Verso
Antonio Chiocchi
Fiotti di luce
COPYRIGHT © BY ZIGZAGANDO
BIELLA
1ª edizione maggio 2018
ANTONIO CHIOCCHI
FIOTTI DI LUCE
POESIE 2017-2018
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I
GLI ABBANDONATI
(ottobre 2017)
Agli abbandonati
Agli abbandonati.
In particolare a chi non percorre
le strade della lingua e della voce
e che dell’anima reca impronte sognanti
non stupendosi di scoprire
che le persone normali sono tra i clienti
più assidui dell’immoralità.
| 5 |
Squarciare
Il silenzio delle pressioni interiori
vaga alla ricerca di uno spiraglio
perché ci si dona fuori da lingua e parola.
Tutti restiamo muti e sordi nei cunicoli
dentro cui siamo interrati.
Spingerci verso un Io universale
ci separa dai Tu dalle geografie mutevoli
e dalle infinite anime
dentro cui soffia il nostro stesso respiro.
In dialogo e in ascolto
seguire la spinta
che squarcia i tunnel del silenzio
e alimenta la luce di tutti.
| 6 |
Variazioni di luce
Le chiusure di lingua e parola
sono variazioni di luce
attive o disattive.
Chiusure pacifiche o bellicose
sventate o meticolose
ma risucchiate dal nostro Io blindato.
L’intensità della luce
è preghiera in ascolto
tra il sacro e il profano
pronta a farsi da parte
non appena è illuminata dalla vita.
Le preghiere in ascolto
cercano per sé nuovi posti
nella luce e in noi.
| 7 |
L’abbandono
Il sostegno al mondo cade
ogni volta che non si scongiura
il crollo di uno solo
a cui si voltano le spalle
incolpandolo del nostro mancato essere.
Tutt’al più concediamo elemosine
e a volte nemmeno quelle
per sentirci incolpevoli o forse perfetti.
L’abbandono è una prova di forza
che morde la carne degli altri
godendo del loro dolore
e non osa confessarlo.
| 8 |
Castigo
Sorvoliamo la disperazione
senza gettare a fondo lo sguardo
sulla sofferenza che mutila
la vita intorno a noi
perché crediamo che sia il giusto castigo
inflitto all’umanità per le sue colpe.
Siamo grati a un non misericordioso Dio
che ci siamo inventati su misura
per non aver castigato noi.
Ingrossiamo le schiere degli estinti viventi
illusi di aver scansato il dolore
perché ad altri e non a noi
è stato assegnato come pena
il mormorio farfugliante
dell’assenza di lingua e parola.
Ci sentiamo prescelti
e gli altri non sono che derelitti.
Abbiamo trovato i corpi
su cui far gravare il destino della colpa.
| 9 |
Un’acconcia menzogna
Possiamo spiegare il mondo
dandogli il nome
di tripudio del senso della morte?
Quando la vita chiama e richiama proprio
dagli infiniti silenzi delle sofferenze
che abbiamo abbandonato a se stesse?
Tenerezza e amore sono in affanno
ma non siamo ancora
indemoniati costruttori di morte
senza vie di scampo.
Certamente
senza andare per il sottile
abbiamo abbandonato
ad un destino di morte
chi ha avuto la sventura
di nascere per vedere la luce
e non poterla mai raccontare.
Non soddisfatti
li martoriamo per giustificare
col loro supplizio
la nostra impotenza vivente.
Nessuna sorpresa allora?
Saremmo tutti già morti?
Già tutti fantasmi impietriti
senza alcuna memoria?
È un’acconcia menzogna
sostenere che solo la morte
è realmente esistente
per avvolgerci esultante.
| 10 |
Non sappiamo niente
Apocalissi quotidiane abitano
il silenzio che divora il tempo della parola
rendendolo una paccottiglia
da cui non si odono più voci
e non si distinguono più volti.
Nemmeno le vediamo queste apocalissi
e tuttavia sono rese ombre
ai nostri occhi e ai nostri cuori
le vite in esse custodite
e di cui è stato cancellato il valore.
Non sappiamo niente
dei cuori spezzati che ci attorniano
delle vite infrante che ci passano accanto
dei corpi senza voce
che lasciamo parlare a vuoto
in una solitudine che li demolisce
lì all’altro lato dell’asfalto
o all’altro capo del mondo.
Non sappiamo niente
e niente vogliamo sapere
ma è ancora possibile apprendere
lungo vie lastricate da solitudini parlanti
sfiorate dalla luce.
| 11 |
Orchestrare silenzi
Orchestrando silenzi
non si sa dove si può arrivare
ma in luoghi certo migliori di questi
dove senza parlare
è possibile intendersi
e senza gambe camminare
e senza braccia stringersi al petto.
La sventura è lo spartito
su cui le note cercano spazio
ma non soddisfatte di sé
vanno a caccia di vibrazioni
che scuotano l’anima
e la generosità del pensiero.
Le parole ci sono d’aiuto
quando espandono i cuori.
Se diventano carne
non sono sostituibili
anche quando non sono intese
perché sono il soffio
in cui respirano cielo e terra.
| 12 |
Viaggi impossibili
Un’inebriante rincorsa contro
la liturgia delle parole
ci può far rovesciare
tutti i sensi della misura
e la misura stessa del senso.
C’è altro
dentro e oltre il senso
e in questo altro
sventurati e abbandonati già vivono
il nostro aldiquà e aldilà.
Ripudiati
hanno varcato da soli
le soglie dell’umano
parlando lingue
a cui noi non siamo inclini.
Con la loro sofferenza
narrano l’impossibile dalle stanze
dentro cui li abbiamo rinchiusi.
Loro tentano viaggi impossibili
noi arretriamo
spaventati perfino dal possibile.
| 13 |
Realistico
La fibra dei sentimenti
si sfilaccia facilmente
e quando non si smaglia
è corrosa dai batteri del tempo
che inacidiscono lingua e parola.
Davanti ai caduti
precipitiamo ancora più in basso
scostandoli con fastidio e disprezzo
ingoiando veleni quotidiani
come se fossero pura acqua di sorgente.
Siamo a digiuno in quanto a umanità
eppure è proprio l’umanità dei caduti
che ci interroga e sopravanza
recando con sé il calvario e le barriere
di cui deve sostenere il carico.
Abitiamo retrovie
che sono roccaforti della dimenticanza.
È più realistico immaginare
che i caduti rialzino noi
che noi i caduti
tanto irrisorie sono ormai
le nostre peripezie
che non si elevano di un millimetro
dal pantano in cui sguazzano.
| 14 |
II
IL NUDO ESISTERE
(marzo 2018)
E dappertutto
Inciampi di parole
e saturazioni di vuoto frastornante
scaricati con un rovescio da pugile
su coaguli di sangue sparsi
su un suolo muto
segretamente minato
da un estremo all’altro della terra.
E dappertutto il buio è brancolante.
L’atlante dell’impensabile riordina
le caselle dell’alfabeto,
per ritrovare il cammino
nei cui impervi tornanti
si celano i fili conduttori
delle parole e del linguaggio
ai piedi della gentilezza.
E dappertutto il vivere cerca casa.
| 16 |
La storia
La storia che partorisce comandi
arpiona i suoi confini
e li saccheggia,
dipanandone la pura estensione
con cui aggroviglia l’esistere
sulla griglia rovente del pericolo
che non lascia scampo pietoso
ai pensieri soggiogati
e ai passi irresoluti
che la sfamano.
