Rivista N°: 4/2017
DATA PUBBLICAZIONE: 13/10/2017
AUTORE: Claudia Bianca Ceffa*
SENSIBILITÀ COSTITUZIONALE E SALVAGUARDIA DEI VALORI GIURIDICI INTERNI
NELLA GIURISPRUDENZA ITALIANA IN TEMA DI DIVERSITÀ RELIGIOSA NEL
CONTESTO DELLA SOCIETÀ MULTICULTURALE
Sommario: 1.Le problematiche poste al costituzionalismo moderno dalla società multiculturale. – 2.
L’imprescindibile ruolo svolto dal giudice in tale contesto. – 3. I segni esteriori della fede come
ricorrenti occasioni di confronto/scontro tra valori giuridici interni all’ordinamento. – 4. A proposito di
alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione sul pugnale simbolico degli indiani Sikh. – 5. La
(non sempre lineare) sensibilità costituzionale della giurisprudenza italiana in materia di simboli
religiosi e sicurezza pubblica: alcune considerazioni sui burqa e niqab islamici. – 6. Alcune riflessioni
conclusive per una sintesi costituzionalmente ragionevole dei valori in gioco.
1. Le problematiche poste al costituzionalismo moderno dalla società multiculturale
Per affrontare adeguatamente l’argomento delle problematiche e degli impegnativi
quesiti che la società multiculturale pone al cospetto dell’operatore del diritto (accademico,
giudice o legislatore) è preliminarmente necessario accennare alla portata del concetto di
società multiculturale ed avere l’accortezza di tenerlo distinto dall’altra nozione, pur comprensibilmente confondibile, di multiculturalismo.
Il carattere multiculturale di una società è frutto della sedimentazione sul territorio nazionale, provocata dai processi migratori globali, di differenti comunità sociali portatrici di valori, fedi, strutture aggregative e financo norme giuridiche differenti1; il multiculturalismo2, in-
*
Dottore di ricerca in Diritto pubblico presso Università degli Studi di Pavia.
1
La dimensione concreta della società multiculturale consiste dunque in un aggregato di molteplici culture, intendendo con tale parola “quel complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche, delle manifestazioni spirituali e religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato
momento storico”, cfr. Vocabolario della lingua italiana, Treccani, Roma, 1985. Sul concetto di cultura, si rimanda
inoltre a V. BALDINI, Tutela dei diritti fondamentali e limiti dell’integrazione sociale nello stato multiculturale, in
www.dirittifondamentali.it (22 maggio 2017). Per quanto concerne invece, più nello specifico, le problematiche
scaturenti dalle appartenenze religiose in una società multiculturale si suggeriscono, solo a titolo esemplificativo e
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vece, si qualifica come tecnica di gestione del dato empirico della multiculturalità, descrivendo un particolare modello giuridico-politico di integrazione che punta alla valorizzazione delle
differenze dei gruppi sociali minoritari e delle loro identità culturali3.
Posta una siffatta precisazione terminologica, resta da chiedersi quali siano le maggiori problematiche poste dalla società multiculturale agli Stati ed alle istituzioni pubbliche e
quali siano le possibili soluzioni approntabili dalla scienza giuridica, in particolare da parte del
diritto costituzionale.
Il compito di quest’ultimo infatti non può essere inteso come limitato alla mera constatazione e rilevazione della trasformazione demografica e sociale della comunità nazionale,
dovendo invece protrarsi nello sforzo di ricerca di soluzioni normative e spazi giuridici entro
cui le nuove istanze valoriali ed identitarie della rinnovata società possano, o meno, essere
accolte nel contesto giuridico italiano.
Finalità quest’ultima resa ancora più complessa laddove la multiculturalità debba essere affrontata con riguardo all’estensione ed alla tutela dei diritti costituzionalmente garantiti, in quanto in questo caso il costituzionalismo è chiamato a confrontarsi con il tema del
“rapporto tra diritto e legame sociale”4, ambito di vastissima portata che coinvolge le macroquestioni inerenti il fondamento della democrazia5, la sopravvivenza delle garanzie offerte
senza alcuna pretesa di esaustività, G. RIVETTI, Migrazione e fenomeno religioso: problemi e prospettive, in G.B.
VARNIER (a cura di), La coesistenza religiosa: nuova sfida per lo Stato laico, Soveria Mannelli, Rubettino, 2008,
pp. 109 ss.; N. FIORITA, D. LOPRIENO, La libertà di manifestazione del pensiero e la libertà religiosa nelle società
multiculturali, Firenze, Firenze University Press, 2009; M. D’ARIENZO, Le sfide della multiculturalità e la dimensione religiosa, in F. ABBONDANTE, S. PRISCO (a cura di), Diritto e pluralismo culturale. I mille volti della convivenza,
Napoli, Editoriale Scientifica, 2015, pp. 45 ss.
2
L’espressione multiculturalismo compare, non a caso, per la prima volta in Canada, Paese costituito da
una pluralità di individui provenienti da culture profondamente diverse tra loro, nel 1982 e più precisamente
all’interno dell’art. 27 della Carta dei diritti e delle libertà del Canada, sotto la dicitura “patrimonio multiculturale dei
canadesi”, con riferimento alla realtà federale canadese e ai diritti delle comunità originarie. Per un approfondimento dottrinale si rinvia a G. ZAGREBELSKY, La virtù del dubbio, Roma-Bari, Editori Laterza, 2007, pp. 110,111;
G. ROLLA, La tutela costituzionale delle identità culturali: l’esperienza del Canada, in S. GAMBINO, C. AMIRANTE (a
cura di), Il Canada. Un laboratorio costituzionale. Federalismo, diritti, corti. Seminario italo-canadese, Padova,
Cedam, 2000, 87 ss.; S. GAMBINO (a cura di), La protezione dei diritti fondamentali. Europa e Canada a confronto,
Milano, Giuffrè, 2004.
3
Secondo il modello multiculturalista la valorizzazione delle diversità all’interno del corpo sociale presuppone che in quest’ultimo si affermi sia la consapevolezza della pari dignità delle espressioni culturali dei gruppi che convivono nella società democratica, sia il diritto che ogni individuo ha di formarsi secondo una cultura che
riconosca come propria: sul punto si rimanda ad A. FERRARA, Multiculturalismo, in BOBBIO, MATTEUCCI, PASQUINO
(a cura di), Dizionario di politica, Torino, Utet, 2004, p. 671; per una maggiore completezza sull’argomento si legga E. CECCHERINI, Multiculturalismo, in Digesto delle Discipline Pubblicistiche. Aggiornamento, Torino, Utet, 2008,
pp. 486 ss.
4
E. GROSSO, Multiculturalismo e diritti fondamentali nella Costituzione italiana, in A. BERNARDI (a cura di),
Multiculturalismo, diritti umani, pena. Quaderni di diritto penale comparato, internazionale ed europeo, Milano,
Giuffrè, 2006, p. 109.
5
La società multiculturale, nell’opinione di autorevole dottrina, porrebbe infatti il tema del problematico
superamento del principio di maggioranza per il raggiungimento dell’obbiettivo, di difficile realizzabilità,
dell’abbandono della radicata concezione della superiorità della civiltà occidentale rispetto alle altre esistenti. Per
un’indagine più approfondita sull’argomento si rinvia a J. RAZ, Ethics in public domain: essays in the morality of
law and politics, Claredon Press, 1994; G. GOZZI, Democrazia e diritti nelle società multiculturali: verso una democrazia costituzionale multiculturale, in Scienza & Politica, n. 40/2009, p. 95.
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dallo Stato costituzionale e la natura (che aspira ad essere) universale dei diritti fondamentali6.
