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Fiotti di luce

2018, Zigzagando

Poesie sul tempo, l'umanità, l'infinito e l'uscita dall'oppressione e dalla sofferenza

Verso Antonio Chiocchi Fiotti di luce COPYRIGHT © BY ZIGZAGANDO BIELLA 1ª edizione maggio 2018 ANTONIO CHIOCCHI FIOTTI DI LUCE POESIE 2017-2018 Licenza Creative Commons Siti web: www.cooperweb.it/zigzagando www.zigzagando.altervista.org I GLI ABBANDONATI (ottobre 2017) Agli abbandonati Agli abbandonati. In particolare a chi non percorre le strade della lingua e della voce e che dell’anima reca impronte sognanti non stupendosi di scoprire che le persone normali sono tra i clienti più assidui dell’immoralità. | 5 | Squarciare Il silenzio delle pressioni interiori vaga alla ricerca di uno spiraglio perché ci si dona fuori da lingua e parola. Tutti restiamo muti e sordi nei cunicoli dentro cui siamo interrati. Spingerci verso un Io universale ci separa dai Tu dalle geografie mutevoli e dalle infinite anime dentro cui soffia il nostro stesso respiro. In dialogo e in ascolto seguire la spinta che squarcia i tunnel del silenzio e alimenta la luce di tutti. | 6 | Variazioni di luce Le chiusure di lingua e parola sono variazioni di luce attive o disattive. Chiusure pacifiche o bellicose sventate o meticolose ma risucchiate dal nostro Io blindato. L’intensità della luce è preghiera in ascolto tra il sacro e il profano pronta a farsi da parte non appena è illuminata dalla vita. Le preghiere in ascolto cercano per sé nuovi posti nella luce e in noi. | 7 | L’abbandono Il sostegno al mondo cade ogni volta che non si scongiura il crollo di uno solo a cui si voltano le spalle incolpandolo del nostro mancato essere. Tutt’al più concediamo elemosine e a volte nemmeno quelle per sentirci incolpevoli o forse perfetti. L’abbandono è una prova di forza che morde la carne degli altri godendo del loro dolore e non osa confessarlo. | 8 | Castigo Sorvoliamo la disperazione senza gettare a fondo lo sguardo sulla sofferenza che mutila la vita intorno a noi perché crediamo che sia il giusto castigo inflitto all’umanità per le sue colpe. Siamo grati a un non misericordioso Dio che ci siamo inventati su misura per non aver castigato noi. Ingrossiamo le schiere degli estinti viventi illusi di aver scansato il dolore perché ad altri e non a noi è stato assegnato come pena il mormorio farfugliante dell’assenza di lingua e parola. Ci sentiamo prescelti e gli altri non sono che derelitti. Abbiamo trovato i corpi su cui far gravare il destino della colpa. | 9 | Un’acconcia menzogna Possiamo spiegare il mondo dandogli il nome di tripudio del senso della morte? Quando la vita chiama e richiama proprio dagli infiniti silenzi delle sofferenze che abbiamo abbandonato a se stesse? Tenerezza e amore sono in affanno ma non siamo ancora indemoniati costruttori di morte senza vie di scampo. Certamente senza andare per il sottile abbiamo abbandonato ad un destino di morte chi ha avuto la sventura di nascere per vedere la luce e non poterla mai raccontare. Non soddisfatti li martoriamo per giustificare col loro supplizio la nostra impotenza vivente. Nessuna sorpresa allora? Saremmo tutti già morti? Già tutti fantasmi impietriti senza alcuna memoria? È un’acconcia menzogna sostenere che solo la morte è realmente esistente per avvolgerci esultante. | 10 | Non sappiamo niente Apocalissi quotidiane abitano il silenzio che divora il tempo della parola rendendolo una paccottiglia da cui non si odono più voci e non si distinguono più volti. Nemmeno le vediamo queste apocalissi e tuttavia sono rese ombre ai nostri occhi e ai nostri cuori le vite in esse custodite e di cui è stato cancellato il valore. Non sappiamo niente dei cuori spezzati che ci attorniano delle vite infrante che ci passano accanto dei corpi senza voce che lasciamo parlare a vuoto in una solitudine che li demolisce lì all’altro lato dell’asfalto o all’altro capo del mondo. Non sappiamo niente e niente vogliamo sapere ma è ancora possibile apprendere lungo vie lastricate da solitudini parlanti sfiorate dalla luce. | 11 | Orchestrare silenzi Orchestrando silenzi non si sa dove si può arrivare ma in luoghi certo migliori di questi dove senza parlare è possibile intendersi e senza gambe camminare e senza braccia stringersi al petto. La sventura è lo spartito su cui le note cercano spazio ma non soddisfatte di sé vanno a caccia di vibrazioni che scuotano l’anima e la generosità del pensiero. Le parole ci sono d’aiuto quando espandono i cuori. Se diventano carne non sono sostituibili anche quando non sono intese perché sono il soffio in cui respirano cielo e terra. | 12 | Viaggi impossibili Un’inebriante rincorsa contro la liturgia delle parole ci può far rovesciare tutti i sensi della misura e la misura stessa del senso. C’è altro dentro e oltre il senso e in questo altro sventurati e abbandonati già vivono il nostro aldiquà e aldilà. Ripudiati hanno varcato da soli le soglie dell’umano parlando lingue a cui noi non siamo inclini. Con la loro sofferenza narrano l’impossibile dalle stanze dentro cui li abbiamo rinchiusi. Loro tentano viaggi impossibili noi arretriamo spaventati perfino dal possibile. | 13 | Realistico La fibra dei sentimenti si sfilaccia facilmente e quando non si smaglia è corrosa dai batteri del tempo che inacidiscono lingua e parola. Davanti ai caduti precipitiamo ancora più in basso scostandoli con fastidio e disprezzo ingoiando veleni quotidiani come se fossero pura acqua di sorgente. Siamo a digiuno in quanto a umanità eppure è proprio l’umanità dei caduti che ci interroga e sopravanza recando con sé il calvario e le barriere di cui deve sostenere il carico. Abitiamo retrovie che sono roccaforti della dimenticanza. È più realistico immaginare che i caduti rialzino noi che noi i caduti tanto irrisorie sono ormai le nostre peripezie che non si elevano di un millimetro dal pantano in cui sguazzano. | 14 | II IL NUDO ESISTERE (marzo 2018) E dappertutto Inciampi di parole e saturazioni di vuoto frastornante scaricati con un rovescio da pugile su coaguli di sangue sparsi su un suolo muto segretamente minato da un estremo all’altro della terra. E dappertutto il buio è brancolante. L’atlante dell’impensabile riordina le caselle dell’alfabeto, per ritrovare il cammino nei cui impervi tornanti si celano i fili conduttori delle parole e del linguaggio ai piedi della gentilezza. E dappertutto il vivere cerca casa. | 16 | La storia La storia che partorisce comandi arpiona i suoi confini e li saccheggia, dipanandone la pura estensione con cui aggroviglia l’esistere sulla griglia rovente del pericolo che