Le limitazioni ai diritti costituzionali a mezzo atto amministrativo
nell’avvio dell’emergenza pandemica da COVID-19
di Fabio Ratto Trabucco*
7 maggio 2020
Sommario: 1. Lo Stato d’eccezione e l’iniziale gestione dell’emergenza pandemica in Italia. – 2. Le
lacune del d.l. 6/2020 in punto di restrizioni alle libertà costituzionali a mezzo atto amministrativo. – 3.
Segue: la limitazione alla libertà di circolazione in tempo di COVID-19. – 4. Segue: l’onere autodichiarativo per la circolazione. – 5. Conclusioni: un’iniziale gestione emergenziale incostituzionale
nell’assordante silenzio generalizzato delle istituzioni.
1. Lo Stato d’eccezione e l’iniziale gestione dell’emergenza pandemica in Italia
Sovrano è chi decide sullo Stato di eccezione, così il celebre Carl Schmitt definiva
senza mezzi termini il detentore del potere nel suo mirabolante Teologia politica1.
Partendo da concetti semplici e neutri come terra, mare, amico, nemico, Schmitt
giunge a teorizzare la differenza tra legalità e legittimità, e quindi a correlare
strettamente la sovranità con la possibilità di decidere sullo stato di eccezione2. Lo Stato
d’eccezione si configura come un soggetto politico che detiene il controllo totale di
ogni ambito sociale (così fu per Schmitt nel III Reich tedesco). Lo Stato d’eccezione,
definibile anche come “Stato totale per energia”, si contrappone poi allo “Stato totale
per debolezza”, come Schmitt definiva lo Stato creato dal compromesso liberaldemocratico, ritenuto incapace di un’autentica decisione politica e di sovranità, pur
occupandosi di ogni ambito sociale.
È ben vero che i costituzionalisti come Kelsen non hanno mai condiviso tale
approccio ritenendo questo stato come del tutto pre-giuridico e quindi rigettando, anche
con una certa dose d’ipocrisia, le implicazioni costituzionali della teoria schmittiana3.
Ma il concetto di stato d’eccezione è stato ripreso anche in tempi recenti da Agamben
che ritiene tale stato come un vuoto giuridico, una sospensione del diritto
paradossalmente legalizzata ma pur sempre molto diffusa nella realtà odierna4.
* Research Fellow in Comparative Public Law.
1
Cfr. C. SCHMITT (a cura di A. CARACCIOLO), Teologia politica, Giuffrè, Milano, 1992.
2
Cfr. M. KAUFMANN, Derecho sin reglas. Los principios filosoficos de la teoria del Estado de Schmitt,
Fontamara, Roma, 2013.
3
Cfr. C. SCHMITT (a cura di A. CARACCIOLO), Dottrina della costituzione, Giuffrè, Milano, 1984.
4
Cfr. G. AGAMBEN, Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
1
La questione è anche se le emergenze siano eventi del tutto straordinari che si
verificano in circostanze imprevedibili o se si tratta di dinamiche più ordinarie, che
caratterizzano anche i tempi della politica normale. Nell’affrontare questo problema
non si può escludere una lettura alternativa della concezione di Schmitt sullo stato di
eccezione, interpretata alla luce del suo lavoro degli anni Trenta. Sulla base di
quest’analisi, l’eccezione non viene rappresentata come il momento fondamentale di
una comunità politica, ma come una minaccia dirompente per il nucleo materiale
dell’ordine costituzionale su cui è fondata la comunità. Di conseguenza, le emergenze
sono rappresentate come dispositivi legali progettati per gestire l’emergere di fenomeni
sociali potenzialmente inquietanti5.
