Giovanni LiLLiu - La Grande statuaria deLLa sardeGna nuraGica e i GiGanti di Monti PraMa
Presentazione
I
l saggio di Giovanni Lilliu, Dal betilo aniconico alla statuaria nuragica, esce nel
1978, nella rivista “Studi Sardi” (nella presente edizione: pp. 25-81, tavv. I-XXXIX,
13 paragrafi, 231 note).
É preceduto da un suo articolo pubblicato nel quotidiano “L’Unione Sarda” del
13 agosto 1976, a proposito degli Albori della medicina in Sardegna, nel quale lo
straordinario complesso dei frammenti di statue in pietra viene attribuito ad età
nuragica ed accostato “per gli elementi di vestiario e per le armi, alle figurine di
bronzo protosarde del IX-VI sec. a. C., mentre, per altre caratteristiche formali, al
mondo greco-arcaico ed orientale”.
Nel medesimo articolo G. Lillliu avanza l’ipotesi dell’esistenza di un santuario della
pianura, ricordando il mito di Iolao, un dio guaritore, guida dei Tespiadi in Sardegna,
chiedendosi se le statue ritrovate “non fossero quelle degli avi-eroi medici”.
L’ipotesi, nel prosieguo degli studi, viene abbandonata.
Le modalità di divulgazione scelte dall’illustre archeologo si ispirano alla volontà
di diffondere i risultati delle ricerche archeologiche su due piani: quello ristretto,
accademico e scientifico; quello ampio, del grande pubblico, dei lettori del più diffuso
quotidiano sardo.
Modalità che si ripete, diventando quasi una consuetudine per G. Lilliu, una “regola”
personale di trasmissione dei risultati degli studi e delle scoperte sul patrimonio
culturale sardo, nella fattispecie quello archeologico.
In questo caso sull’onda di un forte sentimento di orgoglio identitario: perché le
statue nuragiche competono in grandiosità con quelle egiziane, mesopotamiche e
greche, e sono più antiche di queste ultime (pp. 78-79).
Il lavoro si sviluppa secondo l’impostazione distintiva di G. Lilliu archeologo, che
realizza una prosa analitica, ricca di dati anche numerici (dimensioni, posizione dei
reperti ecc.), tendenzialmente oggettiva: perché ogni ipotesi ricostruttiva deve essere
basata su prove materiali o almeno su indizi documentati.
Altra caratteristica della prosa di G. Lilliu è l’uso delle note, frequenti (ben 231!) ed
ampie (raramente sono presenti le semplici citazioni bibliografiche), grazie alle quali
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le riflessioni si sviluppano su vari livelli: il livello principale, adombrato nel titolo e
approfondito nel testo; quello secondario, su argomenti collaterali, che servono da
ampliamento ed integrazione oppure da precisazioni critiche, corrette nella forma
ma sempre ferme e, oggettivamente, inconfutabili (nota 26).
Allo studio delle statue, nel paragrafo 1, G. Lilliu arriva prendendo spunto da un
“interessante monumentino figurato” conservato nel sagrato della chiesa di S. Pietro
di Golgo, a Baunei, proveniente da un campo situato a circa 100 m, fuori contesto
archeologico, in un’area della quale viene fatta una vasta e precisa puntualizzazione
nei vari elementi: monumenti, paesaggio, curiosità linguistiche (tavv. I-IV).
Si tratta di un betilo subcilindrico tendente al troncoconico, alto m 0,95/1,21, con
diametro di 0,27/0,26, ben rifinito a martellina sull’intera superficie e ornato di un
rilievo antropomorfo scolpito, a forte sbalzo, a circa 40 cm dall’estremità superiore
(par. 2). Il viso umano, di forma ovale, sembra una maschera applicata, una sorta di
tête coupée.
Analogia puntuale G. Lilliu rileva con il betile troncoconico (altezza m 1,20, diametri
0, 52/0,38) della tomba di giganti di Battos (Sedilo), oggi classificata come sepoltura
con fronte a filari e con stele “a dentelli”, presso la quale è stato rinvenuto anche un
piccolo betile (alt. m 0,36 x 0,14/0,14x 0,13/ 0,13) (tav. V). Questa pietra offre
l’opportunità, in una sorta di ampia parentesi nel testo, a sottolineare l’importanza
dell’argomento, per puntualizzare ancora caratteristiche e funzione della categoria
dei monoliti troncoconici e per ricostruire le finalità e la posizione delle “stele a
dentelli” (pp. 28-34, par. 3, tav. VI). Questo tema è stato sviluppato successivamente
anche da altri archeologi, registrando unanimità di consensi sui betili, mentre la
problematica della “ stele a dentelli” è diventata una vexata quaestio, con ipotesi
sostenute da vari studiosi oltre a G. Lilliu, sulle quali si sorvola, lasciando ad altro
luogo la disamina delle argomentazioni.