Con questa prospettiva, le minoranze culturali di nuovo approdo e di irreversibile
stanziamento sul territorio italiano mettono il sistema democratico di fronte all’opportunità di
riflettere circa un adattamento al fine di riconoscere le nuove istanze identitarie, così come in
passato è già accaduto per accogliere dopo i diritti civili, quelli economici e sociali.
Nell’arco di una trentina d’anni infatti, la trama del tessuto sociale, in particolare italiano, ha subìto un profondo cambiamento, reso ancora più evidente dalla comparsa di seconde e terze generazioni di immigrati, i quali considerano ormai il suolo italiano come l’unico
contesto della loro vita.
Lo stabilizzarsi dell’immigrazione, unitamente ai ricongiungimenti delle famiglie ed alla costituzione di aggregazioni comunitarie, ha così progressivamente determinato
l’accrescersi dell’interesse all’ammissione nel contesto giuridico italiano del proprio modus
vivendi attraverso precise richieste di riconoscimento di istanze riconducibili alla propria identità culturale e religiosa.
In un mondo globalizzato, infatti, l’impatto della cultura sulla costruzione
dell’esperienza personale e quindi sulla definizione dell’identità, riveste un ruolo decisivo: più
tendono ad affievolirsi i riferimenti fondati sull’appartenenza ai luoghi, più la cultura assurge a
ruolo di vero indicatore dell’identità e a criterio orientativo nella gestione dei conflitti7.
Nel nostro Paese il dibattito sulla gestione della società multiculturale è sorto in concomitanza allo sbocciare della questione migratoria, relativamente recente se raffrontata con
quella di altri Paesi europei, come Francia ed Inghilterra, ed è fisiologicamente confluito, nel
momento in cui la presenza della popolazione immigrata si è fatta più stabile e quindi più visibile sul territorio nazionale, nella necessità di comprendere se e in che misura imbastire
politiche ad hoc per il riconoscimento di specifici tratti identitari.
In tale contesto, le istituzioni sono state poste davanti all’interrogativo di come garantire un reale processo di inclusione delle comunità di nuova acquisizione e di come condurre
tale operazione restando dentro i binari del pluralismo e della laicità dello Stato8.
Il merito e la forma della risposta a questa domanda di riconoscimento, che ancora si
attende a livello istituzionale, potrà in futuro dire molto sulla persistente operatività del modello politico e sociale accolto nella Costituzione italiana del 1948. Quest’ultima infatti, pur elaborata in un contesto omogeneo dal punto di vista etnico e religioso, fa della garanzia delle
varie forme di pluralismo (linguistico, politico, culturale, religioso) uno dei suoi tratti essenzia-
6
Sulla problematica dell’universalità dei diritti in contrapposizione alla teoria del relativismo degli stessi
in funzione delle differenze culturali presenti in diversi contesti geografici mondiali si rinvia a P. PAROLARI, Culture,
diritto, diritti. Diversità culturale e diritti fondamentali negli Stati costituzionali di diritto, Torino, Giappichelli, 2016.
7
G. LANEVE, Istruzione, identità culturale e Costituzione: le potenzialità di una relazione profonda, in una
prospettiva interna ed europea, in www.federalismi.it, n. 24/2012.
8
A tal proposito, pare che nell’ambito della dottrina italiana abbia riscosso notevole successo il modello
di integrazione di tipo interculturale, ritenuto preferibile in quanto in grado di semplificare l’interazione tra le singole culture dando luogo ad una comunicazione fondata sul confronto e sulla condivisione di principi comuni. Di
interesse, sul punto, S. BONFIGLIO, Costituzionalismo meticcio. Oltre il colonialismo dei diritti umani, Torino, Giappichelli, 2016.
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li, grazie ai quali in passato ha reso possibile forme “più o meno parziali ma spesso assai
solide e durature”9 di integrazione sociale e politica.
2. L’imprescindibile ruolo svolto dal giudice in tale contesto
Il riconoscimento giuridico delle differenze culturali, religiose e sociali si pone dunque
quale principale problema delle democrazie contemporanee interessate dal fenomeno della
multiculturalità, traducendosi nella rivendicazione delle peculiarità dei vari sottogruppi sociali
contro il rischio dell’appiattimento sulle caratteristiche portanti della società ospitante.
Il carattere dell’irrimediabile conflittualità che deriva da tali sollecitazioni non dovrebbe
però essere letto nel senso di una connotazione patologica della società multiculturale, dovendosi invece intendere come elemento dinamico della stessa società che esiste “non tanto
malgrado il conflitto ma proprio in forza di esso”10 e che, in tal modo, consente al diritto di
svolgere la sua funzione di sintesi ordinativa.
La lentezza del legislatore nell’affrontare le rivendicazioni multiculturali ha determinato uno spostamento di competenze de facto in capo al giudice quale unica figura in grado di
fornire risposte immediatamente spendibili, portando così la giurisdizione a diventare la sede
per eccellenza dei nuovi conflitti e delle nuove domande sociali.
Così, progressivamente la figura del giudice si è emancipata dal dogma che lo voleva
amministratore di un potere giurisdizionale neutro, indifferente ai riflessi del legame tra diritto
e complessità dei rapporti sociali di una democrazia pluralista11.
Nel dispiegarsi della funzione ordinativa tipica del diritto, il magistrato si trova sovente
a rispondere a due fondamentali domande: da un lato, quali siano i limiti giuridici derivanti dal
nostro impianto costituzionale oltre i quali non è possibile concedere un riconoscimento istituzionale al pluralismo culturale e, dall’altro, quali siano gli strumenti più adatti a risolvere tale
tipologia di conflitti.
La necessità di fornire soluzioni a tali interrogativi deriva non tanto, in alcuni casi, dalla mancata condivisione da parte delle nuove componenti sociali dei valori che ispirano i diritti costituzionalmente tutelati12, quanto piuttosto dalla frequente rivendicazione verso il riconoscimento di pratiche e consuetudini radicalmente in contrasto con i fondamentali principi di
diritto degli ordinamenti giuridici occidentali.
Tra le comunità di nuova acquisizione quella che certamente innesca più difficoltà a
livello operativo è la comunità islamica, tradizionalmente legata alla religione da un rapporto
9
E. GROSSO, Multiculturalismo e diritti fondamentali nella Costituzione italiana, cit., p. 9.
F. BELVISI, Società multiculturale, costituzione e diritto: verso un paradigma giudiziale, liberamente
consultabile presso www.cestim.it/sezioni/normativa/1997-1999_ricerca_murst.../Belvisi2.doc, p.2.
11
In merito al rapporto inscindibile tra cultura e diritto si rinvia a M. RICCA, Culture interdette. Modernità,
migrazioni, diritto interculturale, Torino, Bollati Boringhieri, 2013; id. Oltre Babele, Codici per una democrazia interculturale, Bari, Dedalo, 2008.
12
Si pensi, solo per fare un esempio all’annosa questione di come garantire, a fronte di alcuni assiomi
confessionali islamici, la parità di genere o il diritto di libertà religiosa, inteso anche come libertà di cambiare la
propria fede senza il pericolo di discriminazioni o conseguenze dannose.
10
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di natura teocratica, per la quale risulta, generalmente, molto complesso accettare la separazione della sfera civile da quella religiosa ed il distacco, nei campi della vita sociale, dal
rispetto ossequioso delle prescrizioni di natura confessionale.
In un panorama normativo come quello italiano ancora scarsamente attrezzato a far
fronte a tali complessi fenomeni, il giudice si trova spesso a supplire al ruolo del legislatore e
a dover “escogitare” soluzioni ad hoc, avvalendosi della tecnica del bilanciamento degli interessi costituzionalmente coinvolti nella ricerca di un loro ragionevole accomodamento13.
