Musei, “tolleranza” e identità di genere
La parola “tolleranza” fa orrore alla maggior parte delle persone appena consapevoli della sua
valenza paternalistica: dell’assunto implicito, cioè, che qualcuno debba tollerare qualucun altro in
virtù di non si sa che cosa. È, francamente, una parola odiosa.
Eppure, esistono musei che fanno riferimento all’atteggiamento della tolleranza, fin dal proprio
nome.
Museo Memoria Y Tolerancia
Il Museum of Tolerance di Los Angeles, costola del Simon Wiesenthal Center, esprime soprattutto
una vocazione educativa: racconta dei genocidi del XX secolo facendo leva sulla multimedialità e sul
coinvolgimento emotivo. Un exhibit molto noto ai museologi è quello posto all’ingresso. Ci sono due
porte, sopra una delle quali sta scritto: non ho pregiudizi; mentre sull’altra: ho pregiudizi. Se il
visitatore cerca di entrare da quest’ultima, si accende una spia rossa che dice: entra dall’altra parte.
Il messaggio è chiaro. La costruzione del pendant di questo museo a Gerusalemme, a firma di
Chyutin Architects (dopo il clamoroso ritiro di Frank Gehry), ha avuto vicende molto controverse,
anche perché insiste su un antico cimitero arabo.
Nonostante molti stop-and-go e numerosi appelli, anche con firme illustri, i lavori sono in corso, e il
museo dovrebbe essere inaugurato entro la fine dell’anno.
A Los Angeles si parla di genocidi per motivi di etnicità, religione e politica. Come in molti musei
della Shoah, si fa riferimento all’uccisione degli omosessuali nei campi di sterminio. Ma in che modo,
più in generale, il concetto di “tolleranza” si applica all’identità di genere, nei musei? Ne ha scritto,
e molto bene, Richard Sandell (un testo di riferimento è quello da lui curato con Eithne Nightingale:
Museums, Equality and Social Justice, del 2012), e sempre più forte è l’attenzone a questo tema a
partire dalla scuola di Leicester, dagli studiosi della museologia radicale, dalle molte voci interessate
al ruolo dei musei nella società contemporanea.
Quando Mika Aslan, in arte Mikonika Q, lo scorso aprile fa per entrare al Museo Memoria y
Tolerancia di Città del Messico, le dicono che non può entrare “vestita così”: vestita, cioè, da drag
queen. Glielo ribadisce prima un addetto alla sorveglianza, poi uno dei dipendenti dell’ufficio
comunicazione, chiamato a dare man forte. “Ritorna su appuntamento”. E lei, andata a visitare il
MYT all’interno del progetto Dragas en la Calle, che promuove visite nei musei della città per
combattere il pregiudizio secondo cui alle drag “interessa solo fare festa”, inscena la performance
Dragcidio: 15 minuti sdraiata per terra, con un cartello su cui sta scritta una sola parola, appunto
tolleranza. Fin troppo facile, per i giornali, parlare di una ricerca di visibilità. Il museo, anche a
seguito della notevole attenzione mediatica sulla vicenda, divulga un comunicato stampa in cui
afferma che Mika non aveva il biglietto né l’autorizzazione a fare fotografie (ma io ne ho scattate
molte e nessuno mi ha detto nulla), e ribadisce la sua posizione aperta, la sua vocazione inclusiva e
di contrasto a ogni forma di discriminazione.
Museo Memoria Y Tolerancia
Museo Memoria Y Tolerancia
Mi racconta questa vicenda un amico, giovane curatore di una fondazione privata di Città del
Messico e conoscente di Mika.
Partecipiamo insieme a un workshop su musei e frontiere, e discutiamo di come il tema, visto
dall’interno delle istituzioni, riguardi più spesso barriere immateriali, culturali. Ne discutiamo a cena
con altri esponenti del mondo dell’arte contemporanea e dei musei cittadini: molti concordano sul
messaggio ambiguo dell’istituzione, un ente privato nato nel 1999 per volontà dell’associazione
“Memoria y Tolerancia” e aperto in forma di museo nel 2010 in un edificio di grande qualità
progettato ad hoc nel centro della città da Arditti + RDT arquitectos. I miei interlocutori
sottolineano il fatto che non si tratti la questione palestinese: aspetto complesso e delicato, che
sarebbe sciocco semplificare. Ma prendo mentalmente nota.
Il giorno dopo vado a visitare il museo, e lo trovo molto intelligente. Si parla di Shoah e di genocidio
armeno, di Ruanda e di ex-Jugoslavia, di Cambogia, Guatemala e Darfur, sempre in modo articolato,
con materiali diversi (oggetti, fotografie, video, exhibit interattivi, molte interviste a sopravvissuti,
soprattutto – ma non solo – quelli della Shoah), con visite guidate cui vedo partecipare molti giovani,
in una domenica mattina di sole. La mostra sul femminicidio – Feminicidio en México. ¡Ya basta! –
centrata sulle storie delle vittime, è claustrofobica, terribile e utilissima, con la sua vocazione di
servizio, di chiamata all’azione.