La forma a tronco di cono del betilo figurato è documentata in una ventina di pietre
consimili (tavv. VII-XX), rinvenute a Sedilo (sette, da varie località), Paulilatino
(cinque, da varie località), Macomer (tre, da Solene), Cuglieri (cinque, da Oragiana),
sulle quali viene fatto uno studio d’insieme (unico, allo stato attuale, a più di trent’anni
di distanza) di tipo morfologico, dimensionale, con notazioni sulla cronologia e
sull’origine. Uno di questi monoliti, il betile di Nurachi-Sedilo, presenta due linee
parallele incise, a 40 cm dalla sommità, interpretata come “segni di contorno d’un
viso umano estremamente stilizzato, nel quale i particolari fisionomici sarebbero
stati suppliti col colore” (p. 35) (paragrafi 4-7).
I betili di Perdu Pes (Paulilatino), Oragiana e Solene presentano da tre a cinque
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cavità allineate, disposte sotto la sommità, nelle quali G. Lilliu vede non “iterazioni
in negativo di mammelle”, a simboleggiare rituali di maternità e fecondità, ma
rappresentazione di occhi. Si torna, quindi, all’idea - già ipotizzata per il cippo più
sopra citato - di rappresentazione di tratti fisionomici del volto umano, espressione
di una divinità (femminile o maschile) che “vede tutto all’ingiro. Come si addice
a un guardiano del sepolcro, a un custode che vigila, con occhi sempre aperti,
sulla comunità dei morti accolti nella tomba monumentale” (p. 46). Viene quindi
identificata una figura “oculiforme”, peraltro già documentata in Francia e nella
Penisola iberica, come espressione di un movimento ideologico-religioso diffuso in
Europa tra la fine del III e i primi secoli del II millennio a. C.
Nell’iterazione degli incavi e nel concetto del gruppo dei betili troncoconici G.
Lilliu riconosce la “moltiplicazione degli elementi costitutivi dell’insieme simbolicosemantico” con azione di rafforzamento dell’idea di difesa e di protezione.
Nei par. 8-9 G. Lilliu puntualizza i confronti e la cronologia. Ad un vasto ambito
mediterraneo, da Oriente ad Occidente, soprattutto alla Spagna sud-orientale, in
Almeria, e, in particolare, alla necropoli di Los Millares, riporta, ma in tempi più
antichi, la forma troncoconica del monolite. A tempi più recenti, invece, agli ultimi
secoli del II millennio a. C. (Bronzo medio) sono attribuiti i betili troncoconici. Nello
stesso orizzonte cronologico è inquadrata l’altra categoria di betili, quelli conici
mammellati o lisci, osservati presso la tomba di giganti di Tamuli-Macomer, in due
coppie, su cui l’Autore non si dilunga. Precisa, però, il loro legame con la tradizione
neolitica ed eneolitica “idoliforme” che si è espressa con i menhir prima e poi con le
statue-menhir, puntualizzando la loro connessione con la religione della fertilità (p. 50).
Con il betile di San Pietro di Golgo, “volto umano dal profilo ovale a maschera
tagliata ed applicata” si è arrivati ad una prima vera scultura antropomorfa, ma
non a tutto tondo. Questo tipo di scultura è documentato solo in rappresentazioni
di animali (par. 10).
La presenza di figurine in bronzo, d’altro canto, offrivano, secondo l’Autore, indizi
“di una tendenza al monumentale… quasi da poter parlare di piccola grande
scultura” (p. 53).
La grande scultura, invece, è attestata dalle statue di Monti Prama, in arenaria
gessosa, scoperte casualmente nel 1974 (par. 11). La notizia, pubblicata da Giuseppe
Atzori e poi ripresa dallo stesso G. Lilliu come più sopra affermato, a distanza di circa
tre anni, nel 1978, diventa un saggio ampio, in cui vengono affrontate seriamente
tutte le problematiche scientifiche, esaminando i dati certi, nella consapevolezza che
alcuni aspetti restano, però, “problematici e oscuri” (p. 55).
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Dopo una puntualizzazione delle caratteristiche fisiografiche dell’ambiente
circostante (tav. XXI) l’Autore analizza i punti di ritrovamento dei manufatti,
cogliendo elementi indicativi, a suo parere, della presenza di un insediamento
nuragico. Comincia con l’area dello scavo Bedini-Ugas (p. 57, tavv. XXII-XXIII).
Successivamente sottolinea la presenza, ad una ventina di metri di distanza, di un
ammasso di elementi architettonici (colonne, lastroni, lastre), interpretabili come
“membrature di un edificio in elevato, colonnato, con murature in pietra viva”, un
probabile tempio d’età nuragica (tavv. XXIV-XXVI).
Nelle vicinanze l’Autore, in collaborazione con Enrico Atzeni ed un gruppo di giovani
archeologi, ha eseguito un saggio di scavo che ha consentito di recuperare un torso
di arciere poggiante su un suolo chiazzato di lenti di ceneri e carboni (tav. XXVII).
L’assenza di tracce di affumicatura sulla statua lo porta a escludere che l’edificio
in cui presumibilmente la statua (e le altre statue) era esposta non fu devastato da
“un incendio violento che avrebbe portato alla devastazione della struttura e alla
frantumazione delle statue” (p. 60).