Il pericolo impasta
corpi, turbamenti, paure e ansie
una e infinite volte,
alterandone i connotati,
ma non è detto che li renda
la preda perenne della storia,
perché può intenerirli e scuoterli,
facendo loro schivare
la presa eterna delle assegnazioni
ed esortandoli alla virtuosa protesta.
| 17 |
Esilio
Il vuoto del mondo ama mostrarsi
con le sembianze di segni oscuri,
sotto i quali siamo soliti
celare la nostra aridità,
ma mute parole e fiotti di luce
ci fanno di nuovo balzare
dalle viscere della terra.
L’umanità è più che altro
un mondo che non sa parlare
e tutte le volte che lo fa
cerca di raggirare la verità,
perché è restia a interrogarsi
sui silenzi e le assenze
dentro cui esilia le sue malattie.
L’esilio è l’ombra della luce,
qualunque sia il posto
che gli è stato assegnato
e dovunque siano gli istanti
che il peregrinare della vita
gli ha lasciato in custodia
sugli orli del tempo.
| 18 |
L’umanità
Il cielo interiore è sfrondato
dai giorni e dalle notti
che passano senza sconfinare
in un nuovo punto di contatto,
dove il teatro della vita non è più
l’appiattito specchio del mondo
e l’energia non è più l’erezione
che con il granito della sua volontà
dà sepoltura all’esistere,
assorbendone l’anima pensante.
L’intero volume del mondo
assopisce e concentra i segreti,
tenendoli l’un l’altro a distanza
persino nelle prossimità più intime
capovolte in brusii malfermi,
con cui le parole duplicano mutismi
che marchiano con indifferenza
il raggomitolarsi delle ore.
Nello svolgersi del tempo eterno
l’umanità è un'invenzione recente,
uno sconclusionato agitare di ali
che risucchia e macina in mulinelli
il difforme che l’inquieta e le si frappone
dentro e fuori, senza venirne a capo,
perché la sua malattia è un ordine
che agita il cappio delle convenienze
per curare il male del vivere,
profittandone e radicandolo.
| 19 |
La libertà
l bagliori delle geometrie dei frammenti
scompaginano lo spazio e il tempo
e le lacerazioni si divertono
a farsi beffa di tutte le configurazioni
che si ostinano a picchettare
la superficie quieta delle cose,
opponendo il contrassegno dell’ovvio
alle profondità della dedizione.
Il mondo contrassegnato
ruota sempre a contrario
e suo è il desiderio di invertire
senso e freccia del tempo.
Il mosaico degli appuntamenti
è ridotto a un’insignificante
impossibilità e i contrasti amorevoli
sono falciati dall’eccesso
della misura che detta i titoli
al linguaggio e alle parole,
allineando la loro infinita ricchezza
in partiture esangui e ristagnanti
che moltiplicano fratture
nei cieli della libertà,
condannandola ad essere
universo oscuro non rischiarato.
Libertà,
una dimensione sconosciuta e straniera:
occorre continuamente esplorarla,
anziché continuamente insegnarla.
Di lei mai niente sappiamo,
ma senza di lei non siamo niente.
| 20 |
Nell’infinito
Nell’infinito
nomi ed esseri non si disperdono,
ma serbano le loro vite,
penetrandosi tra di loro
oltre i confini delle corrispondenze,
a cui il ripiegare del mondo
intende incollarli.
Nell’infinito
i limiti del mondo non sono del mondo,
ma di chi vuole disarcionarlo
dai destrieri che gli sono stati donati
per solcare mari, terre e cieli,
ricongiungendo confini mai valicati
e dando il via a nuove rotte.
Nell’infinito
la danza dei segni e dei nomi
non è mai chiusa, ma riaperta
al sorgere del sole e la notte
sogna la magia dei giorni a venire
dove la meraviglia
ha il rigore della scoperta.
Nell’infinito
i tempi favorevoli si riaffacciano
dall’uscio dove erano già passati
e nomi ed esseri rientrano
in casa a danzare: è l’infinito
la danza che risolve l’enigma,
ma solo per rinnovarlo.
| 21 |
Le parole
Le parole presentano il mondo
come una collezione dispersiva,
trapuntata da segni viventi
che è ingenuo deporre
ai piedi del linguaggio
che infila subito la toga
dei verdetti inappellabili.
La loro orbita è incontenibile
e stana i bluff del linguaggio,
le sue incoerenze e la sua mania
di tenere in pugno il mondo,
come un comandamento profano
che disciplina legge e destino,
incurante delle sofferenze sparse.
Voler rendere inalterabili
le storie e i significati
è impresa che si dibatte
in contorcimenti che alle parole
e alla lingua strappano l’anima,
affossandola in sottosuoli
ricolmi di strazio.
L’anima delle parole ci separa
dal mondo così come appare
e ce lo fa di nuovo visitare,
come se fosse la prima volta
di innumerevoli volte ed è così
che le parole ci toccano l’anima
e la fanno parlare senza parole.
| 22 |
Sabbie mobili
Il cronometro dei tormenti
attrae le lacerazioni del tempo,
cicatrizzate nel penare dell’esistere,
per scansare il magistero di vita e morte,
tentando vanamente di disinnescarne
le verità imperscrutabili riflesse
nello specchio delle umane incertezze.
Le incertezze che si infilano
nel sudario del nostro vivere
evocano riordinamenti del possibile
ai cui richiami non rispondiamo,
preferendo le sabbie mobili
delle svogliatezze gratificanti
in cui inavvertitamente sprofondiamo.
Le sabbie mobili costruiscono
il diritto come loro rifugio sotterraneo,
per farci dimentichi di noi stessi
e accusatori implacabili del mondo,
nell’illusione di purificare le nostre colpe,
mentre ci vendichiamo della nostra vita,
senza nemmeno comprenderlo.
Quando l’angelo della vendetta chiama,
non bisogna accorrere,
se si vuole riassaggiare l’aria libera,
fuori dal cappio delle sabbie mobili.
| 23 |
Tribunali
Fuggevole tempo sosta nella vita
il dolore dell’altrui morte,
mentre senza soste l’ira dell’anima
trafigge il tempo come una spada
affilata dentro il suo cuore
e tribunali non vi sono
per questi crimini.
La giustizia non è materia
per tribunali nelle cui mani
è inerte forma
sagomata come la creta
e come la creta
continuamente istigata
a cambiare padrone.
I tribunali bendano la giustizia
e la maltrattano,
privandola dei suoi perni
e affogandola nelle scartoffie,
mentre le loro cronologie affondano
i colpi nelle virtù che hanno deriso
in tutto il corso dei tempi.
Entrando in amicizia con i tribunali,
ci si affaccia sull’abisso del tempo,
dove i dolori dell’anima e dell’amore
sono triturati con il compiacimento di chi,
appena uscito dallo sciame
delle menzogne più abiette,
si reputa sostegno del giusto.
| 24 |
La giustizia
Mai la giustizia è stata cara
all’epoca che l’ha distolta dalla verità,
ma è sempre prescelta dai tempi
che non la recano in grembo
come sanatoria dei mali del destino,
perché sanno che la sua inattualità
è traccia del cammino da fare.
La regolarità dell’ingiustizia
rende non comuni la giustizia
e le traiettorie dei suoi sentimenti
che risalgono le rapide e le rocce
del possibile che ci portiamo dentro
e che ci resta da incontrare fuori,
nei domani barricati nell’oggi.
