Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                

Jim Thompson: un'America in nero.

Ilcorsaronero: Rivista salgariana di letteratura popolare, n. 26 (2018): 18-22.

Lo spleen dissacratore di un grande romanziere dell'America in rivolta.

ilcorsaronero ilcorsaronero DIRETTORI SPIRITUALI: Raffaele Crovi, Claudio G. Fava, Mino Milani, Darwin Pastorin 10,00 EUR O Lo scorso ottobre abbiamo lanciato una sottoscrizione tra gli amici lettori e collaboratori de “Ilcorsaronero”. I risultati sono buoni anche grazie ad alcuni contributi eccezionali. La gran parte di coloro che hanno accolto il nostro appello ha chiesto di non rendere noti i loro nomi, e perciò ci limitiamo ad indicare l'importo complessivo fin qui raccolto, di euro 2927. Non possiamo fare a meno di ricordare la cena organizzata in favore della rivista da un caro amico che ha raccolto ben 500 euro. Riproponiamo l’appello e teniamo aperta la sottoscrizione in favore del rilancio della rivista. Grazie a chi vorrà partecipare. Cara amica, caro amico negli ultimi anni “Ilcorsaronero” si è impegnato a migliorare, cercando di perfezionare la grafica, aumentando il numero delle pagine, curando sempre più la qualità dei testi, aprendo la rivista ai contributi più diversi. Le cose non sono andate del tutto secondo le nostre aspettative e siamo stati costretti per ben tre volte a cambiare editore. Il “Corsaro” si trova ancora una volta a veleggiare in mari tempestosi, ma come sempre dopo la burrasca arriva il sereno, e abbiamo deciso di lavorare con gli amici di Yap Edizioni, organizzatori tra l'altro di Fantavv – festival della letteratura horror, fantasy e avventura. La scelta è stata fatta per la disponibilità, per collaborazioni andate a buon fine, perché interessati alla nostra proposta culturale, ed è una novità. Inoltre sono giovani e in sintonia con le nuove tecnologie che noi fatichiamo a utilizzare con perizia. Per assicurarci un avvenire più solido abbiamo bisogno di una base economica che ci permetta di lavorare in sicurezza per i prossimi tre anni. Puntiamo a raccogliere una cifra contenuta, ma indispensabile. Chiediamo ai nostri Amici più cari di sottoscrivere liberamente quello che riterranno possibile, sottoscrizione che sarà considerata come quota di abbonamento alla rivista per un anno o due, a seconda dell’importo. Da tutti, abbonati, lettori e amici, dipende il nuovo futuro de “Ilcorsaronero”, una rivista unica nel panorama editoriale italiano. Un abbraccio e grazie. Claudio Gallo direttore responsabile “Ilcorsaronero” Roberto Fioraso presidente Associazione “Ilcorsaronero” E DI TOR IAL E Cari lettori de “Ilcorsaronero”, il nostro piccolo e ardito praho torna in mare aperto nella speranza di rispettare gli impegni con gli abbonati e i lettori. Ringrazio tutti coloro che fin qui, con grande fiducia, hanno generosamente aderito alla sottoscrizione promossa per sostenere la rivista. Amici per sempre! Il “Corsaro” nuovo torna con un gruppo editoriale giovane e convinto, una nuova veste grafica e, soprattutto, due condirettori che mi affiancheranno nel governo della rivista garantendone la continuità nel tempo. A loro lascio la parola. Claudio Gallo Avremo bisogno del vostro “appassionato aiuto”. Ci metteremo la passione, questo possiamo garantirlo, la stessa che finora ha spinto altri prima di noi a dedicare tempo ed energie pur di non frenare la pubblicazione de “Ilcorsaronero”, pur di mantenere viva questa storica rivista, pur di mantenerne alto il suo buon nome. Tenerla in vita, comunque, non basta, serve qualcosa di altro, qualcosa che metta benzina nel motore ed eviti la deriva. Per sfidare il tempo che corre, anzi galoppa, un tempo sempre più avaro di emozioni vere, serve continuare a credere con spirito autentico nella qualità delle intenzioni, nell’autenticità delle idee. Negli articoli, negli interventi, nella ricerca, negli approfondimenti, che appariranno di numero in numero, proveremo sempre a offrire un continuo stimolo alla curiosità, un perenne movimento di trasformazione, di apertura e mai di chiusura. Proveremo, anche questo possiamo garantire. Proseguiremo a parlare di Salgari, dei suoi eroi e delle sue storie, dei suoi romanzi, e di tutto quello che hanno saputo far germogliare nell’anima di chi ha avuto la fortuna di incontrarlo tra le pagine dei libri. Cercheremo di offrire passione in un mondo che offre altro; un compito davvero molto difficile, un’ambizione quasi improba, ma ci proveremo, magari con l’aiuto di tutti così com’è stato finora. L’unica soluzione è credere con la tenacia della passione assecondando un sentimento che da tempo pulsa nella rivista. Avremo bisogno del vostro “appassionato aiuto”, della vostra curiosità, del vostro desiderio di conoscere, lo stesso che spinge l’uomo a cambiare, crescere, migliorare. Dario Pontuale EDITOR IAL E Da questo numero e con senso di responsabilità raccolgo l'invito di Claudio Gallo a partecipare alla condirezione del nuovo “Ilcorsaronero”. Pertanto firmerò questo, e i prossimi numeri, con Dario Pontuale che con me dividerà, ritengo e spero, molti onori e pochi oneri, in spirito di collaborazione fraterna e “feroce” nel rispetto delle proprie rispettive competenze, predilezioni e idiosincrasie, com'erano le regole non scritte della Tortuga. Tutto questo accade non da un giorno all'altro, ma da un molto discutere, di settimane e di mesi, in un momento difficile anche nella semplice gestione della rivista, mai facendo venir meno l'ottimismo visionario, che proverbialmente contraddistingue me e Gallo, e immaginando se non un futuro radioso almeno un navigare con bonaccia. Senza derive, in agguato quando la calma prende il sopravvento. Mentre le questioni intorno a Salgari continuavano a muoversi, con le uscite dell'importante e per molti versi discutibile e contraddittorio, primo volume critico-biografico di Ann Lawson Lucas, o dei recenti, e giocati in casa, racconti "perduti" e "ritrovati" di Guido Altieri. Infatti compito fondamentale sarà quello di illuminare la produzione meno celebre del "Capitano", che però suggerisce letture inedite della contemporaneità, inserendosi negli studi coloniali come nei gender studies per non tacere della cronaca. In questo slittamento temporale non voglio dimenticare né le pionieristiche ricerche di Giuseppe Turcato, né la capacità di Mario Soldati di fondere nel suo cinema popolare autorialità e intrattenimento. Dunque, occhi al futuro, senza perdere di vista la tradizione come anche gli scrittori e romanzieri più' sensibili e abili a raccogliere trame e personaggi salgariani. Dividerò il nuovo indirizzo di questa rivista con Dario Pontuale, e farò la mia parte: le mie linee d'azione sono ben conosciute da chi ha frequentato e frequenta “Ilcorsaronero”, e sa della mia attività editoriale e pubblicistica. I numeri speciali su Salgari e il Cinema e sull'indimenticabile Claudio G. Fava, che ho curato, consentono di misurare ciò che intendo come letteratura popolare. Idee ancor più manifeste a breve, nella cura del prossimo speciale dedicato a Carlo Fruttero. Ringraziando Claudio per la fiducia, stringendo la mano a Dario, invito tutti i redattori storici, a restare sul ponte di questa nuova Folgore, e a chi è sceso di risalirvi: c'è posto per tutti, per chi ha intenzione come noi di confrontarsi con i mari salgariani che formano quel paese in più in un canone letterario italiano ed europeo, che avverte il bisogno di novità migranti e meticce per non esaurirsi nelle routine di mestiere. Non posso a questo punto non nominare Roberto Fioraso e Giuseppe Bonomi, colonne d'Ercole ieri come oggi del "Corsaro", e a loro, come a tutti i collaboratori, vecchi e nuovi, desidero consegnare un'indicazione di metodo suggerita da Ugo Gregoretti in prossimità dei titoli di coda del suo Le tigri di Mompracem. Una serata con Emilio Salgari: «Non vorremmo trarre nessuna conclusione, anche perché non avevamo una tesi prefabbricata. In realtà non volevamo dimostrare nulla, ma semplicemente mostrare, esporre dei materiali narrativi e informativi, gli uni accanto agli altri per contemplarli, per cogliere eventuali suggerimenti, per vedere se attraverso il loro accostamento si potesse arrivare a percepire una matrice culturale comune». Buona lettura. Fabio Francione TERZA EDIZIONE Festival della Letteratura Horror, Fantasy e d’Avventura 25›26 PARCO VILLA ROMANI SONA (VR) MAGGIO INGRESSO Ospiti, libri, letteratura, conferenze, workshop, eventi speciali, giochi in scatola, duelli di scherma medievale, birra artigianale e molto altro! LIBERO 2 0 1 9 4 ILCORSARONERO 26 Abbonati a Ilcorsaronero! Per ricevere i prossimi 3 numeri de "Ilcorsaronero" contatta l'editore: abbonati@yapedizioni.it 15 ,00 25 EURO ,00 30 EURO 3 numeri de Ilcorsaronero in versione digitale (.pdf) 3 numeri de Ilcorsaronero in versione cartacea* *SPESE DI SPEDIZIONE INCLUSE ,00 EURO 3 numeri de Ilcorsaronero in versione cartacea* e in versione digitale (.pdf) *SPESE DI SPEDIZIONE INCLUSE I LCO R SA RO N E RO 2 6 5 ilcorsaronero NOVEMBRE 2018 Periodico quadrimestrale Iscrizione al Tribunale di Verona n. 1848 R.S. 2009 REDAZIONE c/o Biblioteca Civica Via Cappello, 43 — 37121 Verona DIRETTORE RESPONSABILE Claudio Gallo CONDIRETTORI Fabio Francione, Dario Pontuale FONDATORI Luciano Curreri, Roberto Fioraso, Fabrizio Foni, Claudio Gallo, Caterina Lombardo, Matteo Lo Presti, Donato Pascali, Massimo Tassi REDAZIONE Giuseppe Bonomi, Alberto Brambilla, Andrea Campalto, Lucia Chimirri, Luca Crovi, Roberto Fioraso, Michele Martinelli, Claudia Mizzotti, Barbara Coffani Polettini, Nicola Ruffo, Massimo Tassi, Francesco Testi SEGRETARIA DI REDAZIONE Martina Benati REDAZIONE STORICA Chiara Begnini, Lorenzo Bassotto, Giuseppe Bonomi, Alberto Brambilla, Marianna Bringhenti, Andrea Campalto, Lucia Chimirri, Luca Crovi, Alessandro Faccioli, Roberto Fioraso, Fabio Francione, Fabrizio Foni, Giulia Gadaleta, Irene Incarico, Michele Martinelli, Claudia Mizzotti, Elena Pigozzi, Elena Salgari, Sonia Salgari, Massimo Tassi, Paola Tiloca, Paolo Tosini, Francesca Veneziano DESIGN Stefano Torregrossa ILLUSTRAZIONI L’illustrazione di copertina è di Matteo Cuccato (matteocuccato. com). Il disegno di pag. 37 è di Ivo Milazzo. Le riproduzioni delle illustrazioni originali sono di Matteo D’Agostini. Si ringrazia Andrea Lucchese per la preziosa collaborazione. www.rivistailcorsaronero.it 28 Giuseppe Biasioli: giornalista, duellante e amico di Salgari CLAUDIO GALLO E GIUSEPPE BONOMI 40 Robert Louis Stevenson Gli allegri compari, ovvero: Stevenson in un racconto solo Un mondo intero in testa DARIO PONTUALE MARCO PISCIOTTANI Il romanzo perfetto MINO MILANI Stevenson e la filosofia del romanzo Sortilegi e magie delle isole ANDREA COMINCINI LUCIA CHIMIRRI Editoriale 2 Il demone di Cyrano 60 MARCELLO SIMONI La dea lo vuole! 8 MORENO BURATTINI Non è più tempo d'eroi: il centenario di Robert Aldrich 62 RENATO VENTURELLI Le dispiace se parliamo italiano? 14 MARGHERITA FORESTAN Jim Thompson: un'America in nero 18 Una gozzaniana "menzogna primaverile" 64 DARWIN PASTORIN PAOLA IRENE GALLI MASTRODONATO Salgari e dintorni sul settimanale satirico "Can de la Scala" 23 Peppone e don Camillo, largo ai bisticci dei nipoti 66 MASSIMO TASSI ARCHIVIO SERRAVALLE — Il mar di Liguria e le cime innevate del Montana NICOLA RUFFO 34 Notizie Lettere alla Redazione Note biografiche Segnalazioni 68 73 74 79 M O R E N O B U R AT T I N I La dea lo vuole! — — Il laccio del thug ha stretto al collo anche me, in un momento imprecisato della mia infanzia collocabile più o meno fra il 1969 e il 1970. «La dea lo vuole!», ha probabilmente sibilato una voce nella mia testa spingendomi a scegliere proprio I misteri della Jungla Nera nell’edicola del piccolo paese di montagna (Gavinana, provincia di Pistoia) dove, su uno scaffale, erano messi in mostra vari volumi de “I classici della gioventù” della benemerita Editrice Boschi. — — 8 ILCORSARONERO 26 TESTIMONIANZE F u uno dei primissimi libri che lessi dopo averli scelti proprio io, e non per essermi stati messi in mano dai nonni o dai genitori. Non ricordo l’anno, ma sicuramente avrò frequentato la seconda o la terza elementare, e rammento perfettamente che a pagare l’acquisto fu mio zio Lamberto, che in seguito mi avrebbe fatto altri regali del genere, accompagnandomi personalmente a scegliere la lettura che preferivo. Vedendomi preferire Tremal-Naik a Pattini d’argento o Il lampionaio, approvò annuendo con la testa e rivelandomi di essere stato anche lui un forte lettore salgariano. Del resto, in copertina c’era un eroe barbuto con il turbante in testa colto nell’attimo di tagliare, con una sorta di scimitarra, la testa a un cobra: come avrei potuto scegliere Piccole donne? La dea che voleva spingermi fra le grinfie di Salgari era «la misteriosa divinità che impera tremenda su tutta l’India» o la più amichevole sirena dell’Avventura? Soltanto da grande, rileggendo il ciclo indiano alla luce del successivo curriculum di studi, avrei saputo che i thugs erano esistiti davvero e che nel 1895 (anno di pubblicazione de I misteri della Jungla Nera) forse ce n’era ancora qualcuno in giro, se è vero che nel 1904 i britannici ne scoprirono un complotto. Per il me stesso bambino, però, niente era più vero del coltellaccio che a un certo punto del racconto, Tremal-Naik trova conficcato per terra, davanti alla sua capanna, che trattiene un foglio di carta su cui è vergato un messaggio: «La misteriosa divinità che impera tremenda su tutta l’India, ti manda il pugnale della morte. Basta una scalfittura della sua punta avvelenata perché tu scenda nella tomba!». E, qualche capitolo dopo, ecco uno strangolatore entrare in azione contro Aghur, un servitore del cacciatore di serpenti protagonista del romanzo: «Il fanatico afferrò solidamente il laccio e soffocò la voce della vittima: Muori: la dea lo vuole!». Quando Guido Nolitta, alias Sergio Bonelli, propose i thugs quali antagonisti dello Spirito con la Scure (raffigurandoli come assassini con il turbante e il rumal annodato in mano), immaginando che un gruppo di loro si fosse trasferito nella foresta di Darkwood per compiere una vendetta contro un ufficiale inglese ritiratosi nel Nuovo Mondo, io sapevo già tutto. O meglio: Nolitta scrisse La dea nera nel 1969, io però lessi l’avventura zagoriana nella ristampa degli anni Settanta. Nel 2002 quando già lavoravo da tempo a Milano proprio nella redazione di “Zagor” e ne sceneggiavo le storie, fui io a dare un seguito al racconto di Bonelli, intitolandolo per l’appunto Thugs! Nel 1976, quando arrivò in televisione lo sceneggiato di Sergio Sollima, ispirato dal ciclo malese di Salgari (composto da ben dieci titoli), avevo quattordici anni: seguii avidamente tutte le puntate e ne rimasi favorevolmente colpito, ma conoscevo a menadito trama e argomento e potevo vantarmene con tutti, compagni di classe e parenti (tranne zio Lamberto), che sembravano scoprire Sandokan soltanto per il passaggio televisivo. Le tigri di Mompracem era infatti stato uno dei romanzi che avevo letto subito dopo il primo dono di zio Lamberto, e I misteri della Jungla Nera era stato una sorta di prequel. Del resto anche nei romanzi di Salgari, Sandokan e Tremal-Naik si sarebbero incontrati (e Tremal-Naik compare infatti anche nello sceneggiato di Sollima). Anche se il pirata salgariano si fa chiamare “la Tigre della Malesia”, non è malese (lo dice lo stesso autore fin dal primo romanzo in cui compare) ma bornese. Di sicuro non è indiano e dunque non può avere i lineamenti di Kabir Bedi, nonostante ormai I LCO R SA RO N E RO 2 6 9 T EST I MO N I AN Z E tutti lo identifichiamo con quell’aspetto (e va pure bene). Un’altra cosa che si scopre leggendo Le tigri di Mompracem è che Marianna, la Perla di Labuan, la ragazza di cui il pirata si innamora follemente, è nata a Napoli (o quanto meno, in una località del Golfo) da madre italiana e padre inglese. Rimasta orfana in tenera età, è stata affidata a undici anni all’unico parente rimastole, lo zio James Guillonk, che la porta con sé nel Borneo. Colpisce il fatto che, quando Sandokan la vede, lei abbia solo “sedici o diciassette anni”. Oggi si tratterebbe di un amore proibito, ma l’adolescenza come la concepiamo noi è frutto del Ventesimo Secolo. Le tigri di Mompracem non raccontano imprese di pirateria (se non un breve abbordaggio iniziale) ma il proposito del protagonista di smettere i panni del pirata e ritirarsi a vita privata, abbandonando il suo covo di Mompracem. Il romanzo inizia con il desiderio quasi ossessivo di Sandokan di vedere Marianna, la cui bellezza gli è stata descritta, evidentemente con il pur segreto desiderio che capiti quello che poi effettivamente succede: lui si innamora, lei contraccambia. Amore di quelli che sconvolgono le menti, ovviamente, di fronte ai quali non ci sono scogli che possano arginare il mare. Appunto per questo l’eroe non ci fa proprio una bella figura agli occhi di uno che volesse valutarne il comportamento dal punto di vista razionale: pur di incontrare la Perla di Labuan, che ancora non conosce, e dunque per un capriccio, o un proposito balzano, Sandokan provoca la morte di decine di suoi uomini. Poi si incaponisce di rapirla, e anche in questo caso trascina i tigrotti allo sbaraglio inutilmente trattenuto dal fido Yanez, il saggio portoghese che gli fa da braccio destro, che cerca di farlo ragionare, che lo toglie dai guai in cui incautamente l’esaltato “fratellino” si va a cacciare come uno sconsiderato. Tornato a Mompracem con Marianna, si vede attaccato da Lord Guillonk e perde l’isola costretto alla fuga con pochi superstiti. Insomma, l’eroe ha decisamente perso la testa. Da questo punto di vista, il Corsaro Nero è un personaggio decisamente più maturo. In ogni caso, fin da bambino, ho capito che non dovevo valutare le scelte di Sandokan dal punto di vista della razionalità e del buon senso. Davanti alla prosa di Salgari si resta incantati come di fronte alla potenza di un’orchestra sinfonica che esegua una impetuosa e trascinante partitura d’opera lirica. Tutto è formidabile, roboante, turbinoso. I sentimenti, le emozioni, il coraggio, l’ardire, sono potenti. Gli scenari, il mare, le isole, i venti e le tempeste, stordiscono per bellezza e potenza. Sandokan è una sorta di divinità biblica che dispensa premi e punizioni, che pretende e ottiene fedeltà assoluta, che richiede sacrifici umani. La mistica del politicamente corretto è (fortunatamente) di là da venire e il “Capitano” (questo il soprannome dello scrittore) può usare frasi che oggi suonerebbero razziste, o usare come eroe un pirata spietato che ha mietuto centinaia di vittime. Tuttavia, la Tigre della Malesia non è un predone Fin da bambino ho capito che non dovevo valutare le scelte di Sandokan dal punto di vista della razionalità e del buon senso. 10 ILCORSARONERO 26 TESTIMONIANZE assassino, è un vendicatore. L’inglese James Brook, detto “il rajah bianco”, gli ha sterminato la famiglia, alleato con spagnoli e olandesi, e lo ha spodestato dal trono di un regno del Borneo, di cui era l’erede. Il padre di Sandokan, sovrano di quel reame, si chiamava Kaigadan (lo si saprà nei romanzi che compongono il seguito della saga). Unico scampato alla strage dei suoi famigliari e costretto a fuggire, il principe giura vendetta contro tutti i colonialisti occidentali (da qui il dibattito, assolutamente stupido, se si tratti di un eroe di “destra” o di “sinistra”, con argomenti a favore e sfavore dell’una e dell’altra ipotesi). Il suo obiettivo non è vivere da pirata ma riprendersi il regno, cosa che avverrà in Sandokan alla riscossa. Salgari non mi ha solo spinto a scrivere anch’io, come Nolitta, una storia con i thugs, ma anche alcune di pirati. Sono stato io a inserire nella fiction zagoriana il personaggio storico di Jean Lafitte. Del Lafitte della realtà a un certo punto si sono perse le tracce dopo che venne convinto dagli americani a sgombrare il covo di Galveston, salpando a bordo del vascello Pride, dopo che il Texas era divenuto uno degli Stati Uniti. Nelle mie storie, Jean è anziano e ufficialmente risulta scomparso. Nessuno lo ricerca più, casomai si cercano i suoi tesori (realmente esistiti, celati in località segrete e da sempre ricercati). Persa la Pride originale, se ne è costruita una nuova e ancora naviga sulle acque del Golfo del Messico. Gli ho messo però al fianco la figlia Denise, dopo aver letto su un libro di storia che davvero ne aveva una, chiamata Denise Jeannette. Di lei esiste una interessante descrizione fatta da un certo McKenny, ufficiale della marina degli Stati Uniti, che incontrò Denise il 2 marzo 1821 a bordo della Pride, dove era salito per consegnare a Lafitte l’ultimatum delle autorità americane che avrebbe obbligato il pirata a lasciare il suo covo di Galveston. Nel 1839, sulla rivista “United States Magazine and Democracy Review”, McKenny descriveva così la ragazza: «Comparve una giovane donna. Uno dei più radiosi esempi di bruna che si possano sognare. Una figura incantevole, di forme piene e voluttuose, lineamenti di grande bellezza, occhi neri dallo sguardo languido, e la capigliatura più nera e lussureggiante che si sia mai arricciolata sulla terra. Insomma, tutto quanto occorreva per indurre una squadra di giovanotti sentimentali, quali eravamo, alla poesia o al suicidio». Da vecchio salgariano non potevo perdermi l’occasione di inserire un personaggio del genere in un mio fumetto. Jean Lafitte e Denise si trovano coinvolti con Zagor in una prima avventura alla ricerca di un vecchio bottino nascosto in un’isola al largo delle coste africane, contendendoselo con un altro vecchio pirata dal nome (storico) di Barbe-en-feu. Poi tornano da comprimari in numerose altre avventure, come I bassifondi di New Orleans, che si svolge tra il delta del Mississippi e la giungla dello Yucatan, lunga ben cinque albi (470 tavole, disegni di Gallieno Ferri). Non è una storia di pirateria in senso stretto, dato che si parla di guerrieri aztechi rimasti nascosti Salgari non mi ha solo spinto a scrivere anch’io, come Nolitta, una storia con i thugs, ma anche alcune di pirati. I LCO R SA RO N E RO 2 6 11 T EST I MO N I AN Z E per secoli in una palude, ma Jean Lafitte c’è dall’inizio alla fine e ha la fierezza dell’anziano pirata. A dimostrazione del fatto che quando c’è un pirata, c’è comunque Avventura. E nel ricordo dei romanzi salgariani che mescolano le più diverse suggestioni. Che nel Capitano ci si imbatta sempre, e comunque, lo dimostra una avventura zagoriana scritta da Mauro Boselli, intitolata Passaggio a Nord-Ovest e ispirata a quanto accaduto a Sir John Franklin e alle sue due navi, Erebus e Terror, salpate dall’Inghilterra nel 1845 alla volta della Baia di Baffin, sul lato occidentale della Groenlandia. Da lì l’esploratore contava di forzare il passaggio attraverso i ghiacci artici fino al Mare di Beaufort, che bagna le coste settentrionali dell’Alaska. Franklin era un esperto ufficiale della marina militare britannica che aveva già preso parte a tre precedenti esplorazioni artiche: quando compì la quarta aveva cinquantanove anni e tutta l’esperienza che serviva. Purtroppo, per quanto ben equipaggiata, la spedizione, composta da ben centotrenta marinai, scomparve nel nulla. La moglie Jane Griffin esercitò tali e tante pressioni che l’Ammiragliato, nel 1848, organizzò una ricerca in grande stile che coinvolse numerosi mezzi. Una cospicua ricompensa promessa a chi avesse ritrovato le navi di Franklin, mise in moto uomini e navi di varie nazionalità. Nel 1854 l’esploratore John Rae, giunto nei presso dell’Isola Principe di Galles, raccolse dagli Inuit le prime notizie sulla sorte degli scomparsi; nel 1859 Francis Leopold McClintick trovò, sull’Isola di Re William un messaggio abbandonato. Il testo conteneva un resoconto del viaggio fino al 25 aprile 1848. Si seppe che le navi vennero bloccate dalla morsa del ghiaccio nell’inverno del 1845 nei pressi dell’Isola di Re Guglielmo, più o meno a metà strada, ma l’estate successiva il disgelo non bastò a disincagliarle. La seconda stagione invernale fu fatale: lentamente gli uomini cominciarono ad ammalarsi e perire, Franklin stesso morì nel 1847. Nella primavera del 1848 i superstiti cercarono di tornare indietro a piedi, ma nessuno raggiunse la salvezza. Dei marinai furono trovati solo i miseri resti di una piccolissima parte di loro. Il quindicesimo capitolo del romanzo Al Polo Nord, di Salgari, pubblicato nel 1898, si intitola Avanzi della spedizione Franklin, ed è corredato da una illustrazione di Giuseppe Gamba che mostra, appunto, degli esploratori artici in preghiera davanti alle tombe di alcuni membri dell’equipaggio. Salgari dice che i resti erano stati sepolti dagli esquimesi, i quali però «non trovarono che degli avanzi di scheletri. Gli orsi bianchi avevano banchettato colle carni di quegli uomini». I protagonisti del romanzo, due cacciatori di lontre, discutono se sia il caso o meno di «tornarsene in Europa per portare in Inghilterra le reliquie della spedizione», che però poi vengono lasciate lì dove rinvenute. In un altro passaggio del romanzo di Salgari, i marinai del Che nel Capitano ci si imbatta sempre e comunque lo dimostra una avventura zagoriana scritta da Mauro Boselli e intitolata Passaggio a Nord-Ovest. 