non lascia scampo pietoso ai pensieri soggiogati e ai passi irresoluti che la sfamano. Il pericolo impasta corpi, turbamenti, paure e ansie una e infinite volte, alterandone i connotati, ma non è detto che li renda la preda perenne della storia, perché può intenerirli e scuoterli, facendo loro schivare la presa eterna delle assegnazioni ed esortandoli alla virtuosa protesta. | 17 | Esilio Il vuoto del mondo ama mostrarsi con le sembianze di segni oscuri, sotto i quali siamo soliti celare la nostra aridità, ma mute parole e fiotti di luce ci fanno di nuovo balzare dalle viscere della terra. L’umanità è più che altro un mondo che non sa parlare e tutte le volte che lo fa cerca di raggirare la verità, perché è restia a interrogarsi sui silenzi e le assenze dentro cui esilia le sue malattie. L’esilio è l’ombra della luce, qualunque sia il posto che gli è stato assegnato e dovunque siano gli istanti che il peregrinare della vita gli ha lasciato in custodia sugli orli del tempo. | 18 | L’umanità Il cielo interiore è sfrondato dai giorni e dalle notti che passano senza sconfinare in un nuovo punto di contatto, dove il teatro della vita non è più l’appiattito specchio del mondo e l’energia non è più l’erezione che con il granito della sua volontà dà sepoltura all’esistere, assorbendone l’anima pensante. L’intero volume del mondo assopisce e concentra i segreti, tenendoli l’un l’altro a distanza persino nelle prossimità più intime capovolte in brusii malfermi, con cui le parole duplicano mutismi che marchiano con indifferenza il raggomitolarsi delle ore. Nello svolgersi del tempo eterno l’umanità è un'invenzione recente, uno sconclusionato agitare di ali che risucchia e macina in mulinelli il difforme che l’inquieta e le si frappone dentro e fuori, senza venirne a capo, perché la sua malattia è un ordine che agita il cappio delle convenienze per curare il male del vivere, profittandone e radicandolo. | 19 | La libertà l bagliori delle geometrie dei frammenti scompaginano lo spazio e il tempo e le lacerazioni si divertono a farsi beffa di tutte le configurazioni che si ostinano a picchettare la superficie quieta delle cose, opponendo il contrassegno dell’ovvio alle profondità della dedizione. Il mondo contrassegnato ruota sempre a contrario e suo è il desiderio di invertire senso e freccia del tempo. Il mosaico degli appuntamenti è ridotto a un’insignificante impossibilità e i contrasti amorevoli sono falciati dall’eccesso della misura che detta i titoli al linguaggio e alle parole, allineando la loro infinita ricchezza in partiture esangui e ristagnanti che moltiplicano fratture nei cieli della libertà, condannandola ad essere universo oscuro non rischiarato. Libertà, una dimensione sconosciuta e straniera: occorre continuamente esplorarla, anziché continuamente insegnarla. Di lei mai niente sappiamo, ma senza di lei non siamo niente. | 20 | Nell’infinito Nell’infinito nomi ed esseri non si disperdono, ma serbano le loro vite, penetrandosi tra di loro oltre i confini delle corrispondenze, a cui il ripiegare del mondo intende incollarli. Nell’infinito i limiti del mondo non sono del mondo, ma di chi vuole disarcionarlo dai destrieri che gli sono stati donati per solcare mari, terre e cieli, ricongiungendo confini mai valicati e dando il via a nuove rotte. Nell’infinito la danza dei segni e dei nomi non è mai chiusa, ma riaperta al sorgere del sole e la notte sogna la magia dei giorni a venire dove la meraviglia ha il rigore della scoperta. Nell’infinito i tempi favorevoli si riaffacciano dall’uscio dove erano già passati e nomi ed esseri rientrano in casa a danzare: è l’infinito la danza che risolve l’enigma, ma solo per rinnovarlo. | 21 | Le parole Le parole presentano il mondo come una collezione dispersiva, trapuntata da segni viventi che è ingenuo deporre ai piedi del linguaggio che infila subito la toga dei verdetti inappellabili. La loro orbita è incontenibile e stana i bluff del linguaggio, le sue incoerenze e la sua mania di tenere in pugno il mondo, come un comandamento profano che disciplina legge e destino, incurante delle sofferenze sparse. Voler rendere inalterabili le storie e i significati è impresa che si dibatte in contorcimenti che alle parole e alla lingua strappano l’anima, affossandola in sottosuoli ricolmi di strazio. L’anima delle parole ci separa dal mondo così come appare e ce lo fa di nuovo visitare, come se fosse la prima volta di innumerevoli volte ed è così che le parole ci toccano l’anima e la fanno parlare senza parole. | 22 | Sabbie mobili Il cronometro dei tormenti attrae le lacerazioni del tempo, cicatrizzate nel penare dell’esistere, per scansare il magistero di vita e morte, tentando vanamente di disinnescarne le verità imperscrutabili riflesse nello specchio delle umane incertezze. Le incertezze che si infilano nel sudario del nostro vivere evocano riordinamenti del possibile ai cui richiami non rispondiamo, preferendo le sabbie mobili delle svogliatezze gratificanti in cui inavvertitamente sprofondiamo. Le sabbie mobili costruiscono il diritto come loro rifugio sotterraneo, per farci dimentichi di noi stessi e accusatori implacabili del mondo, nell’illusione di purificare le nostre colpe, mentre ci vendichiamo della nostra vita, senza nemmeno comprenderlo. Quando l’angelo della vendetta chiama, non bisogna accorrere, se si vuole riassaggiare l’aria libera, fuori dal cappio delle sabbie mobili. | 23 | Tribunali Fuggevole tempo sosta nella vita il dolore dell’altrui morte, mentre senza soste l’ira dell’anima trafigge il tempo come una spada affilata dentro il suo cuore e tribunali non vi sono per questi crimini. La giustizia non è materia per tribunali nelle cui mani è inerte forma sagomata come la creta e come la creta continuamente istigata a cambiare padrone. I tribunali bendano la giustizia e la maltrattano, privandola dei suoi perni e affogandola nelle scartoffie, mentre le loro cronologie affondano i colpi nelle virtù che hanno deriso in tutto il corso dei tempi. Entrando in amicizia con i tribunali, ci si affaccia sull’abisso del tempo, dove i dolori dell’anima e dell’amore sono triturati con il compiacimento di chi, appena uscito dallo sciame delle menzogne più abiette, si reputa sostegno del giusto. | 24 | La giustizia Mai la giustizia è stata cara all’epoca che l’ha distolta dalla verità, ma è sempre prescelta dai tempi che non la recano in grembo come sanatoria dei mali del destino, perché sanno che la sua inattualità è traccia del cammino da fare. La regolarità dell’ingiustizia rende non comuni la giustizia e le traiettorie dei suoi sentimenti che risalgono