamento
dopo la crisi della cultura moderna, per cui egli si dichiara esplicitamente un filosofo
62
G. FERRETTI, Filosofia e teologia cristiana. Saggi di epistemologia ermeneutica, vol. 1, cit. p. 65.
Ibidem.
64
Cfr. L. PAREYSON, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, p. 146, 162, 167.
65
G. FERRETTI, Filosofia e teologia cristiana. Saggi di epistemologia ermeneutica, vol. 2, cit. p. 122.
63
43
cristiano. Il cristianesimo è un fatto eterno che s’incarna di volta in volta nelle forme
culturali, senza esaurirsi in esse. 66 È questa l’affermazione che, secondo Ferretti, porta
Pareyson allo sviluppo della teoria dell’interpretazione: egli è sollecitato dal problema
dell’incarnazione del cristianesimo, anche se in Verità e Interpretazione non ne fa
esplicito riferimento. Per questo motivo l’Autore tenta di dare una rilettura teologica
dell’opera di Pareyson del 1971, anche perché è fermamente convinto che questa
particolare concezione dell’interpretazione sia «particolarmente adatta a far uscire la
teologia cristiana dall’alternativa tra dogmatismo e relativismo, invitandola a prender
atto che il problema è quello di saper ritrovare ogni volta in forme nuove l’eterna verità
cristiana». 67 Per questo motivo sostiene che una teoria ermeneutica così elaborata non si
poteva concepire se non all’interno di una prospettiva cristologica:
In Gesù Cristo, infatti, che nel prologo del Vangelo di Giovanni è presentato come
l’interprete in persona del Dio invisibile, tra la natura eterna costituisce una vera e propria
identità personale, pur senza portare alla confusione tra le due nature. E forse non a caso
Pareyson ripete costantemente che «la verità s’identifica con la sua formulazione, senza
tuttavia confondersi con essa» (VI 139)68
In più, il rapporto fra inesauribilità della verità e libertà umana, cioè la possibilità
lasciata totalmente in mano all’uomo di essere interpretazione vivente della verità o
chiusura ad essa, per Ferretti corrisponde in campo religioso alla fede come accoglienza
libera di Qualcuno che si rivela pur rimanendo inesauribile. Dimostrato il profondo
legame fra la teoria dell’interpretazione e la scelta religiosa cristiana, per cui
quest’ultima è il punto di partenza della prima la quale, a sua volta, chiarisce e
condiziona la seconda, l’ultima fase della riflessione di Pareyson non fa altro che
«tematizzare più esplicitamente e fondare più rigorosamente quanto era già
precedentemente implicito sia nel suo pensiero esistenzialista, sia nel suo pensiero
ermeneutico». 69
Ferretti ripercorre così l’itinerario svolto dal Nostro negli anni successivi,
cercando di porre l’accento sull’ispirazione cristiana che guida tutta la riflessione sulla
libertà. Quest’ultima, infatti, è resa possibile proprio grazie alla precedente scelta
esistenziale del cristianesimo, ed è lo stesso Pareyson a sottolineare che Martin
66
Per un ulteriore approfondimento si rimanda alla trattazione esposta nel primo capitolo del seguente
lavoro, e al saggio di L. PAREYSON La situazione religiosa attuale, in Esistenza e Persona, Genova, Il
Melangolo, 19854.
67
G. FERRETTI, Filosofia e teologia cristiana. Saggi di epistemologia ermeneutica, vol. 2, cit. p. 128.
68
Ibidem.
69
Ivi, p. 129.
44
Heidegger non riuscì a tematizzare con la stessa profondità il tema della libertà proprio
perché partiva da una posizione anticristiana. 70 Inoltre, il Nostro affronta il tema del
male cercando una possibile soluzione nella sofferenza del Cristo in croce, ed è questa
riflessione che lo veicola verso il pensiero tragico, da lui visto come ripensamento
attuale e fecondo del cristianesimo. Per questi motivi, Ferretti riconosce in Pareyson un
maestro e una guida non solo per la filosofia, ma anche per la teologia cristiana:
Ci pare infatti che la teologia odierna, che in più modi avverte l’esigenza di pensare la fede
cristiana non in base a categorie filosofiche estranee, come si dice siano quelle greche, ma
in base allo stesso «spirito» del cristianesimo, ossia in base al «pensiero» che gli è proprio e
che esso stesso ha introdotto in occidente, possa trovare in Pareyson preziosi spunti di
riflessione e forse anche una via alternativa altamente feconda. Quella via del «pensiero
della libertà» che non solo corrisponde al nucleo essenziale dello «spirito» cristiano, ma
anche all’ideale segreto più autentico della cultura moderna.71
Tuttavia, la via tracciata da Pareyson non è priva di insidie e Ferretti ne è
consapevole. Se dal punto di vista epistemologico il contributo del filosofo è di vitale
importanza per il dialogo fra filosofia e teologia, dal punto di vista teoretico il concetto
di libertà fa sorgere molte questioni, soprattutto perché si nota una progressiva
radicalizzazione dell’ambiguità della libertà fino a portare ad un capovolgimento fra le
prime prove speculative e le ultime. In particolare ci si domanda quanto dell’ontologia
dell’inesauribile rimanga nella matura ontologia della libertà. Si passa, infatti, da una
condizione di primato dell’essere a una di primato della libertà, e questo passaggio non
è privo di problemi soprattutto per quanto riguarda l’idea di Dio e l’ispirazione cristiana
di tutto l’impianto speculativo. Se il merito di Pareyson è di aver parlato del Dio
vivente, svincolato da meccanismi necessaristici, il quale si rivela, pur nella sua
inesauribilità, nei racconti mitici, il progressivo radicalizzarsi dell’ambiguità della
libertà genera alcune perplessità, soprattutto se ci si continua a riferire al Dio
dell’esperienza ebraico-cristiana. In particolar modo, l’idea di un «Dio dialettico» che
conduce a pensare il momento dell’abbandono in croce come momento di «Dio contro
se stesso», sposando la tesi della «sostituzione vicaria» di Lutero, rischia di allontanare
dalla rivelazione di Dio come Amore, attestata, in modo particolare, dal Nuovo
Testamento e dalla riflessione teologica cristiana. La dialettica della sofferenza per
Ferretti è «ancora debitrice di una concezione sacrificale-espiatoria del dolore, con
70
71
Cfr. L. PAREYSON, Heidegger: la libertà e il nulla, «Annuario Filosofico», V (1989).
G. FERRETTI, Filosofia e teologia cristiana. Saggi di epistemologia ermeneutica, vol. 2, cit. p. 150.
45
valenza di legge di necessità»: 72 questo significa che è ancora sottomessa ad una
dialettica della necessità, che Pareyson invece vuole superare parlando di una dialettica
della libertà. Come conciliare dunque queste riflessioni discordanti? Secondo Ferretti,
fra la dialettica della libertà e la dialettica della sofferenza occorre inserire, come
mediatrice, la dialettica dell’amore, dove «ciò che è in gioco non è tanto il pareggiare
dolore e pena, dolore ed espiazione della pena, quanto provocare/ attestare, con la
testimonianza di un amore che sa assumere su di sé anche il dolore, la conversione della
libertà dalla scelta del male alla scelta del bene». 73 In questo modo si aprono prospettive
nuove che conducono inevitabilmente oltre Pareyson, ma a seguito delle sue
provocazioni teologiche, filosofiche e cristologiche.
Tuttavia, occorre ancora soffermarsi sul problema teoretico del rapporto fra essere
e libertà, perché solo scavando a fondo nelle prospettive che la riflessione pareysoniana
lascia aperte si può eventualmente proseguirne la ricerca, andare oltre pur rimanendo in
dialogo con il pensatore. In questo orizzonte Ferretti dà il suo prezioso contributo nel
saggio Fenomenologia e ontologia della libertà nell’itinerario di Luigi Pareyson 74. Qui
l’autore si occupa innanzitutto di dare una chiara e precisa descrizione dell’itinerario
perseguito dal maestro, concentrandosi sui saggi raccolti in Esistenza e persona per poi
seguire i successivi sviluppi fino agli ultimi contributi alla fine degli anni Ottanta.
L’Autore prende le mosse dal problema della normatività, cioè dal discorso
sull’iniziativa morale che Pareyson affronta a partire dal saggio del 1943 Tempo ed
eternità, in Persona e società del 1964 e durante il corso dell’anno accademico 196869, sottolineando il nesso fra la libertà e la norma, non da intendersi come kantiano
imperativo estrinseco all’esperienza, ma come legge interiore, come appello della libertà
di scelta. Si tratta di una concezione del dovere «come “compito”, fedeltà a se stessi che
è “scelta di sé”, impegno ad interpretare il proprio io più profondo ed essenziale»,75 e in
questo consiste l’esercizio della propria libertà che non ha nulla a che fare col mero
attivismo o con l’arbitrarismo alla Sartre.76 Il problema che lo stesso Pareyson riscontra
è che in questo modo non si riesce a parlare in modo approfondito dell’origine di questa
libertà, perché l’esperienza morale non è sufficiente a fondare l’iniziativa stessa. Per
questo egli ricorre all’esperienza religiosa, nel saggio del ’43, e all’ontologia, negli anni
72
Ivi, p. 164.
Ivi, p. 165.
74
P. CODA, G. LINGUA (edd), Esperienza e libertà, Roma, Città Nuova, 2000, pp. 227-270.
75
Ivi, p. 233.
76
Cfr. J. P. SARTRE, L’essere e il nulla, a cura di F. Fergnani e M. Lazzari, Milano, Il Saggiatore, 1997.
73
46
successivi. Per quanto riguarda il primo saggio, Ferretti mette l’accento sull’uso di
categorie concettuali come la gratuità e il dono, perché esse torneranno anche
successivamente, quando Pareyson, nel tentativo di spiegare il rapporto fra libertà
umana e libertà divina, introdurrà la dialettica di dono e consenso al dono. Nei saggi
successivi, invece, l’antinomia dell’iniziativa morale viene risolta non più tramite Dio e
l’esperienza religiosa bensì è rimandata all’ontologia: «l’analisi dell’iniziativa,
precedentemente svolta, appare ora solo come una “fenomenologia dell’iniziativa”, che
può trovare il suo fondamento e compimento, e quindi il suo vero significato, solo in
una “ontologia della libertà”».77 Siamo negli anni di piena maturità del personalismo
ontologico pareysoniano, per cui l’attenzione è volta verso la persona e il suo rapporto
originario e costitutivo con l’essere. Vi è dunque un chiaro primato dell’essere
indagando il quale si può, secondo il Nostro, scorgere il fondamento della libertà
umana. Ferretti ci tiene a sottolineare che lo stesso Pareyson negli anni Ottanta non
definirà più questa sua fase di riflessione come ontologia della libertà, perché va notato
fin da ora che quello che qui si sta sviluppando è molto diverso da quella filosofia della
libertà che caratterizza gli ultimi anni della sua professione. In modo particolare nel
saggio Situazione e libertà Pareyson parte dalla definizione di uomo come coincidenza
di autorelazione ed eterorelazione, cerca di indagare il rapporto con la situazione storica,
con l’essere, e spiegare quale relazione intercorra fra la libertà umana e la libertà
originaria. È in questa circostanza che introduce la dialettica di dono e consenso al
dono, a cui Ferretti dedica un’ampia trattazione nel suo saggio, pur rimarcando che si
tratta di una fenomenologia della libertà, poiché l’attenzione è posta sull’esperienza
umana e non ancora sul rapporto originario fra essere e libertà.
Quest’ultimo sarà l’argomento del corso di filosofia teoretica presieduto dal
Nostro nell’anno accademico 1969-70, raccolto in una dispensa dal titolo Essere e
libertà, nella quale la tesi esposta riguarda l’inscindibilità fra essere e libertà. Non si dà
una libertà abbandonata a se stessa, essa è testimonianza dell’essere presentandosi in
due forme, ossia come iniziativa iniziata (e qui richiama ancora una volta la dialettica di
dono e consenso al dono) e scelta, con tutta la drammaticità e l’ambiguità che
quest’ultima caratteristica comporta. Rimane saldo il primato dell’essere sulla libertà,
perché solo in riferimento al primo essa si può concepire come iniziativa e come scelta,
e anche nella possibilità reale e sconcertante del rifiuto dell’essere, la libertà affermando
se stessa attesta la presenza originaria dell’essere:
77
P. CODA, G. LINGUA (edd), Esperienza e libertà, cit. p. 236.
47
La presenza originaria dell’essere quale positività originaria viene quindi attestata dalla
libertà anche quando questa si attua come decisone contro l’essere; tale decisione è infatti
pur sempre un libero atto positivo di rifiuto e quindi una messa in atto di quell’essere come
libertà che ci è stato offerto.78
Negli anni successivi Pareyson si concentrerà maggiormente sulla natura ambigua
della libertà, passando progressivamente da un primato dell’essere ad un primato della
libertà. È qui che Ferretti pone i primi interrogativi: il primato della libertà come inizio e
come scelta non rischia in qualche modo di porsi contro quella positività originaria di
cui si è precedentemente parlato, e che garantisce anche l’intrinseco legame fra la libertà
e la normatività? Non si rischia di perdere il riferimento all’essere, e quindi di volgersi
verso una libertà più simile all’arbitrarismo indicato da Sartre? Inoltre l’Autore si
preoccupa di far notare il distacco fra la visione della libertà in Pareyson e quella in
Sant’Agostino e San Tommaso, che in qualche modo subordinano la libertà al bene: si è
liberi quando si fa il bene. Nel filosofo piemontese prevale invece una concezione
tragica, ma forse più reale: meglio il male libero che il bene imposto, la libertà è tale
anche compiendo il male. Al pensiero medievale egli predilige i romanzi di
Dostoevskij. Come attesta lo stesso Ferretti, l’influenza dell’autore russo e la sentita
urgenza personale di una riflessione sul male portano ad una progressiva
radicalizzazione della sua posizione.
A partire dalla seconda metà degli anni Settanta egli non parla più di
inseparabilità di essere e libertà bensì di convertibilità: l’essere è libertà, la libertà è
l’essere. Ora i due termini coincidono, e questo suggerisce a Ferretti un paragone con il
rapporto tra i trascendentali illustrato dalla tradizione medievale, anche se da subito
mantiene qualche riserva a proposito, poiché la successiva virata verso il primato della
libertà, mettendo in ombra l’essere, non garantisce più quella differenza ontologica che
invece permane fra i trascendentali. Ecco il rischio che corre Pareyson quando accentua
il primato della libertà sull’essere: rischia di non riuscire a recuperare più gli altri
attributi, primo fra tutti il bene, perdendo quella positività originaria che invece
caratterizza i primi scritti. Inoltre, non va dimenticato il riferimento, presente in modo
particolare negli ultimi saggi degli anni Ottanta, all’esperienza religiosa ebraicocristiana, l’unica che, secondo il Nostro, riesce a presentare Dio come assoluta libertà.
Da qui la critica contro il Dio dei filosofi e ogni tentativo di metafisica oggettivante, il
temerario discorso sul male in Dio e sul valore salvifico della sofferenza. In questo si
78
Ivi, p. 247.
48
scorge la netta presa di posizione non solo contro i sopracitati Agostino e Tommaso, ma
contro lo spiritualismo da cui lo stesso Pareyson in qualche modo ha attinto attraverso il
maestro Guzzo. Quello che il filosofo propone è un pensiero tragico che non cerca
soluzioni accomodanti ma sa accogliere la realtà così com’è, appesa e intrisa di libertà
se pur quest’ultima non sia mai abbandonata a se stessa. Qui Ferretti scorge un altro
nodo problematico: da un lato vi è la presa di posizione contro Sartre, e quindi
l’attestazione di un essere originario, dall’altro il Nostro non smette di sottolineare la
illimitatezza della libertà, che può superare quel limite originario imposto dall’essere.
Ma se «si ritiene che la libertà preceda l’essere, in che senso questo potrà ancora
costituire quel “limite” originario che norma la libertà in modo che non scada ad
“attività abbandonata a se stessa?”».79 Inoltre vi è il problema del rapporto fra la libertà
divina e quella umana, perché non vi è alcuna necessità che dalla prima derivi la
seconda, l’uomo può svincolarsi dal suo creatore, anche se la sua libertà continuerà a
presupporre quella originaria di Dio. Ma allora non vi è alcuna norma interna, come si
diceva in precedenza, e anche se ci fosse non si comprende come possa essere
vincolante e porsi quindi come legge interiore se si dà in un rapporto caratterizzato dalla
libertà illimitata: come si può legiferare davanti ad una tale illimitatezza?
Ferretti ha il merito di indicare i nodi più problematici del rapporto fra essere e
libertà, nell’analisi storiografica della produzione di Pareyson nota non solo la
progressiva radicalizzazione del concetto di libertà ma un vero e proprio
capovolgimento. Rimane il problema di conciliare queste due fasi della riflessione del
maestro o per meglio dire, come suggerisce lo stesso Ferretti, «tenerle ferme entrambe,
approfondendone le rispettive ragioni e sopportando la tensione della loro irriducibile
contrarietà».80 L’ontologia della libertà sembra così svilupparsi a partire da questa
dicotomia, primato dell’essere e primato della libertà, cercando di non ricorrere né a una
qualsiasi forma di necessità né al radicale arbitrarismo d’ispirazione sartriana. In fondo
quello di Pareyson è un pensiero di frontiera, e ha ragione Ferretti quando dice che
occorre tener ferme tutte le fasi del suo articolarsi anche se questo comporta il
rinunciare ad una ferma conciliazione. Tuttavia, ci sembra che una parziale via d’uscita
dalla tensione polare sia possibile, pur rimanendo fedeli al filosofo piemontese, se si
pone al centro della riflessione ontologica l’esperienza religiosa ebraico-cristiana, se
l’ontologia della libertà si sviluppa all’interno di un’ermeneutica dell’esperienza
79
80
Ivi, p. 259.
Ivi, p. 270.
49
religiosa, o di una rinnovata cristologia come suggerisce lo stesso Pareyson, in aperto
dialogo con la teologia, in particolare con la teologia trinitaria. In questo modo si coglie
il suggerimento di Ferretti di porre la dialettica dell’amore a fare da mediatrice, e
l’amore, nell’esperienza cristiana, l’agape, implica la presenza di tre Persone, è amore
trinitario.
2. Paradosso e dono dell’essere: Claudio Ciancio
Stimato allievo di Pareyson, Claudio Ciancio si è impegnato nello stimolante
compito di approfondire alcune delle tematiche affrontate dal maestro focalizzandosi
anch’egli sul rapporto fra filosofia e religione e il problema teoretico di essere e libertà.
Per quanto riguarda la prima istanza, Ciancio, in un convegno del 2005, 81 si
definisce come uno di coloro che hanno mediato la posizione di Ferretti nei confronti di
Pareyson, muovendosi sulla linea sottile fra la continuità e la distinzione. Infatti, come il
suo collega di Torino, anche Ciancio concorda nel definire la filosofia del maestro
interamente ispirata al cristianesimo, anche se, l’Autore specifica, nei primi tempi si
trattava più di un’opzione culturale che con il passare degli anni assume sempre più la
forma di una profonda scelta esistenziale. Successivamente, in Verità e interpretazione,
Pareyson si occupa di distinguere i due piani, quello religioso e quello filosofico, poiché
intravede i rischi conseguenti ad un assorbimento ideologico di uno sull’altro. Pertanto,
conclude che i due termini debbano restare indipendenti, ma questa indipendenza non
implica l’assenza di relazione, anzi: la religione può trovare un suo prolungamento
filosofico, perché, per quanto la fede sia possesso, essa è autentica se non perde la
dimensione della scommessa, ovvero se in essa rimane viva la ricerca, la quale è tipica
dell’atteggiamento filosofico. Tuttavia, secondo Claudio Ciancio, il discorso di Verità e
interpretazione è incompleto, poiché rimane unidirezionale: si sottolinea il radicamento
filosofico della religione, ma non si accenna ad un possibile radicamento religioso della
filosofia, «Pareyson dice quali rischi corra una religione che soppianti la filosofia, o che
semplicemente voglia prescindere del tutto da essa, ma non quali rischi corra una
filosofia che voglia soppiantare la religione o prescindere da essa». 82 Il Nostro, ricorda
Ciancio, approfondirà questa tematica nei saggi di Ontologia della libertà, sviluppando
un’ermeneutica dell’esperienza religiosa che mette al centro la portata rivelativa del
mito e dà piena dignità a quell’esperienza originaria che ogni uomo fa con la
81
C. CIANCIO, Filosofia e religione nel pensiero di Luigi Pareyson, in AA.VV., Approssimazioni alla
trascendenza, a cura di C. CIANCIO e R. MANCINI, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici
internazionali, 2005, pp. 93-112.
