ilcorsaronero
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DIRETTORI SPIRITUALI:
Raffaele Crovi, Claudio G. Fava, Mino Milani, Darwin Pastorin
10,00
EUR O
Lo scorso ottobre abbiamo lanciato una sottoscrizione tra gli amici lettori e collaboratori de
“Ilcorsaronero”. I risultati sono buoni anche grazie ad alcuni contributi eccezionali. La gran parte
di coloro che hanno accolto il nostro appello ha chiesto di non rendere noti i loro nomi, e perciò
ci limitiamo ad indicare l'importo complessivo fin qui raccolto, di euro 2927. Non possiamo fare
a meno di ricordare la cena organizzata in favore della rivista da un caro amico che ha raccolto
ben 500 euro. Riproponiamo l’appello e teniamo aperta la sottoscrizione in favore del rilancio
della rivista. Grazie a chi vorrà partecipare.
Cara amica, caro amico
negli ultimi anni “Ilcorsaronero” si è impegnato a migliorare, cercando di perfezionare
la grafica, aumentando il numero delle pagine, curando sempre più la qualità dei testi,
aprendo la rivista ai contributi più diversi. Le cose non sono andate del tutto secondo
le nostre aspettative e siamo stati costretti per ben tre volte a cambiare editore. Il
“Corsaro” si trova ancora una volta a veleggiare in mari tempestosi, ma come sempre
dopo la burrasca arriva il sereno, e abbiamo deciso di lavorare con gli amici di Yap
Edizioni, organizzatori tra l'altro di Fantavv – festival della letteratura horror, fantasy
e avventura. La scelta è stata fatta per la disponibilità, per collaborazioni andate a
buon fine, perché interessati alla nostra proposta culturale, ed è una novità. Inoltre sono
giovani e in sintonia con le nuove tecnologie che noi fatichiamo a utilizzare con perizia.
Per assicurarci un avvenire più solido abbiamo bisogno di una base economica
che ci permetta di lavorare in sicurezza per i prossimi tre anni. Puntiamo
a raccogliere una cifra contenuta, ma indispensabile. Chiediamo ai nostri
Amici più cari di sottoscrivere liberamente quello che riterranno possibile,
sottoscrizione che sarà considerata come quota di abbonamento alla rivista per
un anno o due, a seconda dell’importo.
Da tutti, abbonati, lettori e amici, dipende il nuovo futuro de “Ilcorsaronero”, una rivista
unica nel panorama editoriale italiano.
Un abbraccio e grazie.
Claudio Gallo
direttore responsabile
“Ilcorsaronero”
Roberto Fioraso
presidente
Associazione “Ilcorsaronero”
E DI TOR IAL E
Cari lettori de “Ilcorsaronero”,
il nostro piccolo e ardito praho torna in mare aperto nella speranza
di rispettare gli impegni con gli abbonati e i lettori. Ringrazio
tutti coloro che fin qui, con grande fiducia, hanno generosamente
aderito alla sottoscrizione promossa per sostenere la rivista. Amici
per sempre! Il “Corsaro” nuovo torna con un gruppo editoriale
giovane e convinto, una nuova veste grafica e, soprattutto, due
condirettori che mi affiancheranno nel governo della rivista
garantendone la continuità nel tempo. A loro lascio la parola.
Claudio Gallo
Avremo bisogno del vostro
“appassionato aiuto”.
Ci metteremo la passione, questo possiamo garantirlo, la stessa che finora ha spinto altri prima di noi a
dedicare tempo ed energie pur di non frenare la pubblicazione de “Ilcorsaronero”, pur di mantenere viva
questa storica rivista, pur di mantenerne alto il suo buon nome. Tenerla in vita, comunque, non basta,
serve qualcosa di altro, qualcosa che metta benzina nel motore ed eviti la deriva. Per sfidare il tempo che
corre, anzi galoppa, un tempo sempre più avaro di emozioni vere, serve continuare a credere con spirito
autentico nella qualità delle intenzioni, nell’autenticità delle idee. Negli articoli, negli interventi, nella ricerca, negli approfondimenti, che appariranno di numero in numero, proveremo sempre a offrire un continuo stimolo alla curiosità, un perenne movimento di trasformazione, di apertura e mai di chiusura. Proveremo, anche questo possiamo garantire. Proseguiremo a parlare di Salgari, dei suoi eroi e delle sue storie,
dei suoi romanzi, e di tutto quello che hanno saputo far germogliare nell’anima di chi ha avuto la fortuna
di incontrarlo tra le pagine dei libri. Cercheremo di offrire passione in un mondo che offre altro; un compito davvero molto difficile, un’ambizione quasi improba, ma ci proveremo, magari con l’aiuto di tutti così
com’è stato finora. L’unica soluzione è credere con la tenacia della passione assecondando un sentimento
che da tempo pulsa nella rivista. Avremo bisogno del vostro “appassionato aiuto”, della vostra curiosità,
del vostro desiderio di conoscere, lo stesso che spinge l’uomo a cambiare, crescere, migliorare.
Dario Pontuale
EDITOR IAL E
Da questo numero e con senso
di responsabilità raccolgo
l'invito di Claudio Gallo a
partecipare alla condirezione
del nuovo “Ilcorsaronero”.
Pertanto firmerò questo, e i prossimi numeri, con
Dario Pontuale che con me dividerà, ritengo e spero, molti onori e pochi oneri, in spirito di collaborazione fraterna e “feroce” nel rispetto delle proprie
rispettive competenze, predilezioni e idiosincrasie,
com'erano le regole non scritte della Tortuga.
Tutto questo accade non da un giorno all'altro, ma
da un molto discutere, di settimane e di mesi, in un
momento difficile anche nella semplice gestione
della rivista, mai facendo venir meno l'ottimismo
visionario, che proverbialmente contraddistingue
me e Gallo, e immaginando se non un futuro radioso almeno un navigare con bonaccia. Senza derive,
in agguato quando la calma prende il sopravvento.
Mentre le questioni intorno a Salgari continuavano a muoversi, con le uscite dell'importante e per
molti versi discutibile e contraddittorio, primo volume critico-biografico di Ann Lawson Lucas, o dei
recenti, e giocati in casa, racconti "perduti" e "ritrovati" di Guido Altieri. Infatti compito fondamentale sarà quello di illuminare la produzione meno
celebre del "Capitano", che però suggerisce letture
inedite della contemporaneità, inserendosi negli
studi coloniali come nei gender studies per non tacere della cronaca. In questo slittamento temporale
non voglio dimenticare né le pionieristiche ricerche
di Giuseppe Turcato, né la capacità di Mario Soldati
di fondere nel suo cinema popolare autorialità e
intrattenimento. Dunque, occhi al futuro, senza perdere di vista la tradizione come anche gli scrittori e
romanzieri più' sensibili e abili a raccogliere trame
e personaggi salgariani. Dividerò il nuovo indirizzo
di questa rivista con Dario Pontuale, e farò la mia
parte: le mie linee d'azione sono ben conosciute
da chi ha frequentato e frequenta “Ilcorsaronero”,
e sa della mia attività editoriale e pubblicistica. I
numeri speciali su Salgari e il Cinema e sull'indimenticabile Claudio G. Fava, che ho curato, consentono di misurare ciò che intendo come letteratura
popolare. Idee ancor più manifeste a breve, nella
cura del prossimo speciale dedicato a Carlo Fruttero. Ringraziando Claudio per la fiducia, stringendo
la mano a Dario, invito tutti i redattori storici, a
restare sul ponte di questa nuova Folgore, e a chi
è sceso di risalirvi: c'è posto per tutti, per chi ha intenzione come noi di confrontarsi con i mari salgariani che formano quel paese in più in un canone
letterario italiano ed europeo, che avverte il bisogno di novità migranti e meticce per non esaurirsi
nelle routine di mestiere. Non posso a questo punto non nominare Roberto Fioraso e Giuseppe Bonomi, colonne d'Ercole ieri come oggi del "Corsaro",
e a loro, come a tutti i collaboratori, vecchi e nuovi,
desidero consegnare un'indicazione di metodo
suggerita da Ugo Gregoretti in prossimità dei titoli
di coda del suo Le tigri di Mompracem. Una serata
con Emilio Salgari: «Non vorremmo trarre nessuna
conclusione, anche perché non avevamo una tesi
prefabbricata. In realtà non volevamo dimostrare
nulla, ma semplicemente mostrare, esporre dei
materiali narrativi e informativi, gli uni accanto agli
altri per contemplarli, per cogliere eventuali suggerimenti, per vedere se attraverso il loro accostamento si potesse arrivare a percepire una matrice
culturale comune». Buona lettura.
Fabio Francione
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EDIZIONE
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Horror, Fantasy e d’Avventura
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ilcorsaronero
NOVEMBRE 2018
Periodico quadrimestrale
Iscrizione al Tribunale di Verona
n. 1848 R.S. 2009
REDAZIONE
c/o Biblioteca Civica
Via Cappello, 43 — 37121 Verona
DIRETTORE RESPONSABILE
Claudio Gallo
CONDIRETTORI
Fabio Francione, Dario Pontuale
FONDATORI
Luciano Curreri, Roberto Fioraso,
Fabrizio Foni, Claudio Gallo, Caterina
Lombardo, Matteo Lo Presti, Donato
Pascali, Massimo Tassi
REDAZIONE
Giuseppe Bonomi, Alberto
Brambilla, Andrea Campalto,
Lucia Chimirri, Luca Crovi, Roberto
Fioraso, Michele Martinelli,
Claudia Mizzotti, Barbara Coffani
Polettini, Nicola Ruffo,
Massimo Tassi, Francesco Testi
SEGRETARIA DI REDAZIONE
Martina Benati
REDAZIONE STORICA
Chiara Begnini, Lorenzo Bassotto,
Giuseppe Bonomi, Alberto
Brambilla, Marianna Bringhenti,
Andrea Campalto, Lucia Chimirri,
Luca Crovi, Alessandro Faccioli,
Roberto Fioraso, Fabio Francione,
Fabrizio Foni, Giulia Gadaleta, Irene
Incarico, Michele Martinelli, Claudia
Mizzotti, Elena Pigozzi, Elena Salgari,
Sonia Salgari, Massimo Tassi, Paola
Tiloca, Paolo Tosini, Francesca
Veneziano
DESIGN
Stefano Torregrossa
ILLUSTRAZIONI
L’illustrazione di copertina è di
Matteo Cuccato (matteocuccato.
com). Il disegno di pag. 37 è di
Ivo Milazzo. Le riproduzioni delle
illustrazioni originali sono di
Matteo D’Agostini. Si ringrazia
Andrea Lucchese per la preziosa
collaborazione.
www.rivistailcorsaronero.it
28
Giuseppe Biasioli: giornalista,
duellante e amico di Salgari
CLAUDIO GALLO E GIUSEPPE BONOMI
40
Robert Louis Stevenson
Gli allegri compari, ovvero:
Stevenson in un racconto solo
Un mondo intero in testa
DARIO PONTUALE
MARCO PISCIOTTANI
Il romanzo perfetto
MINO MILANI
Stevenson e la filosofia
del romanzo
Sortilegi e magie delle isole
ANDREA COMINCINI
LUCIA CHIMIRRI
Editoriale
2
Il demone di Cyrano
60
MARCELLO SIMONI
La dea lo vuole!
8
MORENO BURATTINI
Non è più tempo d'eroi: il
centenario di Robert Aldrich
62
RENATO VENTURELLI
Le dispiace se parliamo italiano?
14
MARGHERITA FORESTAN
Jim Thompson: un'America in nero
18
Una gozzaniana "menzogna
primaverile"
64
DARWIN PASTORIN
PAOLA IRENE GALLI MASTRODONATO
Salgari e dintorni sul settimanale
satirico "Can de la Scala"
23
Peppone e don Camillo, largo
ai bisticci dei nipoti
66
MASSIMO TASSI
ARCHIVIO SERRAVALLE
—
Il mar di Liguria e le cime
innevate del Montana
NICOLA RUFFO
34
Notizie
Lettere alla Redazione
Note biografiche
Segnalazioni
68
73
74
79
M O R E N O B U R AT T I N I
La dea
lo vuole!
—
—
Il laccio del thug ha stretto al collo anche
me, in un momento imprecisato della
mia infanzia collocabile più o meno fra
il 1969 e il 1970. «La dea lo vuole!»,
ha probabilmente sibilato una voce
nella mia testa spingendomi a scegliere
proprio I misteri della Jungla Nera
nell’edicola del piccolo paese di montagna
(Gavinana, provincia di Pistoia) dove, su
uno scaffale, erano messi in mostra vari
volumi de “I classici della gioventù” della
benemerita Editrice Boschi.
—
—
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TESTIMONIANZE
F
u uno dei primissimi libri che lessi dopo averli scelti proprio io, e non per essermi stati messi in mano dai nonni o dai genitori. Non ricordo l’anno, ma sicuramente avrò
frequentato la seconda o la terza elementare, e rammento perfettamente che a pagare
l’acquisto fu mio zio Lamberto, che in seguito mi avrebbe fatto altri regali del genere, accompagnandomi personalmente a scegliere la lettura che preferivo. Vedendomi preferire Tremal-Naik
a Pattini d’argento o Il lampionaio, approvò annuendo con la testa e rivelandomi di essere stato
anche lui un forte lettore salgariano. Del resto, in copertina c’era un eroe barbuto con il turbante
in testa colto nell’attimo di tagliare, con una sorta di scimitarra, la testa a un cobra: come avrei
potuto scegliere Piccole donne? La dea che voleva spingermi fra le grinfie di Salgari era «la misteriosa divinità che impera tremenda su tutta l’India» o la più amichevole sirena dell’Avventura? Soltanto da grande, rileggendo il ciclo indiano alla luce del successivo curriculum di studi,
avrei saputo che i thugs erano esistiti davvero e che nel 1895 (anno di pubblicazione de I misteri
della Jungla Nera) forse ce n’era ancora qualcuno in giro, se è vero che nel 1904 i britannici ne
scoprirono un complotto. Per il me stesso bambino, però, niente era più vero del coltellaccio
che a un certo punto del racconto, Tremal-Naik trova conficcato per terra, davanti alla sua capanna, che trattiene un foglio di carta su cui è vergato un messaggio: «La misteriosa divinità
che impera tremenda su tutta l’India, ti manda il pugnale della morte. Basta una scalfittura
della sua punta avvelenata perché tu scenda nella tomba!». E, qualche capitolo dopo, ecco uno
strangolatore entrare in azione contro Aghur, un servitore del cacciatore di serpenti protagonista del romanzo: «Il fanatico afferrò solidamente il laccio e soffocò la voce della vittima: Muori:
la dea lo vuole!». Quando Guido Nolitta, alias Sergio Bonelli, propose i thugs quali antagonisti
dello Spirito con la Scure (raffigurandoli come assassini con il turbante e il rumal annodato in
mano), immaginando che un gruppo di loro si fosse trasferito nella foresta di Darkwood per
compiere una vendetta contro un ufficiale inglese ritiratosi nel Nuovo Mondo, io sapevo già
tutto. O meglio: Nolitta scrisse La dea nera nel 1969, io però lessi l’avventura zagoriana nella
ristampa degli anni Settanta. Nel 2002 quando già lavoravo da tempo a Milano proprio nella
redazione di “Zagor” e ne sceneggiavo le storie, fui io a dare un seguito al racconto di Bonelli,
intitolandolo per l’appunto Thugs!
Nel 1976, quando arrivò in televisione lo sceneggiato di Sergio Sollima, ispirato dal
ciclo malese di Salgari (composto da ben dieci titoli), avevo quattordici anni: seguii avidamente tutte le puntate e ne rimasi favorevolmente colpito, ma conoscevo a menadito trama e
argomento e potevo vantarmene con tutti, compagni di classe e parenti (tranne zio Lamberto),
che sembravano scoprire Sandokan soltanto per il passaggio televisivo. Le tigri di Mompracem
era infatti stato uno dei romanzi che avevo letto subito dopo il primo dono di zio Lamberto, e
I misteri della Jungla Nera era stato una sorta di prequel. Del resto anche nei romanzi di Salgari,
Sandokan e Tremal-Naik si sarebbero incontrati (e Tremal-Naik compare infatti anche nello
sceneggiato di Sollima). Anche se il pirata salgariano si fa chiamare “la Tigre della Malesia”,
non è malese (lo dice lo stesso autore fin dal primo romanzo in cui compare) ma bornese. Di
sicuro non è indiano e dunque non può avere i lineamenti di Kabir Bedi, nonostante ormai
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T EST I MO N I AN Z E
tutti lo identifichiamo con quell’aspetto (e va pure bene). Un’altra cosa che si scopre leggendo
Le tigri di Mompracem è che Marianna, la Perla di Labuan, la ragazza di cui il pirata si innamora
follemente, è nata a Napoli (o quanto meno, in una località del Golfo) da madre italiana e padre
inglese. Rimasta orfana in tenera età, è stata affidata a undici anni all’unico parente rimastole,
lo zio James Guillonk, che la porta con sé nel Borneo. Colpisce il fatto che, quando Sandokan la
vede, lei abbia solo “sedici o diciassette anni”. Oggi si tratterebbe di un amore proibito, ma l’adolescenza come la concepiamo noi è frutto del Ventesimo Secolo. Le tigri di Mompracem non
raccontano imprese di pirateria (se non un breve abbordaggio iniziale) ma il proposito del
protagonista di smettere i panni del pirata e ritirarsi a vita privata, abbandonando il suo covo
di Mompracem. Il romanzo inizia con il desiderio quasi ossessivo di Sandokan di vedere
Marianna, la cui bellezza gli è stata descritta, evidentemente con il pur segreto desiderio che
capiti quello che poi effettivamente succede: lui si innamora, lei contraccambia. Amore di
quelli che sconvolgono le menti, ovviamente, di fronte ai quali non ci sono scogli che possano arginare il mare. Appunto per questo l’eroe non ci fa proprio una bella figura agli occhi di
uno che volesse valutarne il comportamento dal punto di vista razionale: pur di incontrare la
Perla di Labuan, che ancora non conosce, e dunque per un capriccio, o un proposito balzano,
Sandokan provoca la morte di decine di suoi uomini. Poi si incaponisce di rapirla, e anche
in questo caso trascina i tigrotti allo sbaraglio inutilmente trattenuto dal fido Yanez, il saggio
portoghese che gli fa da braccio destro, che cerca di farlo ragionare, che lo toglie dai guai
in cui incautamente l’esaltato “fratellino” si va a cacciare come uno sconsiderato. Tornato a
Mompracem con Marianna, si vede attaccato da Lord Guillonk e perde l’isola costretto alla
fuga con pochi superstiti. Insomma, l’eroe ha decisamente perso la testa. Da questo punto di
vista, il Corsaro Nero è un personaggio decisamente più maturo.
In ogni caso, fin da bambino, ho capito
che non dovevo valutare le scelte di Sandokan
dal punto di vista della razionalità e del buon
senso. Davanti alla prosa di Salgari si resta incantati come di fronte alla potenza di un’orchestra
sinfonica che esegua una impetuosa e trascinante partitura d’opera lirica. Tutto è formidabile,
roboante, turbinoso. I sentimenti, le emozioni,
il coraggio, l’ardire, sono potenti. Gli scenari, il
mare, le isole, i venti e le tempeste, stordiscono
per bellezza e potenza. Sandokan è una sorta di
divinità biblica che dispensa premi e punizioni,
che pretende e ottiene fedeltà assoluta, che richiede sacrifici umani. La mistica del politicamente corretto è (fortunatamente) di là da venire e il “Capitano” (questo il soprannome dello
scrittore) può usare frasi che oggi suonerebbero razziste, o usare come eroe un pirata spietato che ha mietuto centinaia di vittime. Tuttavia, la Tigre della Malesia non è un predone
Fin da bambino ho
capito che non dovevo
valutare le scelte di
Sandokan dal punto di
vista della razionalità e
del buon senso.
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TESTIMONIANZE
assassino, è un vendicatore. L’inglese James Brook, detto “il rajah bianco”, gli ha sterminato la
famiglia, alleato con spagnoli e olandesi, e lo ha spodestato dal trono di un regno del Borneo,
di cui era l’erede. Il padre di Sandokan, sovrano di quel reame, si chiamava Kaigadan (lo si
saprà nei romanzi che compongono il seguito della saga). Unico scampato alla strage dei suoi
famigliari e costretto a fuggire, il principe giura vendetta contro tutti i colonialisti occidentali
(da qui il dibattito, assolutamente stupido, se si tratti di un eroe di “destra” o di “sinistra”,
con argomenti a favore e sfavore dell’una e dell’altra ipotesi). Il suo obiettivo non è vivere da
pirata ma riprendersi il regno, cosa che avverrà in Sandokan alla riscossa.
Salgari non mi ha solo spinto a scrivere
anch’io, come Nolitta, una storia con i thugs, ma
anche alcune di pirati. Sono stato io a inserire
nella fiction zagoriana il personaggio storico di
Jean Lafitte. Del Lafitte della realtà a un certo
punto si sono perse le tracce dopo che venne convinto dagli americani a sgombrare il covo di Galveston, salpando a bordo del vascello Pride, dopo
che il Texas era divenuto uno degli Stati Uniti.
Nelle mie storie, Jean è anziano e ufficialmente
risulta scomparso. Nessuno lo ricerca più, casomai si cercano i suoi tesori (realmente esistiti, celati in località segrete e da sempre ricercati).
Persa la Pride originale, se ne è costruita una nuova e ancora naviga sulle acque del Golfo del
Messico. Gli ho messo però al fianco la figlia Denise, dopo aver letto su un libro di storia che
davvero ne aveva una, chiamata Denise Jeannette. Di lei esiste una interessante descrizione
fatta da un certo McKenny, ufficiale della marina degli Stati Uniti, che incontrò Denise il 2
marzo 1821 a bordo della Pride, dove era salito per consegnare a Lafitte l’ultimatum delle
autorità americane che avrebbe obbligato il pirata a lasciare il suo covo di Galveston. Nel
1839, sulla rivista “United States Magazine and Democracy Review”, McKenny descriveva
così la ragazza: «Comparve una giovane donna. Uno dei più radiosi esempi di bruna che si
possano sognare. Una figura incantevole, di forme piene e voluttuose, lineamenti di grande
bellezza, occhi neri dallo sguardo languido, e la capigliatura più nera e lussureggiante che si
sia mai arricciolata sulla terra. Insomma, tutto quanto occorreva per indurre una squadra di
giovanotti sentimentali, quali eravamo, alla poesia o al suicidio». Da vecchio salgariano non
potevo perdermi l’occasione di inserire un personaggio del genere in un mio fumetto. Jean
Lafitte e Denise si trovano coinvolti con Zagor in una prima avventura alla ricerca di un vecchio bottino nascosto in un’isola al largo delle coste africane, contendendoselo con un altro
vecchio pirata dal nome (storico) di Barbe-en-feu. Poi tornano da comprimari in numerose
altre avventure, come I bassifondi di New Orleans, che si svolge tra il delta del Mississippi e
la giungla dello Yucatan, lunga ben cinque albi (470 tavole, disegni di Gallieno Ferri). Non è
una storia di pirateria in senso stretto, dato che si parla di guerrieri aztechi rimasti nascosti
Salgari non mi ha
solo spinto a scrivere
anch’io, come Nolitta,
una storia con i thugs,
ma anche alcune
di pirati.
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T EST I MO N I AN Z E
per secoli in una palude, ma Jean Lafitte c’è dall’inizio alla fine e ha la fierezza dell’anziano pirata. A dimostrazione del fatto che quando c’è un pirata, c’è comunque Avventura. E nel ricordo
dei romanzi salgariani che mescolano le più diverse suggestioni.
Che nel Capitano ci si imbatta sempre, e comunque, lo dimostra una avventura zagoriana scritta da Mauro Boselli, intitolata Passaggio a Nord-Ovest e ispirata a quanto accaduto a
Sir John Franklin e alle sue due navi, Erebus e Terror, salpate dall’Inghilterra nel 1845 alla volta
della Baia di Baffin, sul lato occidentale della Groenlandia. Da lì l’esploratore contava di forzare
il passaggio attraverso i ghiacci artici fino al Mare di Beaufort, che bagna le coste settentrionali dell’Alaska. Franklin era un esperto ufficiale della marina militare britannica che aveva già
preso parte a tre precedenti esplorazioni artiche: quando compì la quarta aveva cinquantanove
anni e tutta l’esperienza che serviva. Purtroppo, per quanto ben equipaggiata, la spedizione,
composta da ben centotrenta marinai, scomparve nel nulla. La moglie Jane Griffin esercitò
tali e tante pressioni che l’Ammiragliato, nel 1848, organizzò una ricerca in grande stile che
coinvolse numerosi mezzi. Una cospicua ricompensa promessa a chi avesse ritrovato le navi
di Franklin, mise in moto uomini e navi di varie nazionalità. Nel 1854 l’esploratore John Rae,
giunto nei presso dell’Isola Principe di Galles, raccolse dagli Inuit le prime notizie sulla sorte
degli scomparsi; nel 1859 Francis Leopold
McClintick trovò, sull’Isola di Re William un
messaggio abbandonato. Il testo conteneva
un resoconto del viaggio fino al 25 aprile
1848. Si seppe che le navi vennero bloccate dalla morsa del ghiaccio nell’inverno del
1845 nei pressi dell’Isola di Re Guglielmo,
più o meno a metà strada, ma l’estate successiva il disgelo non bastò a disincagliarle.
La seconda stagione invernale fu fatale: lentamente gli uomini cominciarono ad ammalarsi e perire, Franklin stesso morì nel 1847.
Nella primavera del 1848 i superstiti cercarono di tornare indietro a piedi, ma nessuno
raggiunse la salvezza. Dei marinai furono trovati solo i miseri resti di una piccolissima parte di
loro. Il quindicesimo capitolo del romanzo Al Polo Nord, di Salgari, pubblicato nel 1898, si intitola Avanzi della spedizione Franklin, ed è corredato da una illustrazione di Giuseppe Gamba
che mostra, appunto, degli esploratori artici in preghiera davanti alle tombe di alcuni membri
dell’equipaggio. Salgari dice che i resti erano stati sepolti dagli esquimesi, i quali però «non trovarono che degli avanzi di scheletri. Gli orsi bianchi avevano banchettato colle carni di quegli
uomini». I protagonisti del romanzo, due cacciatori di lontre, discutono se sia il caso o meno
di «tornarsene in Europa per portare in Inghilterra le reliquie della spedizione», che però poi
vengono lasciate lì dove rinvenute. In un altro passaggio del romanzo di Salgari, i marinai del
Che nel Capitano ci
si imbatta sempre e
comunque lo dimostra
una avventura zagoriana
scritta da Mauro Boselli
e intitolata Passaggio a
Nord-Ovest.