le rapide e le rocce del possibile che ci portiamo dentro e che ci resta da incontrare fuori, nei domani barricati nell’oggi. L’inganno e l’ipocrisia allungano i loro artigli sulla giustizia, quando i suoi sentimenti si lasciano disfare e diventano ordigni ad orologeria, essenziali all’intrigo che li fa ciechi, di fronte alla bellezza dei deboli. L’impossibile della giustizia è il possibile messo in gabbia — destino disumano, attribuito di imperio ad un’umanità affranta che urla, mai doma, il suo desiderio di felicità. | 25 | Le leve Quanti Olocausti dovranno ancora tingere di fumo nero cielo e terra, da qui all’eternità, prima che lo sterminio cessi di essere lo strumento con cui la civiltà tiene i suoi conti e scaglia la storia da un abisso all’altro del tempo? Quanti Dei assetati dovranno ancora bere sangue umano, da qui all’eternità, prima che la cenere delle rovine cessi di essere il filmato del punto zero che tiene il bavaglio al lievitare della vita? Lo scempio che ci domina ha il calco dell’imperforabilità, non concede tregua e respiro e l’oscurità sembra aver preso risolutivamente possesso dei fasci di luce che a sprazzi abbiamo provato ad espandere. I sentimenti sono leve che possono mandare in frantumi le geografie sepolcrali disseminate da ogni singolo Olocausto, se scaliamo l’abisso e restituiamo ai raggi del sole mondi avviati all’estinzione con rara crudeltà. L’Olocausto può avere un termine, domani o chissà quando o forse mai. | 26 | Controfigure Posti sempre in un tempo vivo, agiamo come predatori abitanti il tempo morto, a cui ci siamo consegnati con una resa totale, agghindandoci con i costumi di parata dei conquistatori del tempo. Il tempo ci spinge in avanti e noi ripieghiamo all’indietro, per mantenere un controllo che in realtà mai abbiamo avuto e mai potremo avere, nonostante l’incitamento alla vanità con cui siamo soliti demolire l’esistere. Come padroni del tempo siamo stati un fallimento perfetto. Come residuo delle ore, replichiamo esperimenti usurati che inanellano con negligenza una scadente prova di sé, senza alcun imbarazzo. Controfigure degli eventi, ci lasciamo sedurre dalle ombre e rifuggiamo il fulgore che chiede il duro sforzo del cambiamento, segregando il tempo nel pugno di acciaio di un destino convertito in impostura. | 27 | Il silenzio Le parole appartengono al silenzio, fino a gonfiargli il cuore, facendolo uscire allo scoperto con un semplice sguardo che solca le tenebre e straccia i confini. Che le parole ci appartengano più del silenzio è una verità che sta con i piedi appesi per aria, mentre le mani sono in terra a scavare altri cieli. Non è il silenzio a trovare le parole, sono le parole che trovano il silenzio e si incamminano con lui, senza svuotarlo e arricchendosi di ciò che da sole sono incapaci di trovare. Le lingue che inventiamo non fanno parlare il silenzio, tutt’al più ci dispongono al suo ascolto, restituendocene le parole mute che abbiamo abiurato e disperso in cielo e in terra. Il silenzio è la lingua madre che ogni giorno avveleniamo e a cui, per questo, dobbiamo ogni giorno far ritorno, per rompere le fortificazioni in cui abbiamo recintato la vita. | 28 | Appartenersi A chi apparteniamo? A ciò che già abbiamo? A ciò che schiviamo? Cosa abbiamo veramente? E cosa ci sfugge in eterno? Non apparteniamo a niente. E tutto ci scivola via dalle mani. Si vive non appartenendo, nemmeno a se stessi. Niente ci appartiene. Tutto è nostro, nel non essere mai nostro: è la fortuna di abitare assieme a ciò che ci sfugge. Perciò, possiamo essere liberi. L’appartenersi vero è lo slancio della non appartenenza dei cuori e delle anime che si incontrano e si parlano, senza chiedersi perché, ma inaugurando le loro scelte ad ogni sequenza dell’attimo. L’appartenersi segna il tempo del vivere insieme, in lotta con il vivere che accoglie lungo binari morti, terminale delle verità fittizie che rapinano la vita dalle nostre già sguarnite tasche. | 29 | La gratitudine La gratitudine più congeniale è quella che si esprime con la sobrietà degli occhi e il rigore degli atti, per non farci dimentichi dei paesaggi stellari da cui essa proviene. La gratitudine non è loquace; lo è l’ingratitudine, col suo continuo chiacchiericcio ed elevarsi su liquami di vanagloria, per non onorare i debiti contratti nei confronti della generosità che ha saccheggiato. C’è una mitezza incrollabile nella gratitudine e si aggira con tenacia in ogni dove, per illuminare con i suoi raggi una semplice stretta di mano: forse, per farsi perdonare la sua abbondante penuria. C’è una giustizia infinita nella gratitudine e sta nel suo perdonare incondizionatamente gli ingrati che ridono di essa, sguazzando nel fango impastato a piene mani, ma rimasto appiccicato ai loro abiti. | 30 | III TRAIETTORIE (aprile 2018) Nei libri Tra il linguaggio e la parola sta la scrittura che sovente si arrovella in incastri di smentite e controsmentite, pur di mantenere in piedi i suoi palazzi cadenti, ancorati ai ruderi dell’intrigo. Scriviamo anche per dare parola alla sentenza che anticipa la condanna. Poche volte siamo indulgenti, non consentendo alla scrittura di uscire dalla sua furia nevrotica, le cui fauci ci danno il benvenuto. È così che i libri hanno potuto costruire e tramandare menzogne che disperdono le parole vere e disanimano il silenzio, per farlo parlare sotto comando e trasformarlo in una recita, commissionata per ogni occasione. Nei libri si cela la verità che da essi evade con un atto di ribellione ed è questo il modo involontario con cui essi la servono e diffondono, fidando che linguaggio, parola e scrittura tornino a frequentarsi. | 32 | L’ostacolo Le parole non si ascoltano soltanto, ma si celebrano nei cuori e nelle menti, fino a sapere che sono tutte vere e tutte false. Le parole sono in lotta contro la menzogna in esse rintanata. Non hanno leggi eterne da raccontare e nemmeno orchi da scovare. Davanti e dietro di sé hanno sentimenti a cui concedersi, fuori dalle manovre che ci vorrebbero indirizzare lontano dalla carne e dal sangue che ci fanno così imperfetti ed essenziali. Non sono i cartografi del mondo, ma particelle alla ricerca di ciò che le ha rese e mantiene vive, con cui stringere una comunione che non abbia il ripensamento degli amori che cedono ai primi ostacoli. Per essere vita, le parole devono cessare di essere l’ostacolo che pongono davanti e dietro a se stesse. | 33 | Archeologie capovolte Ciò che ritroviamo di noi e del mondo con le nostre archeologie capovolte — che ci seppelliscono, anziché riportarci alla luce — comprime i nostri sguardi e congela i nostri