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2 N. 4 – Dicembre 2015 Leone de’ Sommi: un uomo di teatro fra ‘ghetto’ e corte Giorgio Pavesi – Stefano Patuzzi (Associazione di cultura ebraica “Man Tovà – La città della manna buona”) Q uando il duca Guglielmo Gonzaga (15501587) si rivolgeva per la gestione degli spettacoli di carnevale alla “Università delli Hebrei”, ossia alla comunità ebraica di Mantova, aveva ben chiara l’opportunità di realizzare grandi apparati con un notevole contenimento dei costi.1 Una scelta economicamente vantaggiosa e allo stesso tempo in controtendenza rispetto a quanto stava accadendo nella Penisola, dove il fervore antigiudaico aveva trovato compimento nell’emanazione della bolla di papa Paolo IV Carafa Cum nimis absurdum (1555). Un provvedimento con cui si vietava agli ebrei di svolgere attività commerciali che non fossero relative agli stracci o ai vestiti usati, ai medici ebrei di curare i cristiani e alle famiglie ebraiche di avere balie o servi cristiani. La disposizione papale prevedeva inoltre l’obbligo per gli ebrei di indossare un segno di riconoscimento e la creazione di luoghi di segregazione della popolazione ebraica: i ‘serragli’, o ghetti, i cui i cancelli venivano aperti all’alba per poi essere richiusi al tramonto. A Mantova tali disposizioni trovarono pieno compimento nel 1612, com’è noto, appunto con l’istituzione del ghetto. Alla corte dei Gonzaga si distinse nella realizzazione degli apparati per gli spettacoli la figura di Leone de’ ฀ ฀ ฀ il quale maturò la propria esperienza di corago (ossia di responsabile nell’allestimento degli spettacoli; oggi diremmo regista) collaborando con le numerose compagnie di attori, cantanti e ballerini, locali e provenienti dalle altre corti italiane, che vennero via via invitati a esibirsi a Mantova. L’attività teatrale nella città dei Gonzaga aveva conosciuto un forte incremento a partire ฀ ฀ ฀ ฀ ฀ Isabella d’Este, la quale si spese notoriamente con ogni mezzo per invitare a corte artisti celebrati, elevando Mantova al livello delle più fulgide corti italiane. Oltretutto, mentre il papato e la gerarchia cattolica miravano a ridurre e delimitare drasticamente lo spazio d’azione sociale delle minoranze, e di quella ebraica in modo particolare, fu proprio l’ebreo de’ Sommi a porsi in una prospettiva di dialogo che oggi piacerebbe definire interculturale. Egli era ben consapevole dell’esistenza di muri perimetrali che non permettevano compromessi. Tuttavia – pur in un clima di vessazione antigiudaica e in un periodo storico in cui il cattolicesimo tentava energicamente di ridefinire una sua propria identità, anche per differenza rispetto alle istanze della Riforma – Leone de’ Sommi si inserì nel dibattito letterario coevo intorno alla Vulgata (ossia alla versione latina della Bibbia, e dunque più in generale alla traduzione dai testi originari veterotestamentari dall’ebraico ad altre lingue), per spostare l’attenzione dal piano religioso e confessionale a quello letterario. È da collocarsi in questo contesto la sua traduzione dall’ebraico all’italiano di 45 salmi, dunque dei testi che nella tradizione ebraica rappresentano esemplarmente il tragitto dell’invocazione o della lode che, dall’uomo, giunge al Signore dell’Universo.2 Tradurre i salmi era un modo, per de’ Sommi, così da porre la sua personale esperienza ebraica in dialogo con le forme e il linguaggio tipici della tradizione letteraria ita- liana. In questo tentativo di valorizzazione della dimensione poetica e persino ‘politica’ della lingua santa – dell’ebraico – egli si colloca nella scia dell’esperienza umanistica ponendo in dialogo il linguaggio alto del testo ebraico con quello della traduzione italiana e dunque sbalzando, così facendo, la dimensione poetica della lingua sacra.3 De’ Sommi era perfettamente a giorno delle dinamiche di scrittura teatrale del suo tempo, concepite secondo i canoni della classicità e delle idee umanistiche; dinamiche che, nella creazione di nuovi testi teatrali, prevedevano oltre al resto l’utilizzo di teatrogrammi, ovvero l’inserimento in nuovi lavori di parti espunte da altri testi e caratterizzate da quegli elementi narrativi che rappresentano un patrimonio di personaggi e situazioni tratti dalle commedie del repertorio classico o di autori contemporanei noti al pubblico. Un percorso intertestuale che anche nel caso della commedia Tre sorelle (1588) di de’ Sommi rimanda ad esempio a Il formicone, La cortigiana e Il marescalco,4 allineandosi così alla prassi compositiva rinascimentale. Il teatro in quanto specchio delle vicende umane si rivelò inoltre un ottimo veicolo