12 ILCORSARONERO 26 TESTIMONIANZE vascello Taimyr (attrezzato in modo fantascientifico e in grado di immergersi come sottomarino, sull’esempio del Nautilus di Jules Verne) fanno rotta verso la Terra di Banks: «andiamo a verificare se oltre il famoso passaggio a Nord-Ovest scoperto da McClure ne esiste un altro che sia veramente accessibile alle navi». Robert McClure, esploratore irlandese (1807-1873), partito nel 1850 alla ricerca di John Franklin, scoprì a sud dell’Isola di Banks un passaggio in grado di mettere in comunicazione Atlantico e Pacifico alle latitudini artiche. La scoperta avvenne in un tratto di mare gelato che fu costretto ad attraversare a piedi, con l’aiuto delle slitte: dunque la via non era all’epoca navigabile. Lo è ai giorni nostri, dato che i ghiacci polari si sono ritirati rispetto a quegli anni. L’avventura bonelliana classica, quella su cui si sono fondate le fortune della Casa editrice, nasce peraltro da uno scrittore di stampo salgariano, Giovanni Luigi Bonelli, «un romanziere prestato al fumetto e mai più restituito», come lui stesso si definiva. Chiaramente ispirati a Salgari erano i romanzi che aveva scritto prima di passare anima e corpo alla narrativa disegnata. Il primo fu Le tigri dell’Atlantico, apparso a puntate nel 1936 sull’ “Audace” e poi ristampato in volume nel 1940. Si tratta di un noir dove gli elementi tradizionali del poliziesco si mescolano con suggestioni puramente avventurose mediate da Conrad, Salgari, London e Verne. «Ho sempre preferito l’azione alla complessità della trama», dichiarò Bonelli in una delle rare interviste da lui rilasciate. «I miei […] personaggi […] si muovono in grandi spazi selvaggi e […] devono quasi obbligatoriamente essere molto dinamici». Sempre nel 1940, l’editrice AVE pubblicò Il Crociato Nero, che narra le avventure di Ugo di Ivrea, nobile cavaliere partito per la prima crociata. Nello stesso anno, ma edito dalla SADEL, è I fratelli del silenzio, qui l’investigatore John Mauri (già protagonista del primo romanzo) affronta, in Marocco, una pericolosa setta di fanatici adoratori del dio Molok, che molto ricordano i thugs e la loro Dea Nera. Per concludere, lasciatemi ricordare che Sweet Salgari (2012), graphic novel di Paolo Bacilieri sulla vita (e sulla morte) del Capitano è dedicato a Sergio Bonelli. L’amore verso Salgari, evidentemente, accomuna una insospettabile miriade di lettori, come viene mostrato nelle bellissime tavole che raccontano il momento in cui la notizia del suicidio del grande scrittore passa di bocca in bocca tra la gente: studenti, operai, massaie… interrompono le loro attività per correre a vederne la salma, composta nella camera ardente, e poi ne seguono il feretro in un lunghissimo corteo. Bacilieri lo commenta così: «Guarda lassù: il Corsaro Nero piange!». La biografia dell’uomo che ha fatto sognare intere generazioni di lettori è svolta in un continuo alternarsi fra il presente narrativo (quello della preparazione ed esecuzione del tremendo seppuku, il 25 aprile 1911) e il passato, procedendo per episodi, a partire dall’infanzia del protagonista. Non si tratta di cronaca biografica, ma di poesia mediata per loci selecti, flash, suggestioni, spostamenti da una città all’altra, fino alla terribile lettera agli editori: «A voi che vi siete arricchiti colla mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria o anche più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna». Vi saluto spezzando la penna! Una frase degna di Sandokan! I LCO R SA RO N E RO 2 6 13 T EST I MO N I AN Z E M A R G H E R I TA F O R E S TA N Le dispiace se parliamo italiano? — — Abbiamo sempre parlato in italiano Albert Uderzo e io, o meglio, una lingua fatta di molte parole in dialetto trevigiano che mi sono sempre ben guardata di correggere nonostante la sua esplicita richiesta di farlo. Troppo divertente— e comunque: dove trovare il coraggio per interromperlo o bloccare quel suo gesticolare molto italiano? — — 14 ILCORSARONERO 26 L ABOR ATOR IO P arlava e sorrideva, chiuso in un completo grigio, una persona elegante, gentile, dallo sguardo facile da raggiungere, che mi piace ricordare anche per la sua modestia. Non a caso, più volte nel corso dei nostri incontri legati all’uscita di nuovi album, mi ha ricordato e raccontato i suoi inizi, gli insuccessi, i personaggi e le storie «appassiti tra le mani», ma soprattutto il lungo sodalizio con René Goscinny, che non ho conosciuto, che citava costantemente utilizzando le battute dei vari personaggi, delle varie avventure che li ha visti a lungo amici e collaboratori. Ho incontrato Albert Uderzo quando le sorti di Asterix, il piccolo eroe gallico e il suscettibile, irascibile e goloso Obelix, erano ormai solo nelle sue mani. Da poco si era consumato anche il distacco dalla casa editrice Dargaud, l’editore dei grandi numeri in quanto a fumetti. Si è parlato a lungo, nel mondo dell’editoria, di questo inatteso divorzio, Dargaud non solo non pubblicò più Asterix ma tutta la distribuzione dei titoli a catalogo passò all’editore Hachette, non senza perplessità da parte dell’altra metà di Asterix, la famiglia di René Goscinny, perplessità che il tempo e i buoni risultati appianarono. Le Edizioni Albert-René, dal nome dei creatori di Asterix, nascono a Parigi sotto la direzione della figlia di Uderzo, Sylvie, con l’ obiettivo di rilanciare l’intera collezione Asterix, curandone l’immagine e il marketing in collaborazione con Hachette, nonché pubblicare quanto, da solo, da quel 1979 avrebbe realizzato Uderzo. Comincia con il secondo album per la Albert-René la mia frequentazione di Sylvie, giovane ma volitiva, desiderosa di dimostrare le sue capacità manageriali e convincere il mercato del fumetto, francese e non, che lasciare Dargaud era stata la scelta giusta. Per me, soprattutto, conta e conterà l’incontro con Albert e il rapporto di fiducia che ne nacque. Mi ero preparata al primo incontro rileggendo quanto già letto, grazie alla biblioteca dei miei fratelli fanatici di Asterix così come di altri personaggi del mondo del fumetto, avendo cura, soprattutto, di colmare le lacune sulla nascita e lo sviluppo dei personaggi, in questo mi fu di aiuto Franco Fossati (chi volesse sapere tutto su questo amico scomparso giovanissimo, giornalista, saggista, esperto di storie disegnate può contattare a Monza la Fondazione che porta il suo nome, bit.ly/fossati). Dunque mi ritenevo pronta, ma vedendo le prime tavole di Asterix e il grande fossato, alcune ancora solo dei tratti a matita o a china, altre colorate, provai un’emozione tale che sfociò in una serie di frasi di stupore e ammirazione che a lungo, Albert e Sylvie mi ricorderanno, o meglio a ogni nuovo album ameranno ripetere, quasi un consolidato gioco delle parti ormai. Per Mondadori, con le Edizioni Albert-René, ho lavorato all’edizione italiana di dieci album, due dei quali fuori serie — Asterix e la sorpresa di Cesare e Come fu che Obelix cadde da piccolo nel paiolo del druido. Sicuramente ricordo che molto faticoso è stato portare a termine l’edizione delle ultime due storie: Asterix e Latraviata e Asterix tra banchi… e banchetti. Infinite discussioni sui titoli, ancora oggi penso che Latraviata non abbia alcun senso, meglio sarebbe stato Traviata lasciando il “la” come articolo, ma ricordo anche le infinite proposte per banchi… e banchetti, perché oltre al problema con l’editore originale, soprattutto con un suo consulente che mai conobbi, c’era da risolvere quello con il marketing di casa e non sempre la mediazione era la strada migliore per il risultato finale. Oggi mi chiedo se forse stavano già maturando i conflitti che negli anni successivi, e fino al 2014, hanno visto Albert e Sylvie, ma si racconta soprattutto Albert e Bernard de Choisy, il genero, coinvolti in una battaglia legale che ha tenuto separate le due famiglie, i nipoti dai non- I LCO R SA RO N E RO 2 6 15 ni, i genitori dalla figlia, gli uni contro gli altri, con accuse pesantissime. Un conflitto famigliare devastante del quale mai avrei voluto leggere, che segnò il silenzio, purtroppo mai interrotto da parte loro e mia, non potendo e non sapendo, se non dai giornali, quale davvero fosse la base dei conflitti. Impossibile intervenire dunque anche solo per far sentire affetto e vicinanza a entrambi, e così le distanze si sono fatte sempre più insuperabili. Solo per le festività del Natale 2015, avuto notizia dell’avvenuta riappacificazione, ho inviato un biglietto di auguri al quale nessuno ha risposto. Un po’ ci sono rimasta male, ma ripensandoci oggi posso solo immaginare la profondità delle ferite, il lungo lavoro di cura necessario a ristabilire la reciproca fiducia dopo anni di avvocati e tribunali. C’erano dei semplici riti che aprivano i lavori di pubblicazione di un nuovo album: un viaggio a Parigi, una colazione insieme ad Albert, amava la pasta e il minestrone, un pomeriggio per verificare insieme i testi nel caso ci fossero termini in italiano da condividere, l’incontro con la persona che avrebbe rivisto la traduzione italiana — mai un problema grazie al lavoro di Franco Fossati e Alba Avesini che mi fa piacere, qui, ricordare — una cena con Sylvie e il marito Bernard de Choisy, da ultimo, ma solo perché si aspettava il giorno successivo, l’ immancabile discussione con il responsabile amministrativo. Non mi piaceva e non per quegli occhiali troppo piccoli per un volto grassottello o la cravatta eccessivamente sottile che sembrava bloccargli il respiro, il punto è che non sorrideva mai, non ci amava, penso, sicuramente non riusciva a comprendere quanto il mercato italiano di Asterix differisse da quello francese e tedesco dove erano milioni le copie che ogni album riusciva a produrre. E così, la firma del contratto di pubblicazione finiva sempre con «elha, les italiens» ed era sempre una fatica e una corsa per arrivare in tempo all’aeroporto per il primo volo del pomeriggio per Milano. Tra le passioni di cui Albert amava raccontare c’erano le auto italiane, o meglio l’auto per definizione: la Ferrari, senza trascurare il cibo e il vino. Sulle Ferrari mi limitavo ad ascoltare, salvo portargli delle miniature giocattolo della celebre vettura per il nipotino. Ci fu un’occasione in cui mi fece fare un giro per Parigi a patto che il Natale successivo gli inviassi un Pandoro, cosa che feci per diversi anni. Commentava spesso, durante i nostri pranzi, la politica francese ed era preparato anche sulle vicende italiane, gli Anni Ottanta e Novanta che, va detto, offrivano molto materiale, lo faceva con rispetto, si sentiva certamente francese, ma quel suo discutere mezzo in italiano e mezzo in trevigiano a me ha sempre dato l’impressione di un talento italiano, nato in Francia. Profondo conoscitore della vita dei piccoli paesi di campagna che amava sicuramente più della grande città, diventato adulto immaginandosi ancora alle prese con le quotidiane scaramucce da villaggio, battaglie mai cruente o definitive, al più ossa rotte e occhi neri, contro gli immancabili Romani. Buona vita Albert, ben oltre i tuoi 91. 16 ILCORSARONERO 26 P R E M I O D I L E T T E R AT U R A AV V E N T U R O S A premioemiliosalgari.it I LCO R SA RO N E RO 2 6 17 PAO L A I R E N E G A L L I M A S T R O D O N ATO Jim Thompson: un’America in nero. — — — «Esistono trentadue modi di scrivere una storia… ma una sola trama: le cose non sono quelle che sembrano». — — — 18 ILCORSARONERO 26 L ABOR ATOR IO J im Thompson nasce nel 1906 in un piccolo centro dell’Oklahoma, Anadarko, sede della frontiera “storica” nord-occidentale, da un padre che all’epoca svolge le mansioni di vice-sceriffo e che poi intraprenderà vari mestieri, maestro, assicuratore, speculatore petrolifero, e infine morirà solo, in un ospizio. La madre, Birdie Myers, donna volitiva e istruita, avrà un ruolo determinante nella vita dello scrittore, condizionandolo nelle sue scelte di vita, ma aiutandolo agli esordi quando Jim doveva preparare, in gran fretta, i racconti sensazionalistici per le riviste a grande diffusione che si occupavano di “fatti veri” di cronaca. Jim cresce a Burwell, nel Nebraska, «una cittadina ostile dove vigeva la legge del pettegolezzo e del clan, dove tutti conoscono i fatti tuoi e si occupano di poco d’altro» (dall’autobiografia Bad Boy, del 1953). In seguito, la famiglia, a cui si aggiunge la sorella Maxine, inizia un lungo pellegrinaggio attraverso il Texas che si concluderà nel 1919 quando approdano a Fort Worth, «uno dei posti più desolati del mondo». Qui si compie una prima fase della sua vita, quando, a diciannove anni, dopo aver incontrato l’underworld equivoco di un grande albergo durante le sue mansioni di ragazzo tuttofare (universo crepuscolare che riprodurrà magistralmente nel romanzo A Swell-Looking Babe, del 1954), si ritroverà alcoolizzato e drogato, affetto da tubercolosi e da ulcere duodenali che lo tormenteranno fino alla fine. Gli anni Venti, che culminano nella Grande Depressione, sono per Jim una vera scuola di vita e l’inizio del suo percorso di scrittore. Durante i frequenti vagabondaggi da un campo petrolifero all’altro in cerca di lavoro occasionale come trivellatore, affina l’adozione di un punto di vista particolare sulla realtà che lo circonda, quello delle comunità nomadi e democratiche degli hoboes o tramps, i lavoratori stagionali politicamente organizzati all’interno del potente sindacato degli Industrial Workers of the World, esponenti di un modo nuovo di essere americani. Il loro «allegro cinismo, il loro disprezzo franco e diretto per tutte le convenzioni della società borghese, ivi inclusi le norme e i regolamenti mascherati sotto il nome della moralità, li rendono limpidi esempi della dottrina iconoclasta del sindacalismo rivoluzionario», si leggeva in un loro volantino1. Il contatto sempre più ravvicinato di Jim con le strutture e le sovrastrutture dello spietato capitalismo dell’Ovest, lo porteranno da un lato al suo crescente coinvolgimento con il Partito Comunista e con l’esperimento del Federal Writers’ Project del 1936, dall’altro ad elaborare una poetica altrettanto dura ed impietosa del definitivo crollo del Sogno Americano e del suo corollario più famoso, il Mito della Frontiera. Nel capitolo finale di un romanzo rimasto incompiuto, Always to Be Blest, un disoccupato che vaga per le strade di un’inospitale e devastata città della Depressione, Lester Cummings, trova rifugio in una baracca per gli attrezzi dove, ridotto a un’esistenza “bestiale”, incrocia il suo destino di perdente con quello di un grosso topo di fogna, un altro “animale” in competizione con lui. Abbandonando la tecnica del mero documentalismo realistico, di chiara impronta naturalista, Jim adotta una scrittura sperimentale dell’esperienza allucinatoria, la sola in grado di rendere in tutta la sua aberrazione il “crimine” dell’alienazione umana in senso marxiano: è il punto di vista del ratto, nel momento di essere divorato da Cummings, che ci viene narrato, così come più avanti, ormai delirante protagonista sdoppiato in due voci narranti, raccon1 Robert Polito, Savage Art: A Biography of Jim Thompson, London & New York, Vintage Books, 1996, [Jim Thompson: Una biografia selvaggia, Alet 2009], p. 119. I LCO R SA RO N E RO 2 6 19 LA B O RATO RI O ta la propria morte “in diretta” dopo aver massacrato un agricoltore con la sua famiglia. La Terra Promessa si è tramutata in una trappola infernale, gli spazi sconfinati sono diventati “pascoli di cemento”, «tu continui ad andare avanti, ma è sempre lo stesso dappertutto. Dovunque tu sia stato, dovunque tu vada, dovunque tu guardi. Solo grigiore duro come la pietra, fino all’orizzonte»2. Nel 1941 Jim, insieme alla moglie Alberta Hesse e ai tre figli, sbarca in California, a San Diego, dove trova lavoro in una fabbrica di componenti per aerei, deciso a tentare la carta dello scrittore. Salvo alcune puntate a New York, nel corso degli anni, per concordare la pubblicazione dei suoi romanzi di maggiore successo presso l’editore Lion, Jim rimarrà sempre in zona, spegnendosi il 7 aprile 1977 in un modesto appartamentino alla periferia di Hollywood, stanco per una serie di ictus che avevano definitivamente piegato la sua forte fibra e precluso la sua capacità di scrivere. Le sue ceneri, come era suo volere, furono disperse nell’Oceano Pacifico. Di lui i critici della Nouvelle Vague francese diranno che è stato «uno dei grandi scrittori americani del XX secolo» e «l’autore di romanzi polizieschi più nero, più amaro, più pessimista», la cui fama si deve proprio all’inclusione nella celebre collana Série Noire3. Con Nothing More than Murder, del 1949, inizia la prima fase dei grandi romanzi che renderanno Jim un autore di best seller da settecentocinquantamila copie alla volta. Troviamo al centro della vicenda la “coppia fatale” formata da Joe Wilmot e Carol Farmer; il primo è un uomo con “l’animo pietrificato” da una vita da perdente (è un orfano sbattuto da un riformatorio a una famiglia affidataria) e che sviluppa una personalità psicopatica divisa tra ciò che è “dentro” e ciò che è “fuori” di sé, con un io fragile e dilaniato dai sensi di colpa e dai sospetti nei confronti della moglie, Elizabeth, donna ricca che egli ha sposato per interesse e che è proprietaria della casa cinematografica che Joe gestisce con successo. Carol, studentessa tirocinante di economia, diventa l’amante e la complice di Joe nel piano del finto omicidio organizzato insieme alla moglie per riscuotere l’assicurazione, piano che però fallisce; Carol è anche lei un “niente” che però «vuole diventare qualcosa» a tutti i costi. Ritroveremo in The Getaway (1959), una coppia simile anche se notevolmente più “nera”, quella formata da Doc McCoy e la moglie Carol. Ma è con The Killer Inside Me (1952) e The Nothing Man (1954) che si precisa il quadro della poetica thompsoniana. Il primo è stato definito da Stanley Kubrick (con il quale Jim ha in comune i dialoghi e la sceneggiatura dei suoi due primi film, The Killing del 1956, e Paths of Glory del 1957), «il racconto in prima persona di una mente distorta dal crimine più agghiac- Con Nothing More than Murder inizia la prima fase dei grandi romanzi che renderanno Jim un autore di best seller da 750.000 copie alla volta. 2 Ivi, p. 372. 3 Ivi, p. 373. 20 ILCORSARONERO 26 L ABOR ATOR IO ciante pur essendo del tutto verosimile che io abbia mai incontrato»4. Attraverso il personaggio di Lou Ford, vice-sceriffo di una piccola cittadina del Texas più profondo, Central City, Jim abilmente disintegra la mitologia dell’America di provincia, e quindi della “frontiera”: il poliziotto servizievole, il dottore gentile, il paesaggio libero e sconfinato. In realtà, i custodi della giustizia e della moralità pubblica sono dei sepolcri imbiancati, dietro la loro apparente bonomia si nascondono dei depravati pronti a qualsiasi compromesso pur di non macchiare la propria “reputazione”. La sonnacchiosa cittadina di Pacific City, nella California meridionale, fa da scenario agli omicidi in serie di un altro psicopatico, il reporter di un giornaletto di provincia, Clinton Brown, l’“uomo da niente” evirato dallo scoppio di una mina durante la Seconda Guerra Mondiale. Come per Lou Ford, attraverso il personaggio di Brown, Jim stigmatizza l’immagine consolatoria della tipica famiglia americana resa celebre, proprio negli stessi anni, dalla sit com televisiva Father Knows Best, dove, alle famiglie unite e ai genitori modello dei quartieri residenziali, Jim contrappone le sue storie di nuclei famigliari disgregati, padri violenti e corrotti, mogli soffocanti e deboli, mariti impotenti e alcolizzati. Come ha osservato Stephen King, la narrativa di Jim non ha “paura” di mostrare il «sudiciume che talvolta sale dalle fogne sommerse della coscienza sociale e dei normali rapporti umani»5. Il personaggio del vice-sceriffo Nick Corey in quello che è forse il più bel romanzo di Jim, Pop. 1280 (1964), accentua il “malessere” (la sickness di Lou Ford) che ormai irrimediabilmente separa l’individuo da ciò che lo circonda, un vero “mutante”6 frutto di qualcosa di tanto orribile quanto impalpabile. Philippe Noiret ci consegnerà un’indimenticabile interpretazione di Corey nella versione cinematografica di Bertrand Tavernier, Coup de torchon (Colpo di spugna, 1981), dove la cittadina sudista, Potts County, è trasposta nell’Africa coloniale francese degli anni Trenta, mantenendo intatta la spietata metafora del potere come morbo che tutto contagia e devasta. Quando Jim arriva a concepire The Getaway, la sua arte è ormai matura e può spiccare il volo verso mete sino ad allora impensabili. Quando Jim arriva a concepire The Getaway, la sua arte è ormai matura e può spiccare il volo verso mete sino ad allora impensabili. Nel 1970, Steve McQueen si innamorerà del romanzo a tal punto da imporlo a Sam Peckinpah che infatti lo realizzerà due anni dopo, consegnando alla leggenda il personaggio di Doc McCoy e quello di Carol, interpretato da Ali McGraw. Curio- 4 Lucia Pirrone, “Una cirrosi dell’anima”: Il noir di Jim Thompson, tesi di laurea dattiloscritta in Letteratura anglo-americana, Università della Basilicata, Potenza, a.a. 1998-99, relatore: professossa Paola Irene Galli Mastrodonato, p. 65. 5 Ivi, p. 49. 6 Polito, Savage Art…, cit., p. 452. I LCO R SA RO N E RO 2 6 21 LAB O RATO RI O samente, nella versione italiana, il sottotitolo recita Una vita spericolata, quasi a voler rimandare a un altro importante effetto di ricezione, la canzone del “nostro” Vasco Rossi che, per così dire, rinnova la multimedialità del testo thompsoniano. Quello che è considerato il suo romanzo «più sovversivo»7, adotta, diversamente dagli altri esaminati sinora, la terza persona, ma, nell’apparente maggiore distacco di una prosa fredda e scattante si cela in realtà un abisso di nerissima sofferenza, un pozzo senza fondo in cui la futilità Camusiana dell’esistenza umana precipita senza alcuna possibilità di salvezza. Nelle scene epidittiche dei nascondigli in cui vengono occultati Doc e Carol da Ma’ Santis prima nella caverna sotto il pelo dell’acqua e poi sotto il mucchio di letame, si ritrova la claustrofobia tipicamente “beckettiana”8 di un sistema ormai fine a se stesso, dove chi è in fuga è l’esatto corrispettivo di chi insegue (il gangster deforme e amorale Rudy Torrento), chi depreda verrà depredato, chi mangia verrà mangiato, in quell’ultima, terribile epifania nel “regno” di El Rey in Messico dove Doc scopre che cosa significhi la frase enigmatica pronunciata da un guardiano: «Quella puzza che riempiva l’aria. L’odore di carne arrostita e speziata… ‘Molto appropriato, eh señor? E una transizione così facile. Uno deve solo vivere letteralmente come ha sempre fatto per modo di dire’». Il mito della frontiera come capacità di fuga dalle proprie contraddizioni e rinascita possibile in un altrove rimodellato idealisticamente, ne esce definitivamente sconfitto, annientato, laddove il passaggio in Messico rappresenta per Doc e Carol la consapevolezza della propria fine, la loro ineluttabile dannazione di reietti, espulsi, fagocitati (cannibalizzati) dalla ferocia del sistema capitalistico. BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO Lucia Pirrone, “Una cirrosi dell’anima”: Il noir di Jim Thompson. Tesi di Laurea dattiloscritta in Letteratura anglo-americana, Università della Basilicata, Potenza, a.a. 1998-99, Relatore: Prof.ssa Paola Irene Galli Mastrodonato, pp. 146; Robert Polito, Savage Art: A Biography of Jim Thompson, London & New York, Vintage Books, 1996, 543 pp. [Jim Thompson: Una biografia selvaggia, Padova, Alet 2009]; Jim Thompson, The Getaway, New York, Vintage Crime / Black Lizard, 1994; Jim Thompson, Bad Boy, [Torino, Einaudi 2001]; Jim Thompson, Getaway. Fuggivano, si amavano, sparavano, uccidevano, Milano, Mondadori, 1972 [Il Giallo Mondadori, n. 1245, 10 dicembre 1972]; Sito web su Jim Thompson: www.sitocomunista.it/rossoegiallo/autori/thompson.html, 2018. 7 Ivi, p. 417. 8 Ivi, p. 420. 