cuori, deposti in teche prive di luce propria e trasportate dalle nuvole nere dell’ira. Le nostre archeologie capovolte sotterrano le parti migliori e riportano alla luce le peggiori, in un profluvio di esortazioni su come domare l’imprevisto curvarsi delle linee dell’orizzonte, per schiacciare l’animo sulla piattezza infinita di una retta, innamorata di sé e incurante del resto. L’orizzonte della retta è la parete che ci divide da ciò che di più caro vive non come una promessa, ma come una realtà osteggiata, stanca di fare la veglia al tempo e di prorogare all’infinito la sua risalita alla superficie, dove scappatoie non ce ne sono. | 34 | Timidi spiragli Se continuiamo a presumere di sapere, limitandoci a intrecciare o sovrapporre linguaggio a linguaggio, rimarremo bloccati sulla linea retta delle parole ultime, prima ancora che abbia inizio il suo dissennato tracciarsi. Restano solo timidi spiragli e individuarli non è agevole, attraversarli è ancora più complicato, mentre il futuro non chiede di essere annunciato, ma ci invita a scorgerlo nelle sue forme già viventi. Al di là del presente delle enunciazioni e della grammatica, stentiamo a vedere il futuro e perciò andiamo avanti con interpretazioni che seduta stante convertiamo in dimostrazioni che cancellano il sapere vivo e le possibilità del conoscere vero. Le verità non eleggono come dimora tempi futuri per discorsi presenti, ma sono spiragli che già abitano le nostre fatiche giornaliere, nel loro dischiudersi alle primavere che non restaurano il tempo e non si accampano nel già detto. | 35 | Le risposte L’esistente non è la messa in scena di una difficoltà inaggirabile, anche se va collezionando catastrofi a ripetizione e dietro l’angolo si profilano sempre quelle finali che non lasciano scampo nemmeno ai superstiti, gettati in una storia sfigurata. Da tempi immemorabili ci fregiamo del titolo di civiltà superiore, perché nell’accavallarsi dei secoli siamo stati abituati ad insegnamenti privati del senso del giusto che hanno avuto l’ardire sfrontato di trasferire l’umanità nell’ologramma dell’insensatezza e dell’insignificanza. L’insensatezza e l’insignificanza ogni cosa concedono agli Dèi mortali che tutto comandano con linguaggio, parola, scrittura, scienza e legge, facendoci sentire sgravati dalla colpa e dalla responsabilità, con dosi graduali di malefica crudeltà, travestita da generosità di facciata. La civiltà dei dominatori è l’esistente a cui dobbiamo risposte, venendo fuori dalle armature del calcolo dell’insensatezza dentro cui ci hanno posteggiato: non resta che giocare sempre, ma non su tavoli già apparecchiati. | 36 | La poesia La poesia fa saltare le descrizioni che loro malgrado inalberano le insegne di figli disubbidienti, sbandierate sotto le mentite spoglie di un nonsenso compiacente e inerte che fiaccamente interra parole e silenzi sotto la cenere magmatica della morte. La poesia non penetra i silenzi, ma se ne lascia penetrare, articolando con loro parole non ancora pronunciate e vivendo silenzi che non avevano mai visto l’alba, al cui sole poi si riscalda e splende. La poesia vive nell’indescrivibile e nell’inenarrabile, svelando le logiche minuziose dell’insensatezza e dell’insignificanza, di fronte a cui non indietreggia e nemmeno tace, ma ne estrae l’anima parlante. La poesia è ascolto e parola dell’arte del vivere e del patire, insidia che sfugge alle insidie e ritorna sempre agli inizi, per percorrere strade mai fatte prima, lasciandosi guidare dal tumulto mai chiaro delle prove sostenute. | 37 | Arsura Rimanendo in eterno nel solco delle cose già fatte e dette, niente si fa e si dice e l’ardore scompare, smarrendosi in un tempo assente, mai pensato e mai vissuto, chiuso nella sua uniformità incurabile. Il sole morente rinasce ogni alba, per riprendersi cura del mondo, dopo che ogni notte se ne è stato in pace a tessere nuovi cieli, rigenerati dalla sua energia che trafigge la terra, con raggi di generosa allegria. Gli umani che si esercitano nel fermare la loro attenzione su se stessi, nel riconoscersi disconoscono il mondo, nelle cui corsie sono destinati a perdersi, senza ritrovarsi più, smarrendo dolorosamente l’esperienza del tempo e dei propri sentimenti. La malattia inguaribile è il pensiero che ha perso il senso dell’esistere e che malgrado tutto si ostina a voler legiferare sul mondo con parole che hanno l’irrespirabilità, dell’arsura che ha prosciugato le sorgenti degli occhi e del cuore. | 38 | Girandole C’è bisogno di viaggiare in ciò che appare ostaggio dell’apatia e invece reca in sé la brace di energie che premono per venire allo scoperto, fuori, ad una distanza stellare dalle spirali dell’inerzia e vicino al calore degli insediamenti di ciò che si è infranto, non solo per sua colpa. C’è bisogno, ma la strada è lunga. La vita sfugge alle convinzioni ferree ed è vana pretesa quella di volerla ricondurre alle origini di ogni cosa, come se potessimo comandarla a nostro piacimento. Non facciamo che creare idoli di cartapesta con cui tentiamo maldestramente di celare i nascondigli dai quali mettiamo nel mirino il tempo e la nostra stessa esistenza. Invariabilmente finiamo in balia di una turbolenta fame di potenza, non prestando attenzione e cura al vivente e ai viventi. La parola che confeziona ad arte girandole di nomi non può donare il mondo e dimentica persino che i nomi non sono solo nomi. In ogni nome vive l’umanità, con tutti i suoi volti e i suoi nomi. | 39 | Porta universale La vita è alle origini dei significati, non i significati all’origine della vita. L’infinito è nella vita che trascende la vita, nel volto che trascende i volti, nel nome che trascende i nomi. La vita è nell’infinito che trascende l’infinito, nel significato che trascende i significati. L’infinito della vita e la vita dell’infinito stanno sempre avvinghiati, contro tutti i tentativi di scomporli e nonostante i dissidi frequenti che tra di loro si infilano. L’infinito è la porta universale. Non sta accanto alla vita e nemmeno sopra, ma la apre, lasciandosi aprire. Non è l’altrove, ma il rimanere in presenza, con amore trasfigurante, dalla cui linea non è disposto ad arretrare di un millimetro. Le rotazioni di infinito e vita sono il futuro che si rinnova. Nella stretta di infinito e vita, le parole non hanno bisogno di essere autenticate e i sentimenti scorrono liberi. | 40 | Resurrezione Capita di parlare, per far tacere il silenzio, togliergli definitivamente la parola, ma lui ben presto ha la meglio. Infrange la comunicazione della quale non è contento, perché gli mette le parole in bocca, anziché farle prorompere dal