Edizioni Caracol
Studi e Ricerche di Storia dell’Architettura
Rivista dell’Associazione Italiana Storici dell’Architettura
anno III - 2019 NUMERO 5
Numero a cura di Elena Dellapiana
Direttore Responsabile
Comitato scientifico
Capo Redattore
Redazione
Impaginazione e grafica
Stefano Piazza
Paola Barbera, Donata Battilotti, Federico Bellini, Amedeo Belluzzi,
Philippe Bernardi, Federico Bucci, Simonetta Ciranna, Claudia Conforti,
Giovanna Curcio, Francesco Dal Co, Alessandro De Magistris, Dirk De
Meyer, Vilma Fasoli, Adriano Ghisetti Giavarina, Anna Giannetti,
Antonella Greco, Fulvio Irace, Giovanni Leoni, Fernando Marias,
Marco Rosario Nobile, Sergio Pace, Alina Payne, Costanza Roggero,
Rosa Tamborrino, Carlo Tosco, Alessandro Viscogliosi
Francesca Mattei
Armando Antista, Giovanni Bellucci, Lorenzo Ciccarelli, Rosa Maria Giusto,
Anna Pichetto Fratin, Monica Prencipe, Domenica Sutera
Giovanni Bellucci
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scientifico secondo il criterio del double blind peer review.
La redazione declina ogni responsabilità per i materiali inviati in visione non
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In copertina:
Interno del Piper club, Torino, 1966,
P. Derossi, G. Ceretti, R. Rosso
(archivio Derossi, Torino)
© 2019 Caracol, Palermo
Edizioni Caracol s.n.c. - via Villareale, 35 - 90141 Palermo
e-mail:_ info@edizionicaracol.it
ISSN: 2532-2699
INDICE
Editoriale
L’oggetto Misterioso. L’invenzione e la storia del design
5
ELENA DELLAPIANA
Saggi e contributi
On What Grounds? Subject and Method in the History of 12 JONATHAN MEKINDA
Modern Architecture and Design
Stoccolma 1953: l’esposizione della Nuova Arte Italiana 26 MONICA PRENCIPE
e la difficile conquista della modernità
Milano 1964. Vittorio Gregotti, Umberto Eco e la storiografia del design 40 MASSIMILIANO SAVORRA
come “opera aperta”
Da Designing for People di Henry Dreyfuss al Design Thinking. 60 DARIO SCODELLER
Il ruolo del design process nella cultura del progetto
Gli ensembles mobilier di Alberto Sartoris e l’integrazione delle arti (1925-1935) 76 CINZIA GAVELLO
Lettere dei soci
Storici del design: memoria e destino 84 ALBERTO BASSI
Segnalazioni bibliografiche
Jahan Örn, 86 ALI FILIPPINI
The HI-Group and the Return to Craft,
(Stockholm, ArkDes/Carlssons 2017)
Robin Schuldenfrei, 90 ELENA DELLAPIANA
Luxury and Modernism. Architecture and the Object in Germany 1900-1933,
(Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2018)
3
4
DOI: 10.17401/studiericerche.5.2019-dellapiana
L’
oggetto Misterioso.
L’invenzione e la storia
Editoriale
del design
ELENA DELLAPIANA
Politecnico di Torino
La storia del design (nella sua vasta accezione etimologica) ha avuto – e
continua ad avere – una oggettiva difficoltà di stabilizzazione disciplinare che
riguarda sia le oscillazioni – anche importanti – della cronologia dell’oggetto
di studio, che variano dalla secca periodizzazione legata alla Rivoluzione
industriale, agli arretramenti settoriali (la stampa a caratteri mobili), fino alle
più recenti proposte di globalizzazione temporale e geografica (Victor Margolin, World History of Design, 2015), sia le competenze e i saperi coinvolti
nel processo di scelta e analisi delle fonti e nella restituzione di una visione
storiografica.
In estrema sintesi, gli oggetti, i sistemi di oggetti, il loro progetto, i loro processi produttivi e le loro forme e modi di comunicazione sono stati studiati
da archeologi, antropologi, etnoantropologi, filosofi, storici, semiologi, storici
dell’arte, della tecnologia, dell’industria e della cultura materiale, con approcci
anche distanti dal “mestiere di storico”, fino a quando non hanno incontrato,
in momenti diversi a seconda del contesto culturale e geografico, la storia del
progetto – architettonico – e sono diventati parte di un complesso quadro di
modernità, focalizzato, in origine, prevalentemente intorno alla casa e alla dimensione domestica, oltre a mantenere la loro funzione di “fossile guida” per le
altre discipline. Anche a valle di una nuova riconoscibilità, tuttavia, il design è
rimasto in secondo piano nel flusso storico, funzionale a episodi di sincretismo,
alle attività di particolari autori, o esaurientemente sviscerato ma isolato da una
più ampia storia del progetto.
I tentativi – non abbondantissimi – di formulare bilanci sulla storia e storiografia
del design hanno teso a normalizzare il suo racconto a partire dai “classici”
Pevsner e Giedion, oppure a far convergere, in opere collettanee, molti punti
di vista diversi, non tanto per formazione (essenzialmente storici del progetto e
progettisti praticanti), quanto per obbiettivi che spaziano dalla storiografia toutcourt alla critica e alla teoria.
5
L’approccio critico di stampo anglosassone – forse il più significativo per precocità
di definizione disciplinare e numerosità di prodotti editoriali e dunque utile termine
di confronto - vede generalmente contributi variegati che affrontano la Design Literature o, come nel caso di Victor Margolin, uno dei più prolifici e influenti studiosi
in questo campo, il Design Discourse. Qui, la sovrapposizione, contaminazione e
sfumatura tra storia, teoria e critica, oltre che tra diverse provenienze disciplinari
dei suoi interpreti, rappresenta una costante, leggibile in quasi tutti gli episodi
di dibattito degli ultimi trent’anni. Tanto per citarne alcuni, il primo Convegno Internazionale di Studi Storici sul Design, tenutosi nel 1991 a Milano, ha visto la
partecipazione di progettisti-teorici e storici puri, dell’arte e dell’architettura.
Un approccio simile, con risultati diversi perché mirato a costruire l’identità
disciplinare – storica –, si trova nelle raccolte di testi scelti dagli studiosi più
“preoccupati” dall’urgenza di definire il proprio statuto. Si tratta di antologie di
brani e autori ritenuti utili a comprendere il processo storico, economico, formale, produttivo, comunicativo e via discorrendo, che ha portato alla “nascita” del
progetto di prodotto e alle relative genealogie: Adam Smith, Karl Marx, ma anche William Morris, Gottfried Semper, Adolf Loos, Henry van de Velde, Walter
Gropius e via via Robert Venturi, R. Buckminster Fuller, Jean Baudrillard, Victor
Papanek e altri, tutti autori che rappresentano le tessere per la composizione
di un quadro complesso, multilivello e caratterizzato dalla necessità di continui e circolari salti di scala. E non tutte le aree culturali presentano un codice
condiviso. Il versante francese, ad esempio, costituisce un caso a sé in quanto
prosegue a tutt’oggi la tradizione inaugurata dai sociologi-filosofi-semiologi intorno all’École des hautes études en sciences sociales o all’École de Nanterre:
da Barthes a Baudrillard a Bourdieu, dove la storia intesa in senso strettamente
disciplinare fatica a trovare uno spazio.
Un interessante, stimolante, quanto disorientante “effetto dissolvenza” che a
rileggerne le testimonianze non può non far pensare a un collegamento quasi
speculare tra la disciplina – il design– e la sua storia, tra l’oggetto e il suo
doppio: a una continua trasformazione nel senso dell’ampliamento dei confini
del ruolo del design e del designer, divenuto così immateriale da permetterci/
spingerci a parlare di design thinking, corrisponde una altrettanto ipertrofica
moltiplicazione di storie o para-storie in un gioco di specchi, motivata non solo
dai moltissimi specialismi, ma anche dal coinvolgimento continuo, arricchente
quanto straniante, di studiosi delle più varie provenienze.
Dal punto di vista della storia – e degli storici – dell’architettura, il racconto
della storia del design – industriale – sembra nascere dalla sua capacità di rappresentare un’idea di progresso, quella del passaggio dall’artigianalità elitaria
6
delle Werkstätte alla democraticità della produzione automatizzata per tutti, a
costo di non poche forzature narrative, come ben testimonia la ricerca di Robin
Schuldenfrei recensita in questo numero di Studi e Ricerche. Gli oggetti, che
siano destinati allo spazio domestico, al trasporto o all’abbigliamento, portano
una capacità intrinseca di trasmettere idee e trasformazioni in atto o in progetto, e fanno infatti capolino in molte storie dell’architettura contemporanea “delle
origini” con un ruolo “transizionale” che porta dai cambiamenti sociali a quelli
ideologici, alla produzione, ai significati e, infine all’architettura (si pensi ai casi
delle Arts & Crafts, dell’Art Nouveau, della Chicago School via via fino alle
avanguardie storiche e post-avanguardie).
Dalla pubblicazione dei Pioneers di Pevsner (1936) in poi, e in alcuni casi anche prima, i due aspetti del progetto – architettura e oggetti – sono stati alternativamente campo e motivo di riunioni e fratture, a seconda della tesi portata
dai loro lettori-interpreti e del modo di intendere il termine design, nel suo senso
originario, vale a dire progettazione, o legato ad altre categorie di lettura: ideologia, mercato, comunicazione, financo moda.
La fascinosa affermazione “if you study the chair you redescover the world”,
ad esempio, è coniata da un progettista, John J. Waldheim, autore insieme
a Edgar Bartolucci della fortunatissima, economica e ergonomica Barwa
Lounge Chair (1947, Revolution in relax, fu lo slogan pubblicitario). La sequenza storica individuata da Waldheim per illustrare il proprio progetto,
secondo una sperimentata pratica di costruzione di genealogie quasi biologiche guidate con lo scopo di dimostrare una vasariana “bella maniera moderna” (i cui capostipiti sono da riconoscersi in Pevsner, appunto, Giedion
e altri), offre un ulteriore spunto che risiede proprio nell’approccio pars pro
toto, funzionale alla creatura dell’autore, certo, ma interessante per riallacciare la storia di un singolo oggetto d’uso comunissimo e universale a quella
più generale e complessa del progetto di manufatti, del loro uso nel quadro
di sistemi economici e sociali di segno diverso e, per alcuni interpreti, anche
dell’architettura che li contiene e compenetra. Che storicamente le due dimensioni scalari siano intimamente legate, quando non corrispondenti, è poi
un’altra constatazione che proprio seguire il filo rosso della sedia dimostra
ampiamente. È un’evidenza mostrata fin dai primi numeri della rivista del
Bauhaus in cui la sequenza di sedie di Breuer è metafora del progresso non
solo formale (dal folk, al Neoplasticismo, al Razionalismo alla sottrazione
della forma) e tecnologico (dalla falegnameria artistica, alla serie, all’industrializzazione, alla pura fantascienza) ma anche ideologico, dove alla smaterializzazione dell’oggetto sedia corrisponde una cessazione dei bisogni: il
7
commento di Moholy-Nagy all’albero genealogico-“sediologico” (Bauhaus 1,
1926) recita: “va sempre meglio ogni anno. Alla fine ti siedi su una colonna
d’aria elastica”.
Anche in seguito, in tempi in cui la storia del design è ancora a uno stadio larvale, tutta interna a quella delle arti applicate e decorative o compare in modo
puntuale e strumentale in quelle dell’architettura, proprio il prodotto seriale, industrializzato o meno, per l’abitare o il trasporto, diventa, paradossalmente, un
termometro per misurare la salute del progetto “alto”, architettonico e urbano,
interpretando il ruolo della parte per il tutto.
Reyner Banham alimenta la propria vena polemica proprio con questa figura
retorica che si presenta, incidentalmente, anche come occasione di studio. Nel
1957 (“Ungrab that Gondola”, The Architect’s Journal, n.126), le auto italiane,
gli interni dei caffè, insieme a fenomeni di costume come il divismo sono messi,
da Banham, sullo stesso piano dell’architettura, dei maestri della filosofia, delle
mostre, per stigmatizzare la perdita di carattere del mondo progettuale italiano, nonché il suo allontanamento dai principi del Movimento Moderno. Dieci
anni dopo, in piena contestazione, egli utilizza ancora l’arredo, per condannare
l’onda di “furniturization” – e del mercato che ne consegue – che tradisce l’idea della smaterializzazione degli oggetti che l’ideologia del moderno pareva
promettere (“Chairs as Art”, The new society, 20 Aprile 1967).
Per quanto riguarda il panorama italiano, Victor Margolin afferma “No country
has generated more discussion and writing about design than Italy, nor has
any nation forged such a close alliance between designers, industry, critics,
theorists and the public”. Al di là della veridicità attuale di questa affermazione,
conseguenza tra l’altro del successo planetario del “Made in Italy” allo scorcio
degli anni Novanta del secolo scorso, la situazione italiana offre un esempio di
sperimentazione in vitro sui rapporti tra discipline per la definizione di un campo
di indagine specifico su un “oggetto misterioso” in quanto sfuggevole e mutevole nella sua stessa accezione. “Oggetto misterioso” è una formula da usato
sicuro. È infatti il titolo del testo-postfazione firmato da Enrico Castelnuovo,
Jaques Gubler e Dario Matteoni alla ponderosa Storia del disegno industriale
edita da Electa tra il 1989 e il 1991, secondo uno schema enciclopedico ancora
tardivamente enaudiano, di sovrapposizioni e relazioni tra sequenze diacroniche e innesti tematici. Come è noto, si tratta di un’opera che ha contribuito a
definire un gruppo di studiosi che hanno collaborato – come un decennio prima
aveva fatto Il disegno del prodotto industriale 1860-1980 di Vittorio Gregotti
per il settore del prodotto italiano – a configurare una comunità scientifica che,
forte degli interventi fioriti dagli anni sessanta e settanta proposti da personag8
gi come Renato De Fusco, Paolo Fossati, Ferdinando Bologna, Giulio Carlo
Argan, Gillo Dorfles, ha portato a tratteggiare la storia del design come un
insieme di molte storie dotate di operatori logici e interpretativi anche molto
diversi tra loro, di fonti differenziate e multisfaccettate, affrontate a seconda
dei casi e delle circostanze da storici dell’arte (come è il caso di Castelnuovo,
Argan, Bologna, Fossati) da storici dell’architettura (De Fusco, Gubler, Matteoni) o da progettisti (Gregotti, Branzi e altri). Gli autori del saggio sottolineano
la complessità del soggetto “disegno industriale” nel quale vanno riconosciuti
tratti che si sommano a quelli propri delle modalità di indagine delle discipline
sorelle, o ne variano le sfumature (forma, tecnica, significato, committenza,
circolazione, ricaduta sociale, fortuna critica, militanza e così via) e, aspetto
fondamentale, ne propongono l’interrelazione con lo sfuggente concetto di “vita
quotidiana”, riconducendone i fili alla trama della storia sociale dell’arte.
Si tratta di una tappa decisiva nella definizione della disciplina che, non a caso,
si confronterà per interrogarsi su specificità e specialismi, scopi, diffusioni e
statuti, anche in virtù delle trasformazioni dell’offerta accademica che vede
sempre più numerosi i corsi di laurea dedicati al design e dunque l’esigenza,
secondo il consolidato modello giovannoniano, di affiancare alle specificità tecniche del progetto, anche il suo quadro di riferimento storico-critico.
Il vero punto fermo è, però, sicuramente, la Storia del design di Renato de Fusco, pubblicata nel 1985, mai superata in termini di vendite e diffusione tra studenti, addetti ai lavori o semplici appassionati. La forza e la fortuna della Storia
di De Fusco risiedono da una parte nelle operazioni di sintesi che sottendono le
narrazioni (pochi oggetti per illustrare fasi chiaramente indentificate e riconoscibili dai lettori), dall’altra, e più importante dal punto di vista del raggruppamento
degli storici dell’architettura, nella visione olistica portata avanti dallo storico
napoletano che impiega per il design esattamente lo stesso sistema interpretativo sperimentato per l’architettura (1974) e per l’arte (1983) contemporanee.
La sperimentazione/applicazione di De Fusco di diversi livelli di indagine e di
narrazione, oltre ad essere uno dei risultati della breve ma influente stagione
semiotico-strutturalista, costituisce un riflesso della cultura progettuale italiana
dove la continuità della presenza di temi “circolari” sia nella critica sia nell’attività
dei progettisti sui diversi fronti dell’architettura e del prodotto (non solo di arredo)
sono cosa nota. Forse anche in conseguenza di ciò si erano già verificati occasionali sconfinamenti nei modi investigativi e narrativi della storia dell’architettura contemporanea, che hanno visto l’inserimento di microstorie di arredi, oggetti
e prodotti usati strumentalmente – e metonimicamente – nel quadro della storia
generale e che hanno permesso una efficacia comunicativa vincente. Un esem9
pio clamoroso è quello di un “campione” della visione architettonico-centrica
come Bruno Zevi, che nella prima edizione della sua Storia dell’architettura moderna (1950), aveva inserito una tavola sinottica con le immagini di ventisette
sedute (dall’anonima Windsor Chair fino alla sedia elastica di Tatlin), intitolandola “storia miniaturizzata dell’architettura moderna”.
A valle di tutte queste considerazioni, che certo non esauriscono l’argomento, gli
articoli ospitati nel numero attuale di Studi e Ricerche vogliono, nel loro insieme,
essere esempio e spunto per i moltissimi possibili sviluppi di storie e storia del
design che si incrociano con quelle frequentate dagli storici dell’architettura e si
compongono di contributi di studiosi di provenienze diverse, sollecitati a riflettere sui momenti di sovrapposizione e contaminazione tra i due ambiti liminari.
Seguire fili che vedono la sovrapposizione di ruoli – architetti e designer – nella
fase più “internazionale” del progetto italiano, minoritariamente allineata all’ortodossia modernista, dove i salti di scala sono sostanziali e la coincidenza dei
ruoli indispensabile, porta agli ensembles di Alberto Sartoris (Gavello). La mostra sulla Nuova Arte Italiana che si è tenuta a Stoccolma nel 1953 (Prencipe)
permette di evidenziare come la ricerca di identità e della sua comunicazione
che nel dopoguerra caratterizza la “costruzione” del Made in Italy, pieghi la
cultura progettuale di matrice architettonica al design – perlopiù di interni – e
alla produzione artigianale di qualità – progettata – in via quasi esclusiva, promuovendo e raccontando la parte per il tutto anche per la maggiore facilità di
trasmettere e mostrare, nonché di sensibilizzare anche finanziariamente, gli
enti pubblici, le associazioni di categoria, la carta stampata.
E ancora comunicazione e circolarità, all’interno di un modo progettuale “unitario a tutti i livelli”, identificano l’episodio del numero che “Edilizia Moderna”
dedica al design nel 1964 (Savorra), in cui il redattore e curatore Gregotti
arriva a suggerire, icasticamente, che il progetto dell’architettura e della città
possano essere risolti dai designer, dando comunque per scontata l’interpretazione del design come esercizio di controllo formale sull’ambiente, privo di
partizioni disciplinari interne. Una definizione che sta alla base del processo
di ricerca metodologica che aveva permeato a partire dagli anni cinquanta il
dibattito sul Design Process negli Stati Uniti (Scodeller), con il contributo degli
emigrées e con molte successive influenze in Europa: una fase della ricerca di
un metodo progettuale diretto sia alla professione, sia all’insegnamento e alla
comunicazione. Il dibattito, e la circolarità dei temi veicolati, pongono l’attenzione su collegamenti “transatlantici” ancora poco esplorati dalla nostra storia
del progetto, stabilmente ancorata sulla propria sponda dell’oceano, ma che
riservano più di una sorpresa.
10
Da oltreoceano provengono infine caso studio e autore (Mekinda) che in una
narrazione autobiografica segue un percorso, che tocca anche chi scrive, che
dall’architettura della sontuosa epoca dei grattacieli Decò di Chicago, viene
deviato verso la decorazione e il design non tanto e non solo per completezza dell’affresco, ma per arrivare a una più profonda comprensione dell’intero
fenomeno, interpretando l’asserto di Ernesto Nathan Rogers – il più recente
degli argomenti di studio dell’autore – “dal cucchiaio alla città”, in senso non
lineare e come occasione di esplorare le reciproche e multidirezionali influenze
di una scala progettuale e produttiva sull’altra e viceversa. Le strade che si
aprono sono molte e promettenti. Chi debba occuparsi della storia del design,
è questione accademica, certo di un qualche interesse in questa sede, ma sul
perché, non dovrebbero esserci dubbi.
11
DOI: 10.17401/studiericerche.5.2019-mekinda
O
n What Grounds?
Subject and Method in the History
of Modern Architecture and Design
JONATHAN MEKINDA
University of Illinois, Chicago
“Un cucchiaio è un cucchiaio; una sedia è una sedia; una casa è una casa; una
città è una città.”(1) So begins Ernesto Rogers’s 1946 editorial in Domus 215,
from which countless Anglo-American scholars have adopted the evocative
phrase “from the spoon to the city” to describe the ambitious scope of architectural practice under modernism. For Rogers himself, the phrase referred to the
broad range of activity necessitated by postwar reconstruction, which he believed provided architects and their collaborators an opportunity to transform the
world through the materialization of their visions for a new society: “Acquistano
dunque sempre più valore nella società moderna la figura dell’architetto e quella
degli altri componenti della grande orchestra che è chiamata a trasformare in
poetico canto ogni rappresentazione formale dell’esistenza: dal cucchiaio alla
città.”(2) But just as that brief phrase has been taken in isolation by architects,
critics, and scholars as a concise declaration of the sweeping powers of modernist architects, so when considered as part of the larger text it offers historians
of both architecture and design a challenging point of departure for considering
the divergences and convergences between the two fields of historical inquiry.
While the isolated phrase – from the spoon to the city – seems to assert a
continuous spectrum of design practices, the opening line – a spoon is a spoon,
a chair is a chair, a house is a house, a city is a city – instead emphasizes the
distinctiveness of objects that demand their own particular modes of attention
from architects, designers, and historians alike.
My own introduction to Rogers’s compelling phrase as well as his architectural
and design work and that of his collaborators and peers in Milan came during
graduate school, when discoveries during coursework led me to a dissertation on the quartiere Cesate, which I found a productive if challenging lens
through which to re-examine Italian architects’ efforts to re-orient modernism
in response to the collapse of Fascism and the demands of reconstruction.(3)
Trained as an architectural historian, I initially understood Rogers’s phrase as
Ernesto N. Rogers, “Ricostruzione: dall’oggetto d’uso alla
città”, Domus, (November 1946), 2.
(2)
Rogers, “Ricostruzione”, 5.
(3)
Jonathan Mekinda, “The Cesate Quarter and the Re-Invention of Modern Architecture in Milan, 1945-1955” (Ph.D. diss.,
University of Pennsylvania, 2010).
(1)
12
This article examines the relationship between architectural history and design history through a discussion of two scholarly
projects: the recently published Art Deco Chicago: Making America Modern and the forthcoming Building the “House of Man”:
Design and the Modern Home in Milan, 1933-1957. The former offers the first comprehensive examination of architecture and
design in Chicago between 1914 and 1949 focusing on the range of popular practices and products that defined the “Machine Age”
in the United States. The latter undertakes a critical re-examination of celebrated modernist Milanese architects, including Franco
Albini, Gio Ponti, and Ernesto Rogers, that situates their work within broader discourses and debates over the character of modern
mass culture and its role in shaping a distinctive national modernity. Drawing on the research conducted for these projects, it is
argued that historians of architecture and design must attend as much to the forces exerted by residents, consumers, and users
as they negotiate the demands and opportunities of everyday life as to the imperatives of economic, cultural, and political elites
and their institutions.
a conventional modernist statement of architecture’s wide-ranging capacities
and the scalar diversity of his and his colleagues practices as manifesting
simply the application of architectural ideals at various scales. My perspective
began to shift, however, when I started working at the University of Illinois at
Chicago (UIC), where I was hired to teach design history just as I was finishing
my dissertation. UIC is relatively rare among American universities in hosting
a design historian, but the position there was established in the early 1980s
with the hiring of Victor Margolin, who has played a central role in developing
design history as a scholarly field distinct from art and architectural history. My
primary teaching responsibility is an annual two-semester survey of the history
of modern design that is required for all undergraduate students in graphic
and industrial design, though it is also open to students from architecture, art
history, and other departments across the university.
The syllabi for the modern design history survey courses that I inherited from
Victor and my immediate predecessor, Robin Schuldenfrei, were at once familiar and strange. Their familiarity rested on structures built around key figures
and movements in the historical development of modernism, from the British
Arts & Crafts through Italian Futurism and Soviet Constructivism, the Bauhaus
and the Hochschule für Gestaltung at Ulm, to the advent of postmodernism in
the second half of the twentieth century and on to the wide range of practices pursued today. The points of estrangement were more notable, however,
including the necessity of exploring the impact of the Industrial Revolution on
modes of consumption as well as production in various industries such as ceramics and textiles; a sustained focus on printing, typography, and advertising;
and close attention to the rise in America of a discrete discourse of industrial
design beginning in the late 1920s, centered around figures such as Walter
Dorwin Teague, Henry Dreyfuss, and Norman Bel Geddes who appear rarely, if
at all, in conventional histories of modern architecture.
13
The many late nights spent preparing lectures on material at once familiar and
strange were challenging, but they also opened new scholarly perspectives
for me that simultaneously revealed the wide gaps between the histories of
modern architecture and design and illuminated the benefits of working within
and between the two distinct but intertwined fields of design history and architectural history. The intellectual possibilities of such scholarly work were further
reinforced by my welcoming colleagues in the School of Design at UIC – faculty
and students alike – who introduced me to the practice and teaching of design
to a degree that quickly equaled my long-standing engagement with architectural practice and pedagogy. In the wake of that rapid immersion in design and
design history, I have found my scholarly research transformed. Two projects,
one recently completed and the other ongoing, illustrate the impact on my work
of engaging design alongside architecture. They also illuminate the challenging and provocative questions regarding scholarly subjects and methods that
arise from taking such a diverse range of practices and objects as the focus of
historical inquiry.
Art Deco Chicago
An invitation several years ago from architectural historian Robert Bruegmann
to join an initiative organized by the Chicago Art Deco Society combined with
my pedagogical engagement with design and design history to spark a profound change in my approach to both the history of architecture in Chicago and
architectural history more broadly. Conceived initially as a survey of Art Deco
architecture in the city, the project expanded under Bruegmann’s direction and
through input from a diverse array of scholars, collectors, and connoisseurs, to
include landscape, infrastructure, and design broadly defined. It also culminated
in the recent publication of Art Deco Chicago: Making America Modern.(4) As the
title of the volume makes clear, the organizing imperative for the project was the
term Art Deco, a widely used stylistic designation but one not especially popular
among architectural and design historians.(5) The term itself gained traction in
the Anglo-American world during the 1960s and 1970s through the work of Bevis Hillier following a 1966 exhibition at the Musée des Arts Decoratifs in Paris entitled “Les années ‘25’: Art Deco, Bauhaus, Stijl, Esprit Nouveau” that introduced
the term.(6) While the initial impact of the “discovery” of Art Deco was evidenced
chiefly in a wave of popular and effective preservation movements – including
the Chicago Art Deco Society, which continues to be an important advocate
for preservation – its emergence also coincided with a notable turn toward the
study of popular culture within the American academy.(7) The significance of that
Robert Bruegmann (ed.), Art Deco Chicago: Making America Modern (Chicago, Chicago Art Deco Society, Distributed by
Yale University Press, 2018).
(5)
A taste of academics’ skepticism toward both the concept
of Art Deco and the material it described is offered by Edgar
Kaufmann Jr.’s review of two early publications exploring the
phenomenon: Edgar Kaufmann Jr., “Reviewed work(s): The
Decorative Twenties by Martin Battersby; Style and Design
1909-1929 by Giulia Veronesi; and Stile 1925. Ascesa e caduta
delle ‘Arts Deco’ by Giulia Veronesi”, Art Bulletin 52, 3 (September 1970), 340-341.
(6)
For the early works on Art Deco, see: Les Années “25”. Art
Déco / Bauhaus / Stijl / Esprit Nouveau. Musée Des Arts Décoratifs 3 Mars / 16 Mai 1966 (Paris, Musée des Arts Décoratifs, 1966); Bevis Hiller, Art Deco of the 20s and 30s (London,
Studio Vista, 1968); Bevis Hillier, The World of Art Deco (New
York, E.P. Dutton, 1971); Giulia Veronesi, Stile 1925 (Florence,
Vallecchi Editore, 1966); and Giulia Veronesi, Style and Design
1909-1929 (New York, George Braziller, 1968).
(7)
The history of the term Art Deco is thoroughly explored by historian Neil Harris in his contribution to Art Deco Chicago: Neil Harris,
“Decomania, the Paths to an Enthusiasm”, in Bruegmann (ed.),
Art Deco Chicago, 63-78.
(4)
14
1.1
1.1
Art Deco Chicago: Making America Modern, edited by Robert
Bruegmann, published by the Chicago Art Deco Society and
distributed by Yale University Press, 2018.
Courtesy of the Chicago Art Deco Society
development for the study of architecture and design is exemplified by the work
of American Studies scholar Jeffrey Meikle, whose ground-breaking book Twentieth Century Limited: Industrial Design in America, 1925-1939 provided for the
first time an examination of the rise of industrial design in the US from an historical perspective that eschewed both the aggrandizing personal narratives of
key protagonists such as Bel Geddes and Raymond Loewy and the ideological
tenets of avant-garde modernism.(8)
Despite the rapid embrace of the term by the general public, Art Deco has
figured little in the scholarship on the history of Chicago architecture. Since at
least the early 1930s, when the recently established Museum of Modern Art in
New York organized the exhibition “Early Modern Architecture: Chicago, 18701910”, the architecture of Chicago has been celebrated around the world as
fostering some of the most advanced experiments of the modernist avant-garde.(9) In that view, the work of certain Chicago architects in the late nineteenth
century, chief among them William LeBaron Jenney, Louis Sullivan, and Frank
Meikle himself recounted some of the drivers of the scholarly
turn toward popular culture in his review of two surveys of industrial design produced during the early 1980s: Jeffrey Meikle,
“Review: Design since 1945”, edited by Kathryn B. Hiesinger and
George H. Marcus; and A History of Industrial Design by Edward
Lucie-Smith, Design Issues 1, 2 (Autumn 1984), 87-89.
(9)
For more on this exhibition, see Joanna Merwood-Salisbury,
“American Modern: The Chicago School and the International
Style at New York’s Museum of Modern Art”, in Alexander Eisenschmidt and Jonathan Mekinda (eds.), Chicagoisms: The
City as Catalyst for Architectural Speculation (Zürich, Park
Books, 2013), 116-129.
(8)
15
1.2
Holabird & Root, Chicago Board of Trade building,
Chicago, IL 1930. Photo by James Caulfield, 2016.
Courtesy of the Chicago Art Deco Society
Lloyd Wright, is seen to embody the concentrated engagement with modern
materials, structures, functions, and forms that would culminate in the modernism of architects such as Le Corbusier, Walter Gropius, and Ludwig Mies
van der Rohe. The widespread influence of that view is well demonstrated by
the spread of the term the “Chicago School” to describe the architecture of
the city during both the late nineteenth century and the mid-twentieth century,
following the arrival of Mies van der Rohe to direct the school of architecture at
what is now the Illinois Institute of Technology.(10) While architectural historians
such as Daniel Bluestone, Robert Bruegmann, Thomas Leslie, and Joanna
Merwood-Salisbury have produced a substantial body of scholarship in the
past 25 years that productively interrogates the “myth” of the Chicago School,
the city’s role in the development of modernist architecture largely continues
to define how architectural historians approach the history of architecture in
Chicago.(11)
And yet, it takes only a few days in the city to realize how much of the architecture here exceeds that canonical history. While the works of LeBaron
Jenney, Sullivan, and Wright are still rightly celebrated, remarkable buildings
by other Chicago architects rarely figure in most discussions within a field still
preoccupied with modernism. Two examples by the prolific firm Holabird and
Root exemplify this point: the Palmolive building, which stands at the north
end of Michigan Avenue, and the Chicago Board of Trade, at the southern
end of LaSalle Street. As architectural history in the US has developed since
the “cultural turn” within the American academy that began in the 1960s,
excellent scholarship has been produced on these and other significant
buildings in Chicago that locates both the structures and their architects
within streams of historical development exterior to the modern discipline of
architecture itself. Rather than emphasizing disciplinary concerns such as
material, structure, space, and function, these studies focus on the actual
use of a given edifice and the ways that the occupants, owners, and visitors
engage and experience the building in order construct a properly social history of architecture.(12)
In preparing my own essay for the volume on Art Deco in Chicago, conversations with the other contributors as well as the challenge of grappling with the
term Art Deco itself quickly forced me to shift my focus away from the established icons of Chicago architecture and toward the practices embraced by
the vast majority of architects, designers, clients, and consumers, who had
only varying degrees of interest in either the formal or ideological ambitions
of avant-garde modernism.(13) With respect to the two buildings by Holabird
For more on the concept of the Chicago School, see H. Allen
Brooks, “‘Chicago School’: Metamorphosis of a Term”, Journal
of the Society of Architectural Historians 25, 2 (1966), 115118; and Robert Bruegmann, “Myth of the Chicago School”,
in Chicago Architecture: Histories, Revisions, Alternatives, ed.
Charles Waldheim and Katerina Rüedi Ray (Chicago, University of Chicago Press, 2005), 2-29. The concept of the Chicago
School received its most refined exposition in the work of Carl
Condit; see Carl Condit, The Chicago School of Architecture:
A History of Commercial and Public Building in the Chicago
Area, 1875-1925 (Chicago, University of Chicago Press, 1964).