82
Ivi, p. 95.
50
trascendenza. Da ambiti necessariamente separati, filosofia e religione trovano qui un
comune orizzonte di ricerca, tant’è che lo stesso Pareyson non solo auspica ma ritiene
doverosa l’unità della filosofia con l’esperienza religiosa. Siamo di fronte ad un
ribaltamento rispetto a Verità e interpretazione: ora la filosofia non può fare a meno
dell’esperienza religiosa, mentre la religione sembra poter mantenere una sua autonomia
rispetto alla riflessione filosofica. Vi è dunque una superiorità di uno dei due termini?
Secondo
Ciancio,
filosofia
e
religione
sono
complementari,
si
implicano
vicendevolmente, e ognuna porta il suo originale e insostituibile contributo, anzi,
l’Autore, andando oltre il maestro, si spinge a dire che «ciascuna delle due rispetto
all’altra comporta un guadagno e una perdita»: 83 l’esperienza religiosa è più immediata,
originaria, intuitiva, ma manca di chiarezza e universalità, caratteristiche che invece
possiede la consapevolezza critica tipica della filosofia, nonostante quest’ultima non sia
un’esperienza originaria quanto quella religiosa.
Ciancio tenta così di chiarire alcuni nodi problematici del pensiero del maestro
senza distaccarsi eccessivamente. Tuttavia, l’Autore si allontana da Pareyson in modo
più significativo nel momento in cui parla del rapporto della filosofia con la teologia,
avvicinandosi in questo modo alla posizione di Ferretti. Infatti, per Ciancio non è chiaro
perché il maestro abbia voluto distinguere in modo così netto l’ermeneutica
dell’esperienza religiosa da ciò che la teologia è in senso strettamente epistemologico,
come del resto sottolinea anche Ferretti. Forse Pareyson era preoccupato di cadere in un
discorso eccessivamente religioso che perdesse le imprescindibili caratteristiche di
universalità e chiarezza, e forse gioca anche un’immagine un po’ riduttiva di che cosa
sia la teologia, favorita da alcune correnti più dogmatiche e meno aperte al confronto. In
ogni caso, Ciancio si trova in pieno accordo con Ferretti, e senza soffermarsi troppo su
questo punto cerca di portare la questione della differenza fra religione e filosofia sul
piano del discorso, ovvero sulla differenza del linguaggio filosofico e del linguaggio
religioso in Pareyson.
Innanzitutto, l’Autore sottolinea come il maestro abbia voluto evitare di parlare di
Dio in filosofia, accostando alla nota critica al Dio dei filosofi la decisione di parlare di
essere, poiché Dio non può essere oggetto di studio, non può essere afferrato, non è un
contenuto proprio della filosofia: è Qualcuno che si rivela. Il linguaggio filosofico ha
dunque il compito di chiarificare e universalizzare qualcosa di già dato nell’esperienza.
Da questo, Ciancio ribadisce che il pensiero filosofico non può svilupparsi in una mera
83
Ivi, p. 100.
51
concettualizzazione razionalistica, ma esso è inseparabile dall’esistenza. La filosofia
non ha contenuti propri, perché «il suo vero e proprio contenuto non è altro che una
riflessione e un’applicazione di contenuti che essa riceve anzitutto dalle esperienze
fondamentali»84. Si inaugura così un nuovo modo di intendere il lavoro filosofico, che
richiede, di conseguenza, un nuovo linguaggio: da un lato occorre trasporre il
linguaggio religioso in modo da renderne il contenuto accessibile a tutti, come
ripetutamente sottolineato; dall’altro bisogna tenere ferma l’inesauribilità del contenuto
veritativo che impedisce una trasposizione esaustiva, vi è un “oltre” da rispettare. Ma
ciò non significa che la differenza fra linguaggio religioso e linguaggio filosofico sia
una differenza che pone la religione su un piano di superiorità rispetto alla filosofia,
almeno non nell’ottica di Pareyson: l’ermeneutica dell’esperienza religiosa ne è,
secondo lui, la conferma, perché è il tentativo riuscito di collaborazione dei due ambiti
senza costituire nessun tipo di gerarchia né di confusione. Secondo Ciancio, il tentativo
compiuto dal maestro è l’avanzamento dell’ipotesi che vi sia una «relazione di
continuità, pur nella differenza, tra simbolo e mito da una parte e concetto e sistema
filosofico dall’altro»85 e quest’ipotesi per certi versi è rivoluzionaria, è un tentativo di
conciliazione che, per quanto si muova nella tradizione ermeneutica che vede fra i suoi
rappresentanti Gadamer e Ricoeur, segna una svolta nel senso dell’innovazione e
dell’incontro non solo fra filosofia e religione ma, come ha sottolineato Ferretti, fra
filosofia e teologia.
Qualche anno dopo, lo stesso Ciancio riaffronta il tema del rapporto fra filosofia e
teologia richiamando di nuovo Ferretti, affermando la convergenza della sua prospettiva
con quella del collega, «anche se argomentata in modo parzialmente diverso». 86
Ciancio, infatti, prende le mosse da un’accurata analisi storico filosofica dello sviluppo
del dialogo o, talvolta, del conflitto fra filosofia ed esperienza religiosa, richiamando le
origini della filosofia in Grecia, l’impatto del cristianesimo nel mondo romano, i testi
dell’Antico e del Nuovo Testamento, i padri della Chiesa, il tutto in un orizzonte che
vede inscindibile il rapporto fra cultura europea e cultura cristiana: infatti, non si può
negare la profonda influenza che la Rivelazione ha avuto sulla formazione della cultura
in Europa. In particolare, per quanto riguarda il rapporto fra cristianesimo e filosofia, il
legame è dato dal concetto di libertà: senza l’avvento di Cristo e le predicazioni delle
prime comunità cristiane l’Europa non avrebbe assunto una tale idea di libertà
84
Ivi, p. 106.
Ivi, p. 110.
86
C.CIANCIO, Percorsi della libertà, Milano, Mimesis, 2011, p. 108.
85
52
ispiratrice poi delle rivoluzioni moderne. Questo è stato intuito, fra gli altri, anche da
Schelling, dal quale si può ricavare, prolungandone il discorso, che «il cristianesimo
affermando la libertà del rapporto con l’essere non ha ristretto, ma al contrario ha aperto
lo spazio della filosofia», 87 e ancora che «quei nuovi contenuti che la rivelazione
cristiana offre alla riflessione filosofica sono allo stesso tempo condizioni del suo
esercizio».88 Affermato quindi il rapporto di unità e distinzione di filosofia e teologia,
Ciancio propone come modello di dialogo e conciliazione il modello di Agostino, nel
quale il piano della conoscenza e quello dell’esistenza non sono separabili, e la
Rivelazione alimenta continuamente la riflessione filosofica. In quest’ottica, secondo
Ciancio la posizione di Pareyson non fa altro che approfondire e attualizzare la
posizione agostiniana nello sviluppo della filosofia come ermeneutica dell’esperienza
religiosa cristiana. Inoltre, Ciancio aggiunge che non solo è possibile e auspicabile una
convergenza di cristianesimo e filosofia, ma occorre comprendere fino in fondo quanto
il cristianesimo «costringe il pensiero ad andare al limite delle sue possibilità, lo
costringe a pensare l’impensabile – in particolare l’Incarnazione del Verbo, la sua morte
e resurrezione»89. È in questo contesto che l’Autore introduce la nozione di paradosso,
centrale nella sua interpretazione del pensiero di Pareyson. Con questo termine egli
intende quello che, in ambito religioso, viene chiamato mistero: è l’unità di termini che,
in apparenza, si contraddicono. Il paradosso principe è l’unità di finito e infinito, il
quale si declina poi in molteplici forme, fra cui l’unità fra l’unica verità e le formazioni
storiche, fra la rivelazione e le interpretazioni, fra l’essere e la libertà. È l’unità
originaria che costituisce il centro dell’esperienza religiosa e che nella riflessione
filosofica si declina, secondo l’Autore, nella forma del paradosso. Nell’ambito del
rapporto fra filosofia e religione, il paradosso per Ciancio consiste nel fatto che la
riflessione filosofica è autentica e feconda se riconosce che deve porsi nella condizione
di ricevere una verità che non costituirà mai il suo contenuto proprio, poiché la attinge
dall’esperienza religiosa. Il fatto è che, come dimostra la tradizione, la tendenza (e
tentazione) della filosofia è quella di ridurre ogni trascendenza a immanenza, di
spiegare e afferrare ogni cosa. Basti pensare a Spinoza, al primo Schelling oppure a
Hegel: l’Assoluto si manifesta pienamente nella natura e nella storia, non c’è un altrove
che sfugge, la filosofia ha il compito di interpretare in modo esaustivo e autosufficiente
la realtà. In questo modo però snaturalizza se stessa, e da pensiero rivelativo si riduce a
87
Ivi, p. 118.
Ibidem.
89
Ivi, p. 125.
88
53
pensiero espressivo, come già sottolineato da Pareyson. Per questo Ciancio indica nella
via del paradosso la via della filosofia:
La filosofia può e deve percorrere la via del paradosso (e in questo modo il cristianesimo le
si offre senza snaturarsi), ma può farlo non naturalmente e non spontaneamente, può farlo
solo se costretta, costretta perché essa contraddice quella che è o è diventata la sua naturale
tendenza:
essa
tende
inevitabilmente
verso
l’autosufficienza
e
perciò
verso
l’immanentizzazione, cioè verso il pieno dominio del suo oggetto. Da questo punto di vista
il cristianesimo continua a restare per la ragione filosofica, anche quella ermeneuticamente
orientata, una manifestazione di verità sconvolgente, una saggezza della follia.90
Sempre secondo la forma del paradosso, Ciancio illustra il problema teoretico del
rapporto fra essere e libertà che abbiamo visto anche al centro della riflessione di
Ferretti. D’altronde, si tratta del nucleo centrale dell’ontologia della libertà di Pareyson,
quella che dà adito a più riflessioni. Ciancio dedica gran parte dei suoi scritti e dei suoi
lavori a questa tematica senza limitarsi ad un’esposizione più dettagliata dell’ontologia
pareysoniana, ma apportando il suo personale e prezioso contributo. Qui si è deciso di
focalizzarsi su due testi: Libertà e dono dell’essere del 2009 e i successivi
approfondimenti contenuti in alcuni saggi di Percorsi della libertà del 2011.
Il nucleo centrale dell’argomentazione del primo testo presenta il paradosso che
vige fra l’unità delle alterità: «pensare la libertà originaria nella sua relazione con
l’essere significa pensarla come costitutivamente definita dalla relazione di alterità,
senza che ciò significhi dissiparne l’unità». 91 Tra libertà ed essere vi è dunque una
distanza, una differenza ontologica di heideggeriana memoria 92, che però non impedisce
l’unità, anzi, come ribadì più volte lo stesso Pareyson, non può esserci libertà senza
l’essere né l’essere senza libertà. Una delle conseguenze del pensare l’alterità
nell’originario è che questa dimensione qualifichi poi tutte le relazioni nella realtà
scaturita dall’originario. In queste poche righe si può già notare come Ciancio riesca a
spingersi oltre il maestro, il quale non aveva mai tematizzato in modo così profondo
l’alterità, lasciando alcune perplessità attorno al rapporto fra essere e libertà che
abbiamo visto cogliere da Ferretti. Va però da subito evidenziata la differenza fra i due
90
Ivi, p. 126.
C. CIANCIO, Libertà e dono dell’essere, Milano, Marietti, 2009, p. 153.
92
Va tuttavia sottolineato come, secondo Ciancio, la libertà pensata come al di là dell’essere dallo stesso
Pareyson scavi molto più a fondo della differenza ontologica pensata da Heidegger. Riassumendo la
riflessione di Ciancio a proposito, possiamo dire che la posizione di Pareyson si pone a metà fra la
riflessione di Heidegger e quella di Lévinas in Totalità e infinito.
91
54
Autori: per Ferretti il primato della libertà è un punto debole dell’ontologia della libertà,
perché avvicina ad una concezione sartriana della libertà, per quanto essa non sia né
voluta né auspicata dal maestro, ma potrebbe essere una conseguenza del progressivo
venir meno del ruolo primario dell’essere. Ciancio, invece, pone fin da subito il primato
della libertà al di là dell’essere, come origine, ma, onde evitare le antinomie in cui va
incontro Pareyson, introduce il discorso sull’alterità. La libertà si autopone come
origine, ma ponendo se stessa pone immediatamente un altro da sé, l’essere, senza il
quale non può porsi. Dunque il primato della libertà è inscindibile dall’essere, anche se
non è necessario: Ciancio rammenta che la libertà, come Pareyson insegna, non va
pensata solo come inizio ma al contempo scelta, scelta nella quale pone essa stessa
l’alternativa che non è antecedente. È una concezione della libertà ambigua e di difficile
trattazione ma che si pone in contrasto sia con l’idea medievale della libertas maior, per
cui si è liberi quando si fa il bene, sia con l’idea moderna della libertas minor, mero
arbitrarismo. Ciancio sottolinea come entrambe le tendenze conducano in realtà ad una
fuga dalla libertà: da un lato un comportamento necessario e incatenante, dall’altro
l’assoluta indifferenza senza tensioni e senza mete. La vera alternativa, la vera libertà,
continua Ciancio, «è origine dell’essere ma inseparabile dall’essere, così è principio
della norma ma inseparabile da essa, e di conseguenza non è costretta dalla norma, ma
non può infrangerla senza distruggersi». 93 L’unica distinzione ammessa è quella fra
libertà positiva e libertà negativa di cui parla l’ultimo Pareyson, ovvero l’alternativa
sempre presente fra la fedeltà all’essere o il rifiuto.
L'altro paradosso verso cui ci si dirige ora riguarda il passaggio dall'origine al
principio, ovvero come l'indeterminatezza della libertà si fa determinata in modo da
rivelarsi. Ciancio, come il maestro Pareyson, si inerpica nel difficile quanto affascinante
discorso del principio, del «Dio prima di Dio». É un modo di articolare e spiegare ancor
meglio quello che intende quando parla di libertà originaria che pone l'essere. Infatti, è
proprio l'essere che costituisce la determinazione della libertà originaria, ciò che la fa
essere, senza limitarla, nel senso che l'indeterminazione viene conservata. Certo, in
qualche modo la libertà si vincola, ma non è necessitata a farlo, è essa stessa che si dà
una norma: «la libertà originaria affermando se stessa allo stesso tempo esiste, assume
come norma l'esistenza e sceglie di esistere: i tre atti sono inseparabili». 94 Nel corso
della storia della filosofia molti hanno tentato in vari modi, da Platone in poi, di
93
94
C. CIANCIO, Libertà e dono dell’essere, cit. p. 168.
Ivi, p. 176.
55
spiegare il passaggio dall'Uno ai molti, di tenere ferma sia l'unità sia l'alterità. Ciancio
presenta alcuni di questi tentativi, fra cui quello dell'ultimo Schelling che abbiamo visto
essere un prezioso spunto per l'ontologia della libertà di Pareyson. Il filosofo tedesco,
con la teoria delle potenze e l'idea della Sapienza divina, inserisce nel principio, in Dio,
una dualità originaria, commenta Ciancio che «Dio originariamente si articola
distinguendo in se stesso il più proprio se stesso e il suo altro, un'alterità irriducibile che
produce quella distanza nella quale soltanto si può esercitare la libertà», 95 e prosegue
affermando che, in fondo, il lavoro operato da Schelling è il risulato delle influenze
della dottrina della Trinità sulle idee neoplatoniche. In questo senso, Ciancio ha in
mente le riflessioni di Cusano, il quale insiste sulla perfetta unità della Trinità proprio
perché si tratta di un'unitrinità, di un'unità che unisce e per questo è più completa
rispetto ad un'unità di un ab-solutus che è, per l'appunto, sciolto da ogni legame.
Cusano, però, non inserisce in Dio una vera e propria alterità, e questa è, secondo
Ciancio, la profonda differenza rispetto a Schelling.
Tutte queste posizioni vengono presentate affinché si riesca a intravedere un
progresso e un percorso che è stato seguito per argomentare al meglio il difficile
problema del rapporto fra Uno e molti, fra infinito e finito, qui, nello specifico, fra
essere e libertà, che costituisce il paradosso di cui la filosofia deve occuparsi. Così,
dopo aver presentato le posizioni di altri pensatori, Ciancio ripropone l'ontologia della
libertà di Pareyson cercando di sottolinearne le profonde novità e differenze rispetto al
passsato. In particolare, secondo l'Autore ciò che ha impedito ai vari Schelling o Cusano
di giungere ad una spiegazione chiara, è stato il non aver compreso che la libertà non è
solo inizio ma è al contempo scelta: in questo consiste la grande novità dell'ontologia
pareysoniana. La libertà sceglie di essere o non essere, e l'essere, per quanto le
appartenga, per quanto è essa stessa come libertà a porlo, rimane qualcosa che è altroda-sé, ovvero è un'alterità. «La libertà originaria non si duplica, – commenta Ciancio –
tanto meno poi si divide, perché l'essere che posto è sempre l'essere della libertà, e però,
per esistere, la libertà si articola, pone l'altro da sé». 96 Dato che non si tratta né di una
dualità né di una separazione, è possibile pensare ad un'alterità originaria che però non
esclude l'unità. L'essere quindi non è necessario, ma è la condizione che la libertà pone a
se stessa affinché sia e non retroceda nel nulla.
95
96
Ivi, p. 178.
Ivi, p. 181.
56
Affrontato il discorso sul principio, ora resta da dispiegare il problema della
creazione, ovvero il passaggio dalla libertà originaria alle libertà esistenti, passaggio
dall'infinito al finito. Abbiamo visto che la libertà pone l'essere come altro da sé e in
questo modo si dà l'esistenza, ma rimane un principio unico nel quale l'alterità è
originaria senza impedire l'unità. Nella creazione accade, però, che la libertà non si
limita a porre l'altro da sé, ma pone l'essere fuori di sé, in modo che possa dare esistenza
ad altre libertà, essere, cioè, condizione di altre libertà. Ma ponendo l'essere fuori di sé,
la libertà non ne viene privata? Vi è, per Ciancio, un salto: l'essere è sì il manifestarsi
della libertà, il suo fenomeno, ma non si riduce ad essa. Occorre tenere ferma l'alterità
dell'essere, che è in qualche modo ciò che limita la libertà, perché la determina, e ne
diventa condizione, anche se va sottolineato come tutto sia appeso ad una scelta. La
creazione è frutto del continuo esercitarsi della libertà come tale, la quale per continuare
a essere deve scegliere, lasciarsi determinare, e questo fino al punto in cui, consapevole
della sua potenza, decide di creare fuori di sé, per cui non si è più davanti ad una
semplice differenza fra libertà e essere, ma ci si pone di fronte ad una vera e propria
separazione, a un salto, ad un'alterità compiuta. Ciò che viene creato, scaturendo
dall'esercizio della libertà originaria, non può che essere a sua volta libertà: solo la
libertà precede la libertà, solo la libertà segue la libertà, questa l'intuizione di Pareyson
che l'allievo intende qui declinare con maggior chiarezza. Per Ciancio, tutto questo
implica che la creazione può dirsi compiuta solo grazie alla presenza di altre libertà che
si pongono di fronte alla libertà originaria, la quale «è confrontata con quell'alterità che
le apre uno sconfinato spazio per continuare ad esercitarsi». 97 Quest'alterità creata è
l'uomo, che diventa la condizione grazie alla quale la libertà originaria può continuare
ad esercitarsi: «la libertà originaria, proprio in quanto pone altre libertà, con ciò stesso si
fa dono, gratuità, generosità senza limiti, e insieme pone la condizione per un più
compiuto esercizio di se stessa: la libertà esiste e si dispiega nel modo più intenso solo
in quanto intrattiene relazioni con altre libertà». 98
Ci sembra qui che l’Autore richiami, in forma nuova, la dialettica di dono e
consenso al dono che Pareyson aveva inizialmente sviluppato negli anni Sessanta per
poi abbandonarla nelle elaborazioni successive della sua ontologia della libertà, e che
costituisce anche uno dei punti critici verso cui si muove la riflessione di Giovanni
Ferretti, che vede nel primato della libertà nei confronti dell’essere una minaccia alla
97
98
Ivi, p. 186
Ibidem.