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ILCORSARONERO 26
TESTIMONIANZE
vascello Taimyr (attrezzato in modo fantascientifico e in grado di immergersi come sottomarino, sull’esempio del Nautilus di Jules Verne) fanno rotta verso la Terra di Banks: «andiamo a
verificare se oltre il famoso passaggio a Nord-Ovest scoperto da McClure ne esiste un altro che
sia veramente accessibile alle navi». Robert McClure, esploratore irlandese (1807-1873), partito
nel 1850 alla ricerca di John Franklin, scoprì a sud dell’Isola di Banks un passaggio in grado di
mettere in comunicazione Atlantico e Pacifico alle latitudini artiche. La scoperta avvenne in
un tratto di mare gelato che fu costretto ad attraversare a piedi, con l’aiuto delle slitte: dunque
la via non era all’epoca navigabile. Lo è ai giorni nostri, dato che i ghiacci polari si sono ritirati
rispetto a quegli anni.
L’avventura bonelliana classica, quella su cui si sono fondate le fortune della Casa
editrice, nasce peraltro da uno scrittore di stampo salgariano, Giovanni Luigi Bonelli, «un romanziere prestato al fumetto e mai più restituito», come lui stesso si definiva. Chiaramente
ispirati a Salgari erano i romanzi che aveva scritto prima di passare anima e corpo alla narrativa
disegnata. Il primo fu Le tigri dell’Atlantico, apparso a puntate nel 1936 sull’ “Audace” e poi ristampato in volume nel 1940. Si tratta di un noir dove gli elementi tradizionali del poliziesco si
mescolano con suggestioni puramente avventurose mediate da Conrad, Salgari, London e Verne. «Ho sempre preferito l’azione alla complessità della trama», dichiarò Bonelli in una delle
rare interviste da lui rilasciate. «I miei […] personaggi […] si muovono in grandi spazi selvaggi
e […] devono quasi obbligatoriamente essere molto dinamici». Sempre nel 1940, l’editrice
AVE pubblicò Il Crociato Nero, che narra le avventure di Ugo di Ivrea, nobile cavaliere partito
per la prima crociata. Nello stesso anno, ma edito dalla SADEL, è I fratelli del silenzio, qui l’investigatore John Mauri (già protagonista del primo romanzo) affronta, in Marocco, una pericolosa
setta di fanatici adoratori del dio Molok, che molto ricordano i thugs e la loro Dea Nera.
Per concludere, lasciatemi ricordare che Sweet Salgari (2012), graphic novel di Paolo
Bacilieri sulla vita (e sulla morte) del Capitano è dedicato a Sergio Bonelli. L’amore verso Salgari, evidentemente, accomuna una insospettabile miriade di lettori, come viene mostrato nelle
bellissime tavole che raccontano il momento in cui la notizia del suicidio del grande scrittore
passa di bocca in bocca tra la gente: studenti, operai, massaie… interrompono le loro attività
per correre a vederne la salma, composta nella camera ardente, e poi ne seguono il feretro in
un lunghissimo corteo. Bacilieri lo commenta così: «Guarda lassù: il Corsaro Nero piange!».
La biografia dell’uomo che ha fatto sognare intere generazioni di lettori è svolta in un continuo alternarsi fra il presente narrativo (quello della preparazione ed esecuzione del tremendo
seppuku, il 25 aprile 1911) e il passato, procedendo per episodi, a partire dall’infanzia del protagonista. Non si tratta di cronaca biografica, ma di poesia mediata per loci selecti, flash, suggestioni, spostamenti da una città all’altra, fino alla terribile lettera agli editori: «A voi che vi siete
arricchiti colla mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria o
anche più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali.
Vi saluto spezzando la penna». Vi saluto spezzando la penna! Una frase degna di Sandokan!
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T EST I MO N I AN Z E
M A R G H E R I TA F O R E S TA N
Le dispiace
se parliamo
italiano?
—
—
Abbiamo sempre parlato in italiano
Albert Uderzo e io, o meglio, una lingua
fatta di molte parole in dialetto trevigiano
che mi sono sempre ben guardata di
correggere nonostante la sua esplicita
richiesta di farlo. Troppo divertente—
e comunque: dove trovare il coraggio
per interromperlo o bloccare quel suo
gesticolare molto italiano?
—
—
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L ABOR ATOR IO
P
arlava e sorrideva, chiuso in un completo grigio, una persona elegante, gentile, dallo sguardo facile da raggiungere, che mi piace ricordare anche per la sua modestia. Non a caso, più
volte nel corso dei nostri incontri legati all’uscita di nuovi album, mi ha ricordato e raccontato i suoi inizi, gli insuccessi, i personaggi e le storie «appassiti tra le mani», ma soprattutto il lungo sodalizio con René Goscinny, che non ho conosciuto, che citava costantemente utilizzando le
battute dei vari personaggi, delle varie avventure che li ha visti a lungo amici e collaboratori. Ho
incontrato Albert Uderzo quando le sorti di Asterix, il piccolo eroe gallico e il suscettibile, irascibile e goloso Obelix, erano ormai solo nelle sue mani. Da poco si era consumato anche il distacco
dalla casa editrice Dargaud, l’editore dei grandi numeri in quanto a fumetti. Si è parlato a lungo,
nel mondo dell’editoria, di questo inatteso divorzio, Dargaud non solo non pubblicò più Asterix
ma tutta la distribuzione dei titoli a catalogo passò all’editore Hachette, non senza perplessità da
parte dell’altra metà di Asterix, la famiglia di René Goscinny, perplessità che il tempo e i buoni
risultati appianarono.
Le Edizioni Albert-René, dal nome dei creatori di Asterix, nascono a Parigi sotto la direzione della figlia di Uderzo, Sylvie, con l’ obiettivo di rilanciare l’intera collezione Asterix, curandone l’immagine e il marketing in collaborazione con Hachette, nonché pubblicare quanto, da
solo, da quel 1979 avrebbe realizzato Uderzo. Comincia con il secondo album per la Albert-René
la mia frequentazione di Sylvie, giovane ma volitiva, desiderosa di dimostrare le sue capacità
manageriali e convincere il mercato del fumetto, francese e non, che lasciare Dargaud era stata la
scelta giusta. Per me, soprattutto, conta e conterà l’incontro con Albert e il rapporto di fiducia che
ne nacque. Mi ero preparata al primo incontro rileggendo quanto già letto, grazie alla biblioteca
dei miei fratelli fanatici di Asterix così come di altri personaggi del mondo del fumetto, avendo
cura, soprattutto, di colmare le lacune sulla nascita e lo sviluppo dei personaggi, in questo mi fu
di aiuto Franco Fossati (chi volesse sapere tutto su questo amico scomparso giovanissimo, giornalista, saggista, esperto di storie disegnate può contattare a Monza la Fondazione che porta il suo
nome, bit.ly/fossati). Dunque mi ritenevo pronta, ma vedendo le prime tavole di Asterix e il grande
fossato, alcune ancora solo dei tratti a matita o a china, altre colorate, provai un’emozione tale che
sfociò in una serie di frasi di stupore e ammirazione che a lungo, Albert e Sylvie mi ricorderanno,
o meglio a ogni nuovo album ameranno ripetere, quasi un consolidato gioco delle parti ormai. Per
Mondadori, con le Edizioni Albert-René, ho lavorato all’edizione italiana di dieci album, due dei
quali fuori serie — Asterix e la sorpresa di Cesare e Come fu che Obelix cadde da piccolo nel paiolo
del druido. Sicuramente ricordo che molto faticoso è stato portare a termine l’edizione delle ultime due storie: Asterix e Latraviata e Asterix tra banchi… e banchetti. Infinite discussioni sui titoli,
ancora oggi penso che Latraviata non abbia alcun senso, meglio sarebbe stato Traviata lasciando
il “la” come articolo, ma ricordo anche le infinite proposte per banchi… e banchetti, perché oltre
al problema con l’editore originale, soprattutto con un suo consulente che mai conobbi, c’era da
risolvere quello con il marketing di casa e non sempre la mediazione era la strada migliore per il
risultato finale. Oggi mi chiedo se forse stavano già maturando i conflitti che negli anni successivi,
e fino al 2014, hanno visto Albert e Sylvie, ma si racconta soprattutto Albert e Bernard de Choisy,
il genero, coinvolti in una battaglia legale che ha tenuto separate le due famiglie, i nipoti dai non-
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ni, i genitori dalla figlia, gli uni contro gli altri, con accuse pesantissime. Un conflitto famigliare
devastante del quale mai avrei voluto leggere, che segnò il silenzio, purtroppo mai interrotto da
parte loro e mia, non potendo e non sapendo, se non dai giornali, quale davvero fosse la base dei
conflitti. Impossibile intervenire dunque anche solo per far sentire affetto e vicinanza a entrambi,
e così le distanze si sono fatte sempre più insuperabili. Solo per le festività del Natale 2015, avuto
notizia dell’avvenuta riappacificazione, ho inviato un biglietto di auguri al quale nessuno ha risposto. Un po’ ci sono rimasta male, ma ripensandoci oggi posso solo immaginare la profondità
delle ferite, il lungo lavoro di cura necessario a ristabilire la reciproca fiducia dopo anni di avvocati e tribunali.
C’erano dei semplici riti che aprivano i lavori di pubblicazione di un nuovo album: un
viaggio a Parigi, una colazione insieme ad Albert, amava la pasta e il minestrone, un pomeriggio
per verificare insieme i testi nel caso ci fossero termini in italiano da condividere, l’incontro con
la persona che avrebbe rivisto la traduzione italiana — mai un problema grazie al lavoro di Franco
Fossati e Alba Avesini che mi fa piacere, qui, ricordare — una cena con Sylvie e il marito Bernard
de Choisy, da ultimo, ma solo perché si aspettava il giorno successivo, l’ immancabile discussione
con il responsabile amministrativo. Non mi piaceva e non per quegli occhiali troppo piccoli per
un volto grassottello o la cravatta eccessivamente sottile che sembrava bloccargli il respiro, il punto è che non sorrideva mai, non ci amava, penso, sicuramente non riusciva a comprendere quanto
il mercato italiano di Asterix differisse da quello francese e tedesco dove erano milioni le copie
che ogni album riusciva a produrre. E così, la firma del contratto di pubblicazione finiva sempre
con «elha, les italiens» ed era sempre una fatica e una corsa per arrivare in tempo all’aeroporto per
il primo volo del pomeriggio per Milano.
Tra le passioni di cui Albert amava raccontare c’erano le auto italiane, o meglio l’auto per
definizione: la Ferrari, senza trascurare il cibo e il vino. Sulle Ferrari mi limitavo ad ascoltare, salvo
portargli delle miniature giocattolo della celebre vettura per il nipotino. Ci fu un’occasione in cui
mi fece fare un giro per Parigi a patto che il Natale successivo gli inviassi un Pandoro, cosa che feci
per diversi anni. Commentava spesso, durante i nostri pranzi, la politica francese ed era preparato
anche sulle vicende italiane, gli Anni Ottanta e Novanta che, va detto, offrivano molto materiale, lo faceva con rispetto, si sentiva certamente francese, ma quel suo discutere mezzo in italiano
e mezzo in trevigiano a me ha sempre dato l’impressione di un talento italiano, nato in Francia.
Profondo conoscitore della vita dei piccoli paesi di campagna che amava sicuramente più della
grande città, diventato adulto immaginandosi ancora alle prese con le quotidiane scaramucce da
villaggio, battaglie mai cruente o definitive, al più ossa rotte e occhi neri, contro gli immancabili
Romani. Buona vita Albert, ben oltre i tuoi 91.
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P R E M I O D I L E T T E R AT U R A AV V E N T U R O S A
premioemiliosalgari.it
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PAO L A I R E N E G A L L I M A S T R O D O N ATO
Jim Thompson:
un’America
in nero.
—
—
—
«Esistono trentadue modi
di scrivere una storia…
ma una sola trama: le cose
non sono quelle che sembrano».
—
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im Thompson nasce nel 1906 in un piccolo centro dell’Oklahoma, Anadarko, sede della frontiera “storica” nord-occidentale, da un padre che all’epoca svolge le mansioni di vice-sceriffo e
che poi intraprenderà vari mestieri, maestro, assicuratore, speculatore petrolifero, e infine morirà solo, in un ospizio. La madre, Birdie Myers, donna volitiva e istruita, avrà un ruolo determinante nella vita dello scrittore, condizionandolo nelle sue scelte di vita, ma aiutandolo agli esordi
quando Jim doveva preparare, in gran fretta, i racconti sensazionalistici per le riviste a grande diffusione che si occupavano di “fatti veri” di cronaca.
Jim cresce a Burwell, nel Nebraska, «una cittadina ostile dove vigeva la legge del pettegolezzo e del clan, dove tutti conoscono i fatti tuoi e si occupano di poco d’altro» (dall’autobiografia
Bad Boy, del 1953). In seguito, la famiglia, a cui si aggiunge la sorella Maxine, inizia un lungo pellegrinaggio attraverso il Texas che si concluderà nel 1919 quando approdano a Fort Worth, «uno
dei posti più desolati del mondo». Qui si compie una prima fase della sua vita, quando, a diciannove anni, dopo aver incontrato l’underworld equivoco di un grande albergo durante le sue mansioni di ragazzo tuttofare (universo crepuscolare che riprodurrà magistralmente nel romanzo A
Swell-Looking Babe, del 1954), si ritroverà alcoolizzato e drogato, affetto da tubercolosi e da ulcere
duodenali che lo tormenteranno fino alla fine.
Gli anni Venti, che culminano nella Grande Depressione, sono per Jim una vera scuola di
vita e l’inizio del suo percorso di scrittore. Durante i frequenti vagabondaggi da un campo petrolifero all’altro in cerca di lavoro occasionale come trivellatore, affina l’adozione di un punto di vista
particolare sulla realtà che lo circonda, quello delle comunità nomadi e democratiche degli hoboes
o tramps, i lavoratori stagionali politicamente organizzati all’interno del potente sindacato degli
Industrial Workers of the World, esponenti di un modo nuovo di essere americani. Il loro «allegro
cinismo, il loro disprezzo franco e diretto per tutte le convenzioni della società borghese, ivi inclusi le norme e i regolamenti mascherati sotto il nome della moralità, li rendono limpidi esempi
della dottrina iconoclasta del sindacalismo rivoluzionario», si leggeva in un loro volantino1.
Il contatto sempre più ravvicinato di Jim con le strutture e le sovrastrutture dello spietato capitalismo dell’Ovest, lo porteranno da un lato al suo crescente coinvolgimento con il Partito
Comunista e con l’esperimento del Federal Writers’ Project del 1936, dall’altro ad elaborare una poetica altrettanto dura ed impietosa del definitivo crollo del Sogno Americano e del suo corollario
più famoso, il Mito della Frontiera. Nel capitolo finale di un romanzo rimasto incompiuto, Always
to Be Blest, un disoccupato che vaga per le strade di un’inospitale e devastata città della Depressione, Lester Cummings, trova rifugio in una baracca per gli attrezzi dove, ridotto a un’esistenza
“bestiale”, incrocia il suo destino di perdente con quello di un grosso topo di fogna, un altro “animale” in competizione con lui. Abbandonando la tecnica del mero documentalismo realistico, di
chiara impronta naturalista, Jim adotta una scrittura sperimentale dell’esperienza allucinatoria,
la sola in grado di rendere in tutta la sua aberrazione il “crimine” dell’alienazione umana in senso
marxiano: è il punto di vista del ratto, nel momento di essere divorato da Cummings, che ci viene
narrato, così come più avanti, ormai delirante protagonista sdoppiato in due voci narranti, raccon1 Robert Polito, Savage Art: A Biography of Jim Thompson, London & New York, Vintage Books,
1996, [Jim Thompson: Una biografia selvaggia, Alet 2009], p. 119.
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LA B O RATO RI O
ta la propria morte “in diretta” dopo aver massacrato un agricoltore con la sua famiglia. La Terra
Promessa si è tramutata in una trappola infernale, gli spazi sconfinati sono diventati “pascoli di
cemento”, «tu continui ad andare avanti, ma è sempre lo stesso dappertutto. Dovunque tu sia stato, dovunque tu vada, dovunque tu guardi. Solo grigiore duro come la pietra, fino all’orizzonte»2.
Nel 1941 Jim, insieme alla moglie Alberta Hesse e ai tre figli, sbarca in California, a San
Diego, dove trova lavoro in una fabbrica di componenti per aerei, deciso a tentare la carta dello
scrittore. Salvo alcune puntate a New York, nel corso degli anni, per concordare la pubblicazione
dei suoi romanzi di maggiore successo presso l’editore Lion, Jim rimarrà sempre in zona, spegnendosi il 7 aprile 1977 in un modesto appartamentino alla periferia di Hollywood, stanco per
una serie di ictus che avevano definitivamente piegato la sua forte fibra e precluso la sua capacità
di scrivere. Le sue ceneri, come era suo volere, furono disperse nell’Oceano Pacifico. Di lui i critici
della Nouvelle Vague francese diranno che è stato «uno dei grandi scrittori americani del XX secolo» e «l’autore di romanzi polizieschi più nero, più amaro, più pessimista», la cui fama si deve
proprio all’inclusione nella celebre collana Série Noire3.
Con Nothing More than Murder,
del 1949, inizia la prima fase dei grandi
romanzi che renderanno Jim un autore
di best seller da settecentocinquantamila
copie alla volta. Troviamo al centro della vicenda la “coppia fatale” formata da
Joe Wilmot e Carol Farmer; il primo è un
uomo con “l’animo pietrificato” da una
vita da perdente (è un orfano sbattuto
da un riformatorio a una famiglia affidataria) e che sviluppa una personalità
psicopatica divisa tra ciò che è “dentro” e
ciò che è “fuori” di sé, con un io fragile e dilaniato dai sensi di colpa e dai sospetti nei confronti
della moglie, Elizabeth, donna ricca che egli ha sposato per interesse e che è proprietaria della
casa cinematografica che Joe gestisce con successo. Carol, studentessa tirocinante di economia,
diventa l’amante e la complice di Joe nel piano del finto omicidio organizzato insieme alla moglie per riscuotere l’assicurazione, piano che però fallisce; Carol è anche lei un “niente” che però
«vuole diventare qualcosa» a tutti i costi. Ritroveremo in The Getaway (1959), una coppia simile
anche se notevolmente più “nera”, quella formata da Doc McCoy e la moglie Carol.
Ma è con The Killer Inside Me (1952) e The Nothing Man (1954) che si precisa il quadro
della poetica thompsoniana. Il primo è stato definito da Stanley Kubrick (con il quale Jim ha
in comune i dialoghi e la sceneggiatura dei suoi due primi film, The Killing del 1956, e Paths of
Glory del 1957), «il racconto in prima persona di una mente distorta dal crimine più agghiac-
Con Nothing More than
Murder inizia la prima
fase dei grandi romanzi
che renderanno Jim un
autore di best seller da
750.000 copie alla volta.
2 Ivi, p. 372.
3 Ivi, p. 373.
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L ABOR ATOR IO
ciante pur essendo del tutto verosimile che io abbia mai incontrato»4.
Attraverso il personaggio di Lou Ford, vice-sceriffo di una piccola cittadina del Texas più
profondo, Central City, Jim abilmente disintegra la mitologia dell’America di provincia, e quindi
della “frontiera”: il poliziotto servizievole, il dottore gentile, il paesaggio libero e sconfinato. In realtà, i custodi della giustizia e della moralità pubblica sono dei sepolcri imbiancati, dietro la loro
apparente bonomia si nascondono dei depravati pronti a qualsiasi compromesso pur di non macchiare la propria “reputazione”. La sonnacchiosa cittadina di Pacific City, nella California meridionale, fa da scenario agli omicidi in serie
di un altro psicopatico, il reporter di un giornaletto di provincia, Clinton Brown, l’“uomo da
niente” evirato dallo scoppio di una mina durante la Seconda Guerra Mondiale. Come per
Lou Ford, attraverso il personaggio di Brown,
Jim stigmatizza l’immagine consolatoria della
tipica famiglia americana resa celebre, proprio
negli stessi anni, dalla sit com televisiva Father
Knows Best, dove, alle famiglie unite e ai genitori modello dei quartieri residenziali, Jim contrappone le sue storie di nuclei famigliari disgregati, padri violenti e corrotti, mogli soffocanti e deboli, mariti impotenti e alcolizzati. Come ha
osservato Stephen King, la narrativa di Jim non ha “paura” di mostrare il «sudiciume che talvolta
sale dalle fogne sommerse della coscienza sociale e dei normali rapporti umani»5.
Il personaggio del vice-sceriffo Nick Corey in quello che è forse il più bel romanzo di
Jim, Pop. 1280 (1964), accentua il “malessere” (la sickness di Lou Ford) che ormai irrimediabilmente separa l’individuo da ciò che lo circonda, un vero “mutante”6 frutto di qualcosa di tanto
orribile quanto impalpabile. Philippe Noiret ci consegnerà un’indimenticabile interpretazione
di Corey nella versione cinematografica di Bertrand Tavernier, Coup de torchon (Colpo di spugna, 1981), dove la cittadina sudista, Potts County, è trasposta nell’Africa coloniale francese
degli anni Trenta, mantenendo intatta la spietata metafora del potere come morbo che tutto
contagia e devasta.
Quando Jim arriva a
concepire The Getaway,
la sua arte è ormai
matura e può spiccare
il volo verso mete sino
ad allora impensabili.
Quando Jim arriva a concepire The Getaway, la sua arte è ormai matura e può spiccare il
volo verso mete sino ad allora impensabili. Nel 1970, Steve McQueen si innamorerà del romanzo a tal punto da imporlo a Sam Peckinpah che infatti lo realizzerà due anni dopo, consegnando
alla leggenda il personaggio di Doc McCoy e quello di Carol, interpretato da Ali McGraw. Curio-
4 Lucia Pirrone, “Una cirrosi dell’anima”: Il noir di Jim Thompson, tesi di laurea dattiloscritta in
Letteratura anglo-americana, Università della Basilicata, Potenza, a.a. 1998-99, relatore: professossa Paola Irene Galli Mastrodonato, p. 65.
5 Ivi, p. 49.
6 Polito, Savage Art…, cit., p. 452.
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LAB O RATO RI O
samente, nella versione italiana, il sottotitolo recita Una vita spericolata, quasi a voler rimandare
a un altro importante effetto di ricezione, la canzone del “nostro” Vasco Rossi che, per così dire,
rinnova la multimedialità del testo thompsoniano. Quello che è considerato il suo romanzo «più
sovversivo»7, adotta, diversamente dagli altri esaminati sinora, la terza persona, ma, nell’apparente maggiore distacco di una prosa fredda e scattante si cela in realtà un abisso di nerissima sofferenza, un pozzo senza fondo in cui la futilità Camusiana dell’esistenza umana precipita senza alcuna possibilità di salvezza. Nelle scene epidittiche dei nascondigli in cui vengono occultati Doc
e Carol da Ma’ Santis prima nella caverna sotto il pelo dell’acqua e poi sotto il mucchio di letame,
si ritrova la claustrofobia tipicamente “beckettiana”8 di un sistema ormai fine a se stesso, dove chi
è in fuga è l’esatto corrispettivo di chi insegue (il gangster deforme e amorale Rudy Torrento), chi
depreda verrà depredato, chi mangia verrà mangiato, in quell’ultima, terribile epifania nel “regno”
di El Rey in Messico dove Doc scopre che cosa significhi la frase enigmatica pronunciata da un
guardiano: «Quella puzza che riempiva l’aria. L’odore di carne arrostita e speziata… ‘Molto appropriato, eh señor? E una transizione così facile. Uno deve solo vivere letteralmente come ha sempre
fatto per modo di dire’». Il mito della frontiera come capacità di fuga dalle proprie contraddizioni
e rinascita possibile in un altrove rimodellato idealisticamente, ne esce definitivamente sconfitto,
annientato, laddove il passaggio in Messico rappresenta per Doc e Carol la consapevolezza della
propria fine, la loro ineluttabile dannazione di reietti, espulsi, fagocitati (cannibalizzati) dalla ferocia del sistema capitalistico.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
Lucia Pirrone, “Una cirrosi dell’anima”: Il noir di Jim Thompson. Tesi di Laurea dattiloscritta in Letteratura anglo-americana, Università della Basilicata, Potenza, a.a. 1998-99, Relatore: Prof.ssa
Paola Irene Galli Mastrodonato, pp. 146;
Robert Polito, Savage Art: A Biography of Jim Thompson, London & New York, Vintage Books, 1996,
543 pp. [Jim Thompson: Una biografia selvaggia, Padova, Alet 2009];
Jim Thompson, The Getaway, New York, Vintage Crime / Black Lizard, 1994;
Jim Thompson, Bad Boy, [Torino, Einaudi 2001];
Jim Thompson, Getaway. Fuggivano, si amavano, sparavano, uccidevano, Milano, Mondadori, 1972
[Il Giallo Mondadori, n. 1245, 10 dicembre 1972];
Sito web su Jim Thompson: www.sitocomunista.it/rossoegiallo/autori/thompson.html, 2018.
7 Ivi, p. 417.
8 Ivi, p. 420.
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T E ST IMO N IANZE
ARCHIVIO
Salgari e dintorni
sul settimanale
satirico
“Can da la Scala”.
Riproduciamo alcuni articoli apparsi sul “Can da la Scala” nel 1890 e conservati a lungo nei nostri
cassetti redazionali. Il primo (20 aprile 1890) riguarda lo spettacolo di Buffalo Bill svoltosi in Arena
nell’aprile di quell’anno. La cronaca è ovviamente ironica ma interessa per alcune righe che fanno riferimento a Emilio Salgari e a Giuseppe Biasioli e rivelano che sulla diligenza Deadwood, attaccata dai
pellirosse e salvata da cow-boys guidati dallo scout americano, era presente accanto allo scrittore un
altro redattore dell’“Arena”: tal Corridori. Gli altri due articoli (uno del “Can da la Scala” del 24 agosto
1890 e un altro de "Il Popolo", 31 agosto 1890) si riferiscono a una polemica tra Francesco Serravalli,
che portò in scena La Tigre della Malesia nell’agosto 1890, e il settimanale che, come sua consuetudine, sbeffeggiò lo spettacolo e l’autore del dramma teatrale tratto dall’appendice salgariana. L'accidioso
Serravalli evitò accuratamente di dire che il dramma non era certo farina del suo sacco e Salgari, per
quanto ci risulta, non intervenne nella polemica che coinvolgeva l’amico.
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A RC H I V IO
LA LETTERA DI UN AUTORE COMICO1
Anche da noi quel signore, a cui il Popolo attribuisce un giusto risentimento, ha scritto una lettera,
che qui pubblichiamo:
Carissimo Cane,
Siccome il Popolo, sia pel suo formato, sia per i vecchi rancori con l’arte e con la grammatica, non era
il giornale più adatto a ricevere mie comunicazioni complete sulle conseguenze della Tigre della Magnesia, così devo rivolgermi alla vostra cortesia per mandare al pubblico del Diurno una carezza e uno
schiaffo per l’accoglienza fatta alla mia ultima Magnesia.