(11)
Daniel Bluestone, Constructing Chicago (New Haven and
London, Yale University Press, 1991); Robert Bruegmann, The
Architects and the City: Holabird and Roche of Chicago, 18801918 (Chicago, University of Chicago Press, 1997); Thomas
Leslie, Chicago Skyscrapers, 1871-1934 (Urbana, Chicago,
and Springfield, University of Illinois Press, 2013); and Joanna
Merwood-Salisbury, Chicago 1890: The Skyscraper and the
City (Chicago, University of Chicago Press, 2009). A first step
in the re-examination of the conventional history of Chicago architecture was the exhibition and related catalogue organized
by the Chicago Seven, a group of architects centered on Stuart
Cohen and Stanley Tigerman, in the late 1970s, both entitled
“Chicago Architects”. See: Stuart Cohen and Stanley Tigerman, Chicago Architects (Chicago, The Swallow Press, 1976).
(12)
The work of Joseph Siry exemplifies this strand of scholarship; two examples are: Joseph M. Siry, Carson, Pirie, Scott:
Louis Sullivan and the Chicago Department Store (Chicago,
University of Chicago Press, 1988), and Joseph M. Siry, The
Chicago Auditorium Building: Adler and Sullivan’s Architecture
and the City (Chicago, University of Chicago Press, 2002).
(13)
Jonathan Mekinda, “Chicago Designs for America”, in Art
Deco Chicago, 15-31. Robert Bruegmann proposes the term
“mainstream modernism” to describe these practices in his
contribution to the volume: Robert Bruegmann, “Capital of
Mainstream Modernism”, in Art Deco Chicago, 1-14.
(10)
16
1.2
17
(14)
Mekinda, “Chicago Designs for America”, in Art Deco Chicago, 16. Other important discussions of the interwar effort to
modernize the classical tradition are: Charlotte Benton and Tim
Benton, “The Style and the Age”, in Art Deco, 1910-1939, ed.
Charlotte Benton, Tim Benton, and Ghislaine Woods (London,
V&A Publications, 2008), 13-27; David Gebhard, “The Moderne
in the U.S., 1920-1941”, Architectural Association Quarterly 2,
3 (1970), 4-20; Rosemarie Haag Bletter, “The Art Deco Style”,
in Skyscraper Style: Art Deco New York (New York, Oxford
University Press, 1975), 35-73; Richard Striner, “Art Deco: Polemics and Synthesis”, Winterthur Portfolio 25, 1 (Spring 1990),
21-34; and Richard Guy Wilson, Diane H. Pilgrim, and Dickran Tashjian, (eds.), The Machine Age in America, 1918–1941
(New York, Brooklyn Museum in association with Abrams,
1986).
(15)
For accounts of Moholy-Nagy’s work in Chicago, see: Lloyd
Engelbrecht, “The Association of Arts and Industries: Background and Origins of the Bauhaus Movement in Chicago”
(Ph.D. diss., University of Chicago, 1973); Alain Findeli, “Moholy-Nagy’s Design Pedagogy in Chicago (1937-46)”, Design
Issues 7, 1 (1990), 4-19; and Alain Findeli, “Design Education
and Industry: The Laborious Beginnings of the Institute of Design in Chicago in 1944”, Journal of Design History 4, 2 (1991),
97-113. For useful, if narrow, discussions of the relationship
between Moholy-Nagy’s schools and the broader Chicago’s
design community, see: Lloyd Engelbrecht, “Modernism and
Design in Chicago”, in The Old Guard and the Avant-Garde:
Modernism in Chicago, 1910-1940, ed. Sue Ann Prince (Chicago, University of Chicago Press, 1990), 119-138; and Peter
Selz, “Modernism Comes to Chicago: The Institute of Design”,
in Art in Chicago, 1945-1995, ed. Lynne Warren (Chicago, Museum of Contemporary Art, 1996), 35-52.
(16)
Useful starting points for the history of Chicago design are:
Victor Margolin, “Graphic Design in Chicago”, in Chicago Architecture and Design, 1923–1993: Reconfiguration of an American Metropolis, ed. John Zukowsky (Munich, Prestel, 1993),
282-301; and Pauline Saliga, “‘To Build a Better Mousetrap’:
Design in Chicago, 1920-1970”, in Chicago Architecture and
Design, 1923-1993, 264-281. Also valuable, if more narrowly
focused, is Sharon Darling, Chicago Furniture: Art, Craft, &
Industry, 1833-1983 (Chicago, The Chicago Historical Society,
1984). The work of Barbara Jaffee is essential for understanding the early formation of the design culture that flourished in
Chicago during the middle decades of the twentieth century:
Barbara Jaffee, “Before the New Bauhaus: From Industrial
Drawing to Art and Design Education in Chicago”, Design Issues 21, 1 (2005), 41-62.
and Root mentioned above as well as contemporaneous works in the city by
other architects such as the Burnham brothers, Phillip Maher, and Graham,
Anderson, Probst, and White, that meant acknowledging and grappling with
the renewed appeal of the classical tradition in the interwar years, when architects explicitly embraced it as an approach to design that could address the
advances of modernity without breaking radically from convention. As I argue
in my essay:
More than a single historical style, the classical tradition was understood [during the 1920s and 1930s] as a coherent body of aesthetic thought that connected antiquity to the present via an unbroken chain of
masterpieces. It offered a universal approach to design that celebrated
balance, order, and harmony as the basis of beauty, and beauty as the
measure of any successful design. Even in the face of industrialization,
the many advocates of the classical tradition proclaimed its continued
vitality. Confronted with the machine, they called for updating the tradition through the adoption of new materials, technologies, and aesthetic
techniques while still adhering to the longstanding principles of beauty
they believed central to Western civilization. In the broadest sense, that
ambition to synthesize the classical tradition and the modern defines
Art Deco.(14)
Even more potent in re-shaping my approach to the history of Chicago architecture was the imperative to examine simultaneously the history of design in
the city. That subject has generally suffered from the same biases as the history
of architecture in the city, namely the view that Chicago’s primary contribution
to the development of modern design during the twentieth century was its role
in stimulating modernism by fostering European émigrés, in particular László
Moholy-Nagy, who was brought to Chicago at about the same time as Mies
van der Rohe in order to establish a new school of design, first called the New
Bauhaus, then the School of Design, and finally, as it is still known today, the
Institute of Design.(15) While Moholy-Nagy and his school had a fundamental
and long-lasting impact on the practice of design in the city – as attested to by
the fact that many designers in Chicago today still trace their education and
practices to Moholy-Nagy – the depth of that impact in many ways rested on the
existence of an already large and vibrant community of professional designers
in the city, most of whom worked in modes far better described by the concept
of Art Deco than modernism.(16)
18
1.3
Chicago Flexible Shaft Company, Sunbeam Mixmaster Model
5, designed by George T. Scharfenberg, 1939. Collection
of William E. Meehan, Jr. Photo by Richard Quindry, 2016.
Courtesy of the Chicago Art Deco Society
1.3
Indeed, as the host to Sears, Roebuck Co. and Montgomery Ward, two of
the largest mail-order companies in the world during the first decades of the
twentieth century, as well as numerous manufacturers and industrial concerns
such as Western Electric Co., Crane Valve Co., and the Chicago Flexible Shaft
Co., Chicago produced during the middle decades of the twentieth century
many of the objects and goods that came to define modern living for millions of
Americans. Products such as the Aerocycle from Schwinn, the Mixmaster from
Sunbeam, and radios from Motorola and Zenith were widely distributed and
acquired during those decades and became the material means by which many
Americans entered what soon became known as the “Machine Age.” Despite
the widespread popularity and commercial success of these products, however, they have until now played no role in the history of Chicago design. Similarly,
the numerous graphic designers who flourished in Chicago as a result of the
city’s status as a major center of printing and publishing have been largely
overlooked by art and design historians who have focused on the advertising
program of the Container Corporation of America (CCA). Under the direction
of president Walter Paepcke, art director Egbert Jackson famously commissioned work for CAA from celebrated modernists such as Herbert Bayer and
Paul Rand to pioneer new forms of corporate promotion.(17)
Thanks to the efforts of the many researchers and scholars who contributed to Art Deco Chicago we now know more than ever before about the vast
“ecosystem” of design that operated in Chicago between 1920 and 1950, from
Walter Paepcke’s work and ambitions are considered in
detail in James Sloan Allen, The Romance of Commerce and
Culture: Capitalism, Modernism, and the Chicago-Aspen Crusade for Cultural Reform, rev. ed. (Boulder, University Press
of Colorado, 2002). For a broader perspective on the design
program of CCA, see Neil Harris, “Designs on Demand: Art
and the Modern Corporation”, in Cultural Excursions: Marketing Appetites and Cultural Tastes in Modern America, ed. Neil
Harris (Chicago, University of Chicago Press, 1990), 349-378.
That essay was produced as part of a larger exhibition project:
Neil Harris and Martina Roudabush Norelli, Art, Design, and the
Modern Corporation (Washington, DC, Smithsonian Institution
Press, 1985). A more critical discussion of the CCA design program is T.J. Jackson Lears, “Uneasy Courtship: Modern Art and
Modern Advertising”, American Quarterly 39, 1 (1987), 133154. Important for understanding the program at CCA within the
broader context of American advertising is Michele H. Bogart,
Artists, Advertising, and the Borders of Art (Chicago, University
of Chicago Press, 1995). Paul Gehl’s ongoing research offers
an essential counter to the conventional emphasis on modernism in the history of graphic design in Chicago; see: Paul Gehl,
“The Calligraphic Tradition in Chicago Graphic Design, 19001950”, Bibliologia 5 (2010), 127-163.
(17)
19
20
1.4
Barnes & Reinecke, Product array for advertising, ca. 1946.
Collection of Vicki Matranga
1.5
Robert Hunter Middleton, Typeface wheel, published in 27
Chicago Designers, 1940. At that time, Middleton was
Director of Typeface Design for the Ludlow Typograph Co., a
Chicago-based manufacturer of compact typesetting
machines that were a popular alternative to Linotype
machines and were in use worldwide by the end of the 1920s.
Collection of the Newberry Library, Chicago
1.4, 1.5
the workings of the design shops at Sears, Roebuck and Montgomery Ward,
under the direction of John Morgan and Anne Swainson respectively, to the
large number of designers who maintained independent consultancies such as
Barnes & Reinecke, Bertsch & Cooper, Alfonso Iannelli, and Everett Worthington. For the purposes of preparing my own contribution to the volume, however,
understanding the role that Chicago designers played in shaping the modern
mass culture that emerged in the USA during the middle decades of the twentieth century required not only examining works of architecture and design that
fall outside the traditional aesthetic standards of art, architectural, and design
history, but also engaging the tremendous body of scholarship from other academic disciplines such as history and cultural studies devoted to the study of
Chicago and its diverse communities.(18) The work of scholars such as Davarian Baldwin, Lizabeth Cohen, William Cronon, Neil Harris, David Hounshell,
and Philip Scranton, to name only a few among those whose work I studied,
was transformative for grappling with the vast assortment of advertisements,
(18)
The definition and scope of American mass culture is the
subject of ongoing debate. While the term is conventionally assumed to describe the mainstream culture of the broad economic middle of Americans, scholars are increasingly as sensitive
to the points of variation within mass culture as to the points of
uniformity. For a useful consideration of the issues at stake in
the concept of mass culture, see Michael Denning, Culture in
the Age of Three Worlds (London & New York, Verso, 2004),
especially the essays in “Part Two: Working on Culture”.
21
publications, and consumer products that poured forth from the design offices,
factories, and retailers of Chicago between 1920 and 1950.(19)
On the one hand, my reading in other fields reinforced my sense of the capacity
of design as a subject of historical inquiry to materialize forces and conditions
that frequently remain abstract in those fields, which typically lack close attention to the material qualities and visual forms that make designed objects so
powerful as tools for daily life as well as agents of advancement and change for
the individuals who design, manufacture, distribute, purchase, and use them.
On the other hand, that body of scholarship dramatically broadened the scope
of my approach to the history of Chicago architecture and design, introducing
me to subjects and methods foreign to my training as an architectural historian
but important for understanding the broad popularity of the formal language
described by Art Deco among clients and consumers across many communities. As a result, bringing together the new body of knowledge unearthed
by the contributors to the volume with the broader view of Chicago’s architecture demanded by the concept of Art Deco spurred me to re-configure not
only my understanding of the history of Chicago architecture and design, but
also the subjects and methods of my scholarship at large. Put succinctly, my
engagement with the diverse subjects – individuals and institutions, goods and
services, communities and systems – contained by the intellectual frame “Art
Deco Chicago” challenged me to re-examine the grounds on which I assert the
significance of my chosen historical subjects and to think more deeply about
the kinds of histories I think important to tell in the present.
No doubt the attention paid to the exceptional and the distinctive in constructing
the histories of modern architecture and design is in large part the result of the
close proximity of architectural history and design history within the academy
to the practices that are their subjects. Grappling with questions of dissemination, consumption, and use, shaped by class, gender, and race, as well as
style and form, however, necessitates that scholars cultivate a host of methods
that extend beyond research in professional and institutional archives and the
analysis of iconic plans, structures, and objects. While attention to media has
been a priority for Anglo-American architectural historians since at least Beatriz
Colomina’s seminal work Privacy and Publicity: Modern Architecture as Mass
Media, the breadth of design as a subject of historical inquiry points to the value
of a range of sources, including business and census records, personal papers
and photographs from community archives, and social surveys among others,
to which scholars in other fields regularly turn in order to understand the conditions and attitudes of broader communities.(20) From that perspective, Rogers’s
Davarian L. Baldwin, Chicago’s New Negroes: Modernity, the Great Migration, and Black Urban Life (Chapel Hill,
NC, The University of North Carolina Press, 2007); Lizabeth
Cohen, Making a New Deal: Industrial Workers in Chicago,
1919-1939, 2nd ed. (Cambridge, Cambridge University Press,
2008); William Cronon, Nature’s Metropolis: Chicago and the
Great West (New York, Norton, 1991); Neil Harris, “The Drama
of Consumer Desire”, in Yankee Enterprise, The Rise of the
American System of Manufactures, eds. Otto Mayr and Robert
C. Post (Washington DC, Smithsonian Institution Press, 1981);
David Hounshell, From the American System to Mass Production, 1800-1932: The Development of Manufacturing Technology in the United States (Baltimore, Johns Hopkins University
Press, 1984); and Philip Scranton, Endless Novelty: Specialty
Production and American Industrialization, 1865-1925 (Princeton, Princeton University Press, 1997). Other valuable works
include: Ava Baron (ed.), Work Engendered: Toward a New
History of American Labor (Ithaca, Cornell University Press,
1991); Adam Green, Selling the Race: Culture, Community,
and Black Chicago, 1940-1955 (Chicago, University of Chicago
Press, 2009); Robert Lewis, Chicago Made: Factory Networks
in the Industrial Metropolis (Chicago, University of Chicago
Press, 2008); Ruth Schwartz Cowan, A Social History of American Technology (New York, Oxford University Press, 1997);
and Richard Wightman Fox and T.J. Jackson Lears (eds.), The
Culture of Consumption: Critical Essays in American History,
1880-1980 (New York, Pantheon, 1983).
(20)
Beatriz Colomina, Privacy and Publicity: Modern Architecture as Mass Media (Cambridge, MIT Press, 1994). The plenary address that Kathleen James-Chakraborty gave to the 2017
annual conference of the Society of Architectural Historians
explored some of these themes: Kathleen James-Chakraborty,
“Field Note: Architecture, Its Histories, and Their Audiences”,
Journal of the Society of Architectural Historians 77, 4 (December 2018), 397-405. In my own experience, the work of historian Lizabeth Cohen has been especially influential in this regard; see: Lizabeth Cohen, “Encountering Mass Culture at the
Grassroots: The Experience of Chicago Workers in the 1920s”,
American Quarterly 41, 1 (Mar. 1989), 6-33.
(19)
22
The ambitions and methods of this new approach are especially well developed in the work of Esra Akcan; see Esra
Akcan, Architecture in Translation: Germany, Turkey, & the
Modern House (Durham NC, Duke University Press, 2012).
Exemplary of this approach in relation to Italy is Paolo Scrivano, Building Transatlantic Italy: Architectural Dialogues with
Postwar America (Surrey England, Ashgate, 2013).
(22)
The concept of the “International Style” is the best known
example of this framework. While that term has been subjected
to substantial scholarly scrutiny and is now largely understood
as a strictly historical formation rather than an accurate description of modernism at large, it is emblematic of the ways
in which Anglo-American architectural history has largely relied
on a center-periphery model for understanding the historical
development of modernism.
(23)
The peripheral status of Italian modernism is often described
in stylistic and material terms and explained by reference to the
pace of industrialization in Italy in comparison to those countries at the “center” of modernism. The work of Michelangelo
Sabatino offers an important corrective to that approach; see
Michelangelo Sabatino, Pride in Modesty: Modernist Architecture and the Vernacular Tradition in Italy (Toronto, University of
Toronto Press, 2010); and Jean-François Lejeune and Michelangelo Sabatino (eds.), Modern Architecture and the Mediterranean: Vernacular Dialogues and Contested Identities (London
and New York, Routledge, 2010). The political affiliations of
Italian modernism have also limited how Anglo-American architects and scholars have engaged the subject, despite the
important efforts of Diane Ghirardo to address the issue directly. See: Diane Ghirardo, “Italian Architects and Fascist Politics:
An Evaluation of the Rationalists’ Role in Regime Building”,
Journal of the Society of Architectural Historians 39, 2 (May
1980), 109-127; and Diane Ghirardo, “Politics of a Masterpiece:
The Vicenda of the Decoration of the Casa del Fascio, Como,
1936-39”, Art Bulletin 62, 3 (September 1980), 466-478. A
younger generation of scholars has continued the work initiated by Ghirardo: see Lucy Maulsby, Fascism, Architecture, and
the Claiming of Modern Milan, 1922-1943 (Toronto, University of Toronto Press, 2014); and David Rifkind, The Battle for
Modernism: Quadrante and the Politicization of Architectural
Discourse in Italy (Venice, Marsilio, 2012). Also important is the
growing body of scholarship on the Italian colonies; for two useful examples see: Brian McLaren, Architecture and Tourism in
Colonial Libya: An Ambivalent Modernism (Seattle, University
of Washington Press, 2006); and Mia Fuller, Moderns Abroad:
Architecture, Cities, and Italian Imperialism (London and New
York, Routledge, 2007).
(24)
In addition to the scholarship mentioned above, the excellent work of Emily Braun is an important point of reference for
my study; see: Emily Braun, Mario Sironi and Italian Modernism: Art and Politics under Fascism (Cambridge, Cambridge
University Press, 2000).
(21)
assertion that a spoon is a spoon, a chair is a chair, a house is a house, a city
is a city, is a challenge to architectural and design historians to attend not only
to the professional and disciplinary ambitions and desires of those who design,
produce, and distribute works of architecture and design, but also to the ways
in which such works address, accommodate, and transform the needs, obligations, and desires of the humans who occupy, encounter, and use them.
Building the “House of Man”
At the same time that I have been working on the history of architecture and
design in Chicago, I have continued my study of the work of Rogers and his
colleagues in Milan, which I am currently preparing for publication under the
title Building the “House of Man”: Design and the Modern Home in Milan, 19331957. The book builds on recent scholarship that approaches modernism as an
inherently global phenomenon, developing contemporaneously yet differently
in specific locales.(21) Until recently, Anglo-American architectural historians
have largely conceived modernism as developing around a coherent center,
defined variously by certain figures (e.g. Le Corbusier and Ludwig Mies van der
Rohe), certain places (e.g. France, Germany, and the USA), certain materials,
technologies, and design strategies (e.g. glass, mass production, and the free
flow of interior space) and/or certain historical conditions (e.g. industrialization).
In that view, the principles and practices of modernism are articulated and refined by the center (however defined) and peripheral developments diverge
from those to a greater or lesser degree depending on architects’ access to
the necessary materials, technologies, knowledge and institutions.(22) Within
that framework, the historical development of modernist architecture in Italy
has largely figured as a peripheral phenomenon showing only partial adoption
of the central principles and practices of modernism, an assessment that has
been reinforced by the seeming difficulty of untangling the political affiliations
of Italian modernism.(23)
My book takes a different approach, one that emphasizes the local conditions
and discourses of modernity with which modernists in Milan engaged as they
articulated their conception of modernism.(24) Of course Rogers and his colleagues were deeply engaged with international efforts to advance modernism
and frequently deployed comparative rhetoric to support their arguments, but
their conceptions of modernism were constituted through the dynamic interplay
of international discourses and local developments rather than the direct importation and adaptation of foreign ideas. Closer attention to the design work
of modernists in Milan has reinforced the imperatives of this approach. Taking
23
the home as its subject, my book aims not only to integrate the diverse scalar
practices of Rogers and his colleagues, but also to foreground the modes of
modern living that their work envisioned and enabled. Attending to the subjects, audiences, and markets that these works constituted does not mean privileging use and consumption over design and production or abandoning close
analysis of the formal and material properties of projects, objects, and built
works. Rather, it necessitates interrogating the entanglement of such outputs in
the broader environment within which architects and designers conceive their
methods and ambitions beyond purely disciplinary concerns.(25) To that end, my
book positions architecture and design as just one, albeit distinct, arena among
many in which various positions, theories, and practices were articulated and
materialized with the aim of defining the conditions of modernity for the still
young nation-state.
As in my work on Art Deco in Chicago, considering design alongside architecture has meant grappling with both the different historiographic conventions
of architectural history and design history, which are especially pronounced
with respect to Italian modernism, and scholarship in other disciplines such as
cultural studies, history, and cinema and media studies that examines the ways
in which modernity was conceived and enacted by Italians of all types, from
political, cultural, and industrial elites to bourgeois consumers, working-class
women, and colonial subjects.(26) Building on that scholarship, my book focuses
on how the formation of modern mass culture in Milan as well as the broader Italian discourse around that phenomenon during the middle decades of
the twentieth century constituted the material and ideological ground on which
modernism developed in the city. More than offering just an expanded view of
the work of Rogers and his colleagues, I consider how they struggled to understand and direct the processes of modernization in the city in relation not only
to the new forms of industrialized manufacturing such as pre-fabrication and
mass production, but also to the new social formations emerging from modern
modes of labor, leisure, and consumption. Through a close study of their domestic work across the middle decades of the twentieth century, from household objects to city plans, my book argues that the Milan group developed a
distinctive conception of modernism that aimed to modulate the emergence of
the industrialized masses as the primary social formation of modernity and to
construct a mass culture that would reinforce a humanistic ideal of the modern
subject – the inhabitant of what Rogers’s declared the “house of man.”(27)
In elaborating that argument, my book not only proposes a new assessment
of the development of modernism in Milan, but also aims to contribute to the
In addition to the work of Paolo Scrivano mentioned above,
a valuable model for this approach is Greg Castillo, Cold War
on the Home Front: The Soft Power of Midcentury Design (Minneapolis, University of Minnesota Press, 2010).
(26)
Among Anglo-American architectural and design historians,
treatments of postwar developments in Italy are deeply divided.
On the one hand, architectural historians have generally interpreted the interest in vernacular forms and techniques among
Italian architects after the war as a nostalgic revival aimed at
resisting a mass culture that celebrated the dissolution of established norms and conventions spurred by industrialization.
On the other, the distinctive design culture that flourished in
postwar Milan has largely been seen by design historians as
marking the triumph of democratic values and the inauguration
of the consumption-oriented mass culture that would flourish
in Italy from the mid-1950s via the miracolo economico. Recent work has begun to complicate these views; see Grace
Lees-Maffei and Kjetil Fallan (eds.), Made in Italy: Rethinking
a Century of Italian Design (London, Bloomsbury, 2014); and
Catherine Rossi, Crafting Design in Italy: From Post-War to
Postmodernism (Manchester, Manchester University Press,
2015). Scholarship in fields beyond architectural and design
history that has been influential for my work includes, Ruth
Ben-Ghiat, Fascist Modernities: Italy, 1922-1945 (Berkeley and
Los Angeles, University of California Press, 2001); Victoria de
Grazia, Irresistible Empire: America’s Advance through Twentieth-Century Europe (Cambridge and London, The Belknap
Press of Harvard University Press, 2005); David Forgacs, Italian Culture in the Industrial Era, 1880-1980: Cultural Industries,
Politics and the Public (Manchester, University of Manchester
Press, 1990); David G. Horn, Social Bodies: Science, Reproduction, and Italian Modernity (Princeton, Princeton University
Press, 1994); Emmanuela Scarpellini, Material Nation: A Consumer’s History of Modern Italy, trans. Dafne Hughes and Andrew Newton (Oxford, Oxford University Press, 2011); and Noa
Steimatsky, Italian Locations: Reinhabiting the Past in Postwar
Cinema (Minneapolis, University of Minnesota Press, 2008).
(27)
The phrase is from Ernesto Rogers, “Programma: Domus, la
casa dell’uomo”, Domus 205 (January 1946), 2-3.
(25)
24
1.6, 1.7
1.6
View of the quartiere Cesate, Milano, 2012.
The quartiere was designed by Franco Albini,
Gianni Albricci, Enrico Castiglioni, Ignazio Gardella,
and BBPR between 1950-1957.
Photo courtesy of the author.
1.7
View of the Margherita chair at the Triennale Design
Museum at the Villa Reale, Monza, 2015.
The Margherita chair was designed by Franco Albini with
Luigi Colombini in 1950.
Photo courtesy of the author
wider effort to reconfigure how scholars approach modernism as a global
phenomenon by drawing closer attention to the dynamic relationship between
modernism and the new regimes of daily life that emerge as processes of
modernization take shape within disparate locales. In order to assess the full
impact of modernism and the particular vision of modernity that it advanced,
historians of architecture and design must attend as much to the forces exerted by residents, consumers, and users as they negotiated the demands and
opportunities that confronted them daily as to the imperatives of economic,
cultural, and political elites and their institutions. Indeed, our world today demands such an approach. Although extraordinary works of architecture and
design continue to define the outermost horizon of our visions of the future,
the ordinary “things” of daily life are where those visions meet the diverse systems, customs, and forces that constrain their realization. At a moment when
the relentless press of technological advances in the digital realm has yielded
the substitution of the narrow discourse of innovation for modernist ideas of
progress, the realm of the ordinary affords the richest terrain in which to observe both the flourishing of alternative visions of the future and the means by
which such visions are foreclosed.
25
DOI: 10.17401/studiericerche.5.2019-prencipe
S
toccolma 1953:
l’esposizione della Nuova Arte Italiana
e la difficile conquista
della modernità
MONICA PRENCIPE
Università Politecnica delle Marche, Ancona
Franco Albini, “Le mie esperienze di architetto nelle esposizioni in Italia e all’estero”, Casabella, 370 (2005), 10.
(2)
Comitato della Biennale di Venezia (a cura di), Nutida Italiensk Konst, catalogo della mostra, Stoccolma, Liljevalchs
Konsthall, 7 marzo-12 aprile 1953 (Stoccolma, Liljevalchs Konsthall, 1953).
(3)
Un commento dell’evento da parte dell’Istituto Italiano di
Cultura è contenuto in: Alessandro De Masi, “Il mese Italiano
a Stoccolma”, Rassegna annuale di scambi culturali italo-svedesi. ITALIA SVEZIA, anno I (1955), 123-125. Nel testo, si
precisa che la mostra nacque per essere ospitata all’interno
delle sale del Museo d’arte moderna di Stoccolma (la Liljevalchs Konsthall) e fu successivamente trasferita a Helsinki, in
due diverse sedi.
(4)
Le definizioni di “nordico” e “scandinavo” non sono perfettamente sovrapponibili. Geograficamente e storicamente, la
Scandinavia include i territori di Svezia, Norvegia e Danimarca.
Al contrario, la denominazione “Paesi Nordici” include anche i
territori di Islanda e Finlandia. Tuttavia, nella pubblicistica italiana come in quella estera, il termine “scandinavo” accompagnava senza distinzione anche l’architettura e il design finlandese.
(5)
La prima della Svezia in Italia risale al 1902, in occasione
dell’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa di Torino,
in cui la figura dell’architetto Ferdinand Boberg (1860-1945)
fu pubblicizzata dal critico Enrico Thovez (1869-1925) tra gli
esempi internazionali più interessanti dell’epoca. Enrico Thovez, “Un architetto svedese: Ferdinand Boberg”, L’arte decorativa moderna, 2 (Feb. 1902), 33-40; Enrico Thovez, “Arte decorativa scandinava”, L’arte decorativa moderna, 2 (Feb. 1902),
40-45. Qualche decennio dopo, una delegazione svedese
prese parte alla prima Biennale di Monza del 1923, più tardi
trasformata in Triennale e trasferita dal 1933 a Milano. Con
l’eccezione del 1925, tutte le successive esposizioni milanesi
fino agli anni sessanta hanno goduto di una sezione svedese
di arti decorative.
(6)
A riguardo basti leggere i molti riferimenti al contesto nordico
nel testo del 1959 di Giulio Carlo Argan, contenuto in: “Inchiesta sull’artigianato”, Zodiac, 4 (1957), 17-18.
(1)
Occorre sempre interessare il pubblico al tema. […]
Ciò particolarmente all’estero, dove una mostra ha un raggio di influenza
assai più vasto e profondo che una mostra a casa nostra. Credo che l’interesse
venga suscitato ogni volta che il tema entra nella sfera delle possibilità di comprensione
e di accettazione del pubblico e nello stesso tempo rappresenta un’integrazione
delle sue necessità e un contributo alla sua cultura.(1)
Con queste parole, nel 1954, Franco Albini (1905-1977) apriva una sua lezione
sul ruolo della museografia e dell’allestimento temporaneo. Lo scritto – pubblicato per la prima volta su Casabella nel 2005 – è un documento prezioso, che
non solo ci proietta direttamente all’interno del metodo progettuale di Albini, ma
che ci regala uno dei pochi commenti diretti dei suoi lavori. La parte centrale del
suo intervento era destinata all’analisi della mostra itinerante Nutida Italiensk
konst (Nuova Arte Italiana), tenutasi a Stoccolma nelle sale della Liljevalchs
Konsthall pochi mesi prima – tra marzo e aprile del 1953 – e organizzata dalla
Biennale di Venezia.(2) L’evento, benché poco conosciuto nella nostra penisola,
raggiunse una discreta fama tra il pubblico svedese, così come nella successiva tappa finlandese di Helsinki.(3) Successo che – stando alle parole di Albini
– era stato attentamente cercato e voluto. Ma da chi? E a che scopo?
Una delle ipotesi dell’analisi qui condotta è che l’esposizione della “Nuova arte
italiana” fu costruita in risposta agli stimoli culturali prodotti dal mondo nordico,(4) la cui produzione industriale si stava affermando in Italia già a partire
dagli anni venti, grazie alla visibilità offerta loro dalle Triennali milanesi.(5) Obiettivo della mostra del 1953 era quello di pubblicizzare l’immagine di un’Italia
moderna, industriale, ma sempre saldamente affiancata dalla continuità della
tradizione artistica e artigiana. Non a caso infatti, questi caratteri riflettevano e
rielaboravano molti degli elementi che la stessa critica italiana aveva esaltato
nella produzione nordica contemporanea, e viceversa. Un gioco di specchi insomma, che riverberava reciproche similarità e differenze.(6)
26
2.1
The exhibition New Italian Art opened in Stockholm in March 1953, arranged by Franco Albini and Franca Helg. Organized
between the IX and X Triennale, this event remains little known today by the Italian audience, although it can be considered the
result of specific choices related to the previous Italian exhibitions in Sweden. The 1953 exhibition is considered as an opportunity
to analyse the renewed culture of the post-war period and the richness of the plots that intersected between the Italian and
Swedish art scene, in particular on the relationship between industrial product and craftsmanship.
The exhibition proposed to the Nordic public a combination of everyday objects and art pieces, set up within a simple and ethereal
architecture, which conveyed the image of a modern, industrial Italy, but always firmly supported by the continuity of its artistic
and artisan tradition.
The sources come from the researches, carried out during my doctoral thesis, between the Swedish and the Italian archives.
2.1
La locandina dell’esposizione italiana del 1953 in
Strandvägen a Stoccolma.
Foto di Olof Ekberg in «Nutida italiensk konst» Liljevalchs
konsthall exhibition number 203, 1953.
Stockholm City Archive, Liljevalchs Archive, Stoccolma
27
Analizzando l’esposizione più da vicino, già dalla sua organizzazione possiamo constatare la volontà della commissione di ricostruire una visione generale
della cultura italiana degli ultimi cinquant’anni, includendo diverse sezioni tra
cui: arte figurativa (pittura, scultura e disegni in “bianco e nero”), arte decorativa
(artigianato e design) e – per la prima volta in un paese nordico – architettura.
La parte di arte figurativa era curata dallo stesso comitato permanente della
Biennale, composto da nomi celebri quali Rodolfo Pallucchini (1908-1989),
Giulio Carlo Argan (1909-1992) e Roberto Longhi (1890-1970), noti per il loro
approccio inclusivo nei confronti delle diverse manifestazioni artistiche. Umbro
Apollonio (1911-1981), critico d’arte poliedrico e responsabile dell’Archivio della Biennale, fu invitato ad introdurre il catalogo, in cui decise di esaltare le ricerche avanguardistiche di inizio Novecento (a partire dal movimento Futurista),
passando attraverso la più pacata (ma pur sempre dirompente) pittura Metafisica,(7) in contrapposizione ad un panorama contemporaneo più complesso,
costituito dal lavoro di molte “individualità che ancora hanno la meglio sulle
teorie”,(8) citando, tra i nomi, quelli di Carlo Carrà, Mario Sironi, Felice Casorati,
Filippo De Pisis, ma anche i più giovani Renato Guttuso e Arturo Martini.