L’inganno e l’ipocrisia allungano
i loro artigli sulla giustizia,
quando i suoi sentimenti
si lasciano disfare
e diventano ordigni ad orologeria,
essenziali all’intrigo che li fa ciechi,
di fronte alla bellezza dei deboli.
L’impossibile della giustizia
è il possibile messo in gabbia
— destino disumano,
attribuito di imperio
ad un’umanità affranta
che urla, mai doma,
il suo desiderio di felicità.
| 25 |
Le leve
Quanti Olocausti dovranno ancora
tingere di fumo nero cielo e terra,
da qui all’eternità,
prima che lo sterminio cessi di essere
lo strumento con cui la civiltà
tiene i suoi conti e scaglia la storia
da un abisso all’altro del tempo?
Quanti Dei assetati dovranno ancora
bere sangue umano,
da qui all’eternità,
prima che la cenere delle rovine
cessi di essere il filmato
del punto zero che tiene il bavaglio
al lievitare della vita?
Lo scempio che ci domina
ha il calco dell’imperforabilità,
non concede tregua e respiro
e l’oscurità sembra aver preso
risolutivamente possesso
dei fasci di luce che a sprazzi
abbiamo provato ad espandere.
I sentimenti sono leve
che possono mandare in frantumi
le geografie sepolcrali disseminate
da ogni singolo Olocausto,
se scaliamo l’abisso e restituiamo
ai raggi del sole mondi avviati
all’estinzione con rara crudeltà.
L’Olocausto può avere un termine,
domani o chissà quando o forse mai.
| 26 |
Controfigure
Posti sempre in un tempo vivo,
agiamo come predatori
abitanti il tempo morto,
a cui ci siamo consegnati
con una resa totale,
agghindandoci con i costumi di parata
dei conquistatori del tempo.
Il tempo ci spinge in avanti
e noi ripieghiamo all’indietro,
per mantenere un controllo
che in realtà mai abbiamo avuto
e mai potremo avere,
nonostante l’incitamento alla vanità
con cui siamo soliti demolire l’esistere.
Come padroni del tempo
siamo stati un fallimento perfetto.
Come residuo delle ore,
replichiamo esperimenti usurati
che inanellano con negligenza
una scadente prova di sé,
senza alcun imbarazzo.
Controfigure degli eventi,
ci lasciamo sedurre dalle ombre
e rifuggiamo il fulgore che chiede
il duro sforzo del cambiamento,
segregando il tempo
nel pugno di acciaio di un destino
convertito in impostura.
| 27 |
Il silenzio
Le parole appartengono al silenzio,
fino a gonfiargli il cuore,
facendolo uscire allo scoperto
con un semplice sguardo
che solca le tenebre
e straccia i confini.
Che le parole ci appartengano
più del silenzio
è una verità che sta con i piedi
appesi per aria,
mentre le mani sono in terra
a scavare altri cieli.
Non è il silenzio a trovare le parole,
sono le parole che trovano il silenzio
e si incamminano con lui,
senza svuotarlo e arricchendosi
di ciò che da sole
sono incapaci di trovare.
Le lingue che inventiamo non fanno
parlare il silenzio,
tutt’al più ci dispongono al suo ascolto,
restituendocene le parole mute
che abbiamo abiurato
e disperso in cielo e in terra.
Il silenzio è la lingua madre
che ogni giorno avveleniamo
e a cui, per questo, dobbiamo
ogni giorno far ritorno,
per rompere le fortificazioni
in cui abbiamo recintato la vita.
| 28 |
Appartenersi
A chi apparteniamo?
A ciò che già abbiamo?
A ciò che schiviamo?
Cosa abbiamo veramente?
E cosa ci sfugge in eterno?
Non apparteniamo a niente.
E tutto ci scivola via dalle mani.
Si vive non appartenendo,
nemmeno a se stessi.
Niente ci appartiene.
Tutto è nostro, nel non essere
mai nostro: è la fortuna di abitare
assieme a ciò che ci sfugge.
Perciò, possiamo essere liberi.
L’appartenersi vero è lo slancio
della non appartenenza
dei cuori e delle anime
che si incontrano e si parlano,
senza chiedersi perché,
ma inaugurando le loro scelte
ad ogni sequenza dell’attimo.
L’appartenersi segna il tempo
del vivere insieme,
in lotta con il vivere che accoglie
lungo binari morti,
terminale delle verità fittizie
che rapinano la vita
dalle nostre già sguarnite tasche.
| 29 |
La gratitudine
La gratitudine più congeniale
è quella che si esprime
con la sobrietà degli occhi
e il rigore degli atti,
per non farci dimentichi
dei paesaggi stellari
da cui essa proviene.
La gratitudine non è loquace;
lo è l’ingratitudine,
col suo continuo chiacchiericcio
ed elevarsi su liquami di vanagloria,
per non onorare i debiti contratti
nei confronti della generosità
che ha saccheggiato.
C’è una mitezza incrollabile
nella gratitudine e si aggira
con tenacia in ogni dove,
per illuminare con i suoi raggi
una semplice stretta di mano:
forse, per farsi perdonare
la sua abbondante penuria.
C’è una giustizia infinita
nella gratitudine e sta nel suo
perdonare incondizionatamente
gli ingrati che ridono di essa,
sguazzando nel fango
impastato a piene mani,
ma rimasto appiccicato ai loro abiti.
| 30 |
III
TRAIETTORIE
(aprile 2018)
Nei libri
Tra il linguaggio e la parola
sta la scrittura che sovente
si arrovella in incastri
di smentite e controsmentite,
pur di mantenere in piedi
i suoi palazzi cadenti,
ancorati ai ruderi dell’intrigo.
Scriviamo anche
per dare parola alla sentenza
che anticipa la condanna.
Poche volte siamo indulgenti,
non consentendo alla scrittura
di uscire dalla sua furia nevrotica,
le cui fauci ci danno il benvenuto.
È così che i libri hanno potuto
costruire e tramandare menzogne
che disperdono le parole vere
e disanimano il silenzio,
per farlo parlare sotto comando
e trasformarlo in una recita,
commissionata per ogni occasione.
Nei libri si cela la verità
che da essi evade
con un atto di ribellione
ed è questo il modo involontario
con cui essi la servono e diffondono,
fidando che linguaggio, parola e scrittura
tornino a frequentarsi.
| 32 |
L’ostacolo
Le parole non si ascoltano soltanto,
ma si celebrano nei cuori
e nelle menti,
fino a sapere che sono tutte vere
e tutte false.
Le parole sono in lotta contro
la menzogna in esse rintanata.
Non hanno leggi eterne da raccontare
e nemmeno orchi da scovare.
Davanti e dietro di sé hanno sentimenti
a cui concedersi, fuori dalle manovre
che ci vorrebbero indirizzare
lontano dalla carne e dal sangue
che ci fanno così imperfetti ed essenziali.
Non sono i cartografi del mondo,
ma particelle alla ricerca di ciò
che le ha rese e mantiene vive,
con cui stringere una comunione
che non abbia il ripensamento
degli amori che cedono
ai primi ostacoli.
Per essere vita,
le parole devono cessare
di essere l’ostacolo che pongono
davanti e dietro a se stesse.
| 33 |
Archeologie capovolte
Ciò che ritroviamo di noi e del mondo
con le nostre archeologie capovolte
— che ci seppelliscono,
anziché riportarci alla luce —
comprime i nostri sguardi
e congela i nostri cuori,
deposti in teche prive
di luce propria e trasportate
dalle nuvole nere dell’ira.