Ringrazio pure la distinta comp[agnia] Benini-Sambo che, esaudendo il desiderio del corrispondente
veronese del Piccolo Faust di Bologna, rappresentò il mio dramma con impegno, se non forse con intelligenza e con entusiasmo, convalidandomi così quel successo a cui accennerò più avanti parlando
di filodrammatici.
Nei primordi della carriera, quando l’autore si presenta alla ribalta tremante, pallidissimo, un fitto
velo gli si para davanti agli occhi in modo da non distinguere più le persone che gli stanno dianzi in
teatro. Oggi per me non è più così. Io non sono un novellino, ma un provetto. Ho riportato trionfi con I
misteri dell’India, coll’Adriana, e con la Povera mamma, poveretta! Conosco il palcoscenico non solo
del Diurno, ma di teatri di maggior importanza, come il Diurno di Mantova e di altre città primarie,
escluse soltanto Roma, Napoli, Firenze, Torino, Bologna, Genova, Venezia, Palermo, ecc. ecc. Sono
dunque un autore vero, un commediografo in tutte le regole, tradotto anche se l’Arena è bene informata, in tedesco, per cui adesso quando si adempie al dovere di chiamarmi al proscenio, mi è dato di
vedere ben bene in faccia il mio pubblico.
Fra questo, buono e generoso specialmente nel novero dei ragazzi, vidi lunedì, [seconda] della Magnesia, delle facce arcigne (forse di persone che non avevano pranzato) anche parecchi membri disgraziati
di società filodrammatiche delle quali sono stato forse presidente o istruttore, e anche amici, i quali per
progetto, di non so quale stupida vendetta, zittivano gli artisti e me autore.
Zittivano! Avete capito?... Ma si può dare una cosa più orribile e fuori del naturale? Che ho fatto io a
quei messeri? Dove e quando li ho offesi? E, se non me, chi volevano dunque colpire coi loro zittii? Non
certo il macchinista, perché anzi fu applaudito calorosamente e senza contrasti.
Resterebbe la supposizione che zittissero perché ad essi il mio dramma non piaceva, ma questo non è
possibile, per cui tiriamo innanzi. Infatti le persone dabbene, gli onesti, i gentiluomini, che avevano
capito il giuoco degli altri, applaudirono maggiormente con mani grida e bastoni, procurandomi così
«il piacere sommo del trionfo». E trionfo meritato, perché sfido Dumas e Sardou a fare in una o due
settimane de’ lavori come i miei, d’effetto sicuro, interessanti e palpitanti. E tutto questo senza sciocchezze di caratteri, di analisi, di verosimiglianza, di giusta sceneggiatura, di forma, insomma di arte.
La ricetta è mia, e non falla. Prendo un uomo il quale ama una donna, la quale lo odia. Questa ama
un altro, il quale la riama, e così nascono qua e là dei duetti. Ma c’è un vecchio, o padre o zio o nonno
1 La lettera di un autore comico, “Can da la Scala”, n. 16, 20 aprile 1890.
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ARC HIVIO
della donna, che non permette che i due colombi si amino. Allora scappano, vanno lontano dai pericoli,
e io riunisco gli amanti tanto bene che è un miracolo. Un matrimonio e, occorrendo, anche una benedizione mettono fine al dramma.
Non faccio rimproveri, né pubblico i nomi dei messeri zittanti, perché ho pietà di loro, ma a tutti mando
il mio cartello di sfida!... Artistica, ben inteso!...
Facciano essi altrettanto, compongano dei Misteri e delle Magnesie, e poi discorreremo. Per intanto, se
anche non mi ammirano, ci sono sempre io.
Vi saluto e grazie.
Vostro F. SERRAVALLI
Per copia conforme
Can-Can
—
AL SIG. P.E. FRANCESCONI. LETTERA APERTA.
Non al regio impiegato all’Intendenza di Finanza; non allo stipendiato dal Governo; non al redattore
dell’Adige, né al direttore del Can da la Scala e di altri periodici elettorali più o meno democratici, ma
al Sig. Pier Emilio Francesconi, perla degli ingegni, dovrei dire molte cose, non esclusa quella di terminarla, una buona volta, con questo rompere le scattole alla gente che di lui cura come il primo ciuco che
raglia per strada; e ciò a proposito della famosa lettera apocrifa e maligna comparsa sul suo giornale
di Domenica scorsa sotto il titolo di “Lettera di un autore comico” nella quale si usò della mia firma.
Ma siccome non posso competere colla sua musa divina, siccome un pezzente come me non può polemizzare con la fenice dei giornalisti e dei letterati — a un tanto il verso — siccome io, che sono un certo
tale, non posso mettermi al paro con lei, famoso in arte, in letteratura, in poesia, nonché in prosa!.. del
resto molto prosaica! — così mi limito a darle un semplice avvertimento: procuri dunque di scrivere
con maggior cautela di persone, come me, le quali non hanno nessuna voglia di scherzare, e si limiti a
guadagnare i suoi tre stipendi — uso democratico oramai invalso — con mezzi meno spavaldi e meno
urtanti di quelli che lei adopera certe volte pei giornali, ove sfoga i suoi rancori, le sue rabbie o non
saprei che altro.
È ora di finirla, però, con codeste armi schifose le quali, celate sotto la maschera dell’umorismo di rapa
sono affilate per denigrare la fama di color, i quali col sudore della fronte e collo strazio del cervello
cercano di guadagnarsi di che vivere ONESTAMENTE!...
È ora di finirla colle chiesuole e colla prepotenza!
E badi bene, signor Francesconi, badi bene, perché non sempre troverà delle persone che si limitano a
scriverle delle lettere aperte! No, perché quando la legge non può colpire i seccatori, i prepotenti, i boriosi, le persone seccate da questi genii buffoni, usano altri mezzi, più persuasivi, più pratici e meno noiosi. Il pubblico ha troppo buon senso per non capire certe cose e quindi poco m’importa se lei e l’Adige
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A RC H I V IO
non diranno più che un mio lavoro ha avuto o meno buon esito.
Il pubblico, ripeto, ne ha avuto abbastanza colla questione Adige-Rovato, ed ha visto fino a qual punto
arrivino la coerenza e la imparzialità di certi giornali e giornalsti.
E non venga a parlarmi di arte, di grammatica o di questo Popolo a cui io ricorro, perché Io Le risponderò che la miglior cosa, la più buona, la più onesta per un pubblicista, è quella di dire sempre la verità;
faccia dunque ciò anche lei e se, non so per qual motivo, intende scaraventare su me i suoi fulmini, La
si diverta ché io non temerò mai i maligni,
E con questo, saluto caramente lei ed il suo Cane, di cui La tengo degnissimo direttore.
Verona, 25 agosto 1890
Francesco Serravalli2
—
BUFFALO-BILL A VERONA3
Ci dicono che Buffalo-Bill è rimasto poco soddisfatto del pubblico veronese.
Se è vero non fece che contraccambiare il generale sentimento che i veronesi provarono per le sue rappresentazioni. In noi che amiamo l’arte e la letteratura, infusero anche una più grande amarezza. Temiamo purtroppo che dora in poi I Misteri dell’India di Serravalli con la indimenticabile faccia strangolatrice di Suyadama e i fremiti ringhiosi di Frenet-Naick, non possano più resistere in scena, e che i
romanzi sulle varie Tigri di Salgari comincino a diventare un anacronismo.
Infatti che differenza, sia per la tranquillità sia pel costume, può rilevarsi fra un macinatore di terre coloranti sui nostri molini dell’Adige, e i vari tipi del grande Ovest che non abbiamo ammirato in Arena?
Il poco effetto che ha destato la carovana indiana dipende da un’altra circostanza di indole locale.
Qui non poteva infondere nessuna curiosità.
Ce ne sono fra noi che fanno l’indiano!...
Guai se tutti avessero dovuto scendere dai gradini dell’Arena e mettersi ai comandi di Cuor Nero, Orso
Valente, Corno d’Aquilio, Piede Bruciato, e delle altre celebrità del mondo che guidavano i cow-boys e
gli Indiani Brulè! Se la discesa non avvenne fu perché anche il pubblico ha fatto l’Indiano.
Approfondendoci in queste considerazioni, non sarebbe difficile il concludere che i meno indiani fra la
gente raccolta in Arena erano quelli del grande Ovest degli Stati Uniti d’America. La parte spettacolosa delle rappresentazioni la abbiamo ammirata nel programma che si distribuiva gratis.
Una Nota Importante avvertiva che «lo spettatore deve figurarsi di essere nel paese dove accaddero
le scene e gli incidenti rappresentati, e deve comprendere che i tipi veri e genuini sono a lui presenti.
Cosicché la fatica maggiore, anzi tutta la fatica dello spettacolo, è toccata al pubblico pagante.
Egli guardando l’Arena, ha dovuto figurarsi di essere in quel paese; e Buffalo-Bill gentilmente – per
2 Francesco Serravalli, Al sig. P. E. Francesconi, Lettera aperta, "Il Popolo", 31 agosto 1890.
3 Il Sottoscala, Buffalo-Bill a Verona, “Can da la Scala”, n. 16, 20 aprile 1890.
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ARC HIVIO
non fare un torto all’immaginativa degli spettatori, — ha lasciato l’anfiteatro romano nudo e crudo;
poi ha fatto sfilare ed agire un centinajo scarso di uomini, irriconoscibili quasi tutti, perché dipinti, e il
pubblico ha dovuto comprendere che i tipi erano quelli veri e genuini di questo paese.
Gli scrupoli di Buffalo-Bill per lusingare la fantasia veronese arrivarono a questo punto. Un indiano,
accovacciato in mezzo all’Arena, da sé solo doveva rappresentare un villaggio della frontiera. Come
ciò fosse poco, l’indiano — ligio alla consegna e agli scrupoli di Buffalo-Bill — nel coricarsi per terra,
fece il possibile per nascondere agli spettatori quel paese unico che non aveva potuto lasciare nel grande
Ovest degli Stati Uniti.
Un esperimento ben riuscito fu quello del tiro. Johnnie Baker, Daly, Buffalo-Bill e la graziosa Annie
Oakley, celebre tiratrice al volo, hanno colpito in aria una quantità di palle di vetro dette in indiano
bale. Crediamo bene che la Compagnia Americana non vorrà darci ad intendere di aver trasportato a
Verona — poiché tuto il pubblico si accorse che le bale buttate in aria appartenevano al grande deposito dovuto alla precedente Giunta Comunale e al Comitato dei Radicali all’epoca delle elezioni amministrative. L’Adige, lodando l’abilità della simpatica Oackley, crede che se invece di palle fossero stati
uccelli, li avrebbe presi ugualmente.
Noi distinguiamo.
Quando mirava di fronte, sì; ma quando tirava per di dietro con lo specchietto in mano, non ci pare
possibile — perché il volo dell’uccello è molto più irregolare del getto di una palla.
Ha fatto molta impressione l’abilità dimostrata dai cow-boys nell’ammaestrare da indomabili i cavalli buking.
Il pubblico non se n’è accorto. Ma un cavallo veramente indomabile c’era. Lo aveva imprestato graziosamente l’avvocato Emanuele Cuzzeri nella speranza che i cow-boys lo ammaestrassero in modo
diverso di prima. Ma sia l’intelligenza del cavallo, sia l’abilità dell’antecedente sportman, il fatto si è
che davanti alla porta d’uscita dell’anfiteatro, il cavallo si diede a corsa sfrenata compromettendo il
tendone di difesa che era stato messo per barriera dalla Compagnia Americana.
Per fortuna di Cuzzeri, nessun guasto al tendone.
Quel che ha fatto colpo fu il coraggio dimostrato da Corridori e da Salgari dell’Arena nel mettersi in
diligenza o nello storico veicolo old Deadwood coach attaccato dagli indiani e difeso dai cow-boys
di Buffalo-Bill.
Il fatto ha prodotto vari commenti.
Alcuni opinavano che Corridori e Salgari si fossero messi in diligenza per imparare ad usarla in Cronaca; altri sostenevano che i due redattori si fossero introdotti nella mischia per vedere se fosse stato
possibile il verificare finalmente un vero fatto di sangue in realtà avvenuto. Chi ha visto di mal occhio
questa faccenda fu Biasioli dell’Adige, il quale finse di non vedere e non accennò al fatto sul proprio
giornale, per non fare della rèclame al nome e cognome dei due emuli.
Quando il pubblico uscì dall’Arena, non avendo più il bisogno né del Programma, né di dover figurarsi quel paese perché lo spettacolo era finito, ha dovuto comprendere che era giusto ed equo mandare a
quel paese Buffalo-Bill con tuta la sua Buffolonata.
Il Sottoscala
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A EST
T
RC HIIMO
V ION I AN Z E
CLAUDIO GALLO & GIUSEPPE BONOMI
Giuseppe Biasioli:
giornalista,
duellante e amico
di Salgari.
—
—
Una foto preziosa, incastonata nella
leggenda salgariana affidataci da
Giuseppe Turcato, veneziano, maggior
studioso salgariano del secondo
Novecento, rimasta custodita a lungo
nel nostro scrittoio.
—
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STU DI
E
ssa eterna un gruppo di numerosi uomini, tranne quattro giovinetti e giovinette: sul retro, a matita, il nome Biasioli. Quasi tutti gli adulti raffigurati hanno un foglietto infilato
nel nastro del cappello come usavano i giornalisti del tempo. Chi di loro è Biasioli? Ci
soccorre la testimonianza del ciclista veronese Tullio Secondo che, frequentati Salgari e Biasioli, lo ricordava «per la sua particolare andatura, piuttosto claudicante, in quanto aveva la gamba
sinistra come rattrappita», il che confermato poi da un suo lontano discendente. Turcato non
aveva bisogno di indicare chi fosse Biasioli: era l’unico adulto seduto. Giuseppe Biasioli, l’uomo che sfidò a duello Emilio Salgari, aveva difficoltà a muoversi e a rimanere in piedi a lungo.
Del leggendario scontro al Chievo resta ben poco. Come poteva, claudicante, competere con
uno schermidore già distintosi in alcune gare tra dilettanti? Non poteva! Ciò spiega la ritrosia
di Salgari a misurarsi sul campo, e soprattutto l’abbandono dell’attività agonistica dopo quel
combattimento. Non un rodomonte, non uno spadaccino altezzoso, ma Salgari umanissimo,
per nulla orgoglioso di quell’inutile prova.
Guerra tra giornali
Negli anni Ottanta dell’Ottocento la lotta tra i diversi schieramenti politici cittadini e l’intensificarti della guerra commerciale tra le diverse testate presenti in Verona provocarono conflitti,
vertenze, denunce e relative cause giudiziarie, e purtroppo anche a duelli. Questi ultimi, forse,
terminarono solo all’inizio del secolo dopo la morte di Antonio Mantovani, direttore dell’”Arena”, in conseguenza delle ferite riportate duellando con Luigi Bellini, direttore dell’”Adige”, nel
settembre 19041.
In una situazione molto tesa i quotidiani liberal-monarchici (l’”Arena” e la più moderata
“La Nuova Arena”) polemizzavano spesso con il radicaleggiante “L’Adige” diretto da Luigi Dobrilla. In questo contesto, il tenzone tra il giovane Emilio Salgari, cronista dell’“Arena”, e Giuseppe
1 Duello Mantovani-Bellini, “Arena”, 7–8 settembre 1904; Antonio Mantovani è morto, “Arena”, 3031 ottobre 1904.
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STU D I
Biasioli, pubblicista dell’”Adige”, è da tempo entrato a far parte della vita leggendaria dello scrittore. Le controversie tra il dinamico Salgari e la redazione dell’”Adige” erano iniziate fin da quando
muoveva ancora i suoi primi passi giornalistici alla corte di Ruggero Giannelli2. Ricordiamo sommariamente alcuni episodi, segnalando che possono essere rintracciati con dovizia di particolari
nella biografia da noi pubblicata per la BUR Rizzoli3.
Tutto sembrò prendere avvio da
una passeggiata di ginnastica da Verona
a San Pietro Incariano organizzata dall’Istituzione e dalla Società Bentegodi alla
quale parteciparono ben quarantacinque
atleti. Il resoconto è attribuibile a Emilio
Salgari4: «il nostro redattore dunque, di cui
conosciamo l’ingegno e il carattere, sentito che nella festa qualcuno avrebbe voluto
sputar sentenze di politica e far del chiasso, colla scusa di inneggiare a Garibaldi e
ad Oberdank, disse chiaro che con la festa
tutto ciò non avea punto che vedere, e pregò che non se ne facesse nulla».
Alla cena conclusiva «un giovinotto, che si disse rappresentante dell’Adige, saltò su a dire
che si doveva onorare Garibaldi il redentore dei popoli ecc. e cominciò a gridare Viva Garibaldi!
Il nostro redattore con piglio fermo si levò in piedi per far zittire il giovanotto, per far intendere a
tutti che nella festa non dovea punto entrare la politica. Piccolezze, che fanno vedere sempre più
che dalla ginnastica si voleva pigliar pretesto per far della politica inopportuna!»5.
Poco meno di un anno più tardi Salgari, che nel frattempo si era trasferito all’”Arena”, tornò a scontrarsi con i redattori dell’”Adige”: ancora una volta la ginnastica era al centro della contesa al termine di una passeggiata che aveva condotto gli atleti della Bentegodi a Illasi. La giornata
fu turbata da un incidente: un ginnasta della Bentegodi fu aggredito da quelli della società rivale:
la Margherita. Salgari denunciò il fatto alimentando la polemica tra i due quotidiani6. Nel suo pro-
Tutto sembrò prendere
avvio da una passeggiata
di ginnastica da Verona
a San Pietro Incariano
organizzata dall’Istituzione
e dalla Società Bentegodi.
2 Sulle tracce dei precedenti conflitti tra Salgari e l’”Adige” si segnala la lettera al direttore dell’”Arena”, Giovanni Antonio Aymo, dove Salgari asseriva che «da vario tempo i reporters dell’“Adige”
lo punzecchiavano con allusioni, con scherzi di cattivo genere». L’affermazione non era infondata, e aveva più di una relazione con la rubrica Fatti spiccioli dell’“Adige”, curata da Biasioli che lo
prendeva di mira (Emilio Salgari, Le cose a posto, “Arena”, 22 settembre 1885).
3 Questi e i successivi in Claudio Gallo, Giuseppe Bonomi, Emilio Salgari, la macchina dei sogni,
Milano, BUR Rizzoli, 2011.
4 La passeggiata di ginnastica a San Pietro Incariano, “La Nuova Arena”, 16 giugno 1884.
5 Politica e ginnastica, “La Nuova Arena”, 1 giugno 1884. Il protrarsi della polemica obbligò la
“Nuova Arena” a fare il nome di Salgari (Politica e ginnastica, “La Nuova Arena”, 18 giugno 1884).
6 [Emilio Salgari] La passeggiata ginnastica ad Illasi, “Arena”, 18-19 maggio 1885; [Salgari], I ginnasti della Società Margherita aggrediscono un ginnasta della Istituzione Bentegodi, “Arena”
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STU DI
sieguo Aymo invitò Salgari a contenersi: «Raccomandammo al Salgari di fare semplicemente della cronaca, di narrare esclusivamente senza permettersi apprezzamenti, e di più, quando le bozze
di stampa ci furono portate dalla tipografia, noi stessi correggemmo, modificammo il racconto e
sopprimemmo tutti i nomi».7
Non sappiamo se Biasioli avesse a che fare con questi precedenti, è ragionevole sospettarlo poiché all’ “Adige”, dove Biasioli era arrivato nel 1885, la sua rubrica, Fatti spiccioli, era iniziata
ufficialmente il 12 maggio, ma era già presente
sin dai primi giorni del mese.
Sarebbe ozioso scandagliare le giornaliere contese tra i quotidiani cittadini ed elencare le occasioni in cui Salgari e Biasioli fanno
capolino. Molto è stato scritto intorno al duello
tra il popolare scrittore d’avventure e Giuseppe
Biasioli, ma pochi hanno svolto indagini su di
lui. Una lacuna che vogliamo colmare.
Giuseppe Biasioli era coetaneo di Salgari, essendo nato a Verona il 29 marzo 1862
da Francesco e Tinazzo Carlotta. Il nonno, Gaetano, «cittadino probo, integerrimo, agricoltore intelligente ed attivissimo» era stato per alcuni
anni consigliere comunale a Castel D’Azzano dove evidentemente la famiglia aveva delle proprietà. Giuseppe Biasioli aveva alloggiato sempre nel cuore della città scaligera: via S. Giacomo,
alla Pigna n. 3 (al censimento, Via Barchetta n. 9, Via Pallone, n. 16 (dall’agosto 1879), Lungadige
Sammicheli 23, Interrato Acqua Morta, 3 (maggio 1910). Viveva, dunque, negli stessi luoghi di
Salgari e, assai probabilmente, aveva gli stessi sogni, le stesse ambizioni, ma un talento inferiore a
quello del popolare narratore d’avventure. Tra il 1884 e il 1885 aveva iniziato a lavorare con l’”Adige”8 e a partire dall’inizio di maggio è possibile segnalare la sua presenza in redazione.
Sul giornale, infatti, apparve una rubrica senza nome che, nel giro di pochi giorni, assunse il titolo di Fatti spiccioli. Si trattava di rapidi ed efficaci ritratti, piccole risposte ai lettori,
commenti della vita cittadina e di avvenimenti teatrali. La rubrica, disincantata e ironica, in
genere non faceva il nome dei personaggi oggetto delle beffarde critiche. Così iniziò la contesa
con Salgari che millantava essere un capitano di gran cabotaggio e di aver navigato per mari e
oceani: «“Capitano di mare” ?! Mozzo, vorrete dire poiché‚ io l’ho conosciuto in una città marittima quando in tale sua qualità si sarà pigliati probabilmente i calci ed i ceffoni dei marinai. Oh
Molto è stato scritto
intorno al duello tra
il popolare scrittore
d’avventure e Giuseppe
Biasioli, ma pochi hanno
svolto indagini su di lui.
18-19 maggio 1885; l’appunto finale è evidentemente di Giovanni Antonio Aymo.
7 [Giovanni Antonio Aymo], Fra “Margherita” e “Bentegodi”, “Arena”, 19–20 maggio 1885.
8 La notizia si ricava da un trafiletto dell’“Arena”: «GIUSEPPE BIASIOLI da sei anni attivo ed intelligente cronista dell’Adige, col numero di ieri se ne è separato. Il giornalismo Veronese perde nel
Biasioli, un elemento buono, onesto e valente. A lui i migliori nostri auguri» (Giuseppe Biasioli,
“Arena”, 4-5 dicembre 1891).
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STU D I
bella! e lui dà da bere che... ah! oh mica merlo il microscopico reporter»9.
Biasioli non nascondeva ambizioni culturali. Aveva scritto dei racconti scapigliati per la
“Ronda”, la più bella rivista letteraria nella Verona dell’Ottocento. La rubrichetta dell’“Adige” era
un’ironica, divertente, attenta, critica della vita civile. Solo il caso e la rivalità tra le due testate
faranno incrociare la sua lama con quella di Salgari. Biasioli è stato presentato come nemico di
Salgari, ma in effetti non lo era. Lasciato l’”Adige” si trasferì alla “Gazzetta di Mantova”: «Giuseppe Biasioli l’egregio nostro collega fino a pochi giorni addietro cronista dell’Adige, passa redattore all’ottima Gazzetta di Mantova. Auguri affettuosi all’ottimo e bravo collega, e congratulazioni
all’egregio amico Luzio per l’eccellente acquisto»10. Nel maggio 1892, dopo un “esilio” tra Mantova e Venezia, entrò nella redazione dell’”Arena”11. Nutriamo il sospetto che l’attenzione riservata
dall’”Arena” al Biasioli, sottolineata da affettuosi attestati di stima, non fosse disinteressata. Abbiamo l’impressione che i movimenti effettuati (due cambiamenti di testata in soli cinque mesi)
mirassero al trasferimento nella redazione dell’”Arena” che, per opportunità politica, non poteva
essere raggiunto attraverso un passaggio diretto»12.
E dunque all’“Arena”
Giuseppe Biasioli lavorò accanto a Salgari per alcuni mesi, fino al dicembre del 1893, quando il
“rivale” si trasferì a Torino per dedicarsi alla scrittura di avventure. È impensabile che Antonio
Aymo fosse ricorso a lui, un tempo irriducibile avversario del suo prezioso collaboratore, senza
prima aver sentito Salgari; o quantomeno, senza tenere conto che i due si erano, nel 1885, sfidati
a duello. Alcuni piccoli indizi ci fanno ritenere che Biasioli e Salgari avessero superato i dissidi e,
stando alla testimonianza di Tullio Secondo, fossero diventati buoni amici ben prima dell’assunzione di Biasioli all’ “Arena”. Scrive Tullio Secondo:
In quegli anni, verso il 1890, il Salgari veniva spesso, durante la buona stagione, a
salutarci al caffé Europa, in Piazza Bra (allora Vittorio Emanuele) si sedeva con noi
all’aperto. La nostra compagnia era formata dagli amici del gruppo Ciclistico e da
quelli della Filodrammatica: gli stessi che frequentavano la famiglia Sentieri. Anche il
9 Giuseppe Biasioli, Fatti spiccioli, “L’Adige”, 20 settembre 1885.
10 Giuseppe Biasioli, “Arena” 17–18 dicembre 1891.
11 «Oggi entra a far parte della famiglia dell’Arena il signor Giuseppe Biasioli. Noi lo presentiamo
con amicizia e simpatia al nostro pubblico, che del resto già lo conosce e lo apprezza» (Giuseppe
Biasioli, “Arena”, 17 maggio 1892)
12 «Dalla Venezia del 3/4 leggiamo il seguente trafiletto: L’egregio pubblicista Giuseppe Biasioli
che da poco tempo era passato all’Adige di Verona alla Gazzetta di Mantova, torna nella città
degli scaligeri e s’installa quale redattore capo della redazione dell’Arena che è sempre diretta
dal valente chiaro amico G.A. Aymo. Congratulazioni. E ci congratuliamo noi pure col vigoroso
pubblicista Biasioli, già operoso collega nostro; colla consorella Arena, la quale ha acquistato
un redattore-capo, che è un vero atleta del giornalismo, ed anche col collega Aymo, il quale ora
potrà dormire i suoi sonni tranquilli e permettersi, più che non abbia potuto fare per il passato,
delle passeggiate e delle permanenze alla sua — lui fortunato — amena villa alla Biondella».
(“L’Adige”, 4 aprile 1892).
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STU DI
giornalista Biasioli veniva con noi […]. Il Biasioli era persona antipatica, che nel fondo era un buon giovane, anche se i suoi atteggiamenti qualche anno prima, all’epoca
del duello con il Salgari, non ci erano piaciuti.
Il Biasioli portava gli occhiali e qualche volta la caramella e quest’ultimo particolare
poteva rendere qualche espressione del suo viso non del tutto gradevole.
Secondo miei ricordi di allora e le confidenze degli amici si afferma, per quanto riguarda il Salgari e il Biasioli, che erano arrivati al duello spinti dalla passione polemica che contrapponeva “L’Arena” a “L’Adige” e che ebbe momenti di aspra lotta. Pertanto il duello va inquadrato in questa rivalità fra i nostri due giornali locali.