Su una collinetta, vicina al saggio di scavo osserva le tracce di un villaggio, costituite
da un tratto in curva di capanna nuragica, costruita in pietre basaltiche e da un
accumulo di pietre di varie dimensioni e di frammenti di ceramiche della Prima Età
del Ferro (tav. XXVIII). Infine, a 100 m. circa dallo scavo Bedini, rileva un altro
accumulo confuso di pietre in basalto ed arenaria, con frammenti ceramici nuragici
e d’età romana. Tra le pietre, i conci basaltici a faccia convessa e quelli a coda, in
arenaria, accennano rispettivamente a strutture di coronamento di torre o di cortina
di un nuraghe e/o al paramento retto-curvilineo d’un pozzo sacro (tavv. XXIXXXX).
G. Lilliu ritiene attendibile l’ipotesi che il colle di M. Prama fosse sede di un abitato
nuragico con capanne rotonde e con altre costruzioni tra cui, alla base del colle,
il tempio con le statue. Conclude che l’insieme di indizi non è, però, sufficiente a
ricostruire edifici dell’abitato.
Lascia ad altri archeologici il compito di trovare gli indispensabili elementi di prova.
Nel par. 12 l’Autore fornisce, poi, un “elenco ragionato” e analitico dei 14 reperti
statuari rinvenuti fino al 1977, sia di quelli da lui recuperati che dei frammenti
esposti al Museo Archeologico di Cagliari o conservati nei magazzini, ricostruendo,
quando possibile, elementi e funzione.
Individua, pertanto, cinque torsi e due teste riferibili a sette statue nelle quali,
basandosi sulle analogie con particolari delle vesti e delle armi riprodotte nelle
figurine di bronzo, identifica 3 arcieri, 4 guerrieri, alcuni particolari anatomici
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(mano, polso, gomito) o armi (arco); due torsi sono classificati come frammenti di
“statua antropomorfa di soggetto non precisabile” (par. 13, tavv. XXXI-XXXIX).
G. Lilliu analizza il materiale utilizzato e afferma che è locale, arenaria con una
componente gessosa, facilmente lavorabile ma anche deteriorabile a causa della sua
forte igroscopicità. Queste caratteristiche del litotipo portano l’Autore ad ipotizzare
che fossero conservate in un ambiente chiuso.
Quanto alle dimensioni, dopo aver affermato che “Se si potesse applicare loro il
canone delle proporzioni fra le parti del corpo misurato all’unghia come nell’arte
greca matura, o anche i rapporti anatomici di una persona reale, si andrebbe a statue
colossali, poco inferiori ai due metri, a giudicare dalle altezze dei busti e delle teste,
oltre il normale” (p. 76). Egli ritiene, invece, applicabile l’ipotesi che nelle statue sia
stato seguito “il modello metrico” delle figurine di bronzo,
“nelle quali l’equilibrio delle parti va in favore della testa e del tronco, molto allungati,
a scapito delle gambe, corte quando non cortissime, in ciò riflettendo forse anche una
simile dismisura frequente nel soma dei sardi”. Comunque è del parere che l’altezza
nelle statue fosse eguale, se non superiore all’altezza dei nuragici, fra m 1,63 e m
1,67, ricostruita sui resti scheletrici umani “dato il carattere sacro e la natura di esse
superiore a quella umana” (p. 77).
Sulla collocazione G. Lilliu ribadisce l’idea già espressa: i personaggi erano disposti
nel tempio a colonne “in fila, tutti in piedi e di fronte”: una “teoria di guerrieri in
bianca pietra, costruiti con concezione unitaria, propria di gusto arcaico”... “a masse e
volumi estesi”… con “dominio essenziale di linea e massa”… sulla “ornamentazione
esteriore, portata epidermicamente con fredda indifferenza calligrafica e soltanto in
acconciature e armi …”. Le caratteristiche formali rispecchiano quelle dei bronzetti
dello stile Uta-Abini.
Statue e bronzetti respirano il clima dell’età geometrica, che è meglio definita
nell’VIII secolo a. C., in cui “è supponibile il formarsi di una prima coscienza storica
dei sardi”, in una società con assetto aristocratico, evoluta sul piano economico,
anche grazie allo sviluppo dell’agricoltura, florida e con strutture urbane. Una
società “non subordinata né integrabile, che non ammette egemonie esterne”…una
società “ competitiva ed espansiva, autonoma e determinata” in grado di contrastare
l’influsso fenicio e la colonizzazione greca della Sardegna.
G. Lilliu puntualizza, poi, la sua posizione assunta nel 1976 con l’accostamento al
mito di Iolao e con l’interpretazione delle statue come ricordo per immagini dei
Tespiadi, “antenati-eroi-guaritori”. Se la proposta poteva “appagare il sentimento
romantico dei cultori del mito, non ha dalla sua parte un qualche dato concreto che
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la renda credibile storicamente, a parte la considerazione che il racconto leggendario
ci descrive i Tespiadi dormienti, mentre le statue rappresentano personaggi in piedi,
svegli, in attitudine di vita e di azione” (p. 79). Pertanto l’Autore preferisce proporre
l’idea di una teoria di personaggi esposta nel santuario “pansardo” di Monti Prama:
immagini di “remoti antenati-eroi “nazionali”, grandi guerrieri, divinizzati e venerati
da tutte le genti nuragiche.
