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ÁTOPOn Rivista di Psicoantropologia Simbolica e tradizioni religiose Giuseppe Lampis morire lavita Il frammento 62 di eraclito mythos edizioni ÁTOPOn Rivista di Psicoantropologia Simbolica e tradizioni religiose ISSN 1126–8530 Direzione: Maria Pia Rosati, past dir. Annamaria Iacuele Redazione: Giuseppe Lampis, Marina Plasmati, Maria Pia Rosati, Claudio Rugafiori, Lorenzo Scaramella Ad memoriam: Gilbert Durand, Julien Ries Edizione elettronica 2019 © «átopon» (Rivista di Psicoantropologia Simbolica) ‘MYTHOS’ Associazione scientifico culturale Via Guareschi 153 – Roma 00143 www.atopon.it – atoponrivista@atopon.it INDICE Premessa 5 A 10 B 18 Conclusione 29 Morire la vita, vivere la morte (il frammento 62 di Eraclito) ἀθάνατοι θνητοί, θνητοὶ ἀθάνατοι˙ ζῶντες τὸν ἐκείνων θάνατον, τὸν δὲ ἐκείνων βίον τεθνεῶτες (presso Ippolito Refutatio IX, 10, 6) immortali mortali, mortali immortali: gli uni (perché) vivono la morte, gli altri (perché) muoiono la vita. Premessa Il potenziale mortale della vita e reciprocamente il potenziale vitale della morte sono presentati uniti in un circolo indissolubile. Immortali perché moriamo, moriamo perché immortali. Solo morendo accediamo all’immortalità. Possiamo vivere l’immortalità unicamente dalla parte della morte: «… morenti la vita di quelli», conclude. Morenti, si badi, la vita di quelli che vivono la morte, dunque morenti all’immortalità. L’affermazione è sconcertante e inquietante. Che vuol dire? Infatti, non basta morire come che sia, non basta essere nati nella condizione mortale. La condizione mortale indeterminata e passiva non ha alcun accesso all’immortalità. La mortalità sviluppa il potenziale immortalante se vissuta con anima non vile e con la vittoria sulle tendenze regressive alla liquefazione e all’irresolutezza. Eraclito assimila la morte al sonno; al sonno visionario e luminoso, non a quello pesante e cieco. * Il nodo del passo sta nel valore dello stato di morte. Morte è il tema, sia positivo sia negativo: a–thanatoi thnetoi. Le coppie immortali–mortali e mortali–immortali sono ciascuna una unità, e ciascuna delle due è costituita in radice dal bipolarismo morte non–morte. L’immortale non contiene la condizione di mortalità assorbendola e riducendola a sé, semmai è in relazione alla pari con essa; e la mortalità non è un divergente che converga e sparisca nell’immortalità. In modo corrispondente, il mortale non contiene l’immortalità abbassandola a sé e assimilandola. Ciascuno dei due è una delle facce con cui si presenta l’inscindibile unità di morte e vita. Qui vita è detta non–morte, vita è sinonimo di non–morte: ciò indica che la morte è duplice, ha un doppio valore, dritto e rovescio – indica, cioè, che in sé è anche vita. Naturalmente, parliamo della morte vera. La vera morte realizza il rapporto con il contrario di sé, con la vita. L’immortalità realizza la morte vera. Le due realizzazioni sono il medesimo evento da due profili reciprocamente dipendenti. * La non–morte è intrinseca della morte però – appunto – deve trattarsi di morte e non di vita irrisolta. La vita irrisolta non è morte, è pura liquefazione e la liquefazione non ha per intrinseca l’immortalità, piuttosto ha la perduranza indefinita e famelica. Il punto–chiave è il concetto di vita irrisolta. Morte è sinonimo di vita conclusa, formata, definitiva, risolta. Non è morte il termine scivoloso di una vita dispersa incapace di essere vita. L’incapace di morire si pone paradossalmente quale incapace di vivere. Fuor di metafora, per essere precisi, abbiamo due generi di morte, una evolutiva trasformativa, l’altra involutiva sterile. La prima è morte vera, la seconda pura dispersione. Per aversi morte vera si deve