57
gratuità e ala relazionalità intrinseche del principio. Ciancio, invece, sostiene che vi sia
un primato della libertà, e viene chiaramente fuori dalle pagine prese in considerazione,
eppure non rinuncia a coniugare questa libertà con la relazionalità. Tuttavia, l’Autore
allerta sul fatto che questo dono dell’essere da parte della libertà originaria comporti un
rischio, il rischio, cioè, che la libertà finita, l’uomo, non risponda positivamente al dono
e lo rifiuti. Questo non cambia il senso profondo dell’essere: fenomeno della libertà, sua
manifestazione e determinazione, e dono. Viene quindi recuperata la dimensione
relazionale dell’essere e della libertà: questa intuizione apre ad una nuova declinazione
dell’ontologia della libertà, con Pareyson e oltre Pareyson.
Resta ancora da parlare di come, nel mondo finito, fra gli uomini, si possa trovare
l’unità delle alterità che abbiamo visto caratterizzare la libertà originaria. Che cosa può
garantire l’unità di alterità così radicalmente diversificate? Ciancio individua alcuni
strumenti: il primo è il riconoscimento reciproco, ciò a cui anela ogni uomo nel
profondo, cioè che venga riconosciuto e accettato per quello che è. Questo implica
l’accettazione dell’alterità, che come tale resta, che può condurre alla reciprocità del
riconoscimento. Andando ancor più nello specifico, è l’amore che permette l’unità, in
modo particolare l’amore libero dal possesso, che sa essere gratuito: «l’amore può e
deve essere, anche se non vi è reciprocità, pura apertura all’altro non misurata
dall’attesa del ritorno, e tuttavia ha il presentimento della reciprocità e ad essa aspira». 99
Nell’amore rimane vivo il desiderio, che è l’infinita apertura all’alterità, cioè è il
movimento d’esercizio della stessa libertà, la quale è se è in continua donazione. Oltre a
questa dimensione, l’amore realizza l’unità se vi è un altro movimento corrispondente:
l’esperienza di essere amati. È grazie a questa esperienza, la quale è possibile solo se
preceduta dall’apertura, quindi dall’esercizio positivo della libertà, che anche le alterità
più lontane si possono incontrare in un’unità, che non significa uniformità, perché,
come nel principio, l’alterità è conservata:
Nell’incrocio dell’amore, infatti, avviene non un impossessamento ma uno spossessamento
reciproco, e perciò un’alterità irriducibile, ma insieme un’identificazione reciproca, un nodo
d’identità. Ma – è bene ricordarlo – la reciprocità si dissolverebbe se il punto di partenza
fosse la medesimezza. Se l’identico è il primo, se esso è già costituito prima di incontrare
l’altro, allora l’altro non può che esserne un riflesso o un momento; se invece l’altro è il
99
Ivi, p. 196.
58
primo, allora l’identico, che dal contatto con l’altro è risvegliato, non può più risolverlo in
sé: arriverebbe sempre in ritardo.100
L’altro e l’identico, il paradosso: un principio che, secondo l’Autore, non può che
essere libertà, e che non può dare esistenza che ad altre libertà. Ma allora, se la libertà è
unità di alterità nel modo in cui è stato descritto, si tratta di una libertà relazionale, sia in
seno al principio sia declinata nell’uomo. La libertà originaria non può essere
pienamente se stessa se non si fa determinare da un altro da sé e costantemente si dona a
questo altro in modo gratuito; allo stesso modo, la libertà finita è chiamata a riprodurre
questa stessa dinamica di apertura all’alterità e fedeltà all’essere, coltivando il continuo
desiderio di riconoscimento da parte dell’altro. La libertà, allora, potrebbe consistere nel
lasciarsi dire dall’altro, tenendo fermo che si tratta sempre di un rischio: il rischio del
non ritorno, del rifiuto, dell’autodistruzione, della generazione tragica del male e della
sofferenza. Si tratta quindi, come ripete in più riprese Ciancio, di un salto della
scommessa, perché si parla di un rapporto fra libertà che, come specifica in Percorsi
della libertà del 2011, «anche quando non sia conflittuale, non si lascia ridurre a unità o
meglio la cui unità può essere pensata come amore e l’amore è un paradosso, in quanto
è quell’unità che è tanto più autentica quanto più lascia essere e rispetta l’alterità». 101
Tuttavia, Ciancio come Pareyson, per quanto sia sostenitore del pensiero tragico, non ha
dubbi sul fatto che la libertà originaria sia da sempre e per sempre scelta del bene, e
quindi sia essa stessa il bene, perché si è lasciata determinare dall’essere e ha continuato
ad esercitarsi nella creazione di altre libertà con il conseguente dono dell’essere. Il bene,
allora, è «l’essere non semplicemente come tale, ma in quanto è dono ed è accolto come
dono».102 Nella libertà originaria questa scelta per il bene è stata compiuta ab aeterno,
nella realtà invece l’esperienza del bene è accompagnata dell’esperienza del male, che è
la scelta del non-essere, la negazione dell’unità, l’alterità che non viene accolta. In
Ciancio, però, viene maggiormente sottolineata la preponderanza del bene sul male,
perché l’unità delle alterità è resa possibile dall’amore. Si spiega così quel passaggio dal
male e dalla sofferenza al bene che in Pareyson restava un nodo di difficile risoluzione:
Il bene, al quale ora possiamo dare il nome dell’amore, è il più alto: esso fa proprie le
ragioni del male (e cioè quella separazione dell’alterità, che il male volge in negazione) e
proprio per questo può vincerlo, mentre il male non può fare proprie le ragioni del bene (e
100
Ivi, p. 197.
C. CIANCIO, Percorsi della libertà, cit. p. 11.
102
C. CIANCIO, Verità e libertà, in P. D. BUBBIO, P. CODA (edd.), L’esistenza e il logos. Filosofia,
esperienza religiosa, Rivelazione, Roma, Città Nuova, 2007, p. 69.
101
59
cioè l’unità) senza negarsi. […] Il bene fa sue queste ragioni del male, tranne il suo esito,
perché intuisce la possibilità di rovesciare la forma negativa dell’alterità – l’inferno che gli
altri sono, come direbbe Sartre – nell’infinita ricchezza del riconoscimento e dell’amore.103
Il contributo di Ciancio apre alla possibilità di integrare nell’ontologia della
libertà (così come formulata negli ultimi anni dal maestro) non solo la dialettica di dono
e consenso al dono presentata in precedenza, ma anche quella dialettica dell’amore
auspicata da Giovanni Ferretti, introducendo in questo modo la relazionalità che ci
sembra mancare nella prospettiva pareysoniana. Nella lettura di Ciancio manca ancora,
a nostro avviso, un elemento: il dialogo con l’esperienza religiosa, in particolare con la
Rivelazione cristiana e con i testi dell’Antico e Nuovo Testamento, che invece Pareyson
richiama più volte a sostegno della sua posizione. Per questo ci sembra necessario ora
rivolgerci alla teologia, per capire se e in quale senso si possa pensare la Trinità come
libertà. In questo modo, però, si va ben oltre a ciò che erano le intenzioni di Pareyson,
per quanto si intraveda una certa coerenza. Sono sviluppi e riflessioni a cui ci obbliga il
confronto con questi Autori i quali, nella fedeltà al pensatore, hanno saputo offrire al
panorama filosofico nuove provocazioni e acute osservazioni che qui si tenta di
raccogliere e rilanciare verso un ulteriore sviluppo. Queste provocazioni, però, non sono
indirizzate solamente alla filosofia, ma implicano anche una riflessione teologica. Piero
Coda, sotto la scuola di Pareyson a Torino e affermato teologo, ha tentato di accogliere
il lascito del filosofo piemontese aprendo una via che tentiamo qui di proseguire, verso
un’ontologia trinitaria della libertà.
3. Ontologia trinitaria e libertà nella Trinità: Piero Coda
L’ontologia della libertà di Pareyson è una punta di diamante della riflessione
filosofica del Novecento. Raccoglie l’eredità di un secolo ricco di eventi, talvolta
tragici, che hanno suscitato in molti pensatori idee innovative e rivoluzionarie. Tutto
comincia, infatti, con i «maestri del sospetto» Marx, Nietzsche e Freud, continua con
Husserl e la fenomenologia, l’esistenzialismo, il personalismo, il pensiero dialogico di
matrice ebrea rappresentato da Rosenzweig, Buber e Lévinas, in una cornice che vede
l’Europa tragicamente segnata dai regimi autoritari, dalle guerre e dall’olocausto.
Proprio a causa di questi eventi, la riflessione si fa più acuta, si cerca con più vigore
quale sia il senso dell’essere, della vita, si cerca un fondamento più saldo
dell’intersoggettività: si cerca, insomma, di raccogliere il grido di un’umanità che ha
103
C. CIANCIO, Libertà e dono dell’essere, cit. p. 198.
60
visto crollare ogni certezza e che deve tentare di ricomporsi. Pertanto, non mancano le
riflessioni sul senso della sofferenza e su Dio, e anche la teologia ne è profondamente
implicata. È questa necessità di imparare ad abitare la notte che avvicina nuovamente
filosofia e teologia, le quali devono impegnarsi a rifondare un dialogo fecondo che le
aiuti a riscoprire il senso del loro pensare e le accompagni verso la costituzione di
un’ontologia integrale, che sappia inglobare le istanze e le provocazioni sull’essere e su
Dio provenienti dalla storia lontana e recente.
È in quest’orizzonte che nel 1976, il vescovo cattolico Klaus Hemmerle pubblica
un’opera destinata a fare scuola: Thesen zu einer trinitarischen Ontologie, e inaugura in
questo modo le riflessioni attorno a un’ontologia trinitaria. Si tratta, innanzitutto, di
«ripensare il pensiero» facendo confluire, in un dialogo rinnovato, la grande ricerca
attorno all’essere di matrice greca e la Rivelazione cristiana che apre al Dio Trinità, così
come è stato intuito e argomentato da alcuni Autori dell’età patristica (S. Agostino in
primis). Piero Coda, insieme ad altri colleghi e amici, si è impegnato e si impegna
tutt’ora in questa direzione, la quale implica, prima di tutto, un incontro profondo fra la
teologia, in particolare la teologia trinitaria, e la filosofia. Le riflessioni che verranno qui
proposte sono il frutto del lavoro svolto dall’Autore, da colleghi e studenti presso
l’Istituto Universitario Sophia che da dieci anni cerca di sviluppare al meglio
l’intuizione di Klaus Hemmerle, la quale rimanda al carisma ricevuto nel 1943 da
Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari. 104 In particolar modo, si farà
riferimento al Manifesto per un’ontologia trinitaria scritto e presentato durante il corso
tenuto dallo stesso Piero Coda presso l’Istituto Universitario Sophia a partire da
Novembre 2016, oggi pubblicato sulla rivista del medesimo Istituto.105
Il primo passo da compiere sarà quindi rivedere sotto una luce nuova il rapporto
tra filosofia e teologia. Questo lavoro è agevolato e anticipato dagli sviluppi di cui, nel
corso del Novecento, è stata investita non solo la filosofia, come si diceva poc’anzi, ma
anche la teologia, soprattutto grazie al recupero della centralità di Cristo in quanto
rivelatore di Dio come Amore, che apre a una visione della Trinità meno dogmatica e
più vicina all’uomo e alla sua vita. Fra gli altri, si ricordano Karl Rahner, Hans Urs Von
Balthasar, Dietrich Bonhoeffer e Karl Barth, 106 di cui anche Pareyson fu un profondo
estimatore. L’incontro fra una teologia trinitaria rinnovata, anche grazie a quel grande
evento di luce che fu il Concilio Vaticano II, e una filosofia che cerca un senso
Cfr P. CODA, Dalla Trinità. L’avvento tra storia e profezia, Roma, Città Nuova, 2011, pp. 493-509.
P. CODA, La Trinità come pensiero. Un manifesto, «Sophia» IX (2017-1), pp. 9-17.
106
Per approfondire la riscoperta di Dio Trinità nel Novecento cfr. Ivi, pp. 453-492.
104
105
61
dell’Essere profondo, conduce nella direzione di pensare la Trinità come concetto
regolativo del pensiero: non un mero dogma astratto, ma un «orizzonte risolutivo – non
escludente ma includente, non impositivo ma invitante – d’interpretazione del senso
dell’essere»107. Questo implica non solo pensare Dio, L’Essere infinito, come «abitato
da un’alterità reale nella gratuita, reciproca e reciprocante relazione di libertà e
comunicazione»108, ma coinvolge un ripensamento di chi è l’uomo, perché, se egli è ad
immagine e somiglianza di Dio, ciò significa che egli è sì un unicum, ma è, per dirla con
Pareyson, coincidenza di autorelazione ed eterorelazione, è, cioè, relazione sostanziale.
L’ontologia trinitaria raccoglie, dunque, l’eredità degli sviluppi filosofici e teologi
dell’ultimo secolo, e tenta di muoversi «alla frontiera» delle due discipline per rimanere
fedele a entrambe mantenendo la loro differenza.
Quale può essere, allora, il metodo più congruo per adempiere a questo
improrogabile compito? Innanzitutto, filosofia e teologia devono porsi entrambe a
servizio dell’ontologia, liberarsi da legami ideologici e dogmatici e mettersi in ascolto
dell’unica verità che si rivela all’uomo capace di ascoltare. In questo, è innegabile il
contributo delle riflessioni di Verità e interpretazione di Pareyson, che ha intuito non
solo la necessità del dialogo interdisciplinare ma ha anche indicato una via da seguire.
Ma qui si tenta di andare oltre all’ermeneutica pareysoniana: se la Trinità è concetto
regolativo, lo è non solo a livello di sviluppo teoretico della riflessone sull’essere ma,
fondamentalmente e primariamente, la Trinità deve fungere da modello metodologico,
ovvero, la via della ricerca deve svilupparsi nell’orizzonte dell’incontro e del dialogo ad
immagine del rapportarsi delle tre Persone trinitarie. Si deve, dunque, innestare una
dinamica pericoretica, per la quale una disciplina trova pienamente se stessa se lascia
spazio all’altra, se, nell’amore, non è per far essere l’altra. Questa dinamica di
donazione completa nella reciprocità deve continuare ad esercitarsi, cioè occorre
mantenere vivo il desiderio che questa danza amorosa continui in modo che si dia una
reciprocità reciprocante, per usare un termine caro a Coda. Attuando così un radicale
riposizionamento del rapporto fra filosofia e teologia, le due discipline, nel ritrovato
incontro, non si devono fermare a una ricerca limitata al loro campo: devono essere in
grado «di farsi casa comune dell’essere, così offrendo adeguato spazio al rapporto con
107
108
P. CODA, La Trinità come pensiero. Un manifesto, cit. p. 12.
Ibidem.
62
le scienze», 109 in modo che, riconfigurando il rapporto, ogni disciplina si senta
coagonista nella ricerca e nell’accoglienza della verità.
Questa nuova prospettiva declinata nell’ontologia trinitaria, prova a essere
sperimentata e approfondita all’Istituto Sophia dove il contributo del preside Piero Coda
è senza dubbio di vitale importanza, anche se, come dallo stesso ripetutamente
sottolineato, la ricerca deve imparare a deindividualizzarsi, in modo che il dialogo
auspicato fra le discipline abbia luogo concretamente nello studio condiviso, ma non
spersonalizzato, perché tende a imitare il ritmo trinitario dove ciascuno è se stesso
essendo Uno.
Un netto superamento, dunque, dell’ermeneutica di Pareyson, ma non distaccato
da questa: infatti, sono le riflessioni del Nostro ad aver provocato la teologia in modo
tale che questa si rinnovasse. L’ontologia trinitaria rimane, in qualche modo, debitrice
del contributo di Pareyson come di altri.
Anche sotto il profilo teoretico, la visione dell’Essere come Trinità nell’amore
segna una separazione dall’Essere come libertà, o per meglio dire, dalla libertà come
essere. Secondo Piero Coda, Pareyson aveva davanti a sé un’immagine troppo ingessata
e dogmatica della teologia per poter comprendere la profondità dell’aspetto relazionale
nell’essere e per capire che il dogma trinitario non si scontra con l’esigenza di
un’ontologia che guardi all’esistenza dell’uomo. D’altro canto, non è stato sufficiente al
Nostro neanche accogliere la prospettiva di Barth, la quale è sì innovativa ma va
approfondita, perché per quanto affermi a gran voce la Signoria di Dio, la quale si
manifesta trinitariamente nei suoi «tre modi d’essere», rimane eccessivamente vincolato
alla contrapposizione fra trascendenza e immanenza, da un lato, e all’idea del Soggetto
Assoluto, eredità di Hegel, dall’altro.110
Eppure, gli scritti pubblicati da Pareyson fino agli anni Sessanta, in modo
particolare i saggi contenuti in Esistenza e Persona, come abbiamo sottolineato,
lasciavano intuire una certa apertura verso una tematizzazione ontologica della
relazionalità, che poteva costituire, successivamente, uno spiraglio verso un’ontologia
trinitaria, senza negare peraltro il ruolo centrale della libertà. Piero Coda approfondisce
la questione in un saggio pubblicato nel 2007. 111 L’Autore prende le mosse dalla
definizione pareysoniana dell’esistenza come coincidenza di relazione con sé e
109
Ivi, p. 15.
Cfr. P. CODA, Dalla Trinità, p. 454-456.
111
In P. D. BUBBIO, P. CODA (edd), L’esistenza e il logos, pp. 76-127.
110
63
relazione con l’Altro, e, a partire da essa, intende approfondire il legame fra esistenza e
lògos, fra vita e teoresi. Ora, questa definizione a cui giunge Pareyson, in piena
coerenza con la sua formazione esistenzialista, pur superandone la chiusura
individualista, apre, secondo Coda, ad una nuova visione del lògos, ora non più separato
dall’esistenza: questo implica un recupero del cuore della Rivelazione cristiana, cioè il
fatto che è nella storia che Dio si rivela, rimanendo Altro, è alla finitezza dell’uomo che
si fa conoscere e in cui si incarna in Gesù Cristo. L’essere, nella sua alterità e nella sua
inesauribilità, si dà all’uomo, alla storia e alla sua interpretazione. Queste sono le
prospettive a cui Pareyson rimanda, muovendosi dentro la modernità e oltre questa.112
Ora, le sue brillanti intuizioni aprono ad una nuova ontologia: se infatti l’esistenza e la
persona sono costituite dalla relazione con sé e dalla relazione con un’alterità originaria,
che per Pareyson è Dio stesso, occorre comprendere come avviene questa relazione, e in
questo modo avvicinarsi al mistero dell’essere.