La sezione di arti decorative fu invece affidata a Franco Albini ed Elio Palazzo,(9)
architetto e direttore – dal 1932 al 1943 – dell’Istituto per le Industrie Artistiche
di Monza (ISIA). Per finire, Albini era stato nominato responsabile anche della
sezione di architettura, assieme alla giovane Franca Helg (1920-1989), da poco
entrata a far parte dello studio.(10) Quest’ultima investitura arrivava dal Gruppo
CIAM italiano, diretto in quel momento dallo stesso Albini con Enrico Peressutti
(1908-1976), e costituito da un nutrito numero di personalità, forte del congresso
tenutosi solo pochi anni prima (nel 1949) a Bergamo.(11) D’altra parte, dato l’inusitato numero di architetti inseriti nell’esposizione, possiamo notare come fosse
largamente rappresentato non solo il CIAM, ma anche tutte le altre maggiori
associazioni italiane (APAO, INA, INU e MSA), così come i nomi degli scomparsi
durante l’ultimo conflitto, tra cui Giuseppe Terragni, Giuseppe Pagano Pogatschnig e Gian Luigi Banfi, già assunti al ruolo di profeti dell’architettura italiana.(12)
Direttori d’orchestra dell’intero evento furono nominati ancora una volta Albini e
Helg, in quanto responsabili generali dell’allestimento, con il compito di armonizzare le diverse sezioni in una visione organica dell’Italia contemporanea.
Nel 1958, Umbro Apollonio avrebbe curato la primissima monografia di Antonio Sant’Elia per la collana Il Balcone, edita a
Milano e curata dai BBPR.
(8)
Comitato della Biennale di Venezia (a cura di), Nutida Italiensk Konst, 16.
(9)
Rossana Bossaglia (a cura di), L’ISIA a Monza. Una scuola
d’arte europea (Monza, Associazione Pro Monza, 1986), 17071.
(10)
Franca Helg Antonioli divenne partner dello studio Albini-Helg nel 1951, proprio durante la realizzazione del progetto
di allestimento per Stoccolma. Kay Bea Jones, Suspending
Modernity: the Architecture of Franco Albini (Londra, Ashgate,
2014), 148.
(11)
Eric Mumford, The CIAM discourse on Urbanisme, 19281960 (Londra-Cambridge, The MIT Press, 2002), 179-200;
Paolo Nicoloso, “Il CIAM di Bergamo. Le Corbusier e le “verità” discutibili della Carta d’Atene”, in L’Italia di Le Corbusier, a
cura di Marida Talamona (Milano, Electa, 2012), 297-312. Dal
volume di Mumford si evincono i rappresentanti nazionali, da
sempre saldamente diretti da un folto gruppo milanese, che
includeva i nomi di: Ernesto Nathan Rogers, Enrico Peressutti,
Ludovico Belgioioso, Piero Bottoni, Franco Albini, Giancarlo
Palanti, Ignazio Gardella, Luigi Figini, Gino Pollini. Tuttavia,
con il CIAM 7 di Bergamo si era trovata l’occasione per aprire
il gruppo anche ad altri nomi come Giuseppe Samonà, Luigi
Piccinato, Luigi Cosenza e Luigi Carlo Daneri.
(12)
Comitato della Biennale di Venezia (a cura di), Nutida Italiensk Konst, 60–99. L’esposizione di architettura comprendeva circa 60 dei nomi più conosciuti del panorama italiano,
con progetti compresi tra la fine degli anni venti e i primi anni
cinquanta, per un totale di 50 tavole.
(7)
La Liljevalchs Konsthall e l’arte italiana: dalla Italienska Utställningen
(1920) alla Nutida Italiensk Konst (1931) di Margherita Sarfatti
Prima di analizzare la selezione delle opere e le scelte espositive degli organizzatori del 1953, è utile soffermarsi su quali fossero state le condizioni che
28
La denominazione Esposizione Italiana d’arte decorativa e
popolare, fa riferimento a quanto riportato in Guido Balsamo
Stella, “Esposizione Italiana d’arte industriale e decorativa a
Stoccolma”, Architettura e Arti Decorative, 1 (maggio-giugno
1921), 93-99. In realtà, la denominazione ufficiale secondo il
titolo del catalogo italiano era: Esposizione d’arte Italiana decorativa industriale moderna a Stoccolma 1920 (Roma, cartotecnica romana, 1920). Altri articoli sul tema: Remigio Strinati,
“L’Esposizione italiana di arte decorativa a Stoccolma”, Rassegna d’arte antica e moderna, 4 (Aprile 1921), 134-139; Ragnar
Hoppe, Svenska Dagblaget, 12 Dicembre 1920.
(14)
Mario Pepe, “Guido Balsamo Stella”, in Dizionario Biografico
degli Italiani, vol. 5 (1963) http://www.treccani.it/enciclopedia/
guido-balsamo-stella_(Dizionario-Biografico) (ultimo accesso:
giugno 2018); “Guido Balsamo Stella” in Svenskt Konstnärslexicon, vol. V, a cura di Johnny Roosval, Lilja Gösta, (Malmö,
Allhem, 1967), 247.
(15)
Gregor Paulsson – critico noto per essere uno dei firmatari
del manifesto funzionalista Acceptera (1930) – nel 1919 era
subentrato all’amico Hakon Ahlberg nella direzione dell’associazione. A riprova della vicinissima relazione tra architettura
e disegno industriale, basti dire che Ahlberg passò a sua volta
a dirigere (dal 1920 al 1924) la più importante rivista svedese
di architettura, Arkitektur (dal 1922 rinominata Byggmastaren).
(16)
Per una breve bibliografia della Hemutställningen, si veda:
Svenska Slöjdföreningens Utställningen af inreddning för
smålägenheter (Stoccolma, Liljevachs Konsthall, 1917); Arthur
Hald, “Hemutställningen 1917 och dess upptakt”, FORM, 10
(1947), 175-182; Kerstin Wickman, “Hemutställningen på Liljevalchs 1917: typer, modeller, förebilder för industrin”, in Kerstin Wickman, Formens rörelse: Svensk form genom 150 år
(Stockholm: Carlsson, 1995), 62-73.
(17)
Il testo (nella sua traduzione inglese) con una critica a fronte
è stato pubblicato in: Kenneth Frampton (a cura di), Modern
Swedish design: three founding texts (New York, Museum of
Modern Art, 2008), 73-125.
(18)
La commissione svedese comprendeva i già citati Paulsson
e Ahlberg, il critico Erik Wettergren (1883-1961); l’artista tessile
Elsa Gullberg (organizzatrice della Hemutställningen del 1917);
gli architetti Ragnar Östberg (1866-1945), Carl Möller (18571933) e Thor Thorén (1863-1937, all’epoca presidente della
sezione di Arte Industriale della Kungliga Tekniska Högskolan),
ma anche gli industriale Joseph Sachs (1872-1949, fondatore
della Nordiska Kompaniet) e Agnes Hellner, proprietaria della
Orrefors Glass Company. D’altro canto, la commissione italiana era composta quasi esclusivamente da critici d’arte (Lionello
Venturi, Luigi Serra, Raffaele Corso e Arduino Colasanti), politici (Giovanni Rosadi) e aristocratici con un interesse per il
mondo dell’artigianato. Guido Balsamo Stella era citato come
membro sia della commissione svedese che di quella italiana.
Italienska Utställningen. November - december 1920. Katalog
n°27 (Stoccolma, Liljevachs Konsthall, 1920), 2-3.
(13)
avevano reso possibile un evento di tale portata. Innanzitutto, bisogna ricordare che non era la prima volta che le arti figurative e decorative italiane moderne si presentavano al popolo svedese all’interno delle sale della Liljevalchs
Konsthall: l’evento si era già ripetuto nel 1920 e nel 1931, con due diverse
esposizioni italiane che avevano avuto entrambe una buona risonanza presso
il popolo svedese, e qualche interessante risvolto anche in ambito nostrano.
Quella del 1920 – la Italienska Utställningen o Esposizione Italiana d’arte decorativa e popolare(13) – era stata la prima mostra ad essere organizzata al
di fuori dei confini nazionali dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, grazie
all’intervento dall’artista Guido Balsamo Stella (1882-1941). Balsamo Stella,
nato a Torino nel 1882, era stato educato all’Accademia di Belle Arti di Monaco, e nel 1908 aveva sposato a Venezia l’artista svedese Anna Åkerdahl. Allo
scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914,(14) la coppia decise di trasferirsi
nella neutrale Svezia ed entrò fin da subito in contatto con le personalità della
Swedish Society of Arts and Crafts (Svenska Slöjdföreningen). Questa associazione era stata fondata nel 1845 sulla scia degli echi di William Morris, ma
già agli inizi del Novecento si era spostata verso un attento dialogo (come
nel vicino Deutscher Werkbund) tra artisti e industria. Dalla fine del 1919, la
Svenska Slöjdföreningen era diretta dal critico Gregor Paulsson (1889-1977)
ed era composta in larga parte da artisti e architetti, come Erik Gunnar Asplund
(1885-1940) e Hakon Ahlberg (1891-1984).(15) A seguito della sua inaugurazione nel 1916, la Liljevachs Konsthall divenne la sede privilegiata delle mostre
della Swedish Society: nel 1917 era stata la volta della famosa Hemutställningen (Esposizione della casa), in cui si esponeva una selezionata produzione
nazionale, pronta per l’industria ma radicata, nel disegno e nella semplicità
delle forme, nella tradizione artigiana.(16) Dopo il successo di questo evento, la
Swedish Society decise di analizzare il disegno del prodotto (sia industriale che
artigianale) anche all’interno delle altre realtà europee: nel 1918 si apriva così
l’esposizione della vicina sezione danese delle Arts and Crafts. Nel 1919, Paulsson pubblicava sulla rivista dell’associazione il suo celeberrimo testo “Better
things for everyday life”, in cui sosteneva a gran voce la necessità di una rivoluzione dell’oggetto di uso quotidiano a favore della produzione industriale,
senza rinunciare alla ricerca estetica.(17)
Sulla scia di tali interessi, nel 1920 si inaugurava l’esposizione Italiana – la Italienska Utställningen – diretta da Balsamo Stella, che includeva molte opere di
artigianato regionale (vetri, metalli, tessuti, ceramiche, merletti, mobili), scelte
da una commissione sostanzialmente svedese.(18) La selezione era derivata sia
dai suggerimenti contenuti nelle pagine dell’inglese Charles Holme, Peasant
29
2.2
“Italienska Utställningen” Liljevalchs konsthall exhibition
number 27, 1920.
Nordiska Museet Archive, Stoccolma
(19)
Il testo era edito dalla famosa rivista inglese The Studio,
che nel 1910 aveva iniziato, con la direzione del critico Charles
Holme (1848-1923), una serie di pubblicazioni sul tema dell’arte popolare, partendo proprio dall’esempio dei paesi nordici.
I suoi testi più noti includono: Charles Holme, Peasant Art in
Sweden, Lapland and Iceland (Londra, New York, The Studio, 1910); Id., Peasant Art in Russia (Londra, New York, The
Studio, 1912); Id., Peasant Art in Italy (Londra, New York, The
Studio, 1913); Id., Old Houses in Holland (Londra, New York,
The Studio, 1913).
(20)
Una prima ricostruzione dell’esposizione italiana del 1920 è
contenuta in: Åsa Rausing-Roos, Textilkonstnären Maja Sjöstrom. Ett skånskt-romerskt konstnärsliv (Stoccolma, Carlsson,
2012), 172-185. Nella mia tesi di dottorato, un capitolo è dedicato all’analisi di questo evento. Monica Prencipe, Building
Exchanges (1895-1953): International Exhibitions and Swedish
resonances in Italian Modern Architecture, Tesi di Dottorato
(Ancona, Università Politecnica delle Marche, 2018), 77-99.
(21)
Il tappeto prodotto dalle maestranze di Pescocostanzo fu
prontamente acquistato dal Röhsska Museum di Göteborg;
un carro tradizionale siciliano entrò a far parte della collezione
della Stockholm Opera House. Sul tema: Erika D’Arcangelo,
“Trama e ordito in Svezia. L’illustre storia del tappeto pescolano
conservato dal 1920 a Göteborg”, D’Abruzzo. Turismo Cultura
Ambiente, 116 (2016), 39-41; Rausing-Roos, Textilkonstnären
Maja Sjöstrom, 184-185.
(22)
Carl Malmsten, “Italienska Utställningen”, Svenska Slöjdföreningens tidskrift, 2, XVIII (Feb. 1921), 13.
(23)
Unica eccezione potrebbe essere considerata una (finora
inedita) partecipazione di un giovanissimo Gio Ponti all’esposizione straniera. Nel catalogo della mostra, alle pagine 14 e 15,
si legge il nome G. Ponti di Milano, presente con una serie di
marionette e con un modello in legno di un teatrino. Liljevalchs
Konsthall (a cura di), Italienska Utställningen. catalogo della
mostra, Stoccolma, Liljevalchs Konsthall, novembre-dicembre
1920 (Stoccolma, Liljevalchs Konsthall, 1920).
(24)
Sul ruolo di Hald nella produzione Orrefors si veda: Nina
Weilbull (a cura di), Kärlek till glas: Agnes Hellners samling av
Orreforsglas / A love of glass: Agner Hellner’s collection of Orrefors glass (Stoccolma, Raster, 1998), 21-87.
Art in Italy (1913),(19) sia dalle peregrinazioni attraverso la penisola italica dello
stesso Balsamo Stella, della moglie Anna e dell’amica Maja Sjöstrom (18241961), artista tessile di fama nazionale che in quel momento era a capo delle
tappezzerie del Municipio di Stoccolma di Ragnar Östberg (all’epoca in costruzione).(20) In questa prima occasione spiccava l’assenza della produzione in
serie e, con poche eccezioni, l’esposizione richiamava l’immagine di un paese
ricco di una tradizione vernacolare vivissima, ma privo di una prospettiva di
crescita industriale.(21) Carl Malmsten (1888-1972), incaricato di commentare
l’esposizione sulla rivista ufficiale della Svenska Slöjdföreningen, non poté fare
a meno di sottolineare la “naturalezza e la salutare joie de vivre dell’arte popolare italiana”, la semplicità delle forme così come il loro “naturale legame con
le condizioni di vita del popolo”.(22) Tuttavia, tralasciando le poche sculture di
Libero Andreotti (1875-1933), Duilio Cambellotti (1876-1960) e Antonio Maraini
(1886-1963), del tutto assenti erano le arti figurative e la presenza di artisti e
architetti di rilievo.(23) L’essenziale disposizione degli oggetti era stata affidata a
Edward Hald (1883-1980), amico stretto di Balsamo Stella e direttore artistico
delle celeberrime industrie vetraie Orrefors.(24)
I risultati di questa prima esposizione arrivarono nel giro di poco: già nel 1919,
in fase di preparazione della mostra, Arduino Colasanti (1887-1935), direttore
delle Belle Arti Italiane e responsabile ufficiale della manifestazione in Svezia,
pubblicò la prima circolare italiana sul riconoscimento di valore degli oggetti
definiti di “arte paesana”, grazie alla quale si costituiva all’interno del Ministero
30
2.2
un primo nucleo di materiale grafico e fotografico, suddiviso per regioni e per
categorie di prodotti (compresa l’architettura rurale). Allo stesso tempo, Colasanti invitava tutti i funzionari a collaborare attivamente a questa ricognizione,
“raccogliendo con tutti i mezzi a loro disposizione il materiale richiesto, eseguendo e ordinando fotografie e, preferibilmente, disegni colorati”.(25)
Nel 1923, Gregor Paulsson e Anna Åkerdahl (entrambi nella commissione svedese dalla Italienska Utställningen) furono invitati a organizzare una sezione
svedese alla prima Biennale di Monza,(26) più tardi tramutata in Triennale e
trasferita a Milano dal 1933. In questa prima occasione, protagonisti furono
proprio i vetri Orrefors disegnati da Edward Hald. Con la sola eccezione del
1925, la Svezia non mancherà più ai successivi incontri di Monza e Milano,
diventando così un’occasione fissa di scambio tra l’arte decorativa nordica e
quella italiana. Infine, nel 1929, Balsamo Stella – tornato definitivamente in
Italia assieme alla moglie – fu eletto nuovo direttore dell’ISIA, a cui sarebbe
succeduto, nel 1932, proprio Elio Palazzo, già citato come responsabile della
sezione di arti decorative nell’esposizione del 1953. Lo sforzo di Balsamo Stella alla direzione dell’ISIA era stato quello di portare in Italia parte della cultura
del prodotto industriale studiata in Svezia: aveva rafforzato nella didattica la
collaborazione tra artigiani e artisti, nonché arricchito la sezione di Architettura,
in cui, a partire dal 1932, sarebbero stati chiamati a insegnare nomi del calibro
di Giuseppe Pagano Pogatschnig ed Edoardo Persico.(27)
Diversamente, l’esposizione italiana del 1931, anch’essa dal titolo Nutida
Italiensk Konst, fu realizzata grazie alla volontà di Margherita Sarfatti (18801961): critico d’arte di grande intelligenza e sostenitrice del Fascismo della
prima ora, aveva segnato l’ascesa del partito su scala internazionale per
poi essere progressivamente allontanata dalle stanze del potere politico a
partire dalla seconda metà degli anni venti.(28) Nel 1930 la Sarfatti era stata
invitata come rappresentante ufficiale italiana all’Esposizione di Stoccolma e
in quella occasione era riuscita a ottenere, dalle autorità svedesi, la disponibilità per un’esposizione del suo gruppo Novecento.(29) A settembre del 1931
si apriva così, presso la Liljevalchs Konsthall, l’ultima esposizione all’estero
di Margherita Sarfatti. A differenza della precedente del 1920 e della successiva del 1953, questa mostra regalava una visione dell’Italia limitata alle
arti figurative (tralasciando i molti punti di contatto del gruppo Novecento sia
con l’arte decorativa che con l’architettura) e legata alla politica fascista, così
come dimostrato dai molti articoli svedesi che sottolinearono in più occasioni il coinvolgimento di Mussolini nelle vicende del Novecento Italiano.(30) In
realtà, dalle lettere tra la Sarfatti e Mussolini,(31) sappiamo quanto fossero
Arduino Colasanti, “Raccolta di elementi decorativi italiani
di arte paesana”, Bollettino d’arte del Ministero della Pubblica
Istruzione, serie I, anno VI (Sett-Dic 1919), 51. Sul dibattito italiano degli anni venti sul tema dell’architettura e dell’arte vernacolare si veda: Michelangelo Sabatino, Orgoglio della modestia
(Milano, Franco Angeli, 2011), 89-124.
(26)
Agnoldomenico Pica, Storia della Triennale (Milano, Edizioni
del Milione, 1957), 55.
(27)
Oltre alla già citata monografia di Rossana Bossaglia sul
ruolo dell’ISIA, un’analisi più recente sul ruolo di questo istituto
nel campo del design è contenuta in: Elena Dellapiana, Daniela H. Prima, “Craft Industry and Art: ISIA (1922-1943) and the
roots of Italian design education”, in Made in Italy: rethinking
a century of Italian design, a cura di Grace Lees-Maffei, Kjetil
Fallan (Londra, Bloomsbury, 2014), 109-126.
(28)
Tra la vastissima bibliografia, citiamo, per la relazione tra
la Sarfatti e il regime fascista: Rachele Ferrerio, Margherita
Sarfatti. La regina dell’arte nell’Italia fascista (Milano, Mondadori, 2015); Brian Sullivan (a cura di), Margherita Sarfatti, My
fault – Mussolini as I knew him (Londra, Enigma Books, 2015);
Roberto Festorazzi, Margherita Sarfatti. La donna che inventò
Mussolini (Costabissara, Colla, 2010).
(29)
L’aneddoto è tratto dall’introduzione del catalogo svedese
della mostra del 1931. Margherita Sarfatti, “Förord”, in Liljevalchs Konsthall (a cura di), «Il Novecento Italiano». Nutida
Italiensk Konst, catalogo della mostra, Stoccolma, Liljevalchs
Konsthall, 9 settembre-4 ottobre. 1931 (Stoccolma, Liljevalchs
konsthall, 1931), 7.
(30)
Gustaf Näsström, “Fascistisk konst inleder säsongen i konsthallen”, Stockholms Dagbladet, 9 settembre 1931; Birger
Baeckström, “Italiensk Konst i Stockholm”, Göteborgs Handelsoch Sjöfartstidning, 17 settembre 1931. Un commento sulla
mostra e sul suo contesto è contenuto nel recente testo: Ilaria
Cimonetti, “Oltre i confini. Due volti di un progetto internazionale. Le mostre di Novecento Italiano a Buenos Aires e nei paesi
scandinavi sulla stampa estera”, in Margherita Sarfatti, a cura
di Daniela Ferrari, Danka Giacon, Anna Maria Montaldo (Milano, Electa, 2018), 69-83.
(31)
Gli scambi tra il Duce, l’ambasciatore in Svezia, il Ministero
degli Esteri e la stessa Sarfatti sull’esposizione del 1931 sono
riportate in: Sileno Salvagnini, “Margherita Sarfatti, critico irriducibile. Dalla Biennale del 1928 alle mostre in Scandinavia del
1931-32”, Donazione Eugenio Da Venezia, 4 (Venezia, Fondazione Scientifica Querini Stampalia, 1998), 49-55.
(25)
31
tesi i reciproci rapporti in quel momento storico, tanto da escluderla definitivamente dalla Commissione per le mostre all’estero già nei primi anni trenta.
Forse proprio a causa delle difficoltà con le istituzioni italiane, Margherita Sarfatti non si presentò di persona all’apertura della mostra,(32) ma si fece probabilmente sostituire dall’amico architetto Giovanni Muzio (1893-1982), che proprio
in questa occasione ebbe modo di ammirare la Biblioteca di Asplund da poco
inaugurata.(33) Ad ogni modo, la vicende politiche non impedirono al popolo svedese di apprezzare la qualità della proposta del gruppo Novecento, comparabile per alcuni aspetti allo svedese Falangen, movimento fondato nel 1922 con il
simile scopo di combinare tradizione classica e moderna in un connubio nuovo
e senza tempo.(34) L’esposizione chiamava a gran voce al “ritorno all’ordine”
dell’arte, ormai lontana dagli aforismi rivoluzionari delle avanguardie futuriste,
e al suo imperituro debito nei confronti della classicità.
L’inaugurazione del “mese italiano” a Stoccolma (Marzo-Aprile 1953)
Nel clima del dopoguerra, dopo le celebrazioni dell’arte popolare di Balsamo Stella e il rinnovato classicismo della Sarfatti, scopo dell’esposizione del 1953 era
quello di regalare un’immagine diversa dell’Italia: definitivamente lontana da ogni
associazione dittatoriale e finalmente pronta a reagire sul piano della produzione
industriale, senza tuttavia abbandonare il debito nei confronti della cultura artigiana che tanto era stata celebrata dallo stesso pubblico svedese nel 1920.
L’occasione per una nuova esposizione si presentò nel 1952, come compimento di un più ampio disegno politico e istituzionale tra i due paesi. Dal 1938, anno
della concessione dell’area per la realizzazione dell’Istituto svedese a Roma,
era stata promessa al governo italiano la possibilità di costruire, su suolo svedese, un Istituto di Cultura. Tuttavia, a partire dagli anni quaranta, tale possibilità era stata più o meno osteggiata dal governo svedese.(35) Nel frattempo,
nel 1941, l’Istituto Italiano di Cultura era stato fondato a Stoccolma grazie alla
caparbietà dell’ingegnere Carlo Maurilio Lerici (1890-1981), in collaborazione
con un gruppo di industriali svedesi ed italiani, con lo scopo di “promuovere
corsi di lingua, letteratura e storia dell’arte italiana, di assistere l’attività dei
traduttori e di organizzare eventi di pubblico interesse”.(36) A partire dalla fine
del secondo conflitto mondiale, l’attività dell’Istituto era cresciuta sensibilmente
e si era dunque riproposta l’esigenza di trovare una nuova sede permanente.
Probabilmente grazie alla familiarità dello stesso Lerici con il governo nordico, alla fine del 1952, l’ingegnere italiano era riuscito ad ottenere una prima
proposta di progetto dallo svedese Ture Wennerholm (1892-1957) e, all’inizio
del 1953, l’interessamento dell’architetto Gio Ponti (1891-1979) per la redazio-
(32)
“Italiensk konst i Liljevalchs”, Svenska Dagbladet, 6 Settembre 1931.
(33)
Archivio Nazionale, Roma, Archivio Plinio Marconi, Box 17,
cartella ‘Stoccolma’, Giovanni Muzio, Cartolina da Giovanni
Muzio a Plinio Marconi, 1 agosto 1931. La cartolina inviata a
Plinio Marconi (a quel tempo redattore Architettura e Arti Decorative), ritraeva la Biblioteca di Stoccolma di Erik Gunnar
Asplund, inaugurata nel 1918.
(34)
Från italienskt nittonhundratal”, Dagens Nyheter, 9 settembre 1931.
(35)
Per una ricostruzione puntuale della storia dell’edificio dell’Istituto svedese a Roma, si veda: Jan Ahlklo, “Architettura e
arredamento, italiano e svedese”, in Svenska Institutet i Rom,
a cura di Börje Magnusson and Jan Ahlklo (Stoccolma, Istituto
Svedese di studi classici a Roma, 2010), 68-103.
(36)
Alessandro De Masi, “L’Istituto Italiano di Stoccolma”, Rassegna annuale di scambi culturali italo-svedesi. ITALIA SVEZIA, anno I (1955), 19.
32
2.3
Esposizione del prodotto italiano alla NK, Stoccolma, Aprile
1953.
Fondazione Franco Albini, Milano Italia, Id. 40_10
2.3
ne del progetto definitivo. L’esposizione del 1953 della “Nuova Arte Italiana”
celebrava così la consegna dello stesso Ponti della prima versione dell’Istituto, nonché la definitiva concessione dell’area (nel quartiere Gärdet), da parte
del governo svedese.(37) Ecco dunque spiegata la risonanza che l’esposizione
aveva sollevato presso tutte le maggiori associazioni degli architetti italiani e
l’interesse nell’inserire una sezione di architettura, vera novità per il popolo
svedese, nel programma generale dell’evento. L’articolo di Harry Källmark, “Arkitektur och naturrealism”, pubblicato nel 1953, dimostrava quanto gli svedesi
apprezzassero la “funzionalità e la purezza delle linee” dell’architettura italiana:
alla prova della contemporaneità, l’Italia aveva dimostrato “un’eccellente prova
di vitalità”, a discapito dell’evidente “peso del passato”.(38)
A marzo di quell’anno si apriva infine non solo la mostra italiana, ma si inaugurava – per volere stesso dell’Istituto – un vero e proprio “mese italiano”, che
comprendeva l’esposizione al Liljevalchs Konsthall al suo centro e una serie
di eventi minori a latere: lezioni di artisti, storici e architetti italiani, e infine
(dal taglio forse più prettamente commerciale) una brevissima “Esposizione del prodotto Italiano” nelle sale del grande magazzino dell’NK (Nordiska
Konmpaniet), dal 23 Marzo al 4 Aprile.(39) Nell’unica immagine a noi pervenuta
dell’evento, vediamo ritratta la celebre sedia in rattan Gala (1951), disegnata per la IX Triennale dallo stesso Albini in collaborazione con Bonacina,(40)
accostata ad un semplice vaso anonimo in terracotta, al fine di costruire un
parallelismo tra la tradizione popolare dei materiali, la risonanza delle forme
Fulvio Irace (a cura di), Gio Ponti a Stoccolma: l’Istituto
italiano di cultura C. M. Lerici (Milano, Electa, 2007), 118. Nello stesso volume sono anche brevemente ricostruite le varie
versioni del progetto di Ponti per l’istituto, nonché il contributo
all’operazione di Ture Wennerholm e di Carlo M. Lerici.
(38)
Harry Källmark, “Arkitektur och naturrealism”, Svenska Dagbladet, 3 Marzo 1953.
(39)
Alessandro De Masi, “Il mese italiano a Stoccolma”, 123125. Della mostra ai grandi magazzini NK, poco o nulla è arrivato a noi: nell’Archivio Albini è conservata una fotografia da
me ricondotta a questo evento. Vediamo infatti in primo piano
i nomi dei 5 architetti-designer celebrati dalla mostra: Franco
Albini, Carlo De Carli, Ignazio Gardella, Vito Latis e Gio Ponti,
riportati anche nelle pagine del quotidiano svedese Stockholm
Tidningen.
(40)
Federico Bucci, Giampiero Bosoni, Il design e gli interni di
Franco Albini (Milano, Electa, 2009), 96-99.
(37)
33
2.4
Foto di Olof Ekberg in “Nutida italiensk konst” Liljevalchs
konsthall exhibition number 203, 1953.
Stockholm City Archive, Liljevalchs Archive, Stoccolma
sinuose, e infine la loro attualizzazione nel prodotto industriale della seduta.
Allo stesso modo, l’allestimento di Albini per le sale della Liljevalchs Konsthall
sfruttava con estrema intelligenza ed efficacia lo spazio preesistente, disegnato da Carl Bergsten nel 1916. L’invenzione architettonica costruiva una dimensione più raccolta della monumentale sala a doppia altezza dell’edificio: grazie
all’espediente di sospendere una serie di teli in tarlatana al di sotto dell’altezza
dei lucernari, Albini ottenne uno spazio sensibilmente più basso, avvolto da forme sinuose e da una luce filtrata.(41) Sotto questo nuovo cielo, la mostra di arte
figurativa (presente nelle sale principali), si organizzava in pezzi sapientemente scelti e arditamente accostati: alcune tele infatti, abbandonavano il luogo tradizionale della parete per attraversare lo spazio vuoto, grazie ad un sistema di
antenne autoportanti, collegate da una serie di sottili traverse in metallo.(42) Tra
i due Modigliani, Albini inseriva la sua seduta Margherita (anch’essa edita nel
1951 assieme alla “sorella” Gala): l’immagine era il simbolo di un ritrovato equilibrio tra imprenditoria (la seduta era in gomma prodotta dalla Pirelli, così come
(41)
L’utilizzo di tessuti e tende leggere come divisori degli ambienti è sperimentato da Albini già a partire dai primi anni trenta
negli interni e negli allestimenti temporanei.
(42)
Per un commento dell’esposizione si veda: “Due mostre
di arte moderna italiana ad Helsinki e Stoccolma”, Metron, 48
(Nov. 1953), 26-33; Federico Bucci, Augusto Rossari, I musei
e gli allestimenti di Franco Albini (Milano, Electa, 2005), 17-41;
160-165.
34
2.4
2.5
2.5
Foto di Olof Ekberg in “Nutida italiensk konst” Liljevalchs
konsthall exhibition number 203, 1953.
Stockholm City Archive, Liljevalchs Archive, Stoccolma
le antenne in acciaio che sorreggevano le opere d’arte avevano un disegno
volutamente industriale), tradizione artigianale del rattan e infine l’eccellenza
artistica delle grandi individualità dell’arte italiana (le tele di Modigliani).(43) Tre
sale laterali del museo, di dimensioni inferiori, furono dedicate alle arti decorative, con lo scopo di interrompere in vari punti il percorso principale delle arti figurative. Queste rappresentavano quello che Albini chiamava il “cambiamento
di voltaggio” della mostra, necessario ad evitare la stanchezza e la paura della
noia.(44) Per loro natura infatti, le arti decorative richiedevano un notevole passaggio di scala rispetto alle sale adiacenti. La continuità tra le sezioni era però
ribadita dalla riproposizione delle stesse aste metalliche, a cui erano appese
piccole teche in vetro e tavoli rotondi rivestiti in carta viola.(45) Diversamente
dalle sale principali, lo spazio destinato alle arti decorative veniva ridotto a
uno “scrigno”, grazie a un sistema di teli in tarlatana che, appesi dal centro del
lucernaio ad un cerchio in compensato, chiudevano lo spazio della sala fino a
terra, secondo un disegno già utilizzato alla IX Triennale, per la Mostra della
Catharine Rossi, Crafting Design in Italy. From Post-war to
Postmodernism (Manchester, Manchester University Press,
2015), 70-76. Il volume si interroga sulla profonda influenza
che l’artigianato ha avuto nella definizione del design italiano.
Uno degli casi studio è proprio quello della collaborazione tra
Albini e Bonacina, per le sedute in rattan Margherita e Gala.
(44)
Albini, “Le mie esperienze”, 10.
(45)
Archivio Fondazione Franco Albini, Milano, ID.RETRO 41_2,
Relazione della Mostra di Arte contemporanea di Stoccolma –
1952.
(43)
35
36
2.6
Sala delle arti decorative. Foto di Åke Lange in “Nutida italiensk konst” Liljevalchs konsthall exhibition number 203, 1953.
Stockholm City Archive, Liljevalchs Archive, Stoccolma
2.7
Sala delle arti decorative. Foto di Åke Lange in “Nutida italiensk konst” Liljevalchs konsthall exhibition number 203, 1953.
Stockholm City Archive, Liljevalchs Archive, Stoccolma
2.6
2.7
Storia della bicicletta (1951).(46) Anche gli elementi in acciaio verticali di tutta
la mostra e le teche in vetro facevano parte del materiale – studiato da Albini
secondo un sistema componibile e trasformabile – prestato dalla Direzione di
Belle Arti del Comune di Genova e già utilizzato all’interno degli allestimenti del
Palazzo Bianco (1949-51),(47) elevando metaforicamente i prodotti della moderna arte decorativa italiana a pezzi d’arte unici e rari.
