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L a V aLLe D eLL ’e Den
Anno XII-XIII nn. 25-26
luglio 2010-giugno 2011
Suono/immaginee
ISBN 978-88-89908-55-6
€ 33,00
ISSN 1970-6391
kaplan
Dossier
a cura di
Ilario Meandri e Andrea Valle
Università degli Studi
di Torino
kaplan
La Valle dell’Eden
Semestrale di cinema e audiovisivi
Anno XII-XIII, nn. 25-26, luglio 2010-giugno 2011
Comitato scientifico
Giorgio Tinazzi (coordinatore, Università di Padova), Paolo Bertetto (Università di Roma, La Sapienza),
Gian Paolo Caprettini (Università di Torino), Francesco Casetti (Università Cattolica Brescia-Milano),
Siro Ferrone (Università di Firenze), Liborio Termine (Università di Torino)
Comitato di redazione
Giaime Alonge (Università di Torino), Silvio Alovisio (Università di Torino), Alessandro Amaducci
(Università di Torino), Giulia Carluccio (Università di Torino), Raffaele De Berti (Università di Milano),
Guglielmo Pescatore (Università di Bologna), Veronica Pravadelli (Università di Roma Tre), Franco Prono
(Università di Torino), Rosamaria Salvatore (Università di Padova), Chiara Simonigh (Università di
Torino), Federica Villa (Università di Torino)
DAMS – Facoltà di Scienze della Formazione – Università di Torino
via Sant’Ottavio 20 – 10124 Torino
tel. 011/6702728-6703516; fax 011/6702731
Direttore responsabile
Paolo Bertinetti
Registrazione presso il Tribunale di Torino n. 5179 del 04/08/1998
Questo fascicolo esce con il contributo del Centro Regionale Universitario per il Cinema e gli Audiovisivi
“Mario Soldati” (Regione Piemonte)
Abbonamento 2010:
Italia € 30,00
Europa € 40,00
USA € 50,00
fascicolo singolo arretrato € 20,00
Per abbonarsi rivolgersi a:
Edizioni kaplan
Via Saluzzo, 42 bis
10125 Torino
Tel-fax 011-7495609
info@edizionikaplan.com
ISSN 1970-6391
ISBN 978-88-89908-55-6
Anno XII-XIII
nn. 25-26
luglio 2010-giugno 2011
Università degli Studi
di Torino
kaplan
Il volume raccoglie una selezione degli interventi tenuti al convegno di studi Suono e Immagine
organizzato dall’Università degli Studi di Torino, nelle edizioni del 2008 (Suono e immagine. Aspetti
teorici, 27 novembre 2008) e del 2009 (La funzione drammaturgica del suono nel film, 26-27 ottobre
2009).