Erano bei momenti allora! ricordo le nostre feste da ballo alle quali partecipavano
tutti gli amici dei due gruppi che venivano organizzati proprio da uno di questi e precisamente dai ciclisti della nostra Società Cairoli, feste che si svolgevano nei Saloni di
Palazzo Orti-Manara.
Posso dire che ci si vedeva tutti con amicizia e con simpatia e che gli screzi e le dispute
del passato erano dimenticati13.
Tullio Secondo, nato a Verona nel 1874, visse assai a lungo, nel 1967 aveva 93 anni ma la
sua scrittura è ferma e precisa così come i suoi ricordi che, seppure con qualche comprensibile
scarto temporale, sono da ritenersi, dopo attenti riscontri, attendibili14, così come asseriva Turcato. Non sappiamo, ovviamente, quando Salgari e Biasioli si incontrarono per la prima volta, non
è da escludere che si conoscessero già dall’infanzia, certo dopo il ritorno del Salgari a Verona non
poterono più ignorarsi. Mentre questi si catapultava nell’allegra redazione della “Nuova Arena”,
giornale moderato e monarchico, Biasioli iniziava a collaborare all’”Adige”, quotidiano di orientamento radicale. I fogli erano, dunque, schierati su fronti contrapposti. In questo ambiente nacque
il surreale duello di cui lo scrittore ne fu consapevole. Per questa ragione abbandonò la scherma
e divenne un buon amico di Giuseppe Biasioli.
13 Testimonianza raccolta da Giuseppe Turcato alla presenza del sig. Roberto Tavera. Vedi: Appunti
sul colloquio col comm. Tullio Secondo a Verona il 30 novembre 1967, dattiloscritto, Fondo Turcato, corrispondenza Turcato-Secondo, Biblioteca Civica di Verona, in Viva Salgari! Testimonianze
e memorie raccolte da Giuseppe Turcato, a cura di Claudio Gallo, Reggio Emilia, Aliberti, 2006.
14 «Il Comm. Secondo è stato uno dei più forti corridori ciclisti italiani nel periodo 1890-1896. È
il più anziano corridore automobilista vivente. In una gara di “dirigibilità”, disputata a Verona
nel 1899, si classificò terzo su mototriciclo “Prinetti e Stucchi”. Suo padre, di ritorno dall’Esposizione di Parigi gli regalò una bellissima bicicletta. Fu protagonista della Bologna- Milano nel
1894, del campionato Veneto del 1895. Conquistò una medaglia d’oro in una gara di regolarità
automobilistica promossa dal Comune nel 1899 (In dieci fratelli 811 anni: il compleanno del più
anziano, “L’Arena”, 25 novembre 1966) In un’altra lettera a Turcato, Secondo sostiene che Biasioli
«È stato mio amico e conoscente perché‚ era della nostra compagnia con l’Ing. Gallizioli Nemo
(Guglielmo) ed altri» (lettera a Giuseppe Turcato del 29 dicembre 1965 conservata nell’omonimo
fondo della Biblioteca Civica di Verona)
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N I CO L A R U F F O
Il mar di Liguria
e le cime innevate
del Montana.
I N T E R V I S TA CO N G I A N C A R L O B E R A R D I
I
Il fragore del mare di Nervi, a Genova, con le onde che si infrangono con violenza sugli scogli
e il vento che scompiglia i capelli e li odora di salsedine, non ricorda certo i silenzi delle cime
innevate del Montana. Nemmeno le palazzine, alte e strette per l’esiguità di spazio, addossate
le une alle altre, tra viottoli, auto parcheggiate in ogni anfratto possibile e bar pieni di gente, suggeriscono le distese boscose dello Stato americano. Caso mai, le colorate case, sorridenti e ornate
di fiori, possono rispecchiare – parzialmente – Garden City, l’immaginaria cittadina dove vive
Julia Kendall, la criminologa nata dalla fantasia di Giancarlo Berardi. Difficile pensare che questo quartiere possa ispirare i maestosi scenari di conifere, betulle e pini dove l’autore genovese
ha ambientato le storie della sua prima creatura più famosa: Ken Parker. Forse, come per tutti i
grandi narratori, le dimensioni dell’avventura nascono dal profondo del proprio animo, senza la
necessità di averle percorse fisicamente. Salgari docet!
In una calda mattina di luglio ci accoglie, mia moglie e io, nel suo ordinatissimo studio.
La prima cosa che salta all’occhio sono i libri: un’intera sezione della sua fornitissima biblioteca è
dedicata al western, soprattutto alla storia degli indiani d’America; una seconda, come intuibile, è
riservata alla criminologia e al romanzo noir. È signorile, pacato, dai modi raffinati, gentile e accogliente, i baffetti grigi, sorridente… Tutto predispone al dialogo e all’ascolto. Il suo studio gode
dell’impagabile orizzonte blu del mare; dietro alla casa passa discreta una crêuza. Ricorda quelle
che Fabrizio De Andrè canta nel suo undicesimo album: Crêuza de mä.
Note biografiche: Giancarlo Berardi, nasce a Genova nel 1949. Ragazzo, mostra versalità
in ambito artistico, musicista, cantante, disegnatore, scrittore, attore commediografo, sceneggiatore di fumetti… Nei primi anni Settanta, collabora con diverse case editrici, fra cui lo Studio Bierreci di Luciano Bottaro, la Cenisio (con storie di Tarzan) e la Mondadori per “Topolino”. Scrive
soggetti per “Diabolik”. La tesi di laurea in lingue straniere, conseguita nel 1975, esamina la sociologia del romanzo poliziesco, ponendo le basi di quel background culturale tornato utile per Julia.
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ILCORSARONERO 26
INTERVISTA
Il fortunato sodalizio con Ivo Milazzo alle Magistrali, porterà alla nascita di Ken Parker, edito da
Bonelli, segnando una svolta non solo nel genere western, ma nel fumetto italiano, scrive inoltre
soggetti per “Il Piccolo Ranger”, “Tex” e “Nick Raider”. Per le Edizioni Paoline, crea, nel 1976, Tiki,
indio amazzonico le cui storie vengono pubblicate su “Il Giornalino”. Con altri editori, fra cui
Luigi Bernardi (“Orient Express”) e Rinaldo Traini (“Comic Art”), scrive altre saghe di notevole
rilievo: Welcome to Springville, Marvin il detective, Tom’s Bar, Giuli Bai & Co… Nel 1998 si lancia
in una nuova avventura editoriale dando vita alla sua seconda creatura più famosa: l’affascinante
criminologa Julia Kendall, con le fattezze di Audrey Hepburn. La serie ha superato il duecentesimo numero e continua a riscuotere successo, soprattutto tra il pubblico femminile, caso più unico
che raro nel mondo dei comics.
Parlare della genesi di Ken Parker significa parlare di Berardi, giusto?
Siamo cresciuti insieme. Il cammino di Ken è parallelo alla mia vita: lui ha fatto da specchio
a me e io a lui. Ken nasce da un ragazzo irrequieto che ha vissuto il ’68, e che poi ha subito
la delusione di vederlo diventare qualcosa di molto diverso da quello che auspicava; alcuni
miei compagni del Movimento Studentesco sono entrati nelle Brigate Rosse, purtroppo.
Gli anziani della Sinistra ci giudicavano con sufficienza, ci snobbavano; avevano fatto la
Resistenza, quindi, per loro, eravamo dei ragazzetti viziati, quelli che oggi vengono definiti “bamboccioni”. Eppure anche noi, per affermare il nostro ideale di un mondo nuovo,
più giusto e paritario, eravamo scesi in piazza, avevamo affrontato gli agguati dei fascisti,
le cariche della polizia – sono anche finito dentro – avevamo le idee chiare, sapevamo cosa
volevamo e per cosa lottavamo. Il sistema, la politica, la finanza, ci hanno scippato la nostra
rivoluzione pacifica. Ken nasce da quella delusione e da quella rabbia che mi ha accompagnato fin da giovane. Ho capito allora che i valori bisogna cercarli dentro di sé, non nella
società, non in un partito, non in un’ideologia. Ken ne è il risultato. Da cacciatore senza
alcuna cultura, scopre la letteratura e comincia a leggere, appassionandosi sempre più. Incontra le opere di Shakespeare e finisce per recitarlo a teatro; a un certo punto diventa lui
stesso scrittore, narrando le proprie avventure, più o meno realistiche, sulla scia delle famose dime novels. Lungo Fucile comprende che la via da seguire è quella della conoscenza.
Chi sa può parlare con cognizione di causa, ha strumenti per riflettere, capire, e soprattutto
scegliere. La vera rivoluzione non è nelle armi, ma nelle idee. La cultura è fondamentale, l’antidoto contro ogni forma di intolleranza e di razzismo. Attualmente, però, i giovani
leggono pochissimo, e quasi non si rendono conto che il mondo governato dalla finanza
gli sta rubando il futuro. Non hanno più utopie da realizzare. Vivono in un consumismo
alienante che non riconosce i valori dell’essere umano. Ken possiede un vecchio fucile Kentucky, ad avancarica [c’è un bellissimo esemplare nel suo studio, appeso al muro; ndr], che
gli permette di sparare un solo colpo alla volta, lasciando alla selvaggina una possibilità
di scampo. Un messaggio chiaro, mi pare. Nella seconda metà dell’Ottocento era un’arma
superata, ma allora non si buttava via niente; ciò che funzionava passava di generazione
in generazione come un bene prezioso. Oggi, al contrario, siamo indotti a cambiare smartphone ogni sei mesi.
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I N T E RV I STA
A DESTRA: Giancarlo Berardi ritratto da Ivo Milazzo
© Sergio Bonelli Editore
Che cosa direbbe, oggi, Ken, vedendo quel che succede nella nostra epoca?
Continuerebbe a proporre il suo messaggio di ricerca, solidarietà, giustizia, dialogo, confronto fra culture. I nostri tempi non sono tanto diversi da quelli dell’Ottocento americano. Che
differenza c’è tra gli indiani del West e gli immigrati del Nordafrica? Nessuna. Sono gli ultimi
della Terra, i più deboli, i più vessati.
Con Ken hai non solo portato temi nuovi nel fumetto, ma anche introdotto un diverso modo di
sceneggiare.
Ho dato voce ai più fragili, ai più emarginati: le donne, i vecchi, i bambini, gli animali… Affrontando tematiche delicate e inusuali all’epoca, come la droga, il genocidio, l’omosessualità.
Contemporaneamente, mi sono inventato una nuova grammatica; ho eliminato i balloon-pensiero e le didascalie, conferendo un taglio cinematografico alle tavole. Il mio maestro ideale è
Verga. Per anni ho tenuto le sue novelle sul comodino. Mi riconosco nella sua poetica verista:
l’autore che rimane dietro le quinte, la vicenda narrata in modo oggettivo, i personaggi che
sembrano nascere da sé.
Parliamo di West: esiste ancora il genere?
Per me il western è sempre stato una metafora per parlare dei nostri giorni. Come genere,
adesso è obsoleto, ma la teoria dei corsi e ricorsi storici di Giambattista Vico ci dice che, prima
o poi, tutto ritorna. Quindi riemergerà anche il genere western.
All’inizio c’era il western visto unicamente dal punto di vista dei bianchi, basti pensare al mito
del West creato dai film con John Wayne. Poi sono arrivate pellicole come Soldato blu, Un piccolo
grande uomo, Corvo Rosso non avrai il mio scalpo (da cui tu e Milazzo avete tratto il personaggio di Ken Parker), e più tardi Balla coi lupi, che hanno capovolto la prospettiva presentando il
punto di vista, fino ad allora inedito, degli indiani. Non temi però che si sia creata una dicotomia
fatta di stereotipi presenti in entrambe le parti? Per esempio, l’immagine del povero indiano oppresso, saggio e in armonia con la natura, è falsa tanto quanto l’immagine che ne davano i bianchi
allora, di feroci selvaggi senz’anima. È possibile un superamento di questa dualità?
Ken Parker ne è l’esempio. Niente più buoni e cattivi, niente cappelli bianchi e neri, i personaggi hanno dentro di sé il male e il bene. Come ogni essere umano. E il libero arbitrio
per usare una parte o l’altra. In Butch l’implacabile1, vediamo alcuni indiani che lanciano dei
neonati in aria per poi ucciderli a fucilate. Una scena crudele. Com’era crudele e spietata la
natura in cui vivevano. E non dimentichiamo che certe efferatezze, tipo asportazione dello
scalpo e il taglio dell’orecchio, le hanno apprese dagli europei. L’icona dell’indiano saggio e
taciturno è un’invenzione della letteratura di genere e di Hollywood. In realtà, i pellerossa
amavano scherzare e ridere. E non si può dire che profumassero, perché si spalmavano di
grasso animale rancido… Inoltre, se fossero stati veramente “saggi”, si sarebbero uniti con1 Giancarlo Berardi, Bruno Maraffa [disegni], Butch l’implacabile, "Ken Parker" n. 16 (ottobre 1978).
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tro l’invasione dei bianchi, invece che guerreggiare tra di loro. Queste lotte fratricide sono
sempre state astutamente sfruttate dai conquistatori. È la filosofia degli antichi romani:
divide et impera.
Il West di Ken Parker è davvero realistico.
Realistico e, come dicevo, anche una sorta di cassa di risonanza a cui affidare i miei tanti dubbi, le mie poche certezze, e il bisogno di sperimentare e registrare ogni aspetto dell’esistenza
legata al mio tempo. L’episodio intitolato Sciopero2, per esempio, è nato da una vicenda reale:
la chiusura di una fabbrica a Sampierdarena, il quartiere di Genova in cui vivevo.
Da Ken a Julia: filo rosso o soluzione di continuità?
Assoluta continuità. Non a caso, il cognome di Julia — Kendall — lo puoi leggere anche come
“dal Ken”. Iniziando la nuova serie, però, mi sono posto il problema se dovevo continuare con
lo stile parkeriano oppure no. Ho deciso di no. Passando dalla poesia delle grandi praterie
americane dell’Ottocento al caos metropolitano odierno, bisognava cambiare stile di narrazione. In più mi ero reso conto che tra i giovani c’era un abbandono della parola, con conseguente impoverimento del linguaggio. Poche frasi idiomatiche, spesso volgari, mutuate soprattutto dal cinema statunitense. Decisi così d’implementare la scrittura in Julia, facendo ricorso
a un lessico più “ricco”, pur nella sua sinteticità, e inserendo anche un diario che racconta le
emozioni e i pensieri più intimi della protagonista.
Com’è cambiato il fumetto, oggi?
Molto, e non sempre per il meglio. Una volta gli autori di comics non firmavano nemmeno
le loro opere; oggi un disegnatore appena schizza una vignetta, la posta subito sui social, per
sentirsi gratificato dai “mi piace”, spesso acritici e superficiali, dei vari followers. Nelle nuove
serie vedo molto sentimentalismo e pochi sentimenti. I personaggi sono bidimensionali e
standardizzati. Tutto viene enfatizzato, come in televisione, dove si arriva a spettacolarizzare
persino il dolore. Riguardo al futuro del fumetto, penso che cambierà il modo di fruizione
(vedi i Kindle), ma continuerà a esistere. Mi preoccupa invece il cosiddetto “fumetto popolare”, perché i giovani leggono poco. Da anni non vedo ragazzini davanti alle edicole, intenti a
sfogliare i “giornalini”, come quand’ero bambino io, che ci trascorrevo le ore. Non avevo i soldi
per acquistarli e gli edicolanti capivano e chiudevano un occhio. C’è da dire che il fumetto in
Italia non è mai stato valorizzato. Fino agli anni Settanta lo si è sempre considerato “robetta” per bambini. Eppure, dal punto di vista psicologico, offre un grande stimolo alla crescita.
Tanto per esemplificare, la striscia bianca tra una vignetta e l’altra dev’essere colmata dalla
fantasia di chi legge.
2 Giancarlo Berardi, Ivo Milazzo [disegni], Sciopero, "Ken Parker", n.58 (aprile 1984).
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INTERVISTA
C’è ancora spazio per l’avventura ad ampio respiro?
Per me, l’avventura è un viaggio interiore, non un’escursione nelle terre selvagge del pianeta.
Ogni viaggio deve condurre alla propria interiorità e farci scoprire cose nuove di noi. L’avventura classica, per come è stata raccontata nei romanzi, al cinema e nei fumetti, contiene spesso
i semi della xenofobia e del razzismo. Pensa ai protagonisti delle grandi storie avventurose.
Sono sempre bianchi, spesso aristocratici, che comandano sugli “indigeni” non per maggiore
intelligenza o conoscenza, ma per un chiaro “diritto divino” riservato alla loro stirpe.
Parliamo di Salgari.
Intanto ti segnalo che il mio primo volume, L’ultimo dei Mohicani, di James Fenimore Cooper, l’ho letto a sei anni, come regalo dopo una malattia. Una specie d’imprinting, visto che
poi avrei scritto storie western per venticinque anni. Le letture salgariane, invece, cominciano
intorno agli undici anni. Frequentavo le scuole medie inferiori, e pescavo spesso nella biblioteca di classe, dove trovavo libri bellissimi che divoravo letteralmente. Ne lessi parecchi di
Salgari, che era, insieme a Luigi Motta, il più sponsorizzato dal professore d’italiano, ma il
mio preferito rimase Il Corsaro Nero, su cui ritornai almeno tre volte, data la penuria di libri
in casa. Mi appassionava la trama e rimasi folgorato dai personaggi, così vitali e stimolanti.
Sì, stimolanti, perché a storia finita, per giorni e giorni, dopo essermi costruito sciabole e pistole con gli appendini di legno dell’armadio, continuavo le gesta dei pirati per conto mio,
aggiungendo antagonisti e belle fanciulle come contorno. Un misto di fantasia e di azione,
che mi vedeva saltare sul letto matrimoniale dei miei e a usare il tavolo della cucina come una
scialuppa alla deriva. In seguito, ormai grandicello, venni a sapere che Salgari aveva vissuto a
Sampierdarena, dove risiedeva l’editore Donath. Cercai l’indirizzo, ma senza fortuna. Riuscii
meglio, invece con Alberto Della Valle, che abitava di fronte al mare, con un terrazzo da cui
poteva vedere le navi salpare dal porto di Genova. Mica male come ispirazione.
—
L’intervista è conclusa, ma non la chiacchierata con Giancarlo. Scendendo dalla crêuza dietro casa
sua — immaginandomi in questo che il grande Faber fosse con noi — abbiamo proseguito l’incontro pranzando davanti a un mare celeste, cullati dal rumore ipnotico del rollio delle onde sotto di
noi. Saremmo stati tutto il giorno ad ascoltare questo pozzo di saggezza e cultura, ma i reciproci
impegni di lavoro ci hanno concesso solo il tempo — preziosissimo — del brunch.
Un sentito grazie a Giancarlo.
So Long (e anche Arrivederci).
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SPECIALE
Robert
Louis
Stevenson
A CURA DI
Dario Pontuale
CO N I CO N T R I B U T I D I
Dario Pontuale
Mino Milani
Lucia Chimirri
Marco Pisciottani
Andrea Comincini
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DA R I O P O N T U A L E
Un mondo
intero in testa.
Uno spirito errante
Avere un padre progettista di fari, una madre figlia di un pastore presbiteriano, e voler fare lo
scrittore, non è certo impresa semplice. Sommiamoci poi una salute cagionevole, minata da
una tubercolosi cronica, e il sostrato di Robert Louis Stevenson è pressoché descritto. Nasce a
Edimburgo nel 1850 e, secondo consuetudine tra le famiglie benestanti vittoriane dell’epoca,
viene affidato a una nutrice dalla fervida immaginazione. Lei inventa, descrive, interpreta con
passione favole per il piccolo, che appena impara a leggere trafuga dalla ricca biblioteca casalinga i romanzi di Walter Scott e Daniel Defoe. La bambinaia è, inoltre, responsabile dell’iniziazione del giovane Robert alla letteratura popolare, poiché lettrice del "Cassell’s Family Paper,"
un rotocalco da pochi penny. La mente del futuro romanziere inizia ad affollarsi di storie e personaggi tanto da ricordare:
Della mia infanzia mi sono rimaste tre forti impressioni: le mie sofferenze quand’ero
malato, le gioie della convalescenza nel presbiterio del nonno a Colinton e l’attività
innaturale del mio cervello quand’ero a letto la notte.
Per onorare la tradizione familiare si iscrive controvoglia alla facoltà di ingegneria, ma è
solo un modo per affacciarsi al mondo. Ci riesce fin troppo bene diventando presto assiduo frequentatore di locali peccaminosi, secondo il giudizio della scandalizzata madre. Abbandona ingegneria e, sempre malvolentieri, si iscrive a giurisprudenza riuscendo, alla lunga, a laurearsi. Tra
esami e bisbocce frequenta la taverna The Pump dove entra a far parte della Speculative Society,
una piccola comunità di studenti che tra i suoi ex membri vanta niente meno che Scott. L’apertura
culturale stimola la vita, e soprattutto le letture, del giovane studente.
È il 1873 l’anno della svolta per Stevenson, di quel ragazzo alto, magrissimo, abbigliato
con un cappello floscio e l’immancabile giacca di velluto bordò. I genitori, per allontanarlo dalle cattive compagnie, lo spediscono a Cockfield, peggiorando le cose. Conosce Frances Sitwell e
soprattutto Sidney Colvin, dotto professore di Cambridge che per lui resterà sempre un punto di
riferimento. Sono loro che lo scortano in un apprendistato letterario, plasmando un ragazzo dalle
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abitudini linceziose in un famoso uomo di lettere. Grazie a queste influenze Stevenson spedisce saggi e articoli a varie redazioni ottenendone la pubblicazione. Colvin stesso lo invita agli
incontri del Savile Club, il ritrovo della Londra
letteraria, ma è giunto il momento di viaggiare,
lasciare la brughiera e girare l’Europa, assecondando un istinto errante immutato fino agli ultimi giorni. A spingerlo, purtroppo, è anche la
malattia polmonare che lo obbliga a climi soleggiati. Sceglie la Francia, la Costa Azzurra, Mentone per l’esattezza, e da quella dimora comunica
ai genitori l’intenzione di intraprendere a tempo pieno l’attività di scrittore. Sempre in Francia, a
Grez, incontra Fanny Osborne una bruna donna americana, più grande di lui di dieci anni, con due
figli al seguito e un matrimonio alle spalle. Divampa un folle amore. Lei torna in America, si ammala, e appena venutone a conoscenza lo scrittore si imbarca in terza classe sul Devonia. La donna si
riprende, ottiene il divorzio. I due convolano a nozze nel 1880 senza, tuttavia, cessare di barcamenarsi tra difficoltà finanziarie e di salute. I coniugi Stevenson, pur se contrari alle scelte dell’unico
figlio, incluso il matrimonio con una donna più anziana e separata, non lo abbandonano. Spediscono assegni di mantenimento facendosi perfino trovar sul molo di Liverpool quando la nave, che
riconduce la nuova famiglia Stevenson nel vecchio continente, cala le ancore.
Fino al 1882 lo scozzese scrive racconti, soprattutto saggi, il più celebre dal titolo Chiacchiere sul “Romance”, un’attenta riflessione teorica sulla narrazione. In Stevenson l’intensa stagione
saggistica altro non è che la presa di coscienza del ruolo rivestito dallo scrittore e dalla letteratura.
Chiacchiere sul “Romance” fa il paio con un altro saggio di analogo valore: Un’umile rimostranza,
edito nel 1884. Tra queste pubblicazioni Stevenson, letterato pienamente consapevole, incastona
nel 1883 un romanzo epocale: L’Isola del tesoro. Libro destinato a stravolgere la narrativa mondiale
consacrando l’autore nell’Olimpo degli scrittori. La sua vena creativa è travolgente. Esce Gli accampati di Silverado, poi in appena tre anni prendono forma: Lo strano caso del dr Jekyll e mr. Hyde
e La freccia nera, oltre a una mezza dozzina di altri racconti. Inizia a pubblicare con la prestigiosa
Chatto & Windus e sull’americano “Century Magazine”.
La malattia lo assilla costringendolo a lasciare la Scozia, affermando: «Amo l’aria del mio
paese, ma lei non ama me». Il peregrinare alla ricerca di luoghi salubri prosegue: Davos, Hyères,
infine Bournemouth in una casa ribattezzata Skerryvore, come la maggiore opera ingegneristica
dalla famiglia Stevenson. Il malconcio Robert vi dimora per tre anni, ospita amici e nell’inseparabile poncho macchiato di inchiostro, dà sfogo all’ispirazione. Morto il padre nel 1887 torna in
America, ma dopo pochi mesi la malattia lo costringe a Saranac dove firma Il signore di Ballantrae e La cassa sbagliata. A tradirlo, stavolta, non sono i polmoni, bensì le letture. Ammaliato dai
racconti esotici di Melville accetta l’incarico di stendere un volume sui mari del sud e salpa per
la Polinesia. La salute ne giova, la scrittura affatto, il lavoro su commissione non è per lui. Ammaliato dai racconti esotici di Melville accetta l’incarico di stendere un volume sui mari del sud
e salpa per la Polinesia. Se ne giova la salute, la scrittura affatto: il lavoro su commissione non è
Stevenson, letterato
pienamente consapevole,
incastona nel 1883
un romanzo epocale:
L’Isola del tesoro.
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per lui. Sedotto dal richiamo di quei luoghi vende ogni avere e si trasferisce nelle Samoa. Lo sfiora, addirittura, l’intenzione di solcare il Pacifico facendo il mercante, ma la moglie Fanny soffre
il mal di mare, perciò il progetto si arena. Tuttavia l’ambientamento con il posto, gli abitanti e le
tradizioni è totale; Stevenson sembra aver emulato inconsciamente il proprio modello letterario,
ovvero Robinson Crusoe.
Gli editori lo corteggiano, il pubblico trepida, ma lui costruisce una fattoria, apre
sentieri e impara dai contadini. Stevenson, però, non è tagliato per il lavoro manuale, torna alla
scrittura, ma non abbandona gli amici indigeni che difende dallo sfruttamento dei mercanti
stranieri e li tutela nelle questioni politiche. Appaiono sul "Sun" varie lettere che diventeranno
poi Nei mari del sud, ma soprattutto, dello stesso periodo, è la raccolta di racconti Le notti sull’isola. All’amico Colvin, scettico sul trasloco polinesiano e preoccupato per l’ispirazione del romanziere, Stevenson scrive tranquillizzandolo: «Ho un mondo intero in testa». Lo fa, tuttavia,
inconsapevole di avere poco tempo. Il 3 dicembre del 1894, dopo l’uscita di Catriona, una fatale
emorragia cerebrale lo coglie. Gli indigeni, grati per gli sforzi profusi da quello straniero famoso, aprono un varco nella foresta seppellendolo in cima a una collina nel rispetto delle ultime
volontà. Sulla tomba, dopo gli onori riservati a un grande capo, lasciano una collana di fiori e
una brevissima epigrafe: Tusitala ossia “Narratore di storie”. Pochi altri oltre a Robert Louis Stevenson meritano analoga definizione.