Nel caso della pandemia da COVID-19 appare anzitutto evidente che l’iniziale
gestione istituzionale dell’emergenza sanitaria da parte dell’esecutivo italiano è stata
connotata da ampi ritardi ovvero sottovalutazioni dell’epidemia – anche per
scongiurare effetti nefasti sull’economia nazionale a fronte delle discendenti spinte
corporative. Basti considerare le fuorvianti e riduttive primigenie linee guide “sfornate”
dal Ministero della Salute a fine gennaio 2020 tutte incentrate sul ricondurre l’ingresso
del morbo nel nostro Paese ai soggetti meramente arrivati dalla Repubblica Popolare
Cinese tralasciando ogni ipotesi di vettori indiretti. Di talché la tanto casuale quanto
provvidenziale “scoperta” del primo ufficiale caso italiano “solo” in data 20 febbraio
2020. Infatti, nel dettare gli elementi cardine ai sanitari per l’individuazione del nuovo
virus limitando al mero elemento geografico “cinese” l’identificazione di potenziali
casi, il dicastero della Salute ha colpevolmente tralasciato (rectius, soppresso in forza
d’incomprensibile modifica delle primissime direttive) il sostanziale elemento
diagnostico di patologie respiratorie aventi decorso «insolito o inaspettato» come
inizialmente indicato ma successivamente rimosso6.
5
Cfr. M. CROCE, Emergence vs. emergency. Governing the boundary between the exceptional and the
normal, in «Ragion pratica», 2017, 48, 95-113.
6
Circolari del Ministero della Salute del 22 e 27 gennaio 2020, circa il trattamento e prevenzione da
COVID-19. Particolarmente nelle prime linee guida su chi deve essere sottoposto al tampone orofaringeo
si legge che è da trattare come caso sospetto anche «una persona che manifesta un decorso clinico insolito
o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato». Tuttavia,
la successiva e nuova versione delle linee guida ministeriali del 27 gennaio 2020 cancella quella frase e
prevede controlli solo per chi ha legami con la Cina. Si noti vieppiù che il formale stato di emergenza
COVID-19 é stato disposto con d.P.C.M. solo il successivo 31 gennaio. Tale elemento appare dirimente
nel radicare la responsabilità del dicastero per il generato e deleterio ritardo che ha determinato la
scoperta del “paziente 1” a Codogno solo il 20 febbraio 2020 laddove il suo decorso anomalo della
patologia respiratoria non determinava inizialmente alcuna necessità di attivare il test, posto che le
“seconde” linee guida si concentrano appunto esclusivamente sui legami e provenienza cinese del
paziente. Prova ne sia che é comprovata, nell’area lodigiana ovvero lombarda, già nel corso di gennaio
e febbraio la presenza di “strane” polmoniti, patologie che, per le Linee guida ministeriali del 27 gennaio
2020, non erano quindi campanelli d’allarme COVID-19. Tali contraddittorie indicazioni di fine gennaio
2020 appaiono dunque certificare la prima responsabilità (autentica “pistola fumante”) del ritardo
governativo nell’affrontare l’emergenza da cui a cascata gli ulteriori ritardi dell’esecutivo nazionale nel
contenimento pandemico.
2
Il tutto a tacer delle enormi responsabilità, ritardi le dissimulazioni portate avanti
dal regime totalitario cinese tipicamente fondato su censura e controllo dei cittadini7
con un sistema di “diritti affievoliti” tipico sia della ferrea tradizione dei regimi
socialisti che della secolare tradizione confuciana di primato delle esigenze collettive
sull’individualismo8. Nonché delle annesse connivenze ovvero revirements scientifici
in punto di protezioni e tracciamento dei contagi da parte dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità che, lungi dall’essere un organo scientifico indipendente, s’è ben
ancora confermata quale mero soggetto politico-burocratico che risponde anche a
soprattutto a logiche geostrategiche e personalistiche. La distonia fra il dovere cinese
all’assoluta chiarezza e trasparenza sull’origine virale e l’acclarato ritardo nelle
comunicazioni internazionali non giustificano indulgenza ovvero buonismo a fronte di
conclamate opacità, anche interne, non solo del regime di Pechino ma anche del
servilismo tra gerarchie – locale della Provincia di Hubei verso la centrale –, del Partito
totalizzante. A fronte di una Cina che appare diplomaticamente volersi porre quale
nuovo guardiano dell’ordine mondiale e chiaro competitor statunitense emerge un
quadro di plurime violazioni di cui il Paese è manifestamente responsabile. Tuttavia, lo
stesso primigenio studio avviato dal Procuratore generale del Missouri onde ipotizzare
un’azione risarcitoria statale contro la Repubblica Popolare Cinese appare detenere un
carattere più politico che fondamento giurisdizionale9. Se la giurisdizione della Corte
internazionale di giustizia dell’Aja mai sarebbe accettata dal regime cinese, non meno
peregrina appare l’ipotesi di una Corte internazionale ad hoc attivata dalle Nazioni
Unite in cui la Cina detiene potere di veto financo per l’istituzione di una mera
Commissione d’inchiesta.