disordine che ne è l’origine. Capita di scrivere, per firmare un’assicurazione contro il silenzio, per essere risarciti tutte le volte che ci coglie in fallo e si fa beffa dei proclami con cui dichiariamo di aver padroneggiato il mondo, riducendolo ad un immenso archivio di archivi. Siamo obbligati a sottrarci all’apoteosi del silenzio, quando lo rintaniamo in se stesso, per fargli rinnegare di essere aurora e inchiodarlo all’immeritata condizione di segno infiacchito del crepuscolo. Il silenzio è linguaggio che non fa uso di linguaggi al tramonto e dei linguaggi è la resurrezione. | 41 | Il cerchio e le catene Da interminabili secoli e per strade solo in apparenza contrarie, credito e discredito della logica hanno lanciato un’idea di ragione mutilata di ogni sentimento, vero nucleo del mercato del comando, di fronte al quale con sollecitudine è stata inalberata bandiera bianca, non dicendo no alle trasfusioni del suo plasma infetto, nella foga di trarne vantaggio. La ragione che abbiamo idolatrato oppure maledetto, è una creatura artificiale che ci è servita per rinforzare i nostri egoismi e i nostri eremi, anziché credere nella generosità che ci ostiniamo a non respirare, nonostante ci abbia partorito. Non v’è cosa più irrazionale della razionalità che conduce a sgretolare noi stessi e il mondo. Le catene dell’ineluttabile sventura le abbiamo forgiate col ferro e col fuoco di menzogne millenarie che ci stiamo ancora raccontando e che ci incitano ad una mestizia senza fine, di cui non ricordiamo nemmeno il nome e il volto, tanto immersi siamo nell’inospitalità che abbiamo coltivato, voltando le spalle ai richiami delle verità | 42 | e trasformando l’allegria in afflizione. Abbiamo fortificato le barriere che ci separano da terra e cielo, per illuderci di aver domato vita e natura, rendendole consone a più forbiti dettami; invece, senza riuscirvi, abbiamo cercato a più riprese di snaturarle, tanto che non sappiamo più cosa siano state e cosa sono e saranno: le abbiamo volgarizzate, vestendo i panni di civilizzatori imbarbariti, imbrattati dalla furia di una sapienza corrotta. Questa linea di marcia tenta di chiudere il cerchio, recitando che tutto è male: l’esistente e ciò che ancora non è e mai sarà; che tutto si muove, per rimanere sempre fermo al punto di partenza portato in giro in un eterno e impenetrabile nulla, nel quale chi è fermo è scosso da oscuri presagi e chi si muove è immerso in un invincibile strazio e tutti sono scarniti dalle privazioni. Le nostre brame ci hanno reso più infelici di coloro che hanno dato i natali al mondo, pur avendo anche essi cosparso il male sulla terra: più di loro abbiamo barato con la natura e con le nostre vite. Fare ritorno all’alba originaria, qualora fosse possibile, non ci restituirà l’innocenza; mentre continuare ad andare avanti ci riporta da un baratro all’altro. | 43 | Non ci resta che rompere il cerchio e le catene delle albe e dei baratri che si sono fin qui susseguiti e che ancora si avvicenderanno in tourbillon nati stanchi e sfiniti strada facendo, senza riuscire mai a vedere la luce e senza mai trovare soluzione all’infelicità asservente, a cui ci siamo condannati con un travestito dosaggio di furbizia, furore e potere. Rinfoderare la spada del comando e sgonfiare la boria di sdegnose conventicole richiede la messa al bando delle uniformi logore e corrotte, per arrivare al nerbo delle questioni e ridare alito alla speranza, nutrendosi dell’audacia che solo lei sa tirare fuori dalle tenebre e scorgere anche nella luce accecante: parte sempre da qui il muoversi liberi nell’imperfezione che ci salva. | 44 | A quel bivio Non siamo mai stati innocenti, nemmeno prima della colpa originaria e la felicità non prospera nell’innocenza che cerchiamo con ostinazione di fare nostra, per elevarci a cavalieri senza macchia e atteggiarci a giudici infallibili. La perfezione non si confà alla nostra e alle altre specie e nemmeno all’universo che va straripando da un’imperfezione all’altra. Le verità assolute e necessarie sono il canto di sirena che sottrae gli umani al cammino degli inizi e al riavvio che segue gli approdi, irrorandoli con una letargica invincibilità. Esseri ciechi e fasciati da una corazza di argilla condensata, come disperati interrogano la morte, per eluderne le leggi e rubarle l’eternità, al bivio dove tutte le strade si incrociano, per non spingersi avanti. A quel bivio, il tempo tace e tutte le parole sono cristalli che si infrangono prima del sorgere dell’alba e del calar della sera. Strappate dalle ali del tempo, le verità rimbalzano l’una contro l’altra, nell’amaro gioco di schiacciarsi a vicenda, pur di non far fuggire l’attimo e pietrificarlo nel metro quadrato | 45 | dentro cui l’hanno esiliato. A quel bivio, la povertà del linguaggio esplode con tutta la sua furia e il tempo sconfessa le parole intrappolate nella miseria forgiata da catene di sciagure che hanno leso vista e soffio vitale, lungo rotte avviatesi con largo anticipo verso il naufragio. Nessuno è innocente in questo gioco al massacro; ma non tutti sono colpevoli. La poesia rompe il gioco e ad ogni bivio riconnette tutti i tempi, nel loro irrequieto avvilupparsi, ma non mira all’eternità: sa bene che non può regolarla e neanche decifrarla o conservarla. La sua eco si spande con il riemergere dei giacimenti della bellezza, del dolore e dell’oblio che ad ogni rintocco del tempo si offrono a menti e cuori abbisognevoli. | 46 | Figli stranieri Sin da ere remote sono stati eretti tempi alieni e i primi stranieri sono sempre stati coloro che hanno avuto l’insana pretesa di modellare il tempo con la spada, facendolo e disfacendolo a piacimento, senza avere mai interesse e passione per ciò che da sempre è stato coltivato e salvato dai cataclismi che hanno cercato di assiderare la memoria viva e l’eredità dell’attimo. Cedendo al sottile gioco degli ultimatum della rassegnazione, siamo ora figli stranieri del tempo, e mai ci sfiora il pensiero di disfarci di quest’armatura, per rientrare a buon diritto nella storia che più ci appartiene, per bonificarne i campi minati e raccogliere i frutti della letizia persi per strada. Sempre ci interpellano e appassionano i giorni e le notti che non sanno tacere, incitandoci a continuare e cambiare l’opera iniziata e non ultimabile di coloro che ci hanno preceduto. Altrettanto sono chiamati a fare i nostri eredi e i loro eredi, se vogliamo essere umanità, vivi e morti tutti insieme. | 47 | Il protagonista necessario La poesia sta nelle pieghe del tempo, anche quando non ne ha memoria, ma i poeti sono strani viandanti che, per loro esclusivo