Le nostre archeologie capovolte
sotterrano le parti migliori
e riportano alla luce le peggiori,
in un profluvio di esortazioni
su come domare l’imprevisto curvarsi
delle linee dell’orizzonte,
per schiacciare l’animo
sulla piattezza infinita di una retta,
innamorata di sé e incurante del resto.
L’orizzonte della retta è
la parete che ci divide
da ciò che di più caro vive
non come una promessa,
ma come una realtà osteggiata,
stanca di fare la veglia al tempo
e di prorogare all’infinito
la sua risalita alla superficie,
dove scappatoie non ce ne sono.
| 34 |
Timidi spiragli
Se continuiamo a presumere di sapere,
limitandoci a intrecciare o sovrapporre
linguaggio a linguaggio,
rimarremo bloccati sulla linea retta
delle parole ultime,
prima ancora che abbia inizio
il suo dissennato tracciarsi.
Restano solo timidi spiragli
e individuarli non è agevole,
attraversarli è ancora più complicato,
mentre il futuro non chiede
di essere annunciato,
ma ci invita a scorgerlo
nelle sue forme già viventi.
Al di là del presente delle enunciazioni
e della grammatica, stentiamo a vedere
il futuro e perciò andiamo avanti
con interpretazioni che seduta stante
convertiamo in dimostrazioni
che cancellano il sapere vivo
e le possibilità del conoscere vero.
Le verità non eleggono come dimora
tempi futuri per discorsi presenti,
ma sono spiragli che già abitano
le nostre fatiche giornaliere,
nel loro dischiudersi alle primavere
che non restaurano il tempo
e non si accampano nel già detto.
| 35 |
Le risposte
L’esistente non è la messa in scena
di una difficoltà inaggirabile,
anche se va collezionando catastrofi
a ripetizione e dietro l’angolo
si profilano sempre quelle finali
che non lasciano scampo
nemmeno ai superstiti,
gettati in una storia sfigurata.
Da tempi immemorabili ci fregiamo
del titolo di civiltà superiore,
perché nell’accavallarsi dei secoli
siamo stati abituati ad insegnamenti
privati del senso del giusto
che hanno avuto l’ardire sfrontato
di trasferire l’umanità nell’ologramma
dell’insensatezza e dell’insignificanza.
L’insensatezza e l’insignificanza
ogni cosa concedono agli Dèi mortali
che tutto comandano con linguaggio,
parola, scrittura, scienza e legge,
facendoci sentire sgravati
dalla colpa e dalla responsabilità,
con dosi graduali di malefica crudeltà,
travestita da generosità di facciata.
La civiltà dei dominatori è l’esistente
a cui dobbiamo risposte,
venendo fuori dalle armature
del calcolo dell’insensatezza
dentro cui ci hanno posteggiato:
non resta che giocare sempre,
ma non su tavoli già apparecchiati.
| 36 |
La poesia
La poesia fa saltare le descrizioni
che loro malgrado inalberano
le insegne di figli disubbidienti,
sbandierate sotto le mentite spoglie
di un nonsenso compiacente e inerte
che fiaccamente interra parole e silenzi
sotto la cenere magmatica della morte.
La poesia non penetra i silenzi,
ma se ne lascia penetrare,
articolando con loro
parole non ancora pronunciate
e vivendo silenzi
che non avevano mai visto l’alba,
al cui sole poi si riscalda e splende.
La poesia vive nell’indescrivibile
e nell’inenarrabile,
svelando le logiche minuziose
dell’insensatezza e dell’insignificanza,
di fronte a cui non indietreggia
e nemmeno tace,
ma ne estrae l’anima parlante.
La poesia è ascolto e parola
dell’arte del vivere e del patire,
insidia che sfugge alle insidie
e ritorna sempre agli inizi,
per percorrere strade mai fatte prima,
lasciandosi guidare dal tumulto
mai chiaro delle prove sostenute.
| 37 |
Arsura
Rimanendo in eterno
nel solco delle cose già fatte e dette,
niente si fa e si dice
e l’ardore scompare,
smarrendosi in un tempo assente,
mai pensato e mai vissuto,
chiuso nella sua uniformità incurabile.
Il sole morente rinasce ogni alba,
per riprendersi cura del mondo,
dopo che ogni notte se ne è stato
in pace a tessere nuovi cieli,
rigenerati dalla sua energia
che trafigge la terra,
con raggi di generosa allegria.
Gli umani che si esercitano nel fermare
la loro attenzione su se stessi,
nel riconoscersi disconoscono il mondo,
nelle cui corsie sono destinati a perdersi,
senza ritrovarsi più,
smarrendo dolorosamente l’esperienza
del tempo e dei propri sentimenti.
La malattia inguaribile è il pensiero
che ha perso il senso dell’esistere
e che malgrado tutto
si ostina a voler legiferare sul mondo
con parole che hanno l’irrespirabilità,
dell’arsura che ha prosciugato
le sorgenti degli occhi e del cuore.
| 38 |
Girandole
C’è bisogno di viaggiare in ciò
che appare ostaggio dell’apatia
e invece reca in sé la brace di energie
che premono per venire allo scoperto,
fuori, ad una distanza stellare
dalle spirali dell’inerzia
e vicino al calore degli insediamenti
di ciò che si è infranto,
non solo per sua colpa.
C’è bisogno, ma la strada è lunga.
La vita sfugge alle convinzioni ferree
ed è vana pretesa quella di volerla
ricondurre alle origini di ogni cosa,
come se potessimo
comandarla a nostro piacimento.
Non facciamo che creare
idoli di cartapesta con cui tentiamo
maldestramente di celare i nascondigli
dai quali mettiamo nel mirino
il tempo e la nostra stessa esistenza.
Invariabilmente finiamo in balia
di una turbolenta fame di potenza,
non prestando attenzione e cura
al vivente e ai viventi.
La parola che confeziona ad arte
girandole di nomi
non può donare il mondo
e dimentica persino che i nomi
non sono solo nomi.
In ogni nome vive l’umanità,
con tutti i suoi volti e i suoi nomi.
| 39 |
Porta universale
La vita
è alle origini dei significati,
non i significati all’origine della vita.
L’infinito
è nella vita che trascende la vita,
nel volto che trascende i volti,
nel nome che trascende i nomi.
La vita
è nell’infinito che trascende l’infinito,
nel significato che trascende i significati.
L’infinito della vita e la vita dell’infinito
stanno sempre avvinghiati,
contro tutti i tentativi di scomporli
e nonostante i dissidi frequenti
che tra di loro si infilano.
L’infinito
è la porta universale.
Non sta accanto alla vita
e nemmeno sopra,
ma la apre,
lasciandosi aprire.
Non è l’altrove,
ma il rimanere in presenza,
con amore trasfigurante,
dalla cui linea non è disposto
ad arretrare di un millimetro.
Le rotazioni di infinito e vita
sono il futuro che si rinnova.
Nella stretta di infinito e vita,
le parole non hanno bisogno
di essere autenticate
e i sentimenti scorrono liberi.
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Resurrezione
Capita di parlare,
per far tacere il silenzio,
togliergli definitivamente la parola,
ma lui ben presto ha la meglio.
Infrange la comunicazione
della quale non è contento,
perché gli mette le parole in bocca,
anziché farle prorompere
dal disordine che ne è l’origine.