22 ILCORSARONERO 26 T E ST IMO N IANZE ARCHIVIO Salgari e dintorni sul settimanale satirico “Can da la Scala”. Riproduciamo alcuni articoli apparsi sul “Can da la Scala” nel 1890 e conservati a lungo nei nostri cassetti redazionali. Il primo (20 aprile 1890) riguarda lo spettacolo di Buffalo Bill svoltosi in Arena nell’aprile di quell’anno. La cronaca è ovviamente ironica ma interessa per alcune righe che fanno riferimento a Emilio Salgari e a Giuseppe Biasioli e rivelano che sulla diligenza Deadwood, attaccata dai pellirosse e salvata da cow-boys guidati dallo scout americano, era presente accanto allo scrittore un altro redattore dell’“Arena”: tal Corridori. Gli altri due articoli (uno del “Can da la Scala” del 24 agosto 1890 e un altro de "Il Popolo", 31 agosto 1890) si riferiscono a una polemica tra Francesco Serravalli, che portò in scena La Tigre della Malesia nell’agosto 1890, e il settimanale che, come sua consuetudine, sbeffeggiò lo spettacolo e l’autore del dramma teatrale tratto dall’appendice salgariana. L'accidioso Serravalli evitò accuratamente di dire che il dramma non era certo farina del suo sacco e Salgari, per quanto ci risulta, non intervenne nella polemica che coinvolgeva l’amico. I LCO R SA RO N E RO 2 6 23 A RC H I V IO LA LETTERA DI UN AUTORE COMICO1 Anche da noi quel signore, a cui il Popolo attribuisce un giusto risentimento, ha scritto una lettera, che qui pubblichiamo: Carissimo Cane, Siccome il Popolo, sia pel suo formato, sia per i vecchi rancori con l’arte e con la grammatica, non era il giornale più adatto a ricevere mie comunicazioni complete sulle conseguenze della Tigre della Magnesia, così devo rivolgermi alla vostra cortesia per mandare al pubblico del Diurno una carezza e uno schiaffo per l’accoglienza fatta alla mia ultima Magnesia. Ringrazio pure la distinta comp[agnia] Benini-Sambo che, esaudendo il desiderio del corrispondente veronese del Piccolo Faust di Bologna, rappresentò il mio dramma con impegno, se non forse con intelligenza e con entusiasmo, convalidandomi così quel successo a cui accennerò più avanti parlando di filodrammatici. Nei primordi della carriera, quando l’autore si presenta alla ribalta tremante, pallidissimo, un fitto velo gli si para davanti agli occhi in modo da non distinguere più le persone che gli stanno dianzi in teatro. Oggi per me non è più così. Io non sono un novellino, ma un provetto. Ho riportato trionfi con I misteri dell’India, coll’Adriana, e con la Povera mamma, poveretta! Conosco il palcoscenico non solo del Diurno, ma di teatri di maggior importanza, come il Diurno di Mantova e di altre città primarie, escluse soltanto Roma, Napoli, Firenze, Torino, Bologna, Genova, Venezia, Palermo, ecc. ecc. Sono dunque un autore vero, un commediografo in tutte le regole, tradotto anche se l’Arena è bene informata, in tedesco, per cui adesso quando si adempie al dovere di chiamarmi al proscenio, mi è dato di vedere ben bene in faccia il mio pubblico. Fra questo, buono e generoso specialmente nel novero dei ragazzi, vidi lunedì, [seconda] della Magnesia, delle facce arcigne (forse di persone che non avevano pranzato) anche parecchi membri disgraziati di società filodrammatiche delle quali sono stato forse presidente o istruttore, e anche amici, i quali per progetto, di non so quale stupida vendetta, zittivano gli artisti e me autore. Zittivano! Avete capito?... Ma si può dare una cosa più orribile e fuori del naturale? Che ho fatto io a quei messeri? Dove e quando li ho offesi? E, se non me, chi volevano dunque colpire coi loro zittii? Non certo il macchinista, perché anzi fu applaudito calorosamente e senza contrasti. Resterebbe la supposizione che zittissero perché ad essi il mio dramma non piaceva, ma questo non è possibile, per cui tiriamo innanzi. Infatti le persone dabbene, gli onesti, i gentiluomini, che avevano capito il giuoco degli altri, applaudirono maggiormente con mani grida e bastoni, procurandomi così «il piacere sommo del trionfo». E trionfo meritato, perché sfido Dumas e Sardou a fare in una o due settimane de’ lavori come i miei, d’effetto sicuro, interessanti e palpitanti. E tutto questo senza sciocchezze di caratteri, di analisi, di verosimiglianza, di giusta sceneggiatura, di forma, insomma di arte. La ricetta è mia, e non falla. Prendo un uomo il quale ama una donna, la quale lo odia. Questa ama un altro, il quale la riama, e così nascono qua e là dei duetti. Ma c’è un vecchio, o padre o zio o nonno 1 La lettera di un autore comico, “Can da la Scala”, n. 16, 20 aprile 1890. 24 ILCORSARONERO 26 ARC HIVIO della donna, che non permette che i due colombi si amino. Allora scappano, vanno lontano dai pericoli, e io riunisco gli amanti tanto bene che è un miracolo. Un matrimonio e, occorrendo, anche una benedizione mettono fine al dramma. Non faccio rimproveri, né pubblico i nomi dei messeri zittanti, perché ho pietà di loro, ma a tutti mando il mio cartello di sfida!... Artistica, ben inteso!... Facciano essi altrettanto, compongano dei Misteri e delle Magnesie, e poi discorreremo. Per intanto, se anche non mi ammirano, ci sono sempre io. Vi saluto e grazie. Vostro F. SERRAVALLI Per copia conforme Can-Can — AL SIG. P.E. FRANCESCONI. LETTERA APERTA. Non al regio impiegato all’Intendenza di Finanza; non allo stipendiato dal Governo; non al redattore dell’Adige, né al direttore del Can da la Scala e di altri periodici elettorali più o meno democratici, ma al Sig. Pier Emilio Francesconi, perla degli ingegni, dovrei dire molte cose, non esclusa quella di terminarla, una buona volta, con questo rompere le scattole alla gente che di lui cura come il primo ciuco che raglia per strada; e ciò a proposito della famosa lettera apocrifa e maligna comparsa sul suo giornale di Domenica scorsa sotto il titolo di “Lettera di un autore comico” nella quale si usò della mia firma. Ma siccome non posso competere colla sua musa divina, siccome un pezzente come me non può polemizzare con la fenice dei giornalisti e dei letterati — a un tanto il verso — siccome io, che sono un certo tale, non posso mettermi al paro con lei, famoso in arte, in letteratura, in poesia, nonché in prosa!.. del resto molto prosaica! — così mi limito a darle un semplice avvertimento: procuri dunque di scrivere con maggior cautela di persone, come me, le quali non hanno nessuna voglia di scherzare, e si limiti a guadagnare i suoi tre stipendi — uso democratico oramai invalso — con mezzi meno spavaldi e meno urtanti di quelli che lei adopera certe volte pei giornali, ove sfoga i suoi rancori, le sue rabbie o non saprei che altro. È ora di finirla, però, con codeste armi schifose le quali, celate sotto la maschera dell’umorismo di rapa sono affilate per denigrare la fama di color, i quali col sudore della fronte e collo strazio del cervello cercano di guadagnarsi di che vivere ONESTAMENTE!... È ora di finirla colle chiesuole e colla prepotenza! E badi bene, signor Francesconi, badi bene, perché non sempre troverà delle persone che si limitano a scriverle delle lettere aperte! No, perché quando la legge non può colpire i seccatori, i prepotenti, i boriosi, le persone seccate da questi genii buffoni, usano altri mezzi, più persuasivi, più pratici e meno noiosi. Il pubblico ha troppo buon senso per non capire certe cose e quindi poco m’importa se lei e l’Adige I LCO R SA RO N E RO 2 6 25 A RC H I V IO non diranno più che un mio lavoro ha avuto o meno buon esito. Il pubblico, ripeto, ne ha avuto abbastanza colla questione Adige-Rovato, ed ha visto fino a qual punto arrivino la coerenza e la imparzialità di certi giornali e giornalsti. E non venga a parlarmi di arte, di grammatica o di questo Popolo a cui io ricorro, perché Io Le risponderò che la miglior cosa, la più buona, la più onesta per un pubblicista, è quella di dire sempre la verità; faccia dunque ciò anche lei e se, non so per qual motivo, intende scaraventare su me i suoi fulmini, La si diverta ché io non temerò mai i maligni, E con questo, saluto caramente lei ed il suo Cane, di cui La tengo degnissimo direttore. Verona, 25 agosto 1890 Francesco Serravalli2 — BUFFALO-BILL A VERONA3 Ci dicono che Buffalo-Bill è rimasto poco soddisfatto del pubblico veronese. Se è vero non fece che contraccambiare il generale sentimento che i veronesi provarono per le sue rappresentazioni. In noi che amiamo l’arte e la letteratura, infusero anche una più grande amarezza. Temiamo purtroppo che dora in poi I Misteri dell’India di Serravalli con la indimenticabile faccia strangolatrice di Suyadama e i fremiti ringhiosi di Frenet-Naick, non possano più resistere in scena, e che i romanzi sulle varie Tigri di Salgari comincino a diventare un anacronismo. Infatti che differenza, sia per la tranquillità sia pel costume, può rilevarsi fra un macinatore di terre coloranti sui nostri molini dell’Adige, e i vari tipi del grande Ovest che non abbiamo ammirato in Arena? Il poco effetto che ha destato la carovana indiana dipende da un’altra circostanza di indole locale. Qui non poteva infondere nessuna curiosità. Ce ne sono fra noi che fanno l’indiano!... Guai se tutti avessero dovuto scendere dai gradini dell’Arena e mettersi ai comandi di Cuor Nero, Orso Valente, Corno d’Aquilio, Piede Bruciato, e delle altre celebrità del mondo che guidavano i cow-boys e gli Indiani Brulè! Se la discesa non avvenne fu perché anche il pubblico ha fatto l’Indiano. Approfondendoci in queste considerazioni, non sarebbe difficile il concludere che i meno indiani fra la gente raccolta in Arena erano quelli del grande Ovest degli Stati Uniti d’America. La parte spettacolosa delle rappresentazioni la abbiamo ammirata nel programma che si distribuiva gratis. Una Nota Importante avvertiva che «lo spettatore deve figurarsi di essere nel paese dove accaddero le scene e gli incidenti rappresentati, e deve comprendere che i tipi veri e genuini sono a lui presenti. Cosicché la fatica maggiore, anzi tutta la fatica dello spettacolo, è toccata al pubblico pagante. Egli guardando l’Arena, ha dovuto figurarsi di essere in quel paese; e Buffalo-Bill gentilmente – per 2 Francesco Serravalli, Al sig. P. E. Francesconi, Lettera aperta, "Il Popolo", 31 agosto 1890. 3 Il Sottoscala, Buffalo-Bill a Verona, “Can da la Scala”, n. 16, 20 aprile 1890. 26 ILCORSARONERO 26 ARC HIVIO non fare un torto all’immaginativa degli spettatori, — ha lasciato l’anfiteatro romano nudo e crudo; poi ha fatto sfilare ed agire un centinajo scarso di uomini, irriconoscibili quasi tutti, perché dipinti, e il pubblico ha dovuto comprendere che i tipi erano quelli veri e genuini di questo paese. Gli scrupoli di Buffalo-Bill per lusingare la fantasia veronese arrivarono a questo punto. Un indiano, accovacciato in mezzo all’Arena, da sé solo doveva rappresentare un villaggio della frontiera. Come ciò fosse poco, l’indiano — ligio alla consegna e agli scrupoli di Buffalo-Bill — nel coricarsi per terra, fece il possibile per nascondere agli spettatori quel paese unico che non aveva potuto lasciare nel grande Ovest degli Stati Uniti. Un esperimento ben riuscito fu quello del tiro. Johnnie Baker, Daly, Buffalo-Bill e la graziosa Annie Oakley, celebre tiratrice al volo, hanno colpito in aria una quantità di palle di vetro dette in indiano bale. Crediamo bene che la Compagnia Americana non vorrà darci ad intendere di aver trasportato a Verona — poiché tuto il pubblico si accorse che le bale buttate in aria appartenevano al grande deposito dovuto alla precedente Giunta Comunale e al Comitato dei Radicali all’epoca delle elezioni amministrative. L’Adige, lodando l’abilità della simpatica Oackley, crede che se invece di palle fossero stati uccelli, li avrebbe presi ugualmente. Noi distinguiamo. Quando mirava di fronte, sì; ma quando tirava per di dietro con lo specchietto in mano, non ci pare possibile — perché il volo dell’uccello è molto più irregolare del getto di una palla. Ha fatto molta impressione l’abilità dimostrata dai cow-boys nell’ammaestrare da indomabili i cavalli buking. Il pubblico non se n’è accorto. Ma un cavallo veramente indomabile c’era. Lo aveva imprestato graziosamente l’avvocato Emanuele Cuzzeri nella speranza che i cow-boys lo ammaestrassero in modo diverso di prima. Ma sia l’intelligenza del cavallo, sia l’abilità dell’antecedente sportman, il fatto si è che davanti alla porta d’uscita dell’anfiteatro, il cavallo si diede a corsa sfrenata compromettendo il tendone di difesa che era stato messo per barriera dalla Compagnia Americana. Per fortuna di Cuzzeri, nessun guasto al tendone. Quel che ha fatto colpo fu il coraggio dimostrato da Corridori e da Salgari dell’Arena nel mettersi in diligenza o nello storico veicolo old Deadwood coach attaccato dagli indiani e difeso dai cow-boys di Buffalo-Bill. Il fatto ha prodotto vari commenti. Alcuni opinavano che Corridori e Salgari si fossero messi in diligenza per imparare ad usarla in Cronaca; altri sostenevano che i due redattori si fossero introdotti nella mischia per vedere se fosse stato possibile il verificare finalmente un vero fatto di sangue in realtà avvenuto. Chi ha visto di mal occhio questa faccenda fu Biasioli dell’Adige, il quale finse di non vedere e non accennò al fatto sul proprio giornale, per non fare della rèclame al nome e cognome dei due emuli. Quando il pubblico uscì dall’Arena, non avendo più il bisogno né del Programma, né di dover figurarsi quel paese perché lo spettacolo era finito, ha dovuto comprendere che era giusto ed equo mandare a quel paese Buffalo-Bill con tuta la sua Buffolonata. Il Sottoscala I LCO R SA RO N E RO 2 6 27 A EST T RC HIIMO V ION I AN Z E CLAUDIO GALLO & GIUSEPPE BONOMI Giuseppe Biasioli: giornalista, duellante e amico di Salgari. — — Una foto preziosa, incastonata nella leggenda salgariana affidataci da Giuseppe Turcato, veneziano, maggior studioso salgariano del secondo Novecento, rimasta custodita a lungo nel nostro scrittoio. — 28 ILCORSARONERO 26 STU DI E ssa eterna un gruppo di numerosi uomini, tranne quattro giovinetti e giovinette: sul retro, a matita, il nome Biasioli. Quasi tutti gli adulti raffigurati hanno un foglietto infilato nel nastro del cappello come usavano i giornalisti del tempo. Chi di loro è Biasioli? Ci soccorre la testimonianza del ciclista veronese Tullio Secondo che, frequentati Salgari e Biasioli, lo ricordava «per la sua particolare andatura, piuttosto claudicante, in quanto aveva la gamba sinistra come rattrappita», il che confermato poi da un suo lontano discendente. Turcato non aveva bisogno di indicare chi fosse Biasioli: era l’unico adulto seduto. Giuseppe Biasioli, l’uomo che sfidò a duello Emilio Salgari, aveva difficoltà a muoversi e a rimanere in piedi a lungo. Del leggendario scontro al Chievo resta ben poco. Come poteva, claudicante, competere con uno schermidore già distintosi in alcune gare tra dilettanti? Non poteva! Ciò spiega la ritrosia di Salgari a misurarsi sul campo, e soprattutto l’abbandono dell’attività agonistica dopo quel combattimento. Non un rodomonte, non uno spadaccino altezzoso, ma Salgari umanissimo, per nulla orgoglioso di quell’inutile prova. Guerra tra giornali Negli anni Ottanta dell’Ottocento la lotta tra i diversi schieramenti politici cittadini e l’intensificarti della guerra commerciale tra le diverse testate presenti in Verona provocarono conflitti, vertenze, denunce e relative cause giudiziarie, e purtroppo anche a duelli. Questi ultimi, forse, terminarono solo all’inizio del secolo dopo la morte di Antonio Mantovani, direttore dell’”Arena”, in conseguenza delle ferite riportate duellando con Luigi Bellini, direttore dell’”Adige”, nel settembre 19041. In una situazione molto tesa i quotidiani liberal-monarchici (l’”Arena” e la più moderata “La Nuova Arena”) polemizzavano spesso con il radicaleggiante “L’Adige” diretto da Luigi Dobrilla. In questo contesto, il tenzone tra il giovane Emilio Salgari, cronista dell’“Arena”, e Giuseppe 1 Duello Mantovani-Bellini, “Arena”, 7–8 settembre 1904; Antonio Mantovani è morto, “Arena”, 3031 ottobre 1904. I LCO R SA RO N E RO 2 6 29 STU D I Biasioli, pubblicista dell’”Adige”, è da tempo entrato a far parte della vita leggendaria dello scrittore. Le controversie tra il dinamico Salgari e la redazione dell’”Adige” erano iniziate fin da quando muoveva ancora i suoi primi passi giornalistici alla corte di Ruggero Giannelli2. Ricordiamo sommariamente alcuni episodi, segnalando che possono essere rintracciati con dovizia di particolari nella biografia da noi pubblicata per la BUR Rizzoli3. Tutto sembrò prendere avvio da una passeggiata di ginnastica da Verona a San Pietro Incariano organizzata dall’Istituzione e dalla Società Bentegodi alla quale parteciparono ben quarantacinque atleti. Il resoconto è attribuibile a Emilio Salgari4: «il nostro redattore dunque, di cui conosciamo l’ingegno e il carattere, sentito che nella festa qualcuno avrebbe voluto sputar sentenze di politica e far del chiasso, colla scusa di inneggiare a Garibaldi e ad Oberdank, disse chiaro che con la festa tutto ciò non avea punto che vedere, e pregò che non se ne facesse nulla». Alla cena conclusiva «un giovinotto, che si disse rappresentante dell’Adige, saltò su a dire che si doveva onorare Garibaldi il redentore dei popoli ecc. e cominciò a gridare Viva Garibaldi! Il nostro redattore con piglio fermo si levò in piedi per far zittire il giovanotto, per far intendere a tutti che nella festa non dovea punto entrare la politica. Piccolezze, che fanno vedere sempre più che dalla ginnastica si voleva pigliar pretesto per far della politica inopportuna!»5. Poco meno di un anno più tardi Salgari, che nel frattempo si era trasferito all’”Arena”, tornò a scontrarsi con i redattori dell’”Adige”: ancora una volta la ginnastica era al centro della contesa al termine di una passeggiata che aveva condotto gli atleti della Bentegodi a Illasi. La giornata fu turbata da un incidente: un ginnasta della Bentegodi fu aggredito da quelli della società rivale: la Margherita. Salgari denunciò il fatto alimentando la polemica tra i due quotidiani6. Nel suo pro- Tutto sembrò prendere avvio da una passeggiata di ginnastica da Verona a San Pietro Incariano organizzata dall’Istituzione e dalla Società Bentegodi. 2 Sulle tracce dei precedenti conflitti tra Salgari e l’”Adige” si segnala la lettera al direttore dell’”Arena”, Giovanni Antonio Aymo, dove Salgari asseriva che «da vario tempo i reporters dell’“Adige” lo punzecchiavano con allusioni, con scherzi di cattivo genere». L’affermazione non era infondata, e aveva più di una relazione con la rubrica Fatti spiccioli dell’“Adige”, curata da Biasioli che lo prendeva di mira (Emilio Salgari, Le cose a posto, “Arena”, 22 settembre 1885). 3 Questi e i successivi in Claudio Gallo, Giuseppe Bonomi, Emilio Salgari, la macchina dei sogni, Milano, BUR Rizzoli, 2011. 4 La passeggiata di ginnastica a San Pietro Incariano, “La Nuova Arena”, 16 giugno 1884. 5 Politica e ginnastica, “La Nuova Arena”, 1 giugno 1884. Il protrarsi della polemica obbligò la “Nuova Arena” a fare il nome di Salgari (Politica e ginnastica, “La Nuova Arena”, 18 giugno 1884). 6 [Emilio Salgari] La passeggiata ginnastica ad Illasi, “Arena”, 18-19 maggio 1885; [Salgari], I ginnasti della Società Margherita aggrediscono un ginnasta della Istituzione Bentegodi, “Arena” 30 ILCORSARONERO 26 STU DI sieguo Aymo invitò Salgari a contenersi: «Raccomandammo al Salgari di fare semplicemente della cronaca, di narrare esclusivamente senza permettersi apprezzamenti, e di più, quando le bozze di stampa ci furono portate dalla tipografia, noi stessi correggemmo, modificammo il racconto e sopprimemmo tutti i nomi».7 Non sappiamo se Biasioli avesse a che fare con questi precedenti, è ragionevole sospettarlo poiché all’ “Adige”, dove Biasioli era arrivato nel 1885, la sua rubrica, Fatti spiccioli, era iniziata ufficialmente il 12 maggio, ma era già presente sin dai primi giorni del mese. Sarebbe ozioso scandagliare le giornaliere contese tra i quotidiani cittadini ed elencare le occasioni in cui Salgari e Biasioli fanno capolino. Molto è stato scritto intorno al duello tra il popolare scrittore d’avventure e Giuseppe Biasioli, ma pochi hanno svolto indagini su di lui. Una lacuna che vogliamo colmare. Giuseppe Biasioli era coetaneo di Salgari, essendo nato a Verona il 29 marzo 1862 da Francesco e Tinazzo Carlotta. Il nonno, Gaetano, «cittadino probo, integerrimo, agricoltore intelligente ed attivissimo» era stato per alcuni anni consigliere comunale a Castel D’Azzano dove evidentemente la famiglia aveva delle proprietà. Giuseppe Biasioli aveva alloggiato sempre nel cuore della città scaligera: via S. Giacomo, alla Pigna n. 3 (al censimento, Via Barchetta n. 9, Via Pallone, n. 16 (dall’agosto 1879), Lungadige Sammicheli 23, Interrato Acqua Morta, 3 (maggio 1910). Viveva, dunque, negli stessi luoghi di Salgari e, assai probabilmente, aveva gli stessi sogni, le stesse ambizioni, ma un talento inferiore a quello del popolare narratore d’avventure. Tra il 1884 e il 1885 aveva iniziato a lavorare con l’”Adige”8 e a partire dall’inizio di maggio è possibile segnalare la sua presenza in redazione. Sul giornale, infatti, apparve una rubrica senza nome che, nel giro di pochi giorni, assunse il titolo di Fatti spiccioli. Si trattava di rapidi ed efficaci ritratti, piccole risposte ai lettori, commenti della vita cittadina e di avvenimenti teatrali. La rubrica, disincantata e ironica, in genere non faceva il nome dei personaggi oggetto delle beffarde critiche. Così iniziò la contesa con Salgari che millantava essere un capitano di gran cabotaggio e di aver navigato per mari e oceani: «“Capitano di mare” ?! Mozzo, vorrete dire poiché‚ io l’ho conosciuto in una città marittima quando in tale sua qualità si sarà pigliati probabilmente i calci ed i ceffoni dei marinai. Oh Molto è stato scritto intorno al duello tra il popolare scrittore d’avventure e Giuseppe Biasioli, ma pochi hanno svolto indagini su di lui. 18-19 maggio 1885; l’appunto finale è evidentemente di Giovanni Antonio Aymo. 7 [Giovanni Antonio Aymo], Fra “Margherita” e “Bentegodi”, “Arena”, 19–20 maggio 1885. 8 La notizia si ricava da un trafiletto dell’“Arena”: «GIUSEPPE BIASIOLI da sei anni attivo ed intelligente cronista dell’Adige, col numero di ieri se ne è separato. Il giornalismo Veronese perde nel Biasioli, un elemento buono, onesto e valente. A lui i migliori nostri auguri» (Giuseppe Biasioli, “Arena”, 4-5 dicembre 1891). I LCO R SA RO N E RO 2 6 31 STU D I bella! e lui dà da bere che... ah! oh mica merlo il microscopico reporter»9. Biasioli non nascondeva ambizioni culturali. Aveva scritto dei racconti scapigliati per la “Ronda”, la più bella rivista letteraria nella Verona dell’Ottocento. La rubrichetta dell’“Adige” era un’ironica, divertente, attenta, critica della vita civile. Solo il caso e la rivalità tra le due testate faranno incrociare la sua lama con quella di Salgari. Biasioli è stato presentato come nemico di Salgari, ma in effetti non lo era. Lasciato l’”Adige” si trasferì alla “Gazzetta di Mantova”: «Giuseppe Biasioli l’egregio nostro collega fino a pochi giorni addietro cronista dell’Adige, passa redattore all’ottima Gazzetta di Mantova. Auguri affettuosi all’ottimo e bravo collega, e congratulazioni all’egregio amico Luzio per l’eccellente acquisto»10. Nel maggio 1892, dopo un “esilio” tra Mantova e Venezia, entrò nella redazione dell’”Arena”11. Nutriamo il sospetto che l’attenzione riservata dall’”Arena” al Biasioli, sottolineata da affettuosi attestati di stima, non fosse disinteressata. Abbiamo l’impressione che i movimenti effettuati (due cambiamenti di testata in soli cinque mesi) mirassero al trasferimento nella redazione dell’”Arena” che, per opportunità politica, non poteva essere raggiunto attraverso un passaggio diretto»12. E dunque all’“Arena” Giuseppe Biasioli lavorò accanto a Salgari per alcuni mesi, fino al dicembre del 1893, quando il “rivale” si trasferì a Torino per dedicarsi alla scrittura di avventure. È impensabile che Antonio Aymo fosse ricorso a lui, un tempo irriducibile avversario del suo prezioso collaboratore, senza prima aver sentito Salgari; o quantomeno, senza tenere conto che i due si erano, nel 1885, sfidati a duello. Alcuni piccoli indizi ci fanno ritenere che Biasioli e Salgari avessero superato i dissidi e, stando alla testimonianza di Tullio Secondo, fossero diventati buoni amici ben prima dell’assunzione di Biasioli all’ “Arena”. Scrive Tullio Secondo: In quegli anni, verso il 1890, il Salgari veniva spesso, durante la buona stagione, a salutarci al caffé Europa, in Piazza Bra (allora Vittorio Emanuele) si sedeva con noi all’aperto. La nostra compagnia era formata dagli amici del gruppo Ciclistico e da quelli della Filodrammatica: gli stessi che frequentavano la famiglia Sentieri. Anche il 9 Giuseppe Biasioli, Fatti spiccioli, “L’Adige”, 20 settembre 1885. 10 Giuseppe Biasioli, “Arena” 17–18 dicembre 1891. 11 «Oggi entra a far parte della famiglia dell’Arena il signor Giuseppe Biasioli. Noi lo presentiamo con amicizia e simpatia al nostro pubblico, che del resto già lo conosce e lo apprezza» (Giuseppe Biasioli, “Arena”, 17 maggio 1892) 12 «Dalla Venezia del 3/4 leggiamo il seguente trafiletto: L’egregio pubblicista Giuseppe Biasioli che da poco tempo era passato all’Adige di Verona alla Gazzetta di Mantova, torna nella città degli scaligeri e s’installa quale redattore capo della redazione dell’Arena che è sempre diretta dal valente chiaro amico G.A. Aymo. Congratulazioni. E ci congratuliamo noi pure col vigoroso pubblicista Biasioli, già operoso collega nostro; colla consorella Arena, la quale ha acquistato un redattore-capo, che è un vero atleta del giornalismo, ed anche col collega Aymo, il quale ora potrà dormire i suoi sonni tranquilli e permettersi, più che non abbia potuto fare per il passato, delle passeggiate e delle permanenze alla sua — lui fortunato — amena villa alla Biondella». (“L’Adige”, 4 aprile 1892). 