diletto, non disdegnano scorciatoie che li conducono fuori strada, verso assolati e ordinari ristori, dove non riescono a rintracciare nemmeno l’impronta di sé e l’umanità l’hanno lasciata dietro, per non avere l’obbligo di parlarle. La poesia sta nelle pieghe dell’umanità, grazie a cui parla e vive e con lei solca l’andirivieni del tempo: mano nella mano, danno conto delle loro parole. Nella carne dell’umanità, tempo e poesia trovano germogli; nel cuore della poesia pulsano il tempo e l’umanità: al mondo, ogni persona è l’umanità e ogni poesia ne è figlia legittima. Questi crinali di ascesa sono stati accuratamente ostruiti dalla diffusione di cataloghi che hanno narrato in dettaglio il distacco della poesia dall’umanità e dell’umanità dalla poesia. L’umanità è stata liofilizzata in scenografie caleidoscopiche, mentre è il protagonista necessario, con tutti i volti, i nomi e le storie che l’affollano e frammentano. | 48 | Sciolti dal peso Nei nostri occhi non c’è il mondo, ma le immagini che di esso ricordiamo e inventiamo. Il mondo è l’anima e il corpo primordiali che trasciniamo da millenni, dal buio alla luce e di nuovo al buio e così all’infinito, con una successione di mutamenti, nel cui grembo giace sempre il progetto disinibito di assuefazione della natura selvaggia al movimento di controllo circolare che ha il compito di accreditarci come natura benevola che detiene e umanizza il tempo. Nessuno sa quali siano i motivi dei sommovimenti che ci scuotono ed è vano ricercarli: sono il cono oscuro del cosmo e l’indistinto della vita, così come sulla terra li conosciamo. Siamo i veri esseri primitivi. La natura non colpisce, per la mania di sopraffare: è spiazzata e messa regolarmente in crisi dal caos che le preesiste e non può domare. La sua armonia è una favola che a lungo ci siamo raccontati, al pari di quella che ancora recitiamo intorno alla sua crudeltà inumana. | 49 | A furia di voler diradare l’ombra, siamo diventati cacciatori che fanno della vita la loro preda. La materia naturale non è più malvagia di quella spirituale: entrambe si combattono e si accordano, non sempre per il meglio. Sovente alzano insieme inferriate davanti a strade e porte, rimpicciolendo se stesse e il mondo, fin negli interstizi di ogni cosa, da cui si leva non raccolto un disperato canto di libertà. L’angoscia umana è una scialuppa tra i marosi del limite, ma la sconfinata libertà dell’esistere realizza la servitù fuori misura di tutti gli ordini materiali e spirituali, stipando tutto nel deposito dove materia e spirito si brutalizzano a vicenda, infedeli alla regola cosmica primaria. Che è quella di cercarsi e concedersi, continuando a scontrarsi e camminare negli spazi del darsi a sé e al mondo, nel tempo concesso e definitivamente sciolti dal peso dell’ambizione alla vita eterna, per sé e le proprie opere. È il tempo umano a dichiarare il valore dei parlanti e di ogni altra cosa: poche volte è giusto; bisogna ripercorrerlo sempre, per smentirlo con senso di giustizia. | 50 | IV MINIATURE (maggio 2018) Segni Abbiamo fatto innumerevoli giri intorno agli assi della terra, per non solcare mai le orbite che aprono le porte del cielo, sopra, intorno e sotto la sua volta. Quando ci siamo decisi a ricondurre il cielo nei nostri accampamenti, abbattendo antichi sbarramenti, lo abbiamo fatto strisciare sotto i nostri piedi, accecando i nostri destini. Siamo poco più di una strabica solitudine del cosmo e abbiamo avuto il grave difetto di scolpire domini con la cupidigia della forza e nella melma di dizionari senza vita. Ricambiando veramente la tenerezza di ciò che è e di ciò che non è, costruiamo passerelle per attraversare da sponda a sponda gli universi che abbiamo deriso e disonorato senza imbarazzo. L’indicibile e l’invisibile li abbiamo cancellati dall’orizzonte e tutti i giorni ci affanniamo a rimasticare le reticenze di sempre. La terribile bellezza di finito e infinito l’abbiamo a stento intravista e tuttavia siamo stati capaci di deturparla con insolente frivolezza. Silenziosamente e inesorabilmente, il tempo ci sconfigge tutte le volte | 52 | che lo mettiamo davanti a un plotone di esecuzione, con cui invece eseguiamo la nostra condanna a morte. Non facciamo più promesse, perché non leggiamo i segni delle speranze del tempo. Preferiamo un quieto vivere, lontano dal riverbero delle dimore da cui stiamo ancora scappando, per non assaggiare la felicità che regge e modifica le vite, camminando oltre l’ignoto. | 53 | Ogni giorno Non v’è mai stata una forza titanica, capace di sottrarci al falso e ad essa non abbiamo mai creduto. Faceva parte del copione che siamo sempre stati chiamati a recitare, per illuderci di contare qualcosa in questo mondo, senza mai impegnarci in esso, con passione e innamoramento. Baldanza giovanile e saggezza canuta non ci hanno mai salvato. Ognuna ha lottato contro l’altra e nella lotta poco alla volta ha fatalmente perso se stessa, avvolta in capelli bianchi, persi strada facendo. L’elisir della giovinezza è forza che mai abbiamo veramente amato, ma sempre maneggiato, per sopravvivere a noi stessi, anziché vivere in fraternità nel cosmo, dismettendo le inclementi abitudini che ci siamo imposti. Stare al mondo non è un semplice fornire risposte o inoltrare domande. Chiedere al mondo è sfuggirgli, rispondergli è sfuggirsi. Ogni giorno è il giorno della fine del domandare e del rispondere con cui ci nascondiamo; | 54 | nascondendo. Ogni giorno è il giorno dell’uscita dai nascondigli che abbiamo seminato in noi stessi e intorno a noi. Ogni giorno è il giorno di scrollarsi di dosso le fantasie addomesticate create apposta per ognuno di noi. Ogni giorno è quello buono, per soggiornare con perizia e coraggio in ciò che non abbiamo nemmeno osato vedere e sentire, per paura di lasciarci conquistare dalla bellezza fuori controllo che spazza via la sterilità del nostro patire. | 55 | Il mattino Sotto il velo del silenzio ristagnano tutte le parole pensate e dette, non dette e non pensate, quelle inventate e che inventeremo. Le dimenticheremo tutte quante, per continuare il nostro assedio al silenzio, all’ombra e alle parole, asportandone la luce, di cui facciamo volentieri a meno. Non c’è giustizia nel cosmo che dipenda dagli umani. È un principio virtuoso e una fortuna, altrimenti essi, col loro mondo, avrebbero annichilito tutti gli universi con cui il tempo, senza alterigia, li chiama a dialogare, per salvarli dal niente con cui hanno farcito la vita e la morte. Niente affatto fiduciosi, il cielo e la terra restano in attesa degli umani, ai quali sempre concedono il tempo della speranza