Capita di scrivere,
per firmare un’assicurazione
contro il silenzio,
per essere risarciti tutte le volte
che ci coglie in fallo
e si fa beffa dei proclami
con cui dichiariamo di aver
padroneggiato il mondo, riducendolo
ad un immenso archivio di archivi.
Siamo obbligati a sottrarci
all’apoteosi del silenzio,
quando lo rintaniamo in se stesso,
per fargli rinnegare di essere aurora
e inchiodarlo all’immeritata condizione
di segno infiacchito del crepuscolo.
Il silenzio è linguaggio
che non fa uso di linguaggi al tramonto
e dei linguaggi è la resurrezione.
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Il cerchio e le catene
Da interminabili secoli e per strade
solo in apparenza contrarie,
credito e discredito della logica
hanno lanciato un’idea di ragione
mutilata di ogni sentimento,
vero nucleo del mercato del comando,
di fronte al quale con sollecitudine
è stata inalberata bandiera bianca,
non dicendo no alle trasfusioni
del suo plasma infetto,
nella foga di trarne vantaggio.
La ragione che abbiamo idolatrato
oppure maledetto,
è una creatura artificiale
che ci è servita per rinforzare
i nostri egoismi e i nostri eremi,
anziché credere nella generosità
che ci ostiniamo a non respirare,
nonostante ci abbia partorito.
Non v’è cosa più irrazionale
della razionalità che conduce
a sgretolare noi stessi e il mondo.
Le catene dell’ineluttabile sventura
le abbiamo forgiate col ferro e col fuoco
di menzogne millenarie che ci stiamo
ancora raccontando e che
ci incitano ad una mestizia senza fine,
di cui non ricordiamo
nemmeno il nome e il volto,
tanto immersi siamo
nell’inospitalità che abbiamo coltivato,
voltando le spalle ai richiami delle verità
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e trasformando l’allegria in afflizione.
Abbiamo fortificato le barriere
che ci separano da terra e cielo,
per illuderci di aver domato vita e natura,
rendendole consone a più forbiti dettami;
invece, senza riuscirvi, abbiamo cercato
a più riprese di snaturarle,
tanto che non sappiamo più
cosa siano state e cosa sono e saranno:
le abbiamo volgarizzate, vestendo i panni
di civilizzatori imbarbariti, imbrattati
dalla furia di una sapienza corrotta.
Questa linea di marcia tenta di chiudere
il cerchio, recitando che tutto è male:
l’esistente e ciò che ancora non è
e mai sarà; che tutto si muove,
per rimanere sempre fermo al punto
di partenza portato in giro
in un eterno e impenetrabile nulla,
nel quale chi è fermo è scosso
da oscuri presagi e chi si muove
è immerso in un invincibile strazio
e tutti sono scarniti dalle privazioni.
Le nostre brame ci hanno reso
più infelici di coloro che hanno dato
i natali al mondo, pur avendo anche essi
cosparso il male sulla terra:
più di loro abbiamo barato
con la natura e con le nostre vite.
Fare ritorno all’alba originaria,
qualora fosse possibile,
non ci restituirà l’innocenza;
mentre continuare ad andare avanti
ci riporta da un baratro all’altro.
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Non ci resta che rompere
il cerchio e le catene
delle albe e dei baratri che si sono
fin qui susseguiti e che ancora
si avvicenderanno in tourbillon
nati stanchi e sfiniti strada facendo,
senza riuscire mai a vedere la luce
e senza mai trovare soluzione
all’infelicità asservente, a cui ci siamo
condannati con un travestito dosaggio
di furbizia, furore e potere.
Rinfoderare la spada del comando
e sgonfiare la boria di sdegnose
conventicole richiede la messa al bando
delle uniformi logore e corrotte,
per arrivare al nerbo delle questioni
e ridare alito alla speranza,
nutrendosi dell’audacia che solo lei
sa tirare fuori dalle tenebre
e scorgere anche nella luce accecante:
parte sempre da qui il muoversi
liberi nell’imperfezione che ci salva.
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A quel bivio
Non siamo mai stati innocenti,
nemmeno prima della colpa originaria
e la felicità non prospera
nell’innocenza che cerchiamo
con ostinazione di fare nostra,
per elevarci a cavalieri senza macchia
e atteggiarci a giudici infallibili.
La perfezione non si confà
alla nostra e alle altre specie
e nemmeno all’universo che va
straripando da un’imperfezione all’altra.
Le verità assolute e necessarie
sono il canto di sirena che sottrae
gli umani al cammino degli inizi
e al riavvio che segue gli approdi,
irrorandoli con una letargica invincibilità.
Esseri ciechi e fasciati da una corazza
di argilla condensata, come disperati
interrogano la morte, per eluderne le leggi
e rubarle l’eternità, al bivio dove
tutte le strade si incrociano,
per non spingersi avanti.
A quel bivio,
il tempo tace
e tutte le parole sono cristalli
che si infrangono prima del sorgere
dell’alba e del calar della sera.
Strappate dalle ali del tempo,
le verità rimbalzano l’una contro l’altra,
nell’amaro gioco di schiacciarsi a vicenda,
pur di non far fuggire l’attimo
e pietrificarlo nel metro quadrato
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dentro cui l’hanno esiliato.
A quel bivio,
la povertà del linguaggio esplode
con tutta la sua furia
e il tempo sconfessa le parole
intrappolate nella miseria forgiata
da catene di sciagure
che hanno leso vista e soffio vitale,
lungo rotte avviatesi con largo anticipo
verso il naufragio.
Nessuno è innocente in questo gioco
al massacro; ma non tutti sono colpevoli.
La poesia rompe il gioco
e ad ogni bivio riconnette tutti i tempi,
nel loro irrequieto avvilupparsi,
ma non mira all’eternità:
sa bene che non può regolarla
e neanche decifrarla o conservarla.
La sua eco si spande con il riemergere
dei giacimenti della bellezza,
del dolore e dell’oblio che ad ogni
rintocco del tempo si offrono
a menti e cuori abbisognevoli.
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Figli stranieri
Sin da ere remote sono stati eretti
tempi alieni e i primi stranieri
sono sempre stati coloro
che hanno avuto l’insana pretesa
di modellare il tempo con la spada,
facendolo e disfacendolo a piacimento,
senza avere mai interesse e passione
per ciò che da sempre è stato
coltivato e salvato dai cataclismi
che hanno cercato di assiderare
la memoria viva e l’eredità dell’attimo.
Cedendo al sottile gioco
degli ultimatum della rassegnazione,
siamo ora figli stranieri del tempo,
e mai ci sfiora il pensiero
di disfarci di quest’armatura,
per rientrare a buon diritto
nella storia che più ci appartiene,
per bonificarne i campi minati
e raccogliere i frutti della letizia
persi per strada.
Sempre ci interpellano e appassionano
i giorni e le notti che non sanno tacere,
incitandoci a continuare e cambiare
l’opera iniziata e non ultimabile
di coloro che ci hanno preceduto.
Altrettanto sono chiamati a fare
i nostri eredi e i loro eredi,
se vogliamo essere umanità,
vivi e morti tutti insieme.
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Il protagonista necessario
La poesia sta nelle pieghe del tempo,
anche quando non ne ha memoria,
ma i poeti sono strani viandanti
che, per loro esclusivo diletto,
non disdegnano scorciatoie
che li conducono fuori strada,
verso assolati e ordinari ristori,
dove non riescono a rintracciare
nemmeno l’impronta di sé
e l’umanità l’hanno lasciata dietro,
per non avere l’obbligo di parlarle.