32 ILCORSARONERO 26 STU DI giornalista Biasioli veniva con noi […]. Il Biasioli era persona antipatica, che nel fondo era un buon giovane, anche se i suoi atteggiamenti qualche anno prima, all’epoca del duello con il Salgari, non ci erano piaciuti. Il Biasioli portava gli occhiali e qualche volta la caramella e quest’ultimo particolare poteva rendere qualche espressione del suo viso non del tutto gradevole. Secondo miei ricordi di allora e le confidenze degli amici si afferma, per quanto riguarda il Salgari e il Biasioli, che erano arrivati al duello spinti dalla passione polemica che contrapponeva “L’Arena” a “L’Adige” e che ebbe momenti di aspra lotta. Pertanto il duello va inquadrato in questa rivalità fra i nostri due giornali locali. Erano bei momenti allora! ricordo le nostre feste da ballo alle quali partecipavano tutti gli amici dei due gruppi che venivano organizzati proprio da uno di questi e precisamente dai ciclisti della nostra Società Cairoli, feste che si svolgevano nei Saloni di Palazzo Orti-Manara. Posso dire che ci si vedeva tutti con amicizia e con simpatia e che gli screzi e le dispute del passato erano dimenticati13. Tullio Secondo, nato a Verona nel 1874, visse assai a lungo, nel 1967 aveva 93 anni ma la sua scrittura è ferma e precisa così come i suoi ricordi che, seppure con qualche comprensibile scarto temporale, sono da ritenersi, dopo attenti riscontri, attendibili14, così come asseriva Turcato. Non sappiamo, ovviamente, quando Salgari e Biasioli si incontrarono per la prima volta, non è da escludere che si conoscessero già dall’infanzia, certo dopo il ritorno del Salgari a Verona non poterono più ignorarsi. Mentre questi si catapultava nell’allegra redazione della “Nuova Arena”, giornale moderato e monarchico, Biasioli iniziava a collaborare all’”Adige”, quotidiano di orientamento radicale. I fogli erano, dunque, schierati su fronti contrapposti. In questo ambiente nacque il surreale duello di cui lo scrittore ne fu consapevole. Per questa ragione abbandonò la scherma e divenne un buon amico di Giuseppe Biasioli. 13 Testimonianza raccolta da Giuseppe Turcato alla presenza del sig. Roberto Tavera. Vedi: Appunti sul colloquio col comm. Tullio Secondo a Verona il 30 novembre 1967, dattiloscritto, Fondo Turcato, corrispondenza Turcato-Secondo, Biblioteca Civica di Verona, in Viva Salgari! Testimonianze e memorie raccolte da Giuseppe Turcato, a cura di Claudio Gallo, Reggio Emilia, Aliberti, 2006. 14 «Il Comm. Secondo è stato uno dei più forti corridori ciclisti italiani nel periodo 1890-1896. È il più anziano corridore automobilista vivente. In una gara di “dirigibilità”, disputata a Verona nel 1899, si classificò terzo su mototriciclo “Prinetti e Stucchi”. Suo padre, di ritorno dall’Esposizione di Parigi gli regalò una bellissima bicicletta. Fu protagonista della Bologna- Milano nel 1894, del campionato Veneto del 1895. Conquistò una medaglia d’oro in una gara di regolarità automobilistica promossa dal Comune nel 1899 (In dieci fratelli 811 anni: il compleanno del più anziano, “L’Arena”, 25 novembre 1966) In un’altra lettera a Turcato, Secondo sostiene che Biasioli «È stato mio amico e conoscente perché‚ era della nostra compagnia con l’Ing. Gallizioli Nemo (Guglielmo) ed altri» (lettera a Giuseppe Turcato del 29 dicembre 1965 conservata nell’omonimo fondo della Biblioteca Civica di Verona) I LCO R SA RO N E RO 2 6 33 N I CO L A R U F F O Il mar di Liguria e le cime innevate del Montana. I N T E R V I S TA CO N G I A N C A R L O B E R A R D I I Il fragore del mare di Nervi, a Genova, con le onde che si infrangono con violenza sugli scogli e il vento che scompiglia i capelli e li odora di salsedine, non ricorda certo i silenzi delle cime innevate del Montana. Nemmeno le palazzine, alte e strette per l’esiguità di spazio, addossate le une alle altre, tra viottoli, auto parcheggiate in ogni anfratto possibile e bar pieni di gente, suggeriscono le distese boscose dello Stato americano. Caso mai, le colorate case, sorridenti e ornate di fiori, possono rispecchiare – parzialmente – Garden City, l’immaginaria cittadina dove vive Julia Kendall, la criminologa nata dalla fantasia di Giancarlo Berardi. Difficile pensare che questo quartiere possa ispirare i maestosi scenari di conifere, betulle e pini dove l’autore genovese ha ambientato le storie della sua prima creatura più famosa: Ken Parker. Forse, come per tutti i grandi narratori, le dimensioni dell’avventura nascono dal profondo del proprio animo, senza la necessità di averle percorse fisicamente. Salgari docet! In una calda mattina di luglio ci accoglie, mia moglie e io, nel suo ordinatissimo studio. La prima cosa che salta all’occhio sono i libri: un’intera sezione della sua fornitissima biblioteca è dedicata al western, soprattutto alla storia degli indiani d’America; una seconda, come intuibile, è riservata alla criminologia e al romanzo noir. È signorile, pacato, dai modi raffinati, gentile e accogliente, i baffetti grigi, sorridente… Tutto predispone al dialogo e all’ascolto. Il suo studio gode dell’impagabile orizzonte blu del mare; dietro alla casa passa discreta una crêuza. Ricorda quelle che Fabrizio De Andrè canta nel suo undicesimo album: Crêuza de mä. Note biografiche: Giancarlo Berardi, nasce a Genova nel 1949. Ragazzo, mostra versalità in ambito artistico, musicista, cantante, disegnatore, scrittore, attore commediografo, sceneggiatore di fumetti… Nei primi anni Settanta, collabora con diverse case editrici, fra cui lo Studio Bierreci di Luciano Bottaro, la Cenisio (con storie di Tarzan) e la Mondadori per “Topolino”. Scrive soggetti per “Diabolik”. La tesi di laurea in lingue straniere, conseguita nel 1975, esamina la sociologia del romanzo poliziesco, ponendo le basi di quel background culturale tornato utile per Julia. 34 ILCORSARONERO 26 INTERVISTA Il fortunato sodalizio con Ivo Milazzo alle Magistrali, porterà alla nascita di Ken Parker, edito da Bonelli, segnando una svolta non solo nel genere western, ma nel fumetto italiano, scrive inoltre soggetti per “Il Piccolo Ranger”, “Tex” e “Nick Raider”. Per le Edizioni Paoline, crea, nel 1976, Tiki, indio amazzonico le cui storie vengono pubblicate su “Il Giornalino”. Con altri editori, fra cui Luigi Bernardi (“Orient Express”) e Rinaldo Traini (“Comic Art”), scrive altre saghe di notevole rilievo: Welcome to Springville, Marvin il detective, Tom’s Bar, Giuli Bai & Co… Nel 1998 si lancia in una nuova avventura editoriale dando vita alla sua seconda creatura più famosa: l’affascinante criminologa Julia Kendall, con le fattezze di Audrey Hepburn. La serie ha superato il duecentesimo numero e continua a riscuotere successo, soprattutto tra il pubblico femminile, caso più unico che raro nel mondo dei comics. Parlare della genesi di Ken Parker significa parlare di Berardi, giusto? Siamo cresciuti insieme. Il cammino di Ken è parallelo alla mia vita: lui ha fatto da specchio a me e io a lui. Ken nasce da un ragazzo irrequieto che ha vissuto il ’68, e che poi ha subito la delusione di vederlo diventare qualcosa di molto diverso da quello che auspicava; alcuni miei compagni del Movimento Studentesco sono entrati nelle Brigate Rosse, purtroppo. Gli anziani della Sinistra ci giudicavano con sufficienza, ci snobbavano; avevano fatto la Resistenza, quindi, per loro, eravamo dei ragazzetti viziati, quelli che oggi vengono definiti “bamboccioni”. Eppure anche noi, per affermare il nostro ideale di un mondo nuovo, più giusto e paritario, eravamo scesi in piazza, avevamo affrontato gli agguati dei fascisti, le cariche della polizia – sono anche finito dentro – avevamo le idee chiare, sapevamo cosa volevamo e per cosa lottavamo. Il sistema, la politica, la finanza, ci hanno scippato la nostra rivoluzione pacifica. Ken nasce da quella delusione e da quella rabbia che mi ha accompagnato fin da giovane. Ho capito allora che i valori bisogna cercarli dentro di sé, non nella società, non in un partito, non in un’ideologia. Ken ne è il risultato. Da cacciatore senza alcuna cultura, scopre la letteratura e comincia a leggere, appassionandosi sempre più. Incontra le opere di Shakespeare e finisce per recitarlo a teatro; a un certo punto diventa lui stesso scrittore, narrando le proprie avventure, più o meno realistiche, sulla scia delle famose dime novels. Lungo Fucile comprende che la via da seguire è quella della conoscenza. Chi sa può parlare con cognizione di causa, ha strumenti per riflettere, capire, e soprattutto scegliere. La vera rivoluzione non è nelle armi, ma nelle idee. La cultura è fondamentale, l’antidoto contro ogni forma di intolleranza e di razzismo. Attualmente, però, i giovani leggono pochissimo, e quasi non si rendono conto che il mondo governato dalla finanza gli sta rubando il futuro. Non hanno più utopie da realizzare. Vivono in un consumismo alienante che non riconosce i valori dell’essere umano. Ken possiede un vecchio fucile Kentucky, ad avancarica [c’è un bellissimo esemplare nel suo studio, appeso al muro; ndr], che gli permette di sparare un solo colpo alla volta, lasciando alla selvaggina una possibilità di scampo. Un messaggio chiaro, mi pare. Nella seconda metà dell’Ottocento era un’arma superata, ma allora non si buttava via niente; ciò che funzionava passava di generazione in generazione come un bene prezioso. Oggi, al contrario, siamo indotti a cambiare smartphone ogni sei mesi. I LCO R SA RO N E RO 2 6 35 I N T E RV I STA A DESTRA: Giancarlo Berardi ritratto da Ivo Milazzo © Sergio Bonelli Editore Che cosa direbbe, oggi, Ken, vedendo quel che succede nella nostra epoca? Continuerebbe a proporre il suo messaggio di ricerca, solidarietà, giustizia, dialogo, confronto fra culture. I nostri tempi non sono tanto diversi da quelli dell’Ottocento americano. Che differenza c’è tra gli indiani del West e gli immigrati del Nordafrica? Nessuna. Sono gli ultimi della Terra, i più deboli, i più vessati. Con Ken hai non solo portato temi nuovi nel fumetto, ma anche introdotto un diverso modo di sceneggiare. Ho dato voce ai più fragili, ai più emarginati: le donne, i vecchi, i bambini, gli animali… Affrontando tematiche delicate e inusuali all’epoca, come la droga, il genocidio, l’omosessualità. Contemporaneamente, mi sono inventato una nuova grammatica; ho eliminato i balloon-pensiero e le didascalie, conferendo un taglio cinematografico alle tavole. Il mio maestro ideale è Verga. Per anni ho tenuto le sue novelle sul comodino. Mi riconosco nella sua poetica verista: l’autore che rimane dietro le quinte, la vicenda narrata in modo oggettivo, i personaggi che sembrano nascere da sé. Parliamo di West: esiste ancora il genere? Per me il western è sempre stato una metafora per parlare dei nostri giorni. Come genere, adesso è obsoleto, ma la teoria dei corsi e ricorsi storici di Giambattista Vico ci dice che, prima o poi, tutto ritorna. Quindi riemergerà anche il genere western. All’inizio c’era il western visto unicamente dal punto di vista dei bianchi, basti pensare al mito del West creato dai film con John Wayne. Poi sono arrivate pellicole come Soldato blu, Un piccolo grande uomo, Corvo Rosso non avrai il mio scalpo (da cui tu e Milazzo avete tratto il personaggio di Ken Parker), e più tardi Balla coi lupi, che hanno capovolto la prospettiva presentando il punto di vista, fino ad allora inedito, degli indiani. Non temi però che si sia creata una dicotomia fatta di stereotipi presenti in entrambe le parti? Per esempio, l’immagine del povero indiano oppresso, saggio e in armonia con la natura, è falsa tanto quanto l’immagine che ne davano i bianchi allora, di feroci selvaggi senz’anima. È possibile un superamento di questa dualità? Ken Parker ne è l’esempio. Niente più buoni e cattivi, niente cappelli bianchi e neri, i personaggi hanno dentro di sé il male e il bene. Come ogni essere umano. E il libero arbitrio per usare una parte o l’altra. In Butch l’implacabile1, vediamo alcuni indiani che lanciano dei neonati in aria per poi ucciderli a fucilate. Una scena crudele. Com’era crudele e spietata la natura in cui vivevano. E non dimentichiamo che certe efferatezze, tipo asportazione dello scalpo e il taglio dell’orecchio, le hanno apprese dagli europei. L’icona dell’indiano saggio e taciturno è un’invenzione della letteratura di genere e di Hollywood. In realtà, i pellerossa amavano scherzare e ridere. E non si può dire che profumassero, perché si spalmavano di grasso animale rancido… Inoltre, se fossero stati veramente “saggi”, si sarebbero uniti con1 Giancarlo Berardi, Bruno Maraffa [disegni], Butch l’implacabile, "Ken Parker" n. 16 (ottobre 1978). 36 ILCORSARONERO 26 37 I N T E RV I STA tro l’invasione dei bianchi, invece che guerreggiare tra di loro. Queste lotte fratricide sono sempre state astutamente sfruttate dai conquistatori. È la filosofia degli antichi romani: divide et impera. Il West di Ken Parker è davvero realistico. Realistico e, come dicevo, anche una sorta di cassa di risonanza a cui affidare i miei tanti dubbi, le mie poche certezze, e il bisogno di sperimentare e registrare ogni aspetto dell’esistenza legata al mio tempo. L’episodio intitolato Sciopero2, per esempio, è nato da una vicenda reale: la chiusura di una fabbrica a Sampierdarena, il quartiere di Genova in cui vivevo. Da Ken a Julia: filo rosso o soluzione di continuità? Assoluta continuità. Non a caso, il cognome di Julia — Kendall — lo puoi leggere anche come “dal Ken”. Iniziando la nuova serie, però, mi sono posto il problema se dovevo continuare con lo stile parkeriano oppure no. Ho deciso di no. Passando dalla poesia delle grandi praterie americane dell’Ottocento al caos metropolitano odierno, bisognava cambiare stile di narrazione. In più mi ero reso conto che tra i giovani c’era un abbandono della parola, con conseguente impoverimento del linguaggio. Poche frasi idiomatiche, spesso volgari, mutuate soprattutto dal cinema statunitense. Decisi così d’implementare la scrittura in Julia, facendo ricorso a un lessico più “ricco”, pur nella sua sinteticità, e inserendo anche un diario che racconta le emozioni e i pensieri più intimi della protagonista. Com’è cambiato il fumetto, oggi? Molto, e non sempre per il meglio. Una volta gli autori di comics non firmavano nemmeno le loro opere; oggi un disegnatore appena schizza una vignetta, la posta subito sui social, per sentirsi gratificato dai “mi piace”, spesso acritici e superficiali, dei vari followers. Nelle nuove serie vedo molto sentimentalismo e pochi sentimenti. I personaggi sono bidimensionali e standardizzati. Tutto viene enfatizzato, come in televisione, dove si arriva a spettacolarizzare persino il dolore. Riguardo al futuro del fumetto, penso che cambierà il modo di fruizione (vedi i Kindle), ma continuerà a esistere. Mi preoccupa invece il cosiddetto “fumetto popolare”, perché i giovani leggono poco. Da anni non vedo ragazzini davanti alle edicole, intenti a sfogliare i “giornalini”, come quand’ero bambino io, che ci trascorrevo le ore. Non avevo i soldi per acquistarli e gli edicolanti capivano e chiudevano un occhio. C’è da dire che il fumetto in Italia non è mai stato valorizzato. Fino agli anni Settanta lo si è sempre considerato “robetta” per bambini. Eppure, dal punto di vista psicologico, offre un grande stimolo alla crescita. Tanto per esemplificare, la striscia bianca tra una vignetta e l’altra dev’essere colmata dalla fantasia di chi legge. 2 Giancarlo Berardi, Ivo Milazzo [disegni], Sciopero, "Ken Parker", n.58 (aprile 1984). 38 ILCORSARONERO 26 INTERVISTA C’è ancora spazio per l’avventura ad ampio respiro? Per me, l’avventura è un viaggio interiore, non un’escursione nelle terre selvagge del pianeta. Ogni viaggio deve condurre alla propria interiorità e farci scoprire cose nuove di noi. L’avventura classica, per come è stata raccontata nei romanzi, al cinema e nei fumetti, contiene spesso i semi della xenofobia e del razzismo. Pensa ai protagonisti delle grandi storie avventurose. Sono sempre bianchi, spesso aristocratici, che comandano sugli “indigeni” non per maggiore intelligenza o conoscenza, ma per un chiaro “diritto divino” riservato alla loro stirpe. Parliamo di Salgari. Intanto ti segnalo che il mio primo volume, L’ultimo dei Mohicani, di James Fenimore Cooper, l’ho letto a sei anni, come regalo dopo una malattia. Una specie d’imprinting, visto che poi avrei scritto storie western per venticinque anni. Le letture salgariane, invece, cominciano intorno agli undici anni. Frequentavo le scuole medie inferiori, e pescavo spesso nella biblioteca di classe, dove trovavo libri bellissimi che divoravo letteralmente. Ne lessi parecchi di Salgari, che era, insieme a Luigi Motta, il più sponsorizzato dal professore d’italiano, ma il mio preferito rimase Il Corsaro Nero, su cui ritornai almeno tre volte, data la penuria di libri in casa. Mi appassionava la trama e rimasi folgorato dai personaggi, così vitali e stimolanti. Sì, stimolanti, perché a storia finita, per giorni e giorni, dopo essermi costruito sciabole e pistole con gli appendini di legno dell’armadio, continuavo le gesta dei pirati per conto mio, aggiungendo antagonisti e belle fanciulle come contorno. Un misto di fantasia e di azione, che mi vedeva saltare sul letto matrimoniale dei miei e a usare il tavolo della cucina come una scialuppa alla deriva. In seguito, ormai grandicello, venni a sapere che Salgari aveva vissuto a Sampierdarena, dove risiedeva l’editore Donath. Cercai l’indirizzo, ma senza fortuna. Riuscii meglio, invece con Alberto Della Valle, che abitava di fronte al mare, con un terrazzo da cui poteva vedere le navi salpare dal porto di Genova. Mica male come ispirazione. — L’intervista è conclusa, ma non la chiacchierata con Giancarlo. Scendendo dalla crêuza dietro casa sua — immaginandomi in questo che il grande Faber fosse con noi — abbiamo proseguito l’incontro pranzando davanti a un mare celeste, cullati dal rumore ipnotico del rollio delle onde sotto di noi. Saremmo stati tutto il giorno ad ascoltare questo pozzo di saggezza e cultura, ma i reciproci impegni di lavoro ci hanno concesso solo il tempo — preziosissimo — del brunch. Un sentito grazie a Giancarlo. So Long (e anche Arrivederci). I LCO R SA RO N E RO 2 6 39 40 ILCORSARONERO 26 SPECIALE Robert Louis Stevenson A CURA DI Dario Pontuale CO N I CO N T R I B U T I D I Dario Pontuale Mino Milani Lucia Chimirri Marco Pisciottani Andrea Comincini I LCO R SA RO N E RO 2 6 41 DA R I O P O N T U A L E Un mondo intero in testa. Uno spirito errante Avere un padre progettista di fari, una madre figlia di un pastore presbiteriano, e voler fare lo scrittore, non è certo impresa semplice. Sommiamoci poi una salute cagionevole, minata da una tubercolosi cronica, e il sostrato di Robert Louis Stevenson è pressoché descritto. Nasce a Edimburgo nel 1850 e, secondo consuetudine tra le famiglie benestanti vittoriane dell’epoca, viene affidato a una nutrice dalla fervida immaginazione. Lei inventa, descrive, interpreta con passione favole per il piccolo, che appena impara a leggere trafuga dalla ricca biblioteca casalinga i romanzi di Walter Scott e Daniel Defoe. La bambinaia è, inoltre, responsabile dell’iniziazione del giovane Robert alla letteratura popolare, poiché lettrice del "Cassell’s Family Paper," un rotocalco da pochi penny. La mente del futuro romanziere inizia ad affollarsi di storie e personaggi tanto da ricordare: Della mia infanzia mi sono rimaste tre forti impressioni: le mie sofferenze quand’ero malato, le gioie della convalescenza nel presbiterio del nonno a Colinton e l’attività innaturale del mio cervello quand’ero a letto la notte. Per onorare la tradizione familiare si iscrive controvoglia alla facoltà di ingegneria, ma è solo un modo per affacciarsi al mondo. Ci riesce fin troppo bene diventando presto assiduo frequentatore di locali peccaminosi, secondo il giudizio della scandalizzata madre. Abbandona ingegneria e, sempre malvolentieri, si iscrive a giurisprudenza riuscendo, alla lunga, a laurearsi. Tra esami e bisbocce frequenta la taverna The Pump dove entra a far parte della Speculative Society, una piccola comunità di studenti che tra i suoi ex membri vanta niente meno che Scott. L’apertura culturale stimola la vita, e soprattutto le letture, del giovane studente. È il 1873 l’anno della svolta per Stevenson, di quel ragazzo alto, magrissimo, abbigliato con un cappello floscio e l’immancabile giacca di velluto bordò. I genitori, per allontanarlo dalle cattive compagnie, lo spediscono a Cockfield, peggiorando le cose. Conosce Frances Sitwell e soprattutto Sidney Colvin, dotto professore di Cambridge che per lui resterà sempre un punto di riferimento. Sono loro che lo scortano in un apprendistato letterario, plasmando un ragazzo dalle 42 ILCORSARONERO 26 abitudini linceziose in un famoso uomo di lettere. Grazie a queste influenze Stevenson spedisce saggi e articoli a varie redazioni ottenendone la pubblicazione. Colvin stesso lo invita agli incontri del Savile Club, il ritrovo della Londra letteraria, ma è giunto il momento di viaggiare, lasciare la brughiera e girare l’Europa, assecondando un istinto errante immutato fino agli ultimi giorni. A spingerlo, purtroppo, è anche la malattia polmonare che lo obbliga a climi soleggiati. Sceglie la Francia, la Costa Azzurra, Mentone per l’esattezza, e da quella dimora comunica ai genitori l’intenzione di intraprendere a tempo pieno l’attività di scrittore. Sempre in Francia, a Grez, incontra Fanny Osborne una bruna donna americana, più grande di lui di dieci anni, con due figli al seguito e un matrimonio alle spalle. Divampa un folle amore. Lei torna in America, si ammala, e appena venutone a conoscenza lo scrittore si imbarca in terza classe sul Devonia. La donna si riprende, ottiene il divorzio. I due convolano a nozze nel 1880 senza, tuttavia, cessare di barcamenarsi tra difficoltà finanziarie e di salute. I coniugi Stevenson, pur se contrari alle scelte dell’unico figlio, incluso il matrimonio con una donna più anziana e separata, non lo abbandonano. Spediscono assegni di mantenimento facendosi perfino trovar sul molo di Liverpool quando la nave, che riconduce la nuova famiglia Stevenson nel vecchio continente, cala le ancore. Fino al 1882 lo scozzese scrive racconti, soprattutto saggi, il più celebre dal titolo Chiacchiere sul “Romance”, un’attenta riflessione teorica sulla narrazione. In Stevenson l’intensa stagione saggistica altro non è che la presa di coscienza del ruolo rivestito dallo scrittore e dalla letteratura. Chiacchiere sul “Romance” fa il paio con un altro saggio di analogo valore: Un’umile rimostranza, edito nel 1884. Tra queste pubblicazioni Stevenson, letterato pienamente consapevole, incastona nel 1883 un romanzo epocale: L’Isola del tesoro. Libro destinato a stravolgere la narrativa mondiale consacrando l’autore nell’Olimpo degli scrittori. La sua vena creativa è travolgente. Esce Gli accampati di Silverado, poi in appena tre anni prendono forma: Lo strano caso del dr Jekyll e mr. Hyde e La freccia nera, oltre a una mezza dozzina di altri racconti. Inizia a pubblicare con la prestigiosa Chatto & Windus e sull’americano “Century Magazine”. La malattia lo assilla costringendolo a lasciare la Scozia, affermando: «Amo l’aria del mio paese, ma lei non ama me». Il peregrinare alla ricerca di luoghi salubri prosegue: Davos, Hyères, infine Bournemouth in una casa ribattezzata Skerryvore, come la maggiore opera ingegneristica dalla famiglia Stevenson. Il malconcio Robert vi dimora per tre anni, ospita amici e nell’inseparabile poncho macchiato di inchiostro, dà sfogo all’ispirazione. Morto il padre nel 1887 torna in America, ma dopo pochi mesi la malattia lo costringe a Saranac dove firma Il signore di Ballantrae e La cassa sbagliata. A tradirlo, stavolta, non sono i polmoni, bensì le letture. Ammaliato dai racconti esotici di Melville accetta l’incarico di stendere un volume sui mari del sud e salpa per la Polinesia. La salute ne giova, la scrittura affatto, il lavoro su commissione non è per lui. Ammaliato dai racconti esotici di Melville accetta l’incarico di stendere un volume sui mari del sud e salpa per la Polinesia. Se ne giova la salute, la scrittura affatto: il lavoro su commissione non è Stevenson, letterato pienamente consapevole, incastona nel 1883 un romanzo epocale: L’Isola del tesoro. I LCO R SA RO N E RO 2 6 43 per lui. Sedotto dal richiamo di quei luoghi vende ogni avere e si trasferisce nelle Samoa. Lo sfiora, addirittura, l’intenzione di solcare il Pacifico facendo il mercante, ma la moglie Fanny soffre il mal di mare, perciò il progetto si arena. Tuttavia l’ambientamento con il posto, gli abitanti e le tradizioni è totale; Stevenson sembra aver emulato inconsciamente il proprio modello letterario, ovvero Robinson Crusoe. Gli editori lo corteggiano, il pubblico trepida, ma lui costruisce una fattoria, apre sentieri e impara dai contadini. Stevenson, però, non è tagliato per il lavoro manuale, torna alla scrittura, ma non abbandona gli amici indigeni che difende dallo sfruttamento dei mercanti stranieri e li tutela nelle questioni politiche. Appaiono sul "Sun" varie lettere che diventeranno poi Nei mari del sud, ma soprattutto, dello stesso periodo, è la raccolta di racconti Le