che renda giustizia al mondo e felicità alle creature, travagliate dal dolore e dalle ansie, di cui portano un peso che comincia con la loro preistoria. Umanità dilacerate hanno accerchiato cielo e terra, contendendoseli con le parole del mito e gli atti della forza, per frantumare gli anelli con cui | 56 | si celebra il matrimonio quotidiano tra le nostre dimore terrene e le volte dell’infinito che di noi si prendono cura e di cui siamo eterni debitori insolventi. L’eccesso di paura per lo sconfinato ci ha frenato e ancora ci frena. Per poterci ingannare meglio, lo abbiamo mimetizzato, inventandoci la nostalgia della purezza che, invece che da culla, ci ha fatto da tomba partoriente inferni epocali, con cui non abbiamo ancora imparato a fare bene i conti. Il mattino del cuore, pur sempre giovane, è saggio dall’alba al tramonto e anche quando si dispera non cede ai colpi del dolore, ma li sonda per scoprirne il nettare che nutre la felicità non ereditata che sta a noi conquistare, per continuare la vita. | 57 | Eredità Dall’infanzia alla morte e oltre, siamo istruiti al culto della forza che sta lì ad aspettarci ben prima della nostra nascita, nella certezza di fare di noi un solo boccone. Dall’alba dei tempi, abbiamo finto di chiederci come questo sia potuto accadere, rispondendo con una menzogna, peggiore di tutte le finzioni: siamo nati puri, ma natura e mondo ci hanno reso malvagi. La verità è elementare: siamo quello che da sempre siamo, perché l’abbiamo fortemente voluto. Essere quello che mai siamo stati è la speranza che ci spinge verso un destino amorevole che forse non meritiamo, ma siamo chiamati a spargerne i semi. Non l’abbiamo mai accettato, ma siamo stati prenotati, per fare uso di differenti parole ed entrare in dialogo con chi ci ha preceduto e chi, dopo di noi, vedrà altri orizzonti. Nessuno, tra noi e loro, saprà mai cosa è in attesa e cosa sarà deciso. Una piegatura del tempo e dello spazio non scandita dalla forza è l’eredità | 58 | a cui abbiamo rinunciato, diffidando dei suoi avvisi e agganciando le lusinghe che ci rendevano incolpevoli e pronti a comprimere il mondo nello sguardo arcigno della mente. Abbiamo proposto all’innocenza che non teme di camminare nel fango di venire a patti con noi, cercando di venderle un pugno di mosche che si è rivelato l’infausto destino che ci stavamo riservando. Quello che non meritiamo e che abbiamo da trovare sta in quelle faglie del tempo, di cui siamo eredi recalcitranti, inebriati da sortilegi che assicuravano ripari sicuri, rivelatisi bunker pronti ad esplodere. Abbiamo rinunciato all’eredità del nascere e lasciar nascere, ricusando di salire le volte del cielo e scendere nei sottoscala dell’umanità, dove nessun passo e nessun battito del cuore può essere ciò che era fino all’attimo precedente. Questa è la colpa originaria mai rivisitata, ma custodita con scellerata fierezza sul precipizio dove abbiamo messo in bilico i nostri tormentati destini. | 59 | Il pianto Il pianto è arena di guerra strappata all’amore, ma può essere sorgente che l’amore porta via alla guerra. Nelle lacrime, guerra e amore si fronteggiano senza risparmio. Non raramente l’amore si rifugia nella guerra, per non fare i conti con ciò che lo ispira. La guerra non è da meno e non ha remore a scavare trincee nelle retrovie dell’amore. Nel cercarsi, guerra e amore tentano di distruggersi a vicenda. Se non riconosceranno la loro comune origine, non potranno mai svelarsi per quello che sono diventati. Ormai sono ridotti a frazioni di un tempo spezzato che hanno diviso in due emisferi e di ognuno ambiscono essere sovrani incontrastati. Nel tempo spezzato, il pianto non può riallacciarsi all’essenziale che abbiamo bandito, per scordarci che le lacrime conducono alle vie del sorriso. Chi fa fronte comune con la guerra annacqua il cuore, | 60 | per annegare nel pianto. Ci sono paesaggi del pianto che non sono contrasto o acquiescenza, ma sporgenze su cui arrampicarsi, per avviarsi su piattaforme precarie tra gole profonde che non avremmo mai osato visitare. Il pianto ci guida perfino nella traversata del deserto. Per lui, ogni luogo è dimora e transito di quel refrigerio dell’anima che non barcolla tra gioia e dolore, ma ne trattiene l’indivisibilità. Se ne abbiamo cura, il pianto è una vertigine che ci libera dal dolore che opprime e dalla gioia che indurisce i sentimenti. | 61 | Passanti Le esultanze degli inizi sfocano presto nella nebbia dentro cui sono scagliate le luci che abbiamo a fatica acceso. È segno che dobbiamo ricominciare daccapo e inaugurare nuove stagioni. L’esultanza non si scoraggia e non fa marcia indietro, di fronte alle prove difficili contro cui le capita di imbattersi. Viene a capo dei suoi limiti, ma siamo purtroppo noi i passanti con cui deve andare in cammino. Siamo passanti che non passano. Fermi su un tapis roulant, mimiamo un movimento che scorre per immobilizzarci definitivamente. Filmiamo la corsa dell’insignificanza, per convincerci dell’eternità del nulla che ci sfreccia accanto. Per coltivare un’illusione di verità, abbiamo assegnato soltanto agli Dèi e agli Eroi un inizio e una fine. Il resto, senza alcuna eccezione, è stato privato di storia. L’esultanza non poteva che appassire e ora addirittura ci atterrisce. Spogliati dell’esultanza, siamo passanti che si divertono | 62 | ad allevare cannibali e trasformare la storia nel puro scherzo di un destino che rinchiude mondo e umanità nel recinto dello spaccio delle verità. Nemmeno agli inizi che fanno semplici le cose l’esultanza si inorgoglisce delle sue fiammate e non le coltiva come illusioni di altri tempi. È partecipe del vero e del falso ed entrambi le possono offuscare la vista. Nel vero e nel falso si è partecipi del mondo assegnatoci, nel quale le speranze sono le strade che aprono il tempo, senza adularlo o inchiodarlo alla croce: lo frequentano con animo quieto e spirito esigente, sapendo di esserne intima parte. Siamo passanti stravolti che dobbiamo avanzare nel turbamento, senza pretendere primogeniture o ultimogeniture: il nostro inizio e la nostra fine li mettiamo in colloquio ogni giorno che la storia ci ha affidato. Siamo passanti che passano e che del passare fanno il loro soggiornare e cambiare, perforando i mantelli di nebbia con i quali ci siamo avvolti, dando mostra di non accorgercene. | 63 | Orfani Le albe in cui il terribile alleggia sono quelle da cui ci siamo meticolosamente assentati, continuando come se niente stesse accadendo o potesse alterare gli equilibri immaginari, architettati per trascurare il tempo e mollarlo nelle mani di amplessi voraci. Ogni attimo