La scrittura come vita
Qualunque grande impresa esige progettazioni ragionate, studiate a tavolino; il talento
può non bastare e di ciò Stevenson è consapevole. Ecco forse spiegato perché, prima di ideare
storie immortali, si preoccupi di esporre, attraverso la saggistica, la propria personale teoria sulla
scrittura. Riga dopo riga mostra profonda coscienza dei processi narrativi, si costruisce un carattere letterario che guiderà il panorama culturale successivo. È fondamentale, dunque, spiegare l’evoluzione di un autore che, non rispecchiandosi nei generi dell’epoca, elabora un nuovo canone
smuovendo le stagnati acque britanniche.
La narrativa inglese di fine Ottocento vive l’incertezza tra il fulgido passato del romanzo
borghese, con autori quali Defoe, Richardson e Fielding, e un futuro di richiami d’oltre Manica.
L’influsso di Flaubert, Zola e della scuola russa fa proliferare nuove opere incentrate sullo scandaglio psicologico dei personaggi, sulla cupa visione sociale e sul destino umano, ovvero gli elementi distintivi del romanzo realista. A quello borghese, a quello realistico, Stevenson, in Chiacchiere sul “Romance”, aggiunge, risollevandolo, il romanzo d’avventura. Lo difende nella secolare
diatriba sulla dignità letteraria tra Novel e Romance. Se il primo è caratterizzato da una narrazione
artefatta, con personaggi “realistici” su una storia lineare, il secondo si presenta come un racconto
in cui l’attenzione è rivolta alla trama, meno ai personaggi, con ripetute complicazioni, dove spicca l’elemento fantastico. Assioma stevensoniano è il piacere che dovrebbe derivare dalla lettura
di un libro, l’esaltazione data dalla lettura e dalla condivisione di argomenti semplici e provati da
tutti. Chiacchiere sul “Romance” è quasi un trattato di psicologia della ricezione, un manifesto per
la letteratura mondiale uscito sul "Longman’s Magazine", dal quale si legge:
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Uno scrittore per quanto grande e dotato di creatività non farà altro che mostrarci l’apoteosi a occhi aperti dell’uomo comune. I suoi racconti possono essere alimentati dalla
realtà della vita, ma il loro scopo e la loro caratteristica più vera consisteranno nella
vocazione a rispondere ai desideri inconfessati e indistinti del lettore, a seguire la logica
del sogno.
Robert Louis Stevenson sottolinea come il romanzo d’avventura debba far emergere i desideri inconsci, le fantasie infantili celate sotto l’austera scorza dell’adulto. Accantonare la realtà,
viaggiare con la fantasia, cercare l’identificazione del lettore, traducendo un concetto in emozione, fargli assaporare l’avventura attraverso il personaggio, fissando ogni sensazione nell’anima.
Per avallare quanto affermato, richiama i prototipi del romanzo inglese settecentesco, comparando il naufrago di Defoe alla tragica eroina di Richardson. Per sua stessa ammissione, Clarissa è
superiore qualitativamente al Robinson, ma quest’ultimo ha una maggiore capacità evocativa e
fantastica, tanto da essere eletto come modello. Defoe permette un’inconscia adesione alla vicenda senza l’obbligo di un’identificazione con il carattere del protagonista.
Non è mai il carattere del personaggio, bensì la situazione o l’incidente che ci scuote facendoci uscire dal nostro contegnoso distacco: quando accade qualcosa che vorremmo accadesse a noi, quando una determinata situazione, che abbiamo a lungo accarezzata nella
fantasia, si verifica nella vicenda con i dettagli appropriati e convincenti. Allora sì che ci
dimentichiamo dei personaggi, spingiamo da parte l’eroe, allora sì che ci tuffiamo nella
vicenda in prima persona e immergiamo il nostro corpo in quella esperienza tonificante.
Al lettore non deve essere offerta soltanto un’angolazione dalla quale sbirciare il mondo,
bensì un universo apposito che sfruttando luoghi, personaggi, miti e leggende, risvegli l’imperituro bisogno di conoscenza:
Alcuni luoghi parlano da sé, in modo distinto: certi giardini umidi e oscuri attendono ansiosi i più orrendi delitti, certe vecchie case implorano di essere visitate da spettri,
certi scoscesi tratti costieri sono creati apposta per un bel naufragio. […] Lo stesso vale
per certi nomi, per certi volti; o per eventi che di per sé sono inconcludenti o del tutto
irrilevanti eppure sembrano contenere in embrione la promessa o l’inizio di qualche curiosa o eccitante avventura che un autore distratto ha omesso di raccontare.
Certe riflessioni conducono a una lungimirante conclusione:
La narrativa rappresenta per l’adulto ciò che è il gioco per il bambino, quel che cambia
l’atmosfera e il tenore della sua vita; e quando il gioco si accorda così perfettamente con
la fantasia che vi può partecipare con tutto il cuore, godendone ogni momento e anche
più tardi continuando a sentirsi felice nel ricordarlo, per poi staccarsi dal ricordo solo a
malincuore, la narrativa può chiamarsi a pieno titolo Romance.
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A pochi mesi di distanza dall’articolo L’Isola del Tesoro fa la sua prima apparizione. Henry James, fiero sostenitore del realismo, legge il romanzo e memore delle considerazioni sul Romance afferma, provocatoriamente: «Sono stato bambino, ma non son mai andato alla ricerca di
un tesoro nascosto», dichiarando così la mancata immedesimazione nella trama. L’essenza della
scrittura, continua James, è la ricerca del vero che lo scrittore deve perseguire per «competere con
successo con la vita» senza inciampare nella “finzione”. Con Un’umile rimostranza la replica di
Stevenson, contro la ghettizzazione del romanzo d’azione a sottogenere popolare, non si lascia
attendere. Nell’articolo di umile c’è ben poco, viene resa pari dignità sia a una narrativa finalizzata all’esatta ricostruzione del reale, sia a quella impegnata nella costruzione di un immaginario fantastico. Nessuna arte compete con la vita, controbatte Stevenson, al più ne richiama certe
suggestioni:
Come opera d’arte, il romanzo non esiste in quanto somiglia alla vita reale, ma in
quanto se ne distacca in modo totale e incommensurabile, con una differenza che è
voluta e significativa e costituisce a un tempo il metodo e il senso più vero dell’opera.
La vita dell’uomo non è dunque l’argomento dei romanzi. È solo il repertorio inesauribile da cui si debbono scegliere gli argomenti.
Sempre in Un’umile rimostranza il romanziere spiega le differenze tra le tre classi del Romance. Quello d’avventura rivolto alle tendenze illogiche dell’uomo, quello psicologico concentrato alla comprensione delle debolezze e confusioni umane e quello drammatico aperto alle emozioni e al giudizio morale. Solo alla prima è assegnato il compito di immergere il lettore nella
vicenda per lasciarlo al termine dell’ultima pagina a distinguere tra il vero e l’irreale. Alla fine della
lunga arringa Stevenson infligge una dura stoccata alle critiche ricevute: «Se non ha mai cercato
tesori nascosti, si può facilmente dimostrare che Henry James non è mai stato un bambino». Aggiungendo, infine, che il romanzo non è la trascrizione della vita, bensì la semplificazione di un
aspetto di essa che risulterà verosimile fintanto avrà la capacità di apparire sinceramente reale.
Non ci sono più dubbi, quindi, come per lui i libri che esercitano una maggiore influenza
sono quelli di “finzione”, dove al lettore non si propinano dogmi né si riservano intenti formativi, bensì dove lo si lascia libero di apprendere le lezioni della vita attraverso un mutamento di
prospettiva.
Dopo la schermaglia James e Stevenson non ebbero altri motivi di scontro, anzi, nasce
un’ottima amicizia mantenuta da un rapporto epistolare strettissimo e la sincera critica verso l’altrui lavoro. Un esempio, purtroppo poco imitato, di come opposte vedute possano diventare accrescimento personale, collettivo e letterario, lasciando ognuno fedele alla propria arte. James al
suo realismo e Stevenson alla sua vena fantastica che, dopo il meticoloso esercizio critico, riverserà sulla pagina restando coerente al proprio inimitabile stile.
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MILO MILANI
Il romanzo
perfetto.
Riprendendo L’isola del tesoro nella mirabile traduzione di Piero Jahier (Einaudi, 1943)
mi sono reimbarcato da Bristol per quell’isola in fondo all’Atlantico dell’ovest, «circa 9 miglia di
lunghezza e 5 di larghezza, a forma di un grosso drago rampante», con una montagna centrale detta
“Il Cannocchiale”. Qui, sulle pendici del monte, in un imprecisato anno del Settecento il capitano
Flint, “gentiluomo di ventura” (pirata, cioè) ha fatto seppellire il suo tesoro da sei uomini, poi
spietatamente uccisi. Tutti quei «denari a bizzeffe, da nuotarci dentro, da giocarceli a scopone per
tutto il resto della nostra esistenza» sono dunque sull’isola, in un punto segnato su una mappa e
noto al solo Flint, che gelosamente ha conservato in attesa del prossimo viaggio. Morrà prima di
compierlo, portando nella tomba il suo segreto.
Non la mappa, però, ricercata da altri, da “gentiluomini di ventura”, e che di mano in
mano è finita in quelle di Billy Bones, vecchio arnese di pirateria, nascostosi in quel di Bristol,
nella locanda “Ammiraglio Benbow”, gestita da un malandato oste, sua moglie e dal loro giovanissimo figlio Jim. Grande grosso e prepotente, guancia segnata da una sciabolata e una cassetta per
tutto bagaglio, Billy passa il giorno scrutando preoccupato col cannocchiale la costa e la strada.
A pranzo e a cena siede solo, ubriacandosi, zittendo tutti ad alta voce, e narrando di battaglie e
tempeste; ma una sera, quando batte la manaccia sul tavolo e tira fuori un coltellaccio, qualcuno
gli dice fermamente: «Se non rimettete in tasca all’istante cotesto coltello, prometto sul mio onore di
farvi impiccare». È un medico della zona, il dottor Livesey «lindo e brillante con la parrucca candida
come neve». Bill tace.
Muore di lì a un po’; e sentendosi in diritto di farlo, Jim e la madre cercano nella sua cassetta quel po’ di denaro che basti a saldare il conto non pagato «e non un centesimo in più». Trovano
un pacchetto di tela cerata, ma prima che lo aprano, spaventati da improvvise e minacciose voci
che s’avvicinano, fuggono nella notte. Il mattino dopo, il ragazzo consegna il pacco al dottor Livesey: non vi sono soldi; v’è la mappa dell’isola del tesoro.
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È questa, per chiamarla così, la premessa al capolavoro del trentatreenne Stevenson
(1883), che alternando precise pagine di descrizione ad altre di ardente suspence, magistralmente presentando personaggi e comparse, narra la crociera della goletta Hispaniola alla ricerca del
tesoro capitanata da due gentiluomini veri, il conte Trelawney e il dottor Livesey. Esemplari interpreti dello spirito d’avventura dell’Inghilterra del tempo, essi concordano «nel considerare quel
tesoro come una miniera di metalli preziosi, di cui per legge, una metà spetta a chi la trova e l’altra al
re». Sulla nave ritroviamo Jim, imbarcato come mozzo; e a lui Stevenson affida il rischioso compito del narratore.
Nessun scrittore italiano di allora (ma quali?) e nemmeno di oggi avrebbe mai osato, e
oserebbe oggi, una cosa del genere, soprattutto a evitare il rischioso ingresso nella regione disprezzata (ma solo in Italia) dei libri per ragazzi.
Il libro ebbe da subito grande successo, innescato, ricorda Jahier, anche dal fatto che William Gladstone, il celebre statista, «ci aveva fatto le due di notte senza potersene staccare». Si tratta infatti d’un romanzo veramente perfetto nella sintesi mirabile di forma, di contenuto, di ritmo
narrativo. La crociera continua regolare, fino a quando Jim non scopre avventurosamente che il
bonario cuoco della nave, John Long Silver («molto alto e robusto, faccione di luna piena pallido ma
intelligente», e con una stampella al posto della gamba sinistra) è in realtà uno spietato assassino,
capo dei pirati che, tutto sapendo, sono già a bordo dell’Hispaniola. Ma proprio allora: «Ohé, terra!», grida la vedetta
Ammutinamento. L’equipaggio si divide, la lotta, subito senza pietà, arde sulla nave e poi
a terra: cannonate, fucilate, colpi di scena, di spada e di pugnale, assalti, ritirate, uccisioni, che
danno brividi al lettore e, nessun dubbio, a quanti s’ostinano a dire che per carità, mai parlare ai
ragazzi di cattivi pensieri tradimenti bugie brama di denaro violenza morte: meglio rose fiori buone maniere e parolucce gentili. Niente verità, insomma.
Alla fine, vittoria dei giusti o, se si preferisce, dei buoni. Ed ecco il tesoro. Oro. «Lingotti,
monete inglesi, francesi spagnole, portoghesi doppioni, ghinee, zecchini, coi ritratti di tutti i sovrani
d’Europa degli ultimi cento anni , strane monete orientali… non credo che ci fosse varietà di moneta
al mondo che non fosse in quella collezione e per il numero, erano tante quante le foglie d’autunno…».
L’Hispaniola parte, infine lasciando sull’isola tre pirati irriducibili: «Ci piangeva il cuore a
tutti, credo, abbandonarli…ma riportarli alla forca in patria sarebbe stata una specie di carità pelosa», scrive Jim a conclusione dell’avventura che lo ha fatto uomo. Quanto a John Silver, che malgrado tutto ha avuto dal conte Trelawney la promessa di non essere processato, eccolo presentarsi
a bordo dicendo compunto al capitano: «Torno al mio dovere, signore»; quando però la goletta cala
l’ancora in un porto dell’America Latina, eccolo predare un sacco pieno di monete «per scorta alle
sue future peregrinazioni» e scomparire chissà dove insieme col suo fido pappagallo capitano Flint.
Stevenson non se l’è sentita di appendere alla forca un personaggio così magistralmente creato.
Fine di un romanzo che affascina e trattiene il lettore dalle prime parole alle ultime: «pezzi da otto, pezzi da otto!» gracchiate da capitano Flint, che «se uno ha visto più scelleratezze di lui,
non può essere che il diavolo in persona».
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LUCIA CHIMIRRI
Sortilegi e magie
delle isole.
L’isola ha esercitato grande fascino sugli autori d’ogni tempo che ne hanno fatto luogo
d’elezione per avventure straordinarie, per esperienze sorprendenti. A iniziare da Omero, che
fece vagare Ulisse fra isole abitate da ciclopi, da sirene, da maghe e maliarde, e non si contano le
isole reali o immaginarie, teatro di vicende che hanno appassionato i lettori di tutte le età. L’isola
di Robinson Crusoe, Laputa l’isola fluttuante di Gulliver, l’Isola misteriosa, ultimo rifugio del capitano Nemo, l’Isola “che non c’è”, regno di Peter Pan, Mompracem, ormai irraggiungibile perché
cancellata dalle mappe.
Robert Louis Stevenson deve gran parte della sua fortuna al romanzo L’Isola del tesoro e
di isole ne incrociò molte nella finzione letteraria e nella vita reale. Nel giugno 1888 partì da San
Francisco per una crociera nel Pacifico meridionale, spingendosi fino a Sidney. Visitò le Marchesi,
Thaiti, le Samoa. Il 21 maggio 1889 sbarcò a Molokai nelle Hawaii, dove da appena un mese era
morto padre Damien, il religioso che assisteva i malati del lebbrosario1.
La crociera in Polinesia ispirò a Stevenson le storie dei mari del Sud: The South Seas: life
under the Equator, impressioni di viaggio scritte in forma epistolare, e tre racconti, Bottle imp
(1891), The beach of Falesà (1892), The Isle of voices (1893), poi riuniti nella raccolta Island nights’
entertainments.
1 Padre Damien de Veuster (1840-1889), missionario della Compagnia di Gesù, canonizzato da
Benedetto XVI nel 2009, seguì i malati di lebbra dell’arcipelago, deportati nel lebbrosario di
Molokai. Nel contatto con i lebbrosi contrasse la malattia che lo portò alla morte. Fu calunniato
dal reverendo Dr. Hyde [!], pastore protestante a Honolulu e Stevenson prese le sue difese con la
lettera Father Damien, an open letter, pubblicata in “The Scots Observer” (maggio 1890). La storia di padre Damien ha ispirato due film: Molokay la isla maladita, diretto da Louis Lucia (1959)
e Molokay: the story of Father Damien, diretto da Paul Cox (1999).
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49
The Isle of voices, inizialmente pubblicato sul “National Observer” (febbraio 1893), è uno
dei suoi ultimi racconti e forse quello meno noto. Ambientato sull’isola di Molokai, narra la terribile avventura vissuta da Keola, indolente e pavido hawaiano, al seguito del suocero, l’avido e
crudele Kalamake. Kalamake è un mago che usa i suoi poteri per accumulare dollari che gli consentano di vivere con agi e privilegi. Attraverso la magia, trasforma in monete d’argento le conchiglie raccolte sulla spiaggia di un’isola sperduta nel Pacifico, l’Isola delle voci. Non segnalata sulle
mappe, posta nell’ “Arcipelago Basso o Pericoloso”, è disabitata, ma di tanto in tanto viene visitata
da una tribù di antropofagi che vi si reca per la pesca. Il nome le deriva dalle voci incorporee udite
da chi vi approda: scopriremo che appartengono ai maghi, invisibili agli occhi, che da ogni parte della Terra raggiungono la spiaggia per la prodigiosa raccolta di conchiglie. La loro presenza
sull’isola è rivelata anche da misteriosi focherelli che improvvisamente si accendono sulla sabbia.
L’incantesimo per raggiungere e abbandonare l’isola, infatti, si produceva bruciando speciali erbe
che davano origine a fuochi che rapidamente si consumavano. Scampato all’ira del suocero che
lo vuole morto ed evitato il rischio di essere la portata principale del banchetto dei mangiatori
d’uomini, dopo varie peripezie Keola viene salvato dalla moglie Lehula. Il racconto ha un epilogo
edificante, forse un tributo alla memoria di padre Damien: gli sposi per liberarsi del fardello dei
dollari, ottenuti tramite malefici, seguono il consiglio di un missionario e li donano ai lebbrosi di
Molokai. Nel racconto Stevenson dà libero corso all’immaginazione e alla vena ironica, creando
una serie di situazioni fantastiche, come la surreale battaglia finale fra gli indigeni e gli invisibili
stregoni, nella quale forse viene ucciso Kalamake. «Ma chi può dirlo?» si chiede l’autore, lasciando
al lettore il dubbio sulla sua sorte.
L’Isola delle voci è una favola a lieto fine, destinata da Stevenson a incantare i nativi di Vailima nelle Samoa, che lo chiamavano Tusitala (narratore di storie), e a metterli in guardia contro i
pericoli delle pratiche magiche e dell’avidità. Il racconto, nel quale la realtà quotidiana si mescola
a eventi prodigiosi, è ispirato a favole celtiche e probabilmente a leggende locali, ma presenta —
mi pare — alcuni riferimenti a La Tempesta, la commedia con la quale Shakespeare si congedò
dalle scene. Shakespeare era uno degli autori che più avevano influenzato lo scrittore scozzese2,
che non mancò di rendergli omaggio nei suoi scritti3, e L’Isola delle voci costituisce forse l’ultimo
omaggio. Durante il soggiorno a Vailima, nella cerchia dei familiari e degli amici, la figura di Stevenson venne associata a quella di Prospero4. Il racconto potrebbe essere la risposta autoironica
a quella immagine, derivata dal rispetto e dall’ammirazione suscitati fra gli abitanti delle Samoa
per la sua magica arte di narratore. Alla luce di ciò i temi tratti dalla Tempesta appaiono evidenti:
l’ambientazione su un’isola; la magia, tema centrale di entrambe le opere; il personaggio di Kalamake, mago potente come Prospero, che come Prospero ha una giovane figlia. Infine l’inquietante
2 Robert Louis Stevenson, Books which have influenced me, in Essays in the art of writing, London,
Chatto & Windus, 1919, pp.75-77.
3 Il più esplicito, forse, è il nome di Florizel principe di Boemia, l’affascinante deus ex machina
nelle Nuove Mille e una notte, tratto dal personaggio della commedia Racconto d’inverno.
4 Cfr.: la poesia Prospero at Samoa, firmata YY e datata 1892, in: “Bookman”, 1913, p. 128. Sul soggiorno di Stevenson nelle isole del Pacifico, cfr.: Roslyn Jolly, Robert Louis Stevenson in the
Pacific: travel, Empire and the author’s profession. Routledge, 2009, pp. 167-168.
50
ILCORSARONERO 26
mistero delle voci incorporee, che rievocano i canti e i sussurri di Ariel, l’“ingegnoso spirito”, invisibile agli occhi dei naufraghi della Tempesta. Possiamo considerare le analogie fra le due opere
coincidenze o vaghe reminiscenze scespiriane, ma c’è un ultimo argomento che vale la pena di
accennare, che ci riporta al tema dell’isola. Mi riferisco alle Bermuda evocate da Ariel nel primo
atto della commedia:
La nave del re è salva nel porto, in quella profonda insenatura, dove una volta mi
facesti venire a mezzanotte perché ti recassi della rugiada dalle sempre tormentate
Bermude5.
Secondo alcuni studiosi una delle fonti letterarie della Tempesta sarebbe da ricercare nei
Bermuda pamphlets6. Una serie di pubblicazioni con il resoconto della spedizione organizzata dalla società inglese Virginia Company per stabilire una colonia a Jamestown. La nave Sea Adventure,
ammiraglia di un convoglio al comando di sir George Somers, salpata da Plymouth il 2 giugno
1609 e diretta in Virginia, durante una tempesta fece naufragio sulla costa di Bermuda. L’equipaggio e i centocinquanta coloni che erano a bordo si salvarono e dopo alcuni mesi, con barche
di fortuna, raggiunsero Jamestown. Non sappiamo se Stevenson conoscesse la storia del naufragio della Sea Adventure, ma certamente non poteva ignorare la sinistra fama dell’isola, chiamata
anche Isle of devils. Per questa fama, arrivata fino ai nostri giorni, e per gli spaventosi fenomeni
ai quali assistettero, i naufraghi si convinsero che l’isola fosse abitata da diavoli e da spiriti malvagi. William Strachey, uno degli autori dei Bermuda Pamphlets, riferisce di misteriosi fuochi che
si accendevano improvvisamente sulla nave durante la tempesta, noti ai marinai come fuochi di
Sant’Elmo e considerati presagio di sciagure7. Anche Shakespeare descrive, attraverso la voce di
Ariel, questo strano fenomeno che evidentemente aveva colpito la sua immaginazione:
Abbordai la nave del re, e ora sulla prora, ora sul ponte, ora sul cassero e in ogni cabina fiammeggiavo destando terrore. Talvolta mi dividevo e ardevo in molti luoghi.
Fiammeggiavo separatamente sul trinchetto, sulle antenne, sul bompresso, poi correvo
a unirmi8.
Non assomigliano forse i fuochi fatui della Tempesta ai fuochi che improvvisamente si
accendevano sulla spiaggia dell’Isola delle voci, temuti da Keola perché rivelatori della presenza
degli stregoni?
5 William Shakespeare, La Tempesta, in: Tutte le opere, a cura di Mario Praz. Firenze, Sansoni, 1977,
Atto I, scena II, p. 1191.
6 Robert C. Fulton, The Tempest and the Bermuda pamphlets: source and thematic intention, in
“Arthurian interpretations”, v. 10 (1978), n. 1, pp. 1-19.
7 William Strachey, A True Repertory of the Wracke and Redemption of Sir Thomas Gates, Knight,
upon and from the Islands of the Bermudas: His Comming to Virginia and the estate of that
Colonie there and after, under the government of the Lord La Warre July 15, 1610.
8 Vedi nota 5.
I LCO R SA RO N E RO 2 6
51
M A R CO P I S C I OT TA N I
Gli allegri compari,
ovvero: Robert
Stevenson in un
racconto solo.
Avete presente la prodigiosa visione che vi si schiude al microscopio? Quella vista capace
di ricordare la grande verità, per cui in una sola semplice cellula del mondo è contenuto il mondo
intero? Gli allegri compari di Stevenson è qualcosa di simile: un racconto che nella sua levigata
brevità appare una piccola summa, sorprendentemente rappresentativa degli elementi primi, dei
simboli e dei temi della produzione del grande autore scozzese.
Vorrei qui soffermarmi sui principali tra questi aspetti, contenuti ne Gli allegri compari.
Perché se questa tesi uscisse ragionevolmente dimostrata, ai nostri occhi apparirebbe ancora più
sorprendente la sorte che il racconto ha avuto in Italia. Non è tanto e solo la circoscritta attenzione
ricevuta dalla critica: a sorprendere è anche, e soprattutto, l’anomala traiettoria editoriale tracciata delle pubblicazioni del racconto nel nostro amato idioma. A quanto sembra, infatti, Gli allegri
compari giace non pubblicato in Italia da oltre quindici anni: un’epoca, se rapportata al respiro frenetico dell’editoria italiana d’oggi. Eppure una sua rilevanza il racconto deve averla avuta, almeno
per Stevenson o per i suoi editori, visto che The Merry Men fece da capofila nel titolo della raccolta
pubblicata nel 1887, cinque anni dopo l’esordio solista del racconto nel 18821.
1 The Merry Men and other tales and fables (1887), Londra, Chatto & Windus; New York, Scribner’s
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ILCORSARONERO 26
Ma procediamo con ordine: prima, qualche cenno sulla storia.
Ne Gli allegri compari Charles Darnaway ci racconta la sua ultima avventura sull’isola di
Aros (arcipelago delle Ebridi, costa ovest delle Highlands scozzesi), dove da anni trascorre le vacanze di fine corsi universitari ospite di Gordon, fratello di suo padre. Il giovane stavolta ha un
duplice proposito: sposare Mary Ellen, figlia di Gordon, e recuperare il tesoro di una nave spagnola (l’Espirito Santo) affondata secoli prima lungo le pericolosissime coste, battute da onde così
violente e chiassose da meritarsi il soprannome di “Allegri compari”. Sorpreso da un’atmosfera
plumbea, che sembra nascondere qualcosa di terribile, capisce che lo zio ha già sciacallato il relitto di un’altra nave, la Christ-Anna, vittima recente degli “Allegri compari”. E Mary Ellen accoglie la
dichiarazione del cugino con strana freddezza.
Il giorno dopo Charles si avventura da solo nel tratto di costa dove presume giaccia l’Espirito Santo. A riva, inorridisce alla vista di una tomba e s’intristisce osservando i resti della
Christ-Anna. La sua immersione ha successo: il relitto è lì. La meraviglia della scoperta scolora nel
tormento del dilemma: profanare i morti e rubarne il tesoro, o rispettarne la sorte rinunciando
a esso? Dopo una paralisi della volontà, decide di afferrare il secondo corno. Mentre risale verso
casa volge lo sguardo al punto dove s’era immerso e vede confermato un altro sospetto: non è l’unico a cercare l’Espirito Santo. Una piccola imbarcazione — tender di una goletta ancorata poco
distante — è ora in perlustrazione sul tratto di mare da lui esplorato poco prima.