notti sull’isola. All’amico Colvin, scettico sul trasloco polinesiano e preoccupato per l’ispirazione del romanziere, Stevenson scrive tranquillizzandolo: «Ho un mondo intero in testa». Lo fa, tuttavia, inconsapevole di avere poco tempo. Il 3 dicembre del 1894, dopo l’uscita di Catriona, una fatale emorragia cerebrale lo coglie. Gli indigeni, grati per gli sforzi profusi da quello straniero famoso, aprono un varco nella foresta seppellendolo in cima a una collina nel rispetto delle ultime volontà. Sulla tomba, dopo gli onori riservati a un grande capo, lasciano una collana di fiori e una brevissima epigrafe: Tusitala ossia “Narratore di storie”. Pochi altri oltre a Robert Louis Stevenson meritano analoga definizione. La scrittura come vita Qualunque grande impresa esige progettazioni ragionate, studiate a tavolino; il talento può non bastare e di ciò Stevenson è consapevole. Ecco forse spiegato perché, prima di ideare storie immortali, si preoccupi di esporre, attraverso la saggistica, la propria personale teoria sulla scrittura. Riga dopo riga mostra profonda coscienza dei processi narrativi, si costruisce un carattere letterario che guiderà il panorama culturale successivo. È fondamentale, dunque, spiegare l’evoluzione di un autore che, non rispecchiandosi nei generi dell’epoca, elabora un nuovo canone smuovendo le stagnati acque britanniche. La narrativa inglese di fine Ottocento vive l’incertezza tra il fulgido passato del romanzo borghese, con autori quali Defoe, Richardson e Fielding, e un futuro di richiami d’oltre Manica. L’influsso di Flaubert, Zola e della scuola russa fa proliferare nuove opere incentrate sullo scandaglio psicologico dei personaggi, sulla cupa visione sociale e sul destino umano, ovvero gli elementi distintivi del romanzo realista. A quello borghese, a quello realistico, Stevenson, in Chiacchiere sul “Romance”, aggiunge, risollevandolo, il romanzo d’avventura. Lo difende nella secolare diatriba sulla dignità letteraria tra Novel e Romance. Se il primo è caratterizzato da una narrazione artefatta, con personaggi “realistici” su una storia lineare, il secondo si presenta come un racconto in cui l’attenzione è rivolta alla trama, meno ai personaggi, con ripetute complicazioni, dove spicca l’elemento fantastico. Assioma stevensoniano è il piacere che dovrebbe derivare dalla lettura di un libro, l’esaltazione data dalla lettura e dalla condivisione di argomenti semplici e provati da tutti. Chiacchiere sul “Romance” è quasi un trattato di psicologia della ricezione, un manifesto per la letteratura mondiale uscito sul "Longman’s Magazine", dal quale si legge: 44 ILCORSARONERO 26 Uno scrittore per quanto grande e dotato di creatività non farà altro che mostrarci l’apoteosi a occhi aperti dell’uomo comune. I suoi racconti possono essere alimentati dalla realtà della vita, ma il loro scopo e la loro caratteristica più vera consisteranno nella vocazione a rispondere ai desideri inconfessati e indistinti del lettore, a seguire la logica del sogno. Robert Louis Stevenson sottolinea come il romanzo d’avventura debba far emergere i desideri inconsci, le fantasie infantili celate sotto l’austera scorza dell’adulto. Accantonare la realtà, viaggiare con la fantasia, cercare l’identificazione del lettore, traducendo un concetto in emozione, fargli assaporare l’avventura attraverso il personaggio, fissando ogni sensazione nell’anima. Per avallare quanto affermato, richiama i prototipi del romanzo inglese settecentesco, comparando il naufrago di Defoe alla tragica eroina di Richardson. Per sua stessa ammissione, Clarissa è superiore qualitativamente al Robinson, ma quest’ultimo ha una maggiore capacità evocativa e fantastica, tanto da essere eletto come modello. Defoe permette un’inconscia adesione alla vicenda senza l’obbligo di un’identificazione con il carattere del protagonista. Non è mai il carattere del personaggio, bensì la situazione o l’incidente che ci scuote facendoci uscire dal nostro contegnoso distacco: quando accade qualcosa che vorremmo accadesse a noi, quando una determinata situazione, che abbiamo a lungo accarezzata nella fantasia, si verifica nella vicenda con i dettagli appropriati e convincenti. Allora sì che ci dimentichiamo dei personaggi, spingiamo da parte l’eroe, allora sì che ci tuffiamo nella vicenda in prima persona e immergiamo il nostro corpo in quella esperienza tonificante. Al lettore non deve essere offerta soltanto un’angolazione dalla quale sbirciare il mondo, bensì un universo apposito che sfruttando luoghi, personaggi, miti e leggende, risvegli l’imperituro bisogno di conoscenza: Alcuni luoghi parlano da sé, in modo distinto: certi giardini umidi e oscuri attendono ansiosi i più orrendi delitti, certe vecchie case implorano di essere visitate da spettri, certi scoscesi tratti costieri sono creati apposta per un bel naufragio. […] Lo stesso vale per certi nomi, per certi volti; o per eventi che di per sé sono inconcludenti o del tutto irrilevanti eppure sembrano contenere in embrione la promessa o l’inizio di qualche curiosa o eccitante avventura che un autore distratto ha omesso di raccontare. Certe riflessioni conducono a una lungimirante conclusione: La narrativa rappresenta per l’adulto ciò che è il gioco per il bambino, quel che cambia l’atmosfera e il tenore della sua vita; e quando il gioco si accorda così perfettamente con la fantasia che vi può partecipare con tutto il cuore, godendone ogni momento e anche più tardi continuando a sentirsi felice nel ricordarlo, per poi staccarsi dal ricordo solo a malincuore, la narrativa può chiamarsi a pieno titolo Romance. I LCO R SA RO N E RO 2 6 45 A pochi mesi di distanza dall’articolo L’Isola del Tesoro fa la sua prima apparizione. Henry James, fiero sostenitore del realismo, legge il romanzo e memore delle considerazioni sul Romance afferma, provocatoriamente: «Sono stato bambino, ma non son mai andato alla ricerca di un tesoro nascosto», dichiarando così la mancata immedesimazione nella trama. L’essenza della scrittura, continua James, è la ricerca del vero che lo scrittore deve perseguire per «competere con successo con la vita» senza inciampare nella “finzione”. Con Un’umile rimostranza la replica di Stevenson, contro la ghettizzazione del romanzo d’azione a sottogenere popolare, non si lascia attendere. Nell’articolo di umile c’è ben poco, viene resa pari dignità sia a una narrativa finalizzata all’esatta ricostruzione del reale, sia a quella impegnata nella costruzione di un immaginario fantastico. Nessuna arte compete con la vita, controbatte Stevenson, al più ne richiama certe suggestioni: Come opera d’arte, il romanzo non esiste in quanto somiglia alla vita reale, ma in quanto se ne distacca in modo totale e incommensurabile, con una differenza che è voluta e significativa e costituisce a un tempo il metodo e il senso più vero dell’opera. La vita dell’uomo non è dunque l’argomento dei romanzi. È solo il repertorio inesauribile da cui si debbono scegliere gli argomenti. Sempre in Un’umile rimostranza il romanziere spiega le differenze tra le tre classi del Romance. Quello d’avventura rivolto alle tendenze illogiche dell’uomo, quello psicologico concentrato alla comprensione delle debolezze e confusioni umane e quello drammatico aperto alle emozioni e al giudizio morale. Solo alla prima è assegnato il compito di immergere il lettore nella vicenda per lasciarlo al termine dell’ultima pagina a distinguere tra il vero e l’irreale. Alla fine della lunga arringa Stevenson infligge una dura stoccata alle critiche ricevute: «Se non ha mai cercato tesori nascosti, si può facilmente dimostrare che Henry James non è mai stato un bambino». Aggiungendo, infine, che il romanzo non è la trascrizione della vita, bensì la semplificazione di un aspetto di essa che risulterà verosimile fintanto avrà la capacità di apparire sinceramente reale. Non ci sono più dubbi, quindi, come per lui i libri che esercitano una maggiore influenza sono quelli di “finzione”, dove al lettore non si propinano dogmi né si riservano intenti formativi, bensì dove lo si lascia libero di apprendere le lezioni della vita attraverso un mutamento di prospettiva. Dopo la schermaglia James e Stevenson non ebbero altri motivi di scontro, anzi, nasce un’ottima amicizia mantenuta da un rapporto epistolare strettissimo e la sincera critica verso l’altrui lavoro. Un esempio, purtroppo poco imitato, di come opposte vedute possano diventare accrescimento personale, collettivo e letterario, lasciando ognuno fedele alla propria arte. James al suo realismo e Stevenson alla sua vena fantastica che, dopo il meticoloso esercizio critico, riverserà sulla pagina restando coerente al proprio inimitabile stile. 46 ILCORSARONERO 26 MILO MILANI Il romanzo perfetto. Riprendendo L’isola del tesoro nella mirabile traduzione di Piero Jahier (Einaudi, 1943) mi sono reimbarcato da Bristol per quell’isola in fondo all’Atlantico dell’ovest, «circa 9 miglia di lunghezza e 5 di larghezza, a forma di un grosso drago rampante», con una montagna centrale detta “Il Cannocchiale”. Qui, sulle pendici del monte, in un imprecisato anno del Settecento il capitano Flint, “gentiluomo di ventura” (pirata, cioè) ha fatto seppellire il suo tesoro da sei uomini, poi spietatamente uccisi. Tutti quei «denari a bizzeffe, da nuotarci dentro, da giocarceli a scopone per tutto il resto della nostra esistenza» sono dunque sull’isola, in un punto segnato su una mappa e noto al solo Flint, che gelosamente ha conservato in attesa del prossimo viaggio. Morrà prima di compierlo, portando nella tomba il suo segreto. Non la mappa, però, ricercata da altri, da “gentiluomini di ventura”, e che di mano in mano è finita in quelle di Billy Bones, vecchio arnese di pirateria, nascostosi in quel di Bristol, nella locanda “Ammiraglio Benbow”, gestita da un malandato oste, sua moglie e dal loro giovanissimo figlio Jim. Grande grosso e prepotente, guancia segnata da una sciabolata e una cassetta per tutto bagaglio, Billy passa il giorno scrutando preoccupato col cannocchiale la costa e la strada. A pranzo e a cena siede solo, ubriacandosi, zittendo tutti ad alta voce, e narrando di battaglie e tempeste; ma una sera, quando batte la manaccia sul tavolo e tira fuori un coltellaccio, qualcuno gli dice fermamente: «Se non rimettete in tasca all’istante cotesto coltello, prometto sul mio onore di farvi impiccare». È un medico della zona, il dottor Livesey «lindo e brillante con la parrucca candida come neve». Bill tace. Muore di lì a un po’; e sentendosi in diritto di farlo, Jim e la madre cercano nella sua cassetta quel po’ di denaro che basti a saldare il conto non pagato «e non un centesimo in più». Trovano un pacchetto di tela cerata, ma prima che lo aprano, spaventati da improvvise e minacciose voci che s’avvicinano, fuggono nella notte. Il mattino dopo, il ragazzo consegna il pacco al dottor Livesey: non vi sono soldi; v’è la mappa dell’isola del tesoro. I LCO R SA RO N E RO 2 6 47 È questa, per chiamarla così, la premessa al capolavoro del trentatreenne Stevenson (1883), che alternando precise pagine di descrizione ad altre di ardente suspence, magistralmente presentando personaggi e comparse, narra la crociera della goletta Hispaniola alla ricerca del tesoro capitanata da due gentiluomini veri, il conte Trelawney e il dottor Livesey. Esemplari interpreti dello spirito d’avventura dell’Inghilterra del tempo, essi concordano «nel considerare quel tesoro come una miniera di metalli preziosi, di cui per legge, una metà spetta a chi la trova e l’altra al re». Sulla nave ritroviamo Jim, imbarcato come mozzo; e a lui Stevenson affida il rischioso compito del narratore. Nessun scrittore italiano di allora (ma quali?) e nemmeno di oggi avrebbe mai osato, e oserebbe oggi, una cosa del genere, soprattutto a evitare il rischioso ingresso nella regione disprezzata (ma solo in Italia) dei libri per ragazzi. Il libro ebbe da subito grande successo, innescato, ricorda Jahier, anche dal fatto che William Gladstone, il celebre statista, «ci aveva fatto le due di notte senza potersene staccare». Si tratta infatti d’un romanzo veramente perfetto nella sintesi mirabile di forma, di contenuto, di ritmo narrativo. La crociera continua regolare, fino a quando Jim non scopre avventurosamente che il bonario cuoco della nave, John Long Silver («molto alto e robusto, faccione di luna piena pallido ma intelligente», e con una stampella al posto della gamba sinistra) è in realtà uno spietato assassino, capo dei pirati che, tutto sapendo, sono già a bordo dell’Hispaniola. Ma proprio allora: «Ohé, terra!», grida la vedetta Ammutinamento. L’equipaggio si divide, la lotta, subito senza pietà, arde sulla nave e poi a terra: cannonate, fucilate, colpi di scena, di spada e di pugnale, assalti, ritirate, uccisioni, che danno brividi al lettore e, nessun dubbio, a quanti s’ostinano a dire che per carità, mai parlare ai ragazzi di cattivi pensieri tradimenti bugie brama di denaro violenza morte: meglio rose fiori buone maniere e parolucce gentili. Niente verità, insomma. Alla fine, vittoria dei giusti o, se si preferisce, dei buoni. Ed ecco il tesoro. Oro. «Lingotti, monete inglesi, francesi spagnole, portoghesi doppioni, ghinee, zecchini, coi ritratti di tutti i sovrani d’Europa degli ultimi cento anni , strane monete orientali… non credo che ci fosse varietà di moneta al mondo che non fosse in quella collezione e per il numero, erano tante quante le foglie d’autunno…». L’Hispaniola parte, infine lasciando sull’isola tre pirati irriducibili: «Ci piangeva il cuore a tutti, credo, abbandonarli…ma riportarli alla forca in patria sarebbe stata una specie di carità pelosa», scrive Jim a conclusione dell’avventura che lo ha fatto uomo. Quanto a John Silver, che malgrado tutto ha avuto dal conte Trelawney la promessa di non essere processato, eccolo presentarsi a bordo dicendo compunto al capitano: «Torno al mio dovere, signore»; quando però la goletta cala l’ancora in un porto dell’America Latina, eccolo predare un sacco pieno di monete «per scorta alle sue future peregrinazioni» e scomparire chissà dove insieme col suo fido pappagallo capitano Flint. Stevenson non se l’è sentita di appendere alla forca un personaggio così magistralmente creato. Fine di un romanzo che affascina e trattiene il lettore dalle prime parole alle ultime: «pezzi da otto, pezzi da otto!» gracchiate da capitano Flint, che «se uno ha visto più scelleratezze di lui, non può essere che il diavolo in persona». 48 ILCORSARONERO 26 LUCIA CHIMIRRI Sortilegi e magie delle isole. L’isola ha esercitato grande fascino sugli autori d’ogni tempo che ne hanno fatto luogo d’elezione per avventure straordinarie, per esperienze sorprendenti. A iniziare da Omero, che fece vagare Ulisse fra isole abitate da ciclopi, da sirene, da maghe e maliarde, e non si contano le isole reali o immaginarie, teatro di vicende che hanno appassionato i lettori di tutte le età. L’isola di Robinson Crusoe, Laputa l’isola fluttuante di Gulliver, l’Isola misteriosa, ultimo rifugio del capitano Nemo, l’Isola “che non c’è”, regno di Peter Pan, Mompracem, ormai irraggiungibile perché cancellata dalle mappe. Robert Louis Stevenson deve gran parte della sua fortuna al romanzo L’Isola del tesoro e di isole ne incrociò molte nella finzione letteraria e nella vita reale. Nel giugno 1888 partì da San Francisco per una crociera nel Pacifico meridionale, spingendosi fino a Sidney. Visitò le Marchesi, Thaiti, le Samoa. Il 21 maggio 1889 sbarcò a Molokai nelle Hawaii, dove da appena un mese era morto padre Damien, il religioso che assisteva i malati del lebbrosario1. La crociera in Polinesia ispirò a Stevenson le storie dei mari del Sud: The South Seas: life under the Equator, impressioni di viaggio scritte in forma epistolare, e tre racconti, Bottle imp (1891), The beach of Falesà (1892), The Isle of voices (1893), poi riuniti nella raccolta Island nights’ entertainments. 1 Padre Damien de Veuster (1840-1889), missionario della Compagnia di Gesù, canonizzato da Benedetto XVI nel 2009, seguì i malati di lebbra dell’arcipelago, deportati nel lebbrosario di Molokai. Nel contatto con i lebbrosi contrasse la malattia che lo portò alla morte. Fu calunniato dal reverendo Dr. Hyde [!], pastore protestante a Honolulu e Stevenson prese le sue difese con la lettera Father Damien, an open letter, pubblicata in “The Scots Observer” (maggio 1890). La storia di padre Damien ha ispirato due film: Molokay la isla maladita, diretto da Louis Lucia (1959) e Molokay: the story of Father Damien, diretto da Paul Cox (1999). I LCO R SA RO N E RO 2 6 49 The Isle of voices, inizialmente pubblicato sul “National Observer” (febbraio 1893), è uno dei suoi ultimi racconti e forse quello meno noto. Ambientato sull’isola di Molokai, narra la terribile avventura vissuta da Keola, indolente e pavido hawaiano, al seguito del suocero, l’avido e crudele Kalamake. Kalamake è un mago che usa i suoi poteri per accumulare dollari che gli consentano di vivere con agi e privilegi. Attraverso la magia, trasforma in monete d’argento le conchiglie raccolte sulla spiaggia di un’isola sperduta nel Pacifico, l’Isola delle voci. Non segnalata sulle mappe, posta nell’ “Arcipelago Basso o Pericoloso”, è disabitata, ma di tanto in tanto viene visitata da una tribù di antropofagi che vi si reca per la pesca. Il nome le deriva dalle voci incorporee udite da chi vi approda: scopriremo che appartengono ai maghi, invisibili agli occhi, che da ogni parte della Terra raggiungono la spiaggia per la prodigiosa raccolta di conchiglie. La loro presenza sull’isola è rivelata anche da misteriosi focherelli che improvvisamente si accendono sulla sabbia. L’incantesimo per raggiungere e abbandonare l’isola, infatti, si produceva bruciando speciali erbe che davano origine a fuochi che rapidamente si consumavano. Scampato all’ira del suocero che lo vuole morto ed evitato il rischio di essere la portata principale del banchetto dei mangiatori d’uomini, dopo varie peripezie Keola viene salvato dalla moglie Lehula. Il racconto ha un epilogo edificante, forse un tributo alla memoria di padre Damien: gli sposi per liberarsi del fardello dei dollari, ottenuti tramite malefici, seguono il consiglio di un missionario e li donano ai lebbrosi di Molokai. Nel racconto Stevenson dà libero corso all’immaginazione e alla vena ironica, creando una serie di situazioni fantastiche, come la surreale battaglia finale fra gli indigeni e gli invisibili stregoni, nella quale forse viene ucciso Kalamake. «Ma chi può dirlo?» si chiede l’autore, lasciando al lettore il dubbio sulla sua sorte. L’Isola delle voci è una favola a lieto fine, destinata da Stevenson a incantare i nativi di Vailima nelle Samoa, che lo chiamavano Tusitala (narratore di storie), e a metterli in guardia contro i pericoli delle pratiche magiche e dell’avidità. Il racconto, nel quale la realtà quotidiana si mescola a eventi prodigiosi, è ispirato a favole celtiche e probabilmente a leggende locali, ma presenta — mi pare — alcuni riferimenti a La Tempesta, la commedia con la quale Shakespeare si congedò dalle scene. Shakespeare era uno degli autori che più avevano influenzato lo scrittore scozzese2, che non mancò di rendergli omaggio nei suoi scritti3, e L’Isola delle voci costituisce forse l’ultimo omaggio. Durante il soggiorno a Vailima, nella cerchia dei familiari e degli amici, la figura di Stevenson venne associata a quella di Prospero4. Il racconto potrebbe essere la risposta autoironica a quella immagine, derivata dal rispetto e dall’ammirazione suscitati fra gli abitanti delle Samoa per la sua magica arte di narratore. Alla luce di ciò i temi tratti dalla Tempesta appaiono evidenti: l’ambientazione su un’isola; la magia, tema centrale di entrambe le opere; il personaggio di Kalamake, mago potente come Prospero, che come Prospero ha una giovane figlia. Infine l’inquietante 2 Robert Louis Stevenson, Books which have influenced me, in Essays in the art of writing, London, Chatto & Windus, 1919, pp.75-77. 3 Il più esplicito, forse, è il nome di Florizel principe di Boemia, l’affascinante deus ex machina nelle Nuove Mille e una notte, tratto dal personaggio della commedia Racconto d’inverno. 4 Cfr.: la poesia Prospero at Samoa, firmata YY e datata 1892, in: “Bookman”, 1913, p. 128. Sul soggiorno di Stevenson nelle isole del Pacifico, cfr.: Roslyn Jolly, Robert Louis Stevenson in the Pacific: travel, Empire and the author’s profession. Routledge, 2009, pp. 167-168. 50 ILCORSARONERO 26 mistero delle voci incorporee, che rievocano i canti e i sussurri di Ariel, l’“ingegnoso spirito”, invisibile agli occhi dei naufraghi della Tempesta. Possiamo considerare le analogie fra le due opere coincidenze o vaghe reminiscenze scespiriane, ma c’è un ultimo argomento che vale la pena di accennare, che ci riporta al tema dell’isola. Mi riferisco alle Bermuda evocate da Ariel nel primo atto della commedia: La nave del re è salva nel porto, in quella profonda insenatura, dove una volta mi facesti venire a mezzanotte perché ti recassi della rugiada dalle sempre tormentate Bermude5. Secondo alcuni studiosi una delle fonti letterarie della Tempesta sarebbe da ricercare nei Bermuda pamphlets6. Una serie di pubblicazioni con il resoconto della spedizione organizzata dalla società inglese Virginia Company per stabilire una colonia a Jamestown. La nave Sea Adventure, ammiraglia di un convoglio al comando di sir George Somers, salpata da Plymouth il 2 giugno 1609 e diretta in Virginia, durante una tempesta fece naufragio sulla costa di Bermuda. L’equipaggio e i centocinquanta coloni che erano a bordo si salvarono e dopo alcuni mesi, con barche di fortuna, raggiunsero Jamestown. Non sappiamo se Stevenson conoscesse la storia del naufragio della Sea Adventure, ma certamente non poteva ignorare la sinistra fama dell’isola, chiamata anche Isle of devils. Per questa fama, arrivata fino ai nostri giorni, e per gli spaventosi fenomeni ai quali assistettero, i naufraghi si convinsero che l’isola fosse abitata da diavoli e da spiriti malvagi. William Strachey, uno degli autori dei Bermuda Pamphlets, riferisce di misteriosi fuochi che si accendevano improvvisamente sulla nave durante la tempesta, noti ai marinai come fuochi di Sant’Elmo e considerati presagio di sciagure7. Anche Shakespeare descrive, attraverso la voce di Ariel, questo strano fenomeno che evidentemente aveva colpito la sua immaginazione: Abbordai la nave del re, e ora sulla prora, ora sul ponte, ora sul cassero e in ogni cabina fiammeggiavo destando terrore. Talvolta mi dividevo e ardevo in molti luoghi. Fiammeggiavo separatamente sul trinchetto, sulle antenne, sul bompresso, poi correvo a unirmi8. Non assomigliano forse i fuochi fatui della Tempesta ai fuochi che improvvisamente si accendevano sulla spiaggia dell’Isola delle voci, temuti da Keola perché rivelatori della presenza degli stregoni? 5 William Shakespeare, La Tempesta, in: Tutte le opere, a cura di Mario Praz. Firenze, Sansoni, 1977, Atto I, scena II, p. 1191. 6 Robert C. Fulton, The Tempest and the Bermuda pamphlets: source and thematic intention, in “Arthurian interpretations”, v. 10 (1978), n. 1, pp. 1-19. 7 William Strachey, A True Repertory of the Wracke and Redemption of Sir Thomas Gates, Knight, upon and from the Islands of the Bermudas: His Comming to Virginia and the estate of that Colonie there and after, under the government of the Lord La Warre July 15, 1610. 8 Vedi nota 5. I LCO R SA RO N E RO 2 6 51 M A R CO P I S C I OT TA N I Gli allegri compari, ovvero: Robert Stevenson in un racconto solo. Avete presente la prodigiosa visione che vi si schiude al microscopio? Quella vista capace di ricordare la grande verità, per cui in una sola semplice cellula del mondo è contenuto il mondo intero? Gli allegri compari di Stevenson è qualcosa di simile: un racconto che nella sua levigata brevità appare una piccola summa, sorprendentemente rappresentativa degli elementi primi, dei simboli e dei temi della produzione del grande autore scozzese. Vorrei qui soffermarmi sui principali tra questi aspetti, contenuti ne Gli allegri compari. Perché se questa tesi uscisse ragionevolmente dimostrata, ai nostri occhi apparirebbe ancora più sorprendente la sorte che il racconto ha avuto in Italia. Non è tanto e solo la circoscritta attenzione ricevuta dalla critica: a sorprendere è anche, e soprattutto, l’anomala traiettoria editoriale tracciata delle pubblicazioni del racconto nel nostro amato idioma. A quanto sembra, infatti, Gli allegri compari giace non pubblicato in Italia da oltre quindici anni: un’epoca, se rapportata al respiro frenetico dell’editoria italiana d’oggi. Eppure una sua rilevanza il racconto deve averla avuta, almeno per Stevenson o per i suoi editori, visto che The Merry Men fece da capofila nel titolo della raccolta pubblicata nel 1887, cinque anni dopo l’esordio solista del racconto nel 18821. 