La poesia sta nelle pieghe dell’umanità,
grazie a cui parla e vive e con lei solca
l’andirivieni del tempo: mano nella mano,
danno conto delle loro parole.
Nella carne dell’umanità,
tempo e poesia trovano germogli;
nel cuore della poesia pulsano
il tempo e l’umanità: al mondo,
ogni persona è l’umanità
e ogni poesia ne è figlia legittima.
Questi crinali di ascesa
sono stati accuratamente
ostruiti dalla diffusione di cataloghi
che hanno narrato in dettaglio
il distacco della poesia dall’umanità
e dell’umanità dalla poesia.
L’umanità è stata liofilizzata
in scenografie caleidoscopiche,
mentre è il protagonista necessario,
con tutti i volti, i nomi e le storie
che l’affollano e frammentano.
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Sciolti dal peso
Nei nostri occhi non c’è il mondo,
ma le immagini che di esso
ricordiamo e inventiamo.
Il mondo è l’anima
e il corpo primordiali
che trasciniamo da millenni,
dal buio alla luce e di nuovo al buio
e così all’infinito,
con una successione di mutamenti,
nel cui grembo giace sempre
il progetto disinibito di assuefazione
della natura selvaggia
al movimento di controllo circolare
che ha il compito di accreditarci
come natura benevola
che detiene e umanizza il tempo.
Nessuno sa quali siano i motivi
dei sommovimenti che ci scuotono
ed è vano ricercarli:
sono il cono oscuro del cosmo
e l’indistinto della vita,
così come sulla terra li conosciamo.
Siamo i veri esseri primitivi.
La natura non colpisce,
per la mania di sopraffare:
è spiazzata e messa regolarmente
in crisi dal caos che le preesiste
e non può domare.
La sua armonia è una favola
che a lungo ci siamo raccontati,
al pari di quella che ancora recitiamo
intorno alla sua crudeltà inumana.
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A furia di voler diradare l’ombra,
siamo diventati cacciatori
che fanno della vita la loro preda.
La materia naturale non è
più malvagia di quella spirituale:
entrambe si combattono
e si accordano,
non sempre per il meglio.
Sovente alzano insieme inferriate
davanti a strade e porte,
rimpicciolendo se stesse e il mondo,
fin negli interstizi di ogni cosa,
da cui si leva non raccolto
un disperato canto di libertà.
L’angoscia umana è una scialuppa
tra i marosi del limite,
ma la sconfinata libertà dell’esistere
realizza la servitù fuori misura
di tutti gli ordini materiali e spirituali,
stipando tutto nel deposito
dove materia e spirito
si brutalizzano a vicenda,
infedeli alla regola cosmica primaria.
Che è quella di cercarsi e concedersi,
continuando a scontrarsi e camminare
negli spazi del darsi a sé e al mondo,
nel tempo concesso
e definitivamente sciolti dal peso
dell’ambizione alla vita eterna,
per sé e le proprie opere.
È il tempo umano a dichiarare il valore
dei parlanti e di ogni altra cosa:
poche volte è giusto;
bisogna ripercorrerlo sempre,
per smentirlo con senso di giustizia.
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IV
MINIATURE
(maggio 2018)
Segni
Abbiamo fatto innumerevoli giri
intorno agli assi della terra,
per non solcare mai le orbite
che aprono le porte del cielo,
sopra, intorno e sotto la sua volta.
Quando ci siamo decisi a ricondurre
il cielo nei nostri accampamenti,
abbattendo antichi sbarramenti,
lo abbiamo fatto strisciare
sotto i nostri piedi,
accecando i nostri destini.
Siamo poco più di una strabica
solitudine del cosmo e abbiamo avuto
il grave difetto di scolpire domini
con la cupidigia della forza
e nella melma di dizionari senza vita.
Ricambiando veramente la tenerezza
di ciò che è e di ciò che non è,
costruiamo passerelle per attraversare
da sponda a sponda gli universi
che abbiamo deriso
e disonorato senza imbarazzo.
L’indicibile e l’invisibile
li abbiamo cancellati dall’orizzonte
e tutti i giorni ci affanniamo
a rimasticare le reticenze di sempre.
La terribile bellezza di finito e infinito
l’abbiamo a stento intravista
e tuttavia siamo stati capaci
di deturparla con insolente frivolezza.
Silenziosamente e inesorabilmente,
il tempo ci sconfigge tutte le volte
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che lo mettiamo davanti
a un plotone di esecuzione,
con cui invece eseguiamo
la nostra condanna a morte.
Non facciamo più promesse,
perché non leggiamo i segni
delle speranze del tempo.
Preferiamo un quieto vivere,
lontano dal riverbero delle dimore
da cui stiamo ancora scappando,
per non assaggiare la felicità
che regge e modifica le vite,
camminando oltre l’ignoto.
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Ogni giorno
Non v’è mai stata una forza titanica,
capace di sottrarci al falso
e ad essa non abbiamo mai creduto.
Faceva parte del copione
che siamo sempre stati chiamati
a recitare, per illuderci
di contare qualcosa in questo mondo,
senza mai impegnarci in esso,
con passione e innamoramento.
Baldanza giovanile e saggezza canuta
non ci hanno mai salvato.
Ognuna ha lottato contro l’altra
e nella lotta poco alla volta
ha fatalmente perso se stessa,
avvolta in capelli bianchi,
persi strada facendo.
L’elisir della giovinezza è forza
che mai abbiamo veramente amato,
ma sempre maneggiato,
per sopravvivere a noi stessi,
anziché vivere in fraternità nel cosmo,
dismettendo le inclementi abitudini
che ci siamo imposti.
Stare al mondo non è un semplice
fornire risposte o inoltrare domande.
Chiedere al mondo è sfuggirgli,
rispondergli è sfuggirsi.
Ogni giorno è il giorno della fine
del domandare e del rispondere
con cui ci nascondiamo;
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nascondendo.
Ogni giorno è il giorno
dell’uscita dai nascondigli
che abbiamo seminato in noi stessi
e intorno a noi.
Ogni giorno è il giorno
di scrollarsi di dosso
le fantasie addomesticate
create apposta per ognuno di noi.
Ogni giorno è quello buono,
per soggiornare con perizia
e coraggio in ciò che non abbiamo
nemmeno osato vedere e sentire,
per paura di lasciarci conquistare
dalla bellezza fuori controllo
che spazza via
la sterilità del nostro patire.
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Il mattino
Sotto il velo del silenzio ristagnano
tutte le parole pensate e dette,
non dette e non pensate,
quelle inventate e che inventeremo.
Le dimenticheremo tutte quante,
per continuare il nostro assedio
al silenzio, all’ombra e alle parole,
asportandone la luce,
di cui facciamo volentieri a meno.
Non c’è giustizia nel cosmo
che dipenda dagli umani.
È un principio virtuoso e una fortuna,
altrimenti essi, col loro mondo,
avrebbero annichilito
tutti gli universi con cui il tempo,
senza alterigia, li chiama a dialogare,
per salvarli dal niente con cui
hanno farcito la vita e la morte.
Niente affatto fiduciosi,
il cielo e la terra restano
in attesa degli umani, ai quali sempre
concedono il tempo della speranza
che renda giustizia al mondo
e felicità alle creature,
travagliate dal dolore e dalle ansie,
di cui portano un peso
che comincia con la loro preistoria.