Per quanto riguarda le opere esposte, dalle foto riconosciamo le opere di molti
dei nomi più celebri dell’epoca: su uno dei tavoli, ad esempio, erano presentati
i vasi dell’artista Salvatore Meli (1929-2011), in cui il connubio delle forme e dei
colori proponeva nuove possibilità di contatto tra elementi arcaici, organicismo
e astrattismo. In ultimo piano, adagiate sulle sedie Magherita, ritroviamo i tessuti (molto più accessibili al vasto pubblico rispetto alle opere uniche di Meli)
di Fede Cheti, che nella IX Triennale del 1951 era apparsa per la prima volta
tra gli espositori dei tessuti nella sezione “Studi d’arte”.(48) D’altro canto solo
pochi anni prima, nel 1947, la stessa Fede Cheti aveva compiuto un viaggio
in Svezia, le cui luci e colori ne avevano ispirato le più recenti collezioni.(49)
Nelle immagini del catalogo ritroviamo altri nomi importanti della ceramica,
come Neera Gatti (1906-1973) di Venezia, che proponeva una serie di piccoli
monili; la Coppa d’arcieri di Rolando Hettner e le produzioni di Pietro Melandri;
ma anche gli smalti di Paolo de Poli (1905-1996), che proprio a partire dal
1953 inizierà a produrre i primi esperimenti su ferro, su invito di Gio Ponti, che
aveva potuto ammirare questa tecnica direttamente in Svezia, in occasione
Bucci, Rossari, I musei e gli allestimenti, 136.
Archivio Fondazione Franco Albini, Milano, ID.RETRO 41_2,
Relazione della Mostra di Arte contemporanea di Stoccolma –
1952. Il sistema delle aste metalliche era stato presentato per
la prima volta già nel 1941, alla “Mostra di Scipione e di disegni
contemporanei” alla Pinacoteca di Brera. Per l’allestimento di
Palazzo Bianco si veda: Augusto Rossari, “Leggerezza e consistenza: i musei genovesi”, in I musei e gli allestimenti, 43-61;
Bea Jones, Suspending Modernity, 148-153.
(48)
Fede Cheti (1905-1978) fondò l’omonima azienda di tappeti
e tessitura nel 1936, lavorando spesso in stretta collaborazione
con gli architetti della Triennale (tra cui Ponti, Albini e Zanuso).
Chiara Lecce, “Fede Cheti: 1936-1975. Tracce di una storia italiana”, AIS/Design Storia e Ricerche, 2 (Ott. 2010) http://www.
aisdesign.org/aisd/tag/fede-cheti (ultimo accesso: settembre
2018).
(49)
GNAM, Roma, Archivi delle arti applicate italiane del XX secolo, Archivio C, “Fede Cheti”, Traduzione dell’articolo “Artista
tessile italiana trae ispirazioni dalla Svezia”, tratto da “Svenska Dagbladet”, 27 Luglio 1947. L’evento è anche riportato in:
Piera Antonelli (1988), “Fede Cheti”, in Dizionario biografico
degli Italiani, vol. 34 (1988) http://www.treccani.it/enciclopedia/
fede-cheti_(Dizionario-Biografico)/ (ultimo accesso: settembre
2018).
(46)
(47)
37
dell’esposizione.(50) Oltre a Fede Cheti, facevano parte della mostra anche i
filati di Elda Cecchele, nonché un’ampia selezione di vetri italiani, tra cui quelli
dei veneziani Barovier e Toso (già presenti all’esposizione del 1920) che con il
gruppo “Crepuscolo” presentavano agli svedesi la tecnica, messa a punto nei
decenni precedenti, della colorazione a caldo senza fusione.(51)
Al di là delle singole storie, gli artisti esposti all’interno della sezione di arte
decorativa avevano generalmente un tratto comune, che risaltava grazie allo
studiato allestimento di Albini ed Helg: l’alta qualità delle opere, realizzate
all’interno di una dimensione artigianale, a scapito della loro reale accessibilità
economica, secondo una logica contraria rispetto a quanto auspicato nel testo
di Paulsson del 1919. D’altro canto era stato proprio l’interesse svedese ad
accendere, nel 1920, quello italiano per la propria cultura artigiana, che trovava
nuove possibilità di sviluppo nella dimensione dei “laboratori d’arte”, a metà tra
l’industria e la tradizione manuale. Infatti, come recentemente dimostrato dagli
studi di Catharine Rossi sul design italiano degli anni cinquanta e sessanta,
anche dietro celebri produzioni di design industriale come quelle di Albini per
Bonacina e di Ponti per Cassina si celava un know-how artigianale, che aveva
attivamente contribuito alla nascita e al perfezionamento del prodotto.(52)
Conclusioni
La risonanza mediatica della mostra italiana a Stoccolma raggiunse vertici e
un consenso insperato,(53) funzionale all’approvazione politica del progetto di
Gio Ponti per l’Istituto di Cultura. L’esposizione poteva dunque considerarsi un
riuscito esperimento di propaganda dell’Italia nel primo dopoguerra, che sceglieva di rappresentarsi attraverso la sua migliore produzione artistica contemporanea, dalle arti cosiddette “maggiori”, passando per l’architettura e le arti
decorative. Scriverà a proposito il Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura nel
1955: “Il «mese italiano» (marzo 1953) rimarrà memorabile nella storia delle
relazioni culturali italo-svedesi. Esso rimarrà anche come documento ad esempio di quanto sia possibile realizzare, nel campo della propaganda all’estero,
mediante un’accurata coordinazione dei mezzi disponibili.”(54) L’evento apriva
la produzione italiana all’esigente mercato nordico; incalzava la possibilità di
costruire una sede istituzionale stabile su un suolo straniero e comunicava la
volontà degli artisti italiani di volersi affrancare da una tradizione precedente che la vedeva schiacciata tra il peso della classicità (così come proposto
dall’esposizione del gruppo Novecento del 1931) e un arcaico mito pastorale
(la Italienska Utställningen del 1920). Non ultimo, la mostra del 1953 era stata
l’occasione per moltissimi architetti italiani di visitare la Svezia e conoscere
Valeria Cafà, “Paolo de Poli (1905-1996), maestro dello
smalto a gran fuoco”, AIS/Design Storia e Ricerche, 4 (Nov.
2014), 1-14.
(51)
Marina Barovier, L’Arte dei Barovier Vetrai di Murano 18661972 (Venezia, Arsenale Editrice, 1993), 128.
(52)
Catharine Rossi, Crafting Design in Italy. D’altro canto, dalla
selezione erano stati esclusi altre celebri produzioni “in serie”,
come le ceramiche di Antonia Campi per Laveno, per cui la
deriva in favore del “pezzo unico” era stata probabilmente cosciente nel comitato organizzatore. Sul tema del design della
ceramica negli anni cinquanta e sessanta: Elena Dellapiana,
Il design della ceramica in Italia. 1850-2000 (Milano, Electa,
2010), 140-181.
(53)
Presso l’Archivio della Liljevalcha Konsthall sono conservati
gli oltre cento articoli usciti sulla stampa svedese, riguardanti il
“mese italiano”. Si veda inoltre la calorosa accoglienza riportata
in Elio Zorzi, “L’arte italiana contemporanea ha interessato il
pubblico svedese”, Il Gazzettino, 18 Marzo 1953.
(54)
Alessandro De Masi, “Il mese Italiano a Stoccolma”, 123.
(50)
38
più da vicino le interessanti sperimentazioni non solo in ambito industriale ma
anche in campo abitativo, che – non a caso – negli anni cinquanta e sessanta
apparvero sempre più spesso nella stampa italiana come esempi di riferimento.(55) Scriveva infatti Gio Ponti già nel 1954: “il viaggio in Svezia” diveniva ormai
tradizionale fra noi architetti (Muzio, Pagano, Gardella, Bottoni, Albini, Rogers,
io stesso e i laureandi della facoltà di Architettura di Milano, e via via): esso diveniva uno dei termini del nostro perfezionamento culturale e professionale.”(56)
Tuttavia, al di là delle molte recensioni favorevoli, quest’immagine di un’Italia
dinamica, lontana dal suo recente passato politico, e legata all’esaltazione delle nuove individualità dell’arte e delle arti decorative, aveva suscitato qualche
dubbio nel pubblico nordico. Nella conferenza del 1954, citata in apertura, Albini ricordava: “Da molti svedesi, (…) mi sono sentito domandare come mai in
Italia si facciano solo pezzi unici o quasi, solo oggetti accessibili ad una classe
economicamente alta, e non esista una produzione anche per tutti gli altri che
pure hanno bisogno, come tutti, di cose belle.”(57) In effetti in Italia, già nel 1947,
in occasione dell’ottava Triennale diretta da Piero Bottoni, era stato prontamente lanciato il tema della “democratizzazione della produzione in serie”(58) al
fine di risolvere i problemi economici e sociali dei ceti più in difficoltà, ma senza
grandi risultati tangibili.
Solo un anno dopo l’esposizione di Stoccolma, nel 1954 – definito annus mirabils del design – si apriva la X Triennale dedicata all’“unità delle arti”, la rivista
Stile Industria di Alberto Rosselli vedeva la luce e “l’istituzionalizzazione del
design”(59) divenne un tema non più rimandabile.
Secondo la statistica, redatta in sede di tesi di dottorato,
gli articoli italiani sull’architettura e sul design svedese nella
pubblicistica italiana passano da 18 (nel quinquennio 194145) a 72 (per il periodo 1961-65). Monica Prencipe, Building
Exchanges (1895-1953): International Exhibitions and Swedish
resonances in Italian Modern Architecture.
(56)
Gio Ponti, “Italia e Svezia”, Rassegna annuale di scambi
culturali italo-svedesi. ITALIA SVEZIA, anno I (1955), 43.
(57)
Albini, “Le mie esperienze”, 10.
(58)
L’ambizioso progetto lanciato da Bottoni prevedeva la fine
delle celebrazioni del regionalismo e dell’artigianato da parte
di critici e artisti, a favore di una volontà coordinata di risolvere i problemi economici e sociali della parte della popolazione
più in difficoltà. Piero Bottoni, “Note illustrative”, in T8, Ottava
Triennale di Milano, catalogo-guida (Milano, Stamperia grafica
Meregalli, 1947), 7-12.
(59)
La citazione fa riferimento al testo Kjetil Fallan, “Annus Mirabilis: 1954, Alberto Rosselli and the institutionalization of design mediation”, in Made in Italy: rethinking a century of Italian
design, 255-270.
(55)
39
DOI: 10.17401/studiericerche.5.2019-savorra
M
ilano 1964.
Vittorio Gregotti,
Cfr. Vittorio Gregotti, “Problemi del design”, Edilizia Moderna, 85
(1964), 1. Il fascicolo della rivista (da qui in avanti EM) non riporta
alcuna data di pubblicazione, né di stampa. Vittorio Gregotti ci ha
confermato che la rivista fu elaborata nel corso del 1964 ed edita
alla fine dell’anno, come del resto è possibile desumere anche
dalla lettura degli articoli. Desidero ringraziare l’architetto per la
lunga conversazione (Milano, 12 luglio 2018). L’archivio dello studio Gregotti Associati è stato donato nel 2013 al CASVA di Milano.
Cfr. Maria Teresa Feraboli (a cura di), Umanesimo contemporaneo. Gli archivi di Gregotti-Meneghetti-Stoppino e della Gregotti
Associati conservati presso il CASVA (Milano, i Quaderni del CASVA 16-Comune di Milano, 2016); ringrazio Maria Teresa Feraboli,
per avermi fornito alcune informazioni sull’archivio Gregotti. Per la
consultazione del Fondo Michele Provinciali presso AIAP-CDPG,
Biblioteca e Archivio del Progetto Grafico del Centro di Documentazione sul Progetto Grafico (Milano) ringrazio Lorenzo Grazzani
responsabile archivio e ricerche. Sono inoltre grato a Emilio Battisti, per la sua preziosa testimonianza e per aver risposto alle mie
tante domande. Un ringraziamento va infine a Elena Dellapiana,
per il costante dialogo scientifico e per avermi invitato a riflettere
su alcuni temi riguardanti il rapporto Storia-Design.
(2)
Al I convegno internazionale di studi storici sul design, tenutosi a
Milano nel 1991, si affermò che, fino alla pubblicazione dei noti libri
di Vittorio Gregotti, di Enzo Frateili, di Renato De Fusco e di Enrico
Castelnuovo, editi nei primi anni ottanta, fosse mancata una “reale” storia del design in Italia, senza tenere in considerazione gli
importanti studi, anche di sintesi, degli anni sessanta e settanta.
Si vedano i contributi contenuti in Vanni Pasca, Francesco Trabucco (a cura di), Design: Storia e Storiografia, atti del I convegno
internazionale di studi storici sul Design, Milano 1991 (Bologna,
Progetto Leonardo, 1995). Per alcune riflessioni sul rapporto tra
storia e storiografia si veda anche Il Design e la sua storia, atti
del I convegno dell’Associazione italiana degli storici del design
tenutosi a Milano 2011 (Milano, Lupetti, 2013); e Maddalena Dalla Mura, Carlo Vinti, “A Historiography of Italian Design”, in Made
in Italy. Rethinking a Century of Italian Design, a cura di Graces
Lees-Maffei, Kjetil Fallan (London-New Delhi-New York-Sydney,
Bloomsbury, 2014), 35-50.
(3)
La commissione individuata dal Centro studi Triennale nel 1961
per discutere tali temi era formata da Franco Berlanda, Arrigo Castellani, Giancarlo De Carlo, Carlo De Carli, Raffaele De Grada,
Ignazio Gardella, Eugenio Gentili-Tedeschi, Marcello Grisotti, Vico
Magistretti, Carlo Melograni, Enrico Peressutti, Flavio Poli, Alberto
Rosselli, Attilio Rossi, Carlo Santi, Albe Steiner, Ernesto Treccani,
Vittoriano Viganò, Marzo Zanuso. In seguito, furono coinvolti molti
altri; sulla XIII Triennale di Milano, e sui documenti prodotti dalla commissione e dai consulenti invitati, rimando a Massimiliano
Savorra, “Ideologie, emozioni e spettacolo. Il “tempo libero” alla
Triennale di Milano del 1964”, ASUP - Annali di storia dell’urbanistica e del paesaggio, 3 (2015, ma 2016-17), 75-85; Id., “Milano
1964 – La Triennale del Tempo Libero. Intersezioni tra arte, comunicazione e design”, Casabella, 872, aprile (2017), 40-56.
(1)
Umberto Eco e la
storiografia del design
come “opera aperta”
MASSIMILIANO SAVORRA
Università degli Studi del Molise
L’idea di design esiste ormai da più di un secolo:
durante tutto questo tempo ha continuato ad ampliare il fronte
degli interessi che essa investe, spostando insieme contemporaneamente
il centro concettuale del significato stesso di design(1)
1. Un anno, una rivista
Autunno 1963-Inverno 1964: a ben vedere, una riflessione sulla genesi di
una rinnovata storiografia del design dovrebbe iniziare analizzando questo
lasso di tempo.(2) Nel corso della preparazione e dello svolgimento della
XIII Triennale di Milano, dedicata al tema assai discusso del Tempo libero, maturò infatti la necessità di affrontare in modo sistematico lo studio
del design, identificandolo – come scrisse Vittorio Gregotti – in un metodo
progettuale “unitario a tutti i livelli”, non solo nel campo esclusivo delle arti
decorative e industriali. Ma soprattutto si avvertì la necessità di “aggredire
i problemi” di una disciplina giovane come il design, lontana ancora da un
“definitivo assestamento” sempre secondo Gregotti, già tra i protagonisti,
con Umberto Eco dello spettacolare evento milanese dell’estate 1964.
Sicché, nel periodo che va dalle discussioni avute in seno al Centro studi
Triennale (formato da un nutrito gruppo di intellettuali, artisti e designer)(3)
e dal successivo incarico all’architetto novarese della cura della Sezione
introduttiva a carattere internazionale,(4) fino alla chiusura dell’esposizione,
si perfezionò l’idea della pubblicazione di un numero monografico della rivista Edilizia Moderna, dedicato esclusivamente alle questioni del Design.
E tale periodo può essere considerato, a mio avviso, il momento in cui si
tentò una costruzione “alternativa” al racconto storico – e non solo, come
vedremo – del prodotto industriale.
Nell’editoriale del fascicolo vincitore nel 1967 della IX edizione del Compasso d’Oro,(5) Gregotti introdusse per la prima volta una periodizzazione
40
3.1
Autumn 1963-Winter 1964: a reflection on the genesis of a renewed historiography of design should begin by analyzing this period
of time. During the preparation of the XIII Triennale di Milano, dedicated to the topic of Leisure time, the need arose to systematically
deal with the study of Design, identifying it – as Vittorio Gregotti wrote – in a unitary project method, not only in the exclusive field
of the decorative and industrial arts. But above all, the need was felt to “attack the problems” of the young discipline of Design, far
from a “definitive settlement” as stated by Gregotti, who was among the protagonists, with Umberto Eco, of the spectacular Milan
event of the summer 1964. So, in this period the idea of a monographic issue of the magazine “Edilizia Moderna”, exclusively
dedicated to Design issues, was developed. During this period an attempt was made to build an “alternative” to the historical
narrative of the industrial product. This article explores the influence of the “experimentalism” of the Gruppo 63 in the
historiographical construction of Design.
3.1
Bruno Munari, Augusto Morello, Gino Valle, Dante Giacosa e
Vittorio Gregotti, giurati dell’VIII edizione del Premio Compasso d’Oro 1964.
Da: “LR100 Rinascente Stories of Innovation”, catalogo della
mostra, a cura di Sandrina Bandera, Maria Canella (Milano,
Skira, 2017), 242
Cfr. Vittorio Gregotti, “XIII Triennale di Milano 1964: un ambiente fisico comunicativo”, Archi, 3 (1999), 42-49.
(5)
La rivista vinse il premio con questa motivazione: “La Commissione ravvisa in questo fascicolo monografico un interessante
contributo alla divulgazione e all’approfondimento dei problemi del
design in tutti i suoi aspetti. La scelta del materiale sia teorico che
tecnico fa di questo fascicolo un importante punto di riferimento per
lo studio del disegno industriale”. La giuria per il 1967 era formata
da Aldo Blasetti, Felice Dessi, Gillo Dorfles, Tomás Maldonado,
Edoardo Vittoria. La relazione è leggibile al sito: http://www.adi-design.org//1967-1.html (ultimo accesso: 13 ottobre 2018). Va segnalato che Gregotti fece parte della giuria dell’edizione precedente.
(6)
Gregotti, “Problemi del design”, cit., 1. Si riporta qui di seguito il
Sommario della rivista con le indicazioni dei numeri di pagina: Problemi del design 1; Sei domande a otto designers 8; Filiberto Menna,
Design, comunicazione estetica e mass media 32; Augusto Morello,
Pragmatica del design 44; Andries Van Onck, Metadesign 52; Gillo
Dorfles, L’oggetto industriale modificato e il rapporto uomo-macchina 64; Enzo Frateili, Design ed edilizia 74; Gino Valle, L’educazione
dell’industrial designer 88; Tomás Maldonado, Riflessioni profane
intorno all’architettura e al suo insegnamento 96; Proposta per una
scuola di industrial design a Milano di i.d. 100; Williama Katavolos,
La facoltà di disegno industriale alla Parsons School di New York
104; Roger G. Tallon, Il corso pilota di industriale design alla Scuola
Superiore di Arti Decorative di Parigi 105; Misha Black, La preparazione degli industrial designers in Gran Bretagna 107. Le rubriche
sulle riviste e sui libri erano curate da Anna Finocchi (pagine 127
e 143), mentre a pagina 135 si traduceva un articolo di Peter Blake
dal titolo L’album segreto di uno spigolatore d’architettura, apparso
nel fascicolo di agosto-settembre 1964 di Architectural Forum, rivista
che con quel numero terminava la sua pubblicazione.
(7)
Cfr. Gillo Dorfles, Introduzione al disegno industriale (Bologna,
Cappelli, 1963, ried. Torino, Einaudi, 1972 e 2001).
(4)
della storia del design basata su quattro fasi diverse non lineari, riducendo
l’architettura a un “settore merceologico del design con particolari caratteristiche di complessità strutturale e funzionale”.(6) Non diversamente dalla sintesi offerta da Gillo Dorfles nel 1963,(7) l’impostazione storiografica
proposta da Gregotti partiva dall’assiomaticità della definizione stessa di
“design”, anche se riconosceva l’esistenza di una prima fase caratterizzata
maggiormente dalla separazione fra progettazione creativa ed esecuzione,
dovuta alla nascita della tecnologia industriale e all’affermarsi della ripetitività. A suo parere, seguiva poi un momento di “presa di coscienza” del
design riguardante l’evoluzione delle arti applicate, segnata dai dibattiti su
arte, industria e artigianato che avevano avuto come tema la qualificazione
41
3.2
Alberto Arbasino, Umberto Eco, Vittorio Gregotti,
Furio Colombo, Graziella Civiletti, Amelia Rosselli, Carla
Accardi, 1965 (Foto Pablo Volta).
Immagine tratta da: https://www.alfabeta2.it/gruppo63/
Il pensiero di Gregotti affondava le radici anche in talune
considerazioni esposte al I congresso internazionale dell’Industrial Design, tenutosi a Milano nel 1954 nell’ambito della X
Triennale. In particolare, si vedano gli interventi di Argan, Paci,
Dorfles, Rogers. Le trascrizioni stenografiche sono pubblicate
in La memoria e il futuro. I Congresso internazionale dell’Industrial Design, Triennale di Milano 1954 (Milano, Fondazione
la Triennale di Milano-Skira, 2001). Successivamente, Rogers
ebbe modo di chiarire le sue idee in alcuni articoli; cfr. in particolare Ernesto N. Rogers, “Difesa del Design”, Casabella.
Continuità, 275, maggio (1963), 1. In seguito, Gregotti, in più
occasioni e in diverse sedi editoriali, ribadì che l’architettura, a
partire dagli anni ottanta, era rientrata nel perimetro del design
“nel senso peggiore di questo termine”, inteso – come scriveva ne L’architettura nell’epoca dell’incessante (2006) – quale
“processo di intermediazione formale nello scambio di immagini delle merci contro merci […] dove il valore di scambio del
prodotto si basa sulla seduzione del segno”. Lo ricordò anche
Umberto Eco, “Sulla fine del design”, in Festschrift per gli ottant’anni di Vittorio Gregotti, a cura di Guido Morpurgo (Milano,
Skira, 2007), 75-84.
(8)
estetica del prodotto industriale. La terza fase storica individuata vedeva
le arti applicate inglobate nell’ambito dell’architettura, giacché la “tekne
dell’oggetto” poteva essere considerata insieme all’idea di funzionalità.
Mentre nel quarto e ultimo stadio, accostabile al periodo che stava vivendo,
Gregotti arrivava a rovesciare i termini del dibattito, cosicché il concetto
di design poteva diventare suscettibile di dilatazione, tanto da includere il
controllo dell’ambiente che circonda l’uomo (dall’oggetto d’uso alla città), e
considerare il town design e la pianificazione del territorio come atteggiamenti progettuali inclusivi e totalizzanti.(8)
Tale ripartizione, qui brevemente delineata, diveniva in qualche modo il basso
continuo di una costruzione storiografica, tra racconto del passato e cronaca
del presente, affidata agli interventi, ai brani antologici e alle immagini che si
alternavano nella rivista, individuati con la convinzione di operare una “rifondazione” del linguaggio comunicativo in primis e con il coinvolgimento di intellettuali impegnati da tempo, e su diversi fronti disciplinari, nella formazione dei
42
3.3
Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Furio Colombo, 1965
(Foto Giulia Niccolai).
Immagine tratta da: https://www.alfabeta2.it/gruppo63/
Cfr. la prefazione di Umberto Eco all’edizione francese del
libro di Gregotti, Le territoire de l’architecture (Paris, L’Equerre,
1982); il testo fu ripubblicato in italiano nell’edizione ampliata
dell’Universale Economica Feltrinelli del 2008. Va ricordato che
Il territorio dell’architettura vide la luce nel giugno 1966, per i
tipi della Giangiacomo Feltrinelli Editore, nella collana Materiali.
Sul Gruppo 63 sono stati scritti numerosi testi; si veda Umberto Eco, Il Gruppo 63, quarant’anni dopo, Prolusione tenuta a
Bologna per il Quarantennale del Gruppo 63 – 8 maggio 2003
(consultabile in http://www.umbertoeco.it/CV/Il%20Gruppo%20
63,%20quarant%27annin%20dopo.pdf; ultimo accesso 8 ottobre 2018). Gli atti del convegno tenutosi dall’8 all’11 maggio
2003 sono stati pubblicati a cura di Renato Barilli, Fausto Curi
e Niva Lorenzini nel 2005 per i tipi di Pendragon. Si veda anche Francesco Muzzioli, Il Gruppo ’63. Istruzioni per la lettura
(Roma, Odradek, 2013). Gregotti, a più riprese e in sedi diverse, ha ricordato i suoi legami con il Gruppo 63. Cfr. comunque
Vittorio Gregotti, Autobiografia del XX secolo (Milano, Skira,
2005), 83-85.
(10)
Assunto come testo fondamentale per i membri del Gruppo
63, il fortunato saggio Opera aperta. Forme e indeterminazione
nelle poetiche contemporanee di Umberto Eco venne pubblicato
per i tipi di Bompiani nel giugno 1962 e avviò da subito un dibattito che avrebbe investito la società culturale italiana, e non solo,
degli anni sessanta, suscitando ampi consensi, e nondimeno opposizioni e polemiche, anche tra designer, critici d’arte e architetti-intellettuali. Val la pena ricordare che del Gruppo fecero parte
poeti, scrittori, giornalisti, artisti, editori, tra i quali: Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti, Luciano Anceschi, Renato Barilli, Gillo
Dorfles, Umberto Eco, Angelo Guglielmi, Alberto Arbasino, Furio
Colombo, Enrico Filippini, Franco Lucentini, Luigi Malerba, Giorgio Manganelli, Giuseppe Pontiggia, Inge Feltrinelli. Sul Gruppo
esiste una copiosa letteratura; si rimanda a Renato Barilli, Angelo Guglielmi, Gruppo 63. Critica e teoria (Milano, Feltrinelli,
1976); Umberto Eco, “Il Gruppo 63. Le ragioni di un recupero”,
in Italia moderna 1960-1980. La difficile democrazia, a cura di
Omar Calabrese (Milano, Electa, 1985), 347-360. Si veda anche
Gabriella Lo Ricco, “Gli intellettuali e le arti. La sfida al labirinto”,
in Italia 60/70. Una stagione dell’architettura, a cura di Marco
Biraghi et al. (Padova, Il Poligrafo, 2010), 55-60.
(9)
3.2, 3.3
designer. Storia operativa, critica militante e riflessione sull’attualità, di fatto,
intervenivano a delineare una proposta di lettura del design fino a quel momento mai affrontata.
Ma quale fu effettivamente l’esito del confronto fra i diversi piani proposti?
Come furono interpretate, dagli autori coinvolti, le linee storiche e analitiche, inequivocabili e monodirezionate, suggerite da Gregotti nell’editoriale?
In un anno che vedeva la nascita di numerose iniziative culturali, la realtà
dei designer, l’impegno politico e il mondo della produzione potevano convivere nella “società di merci”, come all’epoca si diceva? Il consumo poteva
essere riconosciuto come un “parametro di valore”, anche per costruzioni
storiografiche engagées? E ancora, poteva imporsi “un racconto”, o per
un usare un termine allora in voga “un discorso” del design, riconoscendo
ed eleggendo nuove direzioni di sviluppo, nuove gerarchie, nuovi assetti
tematici, secondo le linee di lavoro di Umberto Eco e del Gruppo 63(9) di cui
Gregotti faceva parte?
2. La rilettura di Edilizia Moderna
In effetti, riguardare attentamente il numero 85 della rivista edita dalla Società
del Linoleum analizzandone i molteplici risvolti, aiuta a comprendere e riconoscere, a mio parere, il tentativo di una costruzione storiografica disciplinare
“aperta”, come suggerito dalla discussione sui fenomeni estetici proposta da
Eco.(10) Piuttosto che offrire una recensione inattuale o una “sovra-interpreta43
3.4
Copertina della rivista Edilizia Moderna, numero 85, dedicata
al Design
(11)
Il saggio Del modo di formare come impegno sulla realtà di
Umberto Eco apparve per la prima volta nel 1962 sul numero
5 della rivista Menabò diretta da Elio Vittorini e Italo Calvino.
(12)
Edita ininterrottamente dal 1931, la storica rivista trimestrale
EM faceva parte della Società del Linoleum del gruppo Pirelli.
Con l’affidamento della responsabilità redazionale a Gregotti,
come scrisse Isalberti nell’editoriale del numero 80, si ebbe un
nuovo corso che vide la nascita di numeri monografici. L’architetto di Novara era stato fino a quel momento impegnato,
con altri, nella redazione della Casabella di Rogers, dove ebbe
modo di stringere relazioni con i maggiori architetti e protagonisti della cultura internazionale. Nella redazione di EM chiamò a
collaborare il neolaureato Emilio Battisti, mentre affidò l’impaginazione a Michele Provinciali e la segreteria a Julia Banfi. Il numero 80 (settembre 1963), sul tema del Grattacielo, fu il primo
in cui la rivista si assunse l’impegno di indagare i problemi e i
confini dell’attività dell’architetto, inteso quale attore partecipe
della trasformazione della società. Seguirono numeri dedicati
rispettivamente a Il Novecento e l’architettura (81), Architettura
italiana 1963 (82-83), 3 Esposizioni (84), Design (85), Ricerche
storiche (86), La forma del territorio (87-88), Africa (89-90). Con
il ponderoso doppio numero dedicato al continente africano
(1967) si interruppe l’attività della rivista. Va segnalato che dal
numero 81 sparirono i riferimenti alla data di stampa.
(13)
Eco e Gregotti collaborarono con la rivista Il Verri (il primo in
veste di curatore della rubrica intitolata Diario minimo, il secondo
quale responsabile del settore Architettura dal 1963 al 1965). Gli
scritti di Eco apparvero raccolti in volume per la prima volta nel
1963, per i tipi di Mondadori. Sulla celeberrima rivista nata nel
1956 in un caffè di via Verri a Milano, autentica fucina di intellettuali e artisti di avanguardia, esiste un’amplissima bibliografia e
per i dovuti rimandi non basterebbe lo spazio di una nota.
zione” forzata, vorrei rileggere, in questa sede, l’intera operazione editoriale
come pretesto mediante uno sguardo obliquo che tenga conto – tra genesi e
Rezeptionsgeschichte – del contesto, delle congiunture storiche e degli enunciati, parafrasando un altro celeberrimo saggio di Eco, sul “modo di formare
come impegno sulla realtà”.(11)
Innanzitutto, vi è da dire che se formalmente Gianfranco Isalberti risultava il direttore del periodico, Gregotti, quale coordinatore e unico redattore, era l’effettivo responsabile di un progetto culturale avviato fin da quando la rivista aveva
inaugurato, nel settembre 1963, il “quarto ciclo” del suo percorso con la scelta
della formula monografica.(12) Inoltre, va rammentato che il numero dedicato
al Design, magistralmente impaginato da Michele Provinciali (già grafico, tra
44
3.4 - 3.7
l’altro, della rivista letteraria Il Verri, fondata nel 1956 da Luciano Anceschi),(13)
seguiva la rassegna sulle tre grandi Esposizioni del 1964 (Losanna, New York
e Milano), e anticipava il numero successivo intitolato Ricerche storiche. Nei tre
fascicoli, i tanti autori – tra i quali Eco, Enrico Filippini, Eduardo Vittoria, Furio
Colombo, Joseph Rykwert, Ezio Bonfanti, Ulrich Conrads, Jürgen Joedicke,
Julius Posener – proponevano questioni di metodo, oltre che microstorie. Lo
stesso curatore Gregotti, nel numero dedicato alle Ricerche storiche, si interrogava sul senso dello studio del passato e dei fatti accaduti:
3.5
Copertina della rivista Edilizia Moderna, numero 84, dedicata
a 3 Esposizioni
3.6
Copertina della rivista Edilizia Moderna, numero 86, dedicata
alle Ricerche storiche
3.7
Copertina della rivista Edilizia Moderna, numero 87-88,
dedicata a La forma del territorio
ogni volta che un modo nuovo di leggere gli avvenimenti si concreta in
una storia (e questo è l’aspetto per noi in certo modo più interessante)
tutto il nostro criterio di valutazione dei rapporti relativi fra i problemi ne
viene influenzato, sospinto o trattenuto, condotto verso strade aperte
o vie chiuse.(14)
Vittorio Gregotti, “La ricerca storica in architettura”, EM, 86
(1965), 4. La prima stesura del saggio di Gregotti apparve in
Utopia della realtà. Un esperimento didattico sulla tipologia
della scuola primaria (Bari, Leonardo da Vinci, 1965), 110-113.
(15)
In tal senso, si rimanda agli studi di Roger Chartier e di Donald F. Mckenzie. Si veda anche Jerome McGann, The Textual
Condition (Princeton, Princeton University Press, 1991).
(16)
Per quanto riguarda i periodici di architettura, un primo
tentativo di approccio nuovo allo studio è stato offerto con la
giornata di studio organizzata al Collège de France, il 2 giugno 2000, con il concorso del Ministère de la culture et de la
communication, dell’École pratique des hautes études, e della
Mission historique française en Allemagne; cfr. Jean-Michel
Leniaud, Béatrice Bouvier (a cura di), Les périodiques d’architecture XVIIIe-XXe siècle. Recherche d’une méthode critique
d’analyse (Paris, École des chartes, 2001); Hélène Jannière,
Politique éditoriales et architecture “moderne”. L’émergence
de nouvelles revues en France et en Italie (1923-1939) (Paris,
éditions Arguments, 2002).
(14)
Del resto, se da tempo è stata assodata l’utilità di accostare allo studio dei testi
quello della forma con cui questi vengono “comunicati” e trasmessi,(15) ancora
di più, trattandosi di una rivista illustrata, credo che divenga necessario comprendere come allo studio della “scrittura” vadano aggiunti altri elementi – tipi
di carattere, immagini, gabbie grafiche, fotomontaggi, continuità e discontinuità
con i numeri precedenti e successivi, ecc. – che possono considerarsi “portatori di senso” in grado di orientare la lettura e di rivelare un modello di riferimento
da mettere in relazione a scelte puntuali e a un preciso orizzonte culturale.(16)
Infatti, l’importanza dell’intreccio tra la scelta dei testi da pubblicare e la forma
grafica con cui furono veicolati i messaggi si rese evidente fin dall’inizio dell’avventura editoriale intrapresa da Gregotti, in particolare mediante l’inserimento,
tra un servizio e l’altro, di blocchi di testi e immagini che sembrano richiamare
i teatrali “a parte”.