per riscattare il ruolo della ‘maschera’ del giudeo che il teatro medievale aveva relegato a oggetto di dileggio e scherno da parte del pubblico. Alla fin fine, per de’ Sommi, l’obiettivo ultimo divenne la costruzione di ciò che viene oggi definito interdiscorsività, ovvero quel peculiare processo di mediazione linguistica fra l’esperienza ebraica e quella cristiana. Sul palcoscenico si realizzò dunque una forma di mediazione culturale e fu attraverso il teatro, in quanto rappresentazione del verosimile, che Leone de’ Sommi rilanciò una nuova idea di commedia, il cui fine di «tassare i vizi ed esaltare le virtù» viene del resto ribadito, in sede teorica, nei Quattro dialoghi. La rivoluzione culturale di de’ Sommi toccò il proprio apogeo nella stesura e nella recita della prima commedia – nella storia – scritta in ebraico (con tasselli in aramaico, come si evince anche solamente dal ‘titolo’), ossia Tzachùt bedichùta de-qiddushìn (“Un elegante divertimento matrimoniale”), ispirata a una vicenda narrata nell’altro testo sacro dell’ebraismo, il Talmùd (che in ebraico significa “studio”),5 e strutturata su un impianto di tipo rinascimentale ma con ambientazione e personaggi ebrei e con dialoghi intessuti di riferimenti biblici e talmudici. Con questo lavoro Leone de’ Sommi riscattò – su un piano sociale e culturale – la minoranza ebraica dalla consueta condizione di emarginazione, rivestendola della dignità che la società del tempo le negava con sistematicità studiata. Di simile, straordinaria importanza sono i già citati Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche,6 tramite i quali il corago mantovano si inserì nel dibattito letterario rinascimentale. Egli chiarì in primo luogo la propria posizione all’interno della querelle circa la primazia fra il testo scritto e l’evento rappresentato, in favore di una visione secondo cui il testo doveva essere concepito secondo criteri legati alla messinscena e non alla stregua di una mera prova letteraria; in secondo luogo specificando quali dovessero essere i parametri che l’autore era tenuto a considerare nella stesura del lavoro così da raggiungere il desiderato effetto scenico. Gli ultimi due Dialoghi stupiscono ancor oggi per l’attualità degli argomenti: i punti più interessanti si riferiscono alla selezione e alla qualità del testo da rappresentare, all’analisi dei personaggi e alla scelta degli attori, alla qualità dell’attore con particolare attenzione all’aspetto fisico e alle caratteristiche vocali, di scansione e di dizione, all’introspezione dell’attore così da immedesimarsi nel personaggio, alla postura, alla scelta dei costumi, alla definizione del responsabile di scena e trovarobe, all’organizzazione dello spettacolo, all’utilizzo della luce. Nulla è tralasciato, ogni particolare della messinscena è analizzato con lo scrupolo e la professionalità di un esperto uomo di teatro che si preoccupa di trasmettere ai contemporanei le competenze di una ricca esperienza di allestitore. La rivoluzione culturale e sociale di de’ Sommi – fra ebraismo, letteratura e teatro, e modernità – si concretizzò dunque tanto nella riflessione teorica, quanto nella produzione e nell’allestimento teatrale: frutti maturi della sua vita fra i due mondi del ‘ghetto’ e della corte.7 Si hanno notizie di sudditi ebrei utilizzati negli spettacoli di corte dalla fine del XV secolo. Le prime testimonianze di uno spettacolo tenuto dalla compagnia degli ebrei risale al 1525. Si vedano l’irrinunciabile Alessandro D’Ancona, Origini del teatro italiano, vol. 3, Appendice II (ristampa anastatica dell’edizione Loescher ฀ ฀ ฀ ฀ ฀ ฀ ฀ ฀ ฀ ฀ ฀ ฀ Ferrone, I Gonzaga e l’Impero. Itinerari dello spettacolo, a cura di Umberto Artioli e Cristina Grazioli, Firenze, Le Lettere, 2005. 2 Una descrizione particolareggiata dei manoscritti e dell’analisi testuale è riportata in Ilaria Scola, Interdiscorsività nell’opera di Leone de’ Sommi. Tra giudaismo, classicismo e umanesimo, Ravenna, Longo, 2008, pp. 1747. 3 Si legga Alessandro Guetta, The Italian Translation of the Psalms by Judah Sommo, in Rabbi Judah Moscato, a cura di Giuseppe Veltri e Gianfranco Miletto, Leiden-Boston, Brill, ฀ ฀ 4 Il Formicone (1525) di Publio Filippo Mantovano è il primo testo teatrale di un autore mantovano; La Cortigiana (1525) e Il Marescalco (1536) di Pietro Aretino erano commedie ben note al pubblico di Mantova. 5 La si legge nel Talmùd babilonese, trattato Ghittìn, fogli ฀ ฀ 6 Si veda l’edizione curata da Ferruccio Marotti, Milano, Il ฀ 7 Per uno sguardo panoramico si veda Giorgio Pavesi, Leone de’ Sommi hebreo e il teatro della modernità, Asola, Gilgamesh, 2015. 1