A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, i giudici hanno fatto ricorso crescente
all’argomento culturale, considerando rilevante ai fini del giudizio il contesto culturale e quindi
anche valoriale di provenienza del soggetto coinvolto se diverso da quello propriamente occidentale: così facendo è stato gradualmente introdotto nel campo del diritto applicato il parametro extra-sistemico della “cultura in senso antropologico”14.
Per propria natura però la “cultura” così intesa, a causa del suo carattere funzionalmente osmotico15, sfugge alle regole dell’inquadramento categoriale tipiche degli istituti giuridici e si nutre ed arricchisce in un processo di perpetuo completamento di apporti religiosi,
etnici e sociali diversi.
Il frequente ricorso al canale giudiziario, non solo in occasione del preteso riconoscimento delle rispettive istanze identitarie, ma quale naturale rimedio alla frizione quotidiana
tra diritti e principi fondamentali appartenenti a dimensioni culturali differenti, ha condotto nel
corso degli anni alla creazione di un vero e proprio “diritto giurisprudenziale multiculturale”,
all’interno del quale i giudici hanno elaborato alcuni schemi argomentativi particolarmente
persuasivi, frequentemente adoperati per la risoluzione dei casi specifici.
A tale proposito, è possibile affermare che in Italia i conflitti multiculturali siano stati
affrontati secondo una duplice direttrice: collocandoli entro la teoria dei diritti fondamentali
laddove connotati da una matrice religiosa ed entro invece la teoria del pluralismo degli ordinamenti giuridici quando caratterizzati da un’impostazione strictu sensu culturale16.
Con specifico riguardo alla prima categoria di conflitti multiculturali, il ruolo svolto dai
giudici appare ineliminabile, soprattutto laddove il loro intervento sia diretto a rimuovere gli
effetti distorsivi provocati da una rigida applicazione di norme generali ed astratte, magari
formulate in un’epoca in cui mai ci si sarebbe posti il problema di una possibile non omogeneità etnica o culturale dei potenziali destinatari.
13
Cfr. L. MARFOLI, La licenza di guida “religiosa” in Canada, tra duty of accommodation e Oakes test, in
Diritto pubblico comparato ed europeo, fasc. n. 2/2011, pp. 400 - 424.
14
I. RUGGIU, Il giudice antropologo e il test culturale, in Questione Giustizia, 1/2017.
15
In merito ai molteplici e mutevoli problemi connessi alla multiculturalità di cui si devono occupare gli
operatori del diritto si rinvia a E. OLIVITO, Giudici e legislatori di fronte alla multiculturalità, in www.statoechiese.it
(maggio 2011).
16
In merito si rinvia a I. RUGGIU, Il giudice antropologo. Costituzione e tecniche di composizione dei conflitti multiculturali, Milano, Franco Angeli, 2012.
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3. I segni esteriori della fede come ricorrenti occasioni di confronto/scontro tra valori
giuridici interni all’ordinamento
La dimensione religiosa nella diaspora immigratoria è quella, fra le molte altre, che riveste importanza maggiore per le comunità di nuovo insediamento, poiché costituisce un
aspetto importante del vissuto individuale e si presenta come punto di riferimento per l’intero
gruppo, in grado di generare conforto e rassicurazione attraverso la condivisione di verità
assolute, gerarchie funzionali, simboli e luoghi di aggregazione.
In un mondo sempre più globalizzato e nel quale i continui flussi migratori hanno radicalmente cambiato il volto delle società europee, rendendole irreversibilmente multietniche e
multireligiose, il tema dell’identità culturale è ben rappresentato dai sempre più frequenti episodi di scontro in materia di simboli religiosi.
L’attenzione riversata sulla tematica dei simboli religiosi17 trova una spiegazione laddove si rifletta sul fatto che il simbolo costituisce un’espressione grafica che, grazie alla capacità di creare un collegamento visivo con una data fede religiosa, riesce a diventare una
testimonianza diretta di una particolare appartenenza confessionale.
A ciò deve aggiungersi che la libertà religiosa è quella che più di ogni altra si presta a
generare conflitti con altri beni e valori costituzionalmente concorrenti, proprio perché l’ordine
morale cui si rifanno le principali confessioni religiose si traduce generalmente in una serie di
precetti vincolanti per il fedele che coinvolgono i più diversi aspetti della sua vita umana.
Sulla base di queste considerazioni è quindi possibile comprendere per quali ragioni i
Paesi europei siano animati da molti anni da un vivace dibattito circa l’opportunità di esibire i
simboli religiosi negli spazi pubblici e sul valore, pubblico o privato, che deve essere assegnato al fenomeno religioso negli ambienti istituzionali.
Il bilancio di quasi vent’anni di dibattito su questi temi si riassume nelle due distinte
dimensioni in cui è stata affrontata la questione dei simboli religiosi nello spazio pubblico europeo e che ha visto, da un lato, quella dell’uso personale di simboli o indumenti con tale valenza con cui la persona manifesta la propria specifica appartenenza confessionale (il velo
delle donne islamiche, il turbante o pugnale dei Sikh, i crocifissi portati al collo, la kippah
ebraica), e dall’altro, quella dei simboli religiosi collettivi tra cui, con tutta evidenza, l’ormai
noto caso del crocefisso esposto nei locali pubblici18.
17
Da un punto di vista definitorio il simbolo è stato descritto come “una forma espressiva che rinvia ad
entità complesse di significato, diverse dall’oggetto da esse direttamente rappresentato”, cfr. F. CRESPI, Le vie
della sociologia, Bologna, Il Mulino,1998, pp. 26 ss.
18
Le due dimensioni del dibattito in merito alla presenza di simboli religiosi nella società multiculturale
europea, sia nella prospettiva dell’esibizione individuale che collettiva, sono stati oggetto di un cospicuo numero
di opere monografiche e di pubblicazioni in riviste specializzate sia di diritto costituzionale che ecclesiastico. Solo
per fare alcuni esempi e senza alcuna pretesa di esaustività si vedano: R. BIN, G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), La laicità crocifissa. Il nodo costituzionale dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, Torino, Giappichelli, 2004; S. MANCINI, Il potere dei simboli, i simboli del potere: laicità e religione alla prova del pluralismo,
Padova, Cedam, 2008; F. CORTESE, La Corte europea dei diritti dell’uomo chiude la querelle sul crocefisso a
scuola?, in Giurisprudenza italiana, n. 12/2011; F. ALICINO, C. CIOTOLA, Laicità in Europa/Laicità in Italia. Intersezioni simboliche, Roma, Editrice Apess, 2012; T. MAZZARESE, Diritto, tradizioni, traduzioni: la tutela dei diritti nelle
società multiculturali, Torino, Giappichelli, 2013; P. CAVANA, I simboli religiosi nello spazio pubblico nella recente
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L’Italia, crocevia dell’immigrazione europea, sia di transito che di insediamento finale,
non si è sottratta a questa tendenza di controversie aventi ad oggetto l’esibizione di simboli
religiosi negli ambienti pubblici e negli ultimi anni l’escalation di casi giudiziari di questo tipo
ha prodotto una consistente mole di pronunce giudiziarie dotate di alcune direttrici ben precise anche se, talvolta, discutibili.
4. A proposito di alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione sul pugnale
simbolico degli indiani Sikh
Il simbolo religioso che recentemente, ed in particolare negli ultimi due anni, ha dato
luogo al maggior numero di sentenze e generato una giurisprudenza univoca in campo penale è stato il pugnale rituale (kirpan) indossato dai fedeli indiani della comunità Sikh19.
Tale pugnale, seppur interpretato dai fedeli Sikh come un monile a valenza esclusivamente religiosa, è stato infatti oggetto, per la struttura che lo caratterizza e che lo assimila
ad un’arma impropria o atta ad offendere20, di ben tre vicende giudiziarie, decise in ultima
istanza dalla prima Sezione penale della Suprema Corte di Cassazione.