Qui, Coda sottolinea un’altra intuizione importante del Nostro, ovvero la
coincidenza, in Dio, di relatività e irrelatività, il totalmente altro che si fa relazione, e
sottolinea, anche in questo caso, come, in realtà, si tratta di un recupero del cuore del
cristianesimo, nel quale si fa chiaro e ineludibile il carattere relazionale di Dio in Gesù
fatto uomo. Inoltre, per Pareyson, è in Dio che l’uomo trova l’origine della sua libertà,
nel dono di relazione che da Dio si muove verso l’uomo e che invita quest’ultimo a fare
altrettanto con i suoi simili. La relazione si dà nella forma della libertà, e si accede cosi,
secondo Coda, «al compito di un’ontologia della libertà istitutrice e rivelatrice di una
radicale ontologia della relazione». 113 Il relazionarsi di Dio all’uomo, infatti, è un
relazionarsi nella libertà, in quanto Dio costituisce la relazione dando-si: dona all’uomo
la possibilità di essere altro, «in quanto capace di accoglier-si e nell’accogliere in libertà
il gratuito dono di sé di colui che è al principio del dono» 114, da qui la pareysoniana
dialettica di dono e consenso al dono, emblematica ai fini di porre la relazione nel cuore
stesso dell’ontologia e, non di meno, della libertà. Quest’ultima, infatti, si declina, in
Dio, nel suo donar-si, e nell’uomo nell’accoglienza fedele di questo dono: vi è sempre
una dimensione relazionale, essenziale alla definizione sia dell’uomo sia di Dio. Se la
libertà dell’uomo è garantita e generata dalla relazione con Dio, come è declinata in Dio
questa libertà? È sì un donarsi ad un altro fuori di sé, l’uomo, ma è primariamente in
Dio che avviene questa donazione: per Piero Coda, è il lògos incarnato, il Cristo, a dire
112
Cfr. Ivi, p. 83.
Ivi, p. 85.
114
Ivi, p. 86.
113
64
e promettere «la coincidenza, incarnata e crocifissa nella concretezza tragica della
storia, di “autorelazione” ed “eterorelazione”». 115 La relazione non è solo costituita da
Dio ma è in Dio, è Dio: è in Lui che avviene questa dinamica di dono di sé all’altro, in
Lui è l’alterità, pur essendo Uno, in Lui vi è, appunto, la coincidenza di relazione con sé
e relazione con l’altro nella libertà del donar-si, libertà che è relazione.
Per Piero Coda vi è continuità fra il personalismo ontologico di Pareyson e
un’ontologia della relazione che include l’ontologia della libertà e che può costituire
un’ontologia trinitaria. Tuttavia, lo sviluppo successivo del pensiero di Pareyson si
allontana (e non poco) da questa prospettiva, come ha sottolineato molto bene
Ferretti. 116 Dati gli ultimi sviluppi dell’ontologia della libertà, è ancora possibile (pur
immettendo profonde novità), parlare di un’ontologia della libertà nell’orizzonte di
un’ontologia trinitaria? Secondo Piero Coda sì, anche se occorre prendere le distanze da
alcune conclusioni a cui è giunto il maestro, recuperando, però, qualche intuizione non
sviluppata fino in fondo dallo stesso. L’Autore concentra le sue argomentazioni in
merito in più occasioni: durante un convegno organizzato a dieci anni dalla morte di
Pareyson, 117 nel libro Il Logos e il nulla,118 nella postfazione di Dio e il suo avvento119 e
nel volume Dalla Trinità.120
Prima di tutto, in tutte queste occasioni si sottolinea l’innegabile contributo dato
da Pareyson e la provocazione che non solo la filosofia, ma anche la teologia deve
accogliere e sviluppare. Secondo Coda, che si muove in un orizzonte teologico e che
come tale parte da un’adesione chiara al cristianesimo, «la provocazione pareysoniana
ad affrontare con decisione e parresia il “tolmeròs lògos” della libertà di Dio quale
evento/ avvento della sua stessa autoriginazione, non può non incrociare e interpellare, e
nel più profondo della sua costituzione, la teologia cristiana» 121. Infatti, nel corso della
storia la teologia ha quasi esclusivamente parlato della libertà nel rapporto fra Dio e
l’uomo, lasciando per lo più inesplorata la libertà in Dio, riconoscendo, forse, la
difficoltà dell’approcciarsi ad un tema così difficile. In questo modo, però, si è andata
sviluppandosi una corrente, talvolta dominante, per la quale Dio è l’essere necessario, e
115
Ivi, p. 88.
Cfr. in P. CODA, G. LINGUA (edd), Esperienza e libertà, pp. 227-270.
117
P. CODA, Trinità e libertà, in AA. VV., Essere e Libertà, a cura di G. Riconda, Torino, Trauben, 2005,
pp. 197-214.
118
IDEM, Il Logos e il Nulla. Trinità, religioni, mistica, Roma, Città Nuova, 2003.
119
AA. VV., Dio e il suo Avvento. Luoghi, momenti, figure, a cura di P. Coda, G. Cicchese, L. Zák,
Roma, Città Nuova, 2003.
120
P. CODA, La Trinità luogo della libertà, in IDEM, Dalla Trinità, pp. 573-583.
121
IDEM, Trinità e libertà, cit. p. 198.
116
65
la libertà è ridotta a perfetta coerenza con la Sua essenza, e pertanto essa non necessita
né deve essere presa in considerazione se non nel rapporto con la creazione. In questo
modo, però, ne va dell’essenza della Rivelazione cristiana, della libertà come costituente
non solo dell’uomo, ma delle tre Persone, libertà di Padre, Figlio e Spirito Santo.
D’altro canto, nonostante i già sottolineati progressi, neanche la teologia trinitaria è
riuscita a scavare in fondo all’abisso della libertà in Dio. Per queste ragioni, l’ontologia
della libertà di Pareyson rappresenta un’occasione imperdibile per parlare, finalmente,
in quale senso Dio Trinità è libertà.
Coda accoglie, dunque, le istanze del maestro, sposandone in modo particolare la
metodologia, ossia lo sviluppo dell’ontologia della libertà all’interno di un’ermeneutica
dell’esperienza religiosa, che riconosce nell’esperienza con la trascendenza e nel mito la
fonte inesauribile dalla quale sgorga la verità. L’Autore intende, quindi, dimostrare che
l’ontologia della libertà «possa rinvenire proprio nell’orizzonte e nel ritmo trinitario
della rivelazione un’interessante pista di verifica e di approfondimento». 122
Per farlo, sceglie, come punto di partenza, lo stesso del maestro, il mito. A
differenza del filosofo piemontese, però, Coda parte dal libro della Genesi e dalla
creazione dell’uomo, mentre Pareyson aveva preferito concentrarsi sull’episodio della
caduta di Adamo e sulla rivelazione del nome di Dio a Mosé nell’Esodo. Per Coda il
mito della Genesi offre spunti interessanti non solo per cosa dice dell’uomo e del suo
carattere relazionale, ma soprattutto perché questo stesso carattere relazionale, se
l’uomo è «a immagine e somiglianza» del Creatore, lo si può rintracciare proprio in
quest’ultimo. Si tratta di un’interpretazione cristiana del racconto genesiaco, per cui,
alla luce della Rivelazione, il Dio veterotestamentario si presenta già con le stesse
caratteristiche del Dio rivelato da Gesù Cristo. Infatti, soprattutto nella “tradizione
sacerdotale”, cioè quella meno antica che racconta la creazione, non siamo davanti ad
un Ab-solutus che crea a partire dal nulla un uomo: si dice, invece, che «maschio e
femmina li/ lo creò» (Gen 1, 27) proprio perché Adam, cioè l’umanità rappresentata
dall’essere maschio e femmina, è creata a immagine e somiglianza del Creatore, e
questo suggerisce a Coda che «l’immagine di Dio nell’uomo non sta soltanto nel suo
stare di fronte a chi l’ha creato – in una libertà che è specchio responsoriale della libertà
del Creatore -, ma anche nel suo stare di fronte all’altro: il maschio di fronte alla
femmina, e viceversa».123 Se, dunque, l’ontologia si deve sviluppare all’interno di
122
123
Ivi, p. 204.
Ibidem.
66
un’ermeneutica dell’esperienza religiosa, e in modo particolare, dell’esperienza
cristiana, occorre prendere in considerazione queste riflessioni che già i padri della
Chiesa svilupparono attorno alla creazione dell’uomo e la conseguente immagine di
Dio. La relazionalità non è un accidente, il Dio cristiano è il Dio rivelatosi comunione,
relazione, e non solo fuori di sé, come per altro dimostra d’essere anche JHWH della
tradizione giudaica, ma in se stesso. Questo risulta più chiaro se si legge il Vangelo di
Giovanni, in modo particolare il prologo: «In principio era il Verbo e il Verbo era
presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv, 1, 1), cioè da sempre, secondo la visione cristiana,
Dio è Padre e Figlio, il Lògos, e la comunione fra i due è lo Spirito, il Terzo garante
dell’unità nella distinzione. D’altra parte, ci sembra importante sottolineare che anche
Claudio Ciancio, che pur non fa riferimenti espliciti né ad un’eventuale adesione al
cristianesimo né al dogma della Trinità, per spiegare la co-originarietà di essere e libertà
cita il passo giovanneo, e commenta:
l’apparire del Verbo, l’evento di senso, che sta a fondamento del mondo, è l’evento
originario ma anche ciò senza di cui l’originario non è; ciò che lo precede, Dio, in realtà
non lo precede, perché si pone come Dio, esiste, solo attraverso l’evento del Verbo.
L’essere è dunque il bene non perché sia conforme a un’idea che lo precede né perché
riceva un’aggiunta di valore, ma perché è anzitutto l’affermarsi stesso della libertà
originaria nella sua scelta buona cioè nella sua scelta di essere e poi di espandere l’essere al
di fuori di sé.124
La Trinità, liberata dalle mire oggettivistiche, si presenta come concetto
regolativo in grado di spiegare, in modo più profondo e inedito, il senso dell’essere,
coniugando le esigenze esistenziali con quelle speculative senza che nessuna delle due
vada persa. Anche l’illuminante argomentazione di Ciancio riguardo al rapporto fra
essere e libertà può assumere ancora più valore e integrità se vista alla luce della
rivelazione di Dio Trinità. Si rimane, in questo modo, fedeli alla metodologia
pareysoniana (che Ciancio aveva un po’ messo fra parentesi) che intende muoversi
all’interno dell’ermeneutica dell’esperienza religiosa per sviluppare un’ermeneutica
ontologica «che affondi lo sguardo nell’evento/ avvento stesso dell’origine di Dio da
Dio come Dio».125
A questo punto Coda, sempre in dialogo col maestro Pareyson, tenta di fare luce
su ciò che la Trinità rivela sull’origine di Dio, su chi è «Dio prima di Dio». Anzitutto,
124
125
C. CIANCIO, Verità e Libertà, cit. p. 70.
P. CODA, Trinità e libertà, cit. p. 207.
67
non si tratta di un essere necessario, né di un oggetto che si possa afferrare e possedere:
occorre tener ferma la trascendenza di Dio che, nel mistero della kenosi, si fa
immanenza e ci rivela la co-originarietà, in principio, di tre Persone fatte uno nell’amore
e nella libertà. È questo un nodo cruciale verso lo sviluppo di un’ontologia trinitaria
della libertà, ma secondo Coda, la teologia trinitaria non è stata ancora in grado di
approfondire lo studio a riguardo, ed è il compito che ci attende oggi. L’altro nodo
cruciale è rappresentato dall’evento pasquale, in modo particolare dal momento in cui
Gesù, in croce, grida l’abbandono (Mc 15, 34; Mt 27, 46), perché apre alla possibilità di
vedere, sotto una luce nuova, il senso del male e della sofferenza, e sondare l’abisso del
non-essere, seguendo, in tal modo, il contributo di Pareyson a riguardo. Soffermandoci
ora sul significato della co-originarietà, la libertà originaria intesa come inizio e scelta,
trova spazio anche in una riformulazione trinitaria del principio? E come?
Coda prende le mosse dall’idea di stupore, richiamando, anche se con un
significato trasfigurato, quello stupore di fronte all’essere dello Schelling maturo,
centrale anche negli ultimi sviluppi dell’ontologia della libertà di Pareyson. 126 Infatti,
nel racconto della Genesi, viene descritto lo stupore dell’uomo del trovarsi a essere, che
si manifesta in pienezza nel momento in cui al suo fianco si riconosce nella donna. In
analogia, dunque, seguendo l’interpretazione del mito svolta in un orizzonte trinitario, si
può dire che questo stupore sia originariamente in Dio, è il primordiale desiderio che
l’altro sia, è quell’abisso di libertà e amore dal quale il Padre viene ad essere.
Commenta Coda:
Nell’atto di libertà in cui originariamente Dio, da sé iniziando, “diventa” (dove il “divenire”
coincide con l’essere), volendolo, Abbà, Padre: donando tutto ciò che possiede ed è a
quell’altro da sé che viene all’essere nell’atto stesso in cui Dio/-Abbà, consentendo
liberamente al suo essere, che è libertà, sceglie che anche l’altro sia.127
L’inizio e la scelta sono il desiderio che l’altro sia, rimanendo sospesi nella
libertà. Il desiderio, però, apre alla dimensione relazionale e trova dimora nella Trinità.
La comunione fra il Padre e il Figlio è un dirsi reciprocamente «Io sono perché tu sei, io
sono perché tu sia», dove quel «perché» non ha valore causale, come se la presenza
dell’altro fosse una mera conseguenza necessaria, ma dice, al contrario, la coincidenza
dell’inizio e della scelta, il desiderio che non potrebbe effettuarsi in un orizzonte
126
Cfr. L. PAREYSON, Lo stupore della ragione in Schelling, in AA. VV., Romanticismo, Esistenzialismo,
Ontologia della libertà, Milano, Mursia, 1979, pp. 137-180; F. W. J. Schelling, Conferenze di Erlangen
in Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, Mursia, Milano, 1974.
127
P. CODA, Trinità e libertà, cit. p. 210.
68
necessaristico ma solo nel campo della libertà. In questa nuova prospettiva, possiamo
allora dire con Pareyson che «solo la libertà precede la libertà e solo la libertà segue la
libertà», ma si tratta di una libertà relazionale, una libertà che si configura nel lasciarsi
dire (e dare) dall’altro. Ma questo darsi completo del Padre al Figlio, dato che è un
procedere da libertà in libertà, è un atto drammatico e rischioso, «non solo cammina
sull’orlo dell’abisso del nulla, ma impavidamente lo attraversa: è kenosi originaria». Il
Padre rischia nel senso che attraversa il non-essere per far-essere l’altro da sé: un Dio
che è libertà e amore non può fare di meno, perché non c’è libertà e amore più grande di
quello che sa consegnarsi totalmente nelle mani dell’altro, «nessuno ha un amore più
grande di questo: dare la vita per i suoi amici» (Gv 15,13), dirà Gesù parlando ai suoi
discepoli invitandoli ad amarsi come lui e il Padre si amano (Gv 15, 9-17). Vi è,
dunque, una positività originaria scaturita dal fatto che da sempre e per sempre,
scegliendo di essere, Dio è vittoria sul male, ovvero sul non-essere attraversato. Allo
stesso modo, il Figlio è chiamato a fare altrettanto affinché vi sia reciprocità. Si tratta di
un obbligo, di una necessità? No, si tratta di un appello della libertà alla libertà, e anche
in questo ci si dimostra coerenti con la prospettiva pareysoniana. Coda declina ancora
l’essere-libertà del Figlio secondo la logica dello stupore, per cui, esattamente come il
Padre, anche il Verbo, stupito nel ritrovarsi ad essere gratuitamente «”Dio da Dio, luce
da luce”, secondo il simbolo di Nicea: e possiamo aggiungere, libertà da libertà», 128 si
consegna a sua volta al Padre, cosicché:
il rischio originario, e abissale, del Padre, il suo attraversare il non-essere di sé perché il
Figlio sia, e sia libertà, trova eco e risposta e restituzione, libera e gratuita, nel rischio del
Figlio che, riconoscendo il suo inizio dal non-essere per amore che il Padre si fa perché egli
sia, si annienta liberamente a sua volta, attraversando anch’egli l’abisso del suo non-essere
e così ritrovandosi, di fronte e nel Padre, per chi egli è: il Figlio.129
Coda commenta che, fra i grandi teologi del Novecento, colui che più si è
avvicinato a questa prospettiva è stato Hans Urs von Balthasar, che nella sua
Teodrammatica parla della libertà in Dio attraverso il concetto di autodonazione, per cui
vi è un reciproco donar-si di Padre, Figlio e Spirito Santo. Per l’Autore, però,
l’argomentazione non è sufficiente, perché non c’è differenza fra la declinazione della
128
129
Ivi, p. 211.
Ibidem.
69
libertà nel Padre, nel Figlio e nello Spirito.130 Occorre evidenziare, invece, il fatto che le
tre Persone rimangono distinte pur essendo uno: questo è il mistero trinitario.
Tornando all’articolazione della libertà nella Trinità, se il Padre si dona totalmente
al Figlio e il Figlio risponde affidandosi, a sua volta, totalmente al Padre, lo stupore che
sorge dal riconoscimento reciproco, dalla vittoria dell’essere sul non-essere, che genera
gioia e che permette la continuità e l’inesauribilità del donar-si di Padre e Figlio, la
scoperta di essere uno nell’amore e nella libertà, in altre parole, il loro essere relazione,
questi è lo Spirito Santo, co-originario e rivelativo della libertà del Padre e del Figlio,
essendo anche Lui Spirito di libertà. Più precisamente, è il farsi evento di Dio come
libertà. Non solo: è grazie allo Spirito che è permessa la continua reciprocità di Padre e
Figlio, quella che Coda definisce «reciprocità reciprocante», e da questo traboccare
continuo di amore e di libertà, da questa inesauribile generosità prende vita la creazione,
e la libertà originaria è pronta a farsi nuovamente stupire dalla libertà creata, l’uomo
posto di fronte a Dio e di fronte all’altro da sé, l’uomo come coincidenza di
autorelazione ed eterorelazione.
Si possono notare delle somiglianze fra questa prospettiva e quella di Claudio
Ciancio. Il filosofo, però, per quanto si sforzi di argomentare al meglio alcuni nodi
complessi del pensiero di Pareyson, è costretto a parlare di salto, di scommessa, di
paradosso: è un terreno scivoloso per la speculazione, anche la più acuta, come
dimostra essere quella di Ciancio. Ne era consapevole anche il maestro, che non a caso,
ad un certo punto, si rese conto che, per parlare al meglio di un’ontologia della libertà,
occorreva che la filosofia si sviluppasse come ermeneutica dell’esperienza religiosa,
focalizzandosi, in modo particolare, sulla rivelazione ebraico-cristiana. Piero Coda, da
teologo, ma senza dimenticare la sua provenienza dagli studi filosofici proprio sotto la
guida di Pareyson, riesce a sciogliere alcuni nodi irrisolti rileggendo l’ontologia della
libertà in un orizzonte trinitario. Ora non vi è più un salto, una scommessa senza
spiegazione: è lo Spirito Santo che, co-originario al Padre e al Figlio, è Colui che
permette ai due di essere uno pur essendo ciascuno se stesso, ed essendo Egli stesso un
Terzo in unità con Loro. È il mistero agostiniano del «dono donato che si dona»,131 che
130
Cfr. Ivi, pp. 201-202 (in nota).
Agostino d’Ippona, nel Libro VI del De Trinitate, lascia in eredità alcune profonde intuizioni sullo
Spirito Santo, che spesso è stato subordinato al Padre e al Figlio. È la teologia trinitaria del Novecento
che ha riscoperto, invece, la centralità dello Spirito,e ha di conseguenza rivalutato alcune considerazioni
di Agostino che erano state tralasciate o interpretate in diverso modo. Piero Coda, da profondo
conoscitore e stimatore dell’Ipponate, ha dato il suo contributo anche in quest’ottica, in modo particolare
durante i corsi dai lui tenuti presso l’Istituto Sophia.