Infine, a conclusione dell’articolo, Giovanni G. Lilliu esamina altre possibili ipotesi:
prudente e non convinto nell’accettare l’ipotesi di divinità guerriere, di un pantheon
protosardo, individuabile anche nelle figurine bronzee, oppure di ex-voto, come i
bronzetti (precisando, però, che se si accogliesse quest’ultima interpretazione le
statue sarebbero ex-voto di famiglie o clan aristocratici), ritiene “improponibile,
anzi da escludere del tutto fino a prova contraria l’idea di statue funerarie o di
rappresentazioni simboliche di un astratto ideale militare, caratteristico dello spirito
nuragico” (p. 80).
Nel 1997, a circa vent’anni dalla pubblicazione del saggio del 1978, esce nelle
“Memorie” dell’Accademia Nazionale dei Lincei (CCCXCIV, ser. IX, vol. IX, fasc.
3) l’articolo di Giovanni Lilliu La grande statuaria della Sardegna nuragica, qua riproposto
(pp. 127-187, tavv. I-XXXVII paragrafi 1-8).
L’Autore nell’introduzione traccia una breve sintesi dell’arte o artigianato artistico
della Sardegna, segnata dalla scultura in pietra, a cominciare dal neolitico medio.
Vede un filo conduttore tra le figurine di dea Madre di stile volumetrico e planare
neolitiche e le statue-menhir dell’Età del rame, ribadendo quanto già affermato in
precedenza.
Le manifestazione d’arte si ripresentano successivamente (par. 1), ma solo a partire
dal bronzo medio (post 1500 a. C.), con i betili conici in basalto di Tamuli-Macomer
e i monoliti troncoconici di Perdu Pes, Oragiana e Selene, fino al cippo di San Pietro
di Golgo, a Baunei.
La scultura in pietra arenaria di Canevadosu a Cabras, presumibilmente di carattere
funerario, rinvenuta successivamente, costituisce un ulteriore passo in avanti
nell’elaborazione della scultura a tutto tondo. In questo monolite, classificabile come
una sorta di modellino di nuraghe monotorre, è scolpito ad alto rilievo un individuo,
forse un militare, che sembra arrampicarsi per scalare il monumento.
Canevadosu (par. 2) è contigua a Monti Prama, dove le scoperte di statue, dopo gli scavi
condotti da vari archeologi, sono proseguite fino ad arrivare alla documentazione di
una ventina di sculture frammentarie.
Nella sua trattazione G. Lilliu mostra di recepire quanto di nuovo è venuto alla
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luce e pubblicato, inserendo le nuove informazioni nella sua personale ricostruzione,
ma con una puntualizzazione critica. Asserisce, pertanto, che le statue erano
“raccolte in un sepolcreto-santuario, un heroon, le quali, in origine, stavano erette
sopra singole tombe a pozzetto, dove i morti erano deposti in posizione seduta” (p.
130), sottolineando, sia pure in nota, come non sia possibile “affermare se le stesse
posassero singolarmente su ciascuna tomba individuando il genere del defunto o
formassero un ideale gruppo commemorativo della famiglia aristocratica nella sua
composizione oppure di qualche gesta o saga memorabile della medesima”.
A riprova di una conservazione delle statue in un “riparo a colonnato” sottolinea
l’ottimo stato di conservazione “di alcune “sino nei particolari decorativi di alcuni
esemplari statuari ed il colore ancora in evidenza su un torso di arciere” (nota 10).
Nelle 25 statue, tutte maschili e di grandi dimensioni, definite “kolossal”, l’Autore
riconosce tre soggetti: arcieri (7), opliti (1) e pugilatori (17) . Sulla prevalenza dei
pugilatori sulle altre categorie, esamina le interpretazioni allora note. Non accetta
quella avanzata da C. Tronchetti di “personaggi di rilievo operanti in giochi sacri,
forse cruenti, in onore delle divinità ”(p. 131, nota 15); ritiene più attendibile,
invece, l’ipotesi di “immagini di combattenti corpo a corpo in campo oppure
impegnati nella scalata delle mura di nuraghi-fortezza col sistema della “testudo”. A
proposito dell’evidente importanza sociale del pugilato avanza l’idea che esso “fosse
considerato un addestramento alla guerra, una sorta di attività premilitare, o quella
di pugili-lottatori periti in gara atletica durante i funerali in onore degli “aristoi”,
militari sepolti nei pozzetti sormontati dalle loro statue. Si tratterebbe di pugilatori
soccombenti “sub clipeo”, “homines devoti” (p. 131, nota 15).
L’assenza di immagini di “Capi” o “Principi” viene spiegata con argomentazioni
culturali relative alla bronzistica figurata: questi soggetti sono infatti tipici dello stile
di Uta (sec. VII) che è successivo allo stile di Abini (secc. fine IX/VIII) al quale si
ispirano le statue.
Si ribadisce che lo stile delle sculture di Monti Prama rivela il cima artistico
geometrico che, nella struttura “colossale” della forma segna il passaggio al modo
orientalizzate, nella sua interpretazione locale.
Monti Prama ha restituito altri elementi dell’addobbo funerario: betili troncoconici
come quelli già osservati presso le tombe di giganti, in probabile riuso o d’imitazione
e numerosi modellini di nuraghe (par. 3).
