IL CONTRIBUTO ITALIANO
ALLA STORIA DEL PENSIERO
OTTAVA APPENDICE
IL CONTRIBUTO ITALIANO
ALLA STORIA DEL PENSIERO
OTTAVA APPENDICE
MMXII
©
PROPRIETÀ ARTISTICA E LETTERARIA RISERVATA
ISTITUTO DELLA ENCICLOPEDIA ITALIANA
FONDATA DA GIOVANNI TRECCANI S.p.A.
2012
ISBN
978-88-12-00089-0
© Renato Guttuso, by SIAE, 2012
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IL CONTRIBUTO ITALIANO
ALLA STORIA DEL PENSIERO
ECONOMIA
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IL CONTRIBUTO ITALIANO
ALLA STORIA DEL PENSIERO
Economia
Sophus A. Reinert
Girolamo Belloni
Banchiere, uomo di Stato ed economista di fama internazionale, Belloni fu uno dei più celebri finanzieri del
Settecento. Il suo trattato Del commercio fu uno dei maggiori contributi italiani nel campo dell’economia politica.
Rappresentante emblematico di una corrente tradizionale dell’economia politica europea, in piena linea con le
politiche attuate dalle grandi potenze dell’epoca per incoraggiare le rispettive industrie nazionali, Belloni fu uno
dei primi importanti teorici settecenteschi della nobiltà
del commercio. Venne inoltre coinvolto in una celebre
polemica con René-Louis de Voyer de Paulmy, marchese
d’Argenson, il primo dibattito pubblico sui meriti del
laissez-faire nella storia del pensiero economico.
La vita
Girolamo Belloni nacque il 1° aprile 1688 a Codogno, nella bassa Lodigiana, da una famiglia di mercanti e banchieri originari di quella cittadina ma successivamente trasferitisi a Bologna e a Roma alla ricerca
di nuove opportunità commerciali. La collaborazione
con lo zio Giovannangelo diede al giovane e colto
Girolamo la possibilità di partecipare con successo a
Roma a varie avventure speculative, dagli appalti apostolici del tabacco e dell’acquavite alla Tesoreria della
Marca, dalle attività bancarie (tra cui quelle per conto
degli esuli giacobiti della casa inglese degli Stuart) a
vari progetti immobiliari. Alla morte di Giovannangelo, i suoi beni furono divisi fra i membri della
famiglia, e Girolamo ereditò la casa bancaria di Roma,
con crediti aperti non solo in varie piazze europee, ma
persino nelle Americhe e in India.
Con l’ascesa di Clemente XII alla cathedra Petri il
12 luglio 1730, le sorti di Belloni migliorarono ulteriormente. Grazie all’appoggio della casa Orsini Belloni, ebbe incarichi consultivi e operativi presso la Camera
apostolica, mentre lo Stato pontificio gli offrì di dirigere le dogane, un incarico che Belloni accettò non solo
a fini di lucro, ma anche con intenti riformistici che lo
portarono a suggerire cambiamenti istituzionali per
snellire l’apparato doganale dello Stato. Nel decennio successivo Belloni entrò a far parte di varie società
finanziarie e preparò inoltre una serie di memorie di
tema economico che fecero di lui uno dei principali
economisti papali del Settecento, iniziatore di una tradizione che, nei decenni successivi, avrebbe incluso
teorici importanti come Claudio Todeschi (Saggi di
agricoltura, manifatture, e commercio, coll’applicazione
di essi al vantaggio del dominio pontificio, 1770) e Paolo
Vergani (Della importanza e dei pregi del nuovo sistema
di finanza dello Stato Pontificio, 1794).
Belloni continuò la sua ascesa durante il papato di
Benedetto XIV, quando acquistò il titolo di marchese
e il feudo di Prassedi, nel 1746, per scambiarlo solo
quattro anni dopo con il feudo di Oliveto e la signoria di Posta in Sabina, che gli diedero giurisdizione
su mezzo migliaio di ‘vassalli’. Così, con fierezza, passò, per usare il linguaggio settecentesco, dalla mercatura alla nobiltà (Caracciolo 1982, pp. 101-02). Il
nuovo status non era puramente onorifico, ma apriva
nuove opportunità politiche ed economiche in Italia
come in Inghilterra e nella penisola iberica.
Queste esperienze indussero Belloni a passare dalla
pratica alla teoria dell’economia, ossia a formulare dei
principi sulla base dell’esperienza accumulata praticando le diverse forme di attività economica del suo
tempo, dalle dogane al commercio alla finanza internazionale, in Italia e nel resto dell’Europa. Questi
principi vennero da lui esposti nel trattato Del commercio, un libro che, nel suo ultimo decennio di vita,
aggiunse una fama scientifica e letteraria a quella economica e sociopolitica di cui egli già godeva. Belloni
morì a Roma il 5 luglio 1760.
Il trattato Del commercio
Composto quando Belloni era all’apice della carriera e gli Stati papali stavano perdendo la gara per
la supremazia economica in Europa (Caracciolo 1982,
pp. 87, 113), Del commercio venne pubblicato per la
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SOPHUS A. REINERT
prima volta nel 1750 e dedicato al papa regnante
Benedetto XIV. Diventò un fenomeno editoriale: fra
il 1750 e il 1788 ebbe diciassette edizioni in sette lingue – cinque italiane (1750, 1751, 1752 e due nel
1757), una latina (1750), sei francesi (1751, 1755,
1756, 1757, 1765, 1787), due tedesche (1752, 1782),
una inglese (1752), una russa (1771) e una spagnola
(1788; cfr. Carpenter 1975; Reinert 2011). I contemporanei ricondussero il successo con il quale l’opera
venne accolta in Italia e all’estero alla grande esperienza pratica in materia di commercio che Belloni
aveva accumulato nel corso del tempo, un’esperienza
che gli avrebbe dato – si scrisse – «una comprensione
perfetta delle cause più recondite dei vari effetti del
commercio», per citare l’anonimo traduttore della
prima edizione inglese del trattato (A dissertation on
commerce, 1752, p. VI).
Nel corso del suo trattato, Belloni affrontava tre
questioni fondamentali: la natura e il potere del commercio, la natura della moneta e il cambio, la proporzione fra l’oro e l’argento. Da poche massime egli
derivava infinite ricette di crescita industriale, una
peculiarità di impostazione, questa, che non sfuggì
al traduttore inglese, il quale dichiarò che Belloni
aveva «gettato tanta luce sulla conoscenza del denaro
e del commercio, quanto gli esperimenti avevano gettato sulla scienza della filosofia naturale» (A dissertation, cit., pp. IX-X).
Come molti economisti politici italiani della sua
stessa epoca (Reinert 2010), anche Belloni era consapevole del fatto che gli Stati assurgevano a posizioni di predominio economico con la stessa facilità
con la quale soccombevano alla competizione commerciale globale, e aveva studiato a lungo le forme e
i modi di questo processo. Non a caso il suo lavoro
venne presentato come motivato dal desiderio di portare alla luce le vere cause di tutti i vantaggi e tutte
le perdite ai quali molti regni erano andati incontro
per questioni monetarie e di commercio (A dissertation, cit., 1752, p. X).
Per quanto fosse un banchiere, interessato alle
azioni di attori economici individuali più che ai grandi
processi istituzionali, Belloni pose al centro del suo
trattato l’«importante scienza della grande Economia
degli Stati» (p. XLI), e ricondusse questa scelta al
fatto che allora la «scienza del Commercio» (p. IV)
non era più «soltanto praticha», ma «realmente scientifica» (p. V). Scopo della «scienza di commercio»,
scriveva Belloni attingendo a un’antica fraseologia
dell’economia politica italiana, era la «pubblica felicità» (p. XI) e il «bene economico delli Stati» (p.
XXIV), e persino la loro «grandezza» (p. 4), intesa,
quest’ultima, nel senso postmachiavelliano di espansione geopolitica non realizzata attraverso strumenti
militari (Reinert 2011, p. 204).
Belloni si riferiva proprio all’intersezione di teoria
e pratica, nel tentativo di evitare un semplice appiattimento dell’economia a esperienze particolari, ma
anche una «generale e sterile riflessione» sui processi
economici (p. 47).
Era importante per Belloni sottolineare che la «grandezza» economica non implicava corruzione o assenza
di virtù. Attigendo dalla vita di Solone nelle Vite parallele di Plutarco, Belloni sottolineava quanto il commercio avesse una nobiltà intrinseca (e in tal senso era
un anticipatore delle opere di Jean-Claude-MarieVincent de Gournay, di Georges-Marie Butel-Dumont
e dell’abate Gabriel François Coyer); inoltre insisteva
sul fatto che la vita di affari dovesse essere giustificata non solo in termini utilitaristici ma anche morali,
cosa che avrebbe ribadito con forza alla fine del trattato. La dicotomia tra il profilo utilitario e quello
morale dell’economia, secondo Belloni, si manifestava
nel doppio significato di «industria», intesa da un lato
come operosità personale e dall’altro come attività
economica, «radice del commercio e perciò della felicita, ed avanzamento degli Stati» (p. 45).
L’intero pensiero di Belloni era costruito sulla base
di dicotomie: accanto a quella tra i propositi utilitaristici e morali dell’industria, e tra industria e indolenza,
vi erano quelle tra esportazione e importazione, «commercio attivo» e «commercio passivo» (p. 5), che derivavano entrambe da un’antica teoria economica dell’equilibrio del commercio. Secondo questa teoria,
codificata da economisti come Bernando de Ulloa, ma
in uso tra i mercanti almeno a partire dal Cinquecento
(e da non confondere con il semplice ‘bullionismo’),
il commercio internazionale ‘attivo’ consisteva nell’esportazione di merci nazionali, mentre il commercio internazionale ‘passivo’ consisteva nell’importazione di merci straniere. La quantità di oro e argento
in un regno – sosteneva Belloni, apparentemente riprendendo il Breve trattato di Antonio Serra del 1613, o
ancora più probabilmente il Testamento politico di
Leone Pascoli del 1733 (N. La Marca, Tentativi di
riforme economiche nel Settecento romano, 1969, pp. 5765; Caracciolo 1982, p. 82) – dipendeva soprattutto
dalla natura del suo commercio. L’esperienza in campo
finanziario suggeriva a Belloni che la giusta «proporzione tra i metalli» era «quindici once d’argento per
un’oncia d’oro» (Del commercio, cit., pp. 32-33); una
volta fissata questa proporzione in modo appropriato,
la ricchezza delle nazioni avrebbe finito per dipendere
dalle politiche di competitività industriale e commercio internazionale promosse dai rispettivi governi. La
moneta, in effetti, era soltanto una «misura comune»
di merci (pp. 5-7), la quale «non per altra cagione forma
ricchezze, che per esser misura delle cose, che scambievolmente si comunicano» (p. 44). La scarsità di
moneta in uno Stato era in sé semplicemente sintomo
di uno «sbilancio» commerciale, per curare il quale era
necessario agire nel campo della produzione anziché
in quello della finanza (pp. 28-29).
Belloni esplorava vari scenari del commercio internazionale (p. 19), in modo analogo a Jean-François
Melon che, nel suo Essai politique sur le commerce (1734),
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GIROLAMO BELLONI
aveva inventato Paesi immaginari, ciascuno specializzato nella produzione di un certo bene, e aveva sondato
le varie forme possibili di interazione di lungo periodo.
Per quanto privo di esempi concreti e mancante di
profondità analitica rispetto ai lavori quasi contemporanei di un Richard Cantillon oppure di un Ferdinando
Galiani, il Del commercio è decisamente leggibile e,
proprio grazie alla sua accessibilità (che fu anche causa
del suo successo internazionale), contribuì a diffondere il nucleo delle teorie e delle pratiche economiche del tempo in gran parte del mondo intellettuale e
mercantile europeo, come pure nelle sue élites amministrative. Belloni confidava, infatti, nella capacità di
intervento della classe amministratrice, nella sua possibilità di incoraggiare lo sviluppo di certe industrie,
stabilire tasse e tariffe appropriate, e quindi sorvegliare la vita economica di uno Stato, come avrebbe
fatto un generale con il proprio esercito:
vediamo sì nella politica che nella militare sfera [si
deve] dare a chiascheduna cosa un proporzionato regolamento, lo stesso appunto far si dovrebbe in una
Repubblica ben condotta per la direzione del Commercio e delle manifatture (p. 63).
Jean-Baptiste Colbert e i regnanti inglesi erano per
lui modelli riusciti di approccio militare al commercio (p. 30), anche se egli aveva assai presente il rischio
dell’estensione eccessiva dell’apparato governativo
che avrebbe potuto risultare da politiche neocolbertiste. Per questo, attingendo alle proprie esperienze
nell’amministrazione economica dello Stato pontificio, sosteneva la necessità di riformare il sistema fiscale
(pp. 58-59), incoraggiare la trasparenza governativa
riducendo il numero di eccezioni e privilegi, e semplificare il sistema economico in generale (p. 61).
Al centro della riflessione di Belloni vi era il problema di stabilire «qual metodo dovesse tenersi a promuovere la detta industria, ed eccitare le arti, ed amplificare il Commercio» (p. 48). Secondo lui, l’industria
nazionale avrebbe dovuto essere incoraggiata liberando l’esportazione delle manifatture e l’importazione di materie prime da ogni tassa (p. 52): «Niuna
cosa», scriveva, «può darsi più perniciosa per un Regno,
che il non avere tutta l’attenzione sopra l’introduzione
delle manifatture forestiere si per uso della regia Corte,
che de’ sudditi» (p. 54).
Il successo di questa politica industriale, tuttavia,
dipendeva a sua volta dall’attuazione di una politica
culturale volta ad assicurare che il commercio «si nobiltasse maggiormente» (p. 64). Facendo nuovamente
ricorso a un’analogia militare, comparando il mondo
del commercio a quello delle forze armate, Belloni
sperava nell’affermazione di un ordine sociale meritocratico nel quale le attività economiche potessero
essere apprezzate per la loro capacità di contribuire
alla felicità pubblica. In opposizione alla tesi dell’incompatibilità tra spirito nobiliare e spirito commerciale, Belloni formulò uno dei primi e più succinti
argomenti a favore di quella che sarebbe presto diventata nota in tutta Europa come «nobiltà commerciale»
(pp. 64-68). Il nome di Belloni avrebbe finito per
essere associato così strettamente all’idea della nobiltà
delle società commerciali che, in seguito alla comparsa
del suo trattato, illustri italiani in esilio (come il critico letterario Giuseppe Baretti) sarebbero tornati nel
tardo Settecento in Italia, per difendere il loro Paese
in declino dalle accuse di arretratezza culturale ed economica (G. Baretti, An account of the manners and
customs of Italy, 1° vol., 1768, p. 307).
Il dibattito sul laissez-faire
Belloni divenne ancora più noto per il suo ruolo
nel dibattito pubblico sugli effetti e le virtù del laissez-faire. La prima edizione francese di Del commercio, apparsa nel 1751, si guadagnò nel «Journal économique» prima una recensione favorevole, e subito
dopo una stroncatura spietata da parte di René-Louis
de Voyer de Paulmy, marchese d’Argenson, ministro
degli Esteri dal 1744 al 1747 e membro dell’esclusivo
Club de l’Entresol, che vedeva nel libro di Belloni
l’epitome del male economico che stava divorando
l’Europa intera.
L’economia, secondo d’Argenson, era troppo complicata per essere compresa a fondo e usata per mettere in pratica riforme positive. A parte alcuni sforzi
di base per assicurare «buoni giudici», scoraggiare
monopoli e garantire «protezione eguale a tutti i sudditi», ogni legislatore illuminato si sarebbe dovuto
limitare a usare il laissez-faire come principio guida.
I danni indotti da politiche come quella caldeggiata
da Belloni, persino in tempi di «pace piena», erano
paragonabili a quelli prodotti da una «guerra universale»: il commercio era diventato conquista con altri
mezzi (Lettre au sujet de la dissertation sur le commerce
du marquis de Belloni, «Journal économique», avril
1751, pp. 107-17).
La tanto decantata «scienza di commercio» era agli
occhi di d’Argenson un’atrocità storica, che aveva
fatto deviare l’Europa dal suo corso naturale di sviluppo, inducendola a distogliere fondi ed energie dall’agricoltura per concentrarli nei lussi superflui. Quest’idea lasciò un segno profondo su Adam Smith che
venticinque anni dopo ne avrebbe fatto la chiave di
volta della trattazione dell’«ordine innaturale e retrogrado» europeo nella sua An inquiry into the nature and
causes of the wealth of nations (1776).
Le critiche di d’Argenson non piacquero invece
all’editore del «Journal économique», Antoine Le
Camus, il quale intervenne sullo stesso giornale per
difendere Belloni. Ma il suo intervento non bastò
certo a far tacere i critici di Belloni, né tanto meno a
chiudere il dibattito, i cui echi sono ancora udibili
nella discussione socialista sul problema del calcolo
economico e nella rielaborazione contemporanea del
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SOPHUS A. REINERT
dogma economico stimolata dalla crisi globale recente.
La lunga durata del dibattito innescato dal trattato di
Belloni giustifica da sola il protrarsi dell’interesse per
le sue idee, tra le più stimolanti dell’economia politica settecentesca.
Fortuna e sfortuna di Belloni
Anche se Belloni fu spesso criticato, nessuno dubitò
mai della sua fama. Fu definito «celebratissimo Banchiere Romano» dal domenicano conservatore Daniele
Concina (Esposizione del dogma che la chiesa romana
propone a credersi intorno l’usura, colla confutazione
del libro intitolato Dell’impiego del danaro, 1746, p. 44)
e «il capo» dei mercanti dello Stato pontificio dall’ambasciatore veneziano Marco Foscarini (Caracciolo
1982, p. 92). Senza contare il fatto che le sue teorie
furono discusse da Anders Nordencrantz in Svezia,
alla periferia estrema della società civile europea
(Bekymmerlösa stunders menlösa och owälduga tankar,
[Pensieri innocenti e imparziali di momenti senza preoccupazioni] 6 voll., 1767-1770), e da Sir James Steuart
in Scozia (An inquiry into the principles of political
oeconomy, 1° vol., 1767, pp. 430, 435-36).
La storiografia dell’economia politica, tuttavia, non
registrò il successo settecentesco di Belloni. Sulle pagine della famosa nona edizione dell’Encyclopedia Britannica, la cosiddetta edizione per studiosi, nella voce
Political economy l’economista irlandese John Kells
Ingram asseriva che la dissertazione di Belloni «sembra aver avuto un successo e una reputazione assai superiori ai suoi meriti» e che in essa «le tendenze mercantilistiche erano decisamente preponderanti» (19° vol.,
1885, p. 362), mentre Luigi Einaudi lo considerò semplicemente «un povero diavolo» (Saggi bibliografici e
storici intorno alle dottrine economiche, 1953, p. XI).
Ciononostante, o forse proprio a causa di tutto ciò,
ha senso oggi considerare Belloni uno degli economisti più rappresentativi dell’Illuminismo, nelle cui teorie è possibile trovare (come in poche altre) un riflesso
delle politiche economiche del tempo e delle pratiche
responsabili dell’eccezionalismo europeo.
Opere
De commercio dissertatio, Romae 1750.
Del commercio, Livorno 1751, Venezia 1757.
Scritture inedite e dissertazione “Del commercio”, a cura di A.
Caracciolo, Roma 1965.
Vari manoscritti di Belloni sono stati ripubblicati in:
L. del Pane, Lo Stato pontificio e il movimento riformatore del
Settecento, Milano 1959, pp. 651-60.
A. Caracciolo, Alcune fonti archivistiche inglesi per la storia
del Banco Belloni nel Settecento, in Scritti in memoria di
Leopoldo Cassese, 1° vol., Napoli 1971, pp. 253-70.
La letteratura italiana. Storia e testi, sotto la direzione di R.
Mattioli, 44° vol., Dal Muratori al Cesarotti, t. 5, Politici
ed economisti del primo Settecento, a cura di R. Ajello, M.
Berengo, A. Caracciolo et al., Milano-Napoli 1978, pp.
653-94.
Bibliografia
F. Marconcini, Momento mercantilista settecentesco: la
“Dissertazione sopra il commercio” di Girolamo Belloni,
banchiere romano, «Rivista internazionale di scienze
sociali», s. III, 1931, 2, pp. 104-80, 393-416.
L. Einaudi, Una disputa a torto dimenticata fra autarcisti e
liberisti, «Rivista di storia economica», 1938, 2, pp. 13263.
L. del Pane, Lo stato pontificio e il movimento riformatore del
Settecento, Milano 1959, pp. 159-62, 258-62.
C. Belloni, Un banchiere romano del Settecento: Girolamo
Belloni, «L’Urbe», 1963, 3, pp. 3-12.
F. Venturi, Elementi e tentativi di riforme nello Stato Pontificio
del Settecento, «Rivista storica italiana», 1963, 3, pp. 778817.
A. Caracciolo, Belloni Girolamo, in Dizionario biografico degli
Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 7° vol.,
Roma 1965, ad vocem.
K.E. Carpenter, The economic bestsellers before 1850, Catalogue
of an exhibition prepared for the History of economics
society, Boston 1975, p. 14.
A. Caracciolo, L’albero dei Belloni: una dinastia di mercanti
del Settecento, Bologna 1982.
S.A. Reinert, Lessons on the rise and fall of great powers:
conquest, commerce, and decline in enlightenment Italy,
«American historical review», 2010, 5, pp. 1395-1425.
S.A. Reinert, Translating empire: emulation and the origins of
political economy, Cambridge (Mass.) 2011, p. 22 e passim.
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