1 The Merry Men and other tales and fables (1887), Londra, Chatto & Windus; New York, Scribner’s 52 ILCORSARONERO 26 Ma procediamo con ordine: prima, qualche cenno sulla storia. Ne Gli allegri compari Charles Darnaway ci racconta la sua ultima avventura sull’isola di Aros (arcipelago delle Ebridi, costa ovest delle Highlands scozzesi), dove da anni trascorre le vacanze di fine corsi universitari ospite di Gordon, fratello di suo padre. Il giovane stavolta ha un duplice proposito: sposare Mary Ellen, figlia di Gordon, e recuperare il tesoro di una nave spagnola (l’Espirito Santo) affondata secoli prima lungo le pericolosissime coste, battute da onde così violente e chiassose da meritarsi il soprannome di “Allegri compari”. Sorpreso da un’atmosfera plumbea, che sembra nascondere qualcosa di terribile, capisce che lo zio ha già sciacallato il relitto di un’altra nave, la Christ-Anna, vittima recente degli “Allegri compari”. E Mary Ellen accoglie la dichiarazione del cugino con strana freddezza. Il giorno dopo Charles si avventura da solo nel tratto di costa dove presume giaccia l’Espirito Santo. A riva, inorridisce alla vista di una tomba e s’intristisce osservando i resti della Christ-Anna. La sua immersione ha successo: il relitto è lì. La meraviglia della scoperta scolora nel tormento del dilemma: profanare i morti e rubarne il tesoro, o rispettarne la sorte rinunciando a esso? Dopo una paralisi della volontà, decide di afferrare il secondo corno. Mentre risale verso casa volge lo sguardo al punto dove s’era immerso e vede confermato un altro sospetto: non è l’unico a cercare l’Espirito Santo. Una piccola imbarcazione — tender di una goletta ancorata poco distante — è ora in perlustrazione sul tratto di mare da lui esplorato poco prima. Charles racconta tutto a Gordon, la cui reazione, insolita e sintomatica, fa capire tutto al nipote: suo zio ha ucciso un naufrago della Christ-Anna (ecco perché la tomba!). Serba la scoperta per sé e porta Gordon in cima alla collina: una tremenda bufera è in arrivo, devono salvare la goletta. Ma è l’inizio della fine. Insieme alla burrasca, che velocissima raggiunge e sconquassa Aros, esplode, alimentata dal vizio dell’alcool, la follia di Gordon: il suo unico interesse ora è godersi il naufragio. Con stati d’animo opposti, i due assistono al compimento del disastro. E subito dopo l’ira dei cieli si placa. Il giorno successivo giù alla baia, alla ricerca del nuovo relitto, Gordon si confessa candidamente al nipote («Sono un demonio, lo so: non penso ai poveri marinai, sono con il mare, sono come uno dei suoi Allegri Compari»)2. Charles non si trattiene: mette lo zio di fronte alle sue malefatte e lo invita solennemente a pentirsi. Ma in quel momento dalle rovine della nave spunta un superstite. È un nero. Non parla la loro lingua, si fa capire a gesti. Gordon è assalito da terrore folle e cieco, vede una punizione divina là dove c’è solo uno schiavo, abbandonato dall’equipaggio di quel tender avvistato il giorno prima da Charles. Gordon scappa, si dà alla macchia. L’indomani Charles coinvolge Rorie (l’anziano maggiordomo dello zio) e il naufrago in un piano per rintracciare Gordon. Tragedia: Gordon fugge lungo la baia, dietro di lui il nero che l’ha quasi raggiunto, davanti a lui Charles; vistosi raggiunto, preferisce perdersi: scarta sulla destra verso il mare. In un istante è nell’acqua, risucchiato dalle correnti. Dietro di lui, trascinato dall’inerzia dell’inseguimento, il nero condivide la sua fine. Sons. The Merry Men (1882), “Cornhill Magazine”, nn. 45 e 46. 2 Robert Louis Stevenson, Gli allegri compari, traduzione di Laura Merletti, Como-Pavia, Ibis, 1995, p. 75. I LCO R SA RO N E RO 2 6 53 Vediamo dunque i principali temi stevensoniani, all’opera in questa notevole miniatura letteraria. Per prima ne evidenzio l’intenzione, che mi sembra egregiamente perseguita anche in questo racconto, di rivolgersi al pubblico più vasto e trasversale possibile. A tutti i livelli — psicologico, simbolico, poetico, tematico, narrativo, linguistico — la storia de Gli allegri compari ci appare fresca, immediata, chiara: perfettamente fruibile e coinvolgente, senza pagare dazio a banalità o ai carveriani “trucchi da quattro soldi”, oppure a soluzioni compositive, superficiali o grossolane. C’è poi l’opzione narrativa cruciale per Stevenson, che attribuiva preminenza alle situazioni rispetto ai personaggi, nella convinzione che fossero le prime a dare vita ai secondi, rendendoli interessanti agli occhi dei lettori3. Anche Gli allegri compari è infatti un esemplare susseguirsi di eventi che premono sui protagonisti, smuovendo le loro passioni e costringendoli a scelte cruciali, spesso loro malgrado. Non manca inoltre quell’acuto senso del luogo, tipico dell’autore scozzese. Le peculiarità geografiche, meteorologiche e fisiche del contesto sono trattate in modo accuratissimo e intenso: l’ambiente naturale non se ne sta lì, defilato e muto come un contenitore dei fatti, ma s’appropria della ribalta e prepotente sta sulla scena, personaggio tra i personaggi, quasi afferrando il lettore per il bavero e reclamandone l’attenzione. Prova ne sia che qui, a voler essere restrittivi, non meno di un quinto del racconto è assorbito dalla descrizione degli ambienti. Gli allegri compari è un esemplare susseguirsi di eventi che premono sui protagonisti smuovendo le loro passioni. Questo senso del luogo inoltre, nella declinazione Highlands vs. Lowlands, si trasforma in uno dei temi più stevensoniani di Stevenson: il doppio. A Gordon Darnaway, adottivo delle selvagge Highlands scozzesi in virtù del matrimonio con una fanciulla delle isole4, si contrappone suo nipote, che già alla prima pagina dichiara di discendere «da un puro ceppo delle Lowland»5, più pacate e civili. Questa contrapposizione geografica si psicologizza, sublimandosi nella contrapposizione tra la razionalità prettamente umana di Charles e la disumana luce sinistra che accende suo zio, devotissimo presbiteriano scozzese da una parte e omicida alcolizzato dall’altra. Due metà che lottano tra loro fino alla consunzione della povera anima che le ha generate e dell’anziano corpo che le contiene. E allora, con una nota forse scontata per i nostri fratelli di lettura inglesi, ma non necessariamente per noi fruitori del Bel Paese, vale la pena soffermarsi sul 3 «Non è il personaggio, ma l’evento che ci sollecita ad abbandonare la nostra riservatezza»: in Una chiacchierata sul romanzesco, traduzione di Roberto Birindelli, in Stevenson, Romanzi, racconti e saggi, a cura di Attilio Brilli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2012, p. 1863. 4 Gli allegri compari, cit., p. 9. 5 Ibidem. 54 ILCORSARONERO 26 cognome dei due protagonisti: Darnaway, dove “darn” rimanda alla lacerazione, alla scissione e alla sua ricomposizione, perché significa “rammendare”, “rammendo”, ma anche “maledire” e “maledetto, dannato”; e “away” può funzionare come rafforzativo di questi significati. Stevenson ci presenta dunque due esiti opposti del comune ceppo Darnaway: il dannato Gordon; e il superstite Charles, che si sottrae abilmente, pur correndo rischi diversi, alla predestinazione luttuosa della famiglia. Sfuggiamo però alla seducente inquietudine del doppio. Non dobbiamo e non possiamo far torto all’altro grande protagonista dell’immaginario stevensoniano: il tesoro! Prima che ne Gli allegri compari, questo celebre tema/simbolo era già apparso nelle sue opere. A volerne citare solo due: Il diamante del Rajah e ovviamente L’isola del tesoro6. Ora a trentadue anni e con all’attivo una più che onorabile posizione di critico e scrittore, Stevenson si concede il lusso di consolidare il suo oggetto feticcio, e anche per Gli allegri compari non esita ad avvalersi del tesoro quale motore narrativo. È infatti anche attorno all’arraffare tesori che si incardina la cupa follia di Gordon; è anche per trovare un tesoro che Charles si reca nuovamente ad Aros; e soprattutto grazie alla ricerca del tesoro il giovane si mette alla prova, senza nemmeno volerlo, mostrandoci lo spettacolo di contrastanti passioni e l’istruttiva traiettoria della sua maturazione individuale. Che dire? A essere onesti, è pura ripetizione di un tema vecchio quanto il mondo. Lo stesso Stevenson riconosceva i termini della questione, come rivela con sferzante ironia in Una chiacchierata sul romanzesco: “Siamo di fronte al vecchio, legittimo interesse, cotto e ricotto, per la caccia al tesoro”7. Eppure la scelta paga ancora (e pagherà a lungo, come sappiamo), perché Gli allegri compari, sebbene non sia storia di pirati e ammutinamenti, possiede cristalline qualità epico-archetipiche, che contribuiscono in modo cruciale a consegnarci una lettura appassionante, piacevolissima, coinvolgente. Proprio come voleva Stevenson. Proprio come, guarda caso!, lui stesso aveva teorizzato nel saggio appena citato: In qualsiasi cosa meritevole del nome di lettura, il processo stesso dovrebbe essere avvincente e voluttuoso; dovremmo divorare con gli occhi il libro, restarne estasiati e, terminata questa lettura meticolosa, rimanere con la mente ricolma di una fantasmagorica, sfrenata danza di immagini, incapaci di prender sonno o di pensare ad altro8. Chiuso il baule del tesoro, corre l’obbligo di menzionare il sesto e ultimo tra i principali topos stevensoniani rappresentati ne Gli allegri compari. Mi riferisco alla posizione dell’autore verso un impulso ritenuto tra i fondamenti psicologici e morali della civiltà: la competizione. 6 Il diamante del Rajah: pubblicato nel 1878 sul “London”; L’isola del tesoro in "Young Folks", ottobre 1881–gennaio 1882. 7 Una chiacchierata sul romanzesco, in Romanzi, racconti e saggi, cit., p. 1861. 8 Ivi, p. 1851. I LCO R SA RO N E RO 2 6 55 Un giudizio, il suo, che in quegli anni forse era ancora in formazione e che successivamente, dopo una vita di viaggi coronata dall’approdo in terre lontane e non civilizzate, diverrà presa di posizione esplicita contro il colonialismo, massima espressione dell’arricchirsi a spese altrui. Nel tenerci incollati alle pagine con il dilemma di Charles sul tesoro dell’Espirito Santo, Stevenson ci pone un interrogativo retorico: a quali condizioni possiamo infrangere il legame collettivo tra uomini per garantirci tornaconto e benessere individuali? La risposta è altrettanto chiara: seppure dopo un momento di turbamento, Charles sente di non poter tradire la memoria dei poveri naufraghi profanandone i resti. A questa condizione, cioè appunto a spese altrui, arricchirsi non ha senso. Siamo alle conclusioni. Spero di avere dato un primo persuasivo abbozzo della tesi che Gli allegri compari è tutto Stevenson in un racconto solo. Forse non siamo alle vette della potenza poetica di altri suoi racconti o romanzi, ma di certo è tutto: compiuto, completo, esaustivo, rotondo. E quand’anche si sollevassero legittime eccezioni alla qualità del racconto, che può apparire ottima ma non eccellente, è un fatto che Gli allegri compari mostra pienamente all’opera la magistrale abilità di Stevenson nel catturare, fin dalla prima pagina, l’attenzione del lettore, per liberarla solo alle ultime righe, satolla e soddisfatta per aver assistito a una gran bella storia. «Ed è quanto ci basta», come diceva Stevenson stesso9: quanto basta a noi poveri piccoli esseri umani e al nostro famelico bisogno di storie e immagini che scaldino il cuore, che ci facciano ritrovare anche da adulti la gioia protettiva ed espansiva del gioco, e ci lascino un bel ricordo da accarezzare nei momenti in cui ci serve coraggio. Perché, d’accordo con l’autore scozzese, questa «dopo tutto, è l’unica motivazione e la vita stessa dell’arte: l’incanto»10. 9 Ivi, p. 1860. 10 Una nota sul realismo, traduzione di Attilio Brilli, in. Stevenson, Romanzi, racconti..., cit., p. 1875. 56 ILCORSARONERO 26 A N D R E A CO M I N C I N I Stevenson e la filosofia del romanzo. «Quel che è veramente interessante, a questo punto, è che Stevenson, in mezzo a tutto ciò, ebbe uno scatto improvviso di impaziente desiderio di salute: come una scossa di scetticismo riguardo allo scetticismo». La riflessione è di Gilbert Keith Chesterton, uno degli interpreti più accreditati di Stevenson, e fa riferimento a quella opaca malinconia caratterizzante la società letteraria intorno allo scrittore. La moda del dandy dal polso tremante e dai propositi nichilisti era decisamente lontana dalla tempra dello scozzese. Caratteristica interessante, visto che lui, a differenza di molti altri, avrebbe avuto motivo di sconforto: un corpo malato, un respiro asmatico continuamente lì a minacciarne l’esistenza, avrebbe dovuto trascinarlo nel dolore più devastante. Invece Stevenson, con un ardore pari solo alla solarità della sua scrittura, cerca altri lidi: non faceva per lui il pessimismo di Schopenhauer, sebbene soffrisse di periodi bui di depressione, e a tutti coloro che si crogiolavano in una ostentata amarezza, avrebbe probabilmente voluto gridare: «all’arrembaggio!». Chesterton insiste sul tema: «tutti gli altri artisti e poeti, erano dei poseur: giocavano a fare i membri del club dei Suicidi». Cosa ha spinto dunque Stevenson a imbracciare un altro stile di vita, una filosofia addirittura, così diversa dai contemporanei in voga, spingendolo a solcare con i suoi pirati mari sconosciuti senza temere di annegare? È possibile che la tipica scrittura sia il frutto di una maturazione interiore, e non una semplice opzione stilistica, ma quasi necessità, destino? Fiumi di inchiostro sono stati versati per omaggiarne l’incredibile biografia, e nonostante oggi anche l’opera venga riconosciuta adeguatamente, un malevolo sguardo della critica resta sempre latente. Il rimprovero mossogli è noto: la ricerca di una universalità del piacere tramite la lettura — e L’isola del tesoro I LCO R SA RO N E RO 2 6 57 ne è l’apice — ha a che vedere unicamente con il gusto del successo o la ricerca della popolarità, e non con la letteratura “alta”. Contestare l’obiezione nel merito non sembra produttivo: più utile invece accoglierla, e dimostrare quanto il supposto elemento negativo è, in realtà, una straordinaria e consapevole scelta intellettuale e artistica. Non si tratta ovviamente di una difesa d’ufficio: questa Weltanschauung, o vision, per dirla in termini più attuali — rivela una intelligenza di assoluto spessore. Stevenson è stato spesso accostato a pensatori positivisti, sia per l’ironico scetticismo che accompagna i suoi saggi, sia per quello spirito pagano a lui affine. Un autore a cui poco è associato, e al quale invece — a mio avviso — risulta profondamente legato, è Friedrich Nietzsche. Molti penseranno alle questioni morali implicite nel Dott. Jekyll e Mr. Hide, ai risvolti psicologici e psicanalitici sottesi al testo: legittimi, ma qui si insisterà sulla intera produzione stevensoniana, definendola il corrispettivo letterario del superomismo nietzschiano, epurato ovviamente da qualsiasi travisamento in chiave sciovinista e razziale, che tanti danni ha provocato anche al genio di Röcken. Vi è un personaggio che svetta onnipotente nell’opera nietzschiana, Zarathustra. Il profeta della vita a venire pare incarnare pienamente la filosofia del nostro scrittore. Come Zarathustra, Stevenson non fa finta di sapere che l’esistenza non sia tragica: ogni pagina, ogni personaggio, non è mai solo, ma sempre accompagnato dalla consapevolezza di quel Nulla tanto corteggiato dai suoi contemporanei. Ebbene, quale prosa è più energica e solare se non quella dello scozzese? Dove ritrovare una continua volontà di vivere nonostante la vita, nonostante la trama? È la scrittura stessa a offrire tale interpretazione, e solo successivamente i contenuti dei racconti. Lo strumento è ovviamente la poetica, le proprie leggi, e anche — elemento fondamentale — la necessità di Stevenson di scrivere per una giocosa redenzione del mondo, e non solo per se stesso o il plauso dei critici. Zarathustra sa di non poter essere capito da tutti, e così Stevenson: solo nell’adolescenza si trova la cura del vivere, gli uomini lo hanno dimenticato. «Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto un sacro dire di sì. [...] Tre metamorfosi vi ho nominato dello spirito: come lo spirito divenne cammello, leone il cammello, e infine il leone fanciullo». Il filosofo ricorda sempre che il peggior nemico del superuomo è la compassione, seguita dalla malinconia. Cosa significa? La risposta non è rifugiarsi nel passato, quando si giocava con barche di carta o si sognava di conquistare il mondo nel giardino dietro casa. Tale interpretazione sarebbe decisamente riduttiva. Nietzsche non elogia la banalità di anime grette e ciniche. Troppe volte il suo secolo l’ha frainteso. Il messaggio di Zarathustra è tornare a essere fanciulli, dopo essere stati adulti. Davanti alla tragicità dell’esistenza, quando si può essere facilmente sedotti dal pessimismo schopenhaueriano, proprio allora essere fanciulli vuol dire semplicemente accettare la drammaticità del destino, eternamente. Stevenson procede parimenti a consegnare alla pagina bianca uomini e donne con un fato già deciso, semplicemente da esplicare, e nonostante il lettore conosca e avverta l’esito, anche 58 ILCORSARONERO 26 quando negativo, lo vive fino in fondo, perché l’artista così vuole, senza rimpianti. La forza del romanzo non è nel semplice intrattenimento, ma nella trasvalutazione del tragico in gioco, e il gioco in stile letterario. Rivolgersi al grande pubblico, dunque, e ricercare il piacere della lettura non è segno di viltà, ma il contrario. Tradotto in termini ermeneutici, il romanzo stevensoniano ricorda una verità difficile da sostenere: essere e pensiero non sembrano coincidere, il mondo non procede linearmente verso magnifiche sorti e progressive, e non mostra alcun senso. Ma allora, invece di sconfortarci, perché non salpare con l’Hispaniola? Perché non essere tentati di andare alla ricerca del tesoro? Quale ragione dovrebbe indurre lo scrittore a cedere a stili sterili, opachi, autoreferenziali, come tanti suoi contemporanei? Nietzsche e Stevenson hanno compreso che del mondo non se ne può fare sistema: panta rhei, e non c’è una verità dietro una apparenza di menzogne. Crollato il fenomeno, anche il noumeno non c’è più. Eppure entrambi si affidano alla scrittura per ottenere e donare piacere, perché dalle macerie nichilistiche di fine Ottocento deve sorgere un nuovo uomo, grazie a una rinnovata fiducia e a una sana e potente creazione di senso. Esiste un essere in grado di fare ciò? Il fanciullo ovviamente, ma non quello lasciato anni fa, bensì il ragazzo del futuro, unico a poter giungere “nel regno dei cieli”. In Italia lo stesso misunderstanding letterario di Stevenson è piombato su Emilio Salgari. Prima derubricati a racconti per il popolo, infine assurti agli onori degli altari, le opere di Salgari sono attraversate dallo stesso spirito vitale. Chi non avrebbe voluto combattere accanto a Sandokan, o avrebbe chiesto di accendere una sigaretta a Yanez? Ancora una volta si rinnova il desiderio di piacere al lettore non soltanto attraverso un singolo racconto, ma grazie a una rinascita “teologico-poetica”, per parafrasare l’ultimo lavoro del filosofo Sergio Givone, perché l’arte non può nascondere la sua vocazione religiosa, e la trasformazione del mondo in favola non ha carattere dissolutivo, ma performativo. È la forma a decidere le sorti del contenuto. I critici che denigravano Stevenson sembrano proprio simili agli uomini descritti nel frammento 125 della Gaia Scienza: «Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro […]». Robert Louis Stevenson fu frainteso proprio come il folle, creduto un bambino sperduto, alla ricerca di una chimera. Egli sapeva bene tuttavia che la verità è un’altra: a esserci persi siamo noi, tra Pulvis et umbra, e solo il miraggio di un tesoro, nascosto in un’isola sperduta, può farci nuovamente bollire il sangue e accogliere la vita con le sue tempeste. Il romanzo stevensoniano ricorda una verità difficile da sostenere: essere e pensiero non sembrano coincidere. I LCO R SA RO N E RO 2 6 59 FO LG O RI D 'AU TO RE MARCELLO SIMONI Il demone di Cyrano. Ci sono uomini (e donne, naturalmente) che hanno avuto il privilegio di vivere due vite. La prima in carne e ossa, la seconda sotto forma di personaggi letterari. Mi riferisco a figure come Richelieu, Lucrezia Borgia e Cyrano de Bergerac. I loro nomi sono talmente legati alla trama di narrative, che gli scrittori hanno intessuto in loro onore nel corso dei secoli, tali da renderci difficile distinguere fino a che punto la storia abbia ceduto il passo alla fantasia e viceversa. Caso emblematico è proprio Cyrano, che infilandosi — a tutto naso, verrebbe da dire — nel gioco della finzione poetica e pseudo-fantascientifica, s’inventò un viaggio sulla Luna, dove egli afferma d’aver incontrato il demone di Socrate. Che in tal modo divenne vittima del medesimo scherzo in cui cadde qualche tempo dopo, a opera di Rostand, lo stesso Bergerac: divenne, cioè, un personaggio di carta e inchiostro. Da qui il nome e lo scopo di questo breve intervento, dedicato a parlare di coloro che ebbero una vita doppia, alcuni fin troppo noti e altri quasi sconosciuti. Ed è partendo dal Medioevo guerresco che avrei desiderio di cominciare. Benché abbia espresso il mio intento, desidero infatti accostarlo a un importante corollario: l’avventura. I personaggi di cui tratterò, in sostanza, dovranno spartire qualcosa con Lancillotto, il Corsaro Nero o il Capitano Nemo. Dovranno essere viaggiatori, guerrieri o perché no, furfanti in grado d’intrattenerci con le loro imprese o malefatte, veritiere o iperboliche che siano. Parlerò quindi di Turpino, che prego di accogliere con un Monjoie! in onore di una guerra che, nata in terra di Spagna prima dell’anno Mille, prosegue oggi in un baluginare di lacche e peltri nei teatrini dei pupi siciliani. Fu monaco, il nostro Turpino. Ordinato presso l’abbazia di Saint-Denis, a Parigi, verso la metà dell’VIII secolo, fu nominato vescovo e seguì Carlo Magno nella spedizione contro i mori di Spagna. Egli divenne testimone e scrivano, annotando di persona – così si tramanda – tutto ciò che i suoi occhi videro durante la campagna militare, dal valico dei Pirenei alla presa di Pamplona, e ancor di più. Nella Historia Karoli Magni et Rotholandi, che la tradizione a lungo gli attribuisce, egli offre il ritratto di un monarca che per secoli venne osannato come eroe e persino come santo. 