La parte dedicata allo hate speech online è sofisticata e non teme di affrontare temi difficili.
La sezione finale è dedicata alle migrazioni, e pur avendo visto decine di musei che trattano questo
tema, trovo qui qualcosa di nuovo, che riesce a sottrarsi allo stereotipo del dualismo muro-ponte,
della narrazione biografica individuale (purtroppo talmente risaputa da rischiare l’effetto
ridondanza), della dicotomia fra il migrante povero e ignorante e quello geniale, dunque vocato al
successo, alla Einstein. Ci sono le voci (camuffate) degli addetti alla frontiera fra Messico e Stati
Uniti; c’è il narcotraffico; c’è la metanarrazione degli artisti contemporanei. Ci sono dispositivi
interattivi che ti mostrano nella tua natura migrante, ma non sono bambineschi né autoconsolatori
(perché se visiti un museo privato, con biglietto di ingresso abbastanza salato, si presume che tu non
sia un immigrato clandestino). Ci sono storie difficili di persone di talento che sono emigrate, e ne
hanno pagato il prezzo, ma sono riuscite a diventare nonostante tutto quello che in nuce già erano. Il
bookshop è ricco, e ha una sezione dedicata a pregiudizi e discriminazioni legati all’identità di
genere e all’orientamento sessuale. Le attività educative, rivolte a pubblici molto variegati, sono
innovative e di ispirazione.
Museo Memoria Y Tolerancia
Perché, dunque, quello scivolone? Perché un atteggiamento davvero aperto e accogliente –
all’ingresso ti vengono letteralmente incontro, quando scoprono che sei una collega si prodigano in
domande, fanno di tutto per facilitare la visita di chiunque – si trasforma in un tale boomerang?
Scrivo al museo per chiedere che cosa, a distanza di mesi, abbia imparato da questa storia e che
cosa abbiano deciso di farne in termini di policies interne e soprattutto di riflessione, ma nessuno mi
risponde.
Perché quell’autogol? Perché nessuno ci aveva pensato, io credo (procedo per ipotesi). Eppure
Dragas en la Calle è geniale, e ogni museo dovrebbe essere onorato di ospitarlo, e anzi progettare
qualcosa di sensato intorno a quelle dragas appassionate di musei (e intorno ai drag-king, a questo
punto). Perché, insomma, non c’è un precedente, ed essere pionieri è difficile: penso anche a Mika,
che ho contattato, ma che è spaventata della troppa esposizione, e dunque dice e non dice.
Faccio, però, una riflessione. In quella domenica di sole c’erano molte famiglie con bambini piccoli
che scorrazzavano beati, il più delle volte in autonomia, davanti a immagini molto cruente, quasi
intollerabili (è il caso di dirlo) anche per gli adulti.
Questo mi ha molto stupito, e progressivamente innervosito: il biglietto è caro, venire qui è una
scelta, non è un’occupazione di tempo qualunque, non è come andare al parco. Non c’è un pensiero
dietro? Quella bambina di quattro, forse cinque anni che ballonzola da sola davanti allo schermo con
immagini di gente che corre urlando a Sarajevo, degli uomini uccisi a bastonate in Ruanda: che
cos’hanno nella testa i suoi genitori? E quelli che fanno foto all’impazzata ai figli davanti alla
ricostruzione dei treni nazisti, come fossero sul lungomare? Non mi tengo, e chiedo: “Signora, ma
non sono troppo piccoli i suoi bambini per vedere da soli immagini così tremende?”. “No, devono
imparare come la specie umana è sopravvissuta. Devono imparare che vince il più forte”.
Ecco, scopro dentro di me tutti i pregiudizi di questo mondo (ma portateli in piscina, ma mettete via
questi smartphone che vi rimbecilliscono), e molta, molta intolleranza. Questa intolleranza si
magnifica quando parlo con la giovane operatrice che, all’uscita, mi propone di fare una valutazione
del museo. “Perché lasciate entrare bambini così piccoli?”, chiedo. “Eh, noi lo diciamo che l’ingresso
è sconsigliato ai ragazzini sotto una certa età” (mi pare 11 anni), “ma non ci ascoltano”. “E voi non
fateli entrare”, dico io, esterrefatta. Forse sarebbe anche quella discriminazione. Eppure.
Esco in quella domenica di sole con tantissime domande: su come ci sarà rimasta Mika, su quanto
tutto fosse da lei progettato per avere un po’ di notorietà e se questo importi, sui bambini lasciati da
soli da adulti troppo spensiderati, sulla mia intolleranza. Forse, per prove e molti, molti errori,
almeno su di me il museo ha suscitato la giusta dose di dubbio.