Di queste, l’ultima in ordine cronologico21 ha scatenato il clamore maggiore con numerose critiche, anche a livello mediatico, all’impostazione argomentativa utilizzata dai Giudici in merito al tema particolarmente sensibile e talvolta oggetto di sentimenti di pudore22,
della tutela della identità culturale italiana.
Infatti, nonostante la sentenza non si sia discostata dalla impostazione giurisprudenziale consolidata, ciò che più ha suscitato perplessità e dissensi è stata l’argomentazione
utilizzata in questa occasione per riaffermare l’illegittimità di tale simbolo religioso. Fra i passaggi più controversi si ravvisa quello per cui «(…) È quindi essenziale l’obbligo per
l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente
scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti
con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina».
esperienza europea, in Archivio Giuridico Filippo Serafini, n. 2/2013; M. D’AMICO, Laicità costituzionale e fondamentalismi tra Italia ed Europa: considerazioni a partire da alcune decisioni giurisprudenziali, in www.rivistaaic.it
2/2015; L. P. VANONI, Pluralismo religioso e Stato (post) secolare. Una sfida della modernità, Torino, Giappichelli,
2016.
19
La religione Sikh è stata fondata nel 1498 da Guru Nânak (1469-1539) in un periodo di grandi tensioni
fra il popolo indù e quello musulmano presenti in India: questa religione ha avuto una grande espansione soprattutto nello Stato del Punjab (India nord-occidentale), dando luogo ad un seguito attualmente di circa 26 milioni di
fedeli di cui un milione frammentato in Occidente. Da un punto di vista numerico si contano oltre 400.000 fedeli
Sikh in Gran Bretagna, 300.000 in Canada, 100.000 negli Stati Uniti ed infine circa 60.000 in Italia. Per ulteriori
informazioni riguardo alle province italiane in cui tale comunità religiosa è maggiormente presente o le attività
lavorative in cui è generalmente coinvolta, si rimanda a S. PASTORELLI, Religious dress codes: the italian case, in
S. FERRARI, S. PASTORELLI, Religion in public spaces. A european perspective, Asghate, 2012, pp. 238,239.
20
Il Kirpan consiste in un coltello avente solitamente una lama ricurva di 10 cm e un’impugnatura di 5
cm.
21
Corte di Cassazione, Sez. I pen., sentenza del 15 maggio 2017, n. 24084, liberamente consultabile sul
sito www.dirittopenalecontemporaneo.it.
22
G. CERRINA FERONI, Diritto costituzionale e società multiculturale, in www.rivistaaic.it, 1/2017.
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7
Immediatamente dopo la pubblicazione di questa sentenza si sono susseguite, sia da
parte della stampa23 che della dottrina giuridica24, molteplici valutazioni di censura di tale affermazione, con un’attenzione in particolare alla potente espressione evocativa riguardante
l’obbligo di conformazione dello straniero ai valori occidentali.
In passato è stato infatti eccepito da parte di autorevole dottrina che non è appropriata una sovrapposizione tra valori e principi: mentre i primi, infatti, sono fini a sé stessi e per
realizzarsi hanno bisogno di attività teleologicamente orientate, al contrario i principi necessiterebbero di attività consequenzialmente orientate ed essi soli, a differenza dei valori non
negoziabili, potrebbero essere sottoposti a bilanciamento25.
La vicenda all’origine di questa decisione così discussa ha preso le mosse dal ricorso
presentato da un indiano di religione Sikh contro la condanna inflittagli in primo grado dal
Tribunale di Mantova per aver integrato con la propria condotta il reato di cui all’art. 4, comma 2, della legge n. 110/197526.
Il signor Singh Jathinder, trovato in possesso del pugnale tipico della propria confessione religiosa, veniva fermato dalle forze dell’ordine e, richiesto di fornire spiegazioni in merito alla propria condotta, adduceva quale giustificazione l’adempimento di un dovere religiosamente impostogli dalla propria fede, in ragione della quale ogni fedele Sikh battezzato ha
23
Solo per fare alcuni esempi si possono citare le critiche per cui “la motivazione addotta per respingere
il ricorso dell’indiano è andata ultra petita, avventurandosi su sentieri che allontanano dalla meta invece di raggiungerla in modo diretto e chiaro”, cfr. D. STASIO, Migranti e integrazione di valori: i giudici parlano solo con le
sentenze? No, grazie, in Questione Giustizia (19 maggio 2017), o secondo cui la sentenza “pare richiamare questioni epocali e fare riferimento a uno scontro tra culture in verità piuttosto fuori contesto in relazione a questo
caso”, cfr. C. MELZI d’ERIL, G. E. VIGEVANI, Se un pugnale compromette i valori occidentali, in Il Sole24ore (19
maggio 2017). Meno sferzante ma comunque, pur nella sua brevità, severamente critica anche la posizione anche di M. GRAMELLINI, Sikh transit gloria mundi, in www.corrieredellasera.it (16 maggio 2017).
24
A. GUSMAI, “Giustificato motivo” e (in)giustificate motivazioni sul porto del kirpan. A margine di Cass.
pen., Sez. I, sent. n. 24084/2017, in www.dirittifondamentali.it (6 maggio 2017); R. BIN, Il problema non è il pugnale ma la stampa (16 maggio 2017); A. MORELLI, Il pugnale dei Sikh e il grande equivoco dei “valori occidentali”
(17 maggio 2017); G. POGGESCHI, Quel pugnale vietato a Mantova e permesso a Montreal (19 maggio 2017); G.
MACRÌ, Cosa minaccia la società pluralista? C’è ben altro oltre il kirpan (20 maggio 2017), tutti reperibili in
www.lacostituzione.info; A. RUGGERI, La questione del kirpan quale banco di prova del possibile incontro (e non
dell’inevitabile scontro) tra le culture, nella cornice del pluralismo costituzionale (a margine di Cass., I Sez. pen.,
n. 24084 del 2017), in www.giurcost.org (29 maggio 2017); A. M. NICO, Ordine pubblico e libertà di religione in
una società multiculturale (Osservazioni a margine di una recente sentenza della Cassazione sul kirpan), in
www.osservatorioaic.it (14 giugno 2017); R. PERRONE, Porto ingiustificato di arma da parte dei migranti e conformazione ai valori del mondo occidentale. (Nota a Cass. pen., Sez. I, sent. 15 maggio 2017, n. 24084, in
www.giurcost.it (24 luglio 2017); C. NARDOCCI, Non di arcipelaghi si vive. La Cassazione tra unicità giuridica e
culturale. A commento di Cassazione, Sez. I Penale, sentenza 15 maggio 2017, n. 24084, in
www.forumcostituzionale.it (26 settembre 2017).
25
Sul punto offre un’ampia ricognizione G. ZAGREBELSKY, Diritto per: valori, principi o regole? (A proposito della dottrina dei principi di Ronald Dworkin), in Quaderni fiorentini, XXXI, 2002, 865 ss.
26
La legge 18 aprile 1975, n. 110, recante “Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle
armi, delle munizioni e degli esplosivi”, dopo aver previsto nel primo comma le armi c.d. “proprie”, verso le quali il
divieto del porto non ammette eccezioni (salva la licenza di porto d’armi per le particolari tipologie previste dall’art.
42, terzo comma, del T.U.L.P.S), al secondo comma prevede che «Senza giustificato motivo, non possono portarsi, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti
da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche, nonchè qualsiasi altro
strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona».
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l’obbligo di portare sempre sulla propria persona cinque differenti segni espressivi del proprio
credo27, tra i quali appunto il kirpan.