presupporre una vita vera, altrimenti ciò che dovrebbe morire sarebbe una non–vita, una deiezione inconscia proiettata alla ricerca di una vita vera a cui attaccarsi per suggerne la forza che le manca. A 1 Il tema del passo è il rapporto morte non–morte. La sua compatta circolarità è intenzionalmente ermetica, tale da negare l’accesso ai non iniziati. Tuttavia, proprio la struttura labirintica a rimandi e implicanze vicendevoli porge una chiave: per accedere all’intero cifrario basterebbe infatti decifrare una sola delle coppie e percorrere i suoi rispecchiamenti nelle altre. Proviamo ad afferrare il filo d’Arianna dell’ultima frase, «morire la vita». Eraclito dice che se non moriamo la vita non siamo immortali. Qui morire non è la semplice interruzione naturale, subìta e passiva, è un’esperienza attiva e creativa; e rara e privilegiata se da essa viene la non–morte. Per verificarsi, deve morire una certa vita, si deve aprire un evento profondo. Ci sono altri passi in cui Eraclito esprime un’idea analoga: domare il furor (thymos) che altrimenti ci prenderebbe l’anima (B 85), uscire dal piccolo ego che si avvolge in sé stesso (B 89), aspettarsi che alla morte l’insieme delle aspettative sia confutato (B 27)… D’altronde, più in generale, l’intero libro di Eraclito è costruito sull’esaltazione della capacità di sacrificio aristocratico e sul rifiuto dell’individualità involutiva e mediocre, sulla condanna della bestialità degli istinti e dell’edonismo e del culto della materialità. * La struttura a implicanze vicendevoli della frase porge, dicevo, una chiave; il deciframento di una sola delle coppie apre l’accesso al labirinto. Ritengo che la chiave più afferrabile per noi sia «morire la vita», l’ultima frase. Peraltro, che un logos si capisca dalla conclusione, o unicamente dalla conclusione, è comunque una verità filosofica fondamentale e per di più, nel nostro caso, il logos che vi si rivela non è tanto un contenuto intellettuale quanto la stessa vita e il suo valore trascendentale. «Morire la vita» ha significato, noto e ben studiato. un Da «morire la vita» dobbiamo ricavare a ritroso il significato di «vivere la morte» e via via, risalendo, di «mortali immortali» e di «immortali mortali». 2 «Morire la vita» ha un significato, noto e ben studiato, tipico della sapienza tradizionale e della filosofia della liberazione dal samsara. Sciogliersi dal desiderio di prolungarsi indefinitivamente nel tempo; uscire dal destino della liquefazione (B 36); evitare di avvitarsi nella condizione di mero inconscio, inconsistente per sé e nichilisticamente affamato di dipendenze. Morire la vita equivale a liberarsi dall’insistenza penosa nel non risolto e ad assumere una forma definitiva non più rinviabile a rinascite in esistenze di grado inferiore e a morti inconcludenti. Coloro che muoiono la vita sono in un rapporto inscindibile con coloro che vivono la morte e, risalendo alla riga precedente, corrispondono ai mortali che divengono immortali, simmetrici a loro volta agli immortali divenuti mortali. 3 Così, rileggendo da capo, riconosciamo la ragione per la quale gli immortali divengono mortali. L’immortale non è un ente in uno stato a sé, irrelato, e non è un principio unidimensionale piatto; egli è sovrabbondanza, pienezza e creatività; è colui che si è cimentato con la prova della vita mortale per trovarvi una soluzione e l’ha risolta. La mortalità sviluppa il proprio potenziale immortalante quando è vissuta con anima non vile e resiste alle spinte regressive alla liquefazione e all’irresolutezza. L’immortale è l’anima che si individua rinascendo dalla confusione in acqua; è colui che vince la paura della morte e non si stordisce nell’indifferenziato; colui che sceglie di completare una forma unica. Una vita, una volta per tutte. 