Umanità dilacerate hanno accerchiato
cielo e terra, contendendoseli con le
parole del mito e gli atti della forza,
per frantumare gli anelli con cui
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si celebra il matrimonio quotidiano
tra le nostre dimore terrene
e le volte dell’infinito che di noi
si prendono cura e di cui siamo
eterni debitori insolventi.
L’eccesso di paura per lo sconfinato
ci ha frenato e ancora ci frena.
Per poterci ingannare meglio,
lo abbiamo mimetizzato,
inventandoci la nostalgia della purezza
che, invece che da culla, ci ha fatto
da tomba partoriente inferni epocali,
con cui non abbiamo ancora
imparato a fare bene i conti.
Il mattino del cuore,
pur sempre giovane,
è saggio dall’alba al tramonto
e anche quando si dispera
non cede ai colpi del dolore,
ma li sonda per scoprirne
il nettare che nutre la felicità
non ereditata che sta a noi
conquistare, per continuare la vita.
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Eredità
Dall’infanzia alla morte e oltre,
siamo istruiti al culto della forza
che sta lì ad aspettarci ben prima
della nostra nascita, nella certezza
di fare di noi un solo boccone.
Dall’alba dei tempi,
abbiamo finto di chiederci
come questo sia potuto accadere,
rispondendo con una menzogna,
peggiore di tutte le finzioni:
siamo nati puri, ma natura e mondo
ci hanno reso malvagi.
La verità è elementare:
siamo quello che da sempre siamo,
perché l’abbiamo fortemente voluto.
Essere quello che mai siamo stati
è la speranza che ci spinge verso
un destino amorevole che forse
non meritiamo, ma siamo
chiamati a spargerne i semi.
Non l’abbiamo mai accettato,
ma siamo stati prenotati,
per fare uso di differenti parole
ed entrare in dialogo
con chi ci ha preceduto
e chi, dopo di noi,
vedrà altri orizzonti.
Nessuno, tra noi e loro, saprà mai
cosa è in attesa e cosa sarà deciso.
Una piegatura del tempo e dello spazio
non scandita dalla forza è l’eredità
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a cui abbiamo rinunciato,
diffidando dei suoi avvisi
e agganciando le lusinghe
che ci rendevano incolpevoli
e pronti a comprimere il mondo
nello sguardo arcigno della mente.
Abbiamo proposto all’innocenza
che non teme di camminare nel fango
di venire a patti con noi,
cercando di venderle un pugno
di mosche che si è rivelato l’infausto
destino che ci stavamo riservando.
Quello che non meritiamo
e che abbiamo da trovare
sta in quelle faglie del tempo,
di cui siamo eredi recalcitranti,
inebriati da sortilegi
che assicuravano ripari sicuri,
rivelatisi bunker pronti ad esplodere.
Abbiamo rinunciato all’eredità
del nascere e lasciar nascere,
ricusando di salire le volte del cielo
e scendere nei sottoscala dell’umanità,
dove nessun passo
e nessun battito del cuore
può essere ciò che era
fino all’attimo precedente.
Questa è
la colpa originaria mai rivisitata,
ma custodita con scellerata fierezza
sul precipizio dove abbiamo messo
in bilico i nostri tormentati destini.
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Il pianto
Il pianto è arena di guerra
strappata all’amore,
ma può essere sorgente che l’amore
porta via alla guerra.
Nelle lacrime, guerra e amore
si fronteggiano senza risparmio.
Non raramente l’amore si rifugia
nella guerra, per non fare i conti
con ciò che lo ispira.
La guerra non è da meno
e non ha remore a scavare
trincee nelle retrovie dell’amore.
Nel cercarsi,
guerra e amore tentano
di distruggersi a vicenda.
Se non riconosceranno
la loro comune origine,
non potranno mai svelarsi
per quello che sono diventati.
Ormai sono ridotti a frazioni
di un tempo spezzato
che hanno diviso in due emisferi
e di ognuno ambiscono
essere sovrani incontrastati.
Nel tempo spezzato,
il pianto non può riallacciarsi
all’essenziale che abbiamo bandito,
per scordarci che le lacrime
conducono alle vie del sorriso.
Chi fa fronte comune con la guerra
annacqua il cuore,
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per annegare nel pianto.
Ci sono paesaggi del pianto
che non sono contrasto o acquiescenza,
ma sporgenze su cui arrampicarsi,
per avviarsi su piattaforme precarie
tra gole profonde che non avremmo
mai osato visitare.
Il pianto ci guida perfino
nella traversata del deserto.
Per lui, ogni luogo è dimora e transito
di quel refrigerio dell’anima
che non barcolla tra gioia e dolore,
ma ne trattiene l’indivisibilità.
Se ne abbiamo cura,
il pianto è una vertigine
che ci libera dal dolore che opprime
e dalla gioia che indurisce i sentimenti.
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Passanti
Le esultanze degli inizi
sfocano presto nella nebbia
dentro cui sono scagliate le luci
che abbiamo a fatica acceso.
È segno che dobbiamo
ricominciare daccapo
e inaugurare nuove stagioni.
L’esultanza non si scoraggia
e non fa marcia indietro,
di fronte alle prove difficili
contro cui le capita di imbattersi.
Viene a capo dei suoi limiti,
ma siamo purtroppo noi i passanti
con cui deve andare in cammino.
Siamo passanti che non passano.
Fermi su un tapis roulant,
mimiamo un movimento che scorre
per immobilizzarci definitivamente.
Filmiamo la corsa dell’insignificanza,
per convincerci dell’eternità del nulla
che ci sfreccia accanto.
Per coltivare un’illusione di verità,
abbiamo assegnato soltanto
agli Dèi e agli Eroi un inizio e una fine.
Il resto, senza alcuna eccezione,
è stato privato di storia.
L’esultanza non poteva che appassire
e ora addirittura ci atterrisce.
Spogliati dell’esultanza,
siamo passanti che si divertono
| 62 |
ad allevare cannibali
e trasformare la storia
nel puro scherzo di un destino
che rinchiude mondo e umanità
nel recinto dello spaccio delle verità.
Nemmeno agli inizi
che fanno semplici le cose
l’esultanza si inorgoglisce
delle sue fiammate e non le coltiva
come illusioni di altri tempi.
È partecipe del vero e del falso
ed entrambi le possono offuscare la vista.
Nel vero e nel falso si è partecipi
del mondo assegnatoci,
nel quale le speranze sono le strade
che aprono il tempo, senza adularlo
o inchiodarlo alla croce: lo frequentano
con animo quieto e spirito esigente,
sapendo di esserne intima parte.
Siamo passanti stravolti
che dobbiamo avanzare
nel turbamento, senza pretendere
primogeniture o ultimogeniture:
il nostro inizio e la nostra fine
li mettiamo in colloquio ogni giorno
che la storia ci ha affidato.
Siamo passanti che passano
e che del passare
fanno il loro soggiornare
e cambiare, perforando
i mantelli di nebbia
con i quali ci siamo avvolti,
dando mostra di non accorgercene.
| 63 |
Orfani
Le albe in cui il terribile alleggia
sono quelle da cui ci siamo
meticolosamente assentati,
continuando come se niente
stesse accadendo o potesse alterare
gli equilibri immaginari, architettati
per trascurare il tempo e mollarlo
nelle mani di amplessi voraci.
Ogni attimo il tempo è azzannato
e divorato, per essere vomitato
come inerte materia sottoposta
alle leggi della caducità umana.