Condannato in primo grado al pagamento di un’ammenda di 2.000 euro28, il signor
Singh Jathinder adiva la Corte di Cassazione invocando quale giustificato motivo ai fini
dell’esclusione del carattere illecito della condotta ex art. 4, comma 2, della legge citata,
l’esercizio del proprio diritto alla professione religiosa ex art. 19 Cost.
Il conflitto così generato tra norma costituzionale e norma penale è stato risolto dai
Giudici della prima Sezione penale in modo non difforme dalle altre due precedenti sentenze29del 2016 in cui, era stato similmente invocato, quale scriminante della condotta penalmente rilevante, il diritto di professione religiosa mediante l’esibizione pubblica del kirpan.
In entrambe le decisioni infatti la Corte, in controtendenza rispetto alle inclinazioni
maggiormente comprensive mostrate da alcuni tribunali di merito30 su vicende analoghe,
aveva riscontrato nel pugnale simbolico dei Sikh gli estremi dell’elemento del reato contestato, non potendo affatto operare l’esimente del giustificato motivo, quandanche motivata
dall’adempimento di un precetto di natura religiosa, a causa dell’esistenza del limite della
sicurezza pubblica e dell’assenza di una precisa interpretazione contestualizzata dell’oggetto
in questione.
In una sentenza risalente e dal portato ampiamente riproposto31 gli stessi Giudici
avevano affermato che «il giustificato motivo non può desumersi in maniera astratta e generalizzata» dandone così un’interpretazione particolarmente restrittiva che, di fatto, impedisce
di poterlo associare alla ragione religiosa, potendo invece sussistere solo in relazione ad
esigenze di utilizzo corrispondenti «a regole comportamentali lecite relazionate alla natura
dell’oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai
luoghi dell’accadimento e alla normale funzione dell’oggetto»32.
27
Il riferimento è alle cd. “cinque K”, vale a dire il Kesh (il turbante che raccoglie i capelli del fedele che
non devono essere mai tagliati), il Kangha (pettine di legno per raccogliere la capigliatura in modo ordinato), il
Kara (un bracciale di ferro o di acciao), il Kacha (una sottoveste o pantalone allungato) ed infine il Kirpan, pugnale simbolo della resistenza e della lotta contro l’ingiustizia.Per un approfondimento in merito alla cultura Sikh, si
rinvia a D. DENTI, M. FERRARI, F. PEROCCO (a cura di), I Sikh. Storia e immigrazione, Milano, Franco Angeli, 2005.
28
Tribunale di Mantova, sentenza 5 febbraio 2015.
29
Si tratta delle sentenze emesse dalla prima Sezione penale della Corte di Cassazione n. 24739/2016
in risposta al ricorso presentato contro la sentenza del Tribunale di Piacenza del 24 novembre 2014 e n.
25163/2016 a sua volta scaturita dall’impugnazione contro una sentenza del Tribunale di Mantova del 10 dicembre 2014.
30
Tribunale di Modena, decreto 9 agosto 2003, Tribunale di Vicenza (Gip), decreto 28 gennaio 2009,
Tribunale di Cremona, Sez. pen., sentenza n. 15/2009.
31
Cass. pen, Sez. I, sentenza 14 gennaio 2008, n.4498.
32
In ossequio a questa impostazione la Corte di Cassazione ha ritenuto escluso il giustificato motivo in
relazione al porto di un coltello per spezzettare la droga, trattandosi di un’esigenza non corrispondente a nessuna
regola comportamentale (Cass. pen., Sez. IV, sentenza 6 ottobre 2015, n. 11356) o ancora in riferimento alle
specifiche circostanze di tempo e di luogo in cui era stato riscontrato il porto di un coltello in un bar una volta terminata l’attività lavorativa (Cass., Sez. Un., sentenza 9 luglio 1997, n. 7739). È stato invece ritenuto sussistente il
giustificato motivo con riguardo al porto di un coltello da caccia e di uno multiuso da parte di chi si sia recato a
fare trekking in zona boschiva. (Cass. pen., Sez. I, Sentenza 5 dicembre 1995, n. 580). Per un approfondimento
sul rapporto fra giustificato motivo e il simbolo religioso kirpan si suggerisce A. LICASTRO, Il motivo religioso non
giustifica il porto fuori dall’abitazione del kirpan da parte del fedele Sikh (considerazioni in margine alle sentenze
n. 24739 e n. 25163 del 2016 della Cassazione penale), in www.statoechiese.it, (10 gennaio 2017).
RIVISTA AIC
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Per fare alcuni esempi, il giustificato motivo del porto di un’arma impropria (rectius di
un qualsiasi oggetto lecito ma atto ad offendere laddove utilizzato in modo improprio) si riscontrerebbe, secondo la giurisprudenza della Cassazione, nell’eventualità di forbici o altri
attrezzi taglienti da parte del giardiniere nel tragitto per andare al lavoro o, ancora, nel caso
di bisturi taglienti nella valigetta del chirurgo chiamato durante l’orario di reperibilità a raggiungere l’ospedale.
Quindi, secondo i Giudici di legittimità il diritto di libertà religiosa può essere inibito sia
dal limite espresso del buon costume che da altri di natura implicita, tra cui quello «della pacifica convivenza e della sicurezza, compendiate nella formula dell’ordine pubblico»33, dovendosi infatti ritenere che, in assenza di una diversa previsione costituzionale, valgano anche per la libertà di cui all’art. 19 Cost. gli stessi limiti previsti per la libertà di pensiero, riunione, associazione ed insegnamento34.
Rispetto agli approdi già raggiunti dai precedenti giudiziari la sentenza n. 24084 del
2017 si distingue tuttavia, come anticipato, per il corredo argomentativo utilizzato dai Giudici
a sostegno della posizione espressa, nel quale è possibile ravvisare l’elemento di novità del
richiamo al rispetto dei valori occidentali nonché di quello secondo cui in una società multiculturale la convivenza tra soggetti di diversa etnia richiederebbe «l’identificazione di un nucleo comune [di valori] in cui immigrati e società di accoglienza si possano riconoscere».
Un passaggio interessante della motivazione risiede inoltre nel rilievo per cui non è in
alcun modo tollerabile che «l’attaccamento ai propri valori, seppur leciti secondo le leggi vigenti nel Paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante».
Tale valutazione si pone in linea con le precedenti prese di posizione in tema di reati
culturalmente motivati35 – in ragione dei quali la cultura d’origine giocherebbe un ruolo nella
valutazione della responsabilità penale soltanto laddove impedisse al soggetto una corretta
percezione e conoscenza del divieto36.
Nell’ottica della, pur severa, impostazione argomentativa della sentenza in commento
non pare però scorgersi un intento di tipo assimilazionista37, quanto piuttosto il riconoscimento del legame insito tra diritto e apporto culturale della storia di un Paese, in virtù del quale
33
Al fine di meglio supportare il proprio ragionamento i Giudici di legittimità hanno inoltre menzionato la
sentenza n. 63/2016 della Corte costituzionale per cui «tra gli interessi costituzionali da tenere in adeguata considerazione nel modulare la tutela della libertà di culto – nel rigoroso rispetto dei canoni di stretta proporzionalità,
per le ragioni spiegate sopra – sono senz’altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e
alla pacifica convivenza».
34
C. LAVAGNA, Istituzioni di diritto pubblico, Torino, Utet, 1976, p. 470. Per una disamina più approfondita
sul diritto di libertà religiosa ex art. 19 Cost. si veda il commento di F. FINOCCHIARO, in G. BRANCA (a cura di),
Commentario della Costituzione, bologna-Roma, Zanichelli Società Editrice del Foro Italiano, Volume II Rapporti
civili (art. 13-20), 1977, pp. 238-301.
35
Cass. pen., Sez. VI, sentenza 24 novembre 2011, n. 43643 in tema di circoncisione rituale.