131
70
getta luce sull’evento/ avvento di Dio come libertà e sulla creazione dell’uomo sempre
all’insegna della libertà, la quale, in questa nuova prospettiva, non può che essere
relazionale.
Negli anni successivi, Piero Coda ha approfondito ulteriormente la sua riflessione,
cercando di dedicare più spazio ad un’ermeneutica dell’esperienza religiosa che non si
limita più ai racconti genesiaci sulla creazione ma dà spazio all’evento pasquale, vero
cuore pulsante della fede cristiana. In questo modo dimostra di aver preso sul serio
l’invito di Pareyson a rimettere al centro la cristologia. Non si può, infatti, comprendere
fino in fondo la portata della libertà in seno alla Trinità se non all’interno di una
prospettiva cristologica, guardando, cioè, la vita del Figlio, in modo particolare la Sua
morte e resurrezione. In questo modo, però, si segna una netta separazione con
l’ontologia della libertà, la quale non era stata sottolineata nemmeno dallo stesso Coda
negli anni precedenti in quanto frutto della riflessione più recente, poiché l’Autore
sottolinea che «la libertà non va anteposta all’essere, ma piuttosto colta come sua
espressione essenziale là dove l’essere (nella luce della rivelazione trinitaria della
pasqua di Cristo) è identificato con l’agàpe».132
Ecco ricomparire il problema del rapporto fra la libertà e l’essere: Ferretti sostiene
che vada recuperato il primato dell’essere per garantire la positività originaria della
libertà, Ciancio tende, invece, a garantire il primato della libertà se questa è intesa come
inizio e soprattutto scelta, Piero Coda, muovendosi in una prospettiva teologica, non
parla di un primato netto di uno sull’altra, perché, in prima istanza, ci ricorda che il Dio
cristiano si rivela come amore: questo deve essere il centro propulsore dal quale si
interpretano l’essere e la libertà. E continua dicendo che la libertà «né antecede né pone
l’essere, ma, essendo l’essere amore, è l’atto stesso mediante cui ognuna delle Persone
divine, nella tàxis trinitaria che la distingue rispetto alle altre, è se stessa nella dedizione
alle altre che a loro volta a sé la restituiscono». 133 Ancora una volta, in forma
nuovamente arricchita, si ribadisce la natura relazionale della libertà: come dono di sé
all’altro e come riceversi nuovi dall’altro, in un inesauribile movimento reciproco.
Se da un lato si segna, in questo modo, una svolta rispetto a Pareyson, dall’altro,
forse, si recuperano alcune delle intenzioni ultime del Nostro che non ebbe tempo di
sviluppare, come, per esempio, la già ricordata esigenza di recuperare la centralità di
Cristo per lo sviluppo dell’ontologia della libertà. Recuperare la rivelazione cristologica
132
133
P. CODA, Dalla Trinità, cit. p. 578.
Ibidem.
71
implica, però, un riconoscimento del ritmo trinitario entro il quale si muove l’essere, e
ci porta, di conseguenza, al tentativo qui proposto di sviluppare un’ontologia trinitaria
della libertà.
72
CAPITOLO III
Verso un’ontologia trinitaria della libertà
Il dialogo con Giovanni Ferretti, Claudio Ciancio e Piero Coda ha aperto scenari
inediti sull’itinerario filosofico di Luigi Pareyson. Dopotutto, una speculazione così
ricca, le intuizioni e le provocazioni suscitate non potevano che stimolare la successiva
ricerca filosofica e teologica, con l’obiettivo di comprenderne al meglio guadagni e
punti deboli. Ci poniamo ora, a seguito di queste riflessioni, con l’intento di dispiegare
meglio l’ontologia della libertà nello spazio dell’ontologia trinitaria, continuando così il
lavoro fatto, in modo particolare, da Piero Coda. Ci sembra, infatti, che il contributo del
teologo apra la strada per argomentare al meglio la nostra intuizione originaria: che,
cioè, l’ontologia della libertà di Pareyson trova casa in un orizzonte relazionale, dove
queste relazioni sono vissute a modello della Trinità. Perciò, non s’intende qui
teologizzare il pensiero del filosofo, ma approfondire in quale senso la filosofia, per
parlare di problemi esistenziali come la libertà, il male, la sofferenza, debba svolgersi
come ermeneutica dell’esperienza religiosa, in particolare dell’esperienza cristiana, la
quale è, nel suo nucleo centrale, la rivelazione, attraverso il Cristo, di Dio Trinità: Dio
che è amore di tre Persone distinte ma Uno.
La Trinità non va quindi presa come mero dogma della Chiesa cristiana, come
tentativo di oggettivare l’inoggettivabile: occorre, invece, rimettersi in dialogo con i
padri della Chiesa, con le intuizioni dei vari Agostino e Tommaso, nei quali la Trinità è
come Dio, in Gesù, si è rivelato. Non un tentativo di afferrare Dio ma lasciare che sia
Lui a dirsi e a darsi per ciò che è, nella Sua inesauribilità. In continuità con l’ontologia
dell’inesauribile di Pareyson, nucleo della sua ermeneutica, l’ontologia trinitaria, così
come descritta da Klaus Hemmerle e approfondita insieme a Piero Coda all’Istituto
Sophia, ha come premessa e condizione di sviluppo l’abbandono del Fassendesdenken
(pensiero “afferrante”) per consegnarsi ad un Lassendesdenken: passare dal chiedersi
“che cos’è?” al “come accade?”,134 che era la domanda postasi dalla Chiesa primitiva e
dalla quale si è compresa l’inventio della Trinità. Quest’ultima, dunque, si mostra come
concetto regolativo dell’essere, dice qualcosa sul come accade la realtà, e dice il luogo
in cui essa si comprende: Trinità, dunque, non solo come concetto, ma come metodo,
modus operandi. Essa si comprende se si vive, se, cioè, anche le relazioni umane
cercano di svilupparsi seguendo la stessa logica, in coerenza con il Comandamento
134
Cfr. P. CODA, La Trinità come pensiero. Un manifesto.
73
Nuovo lasciato dal Cristo ai suoi discepoli: «Questo vi comando: che vi amiate gli uno
gli altri come io ho amato voi» (Gv 15, 12). Il pensiero che ne consegue sarà, quindi,
impregnato di vita vissuta, saprà parlare all’esistenza dell’uomo perché in essa troverà
la sua fonte e il suo ritorno, in una circolarità fra studio e vita inedita e più che mai
urgente oggi.
Questi sono i punti cardine dell’ontologia trinitaria che animano l’esperienza
presso l’Istituto Sophia, ma si può facilmente notare come essi, nel loro sviluppo, siano
stati preparati da esigenze e riflessioni precedenti, fra cui ci sembra che un posto di
prim’ordine lo occupi Pareyson: anche lui ha sentito l’esigenza di una cultura nuova, di
un ritrovamento del cristianesimo e con esso di un nuovo modo di filosofare, si è
scagliato contro le pretese di oggettivare Dio (il cosiddetto dio dei filosofi), ha
sviluppato una teoria dell’interpretazione che contiene risvolti etici sorprendenti e più
che mai attuali, si è interrogato sull’esistenza umana senza risparmiarsi le domande
scomode, in particolare quelle sul male e sulla sofferenza, ha fatto della sua vita il luogo
in cui sviluppare il pensiero e del suo pensiero una finestra aperta sulla sua vita. Per
questo motivo, per quanto ci si stia muovendo oltre Pareyson, non possiamo farlo se
non restando in dialogo con il filosofo. Questa fedeltà nella discontinuità prende forma
nella riflessione attorno all’ermeneutica dell’esperienza religiosa: quali sono i traguardi
raggiunti e i problemi suscitati dal contributo di Pareyson?
1. L’ermeneutica dell’esperienza religiosa: guadagni e limiti di Pareyson
Il più grande guadagno dell’ermeneutica dell’esperienza religiosa di Pareyson ci
sembra consista nel suo metodo, ovvero nella via di sviluppo perseguita, eredità di
Verità e interpretazione. Egli infatti, nei saggi in cui inaugura l’ermeneutica
dell’esperienza religiosa come nuova via di sviluppo del pensare filosofico,
approfondisce il rapporto fra verità e interpretazione declinandolo nell’ordine del mito
religioso: quest’ultimo, infatti, inteso come rivelativo e tautegorico, e perciò veicolo
privilegiato della verità una e inesauribile, non ha bisogno di essere piegato al lògos,
non va demiticizzato, che è ciò che molti filosofi e molti teologi hanno tentato di fare,
ma va accolto, nella sua inesauribilità, così come esso si rivela. Il Nostro si mostra, in
questo modo, coerente con le sue argomentazioni degli anni precedenti, e in linea con la
riflessione attorno al mito di altri pensatori, in modo particolare Kerényi, Walter
Friedrich Otto e il maestro Schelling. 135
135
Cfr. L. PAREYSON, Ontologia della libertà, p. 104.
74
Tuttavia, il suo guadagno non si limita a questo: egli, da un lato, approfondisce
quale deve essere il ruolo della filosofia di fronte al mito, ed inaugura la vera e propria
ermeneutica dell’esperienza religiosa, indicando nella sua disciplina il compito di
chiarificare e universalizzare i contenuti mitici per offrire, in tal modo, la verità che essi
comunicano a tutti; dall’altro, nello sviluppo dell’ontologia della libertà è il primo a
confrontarsi con il mito e con il Primo e il Nuovo Testamento, e in questo dimostra una
discreta conoscenza dei testi sacri e una buona dimestichezza con l’esegesi, adottando
passi, episodi e citazioni a sostegno della sua tesi. Un altro guadagno, indiretto, messo
in luce da Giovanni Ferretti, è l’aver inaugurato una nuova via di dialogo fra filosofia e
teologia, anche se esplicitamente Pareyson ha mantenuto le sue riserve nei confronti
della disciplina, insistendo sulla differenza che andava mantenuta fra la “sua”
ermeneutica e la teologia, a suo parere troppo legata al dogma e a studiare Dio come
oggetto. Si riferiva ad una certa branca di teologia, non a tutta, come Piero Coda si è
accinto a dimostrare, aggiungendo che un altro contributo positivo del filosofo
piemontese è stato liberare Dio dalle catene necessaristiche, allontanare dalla filosofia
quel Deus causa sui che aveva condotto a dimenticarsi di prendere in considerazione i
problemi esistenziali dell’uomo, come il male e la sofferenza.
Non vi è dubbio, quindi, riguardo al contributo positivo dato da Pareyson alla
riflessione sull’esperienza religiosa, nello specifico sull’esperienza cristiana. Tuttavia,
occorre saper mettere in luce i punti deboli della sua speculazione, che non dipendono
certo da un’incapacità del Nostro: sono per lo più problemi legati alla sua formazione,
alla grande (forse troppa) influenza di Schelling in questi anni, a una stagione storica e
umana che sentiva l’urgenza di dare risposte diverse ai grandi perché dell’umanità ma
che non aveva ancora maturato gli strumenti per farlo al meglio. Dopotutto, Pareyson
rimane figlio del suo tempo e del suo studio, filosofo cristiano cattolico in un periodo in
cui gli effetti del Concilio Vaticano II si mostrano ancora timidi, fortemente legato alla
sua formazione esistenzialista alla scuola di Heidegger, alla teologia di Barth e, dietro di
lui, Lutero. Gli sviluppi di questi ultimi decenni ci permettono oggi di approfondire
alcune tematiche centrali nell’ermeneutica pareysoniana, dimostrando che, grazie ad
una diversa interpretazione del mito, si può tematizzare meglio la relazionalità
all’interno di un’ontologia della libertà, che è rimasta per lo più in sordina nella
speculazione del Nostro.
75
Ci pare che uno dei nodi cruciali sia riscontrabile nella rivelazione del nome di
Dio a Mosè di Es 3, 14, passo che Pareyson richiama a sostegno del suo pensare Dio
come libertà. L’Autore presenta le tre interpretazioni che in genere vengono date del
passo, a cui corrispondono tre possibili traduzioni: 136 «io sono colui che è», la quale
rimanda all’idea di Dio come Essere, e che per l’Autore costituisce il tentativo di
oggettivare Dio, di farne un ente; «io sono colui che sono», che invece richiama alla
definizione di Dio come Persona intesa come categoria filosofica e che quindi, per il
Nostro, porta ad un antropomorfismo non mitico ma mitologico, ossia piegato al lògos,
un altro tentativo di fare di Dio un oggetto. La terza traduzione, «io sono chi sono», è
l’unica che non conduce ad una metafisica oggettiva e che rispetta Dio nella sua
trascendenza, è l’unica degna di un Dio che sia libertà. Infatti, Dio si rivela a Mosé
rifiutando di dirgli il suo nome, nascondendosi pur rivelandosi, e mostrandosi, perciò,
coincidenza di relatività e irrelatività, come Pareyson aveva già sottolineato in Esistenza
e Persona. 137 Oltre a mostrare la totale trascendenza, il dialogo con Mosé «apre uno
spiraglio sulle misteriose profondità di Dio, e fa intravedere quanto abissale possa
essere la libertà divina quando essa significhi che l’essere di Dio dipende dalla sua
stessa volontà»138. In questo modo Pareyson introduce il discorso dell’arbitrarietà
divina: citando, a suo sostegno, vari passi del testo veterotestamentario, l’Autore insiste
sull’esercizio illimitato della libertà, in Dio, nel fare la Sua volontà: Egli, sostiene il
Nostro, ama e odia chi vuole, preferisce uno all’altro, punisce uno ed è misericordioso
con l’altro, in modo illimitato e imprevedibile. Tuttavia, questo arbitrarismo
testimoniato dal libro dell’Esodo non va confuso con il mero capriccio: non volontà
cieca ma volontà che vuole ciò che vuole. Certo, siamo di fronte ad una grande
ambiguità, ma essa si addice perfettamente all’idea di un Dio-libertà.
Si può pensare che il Nostro si sia ispirato al maestro Schelling che, nella
Filosofia della rivelazione, nel momento in cui si inoltra nel discorso della venuta
all’essere di Dio, richiama il versetto a testimonianza della libertà del Creatore. Questa
libertà, nel filosofo, coincide con l’esercizio assoluto della propria volontà,
l’indifferenza di fronte alla scelta, «io sarò quello che sarò, cioè quello che vorrò»139. I
136
Probabilmente Pareyson si è ispirato allo studio di Etienne Gilson in E. GILSON, Introduzione alla
filosofia cristiana, Milano, Massimo, 1982.
137
Cfr. L. PAREYSON, Ontologia della libertà, pp. 119-126.
138
Ivi, p. 122.
139
Cit. da F. W. J. SCHELLING, Filosofia della rivelazione, e riportata da Piero Coda in P. CODA, Dalla
“Kritik aller Offenbarung” di Fichte alla “Philosophie der Offenbarung” di Schelling, «Lateranum»,
(1995), p. 24.
76
toni di Pareyson sono meno radicali, ma rimane un’ombra di questa interpretazione. Il
problema è che pensare la libertà come assoluta indifferenza ci sembra conduca verso il
rischio di ridurre Dio a dimensione umana, cioè il rischio di un antropomorfismo
mistificante tanto criticato dall’Autore. Infatti, ci sembra che né il Dio biblico né il Dio
Padre annunciato da Gesù siano descritti, nel loro agire, come indifferenza, come
volontà che vuole. Inoltre, non si comprende a fondo la differenza fra indifferenza,
volontà cieca e volontà che vuole: non si tratta, in ogni caso, di mero arbitrarismo? E
non si richiama, in questo modo, quell’idea di libertà proposta da Sartre e scartata da
Pareyson? L’interpretazione di Es 3,14 data dal Nostro ci pare impregnata di ambiguità
e rende complessa la comprensione dell’essere libero di Dio. In questo modo ci si
allontana non solo da chi è, per un credente, il Dio vivente di Primo e Nuovo
Testamento, ma dall’idea stessa di libertà sostenuta dal filosofo piemontese. Si sviluppa,
a nostro parere, una visione più pessimista rispetto a quella di Esistenza e Persona, nel
quale veniva presa più in considerazione la relazionalità di Dio.
Per recuperare questo aspetto relazionale, cruciale nel Dio della tradizione
giudaico-cristiana, è possibile un’altra lettura di Es 3,14, importante non solo per
tratteggiare una visione più positiva del Dio del Primo Testamento, ma soprattutto per
scorgere le prime tracce del Dio che sarà rivelato dall’ebreo Gesù, ossia le tracce della
Trinità. Inoltre, andando oltre all’esegesi del passo dell’Esodo, si possono prendere in
considerazione molti passi del Primo Testamento per scongiurare l’idea per cui il Dio
cristiano si trovi in contrapposizione con il Dio veterotestamentario: al contrario, c’è
continuità, perché non va dimenticata la provenienza giudea di Gesù di Nazareth, il
Lògos incarnato, che per quanto riveli un volto nuovo di Dio lo fa all’interno di una
tradizione ben precisa. Queste interpretazioni ci paiono ben riassunte nel saggio di
Giovanna Porrino, Le tracce della Trinità nel Primo Testamento.140
Innanzitutto occorre precisare che, nel parlare di tracce, non s’intende stravolgere
il senso e il significato del Primo Testamento, nel quale Dio si rivela progressivamente
come Uno e Unico, non si vuole nemmeno marcare una differenza inconciliabile fra i
testi veterotestamentari e il Nuovo Testamento: si vuole, invece, leggere il Primo
Testamento alla luce dell’avvento cristologico per scorgerne alcune aperture al mistero
di Dio che vanno ben al di là di qualsiasi comprensione umana e che è possibile chiarire
solo grazie alla Rivelazione. Questo non per promuovere una certa superiorità del
Per quanto riguarda l’esegesi di Es 3,14, l’Autrice dice di rifarsi a R. LAURENTIN, La Trinité, mysitère
et lumière, Paris, 1999; H. CAZELLES, Ex. 3,14: texte et contexte, in Dieu et l’être, exégèse d’Exode 3,14
et de Coran 20, 11-24, «Etudes augustiniennes», Paris 1986.
140
77
cristianesimo nei confronti del giudaismo, ma sottolineare la continuità fra le due
espressioni religiose pur nella differenza, cosa che, peraltro, anche Pareyson ha inteso
fare, e d’altro canto, superare quella visione del Dio biblico che lo vede iracondo e
vendicativo più che misericordioso, e che ha portato lo stesso Pareyson verso una
visione tendente al manicheismo. 141 Al contrario, Dio si manifesta progressivamente
come Dio Unico, vicino al suo popolo, fedele ad esso e legato da una profonda alleanza.
È il Dio che Gesù pregherà con quel singolare termine, Abbá, che sottolinea il rapporto
di figliolanza, e prima ancora di vicinanza e reciprocità. Per una corretta lettura
dell’evento cristiano, dunque, occorre imparare a riconoscere nel Primo Testamento
quei tratti di benevolenza, amicizia e amore che troveranno piena rivelazione solo
successivamente,
ma
che
in
qualche
modo
sono
preparati
dai
racconti
veterotestamentari.
Alla luce di tutto ciò, che cosa ci dice la rivelazione del Nome di Dio di Es 3,14?