45
3.8
I componenti dello studio grafico CNPT nel 1964
(Michele Provinciali è il primo a sinistra).
Da: “Provinciali, antipasti”, catalogo della mostra a cura di
Mario Piazza (Milano, aiap edizioni, 1999), s.n.p.
La rivista Imago fu definita una “sorta di manifesto per la
progettazione grafica che si affaccia agli anni sessanta”; cfr.
Bruno Bandini, (nota critica), in Michele Provinciali. ISIA Urbino
(Roma, Gangemi, 2006), 39. All’epoca della collaborazione con
EM, Provinciali era parte del gruppo CNPT (Confalonieri, Negri, Provinciali, Tovaglia). Va segnalato che lo studio CNPT con
Giancarlo Iliprandi si occupò della grafica della mostra Italia. Il
tempo libero e l’acqua sempre alla Triennale del 1964.
(18)
Per un profilo biografico su Provinciali (Parma, 3 ottobre
1921-Pesaro, 12 marzo 2009) si rimanda a Gillo Dorfles, Provinciali. Sentimento del tempo (Bologna, Grafis edizioni, 1986),
71. Le opere dell’attività professionale e alcuni materiali delle
sue ricerche sono raccolti presso il Centro Studi e Archivio della
Comunicazione dell’Università degli studi di Parma.
(19)
L’articolo di Mario Piazza, “Gli anni creativi: le riviste, speciale per i 40 anni”, Abitare, 432, (ottobre 2003), e quello di Italo
Lupi, apparso su Ottagono, 70 (1983), sono stati ripubblicati in
Michele Provinciali … cit., 202-203; in particolare, in riferimento
alla grafica di EM Lupi scrive: “La pagina (supportata anche
dalla scelta di una carta ‘straordinaria’) concepita libera, con
grande dominio dell’architettura generale degli spazi bianchi,
con grande cultura che permetteva il disinvolto accostamento
di caratteri diversi: il Century conviveva con il Franklin nero e
questi con uno Standard medio elongated, e questo a sua volta
con un Helvetica chiaro maiuscolo e le simmetrie erano subito
negate dalle disimmetrie in una lezione di libertà che non potrà
essere ignorata”, 203.
(20)
Joseph Rykwert, Gregotti Associati (Milano, Rizzoli, 1995), 39.
(21)
Cfr. Manfredo Tafuri, Vittorio Gregotti. Progetti e realizzazione (Milano, Electa, 1982), 12.
(17)
In tal senso, il ruolo di Provinciali fu fondamentale nella traduzione dei contenuti nei codici visivi. Già direttore artistico di alcune aziende italiane e internazionali, curatore dell’immagine della sezione Industrial Design della X Triennale,
ideatore con Raffaele Bassoli della rivista Imago,(17) autore di copertine per
riviste quali Linea Grafica, Rassegna Grafica, Qualità, Domus, collaboratore di
Stile Industria,(18) Provinciali sotto la guida di Gregotti ideò delle pagine “sconvolgenti”, definite da Mario Piazza “tappa indimenticabile della grafica italiana”,
e da Italo Lupi “l’emozione di un vero, grande capolavoro”.(19)
Liberamente interconnessi nella pagina concepita per Edilizia Moderna, gli
inserti o meglio gli “a parte” – concepiti da Gregotti e in alcuni casi scritti
da Emilio Battisti, che collaborava alla redazione – sottolineavano o talvolta commentavano il filo dei ragionamenti, in un continuo gioco di rimandi,
di sconfinamenti linguistici e di accostamenti tra materiali eterogenei, che –
come notava Joseph Rykwert a proposito proprio della XIII Triennale – erano
“costruiti attraverso la riflessione e la moltiplicazione” con “possibilità plurime
di attraversamenti interpretativi”.(20)
Utilizzata nel metateatro, la tecnica degli “a parte” si adattava – ancora di più
nel numero dedicato al Design – all’ipertestualità del contenuto e agli interrogativi posti da quello che fu definito “manifesto gregottiano”, quale appariva anche
nella Sezione introduttiva a carattere internazionale della XIII Triennale,(21) coordinata da Gregotti con Eco, in cui si rispecchiavano per l’appunto le riflessioni
del Gruppo 63, le attenzioni al controllo delle forme comunicative, i riverberi
46
3.8
dello sperimentalismo e delle avanguardie,(22) oltre che l’uso incondizionato della polisemia dei tanti linguaggi in relazione alle evoluzioni storiche delle realtà
e dei conflitti narrati.(23) Di conseguenza, al pari degli strumenti comunicativi,
non solo grafici, utilizzati in Triennale, dove la retorica visiva – come scrisse
Manfredo Tafuri – esplodeva al di fuori dei propri limiti e si contaminava con le
diverse tecniche, nella rivista Gregotti tentò di proporre, nello specifico, una decifrazione “aperta” dell’industrial design e della sua storia ancorata al presente.
3. Domande e questioni “aperte”
A seguire l’editoriale su citato, intitolato Problemi del design, a mo’ di premessa, nel fascicolo venivano subito sottoposti al lettore due temi, le forme dello
spazio e le emergenze del paesaggio, icasticamente schematizzati da brevi
frasi, collage di immagini, stralci di testi di Arthur C. Clarke, Robert Heinlein,
Giulio Carlo Argan e Gille-Gaston Granger. Il satellite e la nave spaziale venivano utilizzati come esempi del ritardo dei progettisti, mentre i brani antologici
erano dedicati alla città lunare, alla casa nuova, al confronto tra planning e
design, e al rapporto tra qualità dell’oggetto e qualità del vissuto. Senza interrogarsi esplicitamente sulle cronologie, o quanto meno di palesarle in maniera
lineare, si entrava nel vivo delle questioni poste da Gregotti, sottoponendo Sei
domande a otto designers: Mario Bellini, i fratelli Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Angelo Mangiarotti, Roberto Mango, Alberto Rosselli, Ettore Sottsass jr.,
Gino Valle, Marco Zanuso.
Intendendo il design come “esercizio del controllo formale” sull’ambiente, il
primo interrogativo posto tendeva a far riflettere sulla provvisorietà e sulla consumazione materiale degli oggetti. In tal senso, i differenti linguaggi e punti di
vista offerti dai progettisti contribuivano a frantumare le residue linearità del discorso, rendendo talvolta le voci discordanti, anelli di una catena “inter-codice”,
utili come “fonti” di una potenziale storia del design e al contempo chiavi per
svelare i gradi possibili del multiversum narrativo.
Sullo sfondo di una critica all’accezione del termine “design”, tanto merceologica (product design) quanto produttivistica (industrial design), Bellini riportava
la discussione al significato omnicomprensivo di “design” suggerito da Walter
Gropius (al centro del dibattito in Italia fin dalla pubblicazione nel 1951 del noto
libro di Argan),(24) e al tema del “consumo” delle arti. Se i fratelli Castiglioni
facevano ricadere quest’ultimo, e in più in generale la questione della “consumabilità”, nell’ambito del “redesign”, Mangiarotti sottolineava come il fattore
“tempo” poco influisse sul giudizio esprimibile nei confronti dell’oggetto, e Rosselli rimarcava l’inesistenza di una “estetica del provvisorio”, a fronte dell’af-
Cfr. Angelo Guglielmi, Avanguardia e sperimentalismo (Milano, Feltrinelli, 1964). Le idee di Guglielmi furono riprese da Eco
in Il Gruppo 63, lo sperimentalismo e l’avanguardia, testo della
conferenza tenuta a Valenza Po il 19 maggio 1984 e pubblicato
in Umberto Eco, Sugli specchi e altri saggi (Milano, Bompiani,
1985), 93-104.
(23)
Tafuri scrisse che anche quando emerse la “questione del
territorio” Gregotti riversò, nel numero monografico della rivista,
allo stesso modo “il suo combattuto rapporto con la storia”. Cfr.
Tafuri, Vittorio Gregotti. Progetti e realizzazione, cit., 15.
(24)
Cfr. Giulio Carlo Argan, Walter Gropius e la Bauhaus (Torino,
Giulio Einaudi, 1951). Si vedano, inoltre, la postfazione di Bruno Contardi nell’edizione del 1988 (pagine 197-220) e l’introduzione di Marco Biraghi nell’edizione del 2010 (pagine VII-XXV).
(22)
47
fermazione della velocità del consumo, funzionale talvolta rispetto alla forma
dell’oggetto. Di contro, Sottsass puntualizzava il significato dei diversi controlli,
della forma come dei processi di produzione, ironizzando finanche sull’atteggiando di taluni progettisti, mentre Valle ricordava quanto il carattere temporaneo di oggetti o di sistemi non pregiudicassero le loro qualità intrinseche.
Zanuso, più degli altri, coglieva la problematicità della premessa di Gregotti, considerando in chiave storica il problema del design. Senza ripercorrere
le fasi attraverso le quali nel tempo erano mutati i significati intrinseci degli
oggetti (o dello stesso termine “design”), Zanuso riconduceva la questione in
termini di “valutazione” della fruibilità, ricollegandosi agli altri quesiti sulle modalità espressive degli oggetti; ossia riportava la discussione sulla capacità di
questi ultimi, da un lato, di esprimere “la significanza comunicabile”, dall’altro,
di rappresentare l’esito di una organizzazione integrale e di un rapporto interdisciplinare, in grado di determinare un “quadro di riferimento” e un ambito di
pertinenza.(25)
Al di là del linguaggio di Zanuso e di altri – specchio delle forme comunicative
della cultura anche semiologica dei primi anni sessanta – con cui venivano
formulate le risposte, è interessante sottolineare come le domande aperte
poste ai designer si concludessero affrontando il tema dell’industrializzazione
che poneva in termini nuovi la questione della progettazione. Nello specifico
l’industrializzazione edilizia, intesa come operazione di uso e assemblaggio
di “prodotti-oggetto”, era considerata come un processo limitante delle possibilità espressive. Secondo Mangiarotti questa interpretazione ignorava lo stato
dell’arte della progettazione edilizia industrializzata, la quale in nuce poteva
dare vita a un nuovo principio di “figuratività” e a un nuovo linguaggio. Illustrate
con i prodotti degli intervistati (dalla macchina stampante Olivetti di Bellini, alle
posate Red and Barton di Castiglioni, fino alla celeberrima sedia per bambini
in polietilene e alla casa realizzata con il sistema Feal, entrambe di Zanuso), le
lunghe risposte aprivano il primo blocco degli “a parte”, dedicato al Macroambiente in movimento e alla Periferia di rifiuti.
4. Per una critica del design: il contributo di Filiberto Menna
Come nella Triennale del Tempo Libero, il carattere di denuncia e di critica del
consumismo quale nuovo fascismo – in linea con il pensiero di Herbert Marcuse, che proprio nel 1964 pubblicava il suo One-dimensional man e che veniva
evocato profusamente nella rivista – emergeva in modo clamoroso nell’impaginato dell’intero fascicolo mediante l’accostamento provocatorio di parole e di
immagini: nel blocco sul Macroambiente in movimento, quadranti di orologi af-
Il testo delle risposte di Zanuso è stato ripubblicato in Roberta Grignolo (a cura di), Marco Zanuso. Scritti sulle tecniche
di produzione e di progetto (Mendrisio, Mendrisio Academy
Press-Silvana Editoriale, 2013), 183-189.
(25)
48
3.9
3.9
“Macroambiente in movimento ovvero tanti elementi tutti
uguali”. Pagine interne della rivista Edilizia Moderna, numero
85, dedicata al Design
3.10
“Periferia di rifiuti”. Pagine interne della rivista Edilizia Moderna, numero 85, dedicata al Design
3.10
fiancati ai tasti di una macchina calcolatrice e alle croci di un cimitero di guerra;
file di automobili prima allineate nel traffico poi accatastate e accartocciate tra
i depositi di rottami nel blocco successivo della Periferia di rifiuti. Il breve testo
di apertura del primo blocco recitava:
intanto, mentre i designers pensano gli oggetti, e li informano dei contenuti che il commento teorico ha codificato, essi (gli oggetti) già rotolano
sul mondo e instaurano un loro comportamento collettivo non previsto.
Tutti intenti al rispetto della essenzialità dell’oggetto, i designers si sono
dimenticati di valutare, non diciamo la forma, ma persino la misura
del fenomeno. Trepidanti e sensibili di fronte al problema della sorte
49
dell’arte, hanno instaurato il mito dell’utile, hanno intriso l’utile di convenzioni formali fino a farlo diventare superfluo. E poiché il superfluo,
non dovendo coincidere necessariamente con ciò che è conveniente, è
opportunamente smisurato, ci troviamo a dover constatare l’invasione
materiale e morale del nostro pianeta proprio per mano dell’uomo.(26)
Se l’irriverenza degli accostamenti e delle frasi avviava un discorso parallelo,
consentendo plurimi livelli di lettura, i frammenti antologici riportavano l’attenzione alla conflittualità insita nel consumo, tipica di quella società di massa, solo
in parte difesa da Eco – sempre nel 1964 – nel celeberrimo saggio Apocalittici
e integrati:(27) i brani di testi del sociologo Alessandro Pizzorno, dell’economista
John Kenneth Galbraith e del filosofo-antropologo Claude Lévi-Strauss erano
annunciati da titoli eloquenti, alcuni creati ad hoc: Sociologia del consumo, La
società opulenta, La scienza del concreto.
Non a caso, nel 1964 (anno dell’affermazione completa della cultura pop)(28)
sul primo numero della neonata Op. cit., Dorfles, collaboratore al numero di
Edilizia Moderna, associava il tema del “civiltà del consumo” a quello della
“civiltà delle immagini”:
il fenomeno del consumo è evidente e patente a chiunque: basta alzare lo sguardo ai palazzi appena terminati di costruire e scorgere,
accanto ad essi, altri edifici già in via di demolizione; basta considerare
la mutevolezza della moda femminile, delle mode artistiche, letterarie,
poetiche; basta contemplare i “cimiteri d’auto” che già si stendono alla
periferia delle nostre città e non più soltanto negli Stati Uniti.(29)
Comunque, utile a ridefinire i margini del dibattito dopo l’intermezzo dedicato alla Periferia di rifiuti nel fascicolo di Edilizia Moderna, il tema di una
critica operativa al design era affrontato a seguire da Filiberto Menna, che
affidava il suo pensiero a un lungo saggio dal titolo Design, comunicazione estetica e mass media in cui precisava la questione “più grave” che
l’industrial design doveva affrontare, consistente nel rapporto conflittuale
che esso aveva tentato di risolvere “fin dalle sue origini storiche, ossia il
problema dei rapporti tra la qualità estetica del prodotto e la quantità richiesta dal mercato”. In linea con le posizioni di Gregotti, Menna iniziava la sua
disamina dalle poetiche razionaliste che avevano ricostituito il processo di
comunicazione estetica mediante l’invenzione di un nuovo linguaggio basato su elementi semplici.
“Macroambiente in movimento ovvero tanti elementi tutti
uguali”, EM, 85 (1964), 26.
(27)
Sulla genesi e fortuna del saggio di Eco rimando a Marco
Dezzi Bardeschi, “Apocalittici e integrati, 50 anni dopo”, Ananke, 78, (maggio 2016), 2-6.
(28)
Andrea Mecacci, L’estetica del Pop. Teorie e miti della cultura di massa (Roma, Donzelli Editore, 2011), 26-28.
(29)
Gillo Dorfles, “Le ‘Nuove Iconi’ e la ‘civiltà del consumo’”,
Op. cit., 1, (settembre 1964), 7.
(26)
50
La liberazione di ogni componente linguistica da qualsiasi significato aveva
condotto nel tempo, a suo avviso, a una forma comunicativa di maggiore oggettività e riconoscibilità universale, in grado di esercitare nella pittura, nella
scultura e nell’architettura, riunite nel design, un’influenza sui gusti e sui comportamenti sociali. Contribuendo alla riqualificazione estetica totale, la didattica
del Bauhaus – a parere di Menna – aveva messo in atto in questo modo una
prova di forza con la società e con l’industria.
Riconosciuto il fallimento, come per le avanguardie storiche, di tale afflato innovativo, Menna associava tuttavia l’internazionalismo del design, segnato dalla
forte impronta polemica, al cosmopolitismo linguistico richiesto dai mercati in
espansione e dalle tecniche produttive delle grandi concentrazioni industriali.
Ampiamente ripreso e analizzato in seguito in Profezia di una società estetica
(1968) e in La regola e il caso (1970),(30) il fenomeno, individuato da Menna,
di “trasformazione” del design era associato alla evoluzione sociale subita da
alcuni paesi, a partire dagli Stati Uniti, dove il problema – secondo le teorie evolutive del noto sociologo ed economista Walt Whitman Rostow, riprese ampiamente nel saggio su menzionato di Menna – consisteva nel produrre in grandi
serie una quantità sempre maggiore di beni di consumo, dotati dei requisiti
estetici indispensabili per essere ancora più appetibili.
La questione della standardizzazione si ripresentava ciclicamente, con la differenza che l’industria – scriveva il critico nel 1964, influenzato forse dal pensiero
di Marshall McLuhan – aveva in quel momento interesse alla realizzazione di
prodotti in serie, non tanto dal punto di vista “qualitativo più alto possibile, quanto
entro certi limiti, di volta in volta accertati (la “soglia Maya” di Raymond Loewy),
oltre i quali l’invenzione della forma rischia[va] di non essere accettata dal pubblico”. In altri termini, secondo Menna, la qualità perseguita dal designer in questa
situazione non era “più una qualità assoluta, ma una qualità relativa alle esigenze del mercato”; il designer diventava così “un tecnico al servizio del capitale”.(31)
In tale contesto, tuttavia, il critico giustificava la nascita dello styling, che permetteva l’integrazione del lavoro del designer nei processi dei mass media. In
sintonia con Silvano Tintori, che proprio nel 1964 pubblicava un compendio di
storia del design inteso come storia della cultura materiale,(32) Menna ravvisava
un punto di svolta nello sviluppo della disciplina; la didattica del Bauhaus e il
magistero di Walter Gropius avevano cercato di “risolvere l’antinomia tra arte
e industria, identificando contemplazione e fruizione”, mentre lo styling poteva
essere considerato come il riflesso del “bisogno del mondo della produzione di
proiettarsi sul mercato pubblicitario, facendo del binomio contemplazione-fruibilità un nodo da condizionare psicologicamente”.(33)
Cfr. Filiberto Menna, Profezia di una società estetica. Saggio
sull’avanguardia artistica e sul movimento dell’architettura moderna (Roma, Lerici, 1968); Id., La regola e il caso. Architettura
e società (Roma, Ennesse, 1970).
(31)
Filiberto Menna, “Design, comunicazione estetica e mass
media”, EM, 85 (1964), 32.
(32)
Cfr. Silvano Tintori, Cultura del design. Un profilo dell’arte e
della tecnica nella storia della civiltà (Milano, Tamburini, 1964).
In particolare, si veda il capitolo diciottesimo, dedicato a I problemi del design, oggi. Sorta di manuale, il volume consisteva
nella raccolta di testi delle sue lezioni tenute nel 1961 al corso
di Storia della civiltà presso la Scuola di Disegno Industriale
di Venezia.
(33)
Menna, “Design, comunicazione estetica” cit., 33.
(30)
51
In verità, il tema dello styling design – capace di condizionare il gusto del pubblico,(34) interpretandone gli umori e le aspirazioni – fu nei primi anni sessanta
un punto all’ordine del giorno ogni qual volta si discuteva di industrial design,
diventando oggetto attento di riflessione. In particolare, esso fu utilizzato, oltre
che come chiave di lettura dello sviluppo storico, anche come strumento di
interpretazione della struttura di quelle società moderne in crescita economica, come teorizzate da Rostow, che si espandevano verso il tipo di “società
opulente”, caratterizzate da consumi esponenziali e dal rapporto invertito tra
produzione e consumo. Menna rimarcava i risultati ottenuti con l’inchiesta sui
temi della riqualificazione estetica degli oggetti e dello styling, da lui compiuta
nel 1960 tra architetti, pittori, designer e critici d’arte, pubblicata sulla terza
pagina di Telesera nella primavera del 1961 e confluita poi nel volume Industrial Design del 1962, il primo della collana Quaderni di Arte oggi.(35) Peraltro, il
tema della crisi del design, alla base dell’inchiesta, era già stato affrontato in un
articolo dal titolo Disegno industriale e arte moderna, pubblicato nel 1960 su Il
Gatto Selvatico, la rivista aziendale dell’ENI.(36) In quel testo, Menna – memore
ancora della didattica della Bauhaus – leggeva il design come il tentativo più
intelligentemente perseguito dalle pratiche contemporanee di saldare l’arte alla
vita, e come uno strumento di elevazione sociale attraverso l’azione artistica.
Nello specifico paragonava il disegno industriale a una pedagogia estetica,
“fondata sul presupposto che l’artista moderno, facendo propri i metodi di produzione meccanica, ha la possibilità di agire sulla vita collettiva con una profondità e una estensione affatto sconosciute all’artista del passato”.(37)
Va ricordato che nei primi anni sessanta, anche in Italia, il
dibattito su tali temi era assai acceso, in particolare grazie alle
critiche suscitate da Ernst Dichter. Già noto per essere stato il
bersaglio di Vance Packard nel libro The hidden persuaders
(New York, McKay, 1957) trad. it. I persuasori occulti (Torino,
Giulio Einaudi, 1958), Dichter nel 1964, con Handbook of Consumer Motivations. The Psychology of the World of Objects
(New York, McGraw-Hill Book Company, 1964), teorizzava la
manipolazione delle masse, indirizzando i lettori verso i consumi materiali e immateriali. Dichter era già noto al pubblico italiano poiché l’anno precedente era stato tradotto The Strategy of
Desire (New York, Boardman & Co., 1960), trad. it. La strategia
del desiderio (Milano, Garzanti, 1963). Su questi argomenti e
sulla storia del consumo materiale, si veda l’interessante studio di Frank Trentmann, Empire of Things. How We Became a
World of Consummers, from the Fifteenth Century to the Twenty-first (London, Penguin Books, 2016), trad. it. L’impero delle
cose. Come siamo diventati consumatori. Dal XV al XXI secolo
(Torino, Giulio Einaudi, 2017).
(35)
Filiberto Menna, Industrial Design (Roma, Villar, 1962).
All’inchiesta parteciparono, tra gli altri, Giulio Carlo Argan,
Alberto Rosselli, Palma Bucarelli, Corrado Maltese, Rosario
Assunto, Achille Perilli, Enzo Frateili, Enrico Crispolti, Paolo
Portoghesi.
(36)
Filiberto Menna, “Disegno industriale e arte moderna”, Il
Gatto Selvatico, 9 (settembre 1960), 14-16. L’articolo fu ripubblicato in Menna, La regola e il caso cit., 129-139.
(37)
La citazione è ripresa da Menna, La regola e il caso cit., 130.
(38)
L’assunto di una “continuazione” del modello Bauhaus tutta
da accertare fu ribadito in Tomás Maldonado, Disegno industriale: un riesame (Milano, Feltrinelli, 1971); si veda la settima
edizione (2005), 67-68. Maldonado tornò su tali temi in “Ulm
rivisitato”, Rassegna, 19, (settembre 1984), 5. Il numero monografico è dedicato a Il contributo della scuola di Ulm / The
Legacy of the School of Ulm. Cfr. inoltre dello stesso autore:
“Formazione e alternative di una professione”, Stile Industria,
34 (1961), 21-24.
(34)
5. Arte o industria? Tra ideologia e formazione del designer
In buona sostanza, l’aspetto interessante che emergeva in questo momento
storico, riflesso nella rivista, era dato dalla contrapposizione tra chi riproponeva
un ripensamento del binomio qualità-quantità, e chi negava qualsiasi artisticità
al design, viste le mutate condizioni dell’industria nelle quali lo stesso design
si era trovato ad operare nei primi anni sessanta. Era quest’ultima la posizione
di chi si muoveva nell’ambito della tesi sostenuta da Tomás Maldonado, che di
fatto – nonostante le riconosciute radici costitutive – negava in qualche modo
la continuità tra la Bauhaus e la Hochschule für Gestaltung di Ulm proprio sulla
base di una rinuncia alla componente estetica presente nel design storico e
nella didattica di Gropius.(38)
Al di là delle posizioni da “obiettore di coscienza” di Maldonado e delle polemiche contro la feticizzazione dell’oggetto e la mercificazione dell’arte, che
emergevano nel suo scritto Riflessioni profane intorno all’architettura e al suo
52
3.11
insegnamento affidato alle pagine di Edilizia Moderna, traspariva nell’impostazione ideologica del critico argentino la volontà di spiegare l’evoluzione storica
del design inserendola in un ambito prevalentemente tecnico, piuttosto che tecnico-artistico. Si offriva, in altre parole, una nuova chiave di lettura del rapporto
design-oggetto d’arte, in grado di sostituire – come auspicato da Maldonado
– al formalismo stilistico un rigoroso positivismo scientifico.
In realtà, già Menna nel suo articolo concludeva con la constatazione che il
design aveva rinunciato, via via nel tempo, a interpretare il proprio operare
come progettazione totale dell’ambiente umano, oltre che come “strumento di
elevazione e di palingenesi sociale”. Tale rinuncia aveva portato, a suo avviso,
al rischio di “trasformare il designer in un agente pubblicitario dell’industria e il
design in una operazione di cosmesi”,(39) ma allo stesso tempo – egli sottolineava – quest’ultimo poteva anche essere considerato come uno strumento per
la presa di coscienza, sia dei problemi posti dall’industria, sia della possibilità
dell’artista di incidere sulle sorti della vita collettiva.
Ma, continuando a seguire il percorso indicato nella rivista, è possibile appurare come le questioni poste da Menna dialogassero con gli argomenti trattati
nell’“a parte” che seguiva il suo articolo. Illustrato da schemi anatomici, da nudi
di Albrecht Dürer, da esemplari di razze esotiche presenti in testi del Seicento
e da un campionario di posizioni del corpo umano, Il rilievo dell’uomo ovvero del diritto di essere deformi faceva da contraltare alla moda, intesa come
“carrozzeria dell’uomo” rappresentata dalle fotografie di Coco Chanel, Yves
3.11
“Il rilievo dell’uomo ovvero del diritto di essere deformi”.
Pagine interne della rivista Edilizia Moderna, numero 85,
dedicata al Design
(39)
53
Menna, Design, comunicazione estetica cit., 34.
Saint-Laurent e Pierre Cardin. Per di più, erano emblematicamente estranianti
anche le altre immagini scelte da Gregotti: parate militari accostate a quelle di
indossatrici parigine e di modelli di abiti.
Va da sé, che il continuo oscillare tra riflessioni ideologiche e valutazioni metodologiche, tra il “divenire della tecnica e il divenire della società”, come emergeva anche nel testo di Augusto Morello dedicato alla Pragmatica del Design,
diventava nuovamente l’opportunità per ragionare intorno all’idea di stile e di
morale,(40) evidente nel successivo “a parte”, in cui si affrontavano i temi dello
styling e della produzione che sfuggiva al controllo dei progettisti (definita “design spontaneo”), e in cui i brani tratti da Minima moralia di Theodor Adorno e
da Tempo e relazione di Enzo Paci si contrapponevano alle ben note riflessioni
di Reyner Banham sull’industrial design e sull’arte popolare, oggetto, sin dalla
loro pubblicazione, di un acceso dibattito.(41)
Le considerazioni di Morello venivano richiamate nel successivo articolo a
firma di Andries van Onck, che disquisiva sul Metadesign e sul suo significato, con l’obiettivo di precisare il nuovo linguaggio critico di carattere scientifico-formale proposto da Dorfles e dallo stesso Paci. Ribadendo quanto il
“prodotto” fosse un “portatore di informazioni”, van Onck approfondiva in
questo modo le valenze sintattiche, semantiche e prammatiche del design,
a partire dalla teoria semiotica di Charles S. Peirce fino ai presupposti filosofici che erano alla base delle macchine realizzate dalla Olivetti (in particolare
l’Audit di Marcello Nizzoli).
3.12
“La moda, la carrozzeria dell’uomo e gli accessori”.
Pagine interne della rivista Edilizia Moderna, numero 85,
dedicata al Design
In “Documentazione per un rinnovamento del ‘design’ in
Italia”, apparso su Superfici, 2-3, (maggio-settembre 1961), 9596 Morello aveva già affrontato il tema “Design come attività”,
contrapposto a “Design come un modo di affrontare un’attività”,
legandolo alla questione della Distribuzione e dello Stylism.
(41)
Reyner Banham, “Industrial Design e arte popolare”, Civiltà
delle Macchine, III, 6, (novembre 1955), 12-15.
(40)
54
3.12
3.13
È possibile constatare come il filo rosso del “metodo” collegasse i diversi interventi nella rivista, prontamente messi in discussione dagli “a parte” che smontavano e dissacravano le prese di posizione di teorici e artefici del design:
“Basta che si proponga il discorso sul metodo – così recitava il testo nel box
di apertura che seguiva l’articolo di van Onck – perché i designers sfoderino
tutta la loro affettazione. Per la nostalgia di un proposito metodologico generale
che non hanno più modo di perseguire, si sforzano per la parte che ad essi
compete, di organizzare almeno artigianalmente strumenti e dati, tendendo ad
assumere la restante parte del processo (quello produttivo) come dato immodificabile cui soddisfare, e quindi come fine”.(42)
Così, mito e dissacrazione, processo della forma ineludibile e conseguente della
tecnologia, contrapposti all’ironia giocosa e all’interpretazione caricaturale, erano i due punti che anticipavano la riflessione di Dorfles su L’oggetto industriale
modificato e il rapporto uomo-macchina. Interrogandosi sul valore della volontà
“differenziatrice” nella ricerca dell’oggetto d’uso quotidiano, in antitesi a quella
“uniformatrice” e conformistica, il critico d’arte triestino, attento studioso del lavoro di Herbert Read,(43) introduceva il tema della “auto-modificazione” e della
“auto-modificabilità” dei prodotti di consumo. Mentre gli organismi impersonali e
superindividuali, come da lui definiti, quali i grandi macchinari, erano destinati a
non essere facilmente soggetti ai capricci del gusto e della moda, i piccoli oggetti
con funzione individuale potevano essere invece trasformati, mediante interventi
sulla forma e il colore, e soprattutto attraverso il ripensamento delle funzioni in
3.13
“L’oggetto industriale modificato e il rapporto uomo-macchina”
di Gillo Dorfles.
Pagine interne della rivista Edilizia Moderna, numero 85,
dedicata al Design
“Mitologia dello strumento”, EM, 85 (1964), 57.
Definito da Dorfles il “vangelo del Disegno industriale”,
il libro di Herbert Read, Art and Industry, vide nel 1962 una
traduzione italiana, a opera dello stesso Dorfles che ampliò
l’iconografia con numerosi prodotti recenti (la prima edizione
fu concepita nel 1934 per i tipi di Faber & Faber, mentre la versione italiana fu edita da Lerici, Milano 1962). Il critico triestino
e Read erano uniti da rapporti di amicizia, consolidati dall’invito
all’ICA (Institute of Contemporary Art) di Londra, allora diretto
da Read, nei primi anni cinquanta. Cfr. Gillo Dorfles, Lacerti
della memoria. Taccuini intermittenti (Bologna, Editrice Compositori, 2007), passim.
(42)
(43)
55
relazione al corpo umano. Non a caso, Dorfles chiosava sulla nascente disciplina
dell’ergonomia (o human-engineering), e sulle ricerche riguardanti i rapporti macchina-uomo che avevano l’obiettivo di ribaltare i termini del binomio, a favore del
secondo termine. Va ricordato, peraltro, che il tema fu ampiamente approfondito
dal critico ancora nel 1964, autentico annus mirabilis, in Il Disegno industriale e la
sua Estetica e l’anno successivo in Nuovi riti, nuovi miti.(44)
Ancora una volta, l’intermezzo successivo proposto nella rivista – dall’emblematico titolo I mostri – interveniva, nel dialogo tra le pagine, mettendo in
guardia sulla confutazione dei processi uniformanti, che avrebbe portato a
derive estetiche. La derisione come strumento di lettura era possibile, anche
quando, dopo aver contestato l’ideale – o meglio il preconcetto – di bellezza,
e aver giustificato il brutto, si constatava l’affermazione del “mostruoso”. In
tal senso Gregotti riprendeva il discorso sul ruolo dello stile e del linguaggio
degli oggetti, e sul rapporto tra forme e produzione industriale. Qui si integravano i ragionamenti di Enzo Frateili con il saggio su Design e edilizia, che coglievano il nocciolo della questione affrontando il tema della prefabbricazione
e della “progettazione per un nuovo settore merceologico, pariteticamente e
a fianco del product design”. In questi anni, gli interventi teorici di Konrad Wachsmann, di Giuseppe Ciribini e di Giancarlo Nuti si inserivano nel dibattito
sulla produzione edilizia basata su sistemi realizzati da un’industria sempre
più aggiornata che si avvaleva, non senza fatica,(45) dei migliori progettisti del
panorama internazionale.
3.14
“I mostri”. Pagine interne della rivista Edilizia Moderna,
numero 85, dedicata al Design
Cfr. Gillo Dorfles, Il Disegno industriale e la sua Estetica (Bologna, Cappelli, 1964); Id., Nuovi riti, nuovi miti (Torino, Giulio
Einaudi Editore, 1965).
(45)
Cfr. Alberto Rosselli, “Affanni della prefabbricazione”, Stile
Industria, 38, febbraio 1962 (1963), 0-1.