36
Per un approfondimento si rinvia a C. DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, Pisa, Edizioni ETS, 2010.
37
Ad una lettura contestualizzata e consapevole della tradizione positiva e promozionale della laicità italiana, non sembra potersi ravvisare nelle parole della Corte alcun intento di obbligare le persone di diversa provenienza etnica alla dismissione del proprio patrimonio culturale a vantaggio di quello della società ospitante.
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l’assetto dell’ordinamento costituzionale non può non essere sensibile ai valori posti alla base della convivenza sociale dalla comunità di riferimento38.
In un altro dei passaggi della motivazione la Corte ricorda infatti che «se
l’integrazione non impone l’abbandono della cultura d’origine, in consonanza con la previsione dell’art. 2 Cost.che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante».
Se dunque la sentenza in menzione non pare debba essere additata per le sospette
ricadute assimilazionistiche di sapore francese, anche alla luce del carattere inclusivo della
laicità italiana39, resta però da rilevare nel caso di specie, così come anche nei due precedenti, l’atteggiamento di netta chiusura della Corte di Cassazione verso il riconoscimento di
una qualunque valenza religiosa al kirpan dei Sikh, a dispetto della formulazione testuale
dell’art. 19 della Costituzione che tutela il diritto di professione religiosa “in ogni sua forma”.
5. La (non sempre lineare) sensibilità costituzionale della giurisprudenza italiana in
materia di simboli religiosi e sicurezza pubblica: alcune considerazioni sui burqa e
niqab islamici
L’impostazione giurisprudenziale incline a far prevalere le esigenze della pubblica sicurezza laddove stimolate dall’esibizione di simboli esteriori della fede contrari a determinate
norme penali, non è parimenti stata mantenuta in passato con riguardo al porto pubblico delle peculiari forme di velatura integrale conosciute come burqa e niqab.
Il riferimento corre alle prescrizioni normative stabilite dall’ art. 85, comma 1, del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza40 secondo cui è vietato comparire mascherati in
luogo pubblico e dall’art. 5, comma 1, della legge 22 maggio 1975, n. 152 (c.d. legge Reale)
per cui «È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato
motivo».
Burqa e niqab infatti, costituendo forme di velatura particolarmente limitative
dell’aspetto esteriore femminile41 in uso in alcuni Paesi islamici fortemente teocratici, quali
quelli della penisola arabica e dell’Afghanistan, si distinguono dalle altre forme di velo comunemente indossate dalle donne musulmane, per la copertura pressoché totale, oltre che del
38
Non a caso, infatti, nella Costituzione italiana non si trova traccia all’interno delle disposizioni concernenti il fenomeno religioso, sia a livello individuale che collettivo, del riferimento all’utilizzo di simbologie rituali
come invece fa la Costituzione indiana, nella quale all’art. 25 in materia di libertà religiosa, si prevede espressamente che “il porto del kirpan sarà considerato incluso nella professione della religione Sikh”.
39
Corte costituzionale, sentenza 12 aprile 1989, n. 203: «Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2,
3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale» (punto 4 del
Considerato in diritto).
40
Regio Decreto 18 giugno 1931, n. 773.
41
Entrambi coprono la figura della donna per intero: mentre però il niqab lascia scoperti gli occhi attraverso un’apertura del velo, il burqa, tipico degli Stati del Pakistan e Afghanistan, li lascia solo intravedere attraverso una feritoia cucita a grata alla loro altezza.
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corpo, anche del viso della persona, impedendo de facto ogni possibile identificazione della
medesima.
Alla luce delle considerazioni sopra svolte in riferimento alla giurisprudenza più recente in materia di giustificato motivo in occasione di condotte penali integrate dal porto pubblico
di simboli religiosi incompatibili con esigenze di pubblica sicurezza, si dovrebbe ravvisare, in
assenza di una normativa ad hoc, il carattere illegittimo di tali estreme forme di velatura per
contrasto con le norme sopra richiamate, stante l’impossibilità in tali casi di riconoscere al
giustificato motivo alcuna valenza religiosa.
In realtà la giurisprudenza italiana ha mostrato di non condividere appieno la riconducibilità del porto del burqa in luoghi pubblici o aperti al pubblico al divieto stabilito nel testo
della legge Reale, propendendo talvolta per la non censurabilità delle condotte di velatura
integrale, in particolare in quei casi in cui sia possibile un’identificazione della persona per
via alternativa, come ad esempio attraverso l’esibizione di un documento d’identità42.
In questo senso è rimasta celebre la sentenza n. 3076 del 9 giugno 2008 con cui il
Consiglio di Stato ha ravvisato nell’art. 5 della legge Reale un margine di ammissibilità
nell’ordinamento italiano di forme di velatura integrale per motivi religiosi o culturali, restando
soddisfatte le esigenze di pubblica sicurezza, in tali casi, dall’obbligo per le persone di sottoporsi all’identificazione e alla rimozione del velo, ove richiesto dalle forze di polizia43.
In particolare, il Giudice amministrativo ha ritenuto che il burqa, costituendo un capo
generalmente usato non con lo scopo di evitare il riconoscimento dei propri connotati ma in
ossequio ad una tradizione riferita ad alcune culture, non rappresenti un mezzo diretto ad
impedire il riconoscimento senza giustificato motivo.
Alla luce di quanto esposto, pare dunque che sul punto la giurisprudenza italiana abbia manifestato differenti sensibilità costituzionali.
Se è vero infatti che le sentenze sul caso del kirpan indiano, prima richiamate, appartengono alla giurisprudenza di legittimità, un atteggiamento non dissimile è stato tenuto dal
Consiglio di Stato in occasione di un parere reso in merito alla richiesta di riconoscimento
della personalità giuridica di un’associazione di culto Sikh, in virtù del quale è stato ritenuto
impossibile qualificare come giustificato motivo il porto del kirpan fuori dalla propria abitazione in quanto in contrasto con una norma statale44.
42
Sul punto si può, in particolare, ricordare la sentenza pronunciata dal Tribunale di Cremona il 27 novembre 2008 con cui veniva assolta dal reato ex art. 5 della legge n. 152/1975 una donna musulmana, la quale
trovandosi in un’aula di tribunale per assistere all’udienza del processo penale a carico del marito, aveva rifiutato
di togliersi il burqa fornendo però un documento d’identità ai fini del proprio riconoscimento. Più nel dettaglio si
veda P. BRACCHi, La “burqa” nelle aule di giustizia, in Famiglia, persone e successioni, 2009, pp. 912-914. Recentemente, però, si è espresso in senso contrario il Tribunale di Pordenone, riconoscendo integrata la violazione
dell’art. 5 della legge Reale da parte di una donna musulmana che si era rifiutata di togliersi il velo (niqab) durante una seduta del consiglio comunale del paese di San Vito al Tagliamento in provincia di Pordenone: sul punto si
rimanda all’articolo di Repubblica dell’11 novembre 2016, Pordenone, in municipio col niqab: condannata a multa
di 30mila euro.
43
Sul punto M. GNES, L’annullamento prefettizio delle ordinanze del sindaco quale ufficiale del governo.
Nota a Cons. Stato, Sez. VI, 19 giugno 2008, n. 3076, in Giornale di diritto amministrativo, 1/2009, pp. 44-50.
44
Parere Consiglio di Stato, sez., I, 28 ottobre 2010, n. 2387.
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Non si comprende allora, laddove dovessero ritenersi dirimenti in materia di “giustificato motivo” le reali intenzioni del soggetto esibente un simbolo religioso in contrasto con
una norma penale, che differenza potrebbe riscontrarsi nella volontà da parte di ambedue i
fedeli, di religione islamica o Sikh, di adempiere ad un precetto della propria fede religiosa.