Charles racconta tutto a Gordon, la cui reazione, insolita e sintomatica, fa capire tutto al
nipote: suo zio ha ucciso un naufrago della Christ-Anna (ecco perché la tomba!). Serba la scoperta
per sé e porta Gordon in cima alla collina: una tremenda bufera è in arrivo, devono salvare la goletta. Ma è l’inizio della fine. Insieme alla burrasca, che velocissima raggiunge e sconquassa Aros,
esplode, alimentata dal vizio dell’alcool, la follia di Gordon: il suo unico interesse ora è godersi il
naufragio. Con stati d’animo opposti, i due assistono al compimento del disastro. E subito dopo
l’ira dei cieli si placa.
Il giorno successivo giù alla baia, alla ricerca del nuovo relitto, Gordon si confessa candidamente al nipote («Sono un demonio, lo so: non penso ai poveri marinai, sono con il mare, sono
come uno dei suoi Allegri Compari»)2. Charles non si trattiene: mette lo zio di fronte alle sue malefatte e lo invita solennemente a pentirsi. Ma in quel momento dalle rovine della nave spunta un
superstite. È un nero. Non parla la loro lingua, si fa capire a gesti. Gordon è assalito da terrore folle
e cieco, vede una punizione divina là dove c’è solo uno schiavo, abbandonato dall’equipaggio di
quel tender avvistato il giorno prima da Charles. Gordon scappa, si dà alla macchia.
L’indomani Charles coinvolge Rorie (l’anziano maggiordomo dello zio) e il naufrago in
un piano per rintracciare Gordon. Tragedia: Gordon fugge lungo la baia, dietro di lui il nero che
l’ha quasi raggiunto, davanti a lui Charles; vistosi raggiunto, preferisce perdersi: scarta sulla destra
verso il mare. In un istante è nell’acqua, risucchiato dalle correnti. Dietro di lui, trascinato dall’inerzia dell’inseguimento, il nero condivide la sua fine.
Sons. The Merry Men (1882), “Cornhill Magazine”, nn. 45 e 46.
2 Robert Louis Stevenson, Gli allegri compari, traduzione di Laura Merletti, Como-Pavia, Ibis, 1995,
p. 75.
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Vediamo dunque i principali temi stevensoniani, all’opera in questa notevole miniatura
letteraria. Per prima ne evidenzio l’intenzione, che mi sembra egregiamente perseguita anche
in questo racconto, di rivolgersi al pubblico più vasto e trasversale possibile. A tutti i livelli —
psicologico, simbolico, poetico, tematico, narrativo, linguistico — la storia de Gli allegri compari
ci appare fresca, immediata, chiara: perfettamente fruibile e coinvolgente, senza pagare dazio a
banalità o ai carveriani “trucchi da quattro soldi”, oppure a soluzioni compositive, superficiali o
grossolane.
C’è poi l’opzione narrativa cruciale per
Stevenson, che attribuiva preminenza alle situazioni rispetto ai personaggi, nella convinzione che fossero le prime a dare vita ai secondi, rendendoli interessanti agli occhi dei
lettori3. Anche Gli allegri compari è infatti un
esemplare susseguirsi di eventi che premono
sui protagonisti, smuovendo le loro passioni
e costringendoli a scelte cruciali, spesso loro
malgrado. Non manca inoltre quell’acuto senso del luogo, tipico dell’autore scozzese. Le peculiarità geografiche, meteorologiche e fisiche del contesto sono trattate in modo accuratissimo
e intenso: l’ambiente naturale non se ne sta lì, defilato e muto come un contenitore dei fatti, ma
s’appropria della ribalta e prepotente sta sulla scena, personaggio tra i personaggi, quasi afferrando il lettore per il bavero e reclamandone l’attenzione. Prova ne sia che qui, a voler essere restrittivi, non meno di un quinto del racconto è assorbito dalla descrizione degli ambienti.
Gli allegri compari
è un esemplare
susseguirsi di eventi
che premono sui
protagonisti smuovendo
le loro passioni.
Questo senso del luogo inoltre, nella declinazione Highlands vs. Lowlands, si trasforma
in uno dei temi più stevensoniani di Stevenson: il doppio. A Gordon Darnaway, adottivo delle selvagge Highlands scozzesi in virtù del matrimonio con una fanciulla delle isole4, si contrappone
suo nipote, che già alla prima pagina dichiara di discendere «da un puro ceppo delle Lowland»5,
più pacate e civili. Questa contrapposizione geografica si psicologizza, sublimandosi nella contrapposizione tra la razionalità prettamente umana di Charles e la disumana luce sinistra che
accende suo zio, devotissimo presbiteriano scozzese da una parte e omicida alcolizzato dall’altra. Due metà che lottano tra loro fino alla consunzione della povera anima che le ha generate e
dell’anziano corpo che le contiene. E allora, con una nota forse scontata per i nostri fratelli di lettura inglesi, ma non necessariamente per noi fruitori del Bel Paese, vale la pena soffermarsi sul
3 «Non è il personaggio, ma l’evento che ci sollecita ad abbandonare la nostra riservatezza»:
in Una chiacchierata sul romanzesco, traduzione di Roberto Birindelli, in Stevenson, Romanzi,
racconti e saggi, a cura di Attilio Brilli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2012, p. 1863.
4 Gli allegri compari, cit., p. 9.
5 Ibidem.
54
ILCORSARONERO 26
cognome dei due protagonisti: Darnaway, dove “darn” rimanda alla lacerazione, alla scissione
e alla sua ricomposizione, perché significa “rammendare”, “rammendo”, ma anche “maledire” e
“maledetto, dannato”; e “away” può funzionare come rafforzativo di questi significati. Stevenson
ci presenta dunque due esiti opposti del comune ceppo Darnaway: il dannato Gordon; e il superstite Charles, che si sottrae abilmente, pur correndo rischi diversi, alla predestinazione luttuosa
della famiglia. Sfuggiamo però alla seducente inquietudine del doppio. Non dobbiamo e non
possiamo far torto all’altro grande protagonista dell’immaginario stevensoniano: il tesoro!
Prima che ne Gli allegri compari, questo celebre tema/simbolo era già apparso nelle sue
opere. A volerne citare solo due: Il diamante del Rajah e ovviamente L’isola del tesoro6. Ora a trentadue anni e con all’attivo una più che onorabile posizione di critico e scrittore, Stevenson si concede il lusso di consolidare il suo oggetto feticcio, e anche per Gli allegri compari non esita ad avvalersi del tesoro quale motore narrativo. È infatti anche attorno all’arraffare tesori che si incardina
la cupa follia di Gordon; è anche per trovare un tesoro che Charles si reca nuovamente ad Aros;
e soprattutto grazie alla ricerca del tesoro il giovane si mette alla prova, senza nemmeno volerlo,
mostrandoci lo spettacolo di contrastanti passioni e l’istruttiva traiettoria della sua maturazione
individuale. Che dire? A essere onesti, è pura ripetizione di un tema vecchio quanto il mondo. Lo
stesso Stevenson riconosceva i termini della questione, come rivela con sferzante ironia in Una
chiacchierata sul romanzesco: “Siamo di fronte al vecchio, legittimo interesse, cotto e ricotto, per
la caccia al tesoro”7. Eppure la scelta paga ancora (e pagherà a lungo, come sappiamo), perché Gli
allegri compari, sebbene non sia storia di pirati e ammutinamenti, possiede cristalline qualità
epico-archetipiche, che contribuiscono in modo cruciale a consegnarci una lettura appassionante, piacevolissima, coinvolgente. Proprio come voleva Stevenson. Proprio come, guarda caso!, lui
stesso aveva teorizzato nel saggio appena citato:
In qualsiasi cosa meritevole del nome di lettura, il processo stesso dovrebbe essere avvincente e voluttuoso; dovremmo divorare con gli occhi il libro, restarne estasiati e,
terminata questa lettura meticolosa, rimanere con la mente ricolma di una fantasmagorica, sfrenata danza di immagini, incapaci di prender sonno o di pensare ad altro8.
Chiuso il baule del tesoro, corre l’obbligo di menzionare il sesto e ultimo tra i principali
topos stevensoniani rappresentati ne Gli allegri compari. Mi riferisco alla posizione dell’autore
verso un impulso ritenuto tra i fondamenti psicologici e morali della civiltà: la competizione.
6 Il diamante del Rajah: pubblicato nel 1878 sul “London”; L’isola del tesoro in "Young Folks", ottobre 1881–gennaio 1882.
7 Una chiacchierata sul romanzesco, in Romanzi, racconti e saggi, cit., p. 1861.
8 Ivi, p. 1851.
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Un giudizio, il suo, che in quegli anni forse era ancora in formazione e che successivamente, dopo una vita di viaggi coronata dall’approdo in terre lontane e non civilizzate, diverrà
presa di posizione esplicita contro il colonialismo, massima espressione dell’arricchirsi a spese
altrui. Nel tenerci incollati alle pagine con il dilemma di Charles sul tesoro dell’Espirito Santo,
Stevenson ci pone un interrogativo retorico: a quali condizioni possiamo infrangere il legame
collettivo tra uomini per garantirci tornaconto e benessere individuali? La risposta è altrettanto
chiara: seppure dopo un momento di turbamento, Charles sente di non poter tradire la memoria
dei poveri naufraghi profanandone i resti. A questa condizione, cioè appunto a spese altrui, arricchirsi non ha senso.
Siamo alle conclusioni. Spero di avere dato un primo persuasivo abbozzo della tesi che
Gli allegri compari è tutto Stevenson in un racconto solo. Forse non siamo alle vette della potenza
poetica di altri suoi racconti o romanzi, ma di certo è tutto: compiuto, completo, esaustivo, rotondo. E quand’anche si sollevassero legittime eccezioni alla qualità del racconto, che può apparire
ottima ma non eccellente, è un fatto che Gli allegri compari mostra pienamente all’opera la magistrale abilità di Stevenson nel catturare, fin dalla prima pagina, l’attenzione del lettore, per liberarla solo alle ultime righe, satolla e soddisfatta per aver assistito a una gran bella storia.
«Ed è quanto ci basta», come diceva Stevenson stesso9: quanto basta a noi poveri piccoli
esseri umani e al nostro famelico bisogno di storie e immagini che scaldino il cuore, che ci facciano ritrovare anche da adulti la gioia protettiva ed espansiva del gioco, e ci lascino un bel ricordo
da accarezzare nei momenti in cui ci serve coraggio. Perché, d’accordo con l’autore scozzese, questa «dopo tutto, è l’unica motivazione e la vita stessa dell’arte: l’incanto»10.
9 Ivi, p. 1860.
10 Una nota sul realismo, traduzione di Attilio Brilli, in. Stevenson, Romanzi, racconti..., cit., p. 1875.
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ILCORSARONERO 26
A N D R E A CO M I N C I N I
Stevenson
e la filosofia
del romanzo.
«Quel che è veramente interessante, a questo punto, è che Stevenson, in mezzo a tutto
ciò, ebbe uno scatto improvviso di impaziente desiderio di salute: come una scossa di scetticismo riguardo allo scetticismo». La riflessione è di Gilbert Keith Chesterton, uno degli interpreti
più accreditati di Stevenson, e fa riferimento a quella opaca malinconia caratterizzante la società
letteraria intorno allo scrittore. La moda del dandy dal polso tremante e dai propositi nichilisti
era decisamente lontana dalla tempra dello scozzese. Caratteristica interessante, visto che lui, a
differenza di molti altri, avrebbe avuto motivo di sconforto: un corpo malato, un respiro asmatico
continuamente lì a minacciarne l’esistenza, avrebbe dovuto trascinarlo nel dolore più devastante.
Invece Stevenson, con un ardore pari solo alla solarità della sua scrittura, cerca altri lidi: non faceva per lui il pessimismo di Schopenhauer, sebbene soffrisse di periodi bui di depressione, e a
tutti coloro che si crogiolavano in una ostentata amarezza, avrebbe probabilmente voluto gridare:
«all’arrembaggio!». Chesterton insiste sul tema: «tutti gli altri artisti e poeti, erano dei poseur: giocavano a fare i membri del club dei Suicidi».
Cosa ha spinto dunque Stevenson a imbracciare un altro stile di vita, una filosofia addirittura, così diversa dai contemporanei in voga, spingendolo a solcare con i suoi pirati mari sconosciuti senza temere di annegare? È possibile che la tipica scrittura sia il frutto di una maturazione
interiore, e non una semplice opzione stilistica, ma quasi necessità, destino? Fiumi di inchiostro
sono stati versati per omaggiarne l’incredibile biografia, e nonostante oggi anche l’opera venga
riconosciuta adeguatamente, un malevolo sguardo della critica resta sempre latente. Il rimprovero mossogli è noto: la ricerca di una universalità del piacere tramite la lettura — e L’isola del tesoro
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ne è l’apice — ha a che vedere unicamente con il gusto del successo o la ricerca della popolarità,
e non con la letteratura “alta”. Contestare l’obiezione nel merito non sembra produttivo: più utile
invece accoglierla, e dimostrare quanto il supposto elemento negativo è, in realtà, una straordinaria e consapevole scelta intellettuale e artistica. Non si tratta ovviamente di una difesa d’ufficio: questa Weltanschauung, o vision, per dirla in termini più attuali — rivela una intelligenza di
assoluto spessore.
Stevenson è stato spesso accostato a pensatori positivisti, sia per l’ironico scetticismo che
accompagna i suoi saggi, sia per quello spirito pagano a lui affine. Un autore a cui poco è associato, e al quale invece — a mio avviso — risulta profondamente legato, è Friedrich Nietzsche.
Molti penseranno alle questioni morali implicite nel Dott. Jekyll e Mr. Hide, ai risvolti psicologici
e psicanalitici sottesi al testo: legittimi, ma qui si insisterà sulla intera produzione stevensoniana, definendola il corrispettivo letterario del superomismo nietzschiano, epurato ovviamente da
qualsiasi travisamento in chiave sciovinista e razziale, che tanti danni ha provocato anche al genio di Röcken.
Vi è un personaggio che svetta onnipotente nell’opera nietzschiana, Zarathustra. Il profeta della vita a venire pare incarnare pienamente la filosofia del nostro scrittore. Come Zarathustra,
Stevenson non fa finta di sapere che l’esistenza non sia tragica: ogni pagina, ogni personaggio,
non è mai solo, ma sempre accompagnato dalla consapevolezza di quel Nulla tanto corteggiato
dai suoi contemporanei. Ebbene, quale prosa è più energica e solare se non quella dello scozzese? Dove ritrovare una continua volontà di vivere nonostante la vita, nonostante la trama? È la
scrittura stessa a offrire tale interpretazione, e solo successivamente i contenuti dei racconti. Lo
strumento è ovviamente la poetica, le proprie leggi, e anche — elemento fondamentale — la necessità di Stevenson di scrivere per una giocosa redenzione del mondo, e non solo per se stesso
o il plauso dei critici.
Zarathustra sa di non poter essere capito da tutti, e così Stevenson: solo nell’adolescenza
si trova la cura del vivere, gli uomini lo hanno dimenticato. «Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare
il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve anche diventare
un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da
sola, un primo moto un sacro dire di sì. [...] Tre metamorfosi vi ho nominato dello spirito: come lo
spirito divenne cammello, leone il cammello, e infine il leone fanciullo».
Il filosofo ricorda sempre che il peggior nemico del superuomo è la compassione, seguita
dalla malinconia. Cosa significa? La risposta non è rifugiarsi nel passato, quando si giocava con
barche di carta o si sognava di conquistare il mondo nel giardino dietro casa. Tale interpretazione
sarebbe decisamente riduttiva. Nietzsche non elogia la banalità di anime grette e ciniche. Troppe
volte il suo secolo l’ha frainteso. Il messaggio di Zarathustra è tornare a essere fanciulli, dopo essere stati adulti. Davanti alla tragicità dell’esistenza, quando si può essere facilmente sedotti dal
pessimismo schopenhaueriano, proprio allora essere fanciulli vuol dire semplicemente accettare
la drammaticità del destino, eternamente.
Stevenson procede parimenti a consegnare alla pagina bianca uomini e donne con un
fato già deciso, semplicemente da esplicare, e nonostante il lettore conosca e avverta l’esito, anche
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ILCORSARONERO 26
quando negativo, lo vive fino in fondo, perché l’artista così vuole, senza rimpianti. La forza del romanzo non è nel semplice intrattenimento, ma nella trasvalutazione del tragico in gioco, e il gioco
in stile letterario. Rivolgersi al grande pubblico, dunque, e ricercare il piacere della lettura non è
segno di viltà, ma il contrario. Tradotto in termini ermeneutici, il romanzo stevensoniano ricorda
una verità difficile da sostenere: essere e pensiero non sembrano coincidere, il mondo non procede linearmente verso magnifiche sorti e progressive, e non mostra alcun senso. Ma allora, invece
di sconfortarci, perché non salpare con l’Hispaniola? Perché non essere tentati di andare alla ricerca del tesoro? Quale ragione dovrebbe indurre lo scrittore a cedere a stili sterili, opachi, autoreferenziali, come tanti suoi contemporanei?
Nietzsche e Stevenson hanno compreso che del mondo non se ne può fare sistema: panta
rhei, e non c’è una verità dietro una apparenza di menzogne. Crollato il fenomeno, anche il noumeno non c’è più. Eppure entrambi si affidano alla scrittura per ottenere e donare piacere, perché
dalle macerie nichilistiche di fine Ottocento deve sorgere un nuovo uomo, grazie a una rinnovata
fiducia e a una sana e potente creazione di senso.
Esiste un essere in grado di fare ciò?
Il fanciullo ovviamente, ma non quello lasciato anni fa, bensì il ragazzo del futuro,
unico a poter giungere “nel regno dei cieli”.
In Italia lo stesso misunderstanding letterario
di Stevenson è piombato su Emilio Salgari.
Prima derubricati a racconti per il popolo,
infine assurti agli onori degli altari, le opere
di Salgari sono attraversate dallo stesso spirito vitale. Chi non avrebbe voluto combattere
accanto a Sandokan, o avrebbe chiesto di accendere una sigaretta a Yanez? Ancora una
volta si rinnova il desiderio di piacere al lettore non soltanto attraverso un singolo racconto, ma
grazie a una rinascita “teologico-poetica”, per parafrasare l’ultimo lavoro del filosofo Sergio Givone, perché l’arte non può nascondere la sua vocazione religiosa, e la trasformazione del mondo in
favola non ha carattere dissolutivo, ma performativo. È la forma a decidere le sorti del contenuto.
I critici che denigravano Stevenson sembrano proprio simili agli uomini descritti nel
frammento 125 della Gaia Scienza: «Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla
chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco
Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò
grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro […]».
Robert Louis Stevenson fu frainteso proprio come il folle, creduto un bambino sperduto,
alla ricerca di una chimera. Egli sapeva bene tuttavia che la verità è un’altra: a esserci persi siamo
noi, tra Pulvis et umbra, e solo il miraggio di un tesoro, nascosto in un’isola sperduta, può farci
nuovamente bollire il sangue e accogliere la vita con le sue tempeste.
Il romanzo
stevensoniano ricorda
una verità difficile
da sostenere: essere
e pensiero non sembrano
coincidere.
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FO LG O RI D 'AU TO RE
MARCELLO SIMONI
Il demone
di Cyrano.
Ci sono uomini (e donne, naturalmente) che hanno avuto il privilegio di vivere
due vite. La prima in carne e ossa, la seconda sotto forma di personaggi letterari. Mi riferisco a figure come Richelieu, Lucrezia Borgia e Cyrano de Bergerac. I loro nomi sono
talmente legati alla trama di narrative, che gli scrittori hanno intessuto in loro onore
nel corso dei secoli, tali da renderci difficile distinguere fino a che punto la storia abbia ceduto il passo alla fantasia e viceversa. Caso emblematico è proprio Cyrano, che
infilandosi — a tutto naso, verrebbe da dire — nel gioco della finzione poetica e pseudo-fantascientifica, s’inventò un viaggio sulla Luna, dove egli afferma d’aver incontrato il demone di Socrate. Che in tal modo divenne vittima del medesimo scherzo in cui
cadde qualche tempo dopo, a opera di Rostand, lo stesso Bergerac: divenne, cioè, un
personaggio di carta e inchiostro.
Da qui il nome e lo scopo di questo breve intervento, dedicato a parlare di coloro che ebbero una vita doppia, alcuni fin troppo noti e altri quasi sconosciuti. Ed
è partendo dal Medioevo guerresco che avrei desiderio di cominciare. Benché abbia
espresso il mio intento, desidero infatti accostarlo a un importante corollario: l’avventura. I personaggi di cui tratterò, in sostanza, dovranno spartire qualcosa con Lancillotto, il Corsaro Nero o il Capitano Nemo. Dovranno essere viaggiatori, guerrieri o perché
no, furfanti in grado d’intrattenerci con le loro imprese o malefatte, veritiere o iperboliche che siano.
Parlerò quindi di Turpino, che prego di accogliere con un Monjoie! in onore di
una guerra che, nata in terra di Spagna prima dell’anno Mille, prosegue oggi in un baluginare di lacche e peltri nei teatrini dei pupi siciliani.
Fu monaco, il nostro Turpino. Ordinato presso l’abbazia di Saint-Denis, a Parigi,
verso la metà dell’VIII secolo, fu nominato vescovo e seguì Carlo Magno nella spedizione contro i mori di Spagna. Egli divenne testimone e scrivano, annotando di persona
– così si tramanda – tutto ciò che i suoi occhi videro durante la campagna militare, dal
valico dei Pirenei alla presa di Pamplona, e ancor di più. Nella Historia Karoli Magni et
Rotholandi, che la tradizione a lungo gli attribuisce, egli offre il ritratto di un monarca
che per secoli venne osannato come eroe e persino come santo.
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FOLGOR I D'AU TOR E
Ma in questo resoconto storico-avventuroso-teologico che influenzò l’autore
della Chanson de Roland fino all’Orlando furioso di Ariosto, Turpino dedica anche spazio a quelli che furono i paladini dell’impresa, ovvero i Pari di Francia stretti intorno al
re Carlo, primi fra tutti Rotholandus (Orlando), Oliverius ed Estultus (Astolfo). Ma proprio qui ci stupisce, perché tra i combattenti il vescovo-cronista cita pure se stesso in
qualità di cavaliere e nemico giurato dei Saraceni.
Che si tratti di realtà o di finzione — ah, l’insuperabile inventiva dei cronisti medievali! — l’autore della Chanson de Roland non si fece certo implorare per inserire il
nostro vescovo Turpino tra le fila degli eroi del cristianesimo, riversatosi in Hispania
per liberare quello che divenne poi il tratto iniziale del Cammino di Santiago. Al punto da farlo combattere durante la rotta di Roncisvalle (lassa 158) al fianco dello stesso
conte Orlando, che vedendolo appiedato, nel bel mezzo della mischia, lo avverte:
Voi siete a piedi e io sono a cavallo:
per amor vostro, signor, non m’allontano;
avremo insieme il bene e insieme il male».
Oggi i pagani sapranno a questo assalto
Che cosa è Almacia, che cosa è Durendala».
Disse Turpino: «Chi non colpisce è un pavido!
Ritorna Carlo, che ci vendicherà!
Non trascorse molto dacché Turpino morì, almeno tra le lasse dell’Anonimo,
come un eroe che dopo aver impartito l’estrema unzione a Olivieri si recò esausto
presso un ruscello per procurare acqua allo svenuto Orlando. Ed è proprio in questo
momento letterario, profondamente epico e allo stesso tempo umano, mentre Turpino
si accascia presso lo zampillare di una sorgente, che i miniaturisti medievali lo immortalarono. Rendendolo un eroe e martire riverito dagli angeli.
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R I S E RVATA
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N U G A E /C I N E MA
R E N ATO V E N T U R E L L I
Non è più tempo
d'eroi: il centenario
di Robert Aldrich.
Ricorre quest'anno il centenario di Robert Aldrich, uno dei più grandi tra i registi americani della seconda metà del Novecento, e siamo curiosi di vedere come verrà ricordato. Il suo nome era infatti uno dei più amati dalla critica europea anni Cinquanta,
quando ai tempi di Vera Cruz, Il grande coltello, Prima linea - Attack!, incarnava lo spirito della ribellione a Hollywood. Era il regista cresciuto alla scuola "politica" degli Enterprise studios, che aveva lavorato con Losey, Chaplin, Polonski e John Garfield, aveva
poi formato una compagnia tutta sua per non inchinarsi alle prepotenze degli studios.
All'epoca, il giovane Aldrich (nato il 9 agosto 1918) era considerato una delle massime
speranze del cinema americano, Truffaut preconizzava che sarebbe stato "l'avvenimento cinematografico del 1955", e il noir apocalittico Un bacio, una pistola (1955) ebbe un
effetto sconvolgente, con quel finale in cui veniva scoperchiato il vaso di Pandora di
un'esplosione atomica.
Il primo scontro fatale col sistema, Aldrich lo ebbe già allora, quando affrontò in
La giungla della 7ª strada (1957) la questione del ricorso alla malavita nelle contese tra
imprenditori e sindacati, e cercò di parlarne nel modo che non era gradito agli studios.
Il film gli fu tolto di mano, lui si rifugiò in Europa per qualche tempo, e quando tornò
negli Stati Uniti si mise a fare film che terremotavano Hollywood dal suo interno: prese
in mano generi popolari e li lavorò alla sua maniera, giocando su registri grotteschi ed
eccessivi che facevano saltare in aria i perbenismi, ma non sempre trovavano critica e
pubblico pronti a comprendere e ad accettare le sue provocazioni oltranziste.
Che fine ha fatto Baby Jane? (1962) e Quella sporca dozzina (1967), ebbero grande successo di pubblico, battendo la strada di un'irruenza anche enfatica, dai modi
ferocemente caustici, quasi cartooneschi, dove la deformazione grottesca e la satira
aggressiva spingono verso un'autentica deflagrazione delle forme. La Bette Davis di
Baby Jane resta ancor oggi una specie di icona della disgregazione hollywoodiana,
Donald Sutherland che passa in rassegna il plotone è una scena-simbolo della ribellione anarcoide al potere.
Ma non fu così per tutti i suoi film. E il vero "caso Aldrich" arriva con gli anni Settanta, quando il suo cinema è in realtà all'avanguardia, e come tale viene riconosciuto
recentemente anche in un libro come Le cinéma américain des annés ’70 di Jean-Baptiste Thoret, che vede in Aldrich uno dei pilastri del decennio, il regista che anticipò
e ispirò l'esplosione energetica del cinema americano anni Settanta. Robert Aldrich e
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NU GAE/C INEMA
«Tu non diventerai mai l'Imperatore del Nord!
Ne avevi la stoffa, ragazzo, ma non il cuore!»