Fatica vana e sventurata: come il cosmo,
il tempo è immortale e non si fa sedurre
dalle arti dell’ingratitudine umana.
Cammina spedito,
prendendosi cura dell’incurabile.
Con il tempo abbiamo ingaggiato
da sempre un conflitto rude,
perché è il limite insuperabile
che ci impedisce per l’eternità
di essere i padroni del cosmo.
Sfiguriamo epoche e dimore;
ma non possiamo corrompere
il tempo e il cosmo,
anche se volessimo portare
a compimento il suicido dell’umanità.
Senza di noi tutto continuerà
e non sapremo mai come;
e nemmeno sapremo come tutto
avrebbe potuto essere per noi,
| 64 |
avendo sonnecchiato durante
le albe in cui il terribile si affacciava
dalle torri del tempo.
La nostra furia è pari
solo alla cieca infelicità,
a cui ci siamo condannati.
Il tempo e il cosmo non potranno
mai essere nostri orfani; mentre noi
abbiamo vissuto come se di loro
fossimo orfani da sempre.
Non potendo comandarli,
non ci stanchiamo di tentare
inutilmente di sopprimerli,
recitando la parte di titani disperati.
| 65 |
L’errore
Per dare tregua ai nostri giorni,
non è d’aiuto respirare nei confini
che ci sono stati concessi,
per vivere secondo disposizioni
che prescrivono ricette
già sperimentate e mortalmente
sature di infelicità.
Un confine è un daccapo
che non scopriremo mai,
se non lo valichiamo,
muovendo verso un altro daccapo,
nell’arco breve degli sparsi confini
accordatici dal sensibile tempo.
Imbattersi nella mortale infelicità
è il rompicapo necessario contro cui
urtiamo nei nostri tortuosi sentieri,
per ritrovare l’accesso all’aria pulita
lasciata incustodita dentro di noi
e imbavagliata fuori.
La mortale infelicità è l’errore
che simula a rovescio
l’ebbrezza di vivere,
illudendoci di essere vivi
nell’unico modo ancora possibile
e ancora ribelle.
L’illusione è il varco
che si apre al nostro passaggio,
se facciamo ritorno all’errore
e ripartiamo volgendogli le spalle,
lasciando per strada la zavorra
delle ossessioni con cui avevamo
cercato di sterilizzare il tempo,
| 66 |
i suoi confini e i suoi daccapo.
La verità non esilia l’errore,
ma lo fende: è il suo inamovibile
punto di partenza e di ritorno.
L’errore è il compagno fedele
e inseparabile della verità.
La convince a dubitare,
mantenendola cristallina
come acqua di sorgente
che si rovescia a valle,
disponendo ai margini il fango.
L’errore ci fa paura e lo cancelliamo,
per manomettere le verità
che il tempo recapita.
| 67 |
L’oltraggio e la scelta
È possibile perdere anche
quello che non si ha,
se abbiamo impedito il suo nascere,
per paura, superficialità o crudeltà.
Ciò che di noi
non abbiamo lasciato vivere
è la perdita più infausta che possa
capitare al destino di un umano.
Perdiamo il tempo e nel tempo
gettiamo via tutto quello
che non abbiamo osato vivere,
nonostante fosse in transito
sotto i nostri occhi e in ogni strada.
L’oltraggio alla felicità del mondo
installa le tagliole dell’infelicità,
dimenandosi in eterno
in questo labirinto stregato.
Duriamo un batter di ciglia del tempo
e con quel battito rivendichiamo
il dominio assoluto
sull’esistente e l’inesistente.
Il tempo non serba rancore
e ricordo alcuno di noi, se non
l’ingorda e ottusa follia con cui
lo ripaghiamo con costanza.
L’oltraggio è un’offesa
lanciata contro il mondo
e una diffida notificata ai viventi,
affinché non interferiscano
con lo svolgimento della storia,
con cura predisposto e messo in azione.
Ma il caso si vendica stabilmente:
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precipita nel caos i piani preordinati,
rendendone note
le intime cecità e maniacali crudeltà.
Fare del male
non è scindibile dal male
arrecato a se stessi.
Causiamo il male del mondo
e di tutti coloro che lo abitano,
ogni volta che incliniamo
verso l’oltraggio e siamo riluttanti
ad assumerne la paternità.
Dileguiamo nel tempo
che non trattiene memoria viva
del nostro cammino,
se non le tracce del furioso agire
con cui l’abbiamo martoriato.
Non c’è scelta,
fuori dall’appassionato e risoluto
addio all’oltraggio.
| 69 |
Rispetto
In genere, la morte ci coglie morti,
non solo perché ormai vecchi.
La vita cominciamo a svuotarla
in gioventù, quanto meno
le prestiamo rispetto.
Non è il tempo che ci consuma,
ma siamo noi a uccidere il tempo,
con una soddisfazione masochistica
che scambiamo per la glorificazione
delle ceneri della nostra mortalità.
E tuttavia vecchiaia e gioventù
possono prolungare la vita
fino all’ultimo degli istanti,
conservandola come dono
nei futuri del tempo itinerante.
A patto che del rispetto riusciamo
ad avere cura essenziale,
assieme a coloro tra i quali
abbiamo vissuto, sofferto, gioito
ed errato, non lesinando energie.
Non è accorto scavalcare
la rettitudine dei tempi,
arrecando ingiustizia a ciò
che ha impiegato millenni
per stratificarsi in equilibrio
mutevole nel cosmo.
La fretta in agguato ad ogni curva
ci svia per scorciatoie che falliscono
tutte le mete, impantanandoci
in ricorrenti inizi collerici.
Lasciarsi tirare in direzioni contrarie
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al giusto che ci conforma,
è la sciagura delle sciagure.
Ci fa tradire il meglio
e assecondare il peggio,
mancando di rispetto
a noi stessi, agli altri e al mondo.
Ed è questa sciagura
che, dall’origine del tempo, gli umani
hanno trasformato in vita quotidiana.
Abbiamo da scavare
davanti e dietro di noi
la strada di una vita più giusta
del cedevole giusto che ci abita,
perché non è stato sufficiente
ad andare più in là di quello
che già eravamo e di quello
che non volevamo essere.
Nell’errore stanno le risposte
per il dimorare del rispetto.
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INDICE
I
GLI ABBANDONATI
(ottobre 2017)
Agli abbandonati
Squarciare
Variazioni di luce
L’abbandono
Castigo
Un’acconcia menzogna
Non sappiamo niente
Orchestrare silenzi
Viaggi impossibili
Realistico
p. 5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
II
IL NUDO ESISTERE
(marzo-aprile 2018)
E dappertutto
La storia
Esilio
L’umanità
La libertà
Nell’infinito
Le parole
Sabbie mobili
Tribunali
La giustizia
Le leve
Controfigure
Il silenzio
Appartenersi
La gratitudine
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
III
TRAIETTORIE
(aprile 2018)
Nei libri
L’ostacolo
Archeologie capovolte
Timidi spiragli
Le risposte
La poesia
Arsura
Girandole
Porta universale
Resurrezione
Il cerchio e le catene
A quel bivio
Figli stranieri
Il protagonista necessario
Sciolti dal peso
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
45
47
48
49
IV
MINIATURE
(maggio 2018)
Segni
Ogni giorno
Il mattino
Eredità
Il pianto
Passanti
Orfani
L’errore
L’oltraggio e la scelta
Rispetto
52
54
56
58
60
62
64
66
68
70
Pubblicato maggio 2018