Su questi ultimi Giovanni Lilliu fa una lunga riflessione, secondo il suo stile, che
parte dalla descrizione analitica e minuziosa dei pezzi significativi alla classificazione
tipologica e si conclude con l’interpretazione condotta su due livelli: quello della
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categoria e quello del contesto archeologico e, soprattutto, nei rapporti con la statuaria.
I modellini sono tutti in arenaria gessosa, come le statue e sono distinti in due tipi:
monotorri e complessi.
I betili monotorre sono assai numerosi: ben 150! Quattro di essi (Monti Prama,
Barumini, Cordianu-Ozieri, Ruinas-Oliena) presentano una protuberanza conica
sulla sommità interpretabile come ripetizione esterna del cono di copertura
sottostante o come copertura del vano d’uscita della scala nel terrazzo o come garitta.
Preziose appaiono le informazioni sulle caratteristiche del terrazzo.
Gli esemplari provengono da luoghi diversi e ricoprono diverse funzioni: in contesto
funerario sono cippi eretti in onore dei morti; in area sacra rientrano nei rituali
oppure sono ex-voto. Il numero assai alto di esemplari monotorre segna l’importanza
del modello che diventa “segno del potere”... “simbolo d’identità della terra ed
emblema del suo popolo” (p. 138), “deposito della divinità e immagine senza volto
della stessa”.
Nel tipo complesso è riprodotto soprattutto il nuraghe quadrilobato, ricco di valori
simbolici Il modello è rappresentato in bronzi, ad esempio negli esemplari da
Ittireddu, Olmedo e Serra Niedda, ma anche nelle navicelle, come applicazione
ornamentale, nei bottoni di bronzo, in una pintadera e, inciso, su un vaso piriforme.
In tutti i casi si tratta di oggetti mobili tetralobati, di genere votivo, ornamentale e
utilitario. La rappresentazione del modello quadrilobato assume grande evidenza
sul piano religioso nell’altare in arenaria tufacea di Su Mulinu-Villanovafranca (pp.
142-143).
L’Autore passa, poi, nel par. 4, all’approfondimento analitico di alcune statue che,
benché frammentarie in quanto spezzate “intenzionalmente, in segno di dominio, dai
vincitori Fenici, attestati a Tharros” (p. 144), offrono elementi per una comprensione
stilistica, evidente anche nei particolari, lacunosa, invece, sul piano formale, che
consente, però, di riconoscere i soggetti rappresentati e, talvolta, la loro iconografia.
Tale approfondimento viene condotto in relazione con le figurine in bronzo che,
nei loro tratti distintivi, sul piano strutturale e nei particolari decorativi, rivelano
l’appartenenza ad un medesimo ceto artigianale o alla medesima bottega e nella
stessa temperie culturale.
Il confronto avviene su particolari anatomici, come “gli occhi, grandi, fissi e assenti
al di là del reale” (come in una testa da Monti Prama ed una da Abini: tav. XI)
oppure sulla postura delle braccia, ripiegate ad angolo, l’una per reggere l’arco,
l’altra in segno di saluto (tavv. XIII-XIV). O sulle trecce e sulla goliera o sulle mani
che stringono l’arco.
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L’analisi, poi si concentra su frammenti di oggetti di Monti Prama: gli archi ad
esempio, di cui si individuano caratteristiche morfologiche e posizione (p. 147).
Tra le 17 statue di pugilatore G. Lilliu si sofferma su tre esemplari (tav. XIX) che
rivelano elementi (cranio, naso a pilastrino, occhi, trecce, armatura, scudo ecc.)
che portano a identificare forma e stile, in analogia con le figurine in bronzo dello
stile di Abini (pp.148-150). Ricostruisce poi l’iconografia grazie a tre figurine in
bronzo, simili nel rendimento essenziale della figura, provenienti da Cala Gonone
(tav. XXIII), dalla grotta del Carmelo-Ozieri e dalla collezione Dessì (p. 151). Dopo
un’ampia digressione sulla statuina del “Sacerdote militare di Vulci” (pp. 151-153)
G. Lilliu affronta l’argomento del rapporto tra gli elementi costitutivi del “sepolcreto
heroon” (statue e arredi) ed il contesto archeologico di riferimento (par. 5).
Poiché statue ed elementi d’arredo sono di grande pregio artistico, rispondono
alle esigenze di un’élite (i committenti) e danno lustro all’area in cui sono collocati.
L’abitato di riferimento dovrebbe essere adeguato, come d’altra parte si osserva
nelle comunità della Sicilia e dell’Etruria nel passaggio dallo stile “geometrico” a
quello “orientalizzante”. A Monti Prama, però, osserva l’Autore, l’abitato, appena
indiziato, è solo un villaggio nuragico a capanne rotonde, tipico della fine del II
millennio a. C., allo stato delle ricerche.
La trattazione si sposta sulle tombe, oltre 25, a pozzetto, a sepoltura primaria e
singola, con individuo seduto e scarso corredo (p. 155). In letteratura sono presenti
altre tre tombe, singole, delle quali due analoghe nella struttura (Cabras-Is Aruttas,
Antas 3-Fluminumaggiore), attribuibili al IX-inizio del VII sec. a. C.; una a fossa
(Senorbì) con elementi di corredo dello stile di Uta (VII sec. a.C.). Una quarta tomba,
di forma e struttura differenti, è documentata a Sa Costa-Sardara; è collettiva ed ha
restituito due statuine di bronzo, raffiguranti arcieri di stile differente dagli stili Uta
e Abini, attribuiti all’orientalizzante antico, nelle quali perizia tecnica e sensibilità
artistica si fondono con esito straordinario. Mentre nella Sardegna meridionale tra il
IX ed il VII sec. a. C. compare il nuovo modello funerario, nella Sardegna centrale
si continua ad usare la tomba di giganti (p. 159).