Lee Marvin, in L'imperatore del Nord
Don Siegel sono in effetti i due maestri "occulti" di quel periodo, i grandi registi formatisi negli ultimi anni dello studio system succhiandone il meglio e cercando poi di
reinventarlo secondo itinerari assolutamente personali e indipendenti. Ma gli anni Settanta erano caratterizzati da altre mode, si parlava solo di New Hollywood, si esaltavano i rovesciamenti anche esteriori e superficiali della tradizione del cinema americano.
Don Siegel se la cavò comunque, centrando una serie di successi e trovando un
prezioso complice ed erede in Clint Eastwood (ma un capolavoro come Chi ucciderà
Charlie Varrick? andò male...). Aldrich fu invece uno dei grandi misteri dell'epoca, perché realizzò alcuni dei film più belli e potenti del decennio, ma si ritrovò in definitiva
emarginato. E molti dei suoi migliori film furono incredibili fallimenti commerciali. Il
caso più clamoroso è quello di L'imperatore del Nord (1973), che sta oggi finalmente
conquistando il suo giusto riconoscimento cult, ma per molto tempo fu una sorta di
"guilty pleasure" cinefilo. Nessuna pietà per Ulzana (1972) è uno dei capolavori western
del decennio, ma era evidentemente destinato a restare incompreso in tempi di soldati blu e piccoli grandi uomini, di rovesciamenti superficiali e ideologici del mito cinematografico del West. E non è finita, perché andò male anche un grande film bellico
come Non è più tempo d'eroi (1970), e trovò pochi sostenitori in campo critico un film
sferzante come I ragazzi del coro (1977), la cui provocazione era considerata troppo "di
cattivo gusto". Il carnevalesco anni Settanta di Aldrich era una delle cose più potenti
che ci dava il cinema del decennio, ma sembrava inaccettabile per le mode dell'epoca.
E l'incomprensione arrivò fino agli estremi, perché fu un disastro commerciale anche
l'ultimo suo film, California Dolls (1981), un'opera struggente e accorata sulla dignità
umana, difesa fino all'ultimo da Peter Falk tra un match e l'altro delle sue lottatrici girovaghe: il regista morì un paio d'anni dopo la sua uscita, nel 1983.
È ovvio che tutti questi film sono stati oggi — come si dice — "rivalutati", ma
sono rivalutazioni che rischiano di lasciare il tempo che trovano, elogi ristretti a chi
ancora frequenta Aldrich e il suo cinema. La domanda vera è: ma il ruolo prepotente
avuto da Aldrich nel cinema degli anni Settanta è stato davvero riconosciuto, oppure
i percorsi storiografici continuano imperterriti a battere le solite strade, di fatto ignorandolo? Per gli anni Cinquanta, sappiamo che il riconoscimento c'è stato, immediato.
Per il periodo dominato dal modello critico della New Hollywood restano molti dubbi.
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N U G A E /L E T T E RAT URA& SPO RT
DA R W I N PA S TO R I N
Una gozzaniana
"menzogna
primaverile".
Era autunno, qualche anno fa. Un autunno torinese, che pareva una gozzaniana
"menzogna primaverile". Scesi dal tram e mi ritrovai, qualche passo in là, davanti alla
mia scuola elementare, la "Silvio Pellico" di corso Dante. E cominciai a navigare nel
mare largo dei ricordi... In quel 1961 carico di speranze e menzogne, i miei genitori decisero di lasciare il Brasile, e San Paolo, e di tornare in Italia: a Torino, che a quel tempo
era il cuore e il ferro di una Nazione, e non più nella loro amata Verona. Tutti i sogni,
in quella stagione, sembravano possibili. Non fu esattamente così: ma questa è un'altra storia. Cominciai la prima elementare senza avere una lingua mia: parlavo il portoghese imparato in strada con i miei coetanei, l'italiano di papà e mamma e il dialetto
veneto dei nonni. A risolvere quella omerica confusione linguistica fu la mia maestra.
La mia meravigliosa, indimenticabile e cara maestra Esterina Unia. Una delle persone
più importanti della mia vita. Mi diede un alfabeto, con passione e pazienza. Era una
donna alta e magra, di una bontà infinita. Ai miei occhi bambini sembrava l'angelo del
Catechismo.
Un giorno feci un disegno. Non avevo preso il talento da mio padre, pittore scultore designer industriale: non avevo, insomma, nessuna predisposizione per quell'arte.
Cercavo di impegnarmi, comunque. Anche perché, per una questione di orgoglio, volevo andare bene a scuola. A quel tempo premiavano gli alunni più bravi con una medaglia. E non volevo, soprattutto, deludere mia madre, che desiderava noi figli sempre
promossi e a pieni voti.
Quel giorno, ricordo bene, ero al settimo cielo per quel mio disegno. E lo mostrai
alla mia maestra con un sorriso a girasole. Volevo la sua approvazione e un bel 10. La
mia insegnante guardò in lungo e in largo, in verticale e in orizzontale, di sopra e di
sotto quel mio lavoro. Attendevo in piedi, vicino alla cattedra. Elegantissimo nel mio
grembiule nero e con il mio fiocco azzurro al collo.
— Darwin, cos'è? Mi sembra una barca, con sopra un uomo...
—Maestra, non proprio una barca e non un semplice uomo.
— Quindi....
— Questo — e indicai il mio disegno — è un veliero, la gloriosa Folgore. E lui è il
mio eroe preferito, quello che mi aiuta quando ho dei problemi. Certo, vive solo nella
mia fantasia. Ma, per me, è come se fosse reale: si chiama Corsaro Nero. Ed è forte, co-
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NU GAE/L ETTER ATU R A&SPORT
raggioso, generoso. Combatte contro tutte le ingiustizie.
— Caro Darwin, lo conosco benissimo. Ho letto le sue avventure quando ero piccola come te. Ma tu come fai a conoscerlo?.
— Merito della mia mamma, maestra! In Brasile, mi leggeva il Corsaro Nero per
farmi dormire. Io chiudevo gli occhi, ma facevo solo finta di essermi addormentato! In
verità, appena mamma usciva dalla stanza, io proseguivo il racconto, ma a modo mio.
Saltavo sopra il cuscino, che era diventato il mio cavallo, e andavo a dare una mano
al mio corsaro nella lotta contro i cattivi. Vincevamo sempre noi. Il Corsaro Nero, alla
fine della nostra lotta contro quelli che volevano fare soltanto il male, mi invitava sulla
sua nave e insieme partivamo per altre conquiste. Attraversavamo l'oceano. E una volta
siamo persino sbarcati a Santos e da lì siamo andati a San Paolo. Gli ho fatto vedere la
casa dove sono nato e conoscere i miei amici. Lui li ha nominati suoi filibustieri brasiliani e io il loro comandante...
— Certo che ne hai di fantasia!.
— Ma il Corsaro Nero è esistito veramente. E continua a esistere: basta leggere le
pagine di Emilio, che è un narratore fantastico.
— Tra l'altro è nato a Verona, nella città dei tuoi genitori...
— E forse, maestra, mio nonno Giovanni lo ha conosciuto! Dico sul serio, non è
una mia fantasia...
— Ci credo, Darwin. Ci credo. Emilio Salgari ha scritto tanti altri bellissimi romanzi.
— Mia mamma ha promesso di farmi leggere le avventure di Sandokan. Ma, se
devo essere sincero, maestra, nessuno sarà così coraggioso e imbattibile come il mio
Corsaro Nero. Lui è in grado di superare, a duello, chiunque. Anche Sandokan. Ma a mio
parere questi due, alla fine, diventeranno amici. Proprio come Topolino e Pippo.
La maestra Esterina Unia mi fece una carezza.
— Torna pure a posto, Darwin. Ti sei meritato il dieci e la medaglia. Anche se da
grande, secondo me, non farai il pittore come il tuo papà, ma lo scrittore.
Non riuscivo più ad andare via. Ero lì, fermo davanti al portone della mia vecchia
scuola elementare. E piangevo. Proprio come il Corsaro Nero alla fine del romanzo.
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N U G A E /FAN TAST ICO
M A S S I M O TA S S I
Peppone e
don Camillo, largo
ai bisticci dei nipoti.
Un'antologia come
tributo a Guareschi.
È un clamoroso ritorno: quello del compagno Peppone e dell’energico pretone Camillo. O meglio, sarà un po' come vederli nuovamente battibeccare tra Casa del
Popolo e la Chiesa. Già, perché i loro nipoti stanno per arrivare nella Bassa emiliana
cara a Zavattini. E pare abbiano lo stesso carattere e le medesime vedute dei celebri
personaggi di Guareschi, resi immortali da pagine vibranti e dal cinema.
L'idea è del giornalista Donato Ungaro e dell'editore Fausto Bassini, che con
il marchio Faust si preparano a navigare sul Grande Fiume tenendo sottobraccio un
libro: Mio zio don Camillo, mio nonno Peppone. E la storia ricomincia.
«Guareschi è stato considerato l'inventore del vero e non c'è affermazione più
esatta per descrivere un giornalista che ha saputo leggere quel territorio speciale
che è la Bassa, le rive del Po, la gente che abita 'quella fetta di terra tra l'Appennino
e il Grande Fiume', come la definiva lui stesso, dove Giovannino ha ambientato con
irripetibile atmosfera i racconti dei suoi personaggi più famosi, così com'è irripetibile
l'autore», afferma Donato Ungaro, cui si devono le diciotto storie che si preannunciano come un omaggio originale al lascito di Guareschi. «Bisognava trovare la forza
non di riscrivere, ma di vedere con altri occhi e io ho provato a farlo, da cronista di
provincia, ripercorrendo gli stessi argini e le stesse carrarecce che aveva percorso
Guareschi, così ho ritrovato alcune delle buche in cui era caduto, e per certi aspetti ci
sono ricaduto, con doveroso rispetto».
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NU GAE/FANTASTICO
Entriamo nello scenario fatto di nebbia, in cui i rintocchi che arrivano dal campanile a tratti sovrastano il vociare dei crocchi sotto i portici di Brescello (Reggio Emilia). Largo all'ingegnere Giuseppe Bottazzi e alla Cesira, giovane missionaria laica.
Che vantano illustri parenti. Sì, proprio don Camillo e Peppone.
«Un giovane ingegnere nato nella Bassa, poi emigrato da bambino in Germania, viene richiamato in un paese sul Po per l'esumazione della salma del nonno,
mentre in relazione a uno zio prete accade lo stesso a Cesira, giovane missionaria
laica che da anni ha lasciato l'Italia», sottolinea l'editore Fausto Bassini. «Quando i
due eredi s'incontrano nell'ufficio del sindaco, iniziano a bisticciare per un malinteso
e volano parole grosse, del resto non poteva che essere così».
Mezzo secolo dopo si ricompone il "duellismo" che ha fatto ridere, commuovere e riflettere. E che tanta fortuna ha avuto sul grande schermo grazie ai volti di
Fernandel1 e Gino Cervi. E se in Guareschi apparivano molti temi specchio dell'Italia
che usciva faticosamente dalle rovine — anche interiori — della guerra, così Ungaro
muove Bottazzi e la Cesira nella Bassa padana odierna, tra storie che parlano di immigrazione, racket della prostituzione, escavazioni abusive nel Po. Un pensiero del
regista Pupi Avati fa da cameo all'antologia.
1 Fernand-Joseph-Désiré Contandin (Marsiglia, 8 maggio 1903 – Parigi, 26 febbraio 1971); Gino
Cervi, all'anagrafe Luigi Cervi (Bologna, 3 maggio 1901 – Punta Ala, 3 gennaio 1974).
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N OT I Z IE
A cura di Astrofel, Gino Bedeschi, Giuseppe Cantarosa e Bartolo Tondini
ADDII. PAOLA AZZOLINI: PIRATESSA
SENSIBILE IN BIBLIOTECA
Se ne è andata nel novembre 2016 Paola Azzolini. Si era occupata moltissimo di letteratura, da Manzoni a Capuana, e molto di letteratura femminile tra Ottocento e
Novecento. Pochi hanno sottolineato invece il suo interesse per Salgari di cui aveva
scritto con scrupolo e perizia più volte sulle pagine dell’”Arena”, e nel lontano 1991
curato la mostra e il catalogo I pirati in biblioteca. Fonti salgariane insieme a Silvino
Gonzato. Paola Azzolini si era a lungo occupata anche di Luigi Motta, epigono salgariano veronese di cui aveva curato La grande tormenta. Romanzo autobiografico di
un'epoca crudele ed eroica nella revisione di Giulio Cesare Zenari. Aveva anche tratteggiato un autorevole ritratto dello scrittore di Bussolengo nel volume monografico
Luigi Motta scrittore di avventure curato da Claudio Gallo e Paola Tiloca. Tante volte
avevamo parlato di un suo contributo per la nostra rivista che, purtroppo, con estremo rammarico, non si è mai concretizzato. L’attenzione, mai venuta meno, per questi
due scrittori testimonia il suo grande interesse senza preclusioni per la letteratura.
Atteggiamento che l’ha resa una nostra sensibile, acuta, fine interlocutrice.
ADDII. LA FOLGORE, ALZATE LE
VELE, SI ALLONTANA
Corrado Farina, nato nel 1939 a Torino, ci ha lasciati nel luglio 2016. Sorridente, simpatico, affatto presuntuoso. Ricordiamo di averlo incontrato un’ultima volta durante
la grande manifestazione dedicata ai fumetti che si svolge a Lucca. Avevamo parlato
della sua ultima fatica salgariana, Vita segreta di Emilio Salgari, in occasione di una
manifestazione in Sala Farinati della Biblioteca Civica per festeggiare i primi dieci
anni della nostra rivista. Al “Corsaro” cui si era abbonato aveva contribuito con due
scritti per lo speciale dedicato al cinema salgariano, curato da Fabio Francione nel
2011. Non può essere dimenticato il suo Giallo antico che metteva in relazione la realizzazione di Cabiria, kolossal storico del muto di Giovanni Pastrone, con la morte
di Salgari. Farina era persona poliedrica e di spessore, aveva sceneggiato e diretto
film, documentari e un numero incredibile di Caroselli, collaborato con molte riviste
e scritto numerosi libri che qui non possiamo elencare, ma volentieri ospiteremmo
un saggio sulla sua opera e sulla sua vita intensa. Rubando una sua frase lo ricordiamo mentre «La Folgore alza tutte le vele e si allontana agile nelle prime favolose luci
dell’alba». Saccaroa, Corrado.
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NOTIZIE
ADDII. UMBERTO LENZI
Massa Marittima, 6 agosto 1931 —
Roma, 19 ottobre 2017
Qualche tempo fa ebbi a scrivere sulle colonne di “Alias”, supplemento del quotidiano “Il Manifesto”, un’ampia recensione ai primi libri di Umberto Lenzi, annotando la
scala di valori che me lo faceva ritenere come il più consapevole, disincantato e cinefilo dei grandi registi inventori del cinema di genere italiano. Il suo rapporto con Salgari, e soprattutto con Sandokan, fu costante e produsse due film: Sandokan, la tigre
di Mompracem (1963) interpretato da Steve Reeves e I pirati della Malesia (1964). Sorprendente, invece, la trasposizione di un altro romanzo dello scrittore: La montagna
di luce (1965). Mentre degli apocrifi salgariani possono essere considerati: Sandok, il
Maciste della giungla (1964) e I tre sergenti del Bengala (1964).
Probabilmente un gradino sotto Mario Bava e Riccardo Freda, in briccona, anarchica
compagnia generazionale (Lucio Fulci, Antonio Margheriti, Aristide Massacesi, tutti
nati tra la fine degli anni Venti e la metà del decennio successivo), Umberto Lenzi
è, tra loro, quello che ha meglio interpretato i mutamenti di gusto della società del
tempo. Anche per Lenzi vale il giudizio di Sidney Gottlieb dato al cinema di Alfred Hitchcock, e di come il percorso del maestro del brivido sia stato condotto all’insegna
dell’emozione, senza ignorare la funzione catalizzatrice del pubblico verso il prodotto. Hitchcock tra i primi comprese che il cinema rivolto allo spettatore può “essere
anche arte”. Certo che Lenzi nella sua filmografia ricca di titoli (Orgasmo, La banda
del gobbo, Il grande attacco) ed eclettica nei generi (giallo all’italiana, poliziotteschi, fantascienza italian style, catastrofici autarchici, horror, avventurosi e “mostruosi” mediterranei, comico farsesco e brillante) non è mai scivolato nelle zone di quei
sottofiloni cinematografici, che alcuni dei suoi film avevano contribuito a generare,
conservando, anche nelle difficoltà produttive, dignità artigianale e professionale
che gli è valsa nel corso degli anni una nutrita schiera di ammiratori, equamente divisi tra fans sfegatati come la rivista “Nocturno”, cineasti come Quentin Tarantino e Joe
Dante, e direttori di festival come Marco Müller. Proprio la rivalutazione critica dei
suoi film, passata qualche anno fa per la prestigiosa retrospettiva The Italian Kings of
B’s. Storia segreta del cinema italiano. 1949-1976, curata da Marco Giusti in occasione
della 61ª edizione del Festival del Cinema di Venezia, il successo delle edizioni in dvd,
i tanti inviti e partecipazioni a rassegne e a omaggi in tutta Italia, hanno dato al regista la spinta a rivelare la sua passione per letteratura popolare e scrittura, affidata a
una rigorosa e coerente fedeltà al “genere giallo”. (Fabio Francione)
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N OT I Z IE
GIOVE TOPPI
La rivista “Fumetto” dell’Associazione Nazionale Amici del Fumetto e dell’Illustrazione pubblica il ritratto di Giove Toppi di
Luciano Marcianò corredato da
una bibliografia cronologica di
estremo interesse. Toppi (Ancona, 2 agosto 1888 – Roma 2 luglio 1942) fu uno dei primi disegnatori di fumetti, a lui si deve la
prima tavola di “Topolino” pubblicata per l’editore Nerbini il 31
dicembre 1932. Abile illustratore
per tante riviste e libri di area
fiorentina, fumettista “principe”
tra gli anni Trenta e Quaranta di
storie d’avventura per “L”Avventuroso”, “Giungla”, “Pisellino”…
Una silloge d’impronta salgariana dei tanti epigoni, come Luigi
Motta, Riccardo Chiarelli, Emilio
Fancelli… Di questo bravo artigiano della letteratura disegnata
si sapeva ben poco. Una lacuna
superata grazie al saggio di Marcianò: Giove Toppi, l’inventore
delle copertine degli albi a fumetti e non solo, e alla relativa
bibliografia.
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I SETTANT’ANNI
DI MARIO TROPEA
Il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania ha pubblicato un “volumone” per festeggiare i settant’anni di Mario Tropea, ordinario di Letteratura Italiana.
Egli ha scritto di Leopardi, Campana, Pascoli, Gozzano e dei molto amati narratori della
sua Isola: Capuana, Pirandello, Verga. Brancati, Tomasi di Lampedusa, Sciascia… Di avventura, di colonialismo, di esotismo, di spiritismo, di viaggio… Impossibile ricostruire in
poche righe il suo itinerario letterario e umano. Non poteva mancare Salgari che ebbe un
rapporto particolare con la Sicilia e con uno
dei suoi editori più rappresentativi: Salvatore
Biondo. Per l’editore Viglongo e la Biblioteca Civica di Verona ha curato, con attenzione
e scrupolo filologico, tre impegnativi volumi
di racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata a firma Guido Altieri. Ci piace ricordare, tra
i molti scritti che accompagnano i volumi, il
saggio introduttivo al secondo, Come scriveva il “Capitano”: fasti e decoro dello stile
di Emilio Salgari, uno studio unico sulla lingua dello scrittore, sullo stile individuato nel
raccordo “tra spazzatura e follia”. Non a caso
il volume termina con una Salgariana in cui
sono raccolti interessanti saggi sul popolare
scrittore d’avventure di Luciano Curreri, Cristiano Daglio, Roberto Fioraso, Fabrizio Foni,
Claudio Gallo, Paola Irene Galli Mastrodonato, Gian Paolo Marchi, Ann Lawson Lucas, Felice Pozzo, Samanta Sarti, Vittorio Sarti, Domenico Tanteri, Giuseppe Traina, Giovanna e
Franca Viglongo.
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NOTIZIE
I PRIMI NOVANT’ANNI
DI MINO MILANI
Mino Milani, il nostro amatissimo direttore spirituale, ha compiuto novant’anni lo
scorso febbraio. Giungano a lui i migliori auguri di tutta la ciurma de “Ilcorsaronero”.
Fra le tante manifestazioni a lui dedicate segnaliamo quella del 27 marzo: Bologna
Children’s Book Fair ha organizzato una “festa” in suo onore e l’Associazione Hamelin gli ha dedicato un «Oblò», una collana di monografie dedicate” sia agli illustratori e alle loro narrazioni per immagini che ai grandi narratori per ragazzi”, mentre
l’università degli Studi di Pavia, che conserva le sue carte, ha organizzato, lunedì 16
aprile 2018, alle ore 18.00, presso l’Aula Foscolo dell’Università, l’incontro Novant’anni di storie avventurose. Omaggio a Mino Milani. L’autore ha colloquiato con Arianna
Arisi Rota, Beatrice Masini, Piersandro Pallavicini e Mirko Volpi. È intervenuto anche
il Rettore Fabio Rugge.
L'EPOPEA DI FIUME A FUMETTI
MANLIO BONATI
Manlio Bonati, parmigiano, erudito, bibliofilo, biografo è tornato a scrivere un soggetto e una sceneggiatura. Bonati e Allagalla Editore hanno presentato alla Mostra
Mercato di Reggio Emilia del 26 maggio il cartonato Fiume. L’epica impresa di Gabriele d’Annunzio e dei suoi Legionari 1919–1920 con i disegni di Yildirim Örer e Mauro
Vecchi. Finalmente a fumetti, a 100 anni dagli avvenimenti (e a 80 anni dalla morte
del Vate), l’epopea di Fiume. È uno spettacolare periodo storico poco conosciuto e,
spesso e volentieri, incompreso. In queste pagine, avventurose, divertenti e vere, rivivono personaggi italiani dalle forti personalità: Gabriele d’Annunzio, Guido Keller,
Giovanni Comisso, Antonio Locatelli, Ettore Muti, Costanzo Ranci, Tito Testoni, Vittorio
Montiglio, Filippo Tommaso Marinetti, Alceste De Ambris e tanti altri che resero Fiume la città di vita, libera, democratica e meritocratica. L’elegante volume si avvale di
un’introduzione storica di Carlo Sicuro, ideatore del progetto, di una lunga intervista
di Danilo Chiomento a Manlio Bonati, 88 tavole suddivise in quattro capitoli (Yildirim Örer ha disegnato il primo, il terzo e il quarto, mentre Mauro Vecchi il secondo),
un’esaustiva bibliografia, le schede degli autori: 128 pagine in bianco e nero, accompagnate da illustrazioni d’epoca e da inediti dei due disegnatori. Il libro avrà due
differenti edizioni: quella cartonata con la copertina disegnata da Gigi Cavenago e
l’edizione variant a tiratura limitatissima con una sovracopertina suppletiva di Yildirim Örer.
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N OT I Z IE
LO ZAMPINO DI DARIO PONTUALE
IN DUE LIBRI D’AVVENTURE
Le Vantards de la mer (Editions Zeraq): racconti di Salgari in francese
—
Tra i grandi temi al centro della letteratura di tutti i tempi c'è la temerarietà, la presunzione, la vanagloria: una barca per curare la propria immagine, una regata per
affermare il proprio ego, il mare come specchio delle vanità. Ma fortunatamente
la vera passione finisce per riprendere il comando. Tre storie inedite di “eroi” del
mare: da un grande classico della letteratura, Emilio Salgari (autore de Il Corsaro
Nero e I pirati della Malesia) e di un evocativo ironico del malessere contemporaneo, quale Jean-Luc Coudray che, con questo testo, chiude la sua trilogia marinaresca (dopo i terribili pirati e gli oceani inquinati), con un inatteso tocco autobiografico. Se evidentemente ogni riferimento a persone, luoghi o fatti esistenti o esistiti,
sarebbe pura coincidenza, dal momento che la realtà supera spesso la fantasia,
fate attenzione a chi incrocerete al largo. L'esperienza di Delphine Gachet ha consentito un'eccellente traduzione delle novelle di Emilio Salgari e dell'introduzione
dello storico Dario Pontuale.
Gli allegri compari di Stevenson
—
Per gli abitanti della zona di Aros, un isolotto remoto e inospitale, estremo angolo
di terra della Scozia occidentale, gli Allegri Compari rappresentano un motivo d'insidioso richiamo: questo è infatti il nome che viene dato a un gorgo che si crea tra
le rocce all'andare e venire della marea, e dal quale giunge un suono ammaliatore
e minaccioso. Questo affascinante racconto di Stevenson, pubblicato o per la prima
volta nel 1882 e poi raccolto in volume cinque anni più tardi, narra di un naufragio
che avviene, durante una tempesta, proprio in quel luogo dalla costa impervia, e
ruota intorno a una famiglia locale, formata da un padre, ormai anziano, e dalla
figlia, che si occupa di lui insieme a un fedele servitore. Un giovane nipote dell'uomo si reca a trovare quei parenti lontani con l'intenzione di rivelare alla ragazza il
proprio amore. Sarà coinvolto in una drammatica avventura legata al subdolo e potente incanto del mare, ai suoi tesori nascosti, ad antiche tradizioni e superstizioni.
Gli allegri compari è riproposto nella nuova traduzione di Fabrizio Pasanisi e con
una nota critica di Dario Pontuale. Il volume è introdotto da un raro pezzo di Giorgio Manganelli sul piacere di leggere Stevenson, narratore «itinerante, perpetuo
abitatore di labirinti», tra i pochi capaci di far «rallentare e frammentare la lettura
per non arrivare al momento angoscioso della conclusione».
72
ILCORSARONERO 26
L ETTER E
Lettere
Gentilissimo Roberto Fioraso,
il mio articoletto apparso a pagina 74 del n. 25 della rivista “Ilcorsaronero” era in parte sbagliato e incompleto, perché non possedevo ancora il libro di Francesco Bresaola La giovinezza di Emilio Salgari (Verona, I.C.A., 1963). Il volumetto comprende un albero genealogico completo dei Salgari. Credo perciò di fare un piacere nel riproporlo
a chi non lo conoscesse. Si parte dal trisavolo Paolo Salgari sposato con Magdalena
Pizzeghela; poi viene la volta del bisavolo Antonio Salgari (detto Ortolan), nato nel
1782, sposatosi con Beatrice Chiesara da cui ebbe 13 figli. Ecco i loro nomi con l’indicazione dell'anno di nascita:
1) Paolo, 1801;
2) Margherita Maria, 1804;
3) Lucia Margherita, 1806;
4) Filippo, 1808;
5) Sebastiano, 1809;
6) Margherita, 1811;
7) Giorgio Carlo, 1812;
8) Giorgio, 1813;
9) Francesca Maria, 1814;
10) Giacomo Antonio, 1816;
11) Giovanni Antonio, 1817;
12) Luigi, 1818;
13) Marianna, 1820.