(44)
56
3.14
Le questioni dell’industrializzazione dei componenti (costruttivi come di arredo), e della produzione e confezione di immagini (della città come degli oggetti), introducevano il tema della formazione, affrontato in chiusura della rivista, sia da Gino Valle nell’articolo L’educazione dell’industrial designer, sia da
Maldonado con il saggio su citato, sia ancora con la Proposta per una scuola
di Industrial Design a Milano, a cura del Comitato per la Scuola di I.D. della
Fondazione Giuseppe Pagano (De Bartolomeis, Martinoli, Momigliano, Muzio,
Zanuso, Savi) e con gli approfondimenti di realtà estere.(46) Accomunati da una
multiforme visione sociale della metodologia del progettare, gli argomenti trattati negli articoli finali risultavano di attualità, e al contempo erano destinati ad
essere ripresi per molti anni a venire, allorché i temi dei rapporti tra arte e industria, tra formazione e professione, tra creatività e impegno politico, sarebbero
stati affrontati, esaminati, vagliati e approfonditi in articoli, oppure in opere di
sintesi,(47) avendo come riferimento, tra le altre, la questione dell’unità delle arti
rappresentata dal design.
William Katavolos con La facoltà di disegno industriale alla
Parsons School di New York, Roger G. Tallon con Il corso pilota
di Industrial Design alla Scuola Superiore di Arti Decorative di
Parigi, e Misha Black con La preparazione dei designers industriali in Gran Bretagna. Va segnalato che il tema delle scuole
era legato alla nascita, dopo il 1960, dei CSDI-Corsi superiori
di disegno industriale, primo tentativo di istituire una formazione post-diploma superiore autonoma e pubblica nel campo del
design; cfr. tra gli altri, i contributi apparsi su Quaderni di Architettura e design, 1 (2018) consultabili in http://www.quad-ad.eu/
(ultimo accesso: 28 febbraio 2019).
(47)
Si veda ad esempio Simonetta Lux, Arte e industria (Firenze, Sansoni, 1973). Per quanto riguarda altri riferimenti bibliografici ragionati cfr. Vittorio Gregotti, Il disegno del prodotto industriale. Italia 1860-1980, a cura di Manolo De Giorgi, Andrea
Nulli, Giampiero Bosoni (Milano, Electa, 1986), 356-363.
(48)
Nella IX Triennale, Gregotti aveva collaborato con Rogers
alla cura e all’allestimento della sala dedicata all’Architettura
misura dell’uomo. Cfr. Anna Chiara Cimoli, Fulvio Irace, La
divina proporzione. Triennale 1951 (Milano, Electa, 2007);
Massimiliano Savorra, “Ernesto Nathan Rogers e le Triennali
di Milano negli anni cinquanta”, in Continuità e crisi. Ernesto
Nathan Rogers e la cultura architettonica italiana del secondo
dopoguerra, a cura di Anna Giannetti, Luca Molinari (Firenze,
Alinea, 2010), 90-100.
(49)
Sul concetto di ostraniene come “fenomeno intervallare” si
rimanda a Gillo Dorfles, L’intervallo perduto (Milano, Feltrinelli,
1989), in particolare al capitolo quarto, 69-90.
(46)
6. Il racconto del Design e lo sperimentalismo del Gruppo 63
Peraltro, il tema dell’unità delle arti, almeno dalla IX Triennale del 1951,(48) era
stato discusso in numerosi scritti e occasioni culturali. Ma è soprattutto con il
Gruppo 63 (formato, è bene ricordarlo, da critici, letterati, filosofi, semiologi e
artisti vari), che fu affrontato legandolo alla discussione del rapporto fra ideologia e linguaggio. Tale questione dell’unità venne trattata da Gregotti nella rivista
Edilizia Moderna, nella quale riversò i modi e i contenuti della matrice oppositiva del collettivo neoavanguardista di cui faceva parte, finanche in quella che si
potrebbe definire “politicità delle scritture applicata al progetto”.
Nel numero della rivista dedicato al Design tale “politicità” si manifestò in principal modo, come abbiamo visto, non solo nella narrazione complessiva, ma anche nel linguaggio adoperato nei tanti “a parte” e nei box antologici, che presentavano il soggetto e al contempo l’oggetto del conflitto. Parallelismi e analogie
con alcune celebri analisi compiute da letterati e scrittori del Gruppo 63, come
Sanguineti, possono riscontrarsi nell’insieme dei testi introduttivi degli “a parte”,
negli occhielli e nelle lunghe didascalie, che contenevano critiche e autocritiche,
forme di straniamenti (intesi quali punti di vista alieni, come l’ostranenie di Viktor
Borisovič Šklovskij),(49) ironie (usate per distruggere quanto appena affermato)
e parodie (nel senso della ripetizione farsesca delle immagini metaforiche contrastanti), le quali, tutte insieme, contribuivano alla costruzione di un racconto
storico meta-letterario in cui l’unità delle arti – mescolata alla multimedialità, alla
cultura pop e all’idea di ambiente totale – era individuata nel design.
57
Va ricordato come tra gli intellettuali vi fosse la convinzione che fino a
quel momento il secolare tema dell’unità non avesse avuto occasione di
manifestarsi, e quanto si era tentato, con l’ambizione di avere integrazioni
più o meno convincenti, non fosse andato oltre “penose coesistenze” tra
forme artistiche, come ricordava Francesco Tentori nel 1964.(50) Tuttavia,
da un lato, con la sezione introduttiva della XIII Triennale (che aveva visto
coinvolto, tra i tanti, Luciano Berio, Cathy Barberian, Massimo Vignelli,
Tinto Brass, Lucio Fontana, Nanni Balestrini, molti di loro artisti vicini al
Gruppo 63), dall’altro con la rivista fin qui analizzata, Gregotti propose
un’applicazione dello sperimentalismo del Gruppo mediante la tecnica del
rimescolamento e la riflessione continua sulla pratica del progetto grazie
alla “cultura del dubbio”. Tale applicazione poteva realizzarsi con l’intreccio
dei discorsi e con il dialogo tra voci, anche discordi, o come affermò Eco
in un’intervista proprio sulla XIII Triennale, “per via di allusioni e di inserti
violenti tratti dalla realtà quotidiana”. Non a caso, a proposito dei prodotti
esposti nel Palazzo dell’Arte, sulle pagine di Marcatrè (altra rivista legata
al Gruppo 63), Eco sostenne:
si è risolta l’esigenza di esporre obiettivamente tutte le merci concernenti l’uso del tempo libero sulle coste italiane, montando tutto questo
materiale secondo la tecnica di un assemblage di tipo nevelsoniano,
per cui nel momento stesso in cui il materiale era esposto veniva giudicato, ironizzato.(51)
L’anticipazione e la provocazione con ogni mezzo espressivo si trasformavano
così in azioni di una strategia da guerriglia culturale, più che di comunicazione, mediante la sperimentazione di un linguaggio visivo e testuale nuovo, e di
una costruzione storiografica non dichiarata (leggibile nel numero della rivista
dedicata al Design). Fatto di elementi assemblati, sovrapposti, contradditori,
il “discorso” che emergeva – storico e letterario – si offriva al contempo come
riflessione, strettamente intrecciata al fronte della ricerca, sui modi stessi del
“raccontare” il prodotto industriale. L’obiettivo – consapevole – era portare il
lettore, sia a cogliere nel testo e nelle immagini quel che il testo e le immagini
non dicevano (ma presupponevano, promettevano, implicavano e implicitavano), sia a riempire gli spazi vuoti e a connettere – come scrisse Eco in Lector
in fabula, riferendosi al problema che si pose con Opera aperta – quello “che vi
è in quel testo con il tessuto dell’intertestualità da cui quel testo si origina e in
cui andrà a confluire”.(52)
Cfr. Francesco Tentori, “Unità delle arti”, Casabella Continuità, 290, agosto (1964), 48.
(51)
“La Triennale di Milano. Intervista a Umberto Eco”, Marcatré,
8-9-10, luglio-agosto-settembre (1964), 134.
(52)
Umberto Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi (Milano, Bompiani, 1979), 5.
(50)
58
Il confine tra l’analisi storica e l’uso della storia per mettere in prospettiva una
pratica progettuale era sottile, ma in questo senso il pensiero di Gregotti fu
esplicitato di lì a poco nei numeri di Edilizia Moderna, dedicati alle Ricerche
storiche e a La forma del territorio. “Se mettiamo a paragone – egli scriveva nel
1965 – quindi al di là dei metodi di ricerca storica, anche la semplice enumerazione dei fatti o il criterio di successione, o ancor più quello di valutazione,
ci appare chiaro come il margine di opinabilità del quadro storico si allarghi
man mano che ci avviciniamo a noi nel tempo, e non il contrario, come farebbe
supporre il problema della sola nozione”.(53)
E ancora, scriveva Gregotti:
La reale possibilità di servirsi dell’insegnamento storico consiste quindi
nella presa di coscienza dell’essenza della tradizione in cui operiamo e,
attraverso di essa, di ciò che noi riteniamo essere le direzioni di trasformazioni; nella capacità quindi di criticare le nostre intenzionalità, di partecipare aderendo dall’interno a quella particolare condizione storica
che è l’attualità. Questo comporta la concezione di uno spazio storico
non più prospettico, in cui il tempo non può essere concepito come una
successione uniforme, né la collocazione dei valori è già stabilmente
legata a qualche fatto immobile, ma piuttosto all’essere quel fenomeno
non solo definito da una particolare collocazione storica, ma anche al
ricordo dell’essere stato, alla eventualità del suo prossimo essere.(54)
Da queste parole emerge come Gregotti applicasse la tecnica del “récit morcelé”, proposto come pattern evolutivo e interattivo, in modo che il lettore – come
lo era stato lo spettatore negli spazi della Triennale – potesse scegliere le diverse strade da seguire, o perdersi nelle tante combinazioni del “caleidoscopio”. Si
trattava di un autentico transfert semantico e visuale tra un modo di concepire
lo spazio e gli oggetti che ne facevano parte, e un modo di comporre il racconto.
Le oscillazioni temporali e le trasfigurazioni spaziali dei prodotti industriali nel
numero della rivista dedicato al Design si intersecavano così con i livelli teorici e
ideologici della narrazione storica, quasi come un processo artistico meta-concettuale. Del resto, lo aveva colto anche Emilio Garroni, che spiegava, sempre
nel 1964, come la stessa nozione di “arte” allargata ad “arti” – o “plurale di arte”
– contenesse una molteplicità di significati, tali da non escludere altresì una
“sorta di singolare rispettosa violenza che è l’indagine storiografica”.(55)
(53)
Vittorio Gregotti, “La ricerca storica in architettura”, EM, 86
(1965), 4.
(54)
Gregotti, “La ricerca storica in architettura” cit., 5.
(55)
Emilio Garroni, La crisi semantica delle arti (Roma, Officina
Edizioni, 1964), 171.
59
DOI: 10.17401/studiericerche.5.2019-scodeller
D
a Designing for People
di Henry Dreyfuss al Design Thinking.
Il ruolo del design process
nella cultura del progetto
DARIO SCODELLER
Università degli Studi di Ferrara
Henry Dreyfuss e Designing for people. Antropometrie e psicometria al
servizio del progetto
Quando, nel 1955, viene pubblicato Designing for people, di Henry Dreyfuss,
l’industrial design americano ha da tempo superato la fase pionieristica e si
propone come strumento di mediazione tra i bisogni individuali e collettivi e la
complessità dei processi di produzione industriale.
A differenza del suo collega Raymond Loewy, che nel 1951 aveva affidato alle
pagine di Never leave well enough alone l’approfondita e seduttiva narrazione
della sua vita di progettista,(1) in Designing for people Dreyfuss alterna al racconto autobiografico precisazioni metodologiche, tese a rafforzare la considerazione dell’industrial design come disciplina dotata di fondamenti culturali e prassi
sedimentate in processi dalla consolidata efficacia.
Dopo venticinque anni di esperienza – afferma Dreyfuss – il suo studio professionale ha formulato un proprio modus operandi che viene applicato a ogni
problema di design, dagli oggetti ai mezzi di trasporto, e che si basa sulla presa
in esame di cinque punti fondamentali:(2)
1. Utility & Safety; 2. Maintenance; 3. Cost; 4. Sales Appeal; 5. Appearance.
Affrontando le questioni progettuali da diversi punti di vista, dall’usabilità del prodotto alla sua vendibilità, The five point formula permetteva, secondo Dreyfuss,
di analizzare e dare risposta a ogni problematica relativa alla concezione o al
redesign di un nuovo oggetto o dispositivo.
Appare evidente come in questo elenco le parole funzione e funzionalismo non
compaiano. Negli interrogativi retorici con cui Dreyfuss affronta il primo tema
(Is the telephone grip comfortable? Is the turn-off switch easy to find when the
alarm clock rings?) l’accento, più che su parole come funzione e funzionalismo, è su termini quali easy e comfortable, segnalando una evidente apertura a
quell’approccio human centrered design in cui l’astrazione oggettiva dello useful
è sostituita con l’attenzione alla soggettività dell’esperienza.(3)
Raymond Loewy, Never leave well enough alone (New York,
Simon and Schuster, 1951).
(2)
Henry Dreyfuss, Designing for people (New York, Allworth
Press, 2003), 178. Il libro di Dreyfuss fu pubblicato nel 1955
da Simon and Schuster e ripubblicato nel 1967 da Paragraphic
Books.
(3)
Se un inquadramento storiografico più ampio ci permetterebbe di rilevare come questo abbandono della prospettiva funzionalista rifletta una condizione comune tra design e architettura
rispetto alla “crisi del moderno” del secondo dopoguerra, tuttavia si ritiene qui di dover sottolineare come la filosofia dello
useful object e dello standard sia non solo data per scontata,
ma sostanzialmente superata dal design americano fin dalle
sue origini negli anni ’30, a favore di un approccio sperimentale
da un lato e marketing oriented dall’altro.
(1)
60
After the Second World War American design firms equipped their work process with design methodologies in order to ensure
its customers on the certainty of the result, against a professional status still being defined. During the 1960s and the 1970s the
debate about the scientific approach to design and the prevalence of the participatory dimension, intersect with the advent of
computer sciences, leading to a hybrid methodology.
The aim of this paper is to investigate the role of the design process in the history of culture and practice of the project in America
and Europe between the 1950s of the XXth Century and the first decade of 2000. As part of wider research work, a series of
survey directions and some results are proposed here, with the purpose of identifying in this theme a common ground of
comparison on the evolution of the disciplines of the project – between design and architecture – in the contemporary age.
Poiché “safety is a natural corollary to utility”,(4) le tematiche della sicurezza vengono affrontate dallo studio di Dreyfuss in modo integrato a quelle relative alle
modalità d’uso, facendo spesso riferimento – dichiara l’autore – alla ricca e codificata documentazione sviluppata dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori.
Il primo e secondo punto (Utility & Safety e Maintenance) si basano, dal punto di
vista metodologico, su un sofisticato strumento di verifica ergonomica elaborato
in diversi anni di ricerche e simboleggiato dai due “percentile anthropometrical
partners” Joe e Josephine. Qui l’approccio human centered viene presentato
come attenzione mirata a indagare i comportamenti delle persone e loro limiti operativi: “their anatomy, their pressure (mental and physical), their abilities
(and limitations) to see, ear, feel and reach during all kinds of activity and in all
sorts of environments”.(5) A differenza del Modulor e in particolare del Modulor 2
(che Le Corbusier pubblica in quello stesso 1955), le dimensioni del corpo umano vengono rappresentate diversificate per sesso (Joe and Josephine) e per età
(Male and Female Adults and Children): un oggetto prevalentemente utilizzato
da un pubblico femminile avrà perciò dimensioni differenti da uno utilizzato da
un pubblico maschile, mentre le dimensioni degli oggetti destinati all’infanzia
(come già aveva proposto Maria Montessori) avrebbero dovuto tenere conto del
progressivo modificarsi del corpo durante l’età evolutiva.
L’approccio antropometrico e psicometrico che Dreyfuss pone alla base del suo
modo di operare è illustrato in un atlante di tavole (pubblicate in forma completa
nell’edizione del 1967) che mostrano dettagliatamente il corpo dell’utente e il
campo d’azione dei suoi parametri cognitivi nell’interazione con diversi strumenti. In alcuni esempi lo studio ergonomico è focalizzato sulla prensilità della mano
o sull’articolazione del piede in relazione all’azionamento di specifici comandi.
In questo approccio parametrico si nota un forte tentativo di scientificizzazione
del processo progettuale, basato su dati e range d’utilizzo oggettivi, misurabili,
statisticamente verificati.
(4)
(5)
61
Dreyfuss, Designing for people, 179.
Dreyfuss, Designing for people, 265.
(6)
(7)
Lasciando per ora in sospeso la riposta alla domanda se si tratti di artifici retorici più che di strumenti concretamente utilizzabili per la progettazione, va
evidenziato come sia stato, in particolare, il lavoro svolto da Dreyfuss durante
il secondo conflitto mondiale, in collaborazione con l’esercito e con aziende
fornitrici di strumentazioni militari, a fornire le basi per un’evoluzione della progettazione nel senso sopra indicato. Questo lavoro di consulenza permette a
Dreyfuss l’accesso alla grande mole di dati antropometrici dell’U.S. Army e gli
consente anche di compiere esperienze e verifiche nell’ambito delle disabilità
dei reduci di guerra, con la creazione di protesi sviluppate con la Veterans
Administration. È la preoccupazione per una più efficace integrazione tra uomo
e equipaggiamento, tra uomo e nuovi dispositivi di rilevamento, che porta agli
studi sulla più efficiente interazione uomo-macchina che, assieme agli human
factors, creeranno le premesse per lo sviluppo dell’interaction design. Nel suo
lavoro per la Bell Company sugli apparecchi telefonici Dreyfuss si servirà, nel
secondo dopoguerra, di esperti di ergonomia cognitiva per migliorare la velocità di digitazione del numero sulla tastiera a disco da parte dell’utente.
Non viene trascurato neppure lo studio delle problematiche di scostamento
dallo standard antropometrico dei normodotati, prendendo in considerazione,
ad esempio, le persone obese e i loro limiti operativi in ambienti di lavoro, considerazione che indica una consapevolezza già matura sui temi oggi definiti di
design for all o design inclusivo.
Come Dreyfuss illustra nel capitolo How the designer works, i diagrammi antropometrici e gli studi ergonomici (Joe & Josephine) costituiscono la “lingua
comune” nel lavoro del teamwork progettuale sviluppato assieme alle figure
aziendali. “Once we are engaged – specifica Dreyfuss – we request a meeting
with the executive, engineering, production, advertising, promotion, sales, and
distribution departments to learn their desires, expectations, ideas, and limitations”.(6) Il design process, inteso come un lento lavoro di analisi di problematiche e di successiva sintesi tra le posizioni dei diversi comparti aziendali ritrova,
nella schematica scientificità del dato antropometrico, il denominatore comune
(al progettista e al committente) in grado di verificare la validità delle scelte progettuali nei diversi passaggi di formalizzazione (arranging and rearranging) che
vanno dal disegno preliminare alla costruzione di modelli di studio e definitivi.
Design process che, nella concezione di Dreyfuss è “a cooperative undertaking
in which a group of partners work toward a common goal […]”.(7)
Anche la distinzione che Dreyfuss opera tra Sales appeal e appearance rivela una chiara impostazione metodologica, che vuole separati lo studio delle
qualità intrinseche (espresse “through unity of design”) da quelle comunicati-
Dreyfuss, Designing for people, 44.
Dreyfuss, Designing for people, 48.
62
4.1
Henry Dreyfuss. Humen factors.
Da Designing for people, 1955, pp. 42-43
4.1
ve. Questa duplice configurazione del prodotto impone al progetto una doppia
valenza: una “gestaltica”, indirizzata a tradurre correttamente i valori qualitativi
in realtà sensibile e una simbolica, il cui scopo è il suo inserimento in un immaginario attraverso il circuito dei media che, a metà anni cinquanta, comprende
già la televisione.
Risulta più facile, dopo questa descrizione, rispondere parzialmente alla domanda se l’operazione proposta da Dreyfuss corrisponda a una vera affermazione del valore metodologico del processo progettuale o piuttosto a una
sua costruzione retorica. Nella fase di maturità della professione di designer
in America, il libro di Dreyfuss può infatti essere letto anche come una accurata operazione di marketing professionale, in cui l’accento sugli aspetti metodologici costituisce, assieme alla narrazione autobiografica, una delle leve
su cui agisce la persuasione nei confronti del potenziale cliente dello studio;
nell’economia narrativa del libro, la descrizione della metodologia progettuale
rassicura sull’efficacia del processo che la Dreyfuss Associated (e in senso lato
la SID: Society of Industrial Designers) è in grado di garantire a fronte di ingenti
investimenti necessari per l’industrializzazione di un prodotto.
Walter Gropius e l’architettura integrata. La ricerca di un’unità di metodo
Il 1955 è anche l’anno in cui esce negli Stati Uniti Scope of Total Architecture di
Walter Gropius, tradotto tre anni più tardi in Italia con il titolo più significativo di
Architettura integrata. Nel terzo capitolo del libro Gropius riprende un tema trattato
63
nel 1947 sul Magazine of Arts:(8) Esiste una scienza della composizione? “Se riusciremo a fissare una base comune per intendere la composizione – scriveva Gropius
– se riusciremo, attraverso ricerche obiettive piuttosto che fondarci su intuizioni
personali, a trovare un denominatore comune, questo dovrebbe potersi applicare a
qualsiasi forma di composizione; poiché i processi di comporre un grande edificio o
una semplice sedia, differiscono solo nel grado, non nella sostanza”.(9)
Tolta dallo slogan in cui è il più delle volte stata confinata, la celebre affermazione di Gropius chiarisce il suo voler intendere, più che l’estensione di campo
della disciplina, l’unità di metodo alle diverse scale del progetto. Tema caro negli
stessi anni, in Italia, a Ernesto Nathan Rogers. Più avanti Gropius chiarisce il
suo pensiero facendo riferimento agli studi sulle sensazioni compiuti da Earl C.
Kelley dell’Università del Wayne, in collaborazione col Darmouth Eye Institute
di Hannover (New Hampshire). Esiste per Gropius la necessità di una “educazione al reale” che tenga conto di come le nostre sensazioni siano percezioni
elaborate culturalmente, in base alla storia personale e collettiva: noi vediamo
ciò che sappiamo. Un’educazione al comporre dovrebbe dunque basarsi sulla
consapevolezza, da parte del progettista, dei fenomeni illusori della percezione
(principalmente le illusioni ottiche), delle reazioni subconscie o riflessi condizionati, dell’influenza psicologica delle forme e dei colori, di nozioni che permettano
di considerare relazioni di distanza, di spazio e di tempo, che prefigurano un
approccio prossemico ai problemi del progetto.
“È questo il compito dell’educazione: – afferma Gropius – insegnare ciò che influenza la psiche umana in termini di luce, scala, spazio, forma e colore. Espressioni vaghe come l’atmosfera di un edificio’, oppure ‘il calore di una stanza’
dovrebbero essere definite con precisione, e in termini specifici. Chi compone
deve imparare a vedere: deve conoscere gli effetti delle illusioni ottiche, le influenze psicologiche delle ombre, dei colori, e delle tessiture edilizie; gli effetti di
contrasto, direzione, tensione e riposo; e deve imparare a tenere fermo il valore
della scala umana”.(10)
Oltre alle esperienze del Bauhaus, Gropius cita, come precursori di questa ricerca di base sulle metodologie progettuale, le opere di Lazlo Moholy-Nagy (La
nuova visione e Visione in movimento), Josef Albers (Linguaggio della visione)
e il Modulor di Le Corbusier. Per quanto Gropius non ne ricavi, nello sviluppo
dei temi del capitolo, elementi significativi per la formulazione di una esplicita
metodologia progettuale, ha chiaro come solamente in una “chiave” ottica possa
essere trovato il comune denominatore oggettivo della pratica compositiva. In
bilico tra idealismo e Gestaltpsychologie, deve riconoscere che, se intuizione e
creatività sono sempre alla base di ogni “arte profonda”, “una chiave ottica assi-
Nella versione originale: “Is There a Science of Design?”;
Walter Gropius, “Design Topics”, Magazine of Art, XL (dicembre
1947), 298-300.
(9)
Walter Gropius, The Scope of Total Architecture (New York,
Harper & Brothers, 1955) trad. it. Architettura integrata (Milano,
Il Saggiatore, 1955) ed. consultata 2010, p. 39.
(10)
Gropius, Architettura integrata, 44.
(8)
64
curerebbe una base oggettiva come requisito preliminare per una comprensione generale e varrebbe come fattore di controllo all’interno dell’atto creativo”.(11)
Come ha fatto notare Ezio Bonfanti, Gropius, nel sostenere il mito del Bauhaus
anche attraverso efficaci procedimenti linguistici, ha alimentato “l’illusione di una
metodologia del design che su fondamenti «scientifici» risolverebbe senza apriorismi formali il rapporto bisogno-risposta […]”.(12) Nell’argomentare la sua critica, Bonfanti ricorda una questione assai utile per i nostri ragionamenti, ovvero
che, quando nel 1928 Hannes Meyer subentra a Gropius a Dessau, introduce
tra gli insegnamenti del Bauhaus la psicologia della gestalt. E due anni dopo –
sottolinea Bonfanti per dimostrare come Gropius rielabori idee altrui – Meyer,
nella lettera di licenziamento diretta al borgomastro di Dessau, Meyer scriveva
che “[…] assieme ci sforzammo di attenerci alla sola realtà che può essere
padroneggiata: quella misurabile, visibile, ponderabile. Il mio fine era quello di
fondare il design su di una base scientifica”.(13)
Ulteriore dimostrazione, sia sul un piano epistemologico che su quello storico, di
come tra l’impostazione metodologica dell’industrial design di Dreyfuss e quella
funzionalista europea non vi fosse un’enorme distanza.
Il dibattito sui Design Methods negli anni ’60
Nella sua comunicazione al convegno Design Plus Research, tenutosi al Politecnico di Milano nel maggio 2000, Nigel Cross, uno dei pionieri nello studio del
Computer Aided Design e figura chiave della Design Research Society, indicava
tre importanti punti di saldatura avvenuti negli anni sessanta tra la pratica del
design e un approccio metodologico teso alla “scientificizzazione” della disciplina.(14) Il primo punto andava individuato – secondo Cross – nelle conferenze
promosse nel corso degli anni sessanta dal Design methods movement (e in
particolare nel convegno londinese del 1962 all’Imperial College), tese a indirizzare la pratica del design verso un design process dotato di strumenti oggettivi
e razionali, riflesso dell’importanza assunta da discipline come il design management e dal suo corollario di tecniche di decision making. Il secondo punto
riguardava l’influenza – sempre negli anni sessanta – dei radical technologists
come Buckminster Fuller, che richiamavano a una “design science revolution”
in grado di permettere all’umanità di affrontare il già allora ampiamente previsto
impatto con i problemi ambientali. Infine il contributo dato da Herbert Simon
nell’introdurre, all’interno delle università, una “scienza del design.”
Analizzando gli atti di questi convegni alla luce della nostra riflessione, è significativo osservare come essi tendessero a coinvolgere trasversalmente le
discipline del design e dell’architettura.
Gropius, Architettura integrata, 57.
Ezio Bonfanti, “Gropius e il ‘Bauhaus virtuale’”, Controspazio (aprile-maggio 1970), 80.
(13)
Ezio Bonfanti, “Gropius e il ‘Bauhaus virtuale’”, Controspazio (aprile-maggio 1970), 80-81.
(14)
Nigel Cross, “Designerly Ways of Knowing: Design Discipline Versus Design Science”, Design Issues 17, 3 (summer 2001), 49-55. https://www.mitpressjournals.org/doi/abs/10.1162/074793601750357196?journalCode=desi
(11)
(12)
65
Nella Conference on Design methods, tenutasi a Londra nel 1962, ad
esempio, gli interventi spaziavano da quello di A. H. Lucas, Some Experiences of Structural Analysis with the Aid of an Electronic Digital Computer,
a quello di D. G. Thornley, curatore del convegno, docente di architettura
alla Manchester University e visiting lecturer alla Hochschule für Gestaltung
di Ulm, su Design Method in Architectural Education, che presentava A Systematic Method for the Teaching of Architecture, una metodologia utilizzata nella scuola di architettura di Manchester e nelle scuole di architettura
della Germania Ovest, come processo razionale di progettazione teso a
facilitare l’insegnamento e a migliorare il metodo di progettazione applicato
all’architettura.(15)
Dopo il convegno di Birmingham del 1965, dedicato sempre a The Design
Method, curato da Sydney A. Gregory per conto del Design and Innovation
Group dell’Università di Aston,(16) a Porthsmouth viene organizzato nel 1967
il convegno Design Methods in Architecture. Nella prefazione agli atti, i curatori Geoffrey Broadbent, direttore della Scuola di Architettura di Portsmouth e
Anthony Ward,(17) prendono le distanze dall’impostazione dei due precedenti
convegni, segnalando come il metodo di progettazione abbia in quei contesti
significato principalmente la traduzione di tecniche dalla Ricerca Operativa
(OR) nel campo del design, spesso a scapito di ciò che era la vera intenzione
del progettista. Sebbene il design in architettura abbia molto da imparare da
questo approccio – affermano i curatori – la progettazione architettonica va
considerata in modo differente da altri tipi di design, perché più complessa e
perché si occupa di questioni ambientali. Il convegno di Portsmouth era dunque destinato a segnare l’inizio di una nuova fase di riflessione nei confronti
dei metodi di progettazione architettonica.
Il problema, in sostanza, era quello di una disciplina che sentiva come il
confronto aperto con le metodologie delle discipline ingegneristiche da un
4.2
Copertina della prima Conference on design methods.
Londra 1962
4.3
Morris Asimov, Introduction to Design, In Conference on
Systematic and Intuitive Methods in Engineering,
Industrial Design, Architecture and Communications,
London, September 1962,
Pergamon Press, London 1963, 86.
Diagramma di flusso bidimensionale del design process:analisi, sintesi dei design concepts, valutazione di fattibilità,
ottimizzazione, revisione e comunicazione
(15)
John Christopher Jones, D.G. Thornley (a cura di), Conference on design methods (Oxford-London-New York-Paris,
Pergamon Press, 1963), 37.
(16)
Sydney A. Gregory (a cura di), The design method (London,
Butterworths, 1966).
(17)
Goffrey Broadbent, Anthony Ward, Design Methods in Architecture (London, Lund Humphries – Architectural society,
1969).
66
4.4
Ronald D. Watts, The elements of design, In The Design
method, London 1966, 94
4.2 - 4.4
lato (in campo industriale centrate sulla progettazione sistemica), e con gli
strumenti analitici delle scienze sociali e delle tecnologie informatiche dall’altro, tendesse ad affievolire il carattere sintetico (umanistico) dell’architettura.
Ma tornando alla questione del metodo “It should be emphasized – avvertiva Thornley nel convegno del 1962 – that this ‘method’ was intended
originally as a teaching device and that its first objective was, therefore, to
produce designers rather than designs. This distinction is important as it
has had considerable influence on the form which the ‘method’ has taken
and while its introduction has in fact led to a great improvement in the
standard of work produced, it is the possibility of building an improved educational system round the ‘method’ which appears to hold most promise
for the future.”
Scientificizzazione del progetto e insegnamento: tra Fuller e Simon
Un chiarimento sulla relazione tra gli aspetti metodologici relativi all’insegnamento e quelli relativi alla professione viene, nel 1965, dalla pubblicazione negli Stati
Uniti del World Design Decade 1965-1975. Con il programmatico sottotitolo Five
Two Years Phases of a World Retooling Design Proposed to the International
Union of Architects for adoption by World Architectural Schools, il documento
apre nuove prospettive per un ruolo attivo del progetto in chiave scientifica e
ambientale e sottolinea l’importanza della trasformazione del suo insegnamento.
Il progetto era basato su una originaria proposta di Richard Buckminster Ful67
ler all’International Union of Architects (I.U.A.) al suo VII congresso a Londra,
nel luglio 1961. Il problema ambientale viene messo al centro del programma. La proposta era che le scuole di architettura di tutto il mondo fossero
sostenute e incoraggiate dall’I.U.A. a dedicare il decennio 1965-1975 a risolvere il problema di come rendere utilizzabili a tutta la popolazione mondiale
le risorse allora disponibili al solo 40% (risorse in diminuzione pro-capite
a causa dell’esponenziale aumento demografico previsto). I documenti del
report suggerivano azioni attraverso le quali le scuole di architettura si facessero portavoce di una Design Science Decade.
Nonostante consideriamo la nostra come l’Età della Scienza – scriveva
Buckminster Fuller nel 1963 – l’approccio scientifico non è impiegato nel
miglioramento dell’habitat quotidiano: “[…] no scientists has ever been retained, or hired professionally, to consider the scientific design of the home
of man: – to consider objectively the ecological pattern of man; – to design
ways of employing the highest scientific potential, towards helping man to
be a success on earth […]”(18) Basata su una concezione di riforma umana
e ambientale che Bukminster Fuller elabora fin dal 1927, la Design initiative
si basa sullo studio su base statistica delle risorse disponibili sul pianeta
e sulla coerente pianificazione degli interventi atti a garantire a tutta l’umanità la diponibilità di strumenti fisici e di conoscenza per operare tale
trasformazione a livello globale. Questa visione apre nuove prospettive per
il progetto: “Employing ourselves, taking the initiative – afferma Fuller – it
is quite possible for us to consider, at least theoretically, and to plan in all
important ways the redesigning of the use of the world’s total resources in
order to employ those resouces, – by comprehensive, anticipatory, design
science, – in such a manner that 100%, rather than the present minority of
44% of humanity can enjoy higher physical success than any man now or
before us have ever known”.(19)
Anche la proposta di cambiamento di prospettiva del celebre Design for the
real world di Victor Papenek, diventa più comprensibile alla luce di questo
contesto che ne precorre lo sviluppo delle idee. Meno indagato è invece
l’impatto che questa prospettiva ebbe sul radical italiano, anche se i documenti della Global Tools del 1973, a loro volta riferibili agli indirizzi sottesi
all’Earth Whole Catalog,(20) sono in più punti riferibili a questi scenari.