60 ILCORSARONERO 26 FOLGOR I D'AU TOR E Ma in questo resoconto storico-avventuroso-teologico che influenzò l’autore della Chanson de Roland fino all’Orlando furioso di Ariosto, Turpino dedica anche spazio a quelli che furono i paladini dell’impresa, ovvero i Pari di Francia stretti intorno al re Carlo, primi fra tutti Rotholandus (Orlando), Oliverius ed Estultus (Astolfo). Ma proprio qui ci stupisce, perché tra i combattenti il vescovo-cronista cita pure se stesso in qualità di cavaliere e nemico giurato dei Saraceni. Che si tratti di realtà o di finzione — ah, l’insuperabile inventiva dei cronisti medievali! — l’autore della Chanson de Roland non si fece certo implorare per inserire il nostro vescovo Turpino tra le fila degli eroi del cristianesimo, riversatosi in Hispania per liberare quello che divenne poi il tratto iniziale del Cammino di Santiago. Al punto da farlo combattere durante la rotta di Roncisvalle (lassa 158) al fianco dello stesso conte Orlando, che vedendolo appiedato, nel bel mezzo della mischia, lo avverte: Voi siete a piedi e io sono a cavallo: per amor vostro, signor, non m’allontano; avremo insieme il bene e insieme il male». Oggi i pagani sapranno a questo assalto Che cosa è Almacia, che cosa è Durendala». Disse Turpino: «Chi non colpisce è un pavido! Ritorna Carlo, che ci vendicherà! Non trascorse molto dacché Turpino morì, almeno tra le lasse dell’Anonimo, come un eroe che dopo aver impartito l’estrema unzione a Olivieri si recò esausto presso un ruscello per procurare acqua allo svenuto Orlando. Ed è proprio in questo momento letterario, profondamente epico e allo stesso tempo umano, mentre Turpino si accascia presso lo zampillare di una sorgente, che i miniaturisti medievali lo immortalarono. Rendendolo un eroe e martire riverito dagli angeli. © RIPRODUZIONE I LCO R SA RO N E RO 2 6 R I S E RVATA 61 N U G A E /C I N E MA R E N ATO V E N T U R E L L I Non è più tempo d'eroi: il centenario di Robert Aldrich. Ricorre quest'anno il centenario di Robert Aldrich, uno dei più grandi tra i registi americani della seconda metà del Novecento, e siamo curiosi di vedere come verrà ricordato. Il suo nome era infatti uno dei più amati dalla critica europea anni Cinquanta, quando ai tempi di Vera Cruz, Il grande coltello, Prima linea - Attack!, incarnava lo spirito della ribellione a Hollywood. Era il regista cresciuto alla scuola "politica" degli Enterprise studios, che aveva lavorato con Losey, Chaplin, Polonski e John Garfield, aveva poi formato una compagnia tutta sua per non inchinarsi alle prepotenze degli studios. All'epoca, il giovane Aldrich (nato il 9 agosto 1918) era considerato una delle massime speranze del cinema americano, Truffaut preconizzava che sarebbe stato "l'avvenimento cinematografico del 1955", e il noir apocalittico Un bacio, una pistola (1955) ebbe un effetto sconvolgente, con quel finale in cui veniva scoperchiato il vaso di Pandora di un'esplosione atomica. Il primo scontro fatale col sistema, Aldrich lo ebbe già allora, quando affrontò in La giungla della 7ª strada (1957) la questione del ricorso alla malavita nelle contese tra imprenditori e sindacati, e cercò di parlarne nel modo che non era gradito agli studios. Il film gli fu tolto di mano, lui si rifugiò in Europa per qualche tempo, e quando tornò negli Stati Uniti si mise a fare film che terremotavano Hollywood dal suo interno: prese in mano generi popolari e li lavorò alla sua maniera, giocando su registri grotteschi ed eccessivi che facevano saltare in aria i perbenismi, ma non sempre trovavano critica e pubblico pronti a comprendere e ad accettare le sue provocazioni oltranziste. Che fine ha fatto Baby Jane? (1962) e Quella sporca dozzina (1967), ebbero grande successo di pubblico, battendo la strada di un'irruenza anche enfatica, dai modi ferocemente caustici, quasi cartooneschi, dove la deformazione grottesca e la satira aggressiva spingono verso un'autentica deflagrazione delle forme. La Bette Davis di Baby Jane resta ancor oggi una specie di icona della disgregazione hollywoodiana, Donald Sutherland che passa in rassegna il plotone è una scena-simbolo della ribellione anarcoide al potere. Ma non fu così per tutti i suoi film. E il vero "caso Aldrich" arriva con gli anni Settanta, quando il suo cinema è in realtà all'avanguardia, e come tale viene riconosciuto recentemente anche in un libro come Le cinéma américain des annés ’70 di Jean-Baptiste Thoret, che vede in Aldrich uno dei pilastri del decennio, il regista che anticipò e ispirò l'esplosione energetica del cinema americano anni Settanta. Robert Aldrich e 62 ILCORSARONERO 26 NU GAE/C INEMA «Tu non diventerai mai l'Imperatore del Nord! Ne avevi la stoffa, ragazzo, ma non il cuore!» Lee Marvin, in L'imperatore del Nord Don Siegel sono in effetti i due maestri "occulti" di quel periodo, i grandi registi formatisi negli ultimi anni dello studio system succhiandone il meglio e cercando poi di reinventarlo secondo itinerari assolutamente personali e indipendenti. Ma gli anni Settanta erano caratterizzati da altre mode, si parlava solo di New Hollywood, si esaltavano i rovesciamenti anche esteriori e superficiali della tradizione del cinema americano. Don Siegel se la cavò comunque, centrando una serie di successi e trovando un prezioso complice ed erede in Clint Eastwood (ma un capolavoro come Chi ucciderà Charlie Varrick? andò male...). Aldrich fu invece uno dei grandi misteri dell'epoca, perché realizzò alcuni dei film più belli e potenti del decennio, ma si ritrovò in definitiva emarginato. E molti dei suoi migliori film furono incredibili fallimenti commerciali. Il caso più clamoroso è quello di L'imperatore del Nord (1973), che sta oggi finalmente conquistando il suo giusto riconoscimento cult, ma per molto tempo fu una sorta di "guilty pleasure" cinefilo. Nessuna pietà per Ulzana (1972) è uno dei capolavori western del decennio, ma era evidentemente destinato a restare incompreso in tempi di soldati blu e piccoli grandi uomini, di rovesciamenti superficiali e ideologici del mito cinematografico del West. E non è finita, perché andò male anche un grande film bellico come Non è più tempo d'eroi (1970), e trovò pochi sostenitori in campo critico un film sferzante come I ragazzi del coro (1977), la cui provocazione era considerata troppo "di cattivo gusto". Il carnevalesco anni Settanta di Aldrich era una delle cose più potenti che ci dava il cinema del decennio, ma sembrava inaccettabile per le mode dell'epoca. E l'incomprensione arrivò fino agli estremi, perché fu un disastro commerciale anche l'ultimo suo film, California Dolls (1981), un'opera struggente e accorata sulla dignità umana, difesa fino all'ultimo da Peter Falk tra un match e l'altro delle sue lottatrici girovaghe: il regista morì un paio d'anni dopo la sua uscita, nel 1983. È ovvio che tutti questi film sono stati oggi — come si dice — "rivalutati", ma sono rivalutazioni che rischiano di lasciare il tempo che trovano, elogi ristretti a chi ancora frequenta Aldrich e il suo cinema. La domanda vera è: ma il ruolo prepotente avuto da Aldrich nel cinema degli anni Settanta è stato davvero riconosciuto, oppure i percorsi storiografici continuano imperterriti a battere le solite strade, di fatto ignorandolo? Per gli anni Cinquanta, sappiamo che il riconoscimento c'è stato, immediato. Per il periodo dominato dal modello critico della New Hollywood restano molti dubbi. I LCO R SA RO N E RO 2 6 63 N U G A E /L E T T E RAT URA& SPO RT DA R W I N PA S TO R I N Una gozzaniana "menzogna primaverile". Era autunno, qualche anno fa. Un autunno torinese, che pareva una gozzaniana "menzogna primaverile". Scesi dal tram e mi ritrovai, qualche passo in là, davanti alla mia scuola elementare, la "Silvio Pellico" di corso Dante. E cominciai a navigare nel mare largo dei ricordi... In quel 1961 carico di speranze e menzogne, i miei genitori decisero di lasciare il Brasile, e San Paolo, e di tornare in Italia: a Torino, che a quel tempo era il cuore e il ferro di una Nazione, e non più nella loro amata Verona. Tutti i sogni, in quella stagione, sembravano possibili. Non fu esattamente così: ma questa è un'altra storia. Cominciai la prima elementare senza avere una lingua mia: parlavo il portoghese imparato in strada con i miei coetanei, l'italiano di papà e mamma e il dialetto veneto dei nonni. A risolvere quella omerica confusione linguistica fu la mia maestra. La mia meravigliosa, indimenticabile e cara maestra Esterina Unia. Una delle persone più importanti della mia vita. Mi diede un alfabeto, con passione e pazienza. Era una donna alta e magra, di una bontà infinita. Ai miei occhi bambini sembrava l'angelo del Catechismo. Un giorno feci un disegno. Non avevo preso il talento da mio padre, pittore scultore designer industriale: non avevo, insomma, nessuna predisposizione per quell'arte. Cercavo di impegnarmi, comunque. Anche perché, per una questione di orgoglio, volevo andare bene a scuola. A quel tempo premiavano gli alunni più bravi con una medaglia. E non volevo, soprattutto, deludere mia madre, che desiderava noi figli sempre promossi e a pieni voti. Quel giorno, ricordo bene, ero al settimo cielo per quel mio disegno. E lo mostrai alla mia maestra con un sorriso a girasole. Volevo la sua approvazione e un bel 10. La mia insegnante guardò in lungo e in largo, in verticale e in orizzontale, di sopra e di sotto quel mio lavoro. Attendevo in piedi, vicino alla cattedra. Elegantissimo nel mio grembiule nero e con il mio fiocco azzurro al collo. — Darwin, cos'è? Mi sembra una barca, con sopra un uomo... —Maestra, non proprio una barca e non un semplice uomo. — Quindi.... — Questo — e indicai il mio disegno — è un veliero, la gloriosa Folgore. E lui è il mio eroe preferito, quello che mi aiuta quando ho dei problemi. Certo, vive solo nella mia fantasia. Ma, per me, è come se fosse reale: si chiama Corsaro Nero. Ed è forte, co- 64 ILCORSARONERO 26 NU GAE/L ETTER ATU R A&SPORT raggioso, generoso. Combatte contro tutte le ingiustizie. — Caro Darwin, lo conosco benissimo. Ho letto le sue avventure quando ero piccola come te. Ma tu come fai a conoscerlo?. — Merito della mia mamma, maestra! In Brasile, mi leggeva il Corsaro Nero per farmi dormire. Io chiudevo gli occhi, ma facevo solo finta di essermi addormentato! In verità, appena mamma usciva dalla stanza, io proseguivo il racconto, ma a modo mio. Saltavo sopra il cuscino, che era diventato il mio cavallo, e andavo a dare una mano al mio corsaro nella lotta contro i cattivi. Vincevamo sempre noi. Il Corsaro Nero, alla fine della nostra lotta contro quelli che volevano fare soltanto il male, mi invitava sulla sua nave e insieme partivamo per altre conquiste. Attraversavamo l'oceano. E una volta siamo persino sbarcati a Santos e da lì siamo andati a San Paolo. Gli ho fatto vedere la casa dove sono nato e conoscere i miei amici. Lui li ha nominati suoi filibustieri brasiliani e io il loro comandante... — Certo che ne hai di fantasia!. — Ma il Corsaro Nero è esistito veramente. E continua a esistere: basta leggere le pagine di Emilio, che è un narratore fantastico. — Tra l'altro è nato a Verona, nella città dei tuoi genitori... — E forse, maestra, mio nonno Giovanni lo ha conosciuto! Dico sul serio, non è una mia fantasia... — Ci credo, Darwin. Ci credo. Emilio Salgari ha scritto tanti altri bellissimi romanzi. — Mia mamma ha promesso di farmi leggere le avventure di Sandokan. Ma, se devo essere sincero, maestra, nessuno sarà così coraggioso e imbattibile come il mio Corsaro Nero. Lui è in grado di superare, a duello, chiunque. Anche Sandokan. Ma a mio parere questi due, alla fine, diventeranno amici. Proprio come Topolino e Pippo. La maestra Esterina Unia mi fece una carezza. — Torna pure a posto, Darwin. Ti sei meritato il dieci e la medaglia. Anche se da grande, secondo me, non farai il pittore come il tuo papà, ma lo scrittore. Non riuscivo più ad andare via. Ero lì, fermo davanti al portone della mia vecchia scuola elementare. E piangevo. Proprio come il Corsaro Nero alla fine del romanzo. I LCO R SA RO N E RO 2 6 65 N U G A E /FAN TAST ICO M A S S I M O TA S S I Peppone e don Camillo, largo ai bisticci dei nipoti. Un'antologia come tributo a Guareschi. È un clamoroso ritorno: quello del compagno Peppone e dell’energico pretone Camillo. O meglio, sarà un po' come vederli nuovamente battibeccare tra Casa del Popolo e la Chiesa. Già, perché i loro nipoti stanno per arrivare nella Bassa emiliana cara a Zavattini. E pare abbiano lo stesso carattere e le medesime vedute dei celebri personaggi di Guareschi, resi immortali da pagine vibranti e dal cinema. L'idea è del giornalista Donato Ungaro e dell'editore Fausto Bassini, che con il marchio Faust si preparano a navigare sul Grande Fiume tenendo sottobraccio un libro: Mio zio don Camillo, mio nonno Peppone. E la storia ricomincia. «Guareschi è stato considerato l'inventore del vero e non c'è affermazione più esatta per descrivere un giornalista che ha saputo leggere quel territorio speciale che è la Bassa, le rive del Po, la gente che abita 'quella fetta di terra tra l'Appennino e il Grande Fiume', come la definiva lui stesso, dove Giovannino ha ambientato con irripetibile atmosfera i racconti dei suoi personaggi più famosi, così com'è irripetibile l'autore», afferma Donato Ungaro, cui si devono le diciotto storie che si preannunciano come un omaggio originale al lascito di Guareschi. «Bisognava trovare la forza non di riscrivere, ma di vedere con altri occhi e io ho provato a farlo, da cronista di provincia, ripercorrendo gli stessi argini e le stesse carrarecce che aveva percorso Guareschi, così ho ritrovato alcune delle buche in cui era caduto, e per certi aspetti ci sono ricaduto, con doveroso rispetto». 66 ILCORSARONERO 26 NU GAE/FANTASTICO Entriamo nello scenario fatto di nebbia, in cui i rintocchi che arrivano dal campanile a tratti sovrastano il vociare dei crocchi sotto i portici di Brescello (Reggio Emilia). Largo all'ingegnere Giuseppe Bottazzi e alla Cesira, giovane missionaria laica. Che vantano illustri parenti. Sì, proprio don Camillo e Peppone. «Un giovane ingegnere nato nella Bassa, poi emigrato da bambino in Germania, viene richiamato in un paese sul Po per l'esumazione della salma del nonno, mentre in relazione a uno zio prete accade lo stesso a Cesira, giovane missionaria laica che da anni ha lasciato l'Italia», sottolinea l'editore Fausto Bassini. «Quando i due eredi s'incontrano nell'ufficio del sindaco, iniziano a bisticciare per un malinteso e volano parole grosse, del resto non poteva che essere così». Mezzo secolo dopo si ricompone il "duellismo" che ha fatto ridere, commuovere e riflettere. E che tanta fortuna ha avuto sul grande schermo grazie ai volti di Fernandel1 e Gino Cervi. E se in Guareschi apparivano molti temi specchio dell'Italia che usciva faticosamente dalle rovine — anche interiori — della guerra, così Ungaro muove Bottazzi e la Cesira nella Bassa padana odierna, tra storie che parlano di immigrazione, racket della prostituzione, escavazioni abusive nel Po. Un pensiero del regista Pupi Avati fa da cameo all'antologia. 1 Fernand-Joseph-Désiré Contandin (Marsiglia, 8 maggio 1903 – Parigi, 26 febbraio 1971); Gino Cervi, all'anagrafe Luigi Cervi (Bologna, 3 maggio 1901 – Punta Ala, 3 gennaio 1974). I LCO R SA RO N E RO 2 6 67 N OT I Z IE A cura di Astrofel, Gino Bedeschi, Giuseppe Cantarosa e Bartolo Tondini ADDII. PAOLA AZZOLINI: PIRATESSA SENSIBILE IN BIBLIOTECA Se ne è andata nel novembre 2016 Paola Azzolini. Si era occupata moltissimo di letteratura, da Manzoni a Capuana, e molto di letteratura femminile tra Ottocento e Novecento. Pochi hanno sottolineato invece il suo interesse per Salgari di cui aveva scritto con scrupolo e perizia più volte sulle pagine dell’”Arena”, e nel lontano 1991 curato la mostra e il catalogo I pirati in biblioteca. Fonti salgariane insieme a Silvino Gonzato. Paola Azzolini si era a lungo occupata anche di Luigi Motta, epigono salgariano veronese di cui aveva curato La grande tormenta. Romanzo autobiografico di un'epoca crudele ed eroica nella revisione di Giulio Cesare Zenari. Aveva anche tratteggiato un autorevole ritratto dello scrittore di Bussolengo nel volume monografico Luigi Motta scrittore di avventure curato da Claudio Gallo e Paola Tiloca. Tante volte avevamo parlato di un suo contributo per la nostra rivista che, purtroppo, con estremo rammarico, non si è mai concretizzato. L’attenzione, mai venuta meno, per questi due scrittori testimonia il suo grande interesse senza preclusioni per la letteratura. Atteggiamento che l’ha resa una nostra sensibile, acuta, fine interlocutrice. ADDII. LA FOLGORE, ALZATE LE VELE, SI ALLONTANA Corrado Farina, nato nel 1939 a Torino, ci ha lasciati nel luglio 2016. Sorridente, simpatico, affatto presuntuoso. Ricordiamo di averlo incontrato un’ultima volta durante la grande manifestazione dedicata ai fumetti che si svolge a Lucca. Avevamo parlato della sua ultima fatica salgariana, Vita segreta di Emilio Salgari, in occasione di una manifestazione in Sala Farinati della Biblioteca Civica per festeggiare i primi dieci anni della nostra rivista. Al “Corsaro” cui si era abbonato aveva contribuito con due scritti per lo speciale dedicato al cinema salgariano, curato da Fabio Francione nel 2011. Non può essere dimenticato il suo Giallo antico che metteva in relazione la realizzazione di Cabiria, kolossal storico del muto di Giovanni Pastrone, con la morte di Salgari. Farina era persona poliedrica e di spessore, aveva sceneggiato e diretto film, documentari e un numero incredibile di Caroselli, collaborato con molte riviste e scritto numerosi libri che qui non possiamo elencare, ma volentieri ospiteremmo un saggio sulla sua opera e sulla sua vita intensa. Rubando una sua frase lo ricordiamo mentre «La Folgore alza tutte le vele e si allontana agile nelle prime favolose luci dell’alba». Saccaroa, Corrado. 68 ILCORSARONERO 26 NOTIZIE ADDII. UMBERTO LENZI Massa Marittima, 6 agosto 1931 — Roma, 19 ottobre 2017 Qualche tempo fa ebbi a scrivere sulle colonne di “Alias”, supplemento del quotidiano “Il Manifesto”, un’ampia recensione ai primi libri di Umberto Lenzi, annotando la scala di valori che me lo faceva ritenere come il più consapevole, disincantato e cinefilo dei grandi registi inventori del cinema di genere italiano. Il suo rapporto con Salgari, e soprattutto con Sandokan, fu costante e produsse due film: Sandokan, la tigre di Mompracem (1963) interpretato da Steve Reeves e I pirati della Malesia (1964). Sorprendente, invece, la trasposizione di un altro romanzo dello scrittore: La montagna di luce (1965). Mentre degli apocrifi salgariani possono essere considerati: Sandok, il Maciste della giungla (1964) e I tre sergenti del Bengala (1964). Probabilmente un gradino sotto Mario Bava e Riccardo Freda, in briccona, anarchica compagnia generazionale (Lucio Fulci, Antonio Margheriti, Aristide Massacesi, tutti nati tra la fine degli anni Venti e la metà del decennio successivo), Umberto Lenzi è, tra loro, quello che ha meglio interpretato i mutamenti di gusto della società del tempo. Anche per Lenzi vale il giudizio di Sidney Gottlieb dato al cinema di Alfred Hitchcock, e di come il percorso del maestro del brivido sia stato condotto all’insegna dell’emozione, senza ignorare la funzione catalizzatrice del pubblico verso il prodotto. Hitchcock tra i primi comprese che il cinema rivolto allo spettatore può “essere anche arte”. Certo che Lenzi nella sua filmografia ricca di titoli (Orgasmo, La banda del gobbo, Il grande attacco) ed eclettica nei generi (giallo all’italiana, poliziotteschi, fantascienza italian style, catastrofici autarchici, horror, avventurosi e “mostruosi” mediterranei, comico farsesco e brillante) non è mai scivolato nelle zone di quei sottofiloni cinematografici, che alcuni dei suoi film avevano contribuito a generare, conservando, anche nelle difficoltà produttive, dignità artigianale e professionale che gli è valsa nel corso degli anni una nutrita schiera di ammiratori, equamente divisi tra fans sfegatati come la rivista “Nocturno”, cineasti come Quentin Tarantino e Joe Dante, e direttori di festival come Marco Müller. Proprio la rivalutazione critica dei suoi film, passata qualche anno fa per la prestigiosa retrospettiva The Italian Kings of B’s. Storia segreta del cinema italiano. 1949-1976, curata da Marco Giusti in occasione della 61ª edizione del Festival del Cinema di Venezia, il successo delle edizioni in dvd, i tanti inviti e partecipazioni a rassegne e a omaggi in tutta Italia, hanno dato al regista la spinta a rivelare la sua passione per letteratura popolare e scrittura, affidata a una rigorosa e coerente fedeltà al “genere giallo”. (Fabio Francione) I LCO R SA RO N E RO 2 6 69 N OT I Z IE GIOVE TOPPI La rivista “Fumetto” dell’Associazione Nazionale Amici del Fumetto e dell’Illustrazione pubblica il ritratto di Giove Toppi di Luciano Marcianò corredato da una bibliografia cronologica di estremo interesse. Toppi (Ancona, 2 agosto 1888 – Roma 2 luglio 1942) fu uno dei primi disegnatori di fumetti, a lui si deve la prima tavola di “Topolino” pubblicata per l’editore Nerbini il 31 dicembre 1932. Abile illustratore per tante riviste e libri di area fiorentina, fumettista “principe” tra gli anni Trenta e Quaranta di storie d’avventura per “L”Avventuroso”, “Giungla”, “Pisellino”… Una silloge d’impronta salgariana dei tanti epigoni, come Luigi Motta, Riccardo Chiarelli, Emilio Fancelli… Di questo bravo artigiano della letteratura disegnata si sapeva ben poco. Una lacuna superata grazie al saggio di Marcianò: Giove Toppi, l’inventore delle copertine degli albi a fumetti e non solo, e alla relativa bibliografia. 70 I SETTANT’ANNI DI MARIO TROPEA Il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania ha pubblicato un “volumone” per festeggiare i settant’anni di Mario Tropea, ordinario di Letteratura Italiana. Egli ha scritto di Leopardi, Campana, Pascoli, Gozzano e dei molto amati narratori della sua Isola: Capuana, Pirandello, Verga. Brancati, Tomasi di Lampedusa, Sciascia… Di avventura, di colonialismo, di esotismo, di spiritismo, di viaggio… Impossibile ricostruire in poche righe il suo itinerario letterario e umano. Non poteva mancare Salgari che ebbe un rapporto particolare con la Sicilia e con uno dei suoi editori più rappresentativi: Salvatore Biondo. Per l’editore Viglongo e la Biblioteca Civica di Verona ha curato, con attenzione e scrupolo filologico, tre impegnativi volumi di racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata a firma Guido Altieri. Ci piace ricordare, tra i molti scritti che accompagnano i volumi, il saggio introduttivo al secondo, Come scriveva il “Capitano”: fasti e decoro dello stile di Emilio Salgari, uno studio unico sulla lingua dello scrittore, sullo stile individuato nel raccordo “tra spazzatura e follia”. Non a caso il volume termina con una Salgariana in cui sono raccolti interessanti saggi sul popolare scrittore d’avventure di Luciano Curreri, Cristiano Daglio, Roberto Fioraso, Fabrizio Foni, Claudio Gallo, Paola Irene Galli Mastrodonato, Gian Paolo Marchi, Ann Lawson Lucas, Felice Pozzo, Samanta Sarti, Vittorio Sarti, Domenico Tanteri, Giuseppe Traina, Giovanna e Franca Viglongo. ILCORSARONERO 26 NOTIZIE I PRIMI NOVANT’ANNI DI MINO MILANI Mino Milani, il nostro amatissimo direttore spirituale, ha compiuto novant’anni lo scorso febbraio. Giungano a lui i migliori auguri di tutta la ciurma de “Ilcorsaronero”. Fra le tante manifestazioni a lui dedicate segnaliamo quella del 27 marzo: Bologna Children’s Book Fair ha organizzato una “festa” in suo onore e l’Associazione Hamelin gli ha dedicato un «Oblò», una collana di monografie dedicate” sia agli illustratori e alle loro narrazioni per immagini che ai grandi narratori per ragazzi”, mentre l’università degli Studi di Pavia, che conserva le sue carte, ha organizzato, lunedì 16 aprile 2018, alle ore 18.00, presso l’Aula Foscolo dell’Università, l’incontro Novant’anni di storie avventurose. Omaggio a Mino Milani. L’autore ha colloquiato con Arianna Arisi Rota, Beatrice Masini, Piersandro Pallavicini e Mirko Volpi. È intervenuto anche il Rettore Fabio Rugge. L'EPOPEA DI FIUME A FUMETTI MANLIO BONATI Manlio Bonati, parmigiano, erudito, bibliofilo, biografo è tornato a scrivere un soggetto e una sceneggiatura. Bonati e Allagalla Editore hanno presentato alla Mostra Mercato di Reggio Emilia del 26 maggio il cartonato Fiume. L’epica impresa di Gabriele d’Annunzio e dei suoi Legionari 1919–1920 con i disegni di Yildirim Örer e Mauro Vecchi. Finalmente a fumetti, a 100 anni dagli avvenimenti (e a 80 anni dalla morte del Vate), l’epopea di Fiume. È uno spettacolare periodo storico poco conosciuto e, spesso e volentieri, incompreso. In queste pagine, avventurose, divertenti e vere, rivivono personaggi italiani dalle forti personalità: Gabriele d’Annunzio, Guido Keller, Giovanni Comisso, Antonio Locatelli, Ettore Muti, Costanzo Ranci, Tito Testoni, Vittorio Montiglio, Filippo Tommaso Marinetti, Alceste De Ambris e tanti altri che resero Fiume la città di vita, libera, democratica e meritocratica. L’elegante volume si avvale di un’introduzione storica di Carlo Sicuro, ideatore del progetto, di una lunga intervista di Danilo Chiomento a Manlio Bonati, 88 tavole suddivise in quattro capitoli (Yildirim Örer ha disegnato il primo, il terzo e il quarto, mentre Mauro Vecchi il secondo), un’esaustiva bibliografia, le schede degli autori: 128 pagine in bianco e nero, accompagnate da illustrazioni d’epoca e da inediti dei due disegnatori. Il libro avrà due differenti edizioni: quella cartonata con la copertina disegnata da Gigi Cavenago e l’edizione variant a tiratura limitatissima con una sovracopertina suppletiva di Yildirim Örer. I LCO R SA RO N E RO 2 6 71 N OT I Z IE LO ZAMPINO DI DARIO PONTUALE IN DUE LIBRI D’AVVENTURE Le Vantards de la mer (Editions Zeraq): racconti di Salgari in francese — Tra i grandi temi al centro della letteratura di tutti i tempi c'è la temerarietà, la presunzione, la vanagloria: una barca per curare la propria immagine, una regata per affermare il proprio ego, il mare come specchio delle vanità. Ma fortunatamente la vera passione finisce per riprendere il comando. Tre storie inedite di “eroi” del mare: da un grande classico della letteratura, Emilio Salgari (autore de Il Corsaro Nero e I pirati della Malesia) e di un evocativo ironico del malessere contemporaneo, quale Jean-Luc Coudray che, con questo testo, chiude la sua trilogia marinaresca (dopo i terribili pirati e gli oceani inquinati), con un inatteso tocco autobiografico. Se evidentemente ogni riferimento a persone, luoghi o fatti esistenti o esistiti, sarebbe pura coincidenza, dal momento che la realtà supera spesso la fantasia, fate attenzione a chi incrocerete al largo. L'esperienza di Delphine Gachet ha consentito un'eccellente traduzione delle novelle di Emilio Salgari e dell'introduzione dello storico Dario Pontuale. Gli allegri compari di Stevenson — Per gli abitanti della zona di Aros, un isolotto remoto e inospitale, estremo angolo di terra della Scozia occidentale, gli Allegri Compari rappresentano un motivo d'insidioso richiamo: questo è infatti il nome che viene dato a un gorgo che si crea tra le rocce all'andare e venire della marea, e dal quale giunge un suono ammaliatore e minaccioso. Questo affascinante racconto di Stevenson, pubblicato o per la prima volta nel 1882 e poi raccolto in volume cinque anni più tardi, narra di un naufragio che avviene, durante una tempesta, proprio in quel luogo dalla costa impervia, e ruota intorno a una famiglia locale, formata da un padre, ormai anziano, e dalla figlia, che si occupa di lui insieme a un fedele servitore. Un giovane nipote dell'uomo si reca a trovare quei parenti lontani con l'intenzione di rivelare alla ragazza il proprio amore. Sarà coinvolto in una drammatica avventura legata al subdolo e potente incanto del mare, ai suoi tesori nascosti, ad antiche tradizioni e superstizioni. Gli allegri compari è riproposto nella nuova traduzione di Fabrizio Pasanisi e con una nota critica di Dario Pontuale. Il volume è introdotto da un raro pezzo di Giorgio Manganelli sul piacere di leggere Stevenson, narratore «itinerante, perpetuo abitatore di labirinti», tra i pochi capaci di far «rallentare e frammentare la lettura per non arrivare al momento angoscioso della conclusione». 