Così, se si assume che la donna di fede musulmana non indossa un burqa o un niqab per
impedire il riconoscimento della propria persona, allo stesso modo si dovrebbe intendere che
il fedele Sikh non tiene legato alla cintura il kirpan per compiere atti potenzialmente lesivi45.
Se invece si volesse offrire maggiore risalto all’esigenza di una più stringente garanzia della pubblica sicurezza, non pare sufficiente la diversità di potenziale offensivo dei due
simboli presi in considerazione a giustificare il trattamento differente, anche a fronte di una
normativa penale pressoché identica quanto a momento storico di adozione (1975), scopi
perseguiti (pubblica sicurezza) e tecnica normativa impiegata (esimente del giustificato motivo).
Se è vero infatti che il kirpan può essere assimilato per le caratteristiche che lo contraddistinguono ad un’arma impropria che contrasterebbe con le esigenze della pubblica sicurezza, il burqa e il niqab islamici, in un epoca quale quella attuale contrassegnata
dall’instabilità provocata da gravi e sempre più frequenti episodi di terrorismo, non si dovrebbero sottrarre a considerazioni dello stesso tenore, stante l’impossibilità di essere messi a
conoscenza dell’identità della persona che lo indossa.
Si può inoltre presumere come un’interpretazione maggiormente restrittiva nei confronti delle forme di velatura integrale nell’ordinamento giuridico italiano non dovrebbe condurre ad una violazione del diritto di libertà religiosa ex art. 19 Cost, stante il fatto che non
solo vi è un’impossibilità di ricondurre in modo univoco l’uso del burqa o del niqab ad un precetto religioso46, ma anche che esiste il diritto dell’individuo, affermato da alcune recenti pronunce della Corte di Strasburgo47, a vivere in un contesto in cui sia facilitata la socializzazione.
Nella sentenza del 1 luglio 2014 S.A.S. c. Francia infatti, la Corte europea dei diritti
dell’uomo, pronunciandosi sul ricorso presentato da una cittadina francese contro la legge
dello Stato d’Oltralpe che impone il divieto di circolazione in luogo pubblico con indumenti
45
La funzione del kirpan infatti non risiederebbe nella volontà di offendere ma di realizzare la propria individualità religiosa, cfr. A. PROVERA, Il giustificato motivo: la fede religiosa come limite intrinseco della tipicità, in
Riv. it. dir. proc. pen, 2010, pp. 6 ss.
46
In proposito si veda il parere del Comitato per l’Islam italiano reso nel luglio 2010 al Ministero
dell’Interno italiano, secondo cui: «Per quanto riguarda specificamente il burqa e il niqab possiamo invece affermare che secondo la grande maggioranza delle opinioni giuridiche che hanno corso nel mondo islamico, e pur
senza escludere che, in assenza di un’autorità centrale che possa definire la dottrina per tutti, gruppi minoritari
possano rappresentare anche in modo mediaticamente vigoroso opinioni diverse, portare il burqa o il niqab non è
un obbligo religioso, né tale obbligo può trovare fondamento nella lettura del testo sacro dell’islam».
47
Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 1 luglio 2014, S.A.S c. Francia. Per un approfondimento si
veda I. RUGGIU, S.A.S vs France. Strasburgo conferma il divieto francese al burqa con l’argomento del “vivere
insieme”, in www.forumcostituzionale.it. (12 settembre 2014). Per quanto invece concerne le sentenze dell’11
luglio 2017 si legga l’intervento di R. SAPIENZA, Ancora questioni sul velo islamico a Strasburgo, in
www.aggiornamentisociali.it (13 luglio 2017)
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dissimulanti il viso48, ha ritenuto conforme agli articoli 8 e 9 della Convenzione europea tale
divieto sull’assunto, riproposto anche nelle successive sentenze dell’11 luglio 2017 Belkacemi e Oussar c. Belgio e Dakir c. Belgio, che una siffatta misura rientri nel novero di quelle necessarie in una società democratica per la protezione dei diritti e delle libertà fondamentali altrui.
Tra le molteplici argomentazioni utilizzate a sostegno delle proprie decisioni, la Corte
di Strasburgo ha speso quella innovativa del diritto per i consociati di vivere in uno spazio
comune caratterizzato dalla facilitazione dello stare insieme, all’interno del quale deve ragionevolmente escludersi la legittimità dell’utilizzo di forme di copertura integrale del corpo e del
viso delle persone, tali da impedire non solo ogni più elementare forma di riconoscimento ma
anche di frapporsi alle più naturali forme di interazione sociale.
6. Alcune riflessioni conclusive per una sintesi costituzionalmente ragionevole dei
valori in gioco
Nel solco delle numerose difficoltà in materia di bilanciamento fra principi e diritti fondamentali, stante anche l’impossibilità di assegnare agli stessi un ordine gerarchico, ciò che
appare quanto mai auspicabile è l’individuazione di regole e criteri in grado di favorire un ragionevole contemperamento delle opposte istanze di professione religiosa e di ordine pubblico.
Se è vero difatti che il ruolo del giudice non può essere eliminato laddove si tratti di
porre in essere meticolose e non preventivabili attività di bilanciamento in tema di diritti ed
interessi costituzionali, è altrettanto veritiero che la possibilità di identificare una deroga alla
regola generale non può essere sempre rimessa nelle mani del magistrato, con il rischio di
insopportabili disparità nell’applicazione della legge e soprattutto nella tutela dei diritti costituzionalmente tutelati49.
L’applicazione impersonale di una certa regola può generare effetti distorsivi e talora
paradossali, danneggiando in modo ingiustificato e discriminatorio gli appartenenti a determinate minoranze portatrici di identità culturali peculiari quanto quelle di altre comunità tenute invece indenni da tali sacrifici.
In senso contrario alla giurisprudenza di merito che aveva mostrato un atteggiamento
maggiormente incline ad applicare la tecnica dell’accomodamento ragionevole50, sulla falsa-
48
Si tratta della legge francese 11 ottobre 2010, n. 1192.
Sulla fragilità delle decisioni giudiziarie che si fondano su valutazioni etiche o extragiuridiche, con conseguenti ricadute in termini di allontanamento dal principio di legalità e di certezza del diritto si rimanda a A.M.
NICO, Il diritto giurisprudenziale “creativo” è uguale per tutti? Brevi osservazioni sui confini della funzione giurisprudenziale, in M. DELLA MORTE (a cura di), La dis-uguaglianza nello Stato costituzionale, Napoli, Editoriale
Scientifica, 2016, pp. 339 ss.
50
Il criterio dell’accomodamento ragionevole si è formato negli ordinamenti di common law e abilita il
giudice a trovare in caso di conflitto tra differenti posizioni soggettive costituzionalmente tutelate un equilibrio,
generalmente mediante una deroga all’applicazione di una regola di portata generale concessa ad un gruppo di
individui dotati di una spiccata identità culturale. Per un maggiore approfondimento sulla tecnica
49
RIVISTA AIC
14
riga di quello convalidato dalla Corte Suprema del Canada nella nota sentenza Multani c.
Commission scolaire Marguerite-Bourgeoys del 200651, la giurisprudenza italiana, sia di legittimità che amministrativa, ha escluso la valenza religiosa della pratica di esibire il kirpan in
pubblico.
Contrariamente, la stessa giurisprudenza italiana ha risolto in modo più conciliante il
contrasto sorto tra la medesima esigenza di sicurezza pubblica e le istanze di libertà religiosa incarnate dal porto del burqa e niqab islamici.
Una lettura delle vicende in menzione più conforme al portato costituzionale della
coppia “assiologica fondamentale”52 costituita dagli articoli 2 e 3 Cost. avrebbe probabilmente evitato, con riferimento alla vicenda del kirpan dei fedeli Sikh, una soluzione giudiziale
tranchant, in cui è stato sacrificato in toto un diritto costituzionalmente tutelato a fronte di
una, pur legittima, esigenza di pubblica sicurezza.