In seguito all’esame analitico dei complessi funerari, l’Autore deduce che nella
Sardegna della Prima età del Ferro, caratterizzata da un duplice clima culturale,
“geometrico” e “orientalizzante”, si utilizzano tipi sepolcrali funerari differenti, a
dimostrazione della presenza nell’isola di modelli sociali diversi sia per diffusione
territoriale che per sviluppo economico: una società a struttura territoriale e una
società aristocratico-gentilizia, la prima ad economia arretrata, la seconda ad
economia sviluppata e in centri abitativi tendenti all’urbanizzazione.
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G. Lilliu comincia il paragrafo n. 6 precisando che, alla scoperta delle statue di Monti
Prama, “si è ritenuto opportuno, per non dire doveroso, estendere ed applicare la
metodologia e la terminologia in uso per la plastica di età geometrica e orientalizzate,
e di far conseguire le comparazioni”.
Pertanto fa una disanima critica ed approfondita delle proposte di confronti avanzate
da vari archeologi (Bernardini, Tronchetti, Ridgway) per concludere, ribadendo
quanto già affermato in precedenza in suoi scritti e con ulteriori argomentazioni, che
non ravvisa analogie attendibili con le produzioni artistiche d’ambito etrusco, greco,
piceno e daunio (bibliografia relativa alle pp. 161- 167). “Tutta la produzione statuaria
dell’arte italica segue il processo omologante della civiltà artistica orientalizzante
dalla fine del VII secolo al V sec. a.C. e ne manifesta in parte il tempo e sempre
le categorie…” (p. 163). Niente di questa base concettuale dell’orientalizzante
peninsulare, tranne la tendenza al “colossale”, l’Autore ravvisa non solo nelle statue
sarde ma anche nell’architettura templare, nella bronzistica e nella ceramica di lusso,
che nascono “dal pensiero e dal sapere geometrico” (p. 164), a cominciare dal IX
secolo a. C. e nella Prima età del Ferro. Se appare assente l’orientalizzante come
elaborazione greca, sono, però, individuabili modelli ed ispirazione orientale per
contatti diretti.
Il paragrafo n. 7 è dedicato all’individuazione dei rapporti diretti col mondo vicinoorientale ed alle tracce materiali di questi contatti, tra l’XI e la prima metà dell’VIII
secolo a. C. La riflessione è ampia, analitica, critica, ma nello stesso tempo prudente
ed intellettualmente onesta, secondo il suo solito. É affidata soprattutto alle note.
Sono i tempi precoloniali, in cui i Fenici sviluppano un’intensa attività di esplorazione
e di fondazione di piazze di mercato, nelle forme del baratto e del dono, con scambi
di oggetti quotidiani ma anche di oggetti preziosi per avere in cambio materie prime
come i metalli non lavorati. Questo traffico verso l’Occidente segue l’itinerario
marittimo che è stato dei Micenei, con scali a Cipro, Rodi, Creta, Eubea, Corinto,
Sicilia orientale, Sardegna e Cadice.
In Sardegna, tra il X e la Prima metà dell’VIII sec. a.C., da Cipro arrivano oggetti
di pregio come il tripode di bronzo da Collezione oristanese, i bacili da S. Anastasia
di Sardara, lo specchio da Grotta Pirosu-Santadi e le torciere da S. Vero Milis,
Tadasuni, Santa Giusta e Santa Vittoria di Serri (note 190-194 e pp. 168-170).
Grazie ai Fenici, inoltre, giungono vasi askoidi decorati finemente a cerchielli, a
Creta, in Etruria e Sicilia. A Creta, un vaso askoide fa parte del corredo funerario di
un defunto fenicio o di un defunto sardo. Per G. Lilliu si tratta “di pura transazione
commerciale”.
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Giovanni LiLLiu - La Grande statuaria deLLa sardeGna nuraGica e i GiGanti di Monti PraMa
Agli inizi della Prima età del Ferro arrivano in Sardegna, per le stesse vie di scambio,
figurine antropomorfe in bronzo d’origine levantina, foggiate da artigiani vicinoorientali, “echeggianti soggetti e stili di arte siro-palestinese, libanese ed anatolica”,
analizzati da G. Lilliu con dovizia e precisione di citazioni bibliografiche. Sono
nude per lo più ed utilizzate, presumibilmente, come ex-voto. Sono state rinvenute a
Flumenelongu-Alghero, Olmedo, Rio Molinu-Bonorva, Pontes-Galtellì, e sono state
attribuite alla prima metà del IX sec.