Va evidenziato, prima di tutto, che nel brano Dio ripete il suo Nome tre volte: «Io sono
colui che sono», «Io-sono», «Egli è» (JHWEH). In questo modo, dice tre cose di sé: si
rivela pur rifiutando di dire il suo Nome, e in questo ci muoviamo in continuità con
l’esegesi pareysoniana; poi, nel semplice Io-sono, si rivela come l’eterno fedele e vicino
al suo popolo; successivamente si nomina alla terza persona, in modo da comunicare al
Popolo come ci si deve rivolgere a Lui, chiamandolo JHWH, il tetragramma sacro. Per
una comprensione più limpida occorre, però, rivolgersi al testo ebraico, perché è la
difficoltà incontrata nel tradurlo che ha causato una presenza di numerose e discordanti
interpretazioni. Il verbo hayah, in ebraico, è un verbo polivalente, la traduzione con il
verbo essere non ne mette in luce tutta la ricchezza. Infatti, indica un movimento, un
divenire, un accadere: Dio si presenta come un’azione che include passato, presente e
futuro, dice di essere presente al suo popolo da sempre e per sempre. Non solo, hayah è
anche un verbo relazionale, significa essere-con. Pertanto Dio non solo si rivela
attraverso un verbo e non un sostantivo, il che è già singolare, ma questo verbo dice chi
è. «Il mio Nome non te lo dico» (come sottolineò anche Pareyson), «Ma io ero, sono e
sarò con te e per te, io sono Promessa, io sono Fedeltà, io sono Alleanza».
Es 3,14 ci offre l’immagine di un Dio che entra in dialogo con l’uomo in modo
personale, vuole costituire una relazione, vuole cambiare l’esistenza dell’uomo: «a
Mosè, preoccupato per la missione che Dio gli affida, Egli risponde Io sarò con te (Es
141
Questa lettura ci è stata suggerita dal prezioso contributo di M. BORGHESI, Critica della teologia
politica. Da Agostino a Peterson: fine dell’era costantiniana, Genova, Marietti, 2013.
78
3,12). Il gioco dei pronomi personali tra JHWH, Mosè è il popolo è eloquente: ci rivela
l’altruismo di Dio e il suo essere relazione».142 In questo modo, il rivelarsi di Dio è un
rivelarsi in modo esistenziale, ossia un presentarsi all’esperienza dell’uomo, a farsi
presente pur essendo il totalmente altro. In questo, ci sembra ci sia una certa coerenza
fra questa esegesi e le premesse sulle quali Pareyson ha edificato l’ontologia della
libertà, cioè quell’idea di uomo come coincidenza di autorelazione ed eterorelazione che
rimanda a Dio coincidenza di relatività e irrelatività, intuizioni ereditate dalla lettura di
Barth e Kierkegaard, come lui stesso specifica in Esistenza e persona. Tornando a ciò
che Dio dice di sé a partire da Es 3,14, oltre a presentarsi come essere relazionale che
offre una relazione, ne chiede l’esclusività: «Non avere altri dèi di fronte a me» (Dt 5,7)
si ripete nel Deuteronomio e in altri testi biblici. È un Dio Geloso che vuole la
devozione del popolo eletto, ma che rimane fedele nonostante l’uomo, stipula
un’Alleanza valida per sempre, promette la sua presenza in eterno: «Il nome di Dio è
una promessa che si compie nella storia».143 Focalizzando poi lo sguardo sul Nuovo
Testamento, nel vangelo di Giovanni questa rivelazione del Nome di Dio è anche il
modo in cui Gesù si presenta ai suoi discepoli: «Quando innalzerete il Figlio dell’uomo,
allora conoscerete che Io sono …» (Gv 8,28). In questo modo, è sancita la continuità fra
l’annuncio consegnato alle pagine del Primo Testamento e il kerygma cristologico: Dio
è fedele e vicino, da sempre e per sempre.
Oltre a questo episodio, il Primo Testamento si mostra ricco di altre anticipazioni
trinitarie, come si impegna a farci notare Giovanna Porrino. Dio è Padre e Madre, crea
attraverso la Sua Parola e Sapienza e viene ad abitare in mezzo agli uomini con il Suo
Spirito. Sottolinea l’Autrice:
Il tema della presenza di “Gesù in mezzo ai suoi” poggia dunque su una lunga tradizione
biblica che va dalla promessa di JHWH di essere presente al popolo eletto, attraverso tutta
la storia dell’Antico Testamento fino alla venuta dell’Emmanuele, il “Dio con noi”, nel
Nuovo. 144
Tuttavia, va ancora ripetuto che non è possibile rinvenire nel Primo Testamento
una manifestazione di Dio Trinità. L’evento cristologico è del tutto inaspettato per un
ebreo, è qualcosa di inaudito: dice che Dio non è solo promessa e presenza per il suo
popolo, ma in Gesù Cristo questo Dio si rivela come amore in sé, amore fra le tre
142
G. PORRINO, Le tracce della Trinità nel Primo Testamento, «Nuova Umanità», XXIV (2002), p. 145.
Ivi, p. 147.
144
Ivi, p. 157.
143
79
Persone, e per tutti gli uomini. Non solo, Dio si rivela come libertà in una concezione
ancora più ampia di quella messa in luce da Pareyson. Per comprendere appieno quanto
il Dio cristiano sia un Dio-libertà e quanto questa libertà sia in ciascun uomo occorre
concentrarsi sull’Evento Pasquale.
Pareyson in qualche modo lo ha intuito, e in più saggi presenta la sua
interpretazione dell’evento. Si richiama innanzitutto a Dostoevskij, abbraccia la teoria
della «sostituzione vicaria» di Lutero e richiama un detto anonimo pronunciato da
Goethe: «Nemo contra Deum nisi Deus ipse». 145 Per il Nostro, quindi, il momento della
crocifissione e dell’abbandono di Gesù è non solo il momento ateo di Dio, che in quel
perché rivela tutta la sua fragilità, ma è un momento dialettico (senza Aufhebung come
vorrebbe Hegel) in cui Dio è contro se stesso, Dio punisce se stesso per salvare gli
uomini, Dio è crudele verso di sé per amore dell’uomo peccatore. Ci pare, però, una
visione che si allontana, e non poco, dall’essenza della rivelazione di Dio della
tradizione giudeo-cristiana. Non tanto per l’accentuata tragicità dell’evento, perché il
momento dell’abbandono in croce rimane un mistero abissale e la sofferenza di quel
grido non va addolcita o smorzata, ma si perde totalmente la relazionalità, e la libertà si
mostra più come anarchico arbitrarismo che come scelta del bene da sempre compiuta
da Dio. Interpretare l’evento pasquale come lotta in Dio non solo allontana dal
cristianesimo e dall’ebraismo, ma riporta in auge il teomanicheismo: non a caso, il
Goethe citato da Pareyson è il Goethe che nel Faust parla di Mefistofele come spalla di
Dio,146 sostenendo in tal modo che il principio sia lotta fra bene e male e che di
conseguenza quest’ultimo sia necessario. Ma il male necessario non è qualcosa che si
scontra nettamente con la libertà? Non è lo stesso Pareyson a rifiutare Hegel proprio
perché, in lui, la negatività è necessaria per l’affermazione della positività, anche se
viene dialetticamente superata (sempre secondo necessità)?
Rifiutare di leggere l’evento pasquale e l’abbandono patito da Cristo come
rivelazione di Dio Trinità può condurre a queste estremizzazioni della tensione polare e
della dialettica, fino ad uno sviluppo filo-manicheista di certo non voluto da Pareyson
che vorrebbe, al contrario, muoversi nell’ottica di un’ermeneutica dell’esperienza
religiosa cristiana. Ma all’epoca la theologia crucis non era sufficientemente sviluppata,
o il Nostro non ne conosceva gli ultimi contributi, sicché gli rimase impossibile adottare
questo tipo di lettura che qui proponiamo. L’intento è quello di dimostrare che proprio
145
146
Cfr. L. PAREYSON, Ontologia della libertà, p. 200.
Cfr. J. W. GOETHE, Faust. Urfaust, Milano, Garzanti, 2012.
80
nella morte e resurrezione di Gesù vi è la rivelazione della libertà in Dio, a sua volta
modello della libertà per l’uomo e fra gli uomini. Non solo, ma attraverso la vicenda
pasquale viene fuori una tematizzazione importante della presenza del male e del senso
della sofferenza, problemi esistenziali non solo cari a Pareyson ma al centro della
riflessione umana da sempre, in modo particolare dal dopoguerra in poi. La domanda di
Gesù in croce è una risposta alle domande dell’uomo d’oggi.
2. Il male e la sofferenza: una nuova prospettiva
Ci inoltriamo, in questo modo, nell’abisso dell’esistenza del male e del perché
della sofferenza. Sono domande da sempre poste dall’uomo e che per loro natura non
possono trovare una risposta definitiva. Non si può afferrare un senso ultimo di male e
dolore, e Pareyson ne era consapevole, tant’è che tutta la sua argomentazione è uno
scagliarsi contro ogni tentativo di addomesticare il male, di ridurne la portata dandone
una spiegazione ultima e definitiva. D’altra parte, il Nostro è ugualmente consapevole di
quanto sia necessario parlarne in quanto problema originario ed esistenziale dell’uomo
d’ogni tempo. Ancora una volta, il filosofo non può che rivolgersi al mito e tentare,
tramite esso, di dire qualche cosa a proposito dell’ontologia del male, funzionale alla
sua ontologia della libertà.
Parla così della cacciata dell’uomo dal giardino dell’Eden, di un male che, per
quanto in Dio sia vinto ab aeterno, rimane come possibilità, come minaccia e
tentazione: è l’uomo che fa di un’irrealtà una realtà e in questo consiste il peccato
originale. Dal peccato, poi, prende vita la sofferenza dei colpevoli e da questa la
sofferenza degli innocenti. Infatti, il peccato originale segna l’inizio della storia
dell’uomo, nella quale però non sempre la sofferenza ha una spiegazione. Cataclismi
naturali, guerre mondiali, stermini di massa ci appaiono come domande senza risposta:
perché tutto questo male? Perché Dio non interviene, richiamando l’interrogativo di
Giobbe? Per Pareyson, è questa la domanda fondamentale che la filosofia deve porsi e a
cui deve tentare di rispondere e può farlo solo come ermeneutica dell’esperienza
religiosa. Per questo, alla caduta di Adamo segue la storia che ha il suo culmine nella
sofferenza dell’Innocente per eccellenza, Gesù in croce, che esprime la domanda
fondamentale nel grido «Perché mi hai abbandonato?». È Gesù, secondo Pareyson,
ereditando una riflessione di Dostoevskij, che paga il prezzo al posto dell’uomo, che
prende su di sé non solo il peccato, ma l’ira di Dio che altrimenti si sarebbe scagliata
contro l’uomo. Gesù redime l’umanità, anche se la vittoria ultima del bene sul male
81
avverrà solo nel tempo escatologico, il quale è in continuità con il tempo protologico
dove Dio ha già vinto il male. Nella storia la lotta è continua, ma il Cristo e la
prospettiva cristiana, con il conseguente pensiero tragico, danno un senso al male e alla
sofferenza. 147
Abbiamo già messo in evidenza alcune perplessità a cui apre la riflessione del
Nostro. Da un lato, il rischio di cadere nel teomanicheismo mettendo tra parentesi la
portata della rivelazione di Dio nel Primo e nel Nuovo Testamento, dall’altra la lettura
del momento dell’abbandono di Cristo come «sostituzione vicaria» da Lui compiuta nei
confronti dell’umanità non solo chiude la possibilità di interpretare l’evento pasquale
come evento trinitario, ma ci chiediamo in quale modo, con questa visione, viene
conservata la libertà: se avviene uno scambio, se c’è un prezzo da pagare per la
redenzione, allora non vi è più gratuità, diventa un evento necessario.148 Perdendo la
gratuità si perde la libertà, si perde la dimensione del dono, della relazione, dell’amore.
È possibile, quindi, un’altra prospettiva sulla sofferenza che si snodi a partire
dall’evento pasquale, che ne conservi l’intima libertà nella relazionalità? La risposta è
affermativa se la Pasqua è interpretata come avvenimento trinitario, se si scorge la
reciproca implicanza e l’agire del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, coagonisti
dell’evento drammatico della morte e risurrezione di Cristo.149
D’altra parte, la vicenda di Gesù di Nazareth si comprende a pieno solo in
relazione al Padre e allo Spirito. Questo è il senso della cristologia a fondamento
dell’ontologia, lo sviluppo di un’ontologia cristologica che è necessariamente ontologia
trinitaria della libertà: Pareyson si augurava uno recupero della cristologia, il mistero
dell’evento pasquale ne mette in luce la portata speculativa ed esistenziale, in quanto
tematizza e dà un senso inedito alla sofferenza. Se l’evento pasquale è evento trinitario,
occorre indagare quale sia il ruolo, o meglio l’agire del Padre, del Figlio e dello Spirito
in quel particolare momento raccontato dai Vangeli.
Anzitutto, l’atto del Padre. Abbiamo visto come, in una prospettiva trinitaria, nel
venire all’essere il Padre si dona totalmente al Figlio (il Lògos) mosso dal desiderio che
147
Per un ulteriore approfondimento cfr. L. PAREYSON, Essere e libertà. Il principio e la dialettica,
«Annuario filosofico», X (1994); IDEM, La filosofia e il problema del male e Un discorso temerario: il
male in Dio, in Ontologia della libertà, pp. 151-292.
148
Di tutt’altra natura è il concetto di admirabile commercium presentato da H. U. von Balthasar nella sua
Teodrammatica dove, dopo aver preso le distanze proprio da Barth e dal filone idealista, parla del
momento dell’abbandono come momento della piena corrispondenza dell’uomo con Dio, momento in cui,
paradossalmente e misteriosamente, si manifesta in modo chiaro l’unità fra il Padre e il Figlio mediante lo
Spirito. Vedi cfr. P. CODA, Dalla Trinità, pp. 477-478.
149
Cfr. P. CODA, Dalla Trinità, pp. 268-286.
82
l’Altro sia. Ora il Figlio incarnato, sulla croce, dopo che nell’arco della sua vita si era
rivolto a Dio con il singolare termine Abbá, padre, si lascia andare al grido carico di
dolore: «Eloì, Eloì, lamà sabactanì?», «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»
(Mc 15, 34). Non lo chiama Padre, perché non Lo sente vicino, si sente abbandonato, è
abbandonato. La risposta, infatti, non arriva e Gesù muore. Dov’è dunque il donarsi, il
desiderio che l’Altro sia? Il silenzio e il nascondimento di Dio appaiono sconcertanti,
sembrano giustificare la visione negativa di un Dio vendicativo e punitore. Perché il
Padre non interviene? Occorre leggere l’evento pasquale insieme a ciò che è successo
prima: Gesù vive la morte in croce come compimento della volontà di Dio/ Abbá:
ristabilire definitivamente quell’alleanza promessa dai tempi di Mosè. Solo un Dio fatto
totalmente uomo, solidarizzando fino alla fine con l’umanità, può far comprendere a
quest’ultima il suo destino di vivere a Sua immagine e somiglianza, solo un uomo che è
vero Dio può redimere. Il Padre, dopo essersi totalmente dato al Figlio nella creazione,
dà al Figlio la possibilità di fare lo stesso: è una relazione di libertà quella che intercorre
fra i due. Paradossalmente è proprio nell’abbandono che il Padre si manifesta totalmente
nel suo essere Abbá, mostrando la sua paternità non paternalistica: non dispensa Gesù
dalla sofferenza, aspetta che il Figlio giunga al momento in cui si rivolge di nuovo a
Lui, pur non chiamandolo più Padre, perché lo sente lontano, perché è stato
abbandonato. L’attesa del Padre è il suo silenzio, il condividere, in modo misterioso, la
sofferenza del Figlio fino alla morte. Solo dopo Egli interviene risuscitandolo e con Lui
tutta l’umanità. L’amore del Padre nei confronti del Figlio si manifesta nella libertà del
non intervento, nel lasciare che il Figlio soffra fino alla fine compiendo in tal modo la
Sua volontà di redimere l’umanità, nel vivere, appunto, un essere padre non
paternalistico.
A questa libertà fa eco la libertà del Figlio. Gesù vive in perfetta unità con il Padre
per tutto l’arco della sua vita, ubbidisce alla Sua volontà, si mostra come esempio da
seguire ai suoi discepoli. Negli ultimi giorni della sua vita terrena viene abbandonato da
tutti, ma rimane ancora viva la fiducia nei confronti del Padre. Sul Golgota, morente,
solo, umiliato, si sente maledetto da quello stesso Dio che chiamava Abbá.150 Che cosa
indica, dunque, quel grido? È la disperazione di un condannato a morte? È il rifiuto di
riconoscere in Dio un padre benevolo? Lascia attoniti quella domanda che non trova
risposta. Gesù non solo si sente abbandonato, ma non sa più chi è, perdendo il Padre
150
Va ricordato che, per un ebreo, la condanna a morte in croce significava essere maledetti da Dio (Dt.
21, 23). Cfr. G. ROSSÉ, Maledetto l’appeso al legno, Roma, Città Nuova, 2006.
83
perde il senso del rapporto di figliolanza. Vi è assenza di riconoscimento, di reciprocità,
sembra che non ci sia strada alternativa al fallimento. Invece, è in quel grido che è
contenuta la risposta: pur non sentendo più la presenza di Dio, Gesù si rivolge ancora a
Lui, perché sa che Egli conserva il senso. In quella domanda Gesù si restituisce al
Padre, si fa dire dall’Altro, è l’impotente che non ha più nulla da dare se non la fiducia
in Qualcuno da cui possa riceversi. Come il Padre, nel Suo silenzio, si mostra
pienamente come tale, così Gesù, nel suo grido, si mostra totalmente come Figlio: chi,
infatti, se non un figlio, ha tutto da ricevere da chi lo ha generato? L’abbandono ha,
quindi, due facce: è l’essere abbandonato e l’abbandonarsi. 151 Con questo atto, nel
momento della risurrezione, come il Padre si manifesta pienamente, così il Figlio si
dispiega totalmente, è generato fino in fondo, «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»
(Sal 2,7). Si passa in tal modo dalla morte alla vita, il Figlio ora siede alla destra del
Padre, come recita il Simbolo di Nicea, e questa vita è dono totale e gratuito di sé
all’Altro. Gesù risuscita come vero Dio e vero uomo, portando tutta l’umanità nel
mistero della Trinità.
Questo è reso possibile grazie all’azione dello Spirito: Egli è la relazione che
intercorre fra Padre e Figlio, è lo spirarsi reciproco e reciprocante. Nel momento
dell’abbandono, interrompendosi la relazione fra il Padre e il Figlio, anche lo Spirito
viene a mancare. Ne dà testimonianza Giovanni nel Vangelo quando fa dire a Gesù «Ho
sete!» (Gv 19,28), che significa il desiderare, perché non si sente più, il reciproco
donarsi con il Padre.152 Nella morte, però, Gesù spira, dà tutto, perde tutto, consegnando
lo Spirito al Padre. Nella risurrezione, non solo il Padre rigenera il Figlio mediante lo
Spirito, ma quest’ultimo viene a sua volta donato ai discepoli e all’umanità intera: ecco
la nuova alleanza fra Dio e gli uomini, ecco la piena rivelazione di Dio come Amore.
L’umanità ora partecipa della vita trinitaria, è fatta figlia nel Figlio, mediante lo Spirito,
dell’Abbá. L’effusione dello Spirito inaugura così la “nuova creazione”.
È nell’evento pasquale, dunque, che Dio si rivela come libertà: libertà donata dal
Padre, libertà vissuta dal Figlio nel suo consegnarsi, libertà dello Spirito che
gratuitamente si dona all’umanità intera. Ci pare, però, che sia proprio la libertà vissuta
dal Figlio a dischiudere un orizzonte importante sul senso del male e della sofferenza.
Gesù in croce è l’umanità e i suoi dolori, le sue sofferenze. È un evento tragico in cui
Dio stesso, fatto uomo, sperimenta l’assenza di riconoscimento, la non-reciprocità, il
151
152
Cfr. P. CODA, Dalla Trinità, pp. 272-280.
Cfr. Ivi, pp. 281-283.