L’inserimento delle discipline del progetto nell’ambito delle Scienze dell’artificiale è uno degli obiettivi principali del lavoro che, negli anni sessanta
del Novecento, studiosi come Herbert A. Simon, hanno compiuto per chiarire e definire il ruolo della conoscenza scientifica nella soluzione creativa
(18)
Richard Buckminster Fuller, Inventory of resources. Human
trends and needs. World Resources Inventory (Carbondale-Illinois, Southern Illinois University, 1963), 10.
(19)
Buckminster Fuller, Inventory of resources. Human trends
and needs. World Resources Inventory, 16.
(20)
Andrew G. Kirk, Counterculture Green. The Whole Earth
Catalog and the American Environementalism (Kansas, UP of
Kansasm Lawrence, 2007).
68
4.5 - 4.6
di problemi progettuali. Herbert Simon è riconosciuto come uno dei fondatori delle Computer Sciences, del cognitivismo e del decision making.
Fin dal celebre studio General Problem Solver Program, del 1959, Simon
assegna un ruolo particolare all’euristica nella ricerca sulle strategie di
problem solving. Secondo Simon (premio Turing nel 1975 e Nobel per
l’economia nel 1978) le discipline ingegneristiche, progettuali ed economiche, sono accomunate da un carattere progettuale: esse dovrebbero
perciò strutturarsi, per guadagnare credibilità, con sempre maggiori competenze di tipo scientifico. “Design, on the other hand, is concerned with
how things ought to be, with devising artifacts to attain goals. We might
question whether the forms of reasoning that are appropriate to natural
science are suitable also for design”.(21)
L’avvento delle computer sciences e dell’uso dell’elaboratore elettronico nel
campo del progetto, apre una questione colta polemicamente da Victor Papenek. Sottolineando come la relazione tra architettura e disegno industriale
nell’America degli anni sessanta abbia ridotto la progettazione ad un assemblaggio di oggetti ricavati da librerie di elementi preconfezionati progettati da industrial designer, Papenek prefigura una condizione di autonomia
del computer nella progettazione in virtù delle possibilità di configurazione
parametrica. “Che cos’è l’architetto contemporaneo se non un grande coordinatore di elementi. – si chiedeva nel 1970 in Design for the real world – Accanto a lui c’è «Sweet’s Catalogue» coi 26 volumi rilegati che elencano gran
parte degli elementi costruttivi. Con questo armamentario l’architetto mette
insieme un puzzle chiamato «casa» o «scuola». […] Niente di più facile che
alcuni dei maggiori studi di architetti, con bilanci che consentono loro l’impiego di calcolatori elettronici, 1401-1410 si limitino a riempire il computer di
tutte le pagine di «Sweet’s» e dei requisiti economici e ambientali del lavoro,
e lascino che il calcolatore progetti l’edificio.”(22)
4.5
Richard Buckminster Fuller. Previsione del “critical point” del
1972 nel processo di industrializzazione mondiale, 1952
4.6
A. Richard Buckminster Fuller. Copertina dell’Inventory of
world resources, 1963
Herbert A. Simon, The Sciences of the artificial (Cambridge-London, MIT Press, 1969) ed. consultata 2010, p. 114.
(22)
Victor Papenek, Design for the real world: human ecology
and social changes (Toronto, Bantam, 1971) trad. it. Progettare
per il mondo reale (Milano, Mondadori, 1973), ed. consultata
1973, p. 166.
(21)
69
In Italia il contributo di Bruno Munari alla definizione metodologica del
design
Nel campo della cultura italiana del design, l’eredità questo dibattito degli anni
sessanta è proficuamente raccolta da Bruno Munari. Introducendo nel 1968 il
suo Design e comunicazione visiva (dal significativo sottotitolo contributo a una
metodologia didattica), Munari chiariva come l’esperienza americana fosse alla
base della sua proposta metodologica. “Gli studenti di questo corso erano di
origine diversa – scrive Munari – e probabilmente, ciò che era bello per un
brasiliano poteva non esserlo anche per un cinese; mentre, dato un principio
formatore uguale per tutti, si poteva controllare e capire se la soluzione era
giusta o sbagliata. Il concetto di bellezza veniva così sostituito da quello di
coerenza formale”.(23)
Il libro, com’è noto, era la sistematizzazione delle lezioni da lui tenute al Carpenter Center for the Visual Arts presso la Graduate School of Design di Harvard a Cambridge, nel Massachusetts tra febbraio e maggio 1967. Munari venne invitato da Mirko Basaldella, direttore dal 1957 al 1969 (dopo Costantino
Nivola)(24) del Design Workshop.
L’approccio viene riproposto da Munari in Da cosa nasce cosa, edito nel 1981
che, nel sottotitolo Appunti per una metodologia progettuale, riprendeva quello
del ’68 estendendolo, dall’insegnamento, alla prassi progettuale. È in questo
testo che viene proposto il celebre schema del design process munariano, nel
quale la creatività, come atto generativo della soluzione progettuale, è collocata non all’inizio, ma nel punto intermedio del processo.
“Sulla metodologia progettuale – premetteva Munari al capitolo Che cos’è un
problema – ci sono diversi testi che sono stati pubblicati soprattutto per i progettisti tecnici, alcuni testi sono applicabili anche al design, cioè a quel tipo di
progettazione che considera anche la componente estetica del prodotto”.(25)
I testi che Munari elenca sono Morris Asimov, Principi di progettazione; Sydney
A. Gregory, Progettazione razionale; John Christopher Jones, Un metodo di
progettazione sistematica; Bruce Archer, Metodo sistematico per i progettisti;
tutti editi in Italia dall’editore Marsilio tra il 1967 e il 1970. Risulta evidente,
scorrendo i titoli e gli autori di questi testi, riproposti da Munari anche nella
bibliografia generale, come la metodologia che egli propone sia frutto del dibattito e della letteratura degli anni sessanta, poiché il Gregory di Progettazione
razionale è il medesimo di The Design Method del 1965, John Christopher
Jones di Un metodo di progettazione sistematica è il medesimo della Conference on design methods del 1962. L’esigenza di definizione di una metodologia progettuale andava per Munari nella direzione di una legittimazione dello
(23)
Bruno Munari, Design e comunicazione visiva (Bari, Laterza, 1968), 5.
(24)
Kevin McManus, Italiani a Harvard. Costantino Nivola, Mirko
Basaldella e il Design Workshop (1954-1970) (Milano, Franco
Angeli, 2015).
(25)
Bruno Munari, Da cosa nasce cosa (Roma-Bari, Laterza,
1981) ed. consultata 1985, p. 35.
70
statuto professionale del designer; considerando la diffusione che il testo e la
metodologia munariana ebbero negli anni in cui vennero attivati i primi corsi
universitari di disegno industriale, sarebbe utile un approfondimento su quanta
parte della cultura e del dibattito anglosassone e nord americano siano stati
trasferiti all’interno della metodologia progettuale italiana.(26)
Dal partecipatory design degli anni ’70 al design thinking come
metodologia ibrida
Se gli anni settanta sono apparentemente un decennio di rifiuto dell’impostazione metodologica e scientifica del progetto, va ricordato che è in quel periodo
che viene promosso il ricorso a quella dimensione partecipata del progetto che
ha oggi tanta parte nella filosofia del design thinking.
Nel 1971 Nigel Cross aveva coordinato a Manchester il convegno Partecipatory design,(27) con relazioni come quelle di Nicolas Negroponte, sulle relazioni
tra hardware ambientale e software informatico per raggiungere un’architettura inclusiva, e Yona Friedman su Information Processes for Participatory
Design. Il convegno era promosso dalla Design Research Society allo scopo
di esplorare le possibilità e i problemi della partecipazione dell’utente (user
partecipation) nei processi di progetto e pianificazione sociale e urbana. La
dimensione tecnologica è vista come fortemente legata a quella partecipativa,
come strumento a disposizione di tutti in grado di disintermediare la cultura ufficiale. Nella prospettiva della counter-culture americana, resa poi operativa negli Homebrew computer club californiani di metà anni settanta,(28) l’autonomia
tecnologica (in particolare quella informatica) corrispondeva alla possibilità di
costruirsi dei processi educativi e di accesso alla conoscenza autonomi, senza
intermediazione della cultura “ufficiale”. Negli atti si può leggere un intervento
di Reyner Banham dal titolo Alternative Networks for the alternative culture?,
che segnala come nel The Whole Earth Catalogue, “you discover that there
are some beautiful people who can use technology”,(29) anticipando di trent’anni
ciò che Steve Jobs avrebbe detto nel celebre discorso di Stanford del 2005,
riguardo al ruolo precursore della rivista fondata da Stewart Brand rispetto alla
filosofia di Internet.
Cross, che fu nel 1979 uno tra i primi editors di Design Studies, oggi è un sostenitore del design thinking process, a testimonianza della linea di continuità
nel percorso che stiamo cercando di tracciare.
Nel campo dell’architettura un testo chiarificatore è Design Thinking, scritto
nel 1987 da Peter Rowe che sarà, dal 1992 al 2004, il direttore della Graduate
School of Design di Harvard, dopo aver guidato lo Urban Planning and Design
Si tratta, com’è evidente, poco più che di una traccia, che
meriterebbe di essere approfondita con lo studio del contributo
nel campo dei sistemi e delle metodologie del design di figure
come Alberto Rosselli e Marco Zanuso, soprattutto nel dibattito
sviluppatosi tra gli anni cinquanta e sessanta nella rivista Stile
Industria.
(27)
Nigel Cross (a cura di), Design Partecipation, Proceedings of the Design Research Society’s Conference Manchester,
September 1971 (London, Academy editions, 1971).
(28)
John Markoff, What the dormouse said. How the Sixties
Counter-culture Shaped the Personal Computer Industry (New
York, Penguin Books, 2005).
(29)
Cross, Design Partecipation, 15.
(26)
71
Department. Nella premessa al volume Rowe dichiara il debito nei confronti di
Simon e del decision making. Nel sostenere come il progetto sia una forma pratica di indagine sulla realtà (a practical form of inquiry),(30) afferma l’autore “I am
concerned with the interior situational logic and the decision-making process
of designers in action, as well as with theoretical dimensions that both account
for and inform this kind of understanding”.(31) Va nuovamente richiamata l’attenzione sulla relazione tra metodologia e didattica, perché il libro di Rowe nasce
da una serie di lezioni per i corsi di dottorato in architettura tenuti alla Penn
University. Perciò la prima preoccupazione di Rowe è quella di identificare,
al di sotto della varietà di modus operandi dei progettisti, un terreno comune
di procedimenti di indagine e gestione delle informazioni. Nel definire i “procedural aspects” del Design Thinking, Rowe afferma come l’aspetto creativo
dell’attività progettuale sia spesso il frutto di una razionalità limitata (“bounded
rationality”) che ne condiziona, per difetto d’informazioni, gli esiti verso soluzioni non ottimali.
Affrontando criticamente l’approccio problem solving (dando per scontato che
il progetto sia qualcosa di più di un problema da risolvere) Rowe individua
tre tipi di approcci a tre differenti tipi di problemi: “well defined”, “ill defined” e
“wicked problems”. In seguito – ed è l’aspetto forse ancora di grande interesse
– l’autore, dopo aver illustrato le formulazioni teoretiche, dei primi decenni del
Novecento, dall’associazionismo alla Würzburg school, dal Gestalt Movement
al behaviorismo e descritto i modelli di problem solving di Morris Asimov e della
Hochschule di Ulm, affronta estesamente la questione della relazione tra problem solving, cognitivismo e teoria dell’elaborazione delle informazioni.
Un tipo di percorso di ricostruzione storico-critica delle intersezioni delle teorie
del progetto con le teorie della conoscenza che sarebbe utile riproporre oggi
anche nel campo del design (product, visual, interior, ecc.); un’opera di storicizzazione e collocazione critica del Design Thinking permetterebbe infatti,
soprattutto nell’ambito dell’advanced design, – dove tale metodologia è ampiamente, quanto spesso acriticamente, adottata – di avere maggiore consapevolezza della complessità delle radici culturali da cui origina.
Da un punto di vista storico le origini del Design thinking process vanno collocate nell’insegnamento di John E. Arnold all’università di Stanford alla fine degli
anni cinquanta.
Arnold, laureato in psicologia e ingegneria, con una lunga esperienza come
designer, inizia a insegnare nelle Schools of Business and Mechanical Engineering di Stanford nel 1957, dopo oltre un decennio di insegnamento al MIT,
dove aveva fondato un Creative Engineering Laboratory.
Per capire quanto questo tipo di posizione non sia del tutto
distante da quelle italiane di ieri e di oggi, trovo significativo
riportare queste testimonianze dirette: durante il convegno SID
(Società italiana design) di Ferrara, nel 2016, Tonino Paris ha
ricordato come il suo maestro Ludovico Quaroni ribadisse agli
strumenti che “il progetto è uno strumento di conoscenza” e
durante un incontro all’Università di San Marino, nel 2007,
Carlo Magnani, allora Rettore dell’Università IUAV di Venezia
ribadiva che “Il progetto deve ritornare ad essere strumento di
indagine critica della realtà”.
(31)
Peter G. Rowe, Design Thinking (Cambridge-Massachusetts, MIT Press, 1987), 2.
(30)
72
A partire dall’anno accademico 1958-1959 introduce corsi come Philosophy
of Design, Human Factors in Design e Comprehensive Design, un seminario
di discussione, affiancato da esperienze concrete di progettazione, orientato
alla risoluzione di realistici e complessi problemi ingegneristici, nei quali proponeva un’integrazione tra immaginazione e approccio analitico, concependo il “processo creativo” e la sua componente immaginativa come un particolare tipo di metodologia di problem solving per i problemi di engineering
design. Sua è anche l’introduzione, nel 1960, di un innovativo corso dal titolo
How to ask a question, che mette in evidenza come il problem finding fosse
già da lui considerato più importante del problem solving.
Dopo la prematura scomparsa nel 1963, la sua eredità di sintesi tra aspetti
umanistici e tecnologici viene raccolta dai teorici dello Human centered design,
che trae notevole sviluppo a partire dagli anni ottanta dalla progettazione dei
sistemi di UX interface.(32)
È questo il momento in cui, anche in architettura, si salda nel Computer Aided
Design in tutte le sue forme e applicazioni, quella relazione tra scienza (in particolare Computer sciences) e progetto proposta e ricercata da due decenni.
Agli inizi degli anni novanta del Novecento, incominciano a essere utilizzati
nell’architectural design (come transfer tecnologico dall’ingegneria aerospaziale), software di design parametrico come CATIA, che permettono
di controllare il disegno di superfici curve sulla base di equazioni matematiche, mettendo in relazione il progetto del rivestimento (inteso come un
processo di industrial design) con quello strutturale. È Frank Gehry, com’è
noto, uno dei primi a realizzare un progetto in questo modo per le Olimpiadi di Barcellona del 1992(33) e se questo nuovo modello di design process abbia aperto, oltre a una più esaltante prospettiva di ricerca formale,
qualche innovazione sul piano dell’interpretazione dei bisogni individuali o
sociali è una domanda a cui gli storici dell’architettura dovranno prima o
poi cercare di rispondere.(34)
Ma l’aided design, anche nella sua ibridazione con i media digitali – sottolineata da Lev Manovich in Software takes command,(35) che fa emergere il contributo delle tecniche di simulazione del reale sviluppate nel progetto del cinema
d’animazione e nei videogiochi – lascia ancora scoperti due punti fondamentali necessari a garantire l’efficacia del processo progettuale: la corretta analisi e
interpretazione dei bisogni e la condivisione del processo da parte del cliente.
A Stanford nella scuola di design fondata da Arnold, dopo alcuni anni di lavoro
come ingegnere alla Boeing, si laurea nel Master in design e inizia a insegnare
nel 1978 David Kelly che, nel 1991, sarà tra i fondatori dello studio di progetta-
Donald A. Norman, Stephen W. Draper, Centered System
Design: New Perspectives on Human–Computer Interaction
(Mahwah, Lawrence Erlbaum Associates, 1986).
(33)
Lindesy Bruce, Gehry digitale. Resistenza materiale, costruzione digitale (Roma, Universale di Architettura Testo &
Immagine, 2001).
(34)
Un’interessante operazione in tal senso è il progetto di ricerca del CCA di Montréal tradotto nella mostra del 2013 “Archaeology of the Digital” al Centre Canadien d’Architecture di
Montreal.
(35)
Lev Manovich, Software takes command (Creative Commons Attribution, 2008). http://softwarestudies.com/softbook/
manovich_softbook_11_20_2008.pdfz (ultimo accesso: novembre 2018).
(32)
73
4.7
D.D. O’Brien. Design and evaluation methods. In Design
science: method. Proceedings of the 1980 Design Research
Society Conference Westbury House, Guildford, Surrey,
1981, 277.
Unconventional design meetings, combine features of
different forms of meeting: briefings, presentations,
fact-finding events, workshops etc. They assist in the
creation of a cohesive, well-directed team. They enable
decisions to be taken which are better tuned to requirements
than those taken at conventional meetings
zione IDEO: il primo a esplicitare l’adozione del Design thinking nel processo
progettuale legato al product industrial design.
Il Design thinking process è una metodologia progettuale UCD (Human Centered Design), basata su fasi più o meno codificate, il cui scopo dichiarato è
quello di permettere di individuare i reali bisogni dell’utente, mentre quello celato, ma forse più significativo, è nel permettere la gestione del processo decisionale in teamworking, facendo dialogare (e mettendo d’accordo) i progettisti
con il management e il cliente. Il riconoscimento della centralità del design
come metodologia ideativa di prefigurazione di scenari (advanced design)
e contemporaneamente di gestione del processo progettuale aziendale, è
testimoniata dal fatto che la metodologia del Design thinking è oggi insegnata
anche nei Master universitari in Economia, all’interno dei corsi di Design and
Innovation Management, poiché il design viene considerato come una delle
competenze centrali in molti settori di produzione manifatturiera e di servizi.
L’articolata raccolta di metodologie Advanced design methods for successful
74
4.8
D.D. O’Brien. Design and evaluation methods. In Design:
science: method, Proceedings of the 1980 Design Research
Society Conference Westbury House, Guildford, Surrey, 1981,
280.
Unconventional design meetings
4.9
William J. Mitchell, Experiments with participation oriented
computer systems. In Design participation. Proceedings of the
Design Research Society’s Conference Manchester, September 1971, Academy Editions, London 1971, 75
4.7 - 4.9
innovation Recent methods from design research and design consultancy in
the Netherlands,(36) chiarisce come il coinvolgimento dell’utente nel processo
progettuale si basi su quattro modalità: design partecipativo, progettazione basata su scenari, design dell’esperienza e design per l’usabilità.
Poiché gli utenti sono diversi dai designer nel modo di concepire nuovi prodotti
e servizi, essi spesso non sono consapevoli di quello che stanno cercando. È
necessario, perciò, trovare strumenti per far lavorare gli utenti partecipanti al
progetto assieme ai progettisti.
Strumenti di presunta centralità dell’utente che, come ha segnalato recentemente
Donald Norman, appaiono quanto meno illusori, se non addirittura fuorvianti. È
che a farlo sia uno dei fondatori della metodologia dello UXD, appare significativo.
Perché, se c’è un ruolo a cui il progettista non può abdicare, è quello di interprete dei bisogni, di indagatore della loro dimensione comune e democratica, senza rinunciare a una propria volontà estetica. Come sottolineava Henry
Dreyfuss “il designer è un artista della democrazia”.
Cees de Bont, Elke den Ouden, Rick Schifferstein, Frido
Smulders, Mascha van der Voort (a cura di), Advanced design
methods for successful innovation. Recent methods from design research and design consultancy in the Netherlands (Den
Haag, Design United, 2013).
(36)
75
DOI: 10.17401/studiericerche.5.2019-gavello
Gli diensembles
mobilier
Alberto Sartoris e
l’integrazione delle arti (1925-1953)
CINZIA GAVELLO
Politecnico di Torino
Se le assonometrie e i progetti realizzati da Alberto Sartoris a partire dal 1920
sono stati ampiamente descritti e pubblicati dalla letteratura esistente,(1) poco
indagato è invece il suo contributo alla cultura del design e, in particolar modo,
all’arredamento di interni. Lo studio dei temi legati allo sviluppo del cosiddetto
ensemble mobilier è reso possibile grazie all’analisi dei disegni e degli elaborati
progettuali custoditi presso gli Archives de la construction moderne dell’École
Polytechnique Fédérale de Lausanne: i documenti conservati all’interno del
Fonds Sartoris costituiscono un corpus di estremo interesse, a partire dai primi
progetti di mobili per uno studio d’artista a Torino del 1925, dalla poltroncina in
tubolare in acciaio policromo realizzata nel 1927, giungendo ai meno noti meuble combiné pour médecin-dentiste del 1931 o agli ensembles mobilier realizzati
per il poeta Henri Ferrare a Ginevra del 1930, per il pittore Baldo Guberti, sempre a Ginevra, del 1932 e per il poeta Paul Budry a Cully, in Svizzera, del 1940.(2)
L’arredamento degli interni costituisce un vero e proprio capitolo ben definito
della carriera di Sartoris e, al tempo stesso, si mantiene strettamente interrelato alle sue riflessioni sull’organismo architettonico nell’arco di tutta la sua lunga
attività, sia professionale che accademica.
Alcuni progetti di arredo realizzati da Sartoris a partire dal 1925 mostrano
un’implicita influenza futurista, osservando ad esempio le opere di Antonio
Sant’Elia, Enrico Prampolini, Luigi Colombo (meglio noto come Fillìa) o Nicolay
Diulgheroff, altri invece denunciano apertamente una riflessione sulle opere di
importanti protagonisti del cosiddetto design “razional-funzionalista”(3) come, ad
esempio, Marcel Breuer, Gerrit Thomas Rietveld, Pierre Chareau o Robert Mallet-Stevens. Il tentativo operato da Sartoris di coniugare insieme l’originalità del
Movimento Futurista italiano, il cui manifesto pubblicato da Filippo Tommaso
Marinetti risale al 1909, e le tematiche del razionalismo europeo è ben evidente
se si osservano soprattutto le poco note assonometrie dei suoi oggetti di arredo. I numerosi esempi di ensembles mobilier ad opera di Sartoris mostrano
Si vedano, ad esempio, le seguenti raccolte documentarie:
Alberto Abriani (a cura di), Alberto Sartoris: mezzo secolo di attività (Torino, Galleria Martano Due, 1972), Antoine Baudin (ed.),
Photography, Modern Architecture and Design. The Alberto Sartoris collection-Objects from the Vitra Design Museum (Lausanne, Presses polytechniques et universitaires romandes-PPUR,
2005) e Antoine Baudin, Le monde d’Alberto Sartoris dans le
miroir de ses archives (Lausanne, Presses polytechniques et
universitaires romandes-PPUR, 2017).
(2)
Il Fondo Alberto Sartoris, custodito dagli Archives de la
construction moderne dell’École Polytechnique Fédérale de
Lausanne (in seguito Acm-EPFL) e ancor oggi allestito all’interno dell’abitazione di Sartoris a Cossonay Ville, in Svizzera,
conserva una delle più complesse e articolate raccolte di elaborati progettuali, lettere, libri, riviste, opere pittoriche, fotografie, oggetti d’uso anonimi e d’autore, arredi, plastici, ritagli
di giornale ed altri eterogenei materiali ascrivibili a molteplici
collezioni di architettura, arte, design a partire dagli anni venti del Novecento. Le fonti documentarie mettono in evidenza
inoltre una particolare attenzione di Sartoris rivolta non solo ai
singoli prodotti di arredo tout court, ma anche, ad esempio, alla
progettazione di abiti e copricapi nel 1935, alle cruches pour la
Poterie du Léman a Losanna nel 1936, giungendo al progetto
della carta da lettere per la rivista Origini nel 1941. La complessità del materiale conservato può essere considerato come uno
specchio delle eterogenee dinamiche che hanno contraddistinto la sua lunga carriera, sia professionale che accademica, così
come dei contatti e dei rapporti instaurati con alcuni dei pionieri
dell’architettura contemporanea come, ad esempio, Marcel
Breuer, Le Corbusier, Carlo Mollino, Pier Luigi Nervi, José Luis
Sert e Giuseppe Terragni. Cfr. Alberto Abriani (a cura di), Alberto Sartoris: mezzo secolo di attività, op. cit.
(3)
Si veda, ad esempio, Gabriella D’Amato, L’arte di arredare
(Milano, Mondadori, 2001), 493.
(1)
76
The analysis of the so-called ensemble mobilier, started by Alberto Sartoris in 1925 and almost completely ignored by
historiographic criticism, is made possible through the analysis of the documents and drawings kept by the Archives de la
construction moderne (EPFL). Starting from the first furniture projects for an artist’s studio in Turin in 1925, from the polychrome
steel tubular armchair made in 1927, and reaching the less known meuble combiné pour médecin-dentiste of 1931 or the interior
project of the Cercle de l’Ermitage in Epesses of 1935, the projects of meuble équipement by Sartoris represent a precious
witness of the integration of all the arts that concretizes especially in interior architecture, from furnishings to small design objects.
The aim of the essay is to highlight the activity of the Sartoris-designer, through the study of projects, influences and critical
relationships among the various facets that Sartoris confers to the architect-interior designer’s profession.
5.1
Alberto Sartoris, Lit maison Gualino, 1925, prospettiva,
matita su carta, Archives de la construction moderne-EPFL,
Fonds Alberto Sartoris
5.1, 5.2
quindi un variegato ventaglio di riferimenti che egli ha saputo abilmente interpretare attraverso una personale lettura critica coadiuvata dalla sperimentazione sui nuovi materiali da costruzione e dalle sempre più collaudate e innovative
tecnologie di produzione.
Del periodo di formazione torinese costituiscono una preziosa testimonianza le
vedute prospettiche degli interni e degli arredi realizzati da Sartoris nel 1925
per l’abitazione e il teatrino privato del celebre industriale e collezionista biellese Riccardo Gualino: questi disegni mettono in luce per la prima volta un’immagine inedita di un Sartoris-designer, oltre che l’essenzialità e la pulizia che
caratterizzano in maniera indelebile il suo personale e ricorrente strumento di
rappresentazione. Inoltre, la collaborazione di Sartoris con Annibale Rigotti e i
rapporti interpersonali instaurati con un ristretto gruppo di artisti ed intellettuali
torinesi, come ad esempio Carlo Turina, Emilio Sobrero e Giacomo Cometti, si
rivelano particolarmente significativi in relazione ad un suo singolare interesse
per l’architettura degli interni, sia in ambito teorico che progettuale.(4)
Si vedano, Luisa Pianzola, Alberto Sartoris, da Torino all’Europa (Milano, Alberto Greco Editore, 1990), 44 e Alberto Sartoris, Paolo Angeletti, Livia Carloni (a cura di), Alberto Sartoris,
un architetto razionalista, catalogo della mostra, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, 19 dicembre 1979-27 gennaio
1980 (Roma, De Luca Editore, 1979), 23-24.
(4)
77
5.2
Alberto Sartoris, Lit maison Gualino, 1925, assonometria,
inchiostro su carta, Archives de la construction
moderne-EPFL, Fonds Alberto Sartoris
In particolare, nei numerosi progetti assonometrici dei cosiddetti “mobili da studio” (biblioteche, tavoli e sedie), simmetrici e quasi del tutto privi di ornamento,
emerge in maniera considerevole l’accuratezza e la sobrietà dell’esecuzione
sia dal punto di vista grafico che progettuale. Lo studio di questi disegni consente di riconoscere lo strumento di rappresentazione distintivo della produzione sartorisiana, ovvero l’assonometria isometrica ortogonale, concepito non
solo come personale e fortunata forma di espressione,(5) ma anche come vero
e proprio strumento operativo, attraverso il quale è possibile, con una visione
globale dell’oggetto, rappresentare in un solo piano corpi tridimensionali. In
questo contesto, l’assonometria utilizzata da Sartoris mette in luce il montaggio
di un manufatto, come un oggetto scomponibile e assemblabile attraverso un
semplice sistema di aggregazione di volumi.
Di ispirazione decisamente più déco sono ad esempio i mobili che Sartoris realizza per l’arredamento della casa Niccolini a Torino nel 1927, come il tavolo
in rovere argentato e in noce nero lucido e le numerose vetrinette per riviste
e ceramiche in rovere argentato. Di impronta marcatamente più razionale è
invece il progetto, e il successivo allestimento, della sala n. 34 dedicata al riposo della stampa, realizzata da Sartoris in collaborazione con il pittore torinese
Gigi Chessa per la XVI Biennale di Venezia inaugurata nell’aprile del 1928.(6)
Una delle opere più significative in relazione all’influenza del Neoplasticismo
olandese è ancora la scrivania del dentista progettata per il Dottor Breuleux
nel 1929 e realizzata nell’anno successivo a Losanna: in legno laccato nero,
Si veda, Cinzia Gavello, “Alberto Sartoris e la pratica del disegno come forma di espressione”, Il Disegno di Architettura 43
(Luglio, 2018), 39-43.
(6)
[an.], “La prima visita alla Biennale di Venezia”, Il Gazzettino
di Venezia, 19 maggio 1928, 5.
(5)
78
5.3
5.3
Alberto Sartoris, Gigi Chessa, Projet de salle de repos et de
presse à la Biennale de Venise, 1928,
Archives de la construction moderne-EPFL,
Fonds Alberto Sartoris
grigio e rosso, questo oggetto di arredo può essere considerato uno dei primi
esempi di applicazione del colore nelle opere della cosiddetta “piccola architettura”.(7) Le parti interne del mobile sono interamente realizzate in ciliegio
cerato e gomma, il tubo di sostegno è in metallo nichelato e una parte del
piano di lavoro è rivestita in gomma.
Anche l’instancabile attività di critico e teorico rispecchia l’attenzione di Sartoris
verso i temi legati al design e all’arredamento di interni: nel suo celebre libro, Gli
elementi dell’architettura funzionale. Sintesi panoramica dell’architettura moderna,
edito da Ulrico Hoepli nel 1932, Sartoris sceglie di pubblicare numerose immagini
relative ad oggetti di arredo e di interni, incluse la celebre poltrona di Le Corbusier,
Pierre Jeanneret e Charlotte Perriand e la sedia a sbalzo S3 di Marcel Breuer in
tubolare di acciaio, entrambe del 1929,(8) definendole come notevoli contributi al
progresso dell’arredamento.(9) Inoltre, la filosofia posta alla base delle sue sperimentazioni nel campo del design viene ancor più dichiarata all’interno della prima
edizione del volume curato da Fillìa, Gli ambienti della nuova architettura, pubbli-
Luisa Pianzola, Alberto Sartoris, da Torino all’Europa, op.
cit., 66. Si veda inoltre Marco Pozzetto, “La parte di Sartoris”,
Critica d’Arte, estratto dal fasc. n. 154-156 (Luglio-Dicembre
1977), 145.
(8)
Cfr. Alberto Sartoris, Gli elementi dell’architettura funzionale.
Sintesi panoramica dell’architettura moderna (Milano, Ulrico
Hoepli, 1932), 131 e 217.
(9)
Alberto Sartoris, Tempo dell’architettura. Tempo dell’arte.
Cronache degli Anni Venti e Trenta (Roma, Fondazione Adriano Olivetti, 1990), 93.
(7)
79
5.4
Alberto Sartoris, Studio du poète Henri Ferrare, 1930,
Archives de la construction moderne-EPFL,
Fonds Alberto Sartoris
cato dalla Unione Tipografico Editrice Torinese nel 1935, con un contributo a firma
di Sartoris relativo agli interni delle nuove chiese: in questo scritto egli difende
fieramente l’architettura razionale, accusata dalla critica di non essere adatta ad
esprimere un sacro e ideale “misticismo religioso”.(10)
In alcuni studi assonometrici di interni realizzati a partire dagli anni trenta, contraddistinti dalle prime sperimentazioni sui nuovi materiali, la decorazione o i
profili irregolari vengono definitivamente aboliti a favore di un ricorso a figure
geometriche che sconfinano gradatamente nella cosiddetta “visione razionalista”.(11) Ad esempio, la celebre poltroncina progettata da Sartoris nel 1927
ricorda analoghe produzioni e sperimentazioni tedesche del Bauhaus. A differenza degli arredi in bianco e nero ideati e realizzati per la biennale veneziana,
Cfr. Alberto Sartoris, “Gli interni delle nuove chiese”, in Gli
ambienti della nuova architettura, ed. Fillìa (Torino, Unione Tipografico Editrice Torinese, 1935), 85-86. Si vedano, inoltre,
Gerardo Dottori, “Gli ambienti della nuova architettura”, L’Artiglio, 24 agosto 1935 e Attilio Podestà, “L’ambientazione dell’architettura moderna”, Il Secolo XIX, 29 novembre 1935.
(11)
Germano Celant, “Mobili e arredo”, in Futurismo & Futuristi,
ed. Pontus Hultén (Milano, Bompiani, 1986), 522.