Di chiara produzione fenicia sono le figurine in bronzo rinvenute nel pozzo
di S. Cristina di Paulilatino, di Sorgono e di Mandas (tavv. XXX, XXXI,1-2),
attribuite alla prima metà del sec. IX a. C. e, in due casi (tav. XXXI, a destra e
tav. XXXI, 1 a sinistra) agli inizi del IX/fine X sec. a.C., che ricordano in alcuni
particolari morfologici le statuine citate. Una di esse è considerata da G. Lilliu il
prototipo dei “devoti” e dei “sofferenti”, presente nel gruppo sardo “barbaricinomediterraneizzante” dei bronzetti sardi, con qualche variazione concettuale ma con
la medesima funzione di dono alla divinità.
A proposito del citato gruppo sardo, costituito da 22 figurine rinvenute per lo più
nelle zone interne dell’Isola, correlabile sul piano cronologico con il gruppo di
Abini, l’Autore si sofferma su quattro statuine che presentano occhi “a cerchielli
concentrici con punto centrale”, che ricordano il disegno degli occhi delle statue. La
correlazione diventa interessante poiché nel gruppo Abini G. Lilliu rileva elementi
individuati nelle statue, con una grande differenza di stile: “libero” nelle figurine di
bronzo; normalizzato nelle statue (pp. 175-176).
Alla figurina fenicia di tav. XXXI, 1, “seduta in trono”, per la posizione e lo stile,
si ispirano due statuine protosarde nude e col membro virile eretto, l’una da Furtei
l’altra da Ittiri (tav. XXXII, 1-2).
Il discorso si sposta su altri sei bronzetti protosardi, nudi, cinque maschili ed uno
femminile rinvenuti ad Antas e a Serra Niedda-Sorso (tav. XXXIV, 1-2), del IX sec. a.C.,
Adoni-Villanovatulo, Santa Teresa di Gallura (tav. XXXV, 1-2) e Nurdole o LochelisOrani e da località sconosciuta (XXXVI,1- 2). La sesta figurina è femminile, non si
conosce la provenienza ed è chiamata “La Nuda”. Attribuita a tempi avanzati del IX
sec. a.C. (XXXVI, 2). Allo stesso orizzonte iconografico e cronologico del sec. IX a.C.,
sempre d’ispirazione vicino-orientale, sono attribuiti altri due bronzetti dal ripostiglio
di S’Arrideli-Terralba, entrambi di rango regale o principesco, l’uno, femminile, con
copricapo a “sombrero”, l’altro maschile, un “capotribù” (pp. 182-183).
Il capitolo si chiude con una riflessione generale sulla plastica in bronzo esaminata,
costituita da esemplari fenici originali e da imitazioni locali di IX secolo: una
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Giovanni LiLLiu - La Grande statuaria deLLa sardeGna nuraGica e i GiGanti di Monti PraMa
produzione libera ed espressiva, premessa essenziale di quella “normata” del secolo
successivo.
Nell’VIII secolo, infatti, si sviluppa lo stile Abini, che accoglie e rielabora concezioni
ideali e soluzioni tecniche della piccola plastica del secolo IX: “impostazione
statica, planarità, geometrismo, schemi e atteggiamenti figurativi”, in una società
aristocratica che “si visualizza per la prima volta nelle due statuette di S’Arrideli:
il Principe con scettro e la Signora con sombrero”. Allo stile di Abini si ispirano lo
statue di Monti Prama (p. 184).
Nel paragrafo n. 8, G. Lilliu tenta di contestualizzare meglio il complesso archeologico
di Monte Prama, situandolo nel suo tempo. Analizza le proposte cronologiche
avanzate da vari Autori, concentrate su due tendenze: l’VIII secolo oppure il VII/
VI o gli anni tra il VI ed il V, osservandone, “con disagio” il grande divario. Tale
differenza, a suo parere, non ha luogo di esistere. Monti Prama, infatti, non è solo
un gruppo di statue ma “un insieme organico di sito, di concezione, di funzione e di
tempo: un progetto ideologico e monumentale concepito nella stagione nuova delle
aristocrazie a ostentazione delle stesse in vita e in morte” (p. 186).
Questo contesto archeologico, costituito da addobbi funerari simbolici, statue ed
elementi architettonici, è stato analizzato ed approfondito nei suoi aspetti morfologici,
dimensionali, iconografici, stilistici e cronologici, in relazione alla situazione di
ritrovamento, all’origine, alle fonti di ispirazione o di imitazione.
Lo stile di Abini, che si sviluppa nell’VIII secolo, con i soggetti iconografici, i dati
fisionomici, il vestiario, le armature e le loro decorazioni si riflette in maniera
puntuale nelle sculture di Monte Prama: accoglierne la datazione è d’obbligo, per
così dire, seguendo la metodologia di ricerca. D’altra parte, il secolo VII è interessato
dalla plastica di stile Uta, che pare non avere alcun legame iconografico con le statue
di Monti Prama. Infine forme e stili delle immagini etrusche, italiche e adriatiche
evocate come confronti differiscono completamente da quelle di Monti Prama.
In conclusione G. Lilliu avverte, comunque, l’assenza di una documentazione
valida e adeguata a risolvere i problemi del processo storico sotteso al complesso
archeologico di Monti Prama e per comprendere appieno il fenomeno straordinario
“qualitativamente superiore” ai fenomeni confrontati. Rifiuta, però, l’ipotesi di porre
relazioni con la “grande arte in pietra orientale”.