84
rifiuto dell’essere. È un evento di libertà, perché essa, nella sua abissalità, è tale anche
nel negarsi, come ha insegnato Pareyson. Vi è però in Dio una positività originaria, un
vivere la libertà in modo relazionale, che paradossalmente trova il suo culmine proprio
nell’evento dell’abbandono: laddove sembra che si giunga ad un fallimento, laddove vi
è silenzio e assenza di senso, proprio in quel grido vi è il dispiegamento totale di Dio
come libertà. Gesù, infatti, lasciandosi ricevere dal Padre, dimostra di essere libero
persino da se stesso, nel senso che, per amore, si è fatto nulla, ha perso, e quindi è libero
anche del suo essere figlio. Vive la sua libertà come fedeltà piena verso Colui che,
essendo Padre, lo determina, anche se non ne sente la presenza. In questo lasciarsi dire
dall’altro, anche l’assenza di reciprocità è assunta e convertita, anche la libertà negativa,
cioè la mancanza del riconoscimento vissuto da Gesù sia nei confronti dell’umanità sia
nei confronti del Padre, è trasfigurata in libertà positiva. Gesù in croce diventa, in
questo modo, l’emblema della fede e della libertà, l’uomo nuovo che si offre come
modello da seguire per dare un senso al dolore, il Dio che è amore senza misura:
Gesù Abbandonato, oggettivamente – come dono che scende dall’Alto, per la mediazione
ministeriale e sacramentale della Chiesa –, è la via attraverso cui Dio s’è donato e si dona
come Dio agli uomini; ma Gesù Abbandonato è al tempo stesso, soggettivamente – come
dono dell’uomo esistenzialmente accolto e fatto proprio –, il modello e la via per vivere gli
uni di fronte e con gli altri di quel dono che è la vita di Dio tra gli uomini. Non ha pregato
Gesù il Padre: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi uno in noi» (Gv
17,21)?153
Questa
centralità
dell’Abbandonato,
l’intuizione
dell’importanza
di
un’approfondita tematizzazione dell’evento pasquale e la riscoperta di Dio Trinità sono
frutti della riflessione del Novecento, in modo particolare dell’esperienza di vita e
mistica di Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari. Ci pare che la
comprensione che ha avuto sul mistero dell’Abbandonato, centro del carisma da lei
ricevuto, offre la possibilità di avere un nuovo sguardo su tutta la realtà, in modo
particolare sulle piaghe dei nostri giorni. Ad oggi, ci è sembrata la risposta più
convincente a ciò che in Pareyson è rimasto incompiuto.
Chiara Lubich, infatti, non solo recupera l’intuizione francescana per cui il
Crocifisso è la via di accesso al Padre, 154 ma aggiunge che Gesù Abbandonato è la via
attraverso la quale si scopre Dio nell’umanità: intuisce che in ogni piaga, in ogni dolore,
153
154
Ivi, p. 502.
Cfr. Ivi, p. 420-422.
85
in ogni perché del mondo vi si può scorgere il volto di Colui che, per tutti, ha vissuto lo
strazio dell’abbandono in croce. Essendo vero uomo, Egli si offre come modello per
tutta l’umanità alle prese con il dolore; essendo vero Dio, si fa presente a fianco di chi
soffre, solidarizza con la sofferenza di ciascuno, attuando, in questo modo, una sorta di
rovesciamento, poiché Dio Lo si incontra, paradossalmente e misteriosamente, proprio
là dove Dio non c’è. In ogni notte si può scorgere la Sua presenza che è luce, perché è
proprio nel mostrarsi così che si rivela Amore. In questo modo, l’Abbandonato «si fa
stile non solo dell’unione con Dio ma dell’amare e del pensare, dell’agire e del fare». 155
Questo stile proposto per l’oggi permette, secondo la Lubich, di «penetrare nella più alta
contemplazione e rimanere mescolati fra tutti, uomo accanto a uomo» 156. È una
rivoluzione del modo di vivere il cristianesimo ed è un carattere peculiare del carisma
ricevuto da Chiara Lubich, il quale si concentra, in modo particolare, sul senso e lo
sviluppo di una spiritualità non più individuale, nella quale ognuno incontra Dio nel
proprio intimo, ma collettiva: Dio nel fratello, Gesù in mezzo a chi si ama seguendo il
Suo esempio, Gesù Abbandonato come «la finestra di Dio spalancata sul mondo e la
finestra dell’umanità attraverso la quale si vede Dio».157
Affacciandosi, così, sul mistero di Dio, la Lubich intuisce, in modo nuovo, che
Gesù Abbandonato dispiega non solo il modo di relazionarsi di Dio all’uomo, non solo
invita l’uomo a cercare Dio in una veste inedita, ma illumina il mistero delle relazioni
intratrinitarie, dando ragione all’intuizione di parte della teologia del Novecento che
vede nell’evento pasquale la piena rivelazione di Dio Trinità. Secondo la mistica, una
caratteristica principe delle relazioni nella Trinità è data dal non-essere per amore: ogni
Persona, donandosi totalmente, non è per far essere l’altro, si annulla perché spinto dal
desiderio che l’altro sia. Tuttavia, non si tratta di un non-essere opposto all’essere,
perché è un non-essere per amore: l’amore che lega le tre Persone è amore agapico che,
non-essendo, è. Commenta Piero Coda:
Gesù Abbandonato, che è il Verbo (e dunque la rivelazione del Padre) fatto carne, rivela
che l’Essere di Dio è Amore, in quanto Egli, proprio “perdendo” per amore l’unione col
Padre che lo fa Dio, è pienamente Se stesso, Dio-Figlio, Amore. Gesù, dunque, vive
nell’abbandono la legge di vita proposta ai discepoli: «Chi perderà la propria vita, la
salverà» (Mc 8,36). Si comprende perciò che, in quanto Dio, il Verbo, nell’abbandono, ha
155
Ivi, p. 503.
C. LUBICH, L’attrattiva del tempo moderno, in EADEM, Scritti spirituali, vol.1, Roma, Città Nuova,
1978, p. 27.
157
EADEM, inedito, 1949.
156
86
vissuto in pienezza, nella storia, il movimento della sua distinzione trinitaria dal Padre
nell’amore e come amore.
Si tratta di un paradosso vertiginoso e di difficile comprensione che si pone, per
certi versi, al di là del principio di non contraddizione di Aristotele, ma ciò che preme
sottolineare è che non si tratta del risultato di una lunga riflessione speculativa: Chiara
Lubich era una mistica, ha vissuto e visto questa realtà che poi, attraverso l’intelligentia
fidei, ha saputo descrivere. Ella, nel raccontare l’inizio di questo viaggio mistico durato
un anno, si riferisce a un patto stipulato con Igino Giordani, brillante politico
democristiano del dopoguerra che si era avvicinato a Chiara in quegli anni. Questo patto
è sancito sul nulla d’amore, sul farsi niente di entrambi di fronte a Gesù. Questo
significa che l’uomo è chiamato a partecipare a questa realtà, perché Gesù, nel suo
“perdere” il suo essere Figlio, e quindi il suo essere Dio, dona, attraverso lo Spirito,
questa figliolanza a tutta l’umanità: siamo così deificati, fatti figli nel Figlio.
Che cosa resta, allora, della tragicità della storia? Che cosa resta di quel «discorso
temerario» del male in Dio? La libertà si vive solo più in una dimensione positiva?
Sarebbe ingenuo e intellettualmente disonesto pensare che, illuminando il senso della
Trinità, il male e la sofferenza vengano attenuate. Il mondo è immerso in una notte della
quale, talvolta, non si vede la fine, forse oggi ci è ancora più chiaro rispetto agli anni in
cui vissero Chiara Lubich e Luigi Pareyson. Il pensiero tragico proposto dal filosofo è
un’istanza che va presa sul serio, la presenza del male rimane una realtà tanto chiara
quanto misteriosa. Se Dio è Amore, se in Lui non vi è ombra di male, perché anche il
non-essere è vissuto come dono di sé all’altro, se ha da sempre scelto di essere e quindi
di esercitare la sua libertà in modo positivo e relazionale, lasciandosi ricevere dall’altro,
in modo particolare nell’evento pasquale, se, infine, prendiamo sul serio le riflessioni
teologiche fin qui proposte, come si spiega il male dell’uomo? Perché, pur essendo
creati per seguire verità, bontà e bellezza generiamo odio, violenza, disunità? «Io non
compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» dice San Paolo (Rom 7,19) per
evidenziare maggiormente questa dicotomia della vita umana.
Qui entra di nuovo in gioco il tema della libertà, e troviamo la conferma
dell’abissalità che la contraddistingue: l’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio, è
totalmente libero, può, in libertà, rifiutare l’essere, rinnegare il Creatore, anche se
questo lo conduce alla negazione di sé. Nell’uomo vive la vertiginosa possibilità del
non-essere che annulla l’essere. L’uomo può non amare, Dio no, non perché non sia
87
libero, ma perché Egli, per il solo fatto che è, ed è unione di tre Distinti, è da sempre e
per sempre libertà relazionale, cioè amore. Perché l’uomo, invece, può vivere questa
libertà che non coincide con l’amore all’altro? Seguendo l’esempio di Pareyson, occorre
rivolgersi al mito, in particolar modo al mito della caduta. Il filosofo si concentra sulla
figura di Adamo e sulla disobbedienza compiuta nei confronti del Creatore. Tuttavia, ci
sembra che, in questa sede, volendoci muovere in un orizzonte che tematizza la
relazionalità, il peccato avviene, in modo emblematico, nel momento in cui l’uomo dà la
colpa alla donna: è lì che si spezza il reciproco riconoscimento, la dinamica d’amore
creata ad immagine di Dio.
Con queste parole l’uomo sancisce la colpa sulla donna, come farebbe un superiore con
l’ultimo dei subordinati: colei che gli stava di fronte, che con la sua parità con lui esprimeva
il loro essere “immagine di Dio”, viene schiacciata giù e sottomessa. Nasce così quella che
potremmo chiamare la prima struttura di peccato, nella forma di una gerarchia ingiusta,
che il disegno originario di Dio non voleva e che segna un deturpamento
dell’”immagine”.158
A questo episodio segue, nel racconto proposto da Genesi, il fratricidio commesso
da Caino nei confronti di Abele e l’istituzione della prima città. La struttura umana si
sviluppa, quindi, seguendo una gerarchia che il Creatore non aveva voluto ma davanti a
cui ha dovuto fare i conti per la libertà e la pari dignità concessa all’uomo e alla donna
nel momento della creazione. Da qui la lotta per il riconoscimento di cui Hegel e Marx
sono fra i principali esponenti: 159 non vi è più una reciproca accettazione dell’alterità,
quest’ultima va eliminata, nascosta, sottomessa. L’uomo rifiuta la sua identità
ontologica, cioè rifiuta di essere, come ben ha intuito Pareyson, coincidenza di
autorelazione ed eterorelazione: rifiuta l’alterità che sta di fronte a lui e al suo fianco e
così facendo perde se stesso, ma lo fa, paradossalmente, essendo se stesso in quanto
libertà. Ecco perché il dramma imperversa nella storia e si succedono le catastrofi, ecco
in quale senso la realtà è tutta appesa alla libertà.
Tuttavia, la lettura teologica proposta dell’evento pasquale e il focus
sull’abbandono di Gesù in croce dispiegano un altro modo di intendere la libertà,
inseparabile dall’amore e dalla relazione. Nonostante la finitezza umana e la tendenza a
158
A. M. BAGGIO, Lavoro e dottrina sociale cristiana. Dalle origini al Novecento, Città Nuova, Roma,
2005, p. 61.
159
Cfr. G. W. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze, 1990; IDEM, Lineamenti di
filosofia del diritto; K. MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, Roma, Editori Riuniti,
1974.
88
fare del male anche se si vuole il bene, come ricordava San Paolo, si può vivere secondo
questo tipo di libertà, ad immagine e somiglianza di Dio Trinità?
3. Libertà, amore, relazione: dall’ontologia all’etica
Si tratta, quindi, di verificare se l’edificio teoretico costruito può avere un risvolto
pratico. Prima di affrontare la questione, però, rimane ancora un nodo problematico da
sciogliere
nell’ontologia
della
libertà
di
Pareyson:
l’eccessivo
pessimismo
antropologico. Si tratta, a nostro parere, di una conseguenza della visione teologica che
lo accompagna nello sviluppo del suo pensiero. Si è più volte sottolineata l’influenza
della teologia protestante, nelle figure di Lutero e Barth, sullo sviluppo speculativo del
Nostro. Infatti, la concezione del peccato originale che viene fuori dalle pagine
dell’Ontologia della libertà non si limita a sancire la vulnerabilità dell’uomo, la sua
incapacità di reagire alla tentazione e la conseguente vergogna, ma ne attesta la
definitiva corruzione: l’uomo si è irrimediabilmente allontanato da Dio 160 causando, in
tal modo, il fallimento della creazione:
Questa è la tragedia dell’uomo: egli è immerso nel negativo, autore del male e soggetto al
dolore, marchiato dall’onnicolpevolezza e destinato alla sofferenza universale. Ma è anche
la tragedia di Dio, perché la caduta umana, segnando il fallimento della creazione, colpisce
l’opera sua e lo costringe a intervenire per rettificarla, ciò che Dio non può fare se non
soffrendo a sua volta, perché solo il dolore può vincere il male.161
Da qui l’idea della storia come eterna dialettica fra bene e male che avrà
risoluzione solo nel tempo escatologico e la visione di Dio come essere sconcertante,
assoluto e dialettico, anche se rimane, se pur debole, l’idea di una positività originaria. Il
problema che abbiamo già evidenziato è che si rischia di oltrepassare la linea sottile fra
l’idea di un Dio dialettico e l’idea di un Dio nel quale convivono e lottano il bene e il
male. Di conseguenza, per evitare qualsiasi tendenza manicheista, che corromperebbe
tutta l’ermeneutica dell’esperienza cristiana, occorre recuperare un’idea di uomo meno
pessimista e che ci è suggerita, in modo particolare, dai contributi teologici riportati
finora. È vero che la natura umana è segnata dal peccato, dalla sofferenza e dalla morte,
ma è altrettanto vero che l’evento pasquale ci insegna qualcosa non solo su che cosa
160
Questa concezione antropologica pessimistica è condivisa da un certo filone della teologia protestante
ed è stato sfruttato da alcuni teorici dello stato moderno per legittimare la necessità di un potere assoluto
che si ponga a mediare fra gli egoismi individuali (Hobbes, Machiavelli). Inoltre, il giurista Carl Schmitt
fa di questa teoria della corruzione dovuta al peccato originale la base teologica a servizio della sua
teologia e della dialettica amico-nemico, vedi cfr. M. BORGHESI, Critica della teologia politica, pp.165200.
161
L. PAREYSON, Ontologia della libertà, cit. p. 194.
89
accadrà dopo la storia ma nella storia: in Gesù siamo portati nel seno del Padre, figli nel
Figlio, Gesù Abbandonato è la via prediletta del nostro tempo per contemplare Dio e
trovare l’unità fra gli uomini, proprio perché è la rivelazione più autentica di come si
amano Padre, Figlio e Spirito.
Facendo della Trinità e della libertà che da Essa consegue il concetto regolativo di
tutta la realtà, scorgiamo nuovi strumenti ai fini di fare della conoscenza acquisita una
prassi quotidiana, passando così dall’ontologia all’etica. Non solo, ma in questo modo si
propone, per i credenti, un nuovo modo di vivere la propria spiritualità, passando da una
visione individuale ad una collettiva. Questo ci è suggerito dal carisma dato a Chiara
Lubich e dalla sua esperienza mistica che rappresenta una novità nella storia della
Chiesa, poiché nasce e si sviluppa non più in un rapporto individuale fra Dio e la Lubich
ma da un Patto sancito fra un uomo e una donna disposti a farsi ricevere totalmente
dall’altro e dall’Altro. Si passa, in tal modo, dal castello interiore contemplato da
Teresa d’Avila al castello esteriore. 162 Così, si sancisce in modo definitivo
l’inseparabilità di prassi e Parola e ci viene suggerito, in modo analogo, che
dall’intuizione teoretica di un’ontologia trinitaria della libertà può scaturire una proposta
etica, in modo da mantenere vivo il circolo fra vita e pensiero.
Per questo motivo ci si chiede oggi che cosa significa, usando il linguaggio
pareysoniano, essere fedeli a se stessi e con questo essere fedeli all’essere? Lo stesso
Pareyson ha dato delle indicazioni, ancor prima che nei saggi degli anni Ottanta, nelle
riflessioni di Verità e interpretazione, dove solo l’essere aperti alla rivelazione della
verità poteva garantire una corretta comunicazione di questa favorendo, in tal modo, il
dialogo anche fra pensieri e convinzioni lontane. Successivamente, invece, si sottolinea
maggiormente il carattere tragico dell’esistenza e, sebbene non manchino impliciti inviti
a riflettere sul proprio comportamento, non viene esplicitamente proposto un metodo
pratico per vivere la libertà in modo positivo, anche perché non era negli interessi
dell’Autore. Oggi, però, data la condizione in cui riversa l’umanità intera, ci sembra che
quel grido di dolore si senta ancora più forte, che la domanda esistenziale sia ancora più
pertinente, perciò ci sentiamo chiamati ad offrire una risposta utile alla vita e
all’esistenza quotidiana. In continuità con le riflessioni presentate fino a questo
momento, possiamo dire, ancora una volta, che è Gesù Abbandonato a porsi come
modello da seguire per vivere la propria libertà e non solo per i credenti, in quanto Lui
Cfr. P. CODA, La mistica trinitaria del “castello esteriore”: l’esperienza e la dottrina spirituale di
Chiara Lubich, in IDEM, Dalla Trinità, pp. 493-505.
162
90
stesso, in quel grido, esprime la lontananza da Dio. Bisogna, però, accogliere la sfida
filosofica di chiarificare e universalizzare i contenuti cristiani a prescindere dalla fede.
Certo, è una sfida complessa poiché si parte da una determinata lettura della rivelazione
cristologica, la quale rimane un mistero inafferrabile e di fronte alla quale occorre
scommettere. D’altro canto, si può tentare di dimostrare che ciò che viene proposto è in
continuità con tante riflessioni di Pareyson, cristologicamente (e trinitariamente)
approfondite. Innanzitutto, l’uomo si riceve in modo gratuito e inaspettato e gli viene
lasciata fra le mani la possibilità di rispondere a questo dono, donandosi a sua volta,
oppure di rifiutare. Può riconoscersi come creatura e quindi riconoscere un altro da sé
indipendente da lui e può farlo a due livelli: riconoscere di essere in rapporto con una
trascendenza inesauribile di cui può mettersi in ascolto dandone una personale
interpretazione, e questo è il centro dell’ermeneutica di Pareyson; oppure vedere
nell’altro da sé ma simile a sé, ossia nel resto dell’umanità, un altro che come lui è in
ascolto della stessa trascendenza e di cui, a sua volta, dà un’interpretazione. Per
Pareyson, mentre il rapporto con l’Altro è costitutivo dell’uomo, altrettanto non si può
dire delle relazioni orizzontali.
Gesù Cristo apre una nuova strada: essendo Dio, Egli è, per così dire, in rapporto
orizzontale col Padre, nel senso che nella Trinità non si danno gerarchie ingiuste,
conseguenze del peccato originale. Si tratta, però, di una relazione perfetta, nella quale
lo Spirito, che procede dal Padre e dal Figlio, fa sì che i Tre siano Uno pur essendo
ciascuno se stesso. Sul Calvario, però, qualcosa si spezza: il Figlio non si sente più tale
e grida l’abbandono. Da uomo, Gesù vive su di sé il peso dell’assenza di reciprocità, il
rifiuto del riconoscimento che è ciò che caratterizza, in modo negativo, le relazioni
umane. L’alterità diventa un ostacolo insormontabile, non può essere ricompresa. Forse,
tutti i dolori umani si possono sintetizzare nel dramma di non essere accettati perché
altri, la Shoah ne è un esempio lampante ma non isolato. Anche Gesù sulla croce
sperimenta questo dolore e lo fa pienamente fino alla morte. Eppure, prima di spirare,
pone quell’interrogativo all’Alterità da cui si sente misconosciuto, concentra le ultime
forze rimaste per consegnarsi all’Ignoto, e lo fa in totale fiducia e libertà, dove
quest’ultima è vissuta dentro una relazione, è lasciarsi dire dall’altro, è il più grande atto
d’amore che si possa fare. Con la Risurrezione, lo Spirito effuso sull’umanità ci chiama
a vivere della stessa realtà anche i rapporti orizzontali, come nella Trinità. I due livelli,
dunque, si incontrano e si implicano vicendevolmente: l’uomo, nel suo essere
eterorelazione, non solo è relazione con Altro, ma con gli altri, è un essere relazionale.