Uno stimolo in tal senso potrebbe essere fornito, laddove se ne presentasse nuovamente l’occasione, dalla rimessione della questione di diritto alla Consulta per vagliare la
compatibilità della normativa di cui all’art. 4, comma 2, della legge n. 110/1975 con il diritto
costituzionale di libertà religiosa53.
Nonostante la società italiana sia ormai da oltre un ventennio contrassegnata dal carattere della multiculturalità, i differenti approdi cui la giurisprudenza italiana è giunta in tema
di ponderazione tra libertà religiosa di alcune minoranze confessionali ed esigenze di pubblica sicurezza, mostrano quanto sia necessaria una seria presa di posizione da parte del legislatore su tali tematiche mediante l’adozione di una specifica strategia di gestione del fenomeno multiculturale.
A differenza di altre realtà statuali dove da tempo le esigenze religiose dei Sikh sono
state prese in debita considerazione, riconoscendo loro ad esempio l’esenzione dall’obbligo
di indossare il casco alla guida di motocicli o l’elmetto di protezione nei cantieri di lavoro al
fine di mantenere il turbante54, piuttosto che il diritto di portare addosso il kirpan rituale in deroga alle normative sulla pubblica sicurezza55, nell’ordinamento giuridico italiano tale consapevolezza stenta ad approdare.
dell’accomodamento ragionevole si rinvia a G. ROLLA, Eguali ma diversi. Identità ed autonomia secondo la giurisprudenza della Corte Suprema del Canada, Milano, Giuffrè, 2006, pp.135 ss.
51
Con la quale era stato riconosciuto ad un ragazzo di Sikh di dodici anni di indossare il proprio kirpan a
scuola purché cucito nella fodera: si tratta della sentenza n. 30233/2006. Per un commento, si veda F. ASTENGO,
La Corte Suprema del Canada afferma il diritto di portare a scuola il coltello Sikh, in www.rivistaaic.it (archivio) 10
aprile 2006. Per un inquadramento più generale si veda R.W. BAUMAN, Multiculturalism and religion in Canada:
the Kirpan Case, in D. AMIRANTE, V. PEPE (a cura di), Stato democratico e società multiculturale. Dalla tutela delle
minoranze al riconoscimento delle diversità culturali, Torino, Giappichelli, 2011.
52
A. RUGGERI, La questione del kirpan quale banco di prova del possibile incontro (e non dell’inevitabile
scontro) tra le culture, cit.
53
Un intervento additivo della Consulta infatti, nelle more dell’operato legislativo, potrebbe ravvisare
un’illegittimità costituzionale della norma impugnata laddove non prevede che, in riferimento a fedeli Sikh, sia
consentito di esibire il proprio pugnale rituale.
54
Il richiamo corre al Crash Helmets Religious Exemptions Act del 1976 e all’Employment Act del 1989
del Regno Unito.
55
Si fa riferimento al Criminal Justice Act, sezione 139, del 1998.
RIVISTA AIC
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Certamente non ha reso più semplice al nostro Paese la ricerca del miglior modello di
integrazione possibile la consapevolezza del dichiarato56 fallimento dei più importanti schemi
di gestione del fenomeno multiculturale57, “assimilazionista” francese e “multiculturalista” inglese. Questi ultimi, infatti, per ragioni diverse hanno condotto alla nascita nelle rispettive
realtà nazionali di posizioni inconciliabili con gli assiomi giuridici occidentali e al consolidamento di temuti “arcipelaghi culturali”58: si pensi, solo per fare alcuni esempi alla creazione di
corti islamiche su suolo inglese per l’applicazione con valore arbitrale della Shari’a in materia
di diritto di famiglia e successorio, o ancora alla realtà di degrado delle banlieues francesi.
Un segnale verso la maggiore attenzione alle problematiche poste dalla società multiculturale pare riscontrarsi nel disegno di legge59 presentato in Parlamento durante la XVII
legislatura in cui è stato proposto il recepimento di un progetto pilota ideato dalla questura di
Cremona e realizzato dalla Direzione Centrale per gli affari generali della Polizia di Stato,
che mirerebbe a rendere legittimo il porto di un kirpan realizzato con una lega malleabile e
pertanto inidonea a procurare ferite60.
In conclusione appare quanto mai necessaria, in una società sempre più destinata
nel futuro ad essere stabilmente multiculturale, una scelta precisa da parte del legislatore
circa il modello di composizione delle esigenze espresse dalle numerose minoranze, non
solo religiose ma anche etniche e culturali.
Fra i possibili modelli di integrazione la scelta dovrebbe ricadere fra quello maggiormente in grado di mantenere un nucleo identitario sufficiente a far riconoscere la propria peculiarità culturale ai nuovi cittadini italiani (ed europei) e in grado allo stesso tempo di unirli in
un percorso di integrazione che non sconfessi i principi fondanti, anche di natura costituzionale, che informano l’assetto dell’ordinamento giuridico italiano.
Nella sua opera di accoglimento delle istanze di giuridificazione degli aspetti multiculturali di fatto esistenti, soprattutto se si affronta la multiculturalità sul piano dei valori, il legislatore potrà senz’altro avvalersi del contributo generoso ed indispensabile del diritto costitu-
56
Il riferimento va alla pubblica dichiarazione dell’ex Premier inglese David Cameron in S. ANGELETTI, Il
discorso di Cameron riaccende il dibattito sul multiculturalismo, in www.federalismi.it, n. 5/2011. Per una ricognizione più approfondita dei modelli di integrazione delle diverse comunità adottati a livello europeo si rimanda invece a F. BOTTI, Appartenenza religiosa e strategie di integrazione e convivenza. I “nuovi diritti”: libertà religiosa e
interculturalità, in S. BAGNI (a cura di), Lo Stato interculturale: una nuova eutopia, Bologna, 2017, liberalmente
consultabile pressohttp://amsacta.unibo.it/5488/.
57
Per un approfondimento in materia di conflitti etnico-culturali e di strategie di composizione della società multiculturale si rinvia a C. NARDOCCI, Razza ed etnia. La discriminazione tra individuo e gruppo nella dimensione costituzionale e sovranazionale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2016, in particolare pp. 79 ss.
58
Si veda la sentenza n. 24084/2017 della Corte di Cassazione, punto 2.3 del considerato in diritto.
59
Si tratta del Ddl n. 1910 “Disposizioni in materia di porto di kirpan da parte dei cittadini o degli stranieri
di confessione Sikh legalmente residenti nel territorio della Repubblica”, presentato in Parlamento il 6 maggio
2015 e successivamente assegnato alla I Commissione permanente (Affari costituzionali) in sede referente il 13
aprile 2016.
60
A tal proposito può risultare interessante la recente notizia per cui sarebbe stato elaborato un modello
di kirpan certificato come innocuo dal Banco nazionale di prova delle armi di Gardone Val Trompia (Brescia). Sul
punto G. BAZOLI, Arriva il kirpan legale: è inoffensivo e i Sikh potranno portarlo alla cintura, in
www.ilcorrieredellasera.it (Milano cronaca, 7 giugno 2017).
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zionale per la ricerca degli spazi entro cui quei valori possano essere tradotti in norme giuridiche capaci di conformare la società.
In questo modo, ulteriori analoghe vicende che dovessero affacciarsi in futuro
all’attenzione del giudice italiano potrebbero costituire davvero l’opportunità per confermare
l’idoneità del nostro testo costituzionale a farsi portavoce e garante di tutti i valori in esso codificati, senza ulteriori ed intollerabili disparità di trattamento.
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