(10)
80
5.4
la poltroncina è policroma, in metallo laccato giallo e nero, con schienale e
sedile rivestiti in cuoio. Questo oggetto può essere considerato come uno dei
primi prototipi legati al concetto di produzione industriale e consta di due parti
ben distinte: una struttura di base con la seduta e uno schienale reclinabile. È
proprio la possibilità di regolazione dello schienale che rappresenta il criterio di
“riducibilità” dell’oggetto, sperimentato prima di allora, ad esempio, proprio da
Breuer con la sua celebre poltroncina B4 in tubolare e tela nel 1926. Il mobilio
in tubolare policromo, secondo Sartoris, contiene “tutta una metafisica dell’architettura interna, magnificando quella bellezza astratta che potrà diventare, in
un prossimo avvenire, la qualità essenziale dell’utilità”.(12)
Secondo il principio di integrazione di tutte le arti, tema caro a Sartoris fin
dalle prime fasi della sua carriera, l’uso del colore viene da lui stesso definito
come la “quarta dimensione dell’architettura”:(13) il colore diventa quindi un
vero e proprio elemento costruttivo e la pittura, di conseguenza, viene considerata come parte integrante del processo progettuale, dove, insieme agli arredi, contribuisce a strutturare lo spazio architettonico. In un saggio del 1953,
Il colore nell’architettura, apparso per la prima volta su Numero, rivista diretta
da Sartoris in collaborazione con Fiamma Vigo,(14) egli differenzia l’utilizzo del
colore in tre metodi: il metodo neoplastico e quello dinamico polidimensionale, sviluppati a partire dai primi anni venti del Novecento, e quello funzionale
sviluppato negli anni successivi.(15) Il primo metodo, proveniente originariamente dal Neoplasticismo olandese e dal Purismo francese, è principalmente
utilizzato dai pittori come Piet Mondrian, Jean Gorin, Fernand Léger e Amédée Ozenfant ed è caratterizzato dall’uso esclusivo dei soli colori primari, unitamente al bianco, al nero e alle diverse sfumature di grigio.(16) Testimonianze
nelle quali è possibile riscontare l’utilizzo di questo metodo sono le prime
assonometrie policrome realizzate da Sartoris a partire dagli anni venti del
Novecento.(17) Il metodo dinamico proveniente dalle teorie di Le Corbusier è
solo in parte ereditato del Neoplasticismo olandese e dal Purismo francese
e consente l’uso di una vasta gamma cromatica; in questo modo si ha quindi
la possibilità di disporre per uno stesso locale di pareti di colori diversi anche
molto contrastanti fra loro. Secondo lo stesso metodo, le pareti che non ricevono la luce diretta devono essere verniciate di bianco o in un colore molto
chiaro, mentre le pareti collocate in penombra “vengono trattate gradatamente con toni sempre più violenti man mano che si procede verso la massima
illuminazione naturale”.(18) In particolare, la vista assonometrica del progetto
per il Circolo dell’Ermitage a Epesses, in Svizzera, realizzata nel 1935, rappresenta uno dei pochi esempi in cui viene messo in evidenza lo studio della
Alberto Sartoris, Tempo dell’architettura. Tempo dell’arte,
op. cit., 90.
(13)
Ivi, 100-102.
(14)
Alberto Sartoris, “Il colore nell’architettura”, Numero 3 (Maggio-Giugno 1953), 1-2. Si vedano, inoltre, Alberto Sartoris,
“L’architecture de la couleur”, Ingénieurs et architectes suisses
23, vol. 109 (Novembre 1983), 436-439, Martine Béguin, Jean-Paul Felley, Alberto Sartoris en couleurs (Martigny, Fondation Louis Moret, 1992) e Alberto Sartoris, “Colour in interior
architecture”, in Circle. International Survey of Constructive Art,
eds. John Leslie Martin, Naum Gabo, Ben Nicholson (London,
Faber & Faber, 1937), 212.
(15)
Alberto Sartoris, “Il colore nell’architettura”, op. cit., 1.
(16)
Ibidem.
(17)
Luisa Pianzola, Alberto Sartoris, da Torino all’Europa, op.
cit., 71 e cartella 0172.04.0109, Projets de meubles Sartoris,
1925-1946, Acm-EPFL.
(18)
Alberto Sartoris, Tempo dell’architettura. Tempo dell’arte,
op. cit., 99.
(12)
81
5.5
Alberto Sartoris, Cercle de l’Ermitage à Epesses,
progetto del 1935, serigrafia del 1996, Archives de la
construction moderne-EPFL,
Fonds Alberto Sartoris
suddivisione cromatica degli ambienti;(19) in questa nota assonometria, pubblicata largamente sulla letteratura esistente, emerge chiaramente la perfezione
dei raffinati rapporti cromatici che creano la ripartizione degli ambienti interni
generando, inoltre, una composizione pittorica di estremo interesse.(20) In tal
senso l’utilizzo del colore mette ancora un volta in luce la volontà di Sartoris
di costruire, attraverso il disegno, una vera e propria opera d’arte. Il metodo
funzionale, infine, permette l’utilizzo dell’intera gamma cromatica: i colori, devono essere scelti secondo specifici criteri di ordine psicologico, in modo da
poter stabilire un’atmosfera fisiologica che determina le diverse destinazioni
d’uso degli ambienti che costituiscono l’edificio. Un esempio dell’applicazione di questo metodo è il progetto della casa del viticoltore Morand-Pasteur
realizzata a Saillon, in Svizzera, nel 1935, in cui è visibile il ruolo del colore
applicato alle pareti e agli elementi di arredo rispetto alle forme essenziali del
mobilio e alla sua disposizione all’interno degli ambienti. Si tratta di quell’integrazione dell’elemento cromatico come “quarta dimensione”, capace di di-
Cfr. Jan De Heer, The Architectonic Colour, Polychromy in
the Purist architecture of Le Corbusier (Rotterdam, 010 Publisher, 2009), 14.
(20)
Cfr. cartella 0172.04.0266, Cercle de l’Ermitage à Epesses,
1935-1936, Acm-EPFL.
(19)
82
5.5
namizzare l’ambiente e divenire parte integrante dell’esperienza del visitatore
creando un forte contrasto con la rigorosità delle forme di arredo. L’oggetto
infatti collabora a determinare la percezione della spazialità dell’abitazione(21)
con la dichiarata intenzione di contribuire alla percezione dello spazio interno
dal punto di vista psicologico, oltre che materiale. In questo progetto Sartoris
riflette sull’utilizzo del colore e di come questo possa incidere profondamente
sul modus vivendi, sul comportamento e perfino sulle sensazioni dello spazio
interno. L’attenzione per le diverse applicazioni cromatiche mette in evidenza
come alcuni colori riflettano la luce come il bianco e il giallo, altri la assorbano
come il nero o il verde e altri ancora come l’azzurro e il blu si addicano solo a
particolari tipi di ambienti come la cucina e i locali di servizio. Sartoris prende
posizione contro la mono-cromaticità e la composizione uniforme degli ambienti interni degli edifici, mettendo in luce la diversità degli arredamenti e dei
locali attraverso un accurato contrasto cromatico; egli ritiene inoltre che per
generare armonia è preferibile fare uso di colori evidentemente contrastanti
fra loro, ottenendo così un equilibrio di volumi e proporzioni. In tal senso Sartoris con le sue opere fa riferimento ad una “realtà integrale”, ovvero “non limitata all’arte maggiore, l’architettura, ma presente anche nelle arti figurative,
che da lei dipendono e che […] non si saprebbero immaginare che come un
suo necessario complemento”.(22)
I numerosi progetti di meuble équipement ad opera di Sartoris rappresentano
quindi una preziosa testimonianza di quanto la sua ricerca formale sia basata
sull’impiego dei principi della cosiddetta “nuova architettura”, dove l’oggetto di
arredo viene concepito per adattarsi alle nuove esigenze dell’uomo contemporaneo. Secondo le parole di Bruno Zevi, “quando un sistema ‘linguistico’ è
adottato al di fuori della cerchia del movimento che lo ha prodotto, da architetti
di sensibilità diversissima, vuol dire che non è una moda, ma un parametro
permanente di una cultura figurativa”.(23) Di questa cultura, Sartoris è stato
sicuramente un tenace assertore. Inoltre, l’attenzione costante dimostrata da
numerose gallerie d’arte, collezionisti e curatori di esposizioni e mostre italiani e stranieri (come la mostra di Vedute di Torino del 1926 organizzata dalla
Società Fontanesi nella sede di Palazzo Bricherasio, l’esposizione Artistes
Italiens Contemporains a Ginevra del 1927 presso il Musée Rath e la Prima
mostra di Architettura Futurista a Torino del 1928)(24) ha contribuito fortemente ad incrementare la diffusione dei primi progetti degli ensembles mobilier di
Sartoris in ambito internazionale riconoscendoli come veri e propri esempi di
arredamento moderno.
Cfr. Gabriella D’Amato, “Abitare tra gli oggetti”, in Antologia
di saggi sul design in quarant’anni di Op. cit., ed. Alessandra de
Martini, Rosa Losito, Francesca Rinaldi (Milano, FrancoAngeli,
2006), 176.
(22)
Lotario, “Punti di arrivo nell’arredamento”, La Città Nuova 2,
20 gennaio 1934, 4.
(23)
Cfr. Bruno Zevi, “G. Rietveld”, Forum 3 (1958), 3.
(24)
Si veda, ad esempio, Cinzia Gavello, “Alberto Sartoris e la
fotografia: Gli elementi dell’architettura funzionale e le mostre
di architettura”, Rivista di Studi di Fotografia 7 (Luglio 2018),
58-78.
(21)
83
DOI: 10.17401/studiericerche.5.2019-bassi
LETTERE DEI SOCI
Smemoria
torici del design:
e destino
ALBERTO BASSI
Università Iuav, Venezia
Qual è il presente e il destino per gli storici del design?
Tale domanda richiede una ricognizione su alcune delle condizioni critiche esistenti.
Innanzitutto non sono disponibili in Italia percorsi formativi dedicati o percorribili all’interno delle Università; non esiste un settore scientifico disciplinare
intitolato (ma in verità non è previsto neppure per visual design o altro specifico) e dunque gli storici confluiscono perlopiù all’interno dell’omnicomprensivo
settore-valigia di ICAR 13 (in una logica che potrebbe presentare vantaggi ma
di cui non sarebbe inutile discutere apertamente in chiave scientifico-culturale); collocazione, riconoscimento e ruolo accademico appaiono controversi (e
talvolta negati, anche in nome di una certa tendenza all’autolegittimazione del
fare progettuale). Veramente anche quello professionale risulta indeterminato,
a leggere alcune dinamiche disintermediatorie contemporanee che hanno in
sostanza limitato e/o rimosso ruolo e spazi per storici e critici, a favore della figura generica e “di servizio” del curatore, come ben dimostrano i casi di alcune
recenti o rinnovate raccolte museali.
Anche per questi motivi la maggioranza delle lauree in design forniscono corsi
di storia condotti, certo anche con perizia, da figure nei casi migliori borderline,
oppure più frequentemente e un po’ obbligatoriamente – vista la situazione generale indicata – con altre competenze e formazione, ad esempio nella storia
dell’architettura e dell’arte o nell’ambito progettuale.
Situazioni critiche che si collegano ad alcune questioni più generali.
Innanzitutto il permanere di uno statuto disciplinare e metodologico ancora da
mettere compiutamente a fuoco. Fare storia del design – più propriamente design
histories perché molti sono gli ambiti (product, furniture, automotive ... solo per
stare sul design di prodotto, senza entrare in quelli “nuovi”, come service o interaction design), i metodi e i contesti, i possibili punti di vista (quali sono i criteri/
valori che determinano le scelte? l’estetica, il linguaggio, il successo, la notorietà,
la “firma” e così via?) – comportano una specificità di approccio e chiavi di lettura
84
processuali-globali-contestuali, dunque “integrate e integrali”. Perché in sostanza
il design si configura come un’opera collettiva, un team work cui contribuiscono progettista, impresa, figure professionali differenti, maestranze specializzate,
operanti in contesti e condizioni specifiche in grado di orientare sviluppo e scelte
almeno quanto la “creatività” del designer. A partire dalle fonti, la cui varietà che
testimonia le diverse fasi, dal progetto al consumo è forse al momento assimilabile a quelle per la storia dell’architettura, serve allora la capacità di indagine e
lettura dei diversi elementi che interagiscono nella determinazione delle opzioni
progettuali; ad esempio, i caratteri delle imprese e dei sistemi produttivi, distributivi, di comunicazione, consumo e gestione del ciclo di vita del prodotto; le
condizioni tecnologiche, socio-economiche, oltre che culturali, e così via.
Anche per questo risulterebbe necessario formare figure diverse, ad esempio,
dagli storici dell’architettura e dell’arte, che prevalentemente hanno scritto e
insegnato storia del design, finendo perlopiù per occuparsi – anche in maniera pregevole ma limitata - alla storia dell’arredamento, delle arti applicate
e decorative opera di architetti, designer e artisti. Certo un approccio e una
metodologia differente non appaiono ancora compiutamente codificati e sono
solo in parte praticati, in modo, ad esempio, da allargare l’ambito tipologico
della ricognizione, da guardare ai molti approcci possibili rispetto alle condizioni e contesti socio-economico, imprenditoriali e culturali di intervento, da riconoscere legittimità e differenze di approcci autoriali o “anonimi”, da collocare
pienamente il design all’interno della storia della cultura materiale.
Un altro aspetto critico riguarda il rapporto fra teoria-storia-critica e prassi progettuale. La condizione “storica” – fortemente accentuata nella contemporaneità e che in verità non sembra riguardare solo il design – parrebbe aver
privilegiato l’”autosufficienza” e volontà di autorappresentazione del progetto,
in una esplicita e rivendicata separatezza fra pensiero storico-critico e agire del
designer (fatto salvo naturalmente l’esigenza di elaborazione critica-culturale
del progettista), che trova peraltro in parte riscontro anche nell’impostazione
dei percorsi didattici e di formazione universitaria. Una modalità disintermediatoria certo diffusa, e variamente “utile” (o interessata) nelle condizioni storiche
attuali, collegata al fenomeno di crescita di notorietà, visibilità e interesse per il
design “espanso”. Una pratica professionale avvertita in chiave etica, sociale e
culturale, fino alla dimensione critica e politica, ma che subisce una diluizione
di ruolo e valore riconducibile anche a questa sovraesposizione (“più è noto e
meno vale).
Una nuova modalità di confronto fra storia e progetto, un rinnovato approccio di
metodo e ambiti, che guardi anche, tra le altre, alle condizioni socio-tecniche e
alle pratiche progettuali contemporanee (solo per iniziare: open, crowd, co-design, e poi interaction, service design e così via) verso una ricomposizione
dialettica fra teoria, storia e prassi configura una condizione necessaria per un
riposizionamento – attraverso la storia- utile e necessario del design dentro la
società. Iniziare a discutere e costruire le condizioni accademiche (insieme a
quelle economiche e socio-culturali) funzionali all’identificazione e praticabilità
di percorsi di formazione, collocazione e operatività per una nuova generazione di storici del design, sembrerebbe oggi doveroso.
85
DOI: 10.17401/studiericerche.5.2019-filippini
SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE
Johan Örn,
Thes HI-Group and the Return to Craft
(Stockholm, ArkDes/Carlssons, 2017)
pp. 231;
ISBN: 9789173318365;
dimensioni: 24,0 x 28,0 cm
86
Basato su materiali d’archivio dell’ArkDes, Swedish Centre for Architecture
and Design, il libro curato da Johan Örn racconta le vicende di breve durata
dell’associazione svedese HI-group (d’ora in poi HI) costituita nel 1960. La ricostruzione storiografica, corredata dal facsimile di due locandine di mostre oltre
al regesto dei cento pezzi realizzati, svela un pezzo di storia del design scandinavo del tutto inedito. Alla fine dei ventisette capitoli, nelle riconsiderazioni
storiche conclusive, emerge come il nome del gruppo fosse stato marginalizzato già durante gli anni sessanta, quando il design svedese si comunicava,
sia nel dibattito che nell’immagine, in termini di accessibilità, democraticità e
serialità. Tutto il contrario di quel che rappresentava l’HI, non a caso accolto
più favorevolmente all’epoca dalla letteratura focalizzata su un approccio Arts
& Crafts dove ricorre insieme a quello del più noto James Krenov, caro ai cultori
dell’ebanisteria.
Il libro svela come nel pieno della “modernizzazione” di Stoccolma – città in
cui, a seguito della modifica dell’assetto urbano durante gli anni sessanta, ci
si confronta con una nuova cultura del consumo e degli stili di vita, con l’allontanamento dal centro delle botteghe artigiane – quest’associazione di sedici membri, tra architetti d’interni e relative maestranze, uniti dalla prossimità
urbana (il nome del gruppo è composto dalle iniziali delle parole artigiano e
architetto d’interni in svedese) abbia intensamente operato per sei anni, e sia
stata presentata ufficialmente soltanto in occasione di quattro mostre.
Il gruppo lavora in un momento particolarmente positivo per la Svezia che equivale grossomodo al nostro boom economico, annoverando tra i pochi clienti
soprattutto enti pubblici e luoghi per la collettività, con un orientamento che
potremmo definire a posteriori contract oriented. La ricostruzione proposta sottolinea, quindi, i legami tra la produzione artigianale degli arredi e il loro uso nel
progetto degli interni, facendo leva sulla corrispondenza tra le due attività e la
microeconomia generata.
Tanto nel manifesto del gruppo come dalla corrispondenza tra i partecipanti alla
prima mostra del 1960 non risultano chiare le motivazioni iniziali ma emerge,
suffragata da esempi, la reazione alla pervasiva presenza di autori e prodotti
danesi, soprattutto nelle mostre della fine anni cinquanta. La stessa Ikea nel
1959 include tra i designer ben quattro danesi e un solo svedese, allineandosi
all’opinione generale, avvalorata dagli articoli in “Form”, secondo cui i danesi
sarebbero stati più abili nell’esecuzione artigianale e gli svedesi nell’arredamento in serie.
In realtà l’HI trova ispirazione proprio da un’associazione danese, la Danish
Snedkerlauget, la cui data di chiusura coinciderà in seguito, curiosamente, con
quella del gruppo. Con il termine “carpenter’s marriage” i danesi suggellavano
ALI FILIPPINI
Politecnico di Torino
87
la relazione tra architetto-artigiano, e nel caso dell’HI si riassumono nel contratto lavorativo rispettivamente dell’architetto e dell’artigiano: i diritti del progetto
spettano al primo mentre al secondo rimangono quelli d’esecuzione. Ogni oggetto reca inciso un timbro che riporta entrambi i nomi (su un pezzo lavoravano
spesso più artigiani, in coppia e fino a quattro) in una modalità simile a quella
adottata dalle Wiener Werkstätte. Dal punto di vista produttivo il totale dei pezzi
ammonta ad un centinaio, tra mobili, complementi d’arredo e qualche lampada; nelle prime esposizioni domina il one-off (la metà del totale) e in seguito il
prototipo, in un passaggio dalla complessità alla semplificazione come si nota
nei pezzi esposti alle ultime mostre.
Il gruppo, il cui unico leader si può considerare l’interior designer Stig Lönngren, procede senza un linguaggio comune con esiti formali anche molto diversi,
ora ispirati alla tradizione ora più di rottura, utilizzando prevalentemente il legno
di betulla e mogano a sostituire il teak, abbandonato anche dai danesi nel
corso degli anni sessanta. Fa eccezione il compensato, più adatto alla serie,
come dimostra una sedia per bambini del 1963, pubblicata anche in “Domus”
nell’ottobre del 1965, tra i rari pezzi realmente messi in produzione da un’azienda e non a caso considerata positivamente dalla critica, insieme ad altri mobili
più semplici e scomponibili del medesimo materiale. La produzione dell’HI, infatti, si scontra con la perdita d’interesse verso il crafting in favore del mobile
industriale, tanto che in occasione di un’importante mostra sull’artigianato nel
1968 si arriverà a parlare di quest’ultimo in termini antidemocratici. La serie
soppianta la sperimentazione su piccola scala: il tema si presta ad ammantarsi di ideologia e collima con quanto accade all’industria del mobile svedese,
interessata a economizzare la produzione mediante l’industrializzazione e la
programmazione.
Altro aspetto ad emergere nel volume è la promozione dell’artigianato e la sua
distribuzione in parallelo all’apertura d’importanti showroom e negozi lifestyle
nella capitale (Habitat e altri negozi a Londra insegnavano ...). La prima mostra
del gruppo doveva tenersi al negozio Artek, aperto nel 1957, quando poi si opta
per l’agenzia Hantverket specializzata nel supporto e nell’organizzazione della
vendita per il settore artigianale, storicamente significativa in Svezia perché
dagli anni trenta aveva rivestito un ruolo chiave anche nel diffondere il verbo
del funzionalismo nell’arredo.
La relazione con l’agenzia, nella cui galleria l’HI espone, causa in realtà problemi dal momento che l’HI viene in più di un’occasione assimilato all’Hantverket,
come accadde a Milano durante la XXII Triennale nel 1960. Situazione aggravata dalla difficoltà distributiva dovuta all’assenza di canali di vendita appro88
priati e dal ricarico elevato applicato dal distributore-agenzia che vede i privati
comunque preferire i prodotti più noti, e non meno esclusivi nel prezzo, dei
vari Carl Malmsten, Josef Frank, Bruno Mathsson. L’HI si accorge presto che
quel che realizza è troppo costoso per il privato e punta sul pubblico, ritenuto
un settore interessante: tra i principali clienti si annoverano dunque architetti e
interior designer con uffici di rappresentanza, showroom, edifici di culto, musei,
alberghi e ristoranti a cui i pezzi unici dell’HI conferiscono esclusività.
Il limite dell’HI, che aveva scelto l’artigianato per testare metodi e forme per la
serie, è nel processo stesso di lavorazione, difficilmente replicabile. Così anche
la scarsa notorietà del gruppo, si evince dal libro, è dovuta, tranne qualche rara
eccezione, alla mancata diffusione del loro design, con gli stessi protagonisti in
ombra al di fuori del proprio circuito professionale.
Nel confronto con la storia del design italiano, verranno inoltre a mancare all’HI
le condizioni per cui, a partire dalla seconda metà degli anni sessanta (l’HI si
scioglie nel 1970 ma l’ultima mostra è del 1966) nel nostro Paese un certo tipo
di produzione sperimentale formerà delle nicchie – si veda il caso di Poltronova che non rappresenta solo l’apporto “eccentrico” dei radicals, ma anche
un segmento di mercato –, in un panorama produttivo fatto di piccole e medie
imprese d’artigianato meccanizzato e poche industrie del mobile propriamente dette. Una grande azienda come Cassina, d’altra parte, proprio negli anni
dell’HI, inizia con la collezione de I Maestri qualcosa di analogo per esclusività
processuale, e non solo progettuale. Ma il nuovo sistema svedese, orientato
all’industria mobiliera, scoraggia operazioni considerate elitarie che ricordano
quanto portato avanti, sempre in Italia, da editori come Azucena (come l’HI
nata dall’esigenza di architetti d’interni alle prese con il mobile) o fenomeni, più
culturali che commerciali, come il Neoliberty.
Di stringente attualità, visto il generale interessamento del design italiano-europeo per il custom made e l’alta qualità, la breve ma significativa avventura
dell’HI ricostruita nel volume può aiutare a mettere a fuoco alcune modalità
relazionali, professionali, ma anche economiche (mutatis mutandis l’HI nell’affiancare designer e artigiani ricorda esperienze recenti tra le quali Eligo e Interno Italiano che abbinano crafting e design) legate a ciò che l’autore nel libro
definisce efficacemente “public luxuries”: la qualità degli spazi pubblici e della
relativa esperienza di fruizione mediate dall’apporto del design.
89
DOI: 10.17401/studiericerche.5.2019-dellapiana2
SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE
Robin Schuldenfrei,
Luxury and Modernism. Architecture and the Object in Germany 1900-1933,
(Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2018)
pp. 336, 74 illustrazioni a colori, 126 illustrazioni in b/n;
ISBN: 9780691175126;
E-book: ISBN 9781400890484;
dimensioni: 19,0 x 26,0 cm
90
Provocative è il prudente aggettivo che qualifica, in quarta di copertina, questo libro che, nel pieno delle celebrazioni del Bauhaus, ribalta molti dei cliché
che intorno al Bauhaus stesso e alla fase che l’ha preceduto sono cresciuti
grazie alla mitopoiesi del Moderno.
L’ossimoro che titola il lavoro di Robin Schuldenfrei, storica di prestigiosa
formazione nordamericana e in forza al Courtauld Institute of Art di Londra,
attiva da tempo intorno ai temi “scomodi” della fase eroica del moderno –
dal ruolo delle donne, alla “irriproducibilità” degli oggetti Bauhaus, al legato
del Bauhaus stesso nel dopoguerra e alla sua costruzione, al rapporto con
il sistema industriale capitalistico – riunisce una serie di ricerche che vanno
a convergere e a scalfire uno dei dogmi più sacri dell’agiografia modernista,
quello dell’austerità, della completa devozione all’ideologia, unico motore e
ragione del progetto.
Oltre all’assoluta mancanza di soggezione rispetto ai topoi che da Giedion
in poi hanno guidato il racconto del progetto tedesco del primo quarto del
Ventesimo secolo – da Weimar all’affermazione del Nazionalsocialismo –,
il modo di analisi di Schuldenfrei è caratterizzato dall’assenza di pregiudizi
rispetto alla possibilità di considerare il progetto e la produzione di oggetti
come parte di una complessa visione e della sua interpretazione, strutturale
e integrato rispetto all’architettura, ma dotato di una sua riconoscibile autonomia disciplinare. Una presa di posizione apparentemente scontata ma in
realtà innovativa. Basta scorrere i titoli prodotti sul Bauhaus, anche in anni
recenti, per constatare come i due modi di lettura si siano mantenuti separati,
velatamente o esplicitamente, di volta in volta per evitare di ammettere la
presenza di una “quota” artigianale nel Bauhaus – rinforzata da episodi come
la casa Sommerfeld – o per eleggere a bandiera del progetto “semplice” l’oggetto d’uso ben riuscito a fronte di architetture incerte – la Haus am Horn, per
esempio – e limitando spesso la ricognizione sugli oggetti a raffinati cataloghi
strumentali, in qualche caso, alla sacrosanta riscoperta di progettisti – più
spesso progettiste – dimenticate o mai prese in considerazione dalla storiografia, per una lettura di genere.
L’elemento disequilibrante da cui prende le mosse l’intero lavoro è l’immagine
della sala da bagno della casa del direttore del Bauhaus a Dessau, scattata
da Lucia Moholy e “photoshoppata” nella sua versione pubblicata in Bauhausbauten Dessau (Monaco, 1930): le venature del blocco di marmo che
accoglie i lavabi gemelli sono state ritoccate a simulare un elemento in ceramica, coerente con le attrezzature seriali e al racconto una storia fatta di
ELENA DELLAPIANA
Politecnico di Torino
91
materiali “poveri” per ambienti austeri dove l’opulenza da poco acquisita nelle
case borghesi, confortevoli e moderne, viene letteralmente cancellata. Il falso
ha qualcosa di sconvolgente e permette di ricostituire un grado zero a fronte
delle passate visioni tetragone.
Ricostruire la complessità di entrambi i quadri – le fratture nell’apparente linearità del moderno e le riunioni tra le scale dell’oggetto e dell’architettura – è la
missione che l’autrice si dà a partire dalle fonti: la lista degli archivi consultati
è ricca, ma altrettanto ricche sono le testimonianze che, già all’epoca dei
fatti, raccontano divergenze anche feroci tra i sacerdoti del Moderno e chi li
attacca non da posizioni conservatrici, ma dall’interno, come Karel Teige – già
docente Bauhaus – che lancia ai suoi colleghi, nel 1932, pesanti accuse di
“snobismo modernista”. Infine, in un approccio hauseriano, i committenti e i
consumatori del moderno compaiono non solo come illuminati mecenati, ma
come motori che spingono nella direzione di una produzione e di una commercializzazione di oggetti elitari, appunto, vicini ai progetti degli anni ottanta
del secolo precedente, come quelli di Dresser e altri, incarnandone qualità e
spirito molto più di quanto non si sia voluto ammettere fino a oggi. Non solo le
teorie di Muthesius o di Meyer dirette con un processo top-down alla classe
media o operaia non producono un corrispondente corredo di attrezzature
per l’abitare o di oggetti, ma la tradizione del Kunstgewerbe (le arti applicate)
continua a influenzare la produzione di beni, anche per ribaltare l’immagine
dei prodotti tedeschi veicolata dalle esposizioni: oggetti a basso costo ma di
nessuna qualità.
A fornire la trama in grado di definire l’inedito tessuto il cui filo rosso si protende ben oltre i canonici confini del moderno, la pubblicistica d’epoca e il modo
in cui è stata prodotta, nel senso letterale del termine: servizi fotografici, testi
e il rapporto tra i due svelano non pochi nodi irrisolti.
Da una parte la raffigurazione di abitazioni moderne con a contorno auto
di lusso, spesso guidate da moderne signore impellicciate e pettinate alla
maschietta, rappresentazioni echeggiate anche nel cinema, dall’altra edifici
voluti per le classi lavoratrici ottenuti mediante processi costruttivi ancora costosi e destinati, in conclusione, all’alta borghesia intellettuale delle città della
nuova Germania. Contraddizioni ammesse e discusse dai progettisti stessi,
spesso come punto di partenza per avviare azioni “pedagogiche” di riduzione
del numero oggetti superflui, riduzione sollecitata anche dagli alti costi, o vere
e proprie battaglie politiche a partire da visioni marxiste o socialiste, trattate
ampiamente nel lavoro di Schuldenfrei come interpretazioni del Moderno in
senso simbolico o pratico.
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A partire da tutte queste premesse e ribaltamenti dei percorsi critici consuetudinari, l’analisi si dipana invertendo, ancora, la sequenza interpretativa cristallizzata nell’intuizione del “quadrifoglio” – progetto, produzione, comunicazione,
consumo – messa a punto da Renato De Fusco, proprio per ricucire architettura, design e contesto creativo e produttivo. Si parte infatti dal “consumo”,
esemplificato dal complesso sistema messo a punto da Behrens per l’AEG non
solo relativamente all’esplorato tema dell’immagine coordinata, ma anche al
sistema di vendita e al rapporto instaurato con i fronti urbani e alla sovrapposizione tra apparecchiature elettromeccaniche e per l’elettrificazione e ambienti
ancora fortemente legati al gusto corrente: un Biedermeier elettrico.
L’approccio filosofico dell’“oggettività” è sviscerato attraverso i modi di esporre architetture e prodotti intorno al Deutscher Werkbund, allargando finalmente lo sguardo dai singoli oggetti al loro contesto di impiego. Il tema dei capitali/
capitale prende spunto dall’appello di Gropius per il rinvenimento di “capitalisti” in grado di finanziare il programma del Bauhaus che, dalla Haus am Horn
(1923) in poi, si sarebbe mosso sia con una critica “dall’interno” del sistema
capitalistico avanzato, sia, sottolinea l’autrice, con velleità di educazione del
pubblico dei parvenu a livelli più colti, informati e, in sintesi, moderni. Segue la
“produzione”, o meglio, la difficoltà di ri-produrre i sofisticati oggetti in materiali pregiati e la totale assenza di una vendita e una diffusione corrispondenti al
programma ideologico di beni per la massa, oltre allo scetticismo dei possibili
acquirenti. Le stesse ambiguità e contraddizioni sono poi individuate nell’architettura e in particolare in quella di Mies, maestro insuperato nell’uso di
materiali pregiati – e costosi – distanti dalla formula “pelle e ossa” amplificata
dall’agiografia modernista, materiali e lavorazioni messi in bella mostra in tutte le successive esposizioni nazionali e internazionali e difficilmente compatibili con la Sachlichkeit al centro della ricerca del Bauhaus almeno quanto con
la richiesta di abitazioni urbane destinate alle classi lavoratrici. L’ambiguità
viene spiegata, grazie all’apporto interpretativo di Simmel e Benjamin, con un
diverso obbiettivo da conseguire mediante il progetto degli interni: non più la
“casa” – oggettiva e quantitativa – ma l’ “abitare” individuale e soggettivo, inteso come un luogo spoglio in cui non sono evocati comportamenti consuetudinari e pertanto favorevole all’avvio di nuove e inedite abitudini, un inno all’indipendenza dell’uomo – e della donna – moderni. Vetro e metallo diventano in
tal senso i materiali che più di altri sono privi di tracce, di impronte di schemi
precostituiti e, al di là dell’estetica industriale, che si prestano al rinnovamento
dei modi di abitare. Con un ultimo salto di scala, l’autrice applica la tendenza
all’individualismo leggibile negli interni, ancora con Simmel, i sociologi e gli
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interpreti degli affreschi urbani, alla città contemporanea – Berlino in primis.
Una lettura positiva del capitalismo e delle masse come potenziali consumatori, ospitati in distinti luoghi di lavoro e di residenza, quest’ultimi risultato
della moltiplicazione di cellule abitative singole – sulla scorta di Hilberseimer
– che spinge Mies all’allontanamento dall’ortodossia funzionalista all’avvio
degli anni trenta. Un inizio di decennio che l’autrice individua come l’apoteosi
delle manifestazioni del lusso nella produzione tedesca. E in effetti, le immagini della sezione tedesca all’esposizione di Parigi del 1930 alla Société des
Artistes Décorateurs che si succedono nelle ultime pagine del libro, con le
superfici lucide, i metalli cromati, i materiali artificiali raccontano un auspicio
non solo di educazione al gusto e di accesso democratico ai beni, ma anche
un’idea di una società benestante e una svolta virtuosa del capitalismo cui si
prestano tutti i protagonisti, anche quelli più radicali, del Bauhaus – da Gropius a Bayer, da Moholy-Nagy a Mies van der Rohe.
Al netto del rigore nelle ricostruzioni che permettono di avviare nuovi modi di
lettura di un’intera fase – viene voglia a questo punto anche di ri-vedere se e
come sono cambiate le posizioni dopo la guerra – pare di leggere nell’approccio di Robin Schuldenfrei un processo uguale e contrario a quello compiuto
a suo tempo da Muthesius con Das englische Haus: la storia del progetto
tedesco dei primi decenni del Novecento viene riletta con lente anglosassone
e con la consueta attenzione al crafting.
94
giugno 2019