4 Quando poco sopra avvertivo che il significato di «morire la vita» è centrale nella sapienza tradizionale mi riferivo soprattutto alla filosofia Veda per la quale la vita dell’uomo è costitutivamente un debito. I pagamenti di questo debito sono i cinque grandi sacrifici, i pañcamahāyajña, rispettivamente verso tutti gli esseri, gli uomini, gli antenati, gli dèi, la verità. Ma il vero esaustivo sacrificio è l’uomo stesso, puruṣo vai yajñah. Śathapatha–brāhmaṇa (I, 7, 2, 1–15) «Quando nasce un uomo, chiunque egli sia, nasce simultaneamente un debito con gli Dèi, con i saggi, con gli antenati e con gli uomini.» (III, 6, 2, 16) «L’uomo non appena nato dev'essere considerato, nella sua intera persona, come un debito dovuto alla morte.» È impressionante la perfetta coincidenza della dottrina vedica con la parola di Eraclito. B ἀθάνατοι θνητοί, θνητοὶ ἀθάνατοι˙ ζῶντες τὸν ἐκείνων θάνατον, τὸν δὲ ἐκείνων βίον τεθνεῶτες immortali mortali, mortali immortali: di quelli viventi la morte, di quelli morti la vita. 1 Immortali, o viventi, sono coloro che hanno saputo morire la vita, o morire tout court, dato che – è perfino ovvio – si muore solo la vita. Perciò gli immortali non sono anche i mortali ma sono solo i mortali, e per l’appunto non i morenti semplicemente passivi bensì i mortali che hanno realizzato la morte di sé. In sintesi, quelli che sono riusciti a morire la vita sono coloro che vivono la morte, gli immortali da mortali. 2 Dal confronto con una frase conservata dallo Pseudo Plutarco, viene che immortali e mortali sono analoghi al «vivo morto» presente in noi: «dentro di noi è presente un’identica cosa: vivo morto, sveglio dormiente, giovane vecchio, difatti queste cose una volta rovesciate (metapesonta) sono quelle e quelle dal canto loro una volta rovesciate sono queste» (B 88). La frase ricalca il passo sibillino che stiamo ascoltando ed esplicita che l’opposizione morte non–morte è dentro di noi, ci costituisce, è il logos della nostra anima. Ciascuno dei due poli della dinamica è ineliminabile, senza l’uno non c’è l’altro, «lo stesso in noi è vivo e morto, sveglio e dormiente, giovane e vecchio: infatti rovesciandosi nel mutamento ciascuna di queste cose è l’altra.» – «rovesciandosi nel mutamento», metapesonta («having changed around», Marcovich 1967– 2001) participio di metapiptein: cambiare posto, ribaltarsi, mutare stato subitaneamente; fra i verbi con cui Eraclito nomina il reciproco convergere delle tensioni opposte, mette in primo piano il cadere e lo sprofondare rispettivo dell’una opposizione nell’altra. Come a dire che ogni spinta contiene in essenza la controspinta e che pertanto la realtà concreta si compone e consiste in una densità duplicemente polarizzata. 3 L’immortale vive la morte del mortale e il mortale muore la vita dell’immortale. E come è possibile? Come fa il mortale a morire la vita di altri? Non muore, il mortale, la sua stessa vita? In che senso, morendo sé stesso, muore la vita dell’immortale? Il fatto si è che succede precisamente così, e nell’unico senso possibile: la vita è solo immortale, lo è di per sé, dovunque corra e con chiunque corra. Per questo si può solo morire l’immortale. Beninteso, se uno ci riesce. Morire è difficile e perfino assurdo sovrumano paradossale, giusto per la ragione che è sempre morire la non–morte. Visto che, per la suprema legge del reale, si può morire solo la vita ne viene giocoforza il rovescio che si potrà vivere solo la morte. È una verità che abbaglia tanto da nascondersi dietro l’evidenza. La sapienza, d’altronde, non si vede senza la disposizione a guardare. La visione veritiera (epopteia) è un’esperienza ecstatica che sorge da una profonda modificazione interiore. 