Nel caso italiano, a fronte dell’assoluto rispetto dei sanitari che rischiano
quotidianamente e direttamente la loro salute negli ospedali appare dunque evidente
che sono loro i nostri Armando Diaz e non certo l’esecutivo centrale laddove con la
supponenza di poter gestire direttamente l’emergenza ha preferito inizialmente, per
circa un mese, mantenere la direzione della crisi epidemiologica supportata dal
comitato tecnico-scientifico.
L’assenza di un commissario ad hoc nel caso COVID-19 – solo tardivamente
nominato e con poteri limitati al potenziamento delle infrastrutture ospedaliere10, in
rapporto, per esempio, alla struttura commissariale per la ricostruzione del ponte
7
Cfr. A. CANEPA, Lotta al COVID-19 e diritti dei cittadini nella Repubblica Popolare Cinese. Le
peculiarità di un ordinamento socialista asiatico, in L. CUOCOLO (cur.), I diritti costituzionali di fronte
all’emergenza Covid-19. Una prospettiva comparata, in «Federalismi.it», 83-96.
8
Cfr. M. MAZZA, Lineamenti di diritto costituzionale cinese, Giuffrè, Milano, 2006, 107 e TIAN DAN,
Rights Perspective, in «Beijing Review», 2005, 51, 19 ss.
9
Cfr. T. AXELROD, Missouri becomes first state to sue China over coronavirus response, in
«TheHill.com», 21 aprile 2020.
10
D.P.C.M. 18 marzo 2020, di nomina del Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento
delle misure di contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica COVID-19.
3
Morandi11 – è la tipica conferma di come la politica tema questa figura di staff che, se
svolge egregiamente i propri compiti, offusca sine dubio la figura del vertice
governativo. Il primigenio prezzo da pagare in assenza del commissario straordinario
all’emergenza COVID-19 è stata l’assenza di una regia unica. Del resto, nominare un
commissario ad emergenza in corso determina, a sua volta, l’effetto di delegittimare i
titolari delle istituzioni.
Aggiungiamo poi che storicamente il ministero della Salute è sempre stato in
cima alla lista dei tagli ad ogni annuale legge finanziaria, di stabilità, di bilancio, o
come vogliamo definirla, anche e soprattutto da ultimo in forza delle regole calate da
Bruxelles, fiscal compact docet.
Neppure erano trascorsi due giorni dalla proclamazione della Lombardia e di 14
province limitrofe quali “zone rosse” – dopo due settimane di colpevole riduzionismo
e conseguenziale ritardo – e l’esecutivo estende draconiane norme di limitazioni dei
diritti costituzionali a tutto il Paese.
Ancora, due altri giorni dopo si procede alla chiusura delle attività aperte al
pubblico lasciando però operativi gli uffici pubblici, poste, banche e servizi assicurativi
che tali rimarranno per tutto il periodo di lockdown. S’è molto proceduto a spizzichi e
bocconi con decreti “spezzatino” del Presidente del Consiglio col risultando di generare
solo confusione. A sua volta il cordone sanitario iniziale lodigiano ed euganeo s’è
dimostrato una pia illusione in termini di contenimento territoriale laddove la patologia
già era ben latente nell’area lombardo-veneta-emiliana ed alcuna altra iniziativa di
blocco è stata assunta per ben due settimane, evidente colpevole negligenza governativa
che ha segnato irrimediabilmente l’espandersi della pandemia nel Nord.
Ma quello che costituzionalmente non torna nella gestione iniziale
dell’emergenza è l’iniziale messa in stand by del Parlamento. Orbene, complice una
fattuale forte riduzione dei lavori parlamentari per ragioni sanitarie, le stesse Camere
hanno operato quantomeno per il mese di marzo “a mezzo servizio”, e dunque s’è aperta
la breccia per l’adozione di atti amministrativi del vertice dell’esecutivo limitanti diritti
costituzionali, in primis di circolazione dapprima financo contenenti sanzioni penali e
solo successivamente (ma anche con effetto retroattivo, sintomo di plateale “marcia
indietro”), ex art. 4, d.l. 25 marzo 2020, n. 19, di natura amministrativa.