91
Questo implica l’inclusione dell’alterità, che non significa riduzione della trascendenza
a immanenza, ma accettazione dell’altro così com’è, non solo: implica uno sfregarsi
insieme alla ricerca della verità, come augurato già da Platone nella Lettera VII. Ciò
significa, approfondendo la posizione di Pareyson, fidarsi dell’interpretazione dell’altro,
fidarsi dell’altro che interpreta in ascolto sincero della verità che si rivela. Non solo, ma
anche imparare a riceversi dall’altro, ad avere quella giusta distanza dalla propria
interpretazione che permette a quest’ultima, grazie all’apporto altrui, di essere
trasfigurata. Significa compromettersi con l’altro, accettare la sfida per la quale si è
realmente se stessi se ci si lascia dire dall’altro, e in questo si esercita la propria abissale
libertà.
Ma la libertà non si esercita anche rifiutando di vivere in questo modo? Inoltre,
c’è qualche garanzia che all’atto di donarsi corrisponda un reale riceversi dall’altro e
non un rifiuto o un’assenza di risposta? Sono quesiti puntuali e scomodi, perché, come
insegna Pareyson, mettono in luce la tragicità, la fragilità e la precarietà della vita
umana. È vero che l’altro può salvare, ma allo stesso modo può uccidere. Ce lo insegna
la storia, ce lo insegnano i miti biblici, dalla rottura del rapporto fra Adamo ed Eva al
fratricidio commesso da Caino nei confronti di Abele. Ma il dramma patito in croce da
Gesù può dare un senso, una direzione da percorrere, perché Egli attraversa la morte e
risorge: il suo grido è, infatti, una preghiera, un atto di fede, un consegnarsi anche se ha
perso totalmente la presenza del Padre. Ci invita a fare altrettanto, imparare a rimanere
in quel “nonostante” e non per masochismo, ma per fiducia cieca nei confronti
dell’altro, anche se non si riceve il ritorno sperato, perché in questo modo si vive la
propria libertà, si è fedeli a se stessi. Chiara Lubich diceva che Gesù Abbandonato è la
fede: si tratta di una scommessa, di un salto nel vuoto, di stare ed essere se stessi nel
dolore. In questo modo, ci muoviamo in continuità con l’idea del pensiero tragico
proposta da Pareyson, anche se ne abbiamo sviscerato più in profondità il contenuto,
provando a sottolineare la novità che comporta la rivelazione cristiana sia sul piano
ontologico sia sul piano etico.
Resta ancora molto lavoro da fare: occorrerebbe approfondire il rapporto fra il
pensiero di Pareyson e quello di Schelling e in modo ancora più preciso Heidegger,
comprendere in profondità le influenze dei due filosofi sull’Autore, leggere con più
attenzione il contributo di Dostoevskij al tema della sofferenza e la sua cristologia,
rivolgere ancora lo sguardo verso la teologia e i suoi sviluppi cristologici. Il contributo
92
riportato finora non è che un timido tentativo di avviare una riflessione più ampia e che,
come tale, non si può portare avanti da soli, anche per rimanere coerenti con l’orizzonte
nel quale si dischiude il metodo dell’ontologia trinitaria. Tuttavia, ci sembra che qualche
spiraglio sia stato aperto, se non altro perché si è cercato di mettere in dialogo più voci,
accogliendo le prospettive e le domande di ciascuno per farle convergere verso lo stesso
obiettivo, quello di dilatare l’ontologia della libertà di Pareyson sulla misura della
rivelazione di Dio Trinità.
93
CONCLUSIONI
Luigi Pareyson ha aperto una strada di riflessione filosofica ricca e importante. In
queste pagine, abbiamo cercato di ripercorrerne i passi utilizzando come bussola il
concetto di libertà. Quest’ultimo, è affiorato in modo graduale nei saggi presi in
considerazione, inizialmente come cornice del discorso sull’uomo e sul suo rapporto
con la trascendenza, poi progressivamente sempre più al centro. Di certo, il tema della
libertà ha da sempre affascinato un gran numero di pensatori e ciascuno, a suo modo, ha
dato il suo contributo. Ma la parabola di questo concetto nel lavoro di Pareyson è
senz’altro un fiore all’occhiello della riflessione filosofica, se non altro perché l’Autore
ha avuto il coraggio di inoltrarsi in temi ostici e ambigui, e l’umiltà di confrontarsi con
la rivelazione della verità custodita dai miti.
Tuttavia, l’eredità lasciataci dal filosofo ci ha interrogati e stimolati a proseguirne
lo sviluppo e a tentare di sciogliere qualche nodo problematico. Infatti, da un lato si
sono riconosciute, nelle esigenze di Pareyson, le stesse che hanno mosso altri pensatori
nel tentativo di edificare un’ontologia integrale che guardi all’uomo e alla sua esistenza
e che stimolano tuttora la ricerca attorno all’ontologia trinitaria. A questo proposito, si
fa riferimento soprattutto ai primi saggi del Nostro, nei quali si auspica un
rinnovamento (e ritrovamento) del cristianesimo per la fondazione di una nuova cultura
che sappia far convergere istanze diverse invece che chiudersi e favorire la separazione.
Edgar Morin parlava di «ripensamento del pensiero»: giungere a un nuovo modo di
pensare che implica una nuovo sguardo sulla realtà, sulla religione, sulle scienze,
sull’essere, e un nuovo metodo di ricerca. Sono sfide dalla quale Pareyson non si è
sottratto e, ponendosi in dialogo con l’esistenzialismo, lo spiritualismo e il
cristianesimo, è giunto progressivamente ad un’intuizione illuminante: l’uomo,
ontologicamente parlando, è costituito dalla relazione con sé e relazione con l’altro,
dove quest’ultimo è l’Essere, Dio. L’uomo è coincidenza di autorelazione ed
eterorelazione: autorelazione perché si trova gettato in una situazione che non ha scelto
ma che può accogliere e dalla quale può sviluppare ciò che egli stesso decide, dipende
solo da se stesso, come essere unico e irripetibile; eterorelazione perché è, al medesimo
tempo, lo spazio e il luogo in cui finito e infinito si incontrano, è abitato da una
trascendenza che come tale è inafferrabile ma che non si risparmia nel rivelarsi. È grazie
a questa visione dell’uomo che si può parlare di libertà, la quale non solo segna l’essere
nel mondo dell’uomo ma anche ciò da cui l’uomo proviene: da qui l’ontologia della
94
libertà. Da questa visione della persona, centrale in tutti i primi saggi, affiorano ulteriori
tematiche fra cui abbiamo deciso di evidenziare il discorso sulla relazionalità non solo
verticale, cioè il rapporto uomo-Dio, ma orizzontale, ossia la conoscenza degli altri. A
questo proposito, ci pare opportuno richiamare le parole di Pareyson consegnateci nel
saggio La conoscenza degli altri del 1953:
Si può dunque concludere che la conoscenza degli altri è immersa nell’ambiente nutritivo
della libertà: essa implica un esercizio di libertà, come il dialogo, la conversazione,
l’interpretazione, la comprensione, lo sforzo di mettersi al posto degli altri, e culmina in un
appello alla libertà, come la collaborazione, la solidarietà, il ricorso alla legge della
ragione, la volontà di giudicare e d’esser giudicati nel nostro modo sempre personale di
assolvere un compito comune.163
Che cosa implica che la conoscenza degli altri, cioè la relazione con gli altri, sia
immersa nell’ambiente della libertà? E l’esercizio e l’appello, ossia l’aspetto attivo e
l’aspetto passivo del vivere la libertà, non sono un timido, iniziale accenno di ciò che
abbiamo visto accadere in Gesù nel momento dell’abbandono in croce? Gesù, infatti,
esercita la sua libertà nel grido che è lo sforzo di mettersi in dialogo con il Padre anche
se è stato abbandonato, e allo stesso tempo è un appello, una richiesta di
riconoscimento: è l’abbandonarsi nell’essere abbandonati, è coincidenza di attività e
passività, come direbbe Pareyson a proposito della libertà. 164
Ci sembra che Gesù abbandonato si riveli come modello di libertà, anzi, è la
libertà stessa, è l’essere che è libertà. Ecco perché un’ontologia della libertà può trovare
il suo naturale prolungamento in un’ontologia cristologica, la quale, siccome Cristo si
rivela pienamente nell’evento pasquale, dato che nel conoscere Lui si conosce il Padre,
poiché Egli dona lo Spirito per condurre l’uomo alla verità, l’ontologia cristologica è
ontologia trinitaria, che come tale non può che porre al centro la rivelazione di Cristo
che apre alla comprensione di Dio come Trinità, nel quale la libertà è la relazione che
intercorre fra i tre, è l’amore messo in circolo e che permette a ciascuno di essere se
stesso facendo essere l’altro ed essere, in questa danza, una cosa sola. In questo modo,
l’ermeneutica dell’esperienza religiosa cristiana come metodo per parlare di Dio libertà
trova il suo naturale svolgimento come interpretazione della vicenda cristologica narrata
dai Vangeli e dalle lettere paoline, la quale è rivelazione di Dio Trinità. Così, si rimane
fedeli alle suggestioni promosse da Pareyson, al suo invito a mettersi in ascolto del
163
164
L. PAREYSON, Esistenza e Persona, cit. p. 200.
Cfr. Ivi, pp. 215-230.
95
mito, tentando di chiarificarlo e universalizzarlo, ma si scopre un concetto nuovo di
libertà che non può non implicare la relazione d’amore fra le tre Persone divine. Ci
sembra che l’ontologia della libertà, dispiegata in un orizzonte trinitario, sia la risposta
più adeguata alle istanze filosofiche e cristologiche mosse dal pensatore piemontese.
Anche sul piano morale, l’etica della testimonianza suggerita da Pareyson viene
ulteriormente fortificata dall’intuizione di Dio Trinità e libertà. Infatti, poiché l’uomo è
creato a immagine e somiglianza del Creatore, è anche egli chiamato a vivere secondo
la libertà relazionale che caratterizza i rapporti intratrinitari. Questa libertà è vissuta,
come ha intuito Pareyson, nel dialogo, nella comprensione, nell’ascolto reciproco,
nell’essere testimoni della verità una e inesauribile rispettando e accettando le infinite
interpretazioni che di essa si possono fare, nella consapevolezza che questo implica una
totale fiducia nell’altro. Tuttavia, la possibilità di vivere in tal modo la propria libertà è
fortemente limitata, perché l’uomo è sempre tentato dal rifiuto e dalla negazione, vie
che conducono a fare del male una realtà e della sofferenza la croce di ogni giorno.
Anche in questo caso, abbiamo sottolineato che Gesù in croce dimostra che è possibile
vivere in modo positivo il proprio essere libero nella fiducia e nell’abbandono al Padre
rimanendo nel “nonostante” e trasfigurando, in questo modo, il dolore in amore e
libertà.
L’idea di Gesù abbandonato come libertà ci viene suggerita anche dal contributo
degli allievi di Pareyson. Giovanni Ferretti, dopo aver rimarcato tutte le sue riserve sullo
sviluppo ultimo dell’ontologia della libertà del maestro, auspica l’introduzione di una
dialettica dell’amore a conciliare l’antinomia che altrimenti si va a creare fra il male e la
sofferenza. L’evento pasquale è la rivelazione dell’amore di Dio, perché l’abbandono di
Gesù va letto come evento trinitario nel quale Padre, Figlio e Spirito sono coagonisti. Il
silenzio del Padre, il grido e il consegnarsi del Figlio, l’essere dono dello Spirito sono il
reciproco amarsi dei tre, pertanto si può dire che si tratti di una vera e propria dialettica
dell’amore, non in un senso hegeliano, perché non vi è un superamento secondo
necessità, neanche, però, in senso propriamente diatico-conflittuale, perché non c’è un
conflitto. È una dialettica pericoretica, dove ognuno, per amore, non è, e per questo è.
Poiché, in questo modo, si crea un’apertura verso l’interpretazione dell’essere come
amore, si concilia il difficile rapporto tra essere e libertà: non vi è un primato dell’essere
o un primato della libertà, ma un essere, per amore, libertà. Poiché Dio è amore questo
si rivela come libertà, che è il dono completo di sé e il riceversi totalmente dall’altro. In
96
questo modo, si supera quell’inconciliabilità sottolineata dallo stesso Ferretti fra il
primo e il secondo Pareyson pur tenendo ferme entrambe le riflessioni.
Pur non parlando di dialettica dell’amore, ci pare che anche Claudio Ciancio si
muova in questa direzione. Partendo sempre dal problema del rapporto fra essere e
libertà, egli, parlando della cooriginarietà, introduce due elementi importanti: l’alterità
insita nel principio pur non compromettendo l’unità di questo, la visione dell’essere
come dono gratuitamente posto dalla libertà che da esso si lascia determinare. Sia il
tema dell’alterità sia quello del dono e del lasciarsi determinare, se teologicamente
approfonditi, richiamano anche in questo caso la dinamica intratrinitaria. La Trinità,
infatti, è propriamente l’unità delle alterità dove ciascuno, essendo se stesso, è una cosa
sola con l’altro. La dinamica di dono e determinazione descrive il rapporto fra Padre,
Figlio e Spirito, dove ognuno dà se stesso, non è per far essere l’altro, e si lascia
determinare, dire e dare dall’altro da sé. Non solo, ma in questo modo si spiega il
rapporto fra il Creatore e la creazione: è Ciancio a dire che, nel creare altre libertà, la
libertà originaria si lascia determinare dalle libertà finite, vale a dire che Dio si lascia
determinare, paradossalmente dall’uomo. Che cos’è questa, se non libertà per amore?
Se si volge lo sguardo verso i testi biblici, operazione che Ciancio non ha effettuato
nella sua argomentazione, questa visione viene ulteriormente confermata sia dai
racconti genesiaci della creazione sia dalla rivelazione del nome di Dio a Mosè
raccontato nell’Esodo, come illustrato da Giovanna Porrino e Piero Coda.
È stato proprio il teologo colui dal quale abbiamo mosso i passi decisivi verso
l’ontologia trinitaria della libertà, perché abbiamo potuto comprendere fino in fondo in
quale senso la Trinità è libertà. Coda argomenta parlando dapprima della creazione
dell’uomo, il quale si mostra fin da subito un essere relazionale a immagine e
somiglianza del Creatore: ciò significa che non solo l’uomo è coincidenza di relazione
con sé e relazione con l’altro in senso verticale e orizzontale, ma che questa stessa
relazione è in Dio, è Dio stesso. Poi, offre importanti riflessioni per comprendere le
dinamiche d’amore che si susseguono fra Padre e Figlio per mezzo dello Spirito il
quale, essendo il garante del continuo darsi dei due, rendendo così possibile la
reciprocanza della reciprocità, soffia dove vuole e coinvolge nella stessa dinamica tutta
l’umanità, chiamata a essere una cosa sola come Gesù con il Padre. Certo, si mostra
cruciale, per lo sviluppo di questa teologia trinitaria, il Carisma ricevuto da Chiara
Lubich, il quale trova il suo perno proprio nella Trinità, ma in modo ancora più
particolare in Gesù Abbandonato come rivelazione massima dell’amore di Dio e chiave
97
dell’unità con Dio e con i fratelli. D’altro canto, lo sviluppo del pensiero sorto
all’interno dello stesso Carisma non può prescindere dal contributo di altri, fra cui Klaus
Hemmerle, il primo a intuire e proporre un’ontologia trinitaria. Piero Coda eredita
queste riflessioni e, in dialogo con altri pensatori fra i quali Agostino, Tommaso,
Rosmini e Luigi Pareyson, contribuisce al loro sviluppo, in modo particolare nella realtà
dell’Istituto Sophia.
Occorreva, in ultima istanza, focalizzarsi sull’evento pasquale a partire dalla
lettura teologica trinitaria di Piero Coda, da un lato, e da quella proposta da Pareyson in
seguito a Dostoevskij, cercando di capire se e in quale modo esse si potevano conciliare.
Si è così giunti alla comprensione di Gesù Abbandonato come rivelazione di Diolibertà, come avrebbe voluto Pareyson, ma in un’ottica relazionale nella quale Gesù è,
allo stesso modo, la rivelazione di Dio-Trinità, cioè di Dio-amore. In questo modo, si è
cercato di sviluppare appieno la filosofia come ermeneutica dell’esperienza religiosa
cristiana, in dialogo con la teologia e in ascolto della Rivelazione, con l’intento di
chiarificare e universalizzare i contenuti di fede. Questo perché mossi dalla volontà di
sviluppare una riflessione non solo sul piano speculativo ma, allo stesso modo, sul piano
esistenziale; mossi dalle domande fondamentali dell’uomo d’oggi, dall’esigenza sempre
più viva e improrogabile di un’ontologia integrale che sappia offrirsi al pensiero e alla
vita di ogni uomo, e possa, i tal modo, illuminarne il senso e la direzione. Questo è lo
spirito che anima la ricerca presso l’Istituto Universitario Sophia nel quale il presente
lavoro ha preso forma, stimolato da un’esperienza di dialogo e di ascolto, da un lato, di
difficoltà di comprensione e talvolta di assenza di riconoscimento, dall’altro, di
sofferenza trasfigurata: un’esperienza di Libertà.
98
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RINGRAZIAMENTI
Il primo grazie va a Piero Coda, non solo per i consigli riguardo a questo lavoro,
ma per la sua costante e paterna presenza in questi due anni come preside e professore.
Grazie per l’ascolto, la stima e la fiducia, per non essersi mai risparmiato nel donarci le
sue riflessioni più profonde, per averci insegnato a vivere e restare nell’Aula.
Grazie a tutti i professori e lo staff di Sophia, attenti e vicini in ogni momento. In
particolare, grazie alla prof.ssa Valentina Gaudiano, per la sua disponibilità e pazienza,
al prof. Marianelli, indispensabile per i rapporti con l’Università di Perugia.
Grazie al prof. Massimo Borghesi dell’Università di Perugia, per la sua
professionalità, la sua competenza, il modo attento con cui ha tenuto il corso di
Filosofia Morale, fondamentale per la mia crescita intellettuale e personale.
Un grazie agli amici e colleghi incontrati in questi anni, in modo particolare
Marta, Mary e Benedetta di Perugia, Francesca, Raul, Belen, David e Massimiliano,
compagni preziosi, fratelli e sorelle in questa avventura a Sophia.
Grazie agli abitanti di Loppiano che mi hanno accolta, in particolare alla famiglia
Vannacci, al Progetto 1 che mi ha permesso di continuare a coltivare la passione per la
musica, a Lucìa Zequin e a tutti i giovani.
Grazie a Serena, Ico, Marzia, Marta, Debora e a tutti i miei amici, per essere stati
al mio fianco soprattutto nei momenti più difficili, per non aver permesso alla distanza
di separarci.
Infine, grazie alla mia famiglia, papà, mamma, Davide, Paolo e Elisabetta, per
avermi sempre supportata e accolta in casa ad ogni mio ritorno. Grazie ai miei nonni che
non hanno mai smesso di pensarmi e pregare per me, a loro dedico questo lavoro.
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