4 L’immortale non può che vivere perché, appunto, è immortale. E che cosa vive? La morte di quelli. (In che vive? Nella morte di quelli.) Il mortale non può che morire perché, appunto, è mortale. E che cosa muore? La vita di quelli. (In che muore? Nella vita di quelli.) Il mortale che muore la vita è il reciproco medesimo dell’immortale che vive la morte, dimodoché non è un mortale qualsiasi giunto semplicemente al bruto decesso, è invece colui che risulta controluce dal rovescio dell’immortale che ha tratto vita dalla morte o, più precisamente, che ha fatto della morte una vita. A quello che ha fatto della morte una vita corrisponde a contrariis strettamente connesso quello che ha fatto della vita una morte, che ha fatto morire la vita. Facendo morire quella vita ha realizzato la morte che l’immortale ha trasformato in vita o che, a dir meglio, si è trasformata in vita immortale. C’è un tipo di vissuto della morte che realizza un tipo di vissuto della vita con la qualità e la forza di aprire alla non–morte, questo è il nodo del passo. 5 Alla fine, vengono fuori immortali che hanno trasformato la morte in vita, e che paradossalmente a tanto sono arrivati perché sono i mortali che hanno trasformato la vita in morte. I primi aprono e i secondi chiudono. Però sono i due versi degli stessi. Se i secondi non avessero chiuso e non fossero autentici mortali, i primi non sarebbero autentici immortali e non avrebbero aperto. Se i mortali non chiudono, gli immortali non aprono. Del resto si congiungono in un’identica unica cosa nella drammatica anima dell’uomo. È nell’interiorità dell’uomo che si realizzano trapasso, trasformazione, rovesciamento, fulmineo mutamento di stato. L’avvenimento alchemico che lampeggia nella parola di Eraclito è l’emozionante esperienza del miste. * Non parliamo correttamente, non esiste né la morte in sé né la vita in sé, esiste la vita che muore e la morte che vive; intendo la morte vera, non la sua caricatura. «niente è uno in sé e per sé… tutto quello che noi diciamo che è nasce dal mutare luogo, dal movimento, dalla mescolanza reciproca: noi non parliamo correttamente, dal momento che mai niente è, ma tutto diviene» (Platone Teeteto, 152 d–e). Quanto chiamiamo «cose» sono, invece, eventi processuali; così, la morte della vita e la vita della morte vanno detti morire il vivere e vivere il morire, drammaticamente interconnessi nell’eterna lotta della suprema dike del cosmo. Morte e non–morte sono la stessa cosa, ovviamente se la morte è proprio morte. Una verità tanto abbagliante da celarsi dietro l’evidenza, al punto che per guardarla occorre uscire dal sé banale e quotidiano, come nell’iniziazione ai misteri. Conclusione Ritenere che la vera morte, la morte trasformativa, implichi una sorta di abdicazione a sé stessi è fuorviante. La rinuncia che deve intervenire è di altro genere; è la rinuncia all’assolutizzazione di un sé unilaterale. Il nodo è che occorre arrivare a vivere che noi non siamo noi e basta. Che «noi» non siamo solo, unilateralmente e esaustivamente, «noi». Nei misteri l’iniziato si riconosce preso da una sfera superiore e però nel tempo stesso non vi affonda a scomparire spersonalizzato perché di quella sfera, e del mondo con cui è intessuto, egli costituisce una necessaria espressione. Apprende, allora, che il dèmone della sua vita e il compito che vi esegue si compongono nel senso della sfera superiore. Il piano di sovrabbondanza creativa cui appartiene non è sostitutivo della sua specifica qualità e non lo esonera, ognuno dei due non può essere sé senza essere l’altro. Immortali mortali, dice infatti il Sapiente. ** Sul tema, i miei Eraclito e l’immortalità, 2012 Vite irrisolte, 2017 L’Inconscio yoga e noi, 2018 Labirinto, Duomo di San Martino, Lucca.