L’atto sottoscritto dal Presidente del Consiglio nella notte di domenica 8 marzo
2020, così come i successivi del 9 e dell’11 marzo appaiono infatti tanto frettolosi (in
quanto ab initio tardivi) quanto evidentemente lesivi delle prerogative delle Camere e
privi di un adeguato fondamento legislativo12. Si tratta all’evidenza di un punto molto
infimo della storia costituzionale democratica italiana. S’appalesano infatti delle misure
limitative di diritti fondamentali adottate con meri decreti del Presidente del Consiglio
11
Cfr. A. Arcuri, Il governo delle emergenze: i rapporti tra decreti-legge e ordinanze di protezione civile
dal terremoto de L’Aquila al crollo del ponte Morandi, in «Osservatorio sulle fonti», 2019, 2, pp.
12
Sia consentito rinviare a F. RATTO TRABUCCO, Prime note al d.P.C.M. 8 marzo 2020: con l’emergenza
Coronavirus la gerarchia delle fonti diventa un optional, in «LexItalia.it», 2020, 3.
4
sulla base di smilzi presupposti legislativi, anziché un doveroso atto collegiale del
governo previsto dalla Costituzione quale è il decreto legge, quantomeno con dettagliati
presupposti per l’adozione di successivi atti amministrativi. A fronte di tali
provvedimenti normativi ed annessa leggerezza giustificativa si legittima pure l’essere
preoccupati per la tenuta dello Stato costituzionale di diritto a fronte di un uso allegro
e disinvolto dei poteri normativi dell’esecutivo in situazioni emergenziali. La
problematica dell’assenza di un’espressa previsione normativa costituzionale in
situazioni emergenziali s’è manifestata chiaramente nell’inizio della gestione di questa
pandemia.
Se è vero che necessitas non habet legem tali atti appaiono del tutto indegni di un
sistema di governo parlamentare, in sfregio alle più basilari regole della gerarchia delle
fonti del diritto e della titolarità del solo Parlamento quali tesi a limitare la libertà di
circolazione nonché imporre sanzioni senza un previo congruo presupposto di natura
legislativa.
Vista dall’estero l’Italia, nel periodo di massima crisi emergenziale sanitaria, è
apparsa un Paese ripiegato su sé stesso, destinatario di plurimi aiuti umanitari stranieri
con relativo altisonante battage mediatico, davanti al certo baratro della recessione con
annesso blocco dell’economia ed impennata del debito pubblico. Il tutto mentre
l’esecutivo (rectius, il capo dell’esecutivo) annaspava in provvedimenti urgenti a
raffica obliterando che limitazioni a diritti fondamentali non possono che passare
attraverso il vaglio parlamentare. Peraltro, a parte il procedere a limitare il diritto di
circolazione ed iniziativa economica a mezzo d.P.C.M., ci si chiede seriamente se
nell’esecutivo italiano (ma anche europeo) esista un piano strutturale per affrontare la
futura emergenza lavorativa ed economica anziché mere e solite misure tampone.
Orbene, nel marasma ed isteria collettiva che ha colpito il Paese a seguito della
non meglio precisata introduzione del virus in Italia, gli effetti deleteri sono pacifici
anche sulla normazione. Se il paziente zero resterà una chimera, a nulla è servito
chiudere i collegamenti aerei con la Cina sin dal 31 gennaio 2020, obliterando gli arrivi
indiretti via triangolazioni. Mentre la gestione sanitaria iniziale s’è rivelata traballante
in molte Regioni con carenze di dispositivi, diagnostica e medicina territoriale, anche
in forza delle deficitarie risorse e strutture regionali oggetto di tagli decennali al sistema
ovvero privilegi attribuiti al servizio sanitario privato.
Il primo tentativo di reazione governativo all’emergenza è stata l’adozione del
d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, prontamente convertito in l. 5 marzo 2020, n. 13, nell’arco
di meno di due settimane, con cui inizialmente veniva disposto un rigido cordone
sanitario attorno agli undici Comuni dell’area del primo contagio. In sede di
conversione, a seguito dell’unico emendamento governativo