il tempo è azzannato e divorato, per essere vomitato come inerte materia sottoposta alle leggi della caducità umana. Fatica vana e sventurata: come il cosmo, il tempo è immortale e non si fa sedurre dalle arti dell’ingratitudine umana. Cammina spedito, prendendosi cura dell’incurabile. Con il tempo abbiamo ingaggiato da sempre un conflitto rude, perché è il limite insuperabile che ci impedisce per l’eternità di essere i padroni del cosmo. Sfiguriamo epoche e dimore; ma non possiamo corrompere il tempo e il cosmo, anche se volessimo portare a compimento il suicido dell’umanità. Senza di noi tutto continuerà e non sapremo mai come; e nemmeno sapremo come tutto avrebbe potuto essere per noi, | 64 | avendo sonnecchiato durante le albe in cui il terribile si affacciava dalle torri del tempo. La nostra furia è pari solo alla cieca infelicità, a cui ci siamo condannati. Il tempo e il cosmo non potranno mai essere nostri orfani; mentre noi abbiamo vissuto come se di loro fossimo orfani da sempre. Non potendo comandarli, non ci stanchiamo di tentare inutilmente di sopprimerli, recitando la parte di titani disperati. | 65 | L’errore Per dare tregua ai nostri giorni, non è d’aiuto respirare nei confini che ci sono stati concessi, per vivere secondo disposizioni che prescrivono ricette già sperimentate e mortalmente sature di infelicità. Un confine è un daccapo che non scopriremo mai, se non lo valichiamo, muovendo verso un altro daccapo, nell’arco breve degli sparsi confini accordatici dal sensibile tempo. Imbattersi nella mortale infelicità è il rompicapo necessario contro cui urtiamo nei nostri tortuosi sentieri, per ritrovare l’accesso all’aria pulita lasciata incustodita dentro di noi e imbavagliata fuori. La mortale infelicità è l’errore che simula a rovescio l’ebbrezza di vivere, illudendoci di essere vivi nell’unico modo ancora possibile e ancora ribelle. L’illusione è il varco che si apre al nostro passaggio, se facciamo ritorno all’errore e ripartiamo volgendogli le spalle, lasciando per strada la zavorra delle ossessioni con cui avevamo cercato di sterilizzare il tempo, | 66 | i suoi confini e i suoi daccapo. La verità non esilia l’errore, ma lo fende: è il suo inamovibile punto di partenza e di ritorno. L’errore è il compagno fedele e inseparabile della verità. La convince a dubitare, mantenendola cristallina come acqua di sorgente che si rovescia a valle, disponendo ai margini il fango. L’errore ci fa paura e lo cancelliamo, per manomettere le verità che il tempo recapita. | 67 | L’oltraggio e la scelta È possibile perdere anche quello che non si ha, se abbiamo impedito il suo nascere, per paura, superficialità o crudeltà. Ciò che di noi non abbiamo lasciato vivere è la perdita più infausta che possa capitare al destino di un umano. Perdiamo il tempo e nel tempo gettiamo via tutto quello che non abbiamo osato vivere, nonostante fosse in transito sotto i nostri occhi e in ogni strada. L’oltraggio alla felicità del mondo installa le tagliole dell’infelicità, dimenandosi in eterno in questo labirinto stregato. Duriamo un batter di ciglia del tempo e con quel battito rivendichiamo il dominio assoluto sull’esistente e l’inesistente. Il tempo non serba rancore e ricordo alcuno di noi, se non l’ingorda e ottusa follia con cui lo ripaghiamo con costanza. L’oltraggio è un’offesa lanciata contro il mondo e una diffida notificata ai viventi, affinché non interferiscano con lo svolgimento della storia, con cura predisposto e messo in azione. Ma il caso si vendica stabilmente: | 68 | precipita nel caos i piani preordinati, rendendone note le intime cecità e maniacali crudeltà. Fare del male non è scindibile dal male arrecato a se stessi. Causiamo il male del mondo e di tutti coloro che lo abitano, ogni volta che incliniamo verso l’oltraggio e siamo riluttanti ad assumerne la paternità. Dileguiamo nel tempo che non trattiene memoria viva del nostro cammino, se non le tracce del furioso agire con cui l’abbiamo martoriato. Non c’è scelta, fuori dall’appassionato e risoluto addio all’oltraggio. | 69 | Rispetto In genere, la morte ci coglie morti, non solo perché ormai vecchi. La vita cominciamo a svuotarla in gioventù, quanto meno le prestiamo rispetto. Non è il tempo che ci consuma, ma siamo noi a uccidere il tempo, con una soddisfazione masochistica che scambiamo per la glorificazione delle ceneri della nostra mortalità. E tuttavia vecchiaia e gioventù possono prolungare la vita fino all’ultimo degli istanti, conservandola come dono nei futuri del tempo itinerante. A patto che del rispetto riusciamo ad avere cura essenziale, assieme a coloro tra i quali abbiamo vissuto, sofferto, gioito ed errato, non lesinando energie. Non è accorto scavalcare la rettitudine dei tempi, arrecando ingiustizia a ciò che ha impiegato millenni per stratificarsi in equilibrio mutevole nel cosmo. La fretta in agguato ad ogni curva ci svia per scorciatoie che falliscono tutte le mete, impantanandoci in ricorrenti inizi collerici. Lasciarsi tirare in direzioni contrarie | 70 | al giusto che ci conforma, è la sciagura delle sciagure. Ci fa tradire il meglio e assecondare il peggio, mancando di rispetto a noi stessi, agli altri e al mondo. Ed è questa sciagura che, dall’origine del tempo, gli umani hanno trasformato in vita quotidiana. Abbiamo da scavare davanti e dietro di noi la strada di una vita più giusta del cedevole giusto che ci abita, perché non è stato sufficiente ad andare più in là di quello che già eravamo e di quello che non volevamo essere. Nell’errore stanno le risposte per il dimorare del rispetto. | 71 | INDICE I GLI ABBANDONATI (ottobre 2017) Agli abbandonati Squarciare Variazioni di luce L’abbandono Castigo Un’acconcia menzogna Non sappiamo niente Orchestrare silenzi Viaggi impossibili Realistico p. 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 II IL NUDO ESISTERE (marzo-aprile 2018) E dappertutto La storia Esilio L’umanità La libertà Nell’infinito Le parole Sabbie mobili Tribunali La giustizia Le leve Controfigure Il silenzio Appartenersi La gratitudine 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 III TRAIETTORIE (aprile 2018) Nei libri L’ostacolo Archeologie capovolte Timidi spiragli Le risposte La poesia Arsura Girandole Porta universale Resurrezione Il cerchio e le catene A quel bivio Figli stranieri Il protagonista necessario Sciolti dal peso 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 45 47 48 49 IV MINIATURE (maggio 2018) Segni Ogni giorno Il mattino Eredità Il pianto Passanti Orfani L’errore L’oltraggio e la scelta Rispetto 52 54 56 58 60 62 64 66 68 70 Pubblicato maggio 2018