72 ILCORSARONERO 26 L ETTER E Lettere Gentilissimo Roberto Fioraso, il mio articoletto apparso a pagina 74 del n. 25 della rivista “Ilcorsaronero” era in parte sbagliato e incompleto, perché non possedevo ancora il libro di Francesco Bresaola La giovinezza di Emilio Salgari (Verona, I.C.A., 1963). Il volumetto comprende un albero genealogico completo dei Salgari. Credo perciò di fare un piacere nel riproporlo a chi non lo conoscesse. Si parte dal trisavolo Paolo Salgari sposato con Magdalena Pizzeghela; poi viene la volta del bisavolo Antonio Salgari (detto Ortolan), nato nel 1782, sposatosi con Beatrice Chiesara da cui ebbe 13 figli. Ecco i loro nomi con l’indicazione dell'anno di nascita: 1) Paolo, 1801; 2) Margherita Maria, 1804; 3) Lucia Margherita, 1806; 4) Filippo, 1808; 5) Sebastiano, 1809; 6) Margherita, 1811; 7) Giorgio Carlo, 1812; 8) Giorgio, 1813; 9) Francesca Maria, 1814; 10) Giacomo Antonio, 1816; 11) Giovanni Antonio, 1817; 12) Luigi, 1818; 13) Marianna, 1820. Per quanto riguarda il nonno Paolo Salgari, sposatosi con Teresa Rangheri che gli diede 11 figli: 1) Clementina, 1825; 2) Antonio, 1827; 3) Francesco, 1830; 4) Carolina, 1832; 5) Giovanni, 1834; 6) Ignazio, 1836; 7) Luigi, 1838 (padre di Emilio Salgari); 8) Giacomo, 1840; 9) Agostino, 1842; 10) Beatrice, 1847; 11) Stanislao, 1849. Chiedo scusa a Silvino Gonzato, effettivamente Luigi era il settimo di undici figli. Chiedo scusa anche ai lettori di questa bellissima rivista. Distinti saluti. Gaetano Bario I LCO R SA RO N E RO 2 6 73 Note Biografiche Gino Bedeschi, fotografo, ha documentato coi suoi scatti il lavoro di numerose spedizioni archeologiche nel bacino del Mediterraneo e in Medio Oriente. Il desiderio di avventura lo ha spinto ad attraversare Europa e Africa in sella a una moto d’epoca con side-car, maturando esperienze che lo hanno avvicinato a culture “altre”. Ha impugnato la penna a partire dagli anni Novanta grazie alle iniziative di “Yorick”. Giuseppe Bonomi, istriano sempre più rancoroso in esilio perpetuo, quando non infierisce per esigenze redazionali su testi altrui, scribacchia per sé. Si gloria, vanesio com’è, di essere riuscito a pubblicare il Memoriale del principe Felix zu Salm-Salm, a centotrentasette anni dalla prima edizione: l’ha rivisto e ritoccato; non sa se qualcuno l’abbia poi letto (Lo scettro spezzato. Il sogno messicano di Massimiliano d’Asburgo, Il Cerchio, 2006). L’esemplare vicenda interessa a pochi, così come la battaglia di Alamo conosciuta secondo la versione ortodossa angloamericana, per cui altri suoi lavori sono rimasti idee. Ha comunque firmato alcuni saggi per cataloghi delle mostre Paure... e Viaggi straordinari tra spazio e tempo, organizzate dalla Biblioteca Civica di Verona, rispettivamente, nel 1998 e nel 2001. Assieme a Claudio Gallo ha curato Buffalo Bill & Tex Willer. Storie e miti dall’Ovest americano (Colpo di fulmine, 1996) e Il Giornalino della Domenica. Antologia di fiabe, novelle, poesie, racconti e storie disegnate (Edizioni BD, 2007). Con Gallo, ha firmato una storia del fumetto italiano (Tutto cominciò con Bilbolbul..., Perosini, 2006) e la biografia Emilio Salgari, la macchina dei sogni (BUR Rizzoli, 2011), nonché altri interventi disseminati su bollettini, riviste e giornali. Moreno Burattini, sceneggiatore di fumetti, scrittore, critico specializzato, curatore di mostre, collezionista di comics e autore teatrale,nasce il 7 settembre 1962 a San Marcello 74 Pistoiese (PT). Frequenta il Liceo Classico "Cicognini" di Prato e si laurea in Lettere all'Università di Firenze. Da sempre appassionato di fumetti ha contribuito con i suoi articoli a numerose riviste specializzate e ha pubblicato vari libri di critica fumettistica e numerosi saggi e ha organizzato numerose mostre in svariate sedi, collaborando con le prestigiose manifestazioni, da Cartoomics di Milano a Lucca Comics & Games. La sua attività di sceneggiatore professionista ha inizio nel 1990 sulle pagine della rivista “Mostri” (Acme). Seguono poi sceneggiature per “Intrepido”, “Cattivik” e “Lupo Alberto”. Il suo esordio sotto il marchio Bonelli è datato maggio 1991, quando escono contemporaneamente il suo primo special di Cico (Cico trapper) e la sua prima storia di Zagor (Pericolo mortale). Si inaugura così una lunga serie di storie zagoriane a sua firma. Dal 2001 lavora a Miano presso la Casa editrice. Sempre per Bonelli, Burattini ha scritto anche storie del Comandante Mark, Dampyr e Tex. Ha vinto numerosi premi; Premio ANAFI come miglior soggettista, Premio Fumo di China come miglior autore umoristico, entrambi nel 1995, il prestigioso Gran Guinigi a Lucca Comics&Games 2003. Dal 2007 è curatore della testata “Zagor”. Come autore di teatro, ha collaborato con Pino Caruso ed ha scritto alcune commedie tra cui una, Il vedovo allegro, di grande successo. È autore di un romanzo, molti racconti e una raccolta di aforismi. Giuseppe Cantarosa, editor di professione, talvolta ha accompagnato Gino Bedeschi nei suoi viaggi su moto d’epoca. Dopo una sofferta laurea in Filosofia, è stato introdotto, con sua maggior soddisfazione, nel mondo della carta stampata e dell’editoria. Noto ai lettori salgariani per le sue introduzioni ad alcuni romanzi dello scrittore veronese, si può dire che sia nato con la penna in mano rivelandosi, come ama definirsi, un “ottimo operaio della cultura”. ILCORSARONERO 26 Note Biografiche Andrea Comincini, Philosophiæ Doctor, storico e filosofo, ha conseguito la laurea in filosofia presso l'Università di Roma Tre, e successivamente un dottorato in Italianistica presso l'University College Dublin, in Irlanda. Autore di numerosi saggi — riguardanti in particolare i movimenti rivoluzionari anarchici — giornalista culturale, ha pubblicato ultimamente Nefes. Piccolo trattato sull'esistenza infranta (Tangram edizioni scientifiche, 2018). Collabora con “Alfabeta 2”, “Passaporto Nansen”. “Il Manifesto”, “Scena Illustrata”. Lucia Chimirri, nata a Firenze, bibliotecaria dal 1976 al 2011 alla Biblioteca Nazionale di Firenze. Si è occupata di stampe, di libri d’artista e dell’organizzazione di manifestazioni culturali. Ha curato mostre di grafica e di libri illustrati e ha pubblicato numerosi articoli su questi argomenti. Oggi continua a interessarsi di arte visiva, di libri e di autori. Margherita Forestan è nata a Quinto Vicentino e si è laureata a Cambridge nel 1966. Dal 1969 al 2009, per quarant’anni è stata una delle più prestigiose figure della Arnoldo Mondadori contribuendo non solo a rinnovare la politica editoriale della casa editrice di Segrate, ma le stesse caratteristiche della Letteratura per Ragazzi in Italia. Ha svolto nel corso degli anni, prima, compiti di coordinamento editoriale e di redazione e, poi, è divenuta Direttore Responsabile dell’intero Settore Libri per Bambini e Ragazzi promuovendo, valorizzando, redattori, grafici, autori, illustratori, che hanno lasciato tra i giovani lettori un segno indelebile. Fondamentale la costruzione e l’aggiornamento del catalogo fatto di libri, riviste specialistiche e iniziative di comunicazione, destinati sia al mondo dei giovani lettori che quello degli adulti educatori, genitori e insegnanti. In particolare ha avviato le collane di tascabili per ragazzi, portando in Italia i grandi autori inter- I LCO R SA RO N E RO 2 6 nazionali divulgando così le letterature di altri Paesi e garantendo alla casa editrice i più prestigiosi riconoscimenti nazionali e internazionali. Ha anche diretto numerose testate specializzate nel campo del fumetto e operato con compiti di responsabilità in altri paesi europei. Piace ricordare la collaborazione, per oltre un decennio, con la casa editrice giapponese Kodansha per la costruzione del più grande archivio immagini di opere d'arte museali e monumentali delle grandi civiltà del passato e del mondo contemporaneo, e la cura, per Mondadori, della nuova edizione delle opere salgariane curate a suo tempo da Mario Spagnol e Giuseppe Turcato. Dal 2009 è il Garante dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale a Verona dove vive da molti anni. Fabio Francione, critico cinematografico, curatore di retrospettive e festival e scrittore. Ha curato gli speciali de “Ilcorsaronero” Salgari e il cinema e Omaggio a Claudio G. Fava. Tra le sue ultime pubblicazioni, la cura con Piero Spila dell’edizione francese de La mia magnifica ossessione di Bernardo Bertolucci (Mon obsession magnifique. Ecrits, souvenirs, interventions (1962-2010), Paris, Editions de Seuil, 2014), Pasolini sconosciuto (nuova edizione con Supplementi, 2015) e la cura della nuova edizione di Volgar’eloquio di Pier Paolo Pasolini (2015). Ha curato inoltre Franca Rame. La strega scomoda (Clichy, 2017) e Il teatro lancia bombe nei cervelli. Critiche, recensioni 1915-1920 di Antonio Gramsci (Mimesis, 2017). Claudio Gallo, già bibliotecario, docente di Storia del Fumetto presso l’Università degli Studi di Verona, direttore de “Ilcorsaronero”, rivista salgariana di letteratura popolare, è studioso dell’opera di Salgari di cui ha scritto, insieme a Giuseppe Bonomi, una rigorosa e innovativa biografia. Suo ultimo lavoro la cura de Lo stagno dei caimani e altri racconti perduti di Emi- 75 Note Biografiche lio Salgari (Bompiani, 2018) curato con Maurizio Sartor. Paola Irene Galli Mastrodonato insegna Lingua Inglese presso l’Università della Tuscia, Dipartimento DISTU, Viterbo. È una comparatista e saggista con numerose pubblicazioni sulla letteratura e il romanzo del Settecento e del periodo rivoluzionario; ha tradotto e analizzato l’opera del commediografo anglo canadese David Fennario; si è occupata della letteratura canadese e degli scrittori George Szanto e Shulamis Yelin. Ha dedicato numerosi studi a Emilio Salgari (ha curato la pubblicazione degli atti di due convegni, Il tesoro di Emilio: Omaggio a Salgari, Bacchilega 2008; Riletture Salgariane, Metauro 2012; ha curato il capitolo su Salgari per la Storia mondiale dell’Italia, Laterza 2017). Si è occupata inoltre di problematiche post-coloniali e ha in corso una ricerca di ampio respiro sulla figura storica e letteraria di Bianca Cappello de’ Medici. Guglielmo Milani detto Mino, scrittore senza età, condirettore spirituale de “Ilcorsaronero”, vive da sempre a Pavia. Sin dagli anni Cinquanta, quando esordì sulle pagine del “Corriere dei Piccoli” con le avventure western di Tommy River, è il beniamino di diverse generazioni di ragazzi lettori. Come scrisse Rodari è, con Emilio Salgari ,uno dei due grandi scrittori d’avventure del Novecento italiano. Giornalista, scrittore, fumettista e storico, si laurea in lettere moderne nel 1950, con una tesi sul brigantaggio nelle Calabrie. Assunto dalla Biblioteca Civica di Pavia, ne diviene direttore e vi lavora fino al 1964. La sua attività di giornalista e scrittore inizia nel 1953 con saltuarie collaborazioni al “Corriere dei Piccoli”, di cui poco dopo diventa uno dei più importanti ed apprezzati redattori, fino al 1977. Oltre a Tommy River e Martin Cooper; e le collaborazioni con i più importanti disegnatori italiani, tra i quali Mario Uggeri, Hugo Pratt, 76 Milo Manara, Grazia Nidasio, Aldo di Gennaro. Nel 1978 assume la direzione del quotidiano “La Provincia Pavese”, incarico che in seguito lascia per dedicarsi alla scrittura: romanzi, saggi e biografie. I suoi Fantasma d’amore (Rizzoli, 1997) e Selina (Mondadori, 1980) vengono trasposti in film da Dino Risi e da Carlo Lizzani. Rivestono particolare importanza i suoi testi storici, come la monumentale Biografia critica di Giuseppe Garibaldi (Mursia, 1982). Tra le sue molte opere segnaliamo la sua ultima fatica: Due Soldati della interessantissima casa editrice pavese di Giovanni Giovannetti. Darwin Pastorin è nato a San Paolo del Brasile il 18 settembre 1955, figlio di emigrati veronesi. Giornalista professionista dal 1981, è stato inviato speciale e vicedirettore di “Tuttosport”, direttore responsabile di Tele+ e Stream, direttore ai nuovi programmi di Sky Sport, vicedirettore e direttore di La7 Sport. Attualmente è direttore responsabile di Quartarete Tv. Tra i suoi libri: Lettera a mio figlio sul calcio, L’ultima parata di Moacyr Barbosa e Avenida del Sol (Mondadori, rispettivamente 2002, 2005 e 2007); Le partite non finiscono mai e Tempi supplementari (Feltrinelli, 1999 e 2002); Ode per Mané e Libero gentiluomo (Limina, 1996 e 2000); I portieri del sogno (Einaudi, 2009); con Giorgio Simonelli ha pubblicato Reti e parabole (Mursia, 2010) e, con il figlio Santiago, ha firmato Io, il calcio e il mio papà (Gallucci, 2007); Adesso abbracciami, Brasile! (Elliot, 2014), Lettera a un giovane calciatore (Chiare Lettere, 2017). Collabora con quotidiani e riviste e scrive per il teatro; per la sua attività di giornalista e scrittore ha vinto numerosi premi. È stato consigliere comunale, con delega alla cultura, del comune di Mazzè, in provincia di Torino. Fabrizio Pasanisi, scrittore e giornalista, autore di Bert e il Mago (Nutrimenti, 2013), romanzo ILCORSARONERO 26 Note Biografiche sulle vite parallele di Thomas Mann e Bertold Brecht sullo sfondo del nazismo, ha ricevuto la menzione della giuria al Premio Calvino (2012) e ha vinto il Premio Bagutta (2014) opera prima. Nel 2014 ha pubblicato, sempre con Nutrimenti, L’isola che scompare, un viaggio narrativo in Irlanda e nei luoghi della sua lettura. Ha tradotto e curato Il riflusso della marea (Sellerio, 1994) e Gli allegri compari (Nutrimenti, 2016), entrambi di Robert Louis Stevenson, e Il salvataggio di Joseph Conrad (Nutrimenti, 2014). Marco Pisciottani (Roma 1974) ha lavorato per anni in pubblicità e oggi si occupa di comunicazione istituzionale presso una grande azienda italiana. Nell’attuale mondo letterario figura al momento come collezionista di esordi. Nel 2013 il suo primo romanzo, Diecimila alberi (Bordeaux Edizioni). Nel 2015 il suo primo saggio, Bussola per lettori coraggiosi: Moby Dick di Herman Melville (Kogoi). Nel 2018, proprio qui su “Ilcorsaronero”, il suo primo articolo critico. Dario Pontuale (Roma, 1978): scrittore, critico letterario e studioso di letteratura Otto-Novecentesca. Autore dei romanzi La biblioteca delle idee morte (2007), L'irreversibilità dell'uovo sodo (2009), Nessuno ha mai visto decadere l'atomo di idrogeno (2012), Certi ricordi non tornano (2018) e del racconto I dannati della Saint George (2015). Della biografica critica Madame Bovary di Gustave Flaubert: L’intramontabile Emma (2013), Il baule di Conrad (2015), La Roma di Pasolini (2017) e della raccolta di saggi Ciak si legge (2016) e Una tranquilla repubblica libresca (2017). Ha curato edizioni di Flaubert, Maupassant, Zola, Musil, Stevenson, Conrad, Svevo, Salgari, Tolstoj, Puskin, Cechov. Co-autore del documentario indipendente P.P.P. profezia di un intellettuale. Fondatore, insieme a Paolo Di Paolo, della rivista letteraria "Passaporto Nansen", è condirettore della rivista salgariana "Ilcorsaronero". I LCO R SA RO N E RO 2 6 Armando Rotondi è Full-Time Lecturer in Performance Theory, History and Criticism presso The Institute of the Arts – Barcelona dove è anche Subject Leader per Professional Studies and Research. Laureato presso l’Università di Napoli “Federico II” e l’Università di Roma “La Sapienza”, ha conseguito il dottorato presso l’University of Strathclyde (Glasgow), dove ha insegnato Italian Studies, Italian Cinema e Aspects of Cinema. Ha insegnato Letteratura Italiana presso l’Università di Napoli “L’Orientale” (2014-2016), Editoria presso l’Università di Verona (2014-2016), Discipline dello spettacolo presso la “Federico II” (2012-2013) e Italianistica presso la Nicolaus Copernicus University di Torun in Polonia (2013-2014), dove ha anche svolto attività di ricerca in ambito teatrale e letterario in progetti da lui diretti. Ha svolto inoltre attività di ricercatore in visita, di teatro, presso l’Università di Bucarest e l’Istituto Romeno di Cultura, come vincitore dell’Europa Grant nel 2013 e 2015. Perfezionatosi in letteratura, teatro e cinema in Italia, Gran Bretagna, Germania, Romania, Polonia e Svizzera, è stato relatore in più di trenta convegni internazionali e ha pubblicato circa quaranta tra saggi in volume e articoli scientifici. Tra le sue monografie: Roberto Bracco e gli “–ismi” del suo tempo (2010), Eduardo De Filippo tra adattamenti e traduzioni nel mondo anglofono (2012) e “Il nome della rosa” a teatro: Aspetti scenico -letterari di “Numele Trandafiruli” da Umberto Eco a Grigore Gonţa (2015). È inoltre co-direttore della rivista accademica “Mise en Abyme. International Journal of Comparative Literature and Arts” e membro di società scientifiche internazionali. Nicola Ruffo, pedagogista formatore, classe 1969, nato a Verona, si occupa di indagini del mistero con taglio critico e scientifico. Collabora con varie case editrici. Pubblica articoli e racconti per varie testate. Coautore del li- 77 Note Biografiche bro Legàmi con Gregory Bateson (2006) per conto della Libreria Editrice Universitaria-Verona, con un contributo sui livelli logici dell'apprendimento. Per conto di Delmiglio editore nel 2014, insieme a Chiara Begnini, ha pubblicato Nero veronese. Quindici casi di cronaca nera tra Ottocento e Novecento, e da solo nel 2018 Giallo veronese. Il lato oscuro di Verona tra Ottocento e Novecento. Marcello Simoni (Comacchio, 1975), laureato in Lettere è un ex archeologo e bibliotecario. Con Il mercante di libri maledetti (Newton Compton, 2011), il suo romanzo d'esordio, è stato per oltre un anno in testa alle classifiche e ha vinto il 60° Premio Bancarella. Un successo confermato da La biblioteca perduta dell'alchimista, Il labirinto ai confini del mondo, L'isola dei monaci senza nome, La cattedrale dei morti, L'abbazia dei cento peccati, L'abbazia dei cento delitti, L'abbazia dei cento inganni, Il patto dell’abate nero… tutti editi da Newton Compton. Per Einaudi ha pubblicato Il marchio dell'inquisitore (2016), dove compare per la prima volta il personaggio di Girolamo Svampa, e Il monastero delle ombre perdute (2018). È tradotto in venti Paesi. Massimo Tassi si è inizialmente formato sulle pagine de “Il Giornale” (direzione Montanelli) per poi passare a “Il Resto del Carlino”, quotidiano per cui attualmente cura rubriche sportive e culturali. È direttore di “Yorick”, pluripremiata rivista dedicata all'avventura e all'immaginario, che ha proposto in esclusiva per l'Italia testi inediti di Lovecraft, Howard e Smith, maestri americani del weird novecentesco. Ha scritto varie introduzioni ai romanzi di Emilio Salgari apparsi nell'Opera omnia della Fabbri. Studioso di Storia delle religioni, collabora con il Museo dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme. Per lungo tempo è stato il direttore de “Ilcorsaronero”. 78 Bartolo Tondini nasce a Rota Dentro nel marzo 1966, anche se le sue origini affondano nell’area culturale della provincia di Lodi. Pare infatti che un ramo della famiglia abbia legami di parentela con Padre Cesare Tondini di Quarenghi, procuratore generale della Congregazione dei Barnabiti, che tra il 1862 e il 1882 fu autore di numerose opere di carattere religioso, filosofico e scientifico. A seguito del lavoro itinerante del padre (un ricercatore biologo), Bartolo vive l’adolescenza e gli anni della maturità tra Londra, Amsterdam e Zurigo. In quegli anni si appassiona all’arte cinematografica e alla musica, e per molti anni svolge l’attività di critico per alcune delle più importanti riviste europee. Il suo esordio nella narrativa avviene subito dopo il rientro nella natia Italia, con la pubblicazione di racconti di argomento avventuroso e fantastico, su riviste e antologie, da solo o in collaborazione con l’amico Gino Bedeschi. Attualmente collabora con le riviste “Ilcorsaronero”e “Yorick”. Renato Venturelli critico cinematografico, collaboratore de “La Repubblica”, ha pubblicato una serie di volumi dedicati soprattutto al cinema di genere: dai libri sull’horror, il poliziesco americano e il gangster per le edizioni Le Mani, alla monografia su Schwarzenegger (e. Gremese), al catalogo sul cinema musicale italiano e il musicarello (ed. Fahrenheit 451), fino a L’età del noir (Einaudi, 2007). Ha collaborato all’Enciclopedia del cinema (Istituto della Enciclopedia italiana, 2003-2004), all’Enciclopedia italiana XXI secolo (Istituto della Enciclopedia italiana, 2006-2007) alla Storia mondiale del cinema (Einaudi, 1999-2001), al Dizionario dei registi del cinema mondiale (Einaudi, 20072008). Ha curato dal 2005 l’annuario “Cinema & Generi” e dal 2010 dirige la rivista “Filmdoc”. ILCORSARONERO 26 Segnalazioni In questa rubrica si elencano le opere di Emilio Salgari stampate o ristampate nel corso del ed eventuali saggi critici. Data l’evidente difficoltà nel reperire le fonti, i lettori e gli amici possono contribuire segnalando le pubblicazioni alla redazione della rivista o inviando i volumi o i fascicoli a: Rivista “Ilcorsaronero”, c/o Biblioteca Civica di Verona, Via Cappello, 43, 37121 Verona. OPERE Emilio Salgari, Enrico Zanetti [illustrazioni], Gli orrori della Siberia, prefazione di Claudio Gallo, postfazione di Agostino Contò, Pescara, Ianieri, 2017; Emilio Salgari, La Bohème italiana, Roma, Elliot, 2017; Emilio Salgari, La pesca dei tonni, prefazione di Massimiliano Fois, con un saggio critico di Alberto Contu, Alhero, Nemapress, 2017; Geronimo Stilton, Sandokan - I pirati della Malesia [testo originale di Emilio Salgari liberamente adattato], Milano, Piemme, 2017; Emilio Salgari, Attraverso l'Atlantico in pallone, Villaricca, Cento Autori, 2017. SAGGI CRITICI Ann Lawson Lucas, Emilio Salgari. Una mitologia moderna tra letteratura, politica, società, v. 1: Fine secolo, 1883-1915. Le verità di una vita letteraria, Firenze, Olschki, 2017; Carlo Cresti, Emilio Salgari: architetture raccontate, Firenze, Angelo Pontecorboli, 2017; Venezia '800: l'arsenale e otto circumnavigazioni del globo, Salgari, a cura di Alessandro Renier, Venezia, pubblicazione per conto dell'autore, 2017. I LCO R SA RO N E RO 2 6 79 Segnalazioni SAGGISTICA Claudio Gallo, Giuseppe Bonomi, Salgari, Emilio, in Treccani, Dizionario biografico degli italiani, http://www.treccani.it/enciclopedia/emilio-salgari_(Dizionario-Biografico), 2017; Dalla Sicilia a Mompracem e altro. Studi per Mario Tropea in occasione dei suoi settant’anni, a cura di Giuseppe Sorbello e Giuseppe Traina, Caltanissetta, Università degli Studi di Catania, Dipartimento di Scienze Umanistiche, Edizioni Lussografiche, 2017, [Salgariana: Luciano Curreri, Per un ‘ritratto dello scrittore da vecchio’: un ritorno di Emilio Salgari, pp. 683-690; Cristiano Daglio, Alcune riflessioni sul romanzo salgariano, pp. 691-695; Roberto Fioraso, Da La scimitarra di Khien-Lung a La scimitarra di Budda, pp. 697-707; Fabrizio Foni, «Non si tratta che d’una semplice cavata di sangue»: dal vampiro Sandokan allo scrittore vampirizzato, pp.709-724; Claudio Gallo, L’invenzione della macchina velocipede. Di alcune fonti de Al Polo Australe in velocipede, pp. 725-730; Paola Irene Galli Mastrodonato, Suggestioni settecentesche nell’opera di Emilio Salgari: alla ricerca delle fonti perdute, pp.731-740; Gian Paolo Marchi, Salgari autore di prefazioni, pp. 741-750; Nicolò Mineo, Donne e amori nel «Ciclo dei Corsari», pp. 751-761; Ann Lawson Lucas, Le avventure postbelliche di Emilio Salgari, “prefascista” e agent provocateur, pp. 763-775; Felice Pozzo, Da un Polo all’altro, pp. 777-783; Samanta Sarti, Padre Crespel: peripezie di un missionario in Labrador, pp. 785-789; Vittorio Sarti, Un “profeta” per Salgari, pp. 790-797; Vittorio Sarti, Stralcio dal “Dizionario salgariano illustrato”, pp. 798-812; Domenico Tanteri, Il 2000 di Salgari, pp. 813820; Giuseppe Traina, Riscrivere il ciclo salgariano dei pirati: parodie, riusi, nostalgie, pp. 821-840; Giovanna e Franca Viglongo, Vita e cultura nella Torino di Salgari, pp. 841-849]; Claudio Gallo, Giuseppe Bonomi, Renzo e Riccardo Chiarelli tra romanzi, sceneggiature, riduzioni radiofoniche, commemorazioni ispirate all’opera di Emilio Salgari, in Renzo Chiarelli, Una vita per l’arte tra Toscana e Veneto, Atti del Convegno svoltosi in Palazzo Erbisti a Verona il 17 marzo 2017, a cura di Vasco Senatore Gondola e Margherita Bolla, Verona, Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona, Musei D’Arte e Monumenti, Cultura Comune di Verona, 2017, pp. 93-116; Luigi Marcianò, “Fumetto”, n. 104, dicembre 2017, Giove Toppi, l’inventore delle copertine e degli albi a fumetti e non solo, pp. 8-10; Giove Toppi. Cronologia, pp. 11-167; 80 ILCORSARONERO 26 Raffaele Crovi, Claudio G. Fava, Mino Milani, Darwin Pastorin