Vede una soluzione nell’analisi interna del fenomeno, nella sua totalità e nelle
caratteristiche tecnico-estetiche.
“Il discorso, ovviamente, resta aperto. Riusciranno a concluderlo -lo spero e lo augurofresche energie e occhi penetranti di giovani archeologi”, afferma in chiusura.
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Giovanni LiLLiu - La Grande statuaria deLLa sardeGna nuraGica e i GiGanti di Monti PraMa
Che cosa i giovani archeologi hanno prodotto di interessante ed utile a risolvere
problemi e divergenze, tra cui la cronologia del sito, nei loro molteplici aspetti?
Un esame sia pure veloce della letteratura sull’argomento ci rivela un’intensa attività
svolta nell’ultimo decennio nel sito di Monti Prama e/o in relazione ad esso, vale
a dire scavi, restauri, ricerche e pubblicazioni, con informazioni importanti e, per
alcuni versi, sorprendenti.
La metodologia seguita è ormai interdisciplinare e coinvolge antropologi, archeologi,
chimici, fisici, geologi, geofisici, archeobotanici, studiosi di paleofauna, restauratori.
Tale approccio rende complesse le problematiche; non è questo il luogo in cui
analizzare i risultati finora ottenuti.
Tra le ultime pubblicazioni uscite (numerose e di vario livello), interessante appare il
lavoro degli archeologi che scavarono a Monti Prama, prima e dopo Giovanni Lilliu,
vale a dire Alessandro Bedini, Carlo Tronchetti, Giovanni Ugas e Raimondo Zucca,
intitolato: Giganti di pietra. Monte Prama. L’Heroon che cambia la storia della Sardegna e del
Mediterraneo, Fabula, Cagliari 2012.
Di grande rilievo scientifico è l’opera in tre volumi dal titolo: A. Boninu, A. Costanzi
Cobau, L. Usai, M. Minoja, A. Usai (a cura di), 2014. Le sculture di Mont’e Prama.
Conservazione e restauro. La mostra. Contesto, scavi e materiali, Gangemi Editore, Roma,
nella quale sono raccolti in sintesi i risultati delle ricerche condotte a partire dal 1975
(scavo Bedini) fino al 2014, quando vennero allestite le Mostre delle statue nei Musei
archeologici di Cagliari e di Cabras.
Divulgativa, aggiornata ed utile è la Guida scritta da E. Usai e R. Zucca, Mont’e Prama.
(Cabras). Le tombe e le sculture, Delfino, Sassari 2015.
Nonostante questa molteplice attività che ha incrementato notevolmente il numero delle
statue e degli arredi simbolici, allo stato attuale, non è stata ancora trovata alcuna traccia
del tempio a colonne ipotizzato da Giovanni Lilliu.
A proposito del “colore rosso, presente in un torso d’arciere…” (p. 132) che, se provato
da analisi adeguate muterebbe le ricostruzioni finora fatte, aprendo nuove prospettive
d’indagine e di conoscenza, pare che le analisi finora eseguite, ancora non concluse, non
abbiano dato risultati apprezzabili: i supporti indagati presumibilmente erano inquinati
o danneggiati. Il colore rosso è, però, documentato anche in due frammenti di gamba,
all’interno di decorazioni ad incisione: cfr. A. Canu, G. M. Demontis, La Diagnostica per
il Restauro delle Sculture di Mont’e Prama, in A. Boninu, A. C. Cobau (a cura di), Le
sculture di Mont’e Prama. Conservazione e Restauro, Gangemi Editore, Roma, pp. 77- 82.
A proposito della cronologia, le datazioni radiometriche effettuate su campioni
riguardanti il collagene di tre individui provenienti da tre tombe (tomba 8 Bedini,
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tombe 1 e 20 Tronchetti), collocano i resti scheletrici tra 1113÷824 BC, cioè tra la
fine del XII e la seconda metà del IX sec. a. C.: cfr. L. Lai, O. Fonzo, E. Pacciani, T.
O’Connel, Isotopi stabili e radioattivi: primi dati su dieta e cronologia assoluta delle
sepolture di Mont’e Prama, in M. Minoja, A. Usai (a cura di), 2014. Le sculture di
Mont’e Prama. Contesto, scavi e materiali, Gangemi Editore Roma: pp. 207-218.
La datazione non è, però, attribuibile, con certezza, alle statue perché non è stata
ancora accertata, sul piano stratigrafico, la connessione di queste con le sepolture.
Assai interessante, invece, appare la datazione C14 933÷798 BC (fine IX-VIII sec.
a.C.), effettuata su carboni dell’US 48, contenente anche un bronzetto con scena
di caccia vicino allo stile Abini, provenienti dalla torre D del nuraghe CuccuradaMogoro: cfr. R. Cicilloni (a cura di), 2015. Ricerche archeologiche a Cuccurada-Mogoro
(Sardegna centro-occidentale), vol. I, Morlacchi Editore U. P., in “Dissonanze”, 6: p. 196.
Questa datazione rispecchia l’ipotesi cronologica fatta da Giovanni Lilliu, utilizzando
metodologie strettamente archeologiche di contesto, e che allo stato attuale, quindi,
resta attendibile.
Giuseppa Tanda
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