Per quanto riguarda il nonno Paolo Salgari, sposatosi con Teresa Rangheri che gli
diede 11 figli:
1) Clementina, 1825;
2) Antonio, 1827;
3) Francesco, 1830;
4) Carolina, 1832;
5) Giovanni, 1834;
6) Ignazio, 1836;
7) Luigi, 1838 (padre di Emilio Salgari);
8) Giacomo, 1840;
9) Agostino, 1842;
10) Beatrice, 1847;
11) Stanislao, 1849.
Chiedo scusa a Silvino Gonzato, effettivamente Luigi era il settimo di undici figli.
Chiedo scusa anche ai lettori di questa bellissima rivista. Distinti saluti.
Gaetano Bario
I LCO R SA RO N E RO 2 6
73
Note Biografiche
Gino Bedeschi, fotografo, ha documentato coi
suoi scatti il lavoro di numerose spedizioni archeologiche nel bacino del Mediterraneo e in
Medio Oriente. Il desiderio di avventura lo ha
spinto ad attraversare Europa e Africa in sella
a una moto d’epoca con side-car, maturando
esperienze che lo hanno avvicinato a culture
“altre”. Ha impugnato la penna a partire dagli
anni Novanta grazie alle iniziative di “Yorick”.
Giuseppe Bonomi, istriano sempre più rancoroso in esilio perpetuo, quando non infierisce
per esigenze redazionali su testi altrui, scribacchia per sé. Si gloria, vanesio com’è, di essere
riuscito a pubblicare il Memoriale del principe Felix zu Salm-Salm, a centotrentasette anni
dalla prima edizione: l’ha rivisto e ritoccato;
non sa se qualcuno l’abbia poi letto (Lo scettro spezzato. Il sogno messicano di Massimiliano d’Asburgo, Il Cerchio, 2006). L’esemplare
vicenda interessa a pochi, così come la battaglia di Alamo conosciuta secondo la versione
ortodossa angloamericana, per cui altri suoi
lavori sono rimasti idee. Ha comunque firmato alcuni saggi per cataloghi delle mostre Paure... e Viaggi straordinari tra spazio e tempo,
organizzate dalla Biblioteca Civica di Verona,
rispettivamente, nel 1998 e nel 2001. Assieme
a Claudio Gallo ha curato Buffalo Bill & Tex Willer. Storie e miti dall’Ovest americano (Colpo di
fulmine, 1996) e Il Giornalino della Domenica.
Antologia di fiabe, novelle, poesie, racconti e
storie disegnate (Edizioni BD, 2007). Con Gallo,
ha firmato una storia del fumetto italiano (Tutto cominciò con Bilbolbul..., Perosini, 2006) e la
biografia Emilio Salgari, la macchina dei sogni
(BUR Rizzoli, 2011), nonché altri interventi disseminati su bollettini, riviste e giornali.
Moreno Burattini, sceneggiatore di fumetti,
scrittore, critico specializzato, curatore di mostre, collezionista di comics e autore teatrale,nasce il 7 settembre 1962 a San Marcello
74
Pistoiese (PT). Frequenta il Liceo Classico "Cicognini" di Prato e si laurea in Lettere all'Università di Firenze. Da sempre appassionato
di fumetti ha contribuito con i suoi articoli a
numerose riviste specializzate e ha pubblicato vari libri di critica fumettistica e numerosi
saggi e ha organizzato numerose mostre in
svariate sedi, collaborando con le prestigiose manifestazioni, da Cartoomics di Milano a
Lucca Comics & Games. La sua attività di sceneggiatore professionista ha inizio nel 1990
sulle pagine della rivista “Mostri” (Acme). Seguono poi sceneggiature per “Intrepido”, “Cattivik” e “Lupo Alberto”. Il suo esordio sotto il
marchio Bonelli è datato maggio 1991, quando escono contemporaneamente il suo primo
special di Cico (Cico trapper) e la sua prima storia di Zagor (Pericolo mortale). Si inaugura così
una lunga serie di storie zagoriane a sua firma.
Dal 2001 lavora a Miano presso la Casa editrice.
Sempre per Bonelli, Burattini ha scritto anche
storie del Comandante Mark, Dampyr e Tex. Ha
vinto numerosi premi; Premio ANAFI come miglior soggettista, Premio Fumo di China come
miglior autore umoristico, entrambi nel 1995, il
prestigioso Gran Guinigi a Lucca Comics&Games 2003. Dal 2007 è curatore della testata “Zagor”. Come autore di teatro, ha collaborato con
Pino Caruso ed ha scritto alcune commedie tra
cui una, Il vedovo allegro, di grande successo.
È autore di un romanzo, molti racconti e una
raccolta di aforismi.
Giuseppe Cantarosa, editor di professione,
talvolta ha accompagnato Gino Bedeschi nei
suoi viaggi su moto d’epoca. Dopo una sofferta
laurea in Filosofia, è stato introdotto, con sua
maggior soddisfazione, nel mondo della carta
stampata e dell’editoria. Noto ai lettori salgariani per le sue introduzioni ad alcuni romanzi dello scrittore veronese, si può dire che sia
nato con la penna in mano rivelandosi, come
ama definirsi, un “ottimo operaio della cultura”.
ILCORSARONERO 26
Note Biografiche
Andrea Comincini, Philosophiæ Doctor, storico
e filosofo, ha conseguito la laurea in filosofia
presso l'Università di Roma Tre, e successivamente un dottorato in Italianistica presso l'University College Dublin, in Irlanda. Autore di
numerosi saggi — riguardanti in particolare i
movimenti rivoluzionari anarchici — giornalista culturale, ha pubblicato ultimamente Nefes. Piccolo trattato sull'esistenza infranta (Tangram edizioni scientifiche, 2018). Collabora con
“Alfabeta 2”, “Passaporto Nansen”. “Il Manifesto”, “Scena Illustrata”.
Lucia Chimirri, nata a Firenze, bibliotecaria dal
1976 al 2011 alla Biblioteca Nazionale di Firenze. Si è occupata di stampe, di libri d’artista e
dell’organizzazione di manifestazioni culturali.
Ha curato mostre di grafica e di libri illustrati e
ha pubblicato numerosi articoli su questi argomenti. Oggi continua a interessarsi di arte visiva, di libri e di autori.
Margherita Forestan è nata a Quinto Vicentino e si è laureata a Cambridge nel 1966. Dal
1969 al 2009, per quarant’anni è stata una delle
più prestigiose figure della Arnoldo Mondadori
contribuendo non solo a rinnovare la politica
editoriale della casa editrice di Segrate, ma le
stesse caratteristiche della Letteratura per Ragazzi in Italia. Ha svolto nel corso degli anni,
prima, compiti di coordinamento editoriale e di
redazione e, poi, è divenuta Direttore Responsabile dell’intero Settore Libri per Bambini e
Ragazzi promuovendo, valorizzando, redattori,
grafici, autori, illustratori, che hanno lasciato
tra i giovani lettori un segno indelebile. Fondamentale la costruzione e l’aggiornamento
del catalogo fatto di libri, riviste specialistiche e iniziative di comunicazione, destinati sia
al mondo dei giovani lettori che quello degli
adulti educatori, genitori e insegnanti. In particolare ha avviato le collane di tascabili per ragazzi, portando in Italia i grandi autori inter-
I LCO R SA RO N E RO 2 6
nazionali divulgando così le letterature di altri
Paesi e garantendo alla casa editrice i più prestigiosi riconoscimenti nazionali e internazionali. Ha anche diretto numerose testate specializzate nel campo del fumetto e operato con
compiti di responsabilità in altri paesi europei.
Piace ricordare la collaborazione, per oltre un
decennio, con la casa editrice giapponese Kodansha per la costruzione del più grande archivio immagini di opere d'arte museali e monumentali delle grandi civiltà del passato e del
mondo contemporaneo, e la cura, per Mondadori, della nuova edizione delle opere salgariane curate a suo tempo da Mario Spagnol e
Giuseppe Turcato. Dal 2009 è il Garante dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale a Verona dove vive da molti anni.
Fabio Francione, critico cinematografico, curatore di retrospettive e festival e scrittore. Ha
curato gli speciali de “Ilcorsaronero” Salgari e
il cinema e Omaggio a Claudio G. Fava. Tra le
sue ultime pubblicazioni, la cura con Piero Spila dell’edizione francese de La mia magnifica
ossessione di Bernardo Bertolucci (Mon obsession magnifique. Ecrits, souvenirs, interventions (1962-2010), Paris, Editions de Seuil, 2014),
Pasolini sconosciuto (nuova edizione con Supplementi, 2015) e la cura della nuova edizione
di Volgar’eloquio di Pier Paolo Pasolini (2015).
Ha curato inoltre Franca Rame. La strega scomoda (Clichy, 2017) e Il teatro lancia bombe nei
cervelli. Critiche, recensioni 1915-1920 di Antonio Gramsci (Mimesis, 2017).
Claudio Gallo, già bibliotecario, docente di Storia del Fumetto presso l’Università degli Studi
di Verona, direttore de “Ilcorsaronero”, rivista
salgariana di letteratura popolare, è studioso
dell’opera di Salgari di cui ha scritto, insieme
a Giuseppe Bonomi, una rigorosa e innovativa
biografia. Suo ultimo lavoro la cura de Lo stagno dei caimani e altri racconti perduti di Emi-
75
Note Biografiche
lio Salgari (Bompiani, 2018) curato con Maurizio Sartor.
Paola Irene Galli Mastrodonato insegna Lingua Inglese presso l’Università della Tuscia, Dipartimento DISTU, Viterbo. È una comparatista
e saggista con numerose pubblicazioni sulla
letteratura e il romanzo del Settecento e del
periodo rivoluzionario; ha tradotto e analizzato l’opera del commediografo anglo canadese David Fennario; si è occupata della letteratura canadese e degli scrittori George Szanto
e Shulamis Yelin. Ha dedicato numerosi studi
a Emilio Salgari (ha curato la pubblicazione
degli atti di due convegni, Il tesoro di Emilio:
Omaggio a Salgari, Bacchilega 2008; Riletture
Salgariane, Metauro 2012; ha curato il capitolo
su Salgari per la Storia mondiale dell’Italia, Laterza 2017). Si è occupata inoltre di problematiche post-coloniali e ha in corso una ricerca di
ampio respiro sulla figura storica e letteraria di
Bianca Cappello de’ Medici.
Guglielmo Milani detto Mino, scrittore senza
età, condirettore spirituale de “Ilcorsaronero”,
vive da sempre a Pavia. Sin dagli anni Cinquanta, quando esordì sulle pagine del “Corriere dei
Piccoli” con le avventure western di Tommy River, è il beniamino di diverse generazioni di ragazzi lettori. Come scrisse Rodari è, con Emilio
Salgari ,uno dei due grandi scrittori d’avventure del Novecento italiano. Giornalista, scrittore,
fumettista e storico, si laurea in lettere moderne nel 1950, con una tesi sul brigantaggio nelle
Calabrie. Assunto dalla Biblioteca Civica di Pavia, ne diviene direttore e vi lavora fino al 1964.
La sua attività di giornalista e scrittore inizia
nel 1953 con saltuarie collaborazioni al “Corriere dei Piccoli”, di cui poco dopo diventa uno
dei più importanti ed apprezzati redattori, fino
al 1977. Oltre a Tommy River e Martin Cooper; e
le collaborazioni con i più importanti disegnatori italiani, tra i quali Mario Uggeri, Hugo Pratt,
76
Milo Manara, Grazia Nidasio, Aldo di Gennaro.
Nel 1978 assume la direzione del quotidiano
“La Provincia Pavese”, incarico che in seguito
lascia per dedicarsi alla scrittura: romanzi, saggi e biografie. I suoi Fantasma d’amore (Rizzoli, 1997) e Selina (Mondadori, 1980) vengono
trasposti in film da Dino Risi e da Carlo Lizzani. Rivestono particolare importanza i suoi testi
storici, come la monumentale Biografia critica
di Giuseppe Garibaldi (Mursia, 1982). Tra le sue
molte opere segnaliamo la sua ultima fatica:
Due Soldati della interessantissima casa editrice pavese di Giovanni Giovannetti.
Darwin Pastorin è nato a San Paolo del Brasile
il 18 settembre 1955, figlio di emigrati veronesi. Giornalista professionista dal 1981, è stato
inviato speciale e vicedirettore di “Tuttosport”,
direttore responsabile di Tele+ e Stream, direttore ai nuovi programmi di Sky Sport, vicedirettore e direttore di La7 Sport. Attualmente è direttore responsabile di Quartarete Tv. Tra i suoi
libri: Lettera a mio figlio sul calcio, L’ultima parata di Moacyr Barbosa e Avenida del Sol (Mondadori, rispettivamente 2002, 2005 e 2007); Le
partite non finiscono mai e Tempi supplementari (Feltrinelli, 1999 e 2002); Ode per Mané e
Libero gentiluomo (Limina, 1996 e 2000); I portieri del sogno (Einaudi, 2009); con Giorgio Simonelli ha pubblicato Reti e parabole (Mursia,
2010) e, con il figlio Santiago, ha firmato Io, il
calcio e il mio papà (Gallucci, 2007); Adesso abbracciami, Brasile! (Elliot, 2014), Lettera a un
giovane calciatore (Chiare Lettere, 2017). Collabora con quotidiani e riviste e scrive per il teatro; per la sua attività di giornalista e scrittore ha vinto numerosi premi. È stato consigliere
comunale, con delega alla cultura, del comune
di Mazzè, in provincia di Torino.
Fabrizio Pasanisi, scrittore e giornalista, autore
di Bert e il Mago (Nutrimenti, 2013), romanzo
ILCORSARONERO 26
Note Biografiche
sulle vite parallele di Thomas Mann e Bertold
Brecht sullo sfondo del nazismo, ha ricevuto la
menzione della giuria al Premio Calvino (2012)
e ha vinto il Premio Bagutta (2014) opera prima.
Nel 2014 ha pubblicato, sempre con Nutrimenti,
L’isola che scompare, un viaggio narrativo in Irlanda e nei luoghi della sua lettura. Ha tradotto
e curato Il riflusso della marea (Sellerio, 1994) e
Gli allegri compari (Nutrimenti, 2016), entrambi
di Robert Louis Stevenson, e Il salvataggio di
Joseph Conrad (Nutrimenti, 2014).
Marco Pisciottani (Roma 1974) ha lavorato per
anni in pubblicità e oggi si occupa di comunicazione istituzionale presso una grande azienda italiana. Nell’attuale mondo letterario figura
al momento come collezionista di esordi. Nel
2013 il suo primo romanzo, Diecimila alberi
(Bordeaux Edizioni). Nel 2015 il suo primo saggio, Bussola per lettori coraggiosi: Moby Dick di
Herman Melville (Kogoi). Nel 2018, proprio qui
su “Ilcorsaronero”, il suo primo articolo critico.
Dario Pontuale (Roma, 1978): scrittore, critico
letterario e studioso di letteratura Otto-Novecentesca. Autore dei romanzi La biblioteca delle idee morte (2007), L'irreversibilità dell'uovo
sodo (2009), Nessuno ha mai visto decadere
l'atomo di idrogeno (2012), Certi ricordi non
tornano (2018) e del racconto I dannati della
Saint George (2015). Della biografica critica Madame Bovary di Gustave Flaubert: L’intramontabile Emma (2013), Il baule di Conrad (2015), La
Roma di Pasolini (2017) e della raccolta di saggi
Ciak si legge (2016) e Una tranquilla repubblica
libresca (2017). Ha curato edizioni di Flaubert,
Maupassant, Zola, Musil, Stevenson, Conrad,
Svevo, Salgari, Tolstoj, Puskin, Cechov. Co-autore del documentario indipendente P.P.P. profezia di un intellettuale. Fondatore, insieme a Paolo Di Paolo, della rivista letteraria "Passaporto
Nansen", è condirettore della rivista salgariana
"Ilcorsaronero".
I LCO R SA RO N E RO 2 6
Armando Rotondi è Full-Time Lecturer in Performance Theory, History and Criticism presso The Institute of the Arts – Barcelona dove
è anche Subject Leader per Professional Studies and Research. Laureato presso l’Università di Napoli “Federico II” e l’Università di Roma
“La Sapienza”, ha conseguito il dottorato presso l’University of Strathclyde (Glasgow), dove
ha insegnato Italian Studies, Italian Cinema e
Aspects of Cinema. Ha insegnato Letteratura
Italiana presso l’Università di Napoli “L’Orientale” (2014-2016), Editoria presso l’Università di
Verona (2014-2016), Discipline dello spettacolo presso la “Federico II” (2012-2013) e Italianistica presso la Nicolaus Copernicus University
di Torun in Polonia (2013-2014), dove ha anche svolto attività di ricerca in ambito teatrale
e letterario in progetti da lui diretti. Ha svolto inoltre attività di ricercatore in visita, di teatro, presso l’Università di Bucarest e l’Istituto
Romeno di Cultura, come vincitore dell’Europa
Grant nel 2013 e 2015. Perfezionatosi in letteratura, teatro e cinema in Italia, Gran Bretagna,
Germania, Romania, Polonia e Svizzera, è stato relatore in più di trenta convegni internazionali e ha pubblicato circa quaranta tra saggi
in volume e articoli scientifici. Tra le sue monografie: Roberto Bracco e gli “–ismi” del suo
tempo (2010), Eduardo De Filippo tra adattamenti e traduzioni nel mondo anglofono (2012)
e “Il nome della rosa” a teatro: Aspetti scenico
-letterari di “Numele Trandafiruli” da Umberto
Eco a Grigore Gonţa (2015). È inoltre co-direttore della rivista accademica “Mise en Abyme.
International Journal of Comparative Literature
and Arts” e membro di società scientifiche internazionali.
Nicola Ruffo, pedagogista formatore, classe
1969, nato a Verona, si occupa di indagini del
mistero con taglio critico e scientifico. Collabora con varie case editrici. Pubblica articoli e racconti per varie testate. Coautore del li-
77
Note Biografiche
bro Legàmi con Gregory Bateson (2006) per
conto della Libreria Editrice Universitaria-Verona, con un contributo sui livelli logici dell'apprendimento. Per conto di Delmiglio editore
nel 2014, insieme a Chiara Begnini, ha pubblicato Nero veronese. Quindici casi di cronaca
nera tra Ottocento e Novecento, e da solo nel
2018 Giallo veronese. Il lato oscuro di Verona
tra Ottocento e Novecento.
Marcello Simoni (Comacchio, 1975), laureato in Lettere è un ex archeologo e bibliotecario. Con Il mercante di libri maledetti (Newton
Compton, 2011), il suo romanzo d'esordio, è
stato per oltre un anno in testa alle classifiche
e ha vinto il 60° Premio Bancarella. Un successo confermato da La biblioteca perduta dell'alchimista, Il labirinto ai confini del mondo, L'isola dei monaci senza nome, La cattedrale dei
morti, L'abbazia dei cento peccati, L'abbazia
dei cento delitti, L'abbazia dei cento inganni,
Il patto dell’abate nero… tutti editi da Newton
Compton. Per Einaudi ha pubblicato Il marchio
dell'inquisitore (2016), dove compare per la
prima volta il personaggio di Girolamo Svampa, e Il monastero delle ombre perdute (2018).
È tradotto in venti Paesi.
Massimo Tassi si è inizialmente formato sulle pagine de “Il Giornale” (direzione Montanelli) per poi passare a “Il Resto del Carlino”,
quotidiano per cui attualmente cura rubriche
sportive e culturali. È direttore di “Yorick”, pluripremiata rivista dedicata all'avventura e all'immaginario, che ha proposto in esclusiva per l'Italia testi inediti di Lovecraft, Howard e Smith,
maestri americani del weird novecentesco. Ha
scritto varie introduzioni ai romanzi di Emilio
Salgari apparsi nell'Opera omnia della Fabbri.
Studioso di Storia delle religioni, collabora con
il Museo dello Studium Biblicum Franciscanum
di Gerusalemme. Per lungo tempo è stato il direttore de “Ilcorsaronero”.
78
Bartolo Tondini nasce a Rota Dentro nel marzo
1966, anche se le sue origini affondano nell’area culturale della provincia di Lodi. Pare infatti
che un ramo della famiglia abbia legami di parentela con Padre Cesare Tondini di Quarenghi,
procuratore generale della Congregazione dei
Barnabiti, che tra il 1862 e il 1882 fu autore di
numerose opere di carattere religioso, filosofico e scientifico. A seguito del lavoro itinerante del padre (un ricercatore biologo), Bartolo
vive l’adolescenza e gli anni della maturità tra
Londra, Amsterdam e Zurigo. In quegli anni si
appassiona all’arte cinematografica e alla musica, e per molti anni svolge l’attività di critico
per alcune delle più importanti riviste europee.
Il suo esordio nella narrativa avviene subito
dopo il rientro nella natia Italia, con la pubblicazione di racconti di argomento avventuroso
e fantastico, su riviste e antologie, da solo o in
collaborazione con l’amico Gino Bedeschi. Attualmente collabora con le riviste “Ilcorsaronero”e “Yorick”.
Renato Venturelli critico cinematografico, collaboratore de “La Repubblica”, ha pubblicato
una serie di volumi dedicati soprattutto al cinema di genere: dai libri sull’horror, il poliziesco americano e il gangster per le edizioni Le
Mani, alla monografia su Schwarzenegger (e.
Gremese), al catalogo sul cinema musicale italiano e il musicarello (ed. Fahrenheit 451), fino
a L’età del noir (Einaudi, 2007). Ha collaborato
all’Enciclopedia del cinema (Istituto della Enciclopedia italiana, 2003-2004), all’Enciclopedia italiana XXI secolo (Istituto della Enciclopedia italiana, 2006-2007) alla Storia mondiale
del cinema (Einaudi, 1999-2001), al Dizionario
dei registi del cinema mondiale (Einaudi, 20072008). Ha curato dal 2005 l’annuario “Cinema
& Generi” e dal 2010 dirige la rivista “Filmdoc”.
ILCORSARONERO 26
Segnalazioni
In questa rubrica si elencano le opere di Emilio Salgari stampate o
ristampate nel corso del ed eventuali saggi critici. Data l’evidente
difficoltà nel reperire le fonti, i lettori e gli amici possono contribuire
segnalando le pubblicazioni alla redazione della rivista o inviando i
volumi o i fascicoli a: Rivista “Ilcorsaronero”, c/o Biblioteca Civica di
Verona, Via Cappello, 43, 37121 Verona.
OPERE
Emilio Salgari, Enrico Zanetti [illustrazioni], Gli orrori della Siberia, prefazione di Claudio Gallo,
postfazione di Agostino Contò, Pescara, Ianieri, 2017;
Emilio Salgari, La Bohème italiana, Roma, Elliot, 2017;
Emilio Salgari, La pesca dei tonni, prefazione di Massimiliano Fois, con un saggio critico di
Alberto Contu, Alhero, Nemapress, 2017;
Geronimo Stilton, Sandokan - I pirati della Malesia [testo originale di Emilio Salgari
liberamente adattato], Milano, Piemme, 2017;
Emilio Salgari, Attraverso l'Atlantico in pallone, Villaricca, Cento Autori, 2017.
SAGGI CRITICI
Ann Lawson Lucas, Emilio Salgari. Una mitologia moderna tra letteratura, politica, società, v. 1:
Fine secolo, 1883-1915. Le verità di una vita letteraria, Firenze, Olschki, 2017;
Carlo Cresti, Emilio Salgari: architetture raccontate, Firenze, Angelo Pontecorboli, 2017;
Venezia '800: l'arsenale e otto circumnavigazioni del globo, Salgari, a cura di Alessandro
Renier, Venezia, pubblicazione per conto dell'autore, 2017.
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79
Segnalazioni
SAGGISTICA
Claudio Gallo, Giuseppe Bonomi, Salgari, Emilio, in Treccani, Dizionario biografico degli italiani,
http://www.treccani.it/enciclopedia/emilio-salgari_(Dizionario-Biografico), 2017;
Dalla Sicilia a Mompracem e altro. Studi per Mario Tropea in occasione dei suoi settant’anni,
a cura di Giuseppe Sorbello e Giuseppe Traina, Caltanissetta, Università degli Studi di
Catania, Dipartimento di Scienze Umanistiche, Edizioni Lussografiche, 2017, [Salgariana:
Luciano Curreri, Per un ‘ritratto dello scrittore da vecchio’: un ritorno di Emilio Salgari, pp.
683-690; Cristiano Daglio, Alcune riflessioni sul romanzo salgariano, pp. 691-695; Roberto
Fioraso, Da La scimitarra di Khien-Lung a La scimitarra di Budda, pp. 697-707; Fabrizio Foni,
«Non si tratta che d’una semplice cavata di sangue»: dal vampiro Sandokan allo scrittore
vampirizzato, pp.709-724; Claudio Gallo, L’invenzione della macchina velocipede. Di alcune
fonti de Al Polo Australe in velocipede, pp. 725-730; Paola Irene Galli Mastrodonato,
Suggestioni settecentesche nell’opera di Emilio Salgari: alla ricerca delle fonti perdute,
pp.731-740; Gian Paolo Marchi, Salgari autore di prefazioni, pp. 741-750; Nicolò Mineo, Donne
e amori nel «Ciclo dei Corsari», pp. 751-761; Ann Lawson Lucas, Le avventure postbelliche
di Emilio Salgari, “prefascista” e agent provocateur, pp. 763-775; Felice Pozzo, Da un Polo
all’altro, pp. 777-783; Samanta Sarti, Padre Crespel: peripezie di un missionario in Labrador,
pp. 785-789; Vittorio Sarti, Un “profeta” per Salgari, pp. 790-797; Vittorio Sarti, Stralcio dal
“Dizionario salgariano illustrato”, pp. 798-812; Domenico Tanteri, Il 2000 di Salgari, pp. 813820; Giuseppe Traina, Riscrivere il ciclo salgariano dei pirati: parodie, riusi, nostalgie, pp.
821-840; Giovanna e Franca Viglongo, Vita e cultura nella Torino di Salgari, pp. 841-849];
Claudio Gallo, Giuseppe Bonomi, Renzo e Riccardo Chiarelli tra romanzi, sceneggiature,
riduzioni radiofoniche, commemorazioni ispirate all’opera di Emilio Salgari, in Renzo
Chiarelli, Una vita per l’arte tra Toscana e Veneto, Atti del Convegno svoltosi in Palazzo
Erbisti a Verona il 17 marzo 2017, a cura di Vasco Senatore Gondola e Margherita Bolla,
Verona, Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona, Musei D’Arte e Monumenti,
Cultura Comune di Verona, 2017, pp. 93-116;
Luigi Marcianò, “Fumetto”, n. 104, dicembre 2017, Giove Toppi, l’inventore delle copertine e
degli albi a fumetti e non solo, pp. 8-10; Giove Toppi. Cronologia, pp. 11-167;
80
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Raffaele Crovi, Claudio G. Fava, Mino Milani, Darwin Pastorin