Indice
Dossier Suono/Immagine
a cura di Ilario Meandri e Andrea Valle
7
Sentire il suono: per una teoria del suono filmico oggi
di Paola Valentini
23
«L’iniziatore del commento musicale cinematografico»: Giuseppe Becce
di Roberto Calabretto
38
Nel mondo del silenzio: Together di Lorenza Mazzetti e il Free Cinema
Movement
di Giulio Latini
51
Blade Runner. Il filmaudio di Vangelis
di Luigi Giachino
62
Storiografia e didattica della musica per film
di Sergio Miceli
73
Funzioni del “suono organizzato” in due testi audiovisivi: Barry Lyndon e
Koyaanisqatsi
di Gianmario Borio
91
«Questo silenzio non mi convince!». Il silenzio nel suono cinematografico
di Franco Fabbri
101
C’era (ancora) una volta il West. Note a partire dal suono in una sequenza
celeberrima
di Andrea Valle
114
Tecniche e prassi di sincronizzazione musica e immagine: dal processo
compositivo alla recording session
di Ilario Meandri
130
Il Cinema dell’Ascolto: analisi di casi esemplificativi
di Mario Calderaro
143
La parola e la città. Ben Hecht tra overlapping dialogue e afasia
di Giaime Alonge
153 Winterreise
di Luisa Zanoncelli
170 Il suono immaginato. I rumoristi Paolo Amici, Italo Cameracanna,
Marco Marinelli, Massimo Marinelli raccontano
di Ilario Meandri
Materiali/Contributi
215 Mostrare l’abiezione. Autoscatti da Abu Ghraib
di Lorenzo Donghi
228 Tracce di metadiscorsività nel cinema moderno.
Gli sguardi in macchina tra metacinema e autobiografismo
di Gabriele Rigola
91
“Questo silenzio non mi convince!”. Il silenzio nel suono cinematograico
di Franco Fabbri
«Questo silenzio non mi convince!». Questa frase, probabilmente immaginata con
la voce di Emilio Cigoli, suggerisce a molti italiani un topos del cinema western,
bellico, noir: basta che il nostro eroe (uno sceriffo, un cowboy, un uficiale con la
divisa dei nordisti, un sergente dei marines, un dectective) la pronunci, perché nel
giro di mezzo minuto si scateni un diluvio di frecce dei Mescaleros, un inferno di
rafiche di mitragliatrici giapponesi o tedesche, una gragnuola di pugni sferrati da
sicari nascosti nell’ombra. A quanto pare (e per questo ho citato il doppiatore di
John Wayne, Gary Cooper, Gregory Peck, Burt Lancaster, William Holden, Henry
Fonda, Charlton Heston, Sterling Hayden, Humphrey Bogart e tanti altri scerifi,
cowboy, soldati e detective) la frase è una versione italiana – se non proprio una traduzione – di «Silent... too silent»: amici e conoscenti anglofoni, che ho interpellato
nell’arco di più di vent’anni1, non hanno mai trovato nella loro memoria qualcosa
che giustiichi l’uso del verbo «convincere» in una traduzione più o meno letterale, mentre descrivendo loro il topos al quale ho appena accennato, concordemente
hanno indicato «Silent... too silent» come la fonte più probabile. Dal punto di vista
del sincronismo labiale la versione italiana consolidata non sembra più eficace di
qualsiasi traduzione più prossima all’originale, ma questi sono i misteri del doppiaggio. E d’altra parte, non sono proprio certo che la frase esista davvero nella colonna
sonora di qualche western o bellico, mentre scavando nella memoria afiora uno
sketch televisivo, direi di Walter Chiari, nel quale era pronunciata con enfasi, come
se il comico si riferisse a una tradizione consolidata. Le mie ricerche con Google non
mi hanno portato lontano: tutto quello che si trova ha a che fare con l’uso contemporaneo, attuale, dell’espressione «Questo silenzio non mi convince!», la cui origine
cinematograica è data per scontata.
In ogni caso, l’una e l’altra frase (il presunto «originale» angloamericano e l’altrettanto presunta versione italiana) si prestano bene, in modi diversi, a commentare
la presenza e la funzione del silenzio nel sonoro cinematograico: l’idea del «troppo
Presentai una relazione intitolata “Questo silenzio non mi convince”: tecnica e signiicato nell’era del Compact
Disc a un convegno svoltosi a Cagliari nel novembre del 1987. Uno dei miei “informatori” fu Philip
Tagg.
1
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Franco Fabbri
silenzioso» e quella di un silenzio che possa convincere o no potrebbero essere prese
come tracce per ricostruire la storia dell’estetica del sound che si accompagna all’immagine.
Tanto per cominciare, l’idea che il silenzio non sia esteticamente convincente,
in presenza di immagini in movimento, è stata considerata a lungo dagli storici del
cinema, e soprattutto da quelli del cinema muto, come una delle ragioni o delle
cause principali della sonorizzazione, insieme a quella (a essa collegata) della necessità di coprire il rumore del proiettore, quindi di «silenziarlo». Nella sua poderosa
ricostruzione della storia del suono del cinema muto negli Stati Uniti2, Rick Altman
smonta questi concetti, dubitando della pretesa universalità del primo e collocando
il secondo nel quadro delle received assumptions, luoghi comuni ormai diffusi anche
nelle enciclopedie (come il New Grove), oltre che negli insegnamenti di storia del cinema o della musica per il cinema (confesso di esserne stato contagiato io stesso senza
il minimo sospetto). Secondo Altman questi luoghi comuni sono stati tramandati dai
primi storici, che commettevano l’errore di prospettiva di attribuire a tutta la storia
delle sonorizzazioni i caratteri dell’ultimo decennio prima dell’avvento del cinema
sonoro, e che si basavano sulle memorie dei protagonisti più che su documenti d’epoca; poiché ino a tempi recenti gli storici hanno continuato a idarsi di quelle testimonianze, e hanno comunque teso a integrare la scarsità delle fonti estendendone la
ricerca a contesti locali anche molto diversi tra loro, ecco che la media delle osservazioni si trasforma in universalità normativa, e il caso singolo (per quanto frequente,
e purché esteticamente rilevante) si fa paradigmatico. Richiamando la differenza
tra la storiograia «classica» e la scuola degli Annales, e prendendo decisamente a
esempio quest’ultima, Altman si è dedicato ad analizzare con minuzia la vita quotidiana del silent movie, e solo negli Stati Uniti, evitando accuratamente di mescolare
dati provenienti da diverse parti del mondo e di concentrarsi solamente sui ilm a
soggetto degli anni Venti: ne esce un ritratto delle sonorizzazioni del cinema muto
piuttosto lontano da quello al quale la storia del cinema e le pratiche di revival recenti ci avevano abituato. Del resto, sostiene Altman, i primi ilm erano proiettati
negli Stati Uniti nei teatri di vaudeville, in Gran Bretagna sulle piste di pattinaggio, in
Francia in spettacoli viaggianti e in Italia nei politeama: dificile immaginare che le
pratiche di accompagnamento fossero le stesse3 . E dificile, dunque, generalizzarne
le funzioni e le ragioni.
In un saggio recente, lo studioso e compositore britannico Ed Hughes 4 , pro2
Rick Altman, Silent Film Sound, Columbia University Press, New York, 2004.
Ivi, p. 11.
4
Ed Hughes, Film Sound, Music and the Art of Silence, in Nicky Losseff e Jenny Doctor (a cura di), Silence,
Music, Silent Music, Ashgate, Aldershot, 2007, pp. 87-95.
3
«Questo silenzio non mi convince!». Il silenzio nel suono cinematograico
prio riferendosi allo studio di Altman, si dichiara sollevato dall’apprendere che non
necessariamente il suono servisse a mascherare dei rumori, che lo spunto per sonorizzare i ilm non fosse determinato da un’urgenza universale, quasi biologica, e
che i ilm non fossero sonorizzati (quando lo erano) interamente, dall’inizio alla ine
(anche questa è una delle received assumptions contestate da Altman). Quello che parla,
ovviamente, è soprattutto lo Hughes compositore, al quale importa che il silenzio
sia uno degli elementi della costruzione del senso musicale (e cinematograico), non
un vacuum del quale avere orrore. Tra i vari esempi di silenzio drammaturgicamente
funzionale citati da Hughes ce n’è uno tratto da C’era una volta il West (1968) di Sergio
Leone: non la celebre sequenza iniziale (della quale si occupa in questa sede Andrea
Valle), ma quella – di poco successiva – del massacro dei McBain:
Per alcuni secondi ci sono riprese del paesaggio, prima dell’azione omicida perpetrata da mani ignote. Qui la colonna sonora non è né silenziata, né «ambientale»
o «realistica» alla maniera del normale silenzio musicale diegetico. Questi secondi
tormentosi sono prolungati dalla presenza di un sonoro che in modo agghiacciante e
selettivo mette in evidenza dettagli qua e là nel paesaggio statico (come uno stormo di
uccelli che si alza dai cespugli). Dopo le uccisioni, quando i banditi si avvicinano alle
vittime, la musica laconica e spietata di Ennio Morricone sale in primo piano, vendicando il «silenzio» precedente. Il montaggio dell’audio è selettivo, ordinato nel tempo
e segnato da una precisione e un controllo paragonabili a quelli delle immagini. In
particolare, la temporizzazione accurata e il peso uguale dato al silenzio e alla musica
imbevono la scena di una potenza drammatica formidabile. Le aspettative rispetto
all’accompagnamento musicale sono sovvertite prima dal ritirarsi della musica, e poi
dalla sua presenza improvvisa e sconvolgente nel primo piano percettivo5 .
Il riferimento a quella sequenza è utile, anche al di là dei motivi citati dallo
studioso e compositore inglese. Vale la pena, secondo me, di osservare e ascoltare
la sequenza da prima di quanto non indichi Hughes: da quando, cioè, McBain padre, il iglio più piccolo e la iglia si accorgono dell’improvviso silenzio delle cicale
(16’26”). Seguono ventisei secondi durante i quali si sente solo il rumore del vento,
e in una prima fase anche qualche verso di gallinacei, che poi scompare. McBain
e i igli si guardano attorno con espressioni interrogative e preoccupate, inché le
cicale ricominciano a cantare e i preparativi dell’accoglienza per la nuova moglie di
McBain riprendono. Nessuno ha pronunciato la famosa frase, ma noi – ammaestrati
dalle numerose frequentazioni del topos – la diamo per scontata: leggiamo «Silent...
5
Ivi, p. 93, traduzione mia.
93
94
Franco Fabbri
too silent» sui volti preoccupati dei personaggi. Ma questo è Leone, non John Ford
e nemmeno Howard Hawks: questa è una rivisitazione del western (con quel titolo
così esplicito), e la citazione del topos con l’elisione della battuta e soprattutto con
la «inta» (in musica sarebbe una cadenza evitata) suggerisce che, chissà, uno dei
coautori del soggetto, Dario Argento, abbia potuto mettere lo zampino anche nella
sceneggiatura. Si tratta, comunque, di una tra le decine di citazioni contenute nel
ilm, alcune delle quali come si sa dichiarate dallo stesso Leone.
Ma torniamo alla sequenza: i preparativi continuano, con il sottofondo incessante delle cicale. Oltre ai dialoghi, gli unici suoni che si sovrappongono al canto
delle cicale in modo molto distinto, «staccato», sono rumori di passi, e quello del
ceffone che McBain dà al iglio per aver riiutato l’appellativo di madre alla sua
nuova moglie. Mentre la iglia si dà da fare attorno alla tavola accennando a una
canzone, il padre si avvicina al pozzo per prendere dell’acqua. Improvvisamente entra nel campo sonoro il rumore del vento, che maschera quasi del tutto il canto delle
cicale: questo espediente della regia sonora (insieme al canto di Maureen McBain)
contribuisce a rendere più inatteso il passaggio al nuovo silenzio delle cicale (19’34”),
del quale abbiamo quasi immediato riscontro sui volti dei personaggi. Ci troviamo
di nuovo, a poco più di tre minuti di distanza, in una delle classiche situazioni di
sospensione deinite da Chion6; ma va notata la polivalenza di quel silenzio: da un lato
sollecita la nostra attenzione verso i sentimenti dei personaggi, come se entrassimo
nel suono sommesso dei loro pensieri, dall’altro ha un carattere del tutto realistico,
perché anche noi (ammaestrati, certo, dal topos, ma anche da esperienze di vita dirette) immaginiamo che le cicale possano essere state indotte a tacere da qualche
presenza minacciosa. Questo silenzio non ci convince in quanto tale, ma è del tutto
convincente rispetto all’esito (anche se non si tratta di un «vero» silenzio, perché
l’ululato del vento si sostituisce nel missaggio al canto delle cicale). Anzi, come un
ascoltatore esperto che dopo una cadenza evitata si attende quella conclusiva, immaginiamo che questa sia «la volta buona». La sequenza, in realtà, gioca ancora
una volta con le nostre aspettative, facendo intendere a noi e ai personaggi che un
innocuo stormo di fagiani (o coturnici?) che si alza in volo sia la causa dell’ammutolirsi delle cicale, ma il suono di un colpo di fucile (lo sentiamo ma non ne vediamo la
sorgente, 20’13”) segna l’inizio del massacro.
Vediamo se è possibile trarre qualche indicazione più generale da questa sequenza, che ricorrendo a un topos e – se possiamo dire così – estremizzandolo, mostra
in tutta evidenza il senso comune sul silenzio cinematograico. Prima osservazione
ovvia: il silenzio è relativo. Vedremo poi che in certi contesti ci si può trovare in
6
Michel Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, tr. it., Lindau, Torino, 2001, p. 130.
«Questo silenzio non mi convince!». Il silenzio nel suono cinematograico
presenza di un silenzio «assoluto», almeno come modello, ma il silenzio «too silent»
è in genere abitato da suoni: è il silenzio in primo luogo dei personaggi (delle loro parole, anche se non dei loro respiri, degli sfregamenti dei loro abiti, dei piccoli rumori
delle armi che eventualmente maneggiano, dell’accensione di una sigaretta...), in
secondo luogo delle presenze umane non sospette (manifestate attraverso rumori di
lavori manuali, di mezzi di trasporto che passano ecc.), in terzo luogo degli animali
(come nel caso della sequenza che abbiamo appena commentato). L’abbassamento
totale del livello della colonna sonora avrebbe portato, in un lungo tratto della storia
del cinema sonoro, a evidenziare suoni spuri, come il rumore di fondo del sistema
audio: questa è una ragione plausibile del ricorso a rumori ambientali (il vento nella
sequenza di C’era una volta il West) o al «silenzio musicale» extradiegetico, cioè alle
note tenute che suggeriscono immobilità e tensione, abbinate spesso al tacet delle
voci, delle attività umane, degli animali e anche dei rumori naturali. Bisogna dire,
poi, che per quanto il topos del «troppo silenzioso» sia decisamente transgenerico
(anche se forse non universale), spesso è arricchito da caratteri speciicamente di
genere: ogni frequentatore di western basati sul conlitto fra cowboy e indiani (forse
il sottogenere canonico per il nostro topos) non solo riconosce il silenzio poco convincente, ma riconosce anche il verso del coyote o della civetta come possibili segnali
scambiati dai nativi prima dell’attacco. Dal punto di vista retorico ed estetico quei
suoni appartengono al silenzio, lo qualiicano come minaccioso.
Seconda osservazione: per sua natura, come assenza (sia pure relativa) di suono, il silenzio allude a un suono, lo premette, lo implica, crea per il suono un’attesa, possibilmente spasmodica. È dificile che una sequenza che include una fase di
silenzio non termini con un suono forte, sconvolgente, il più delle volte secco. Un
controesempio che mi viene in mente è quello delle sequenze nelle quali i personaggi
devono eludere la sorveglianza di qualcuno (il passaggio di un commando attraverso le linee nemiche, i ladri del museo Topkapi che scivolano sui tetti, il detective
che fruga nei cassetti dell’indiziato e l’indiziato non compare), dove la tensione di
solito viene sciolta da suoni sommessi: un sospiro, un commento sussurrato, con
una qualità della ripresa audio che connota presenza, vicinanza. Questo è un altro
topos del silenzio, naturalmente. In questo caso, come in quello esaminato in qui, lo
spettatore è invitato a tendere l’orecchio, a immedesimarsi nell’attenzione per ogni
minimo dettaglio sonoro che si coglie negli atteggiamenti dei personaggi. Una sequenza famosa di The Longest Day (Il giorno più lungo, 1962, di Ken Annakin, Andrew
Marton, Bernhard Wicki) gioca su questa attenzione, sui possibili inganni e le loro
conseguenze. Una compagnia di paracadutisti americani, per ritrovarsi dopo l’atterraggio nell’entroterra della Normandia, usa un congegno a scatto, una specie di
raganella, che serve a riconoscersi nel buio. Nella prima parte del ilm, che illustra
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Franco Fabbri
i preparativi del D Day, ci vengono mostrati i paracadutisti che giocano con le raganelle. Nella notte che precede lo sbarco i soldati atterrano sul suolo francese e nel
silenzio della campagna azionano il congegno. Molti si ritrovano, si raggruppano,
si mettono in marcia. Uno di loro, disperso e preoccupato da un rumore di frasche,
prova a fare clic clac con la sua raganella. Nessuna risposta. Tenta un’ultima volta,
ed ecco che al di là di un cespuglio si sente un altro clic clac. Sollevato, si alza per andare incontro al commilitone, e prima che possa rendersene conto viene abbattuto
da una fucilata. Un soldato tedesco lo guarda a terra e poi ricarica il suo fucile: clic
clac. Su questa capacità del suono focalizzato di ritagliare attorno a sé il silenzio, e
del silenzio di focalizzare il suono, tornerò alla ine.
Terza osservazione, in linea di principio banalissima, perché attribuibile al sonoro cinematograico in generale, se non a tutto il cinema: l’eficacia drammaturgica
e la verosimiglianza non hanno nessun rapporto di necessità che le colleghi, anche in
riferimento al silenzio. Pensiamo alla sequenza di C’era una volta il West: il vento che
inizia a ululare solo quando McBain va al pozzo a prendere l’acqua non ha nessuna
fondatezza meteorologica (come quasi tutto il vento che sofia nel vecchio West,
del resto). Se l’avesse, McBain e sua iglia per primi attribuirebbero alla rafica improvvisa l’ammutolirsi delle cicale: una causa molto plausibile, per chiunque abbia
esperienza di cicale e di vento (ed è noto, d’altra parte, che le cicale ammutoliscono
spesso per conto loro, non necessariamente per la presenza di killer nascosti dietro
ai cespugli: se mi si concede la divagazione bio-etologica, è del tutto falso anche
che le cicale cantino solo di giorno, e i grilli solo di notte). Ma mentre guardiamo il
ilm l’attendibilità di quella successione di suoni dosati nel missaggio conta quanto
l’attendibilità della canzone cantata da Maureen McBain (il testo di «Danny Boy»
fu scritto nel 1910, qualche decennio più tardi dell’epoca in cui il ilm è ambientato):
cioè, nulla. E ci piace farci attanagliare dalla tensione di una sequenza costruita con
materiali possibilmente o evidentemente falsi.
Però, c’è almeno un caso in cui una questione di verosimiglianza costituisce
un elemento fondativo di un effetto estetico e drammaturgico davvero notevole.
Parlo del silenzio «assoluto» dello spazio in 2001: A Space Odissey di Stanley Kubrick
(2001: Odissea nello spazio, 1968). Credo che si tratti del primo ilm di fantascienza
dove l’assenza di suono al di fuori dell’atmosfera terrestre – o delle stazioni spaziali
e astronavi rappresentate – sia presa come un dato della realtà da rispettare rigorosamente. In altri ilm del genere – direi in Outland (Atmosfera zero, 1981, di Peter
Hyams) – il presupposto realistico introdotto da Kubrick è stato mantenuto, ma
in altri anche recenti le astronavi e le navicelle non mancano di far sentire il loro
rombo quando solcano lo spazio o quando sparano missili o raggi distruttori, come
nei B movies degli anni Cinquanta. La soluzione di compromesso introdotta da ilm
«Questo silenzio non mi convince!». Il silenzio nel suono cinematograico
e teleilm post-Kubrick e post-Trumbull (ma già presente nella prima serie di Star
Trek, 1966) è stata che le grandi astronavi sono silenziose quando navigano nello
spazio «convenzionale», ma fanno un bel ischio da proiettile quando si immergono
nell’iperspazio.
Nel ilm di Kubrick il silenzio dello spazio interplanetario è una delle componenti della ricostruzione realistica di un ambiente che ormai anche il grande pubblico cominciava a conoscere, grazie a ilmati e fotograie delle imprese del programma Gemini e del programma Apollo: non c’è solo il silenzio, ma anche gli effetti
dell’assenza di gravità (la famosa sequenza della penna che galleggia nella navetta
di collegamento, con l’hostess che raccoglie la penna e la rimette al suo posto nel
taschino del passeggero) e soprattutto il contrasto netto di luci e colori, dovuto alla
mancanza della diffusione nell’aria. Gran parte del fascino di quel ilm, per gli spettatori dell’epoca, stava in quelle immagini mai viste ma verosimili.
Il silenzio in 2001, tuttavia, è ben di più che un elemento di verosimiglianza
sonora. Il ilm dura circa due ore e mezza, delle quali solo quarantotto minuti sono
occupati da dialoghi (la prima parola viene pronunciata dalla hostess di cui sopra,
venticinque minuti e mezzo dopo l’inizio del ilm); una delle sequenze-chiave è quella in cui HAL legge sulle labbra dei due astronauti superstiti, che discutono come disconnetterlo dopo essersi assicurati che il canale audio sia chiuso; in molte occasioni
la musica (per la quale il ilm è altrettanto famoso che per la forza delle immagini)
svolge una funzione di silenzio extradiegetico, alla quale sono piegate – anche con
montaggi molto poco rispettosi della loro integrità – partiture di stile e funzione originaria diversissimi, come l’Adagio dal balletto Gayane di Kachaturian e Atmosphères
di Ligeti. Scrivendo di 2001 sul suo blog, lo studioso statunitense di cultural studies
Michael Bérubé cita Michel Foucault:
Il mutismo stesso – le cose che ci si riiuta di dire, o che si vieta di nominare, la discrezione che si richiede tra certi locutori – sono elementi che funzionano accanto alle
cose dette, con esse ed in rapporto ad esse in strategie d’insieme […] Non c’è uno, ma
più tipi di silenzio, ed essi fanno parte integrante delle strategie che sottendono ed
attraversano i discorsi7.
E commenta:
Poiché trovo che questo passo sia troppo generico per un consumo generalizzato, di
solito lo discuto chiedendo agli studenti la differenza tra ciò che è «innominabile» e
7
Michel Foucault, Storia della sessualità. Vol. 1: La volontà di sapere, tr. it., Feltrinelli, Milano, 2001, p. 28.
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Franco Fabbri
ciò che «non c’è nemmeno bisogno di dire». A questi tipi di silenzio molto differenti
possiamo aggiungere i silenzi del consenso e del dissenso tacito, il silenzio dell’opposizione ostile, il silenzio di non rivelare l’identità segreta di un amico, il silenzio dell’imperscrutabile (in sé una categoria dell’«ignoranza»), il silenzio del cercar di scoprire
cosa un’altra persona sa, e, non ultimo di tutti, il silenzio del non essere preparati per
la lezione. 2001 di Kubrick, alla ine dei conti, è composto da tutti questi «silenzi»8 .
Perché questi silenzi siano possibili si può dire, citando Bresson9 , che fosse necessario il sonoro. Pochi ilm introducono o interrompono il silenzio con tanta eficacia
drammatica come 2001, e questo avviene ricorrendo a tutta la forza dell’orchestrazione tardoromantica (l’«alba» di Richard Strauss) e soprattutto dell’ampliicazione
(esasperata nel caso del Kyrie e del Dies irae dal Requiem di Ligeti nelle sequenze del
monolito: ascoltando un’esecuzione dal vivo o una registrazione del Requiem destinata alla normale produzione discograica l’effetto frastornante delle voci che accompagnano il monolito si attenua di molto). Non va dimenticato che alla ine degli
anni Sessanta gli impianti di ampliicazione subiscono un potenziamento decisivo;
tra l’ultimo concerto dei Beatles nell’estate del ’66 e il festival di Woodstock di tre
anni dopo c’è un abisso tecnologico ed estetico: a San Francisco (29 agosto 1966)
venticinquemila spettatori coprono con le loro urla il suono del quartetto, al punto
che i Beatles – non ascoltandosi tra loro – non riescono a cantare intonati, mentre a
Woodstock (15-18 agosto 1969) almeno trecentomila spettatori ascoltano con un volume alto e coinvolgente decine di artisti e gruppi con formazioni e strumentazioni
disparate. Il mio ricordo della «prima» milanese di 2001, all’Alcione (l’11 dicembre
del 1968) è di un volume sonoro ino ad allora inaudito. Come ho già accennato, le
musiche di Ligeti (soprattutto nel pre-inale, il viaggio psichedelico verso la supericie di Giove o di un suo satellite: di nuovo il Requiem, Atmosphères e Aventures) furono
non solo rimontate, ma anche mixate con rombi e suoni esplosivi, senza chiedere il
parere del compositore (che in seguito intentò e vinse una causa).
Anche se si tratta (almeno come modello, come inalità estetica) del silenzio
«assoluto» dello spazio, quello di 2001 è ancora un silenzio relativo, deinito non
dall’assenza totale di suono, ma dalla dinamica, dall’intervallo tra il suono più debole e quello più forte. Se è così, almeno in teoria, la funzione espressiva del silenzio
avrebbe dovuto ricevere un grande impulso dall’introduzione dei sistemi di compressione/espansione e più tardi della registrazione digitale (curiosamente, il primo
ilm per il quale fu usato il Dolby in fase di registrazione e produzione dei master
8
Michael Bérubé, Open the pod bay doors, blog del 20.12.2006, http://www.michaelberube.com/index.
php/weblog/open_the_pod_bay_doors/, traduzione mia.
9
Citato in Michel Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, cit., p. 60.
«Questo silenzio non mi convince!». Il silenzio nel suono cinematograico
è il ilm successivo di Kubrick, A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971). Ma in
dagli anni Settanta, nel cinema, l’evoluzione tecnologica si muove nella direzione
della spazializzazione del suono (Dolby Surround) più che in quella dell’aumento
della dinamica, e quando arriva il suono digitale le sue caratteristiche sono piegate
soprattutto alla creazione di quel panorama stereofonico variegato e stratiicato che
caratterizza il cinema spettacolare almeno dagli anni Novanta. Anche nella produzione discograica la risorsa del silenzio offerta dai 96 decibel di dinamica della
registrazione digitale ha tardato a essere sfruttata, anche ben più avanti dell’introduzione sul mercato del Compact Disc.
Personalmente, se devo pensare a un cinema che mi abbia davvero convinto
con i suoi silenzi e con il dettaglio puntuale dei suoni (sfruttando in modo inusitato
la spazializzazione stereofonica), dopo 2001, mi viene in mente quello di Franco
Piavoli, specialmente Nostos, il ritorno (1989) e Al primo sofio di vento (2002). Una sequenza da quest’ultimo ilm mi permette, in conclusione, di accennare a un ulteriore
tipo di silenzio: un silenzio paradossale, in realtà popolatissimo di suoni, tranne
quelli dei personaggi inquadrati. Una persona anziana e una giovane donna giacciono su un letto. La donna prima massaggia i piedi, poi le mani dell’anziano. Non
si parlano, ma la stanza (della quale non si vede altro dettaglio che il letto) è invasa
dai suoni (forti) delle campane di una chiesa vicina, di voli e canti di uccelli (rondini)
e, verso la ine, di voci di ragazzini. Si intuisce che ci deve essere una inestra aperta.
Fuori campo, ma dentro la scena, una voce di donna che parla al telefono e ride: è
un caso (almeno temporaneo e anomalo, perché sappiamo di chi si tratta) dell’acusmetro deinito da Chion. L’acusmetro però non entra nel quadro, anzi, scompare,
dopo aver pronunciato (con voce da donna cittadina, piena di impegni, e una dizione che contrasta fortemente con l’ambiente di campagna) le parole «No, ma io non
ho tempo». C’è una zoomata audiovisuale, che inquadra un melograno, porto dalla
giovane donna all’anziano, che lo annusa. La sequenza termina con l’inquadratura
ravvicinata (immagine e suono) di alcuni chicchi di melograno, e col rumore ampliicato della loro caduta sulle lenzuola.
L’assenza di dialogo sottolineata dai dettagli sonori ambientali potrebbe richiamare Bergman, ma Piavoli qui ricorre alla sua esperienza di documentarista, di naturalista e antropologo audiovisuale, che posa lo sguardo e l’ascolto su ogni particolare, senza istituire gerarchie tra immagine e suono. L’uso del sonoro nel cinema di
Piavoli acuisce, estremizza la normale capacità di cogliere la provenienza dei suoni
e di isolarne uno in mezzo ad altri: si può dire che tenti un ribaltamento delle caratteristiche percettive dell’occhio e dell’orecchio, rendendo a volte passive e ricettive le
prime, attive e proiettive le seconde. Ci offre in qualche caso virtuosismi tecnici (un
insetto che ronza e sbatte su un vetro, mentre il suono stereofonico sembra provenire
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esattamente da quel punto dello schermo) dificili da trovare anche nei blockbuster
ipertecnologici di Hollywood, ma è proprio il contorno dettagliatissimo dei suoni
che ritaglia intorno a loro una zona di non-suono: quel silenzio paradossale al quale
accennavo.
Robert Bresson ha scritto, con tono imperativo: «Quando un suono può sostituire un’immagine, sopprimere l’immagine o neutralizzarla»10 . Come suggerisce
Keith Reader11, il principio può essere esteso anche al silenzio, attribuendogli una
priorità estetica sia rispetto all’immagine che al suono. Parafrasando Bresson (ma
senza tradire il suo pensiero), «quando il silenzio può sostituire un suono, sopprimere il suono o neutralizzarlo». Questo, forse, è il silenzio che convince.
10
«Lorsq’un son peut remplacer une image, supprimer l’image ou la neutraliser», Robert Bresson,
Notes sur le cinématographe, Gallimard, Paris, 1975, p. 62.
11
Keith Reader, Robert Bresson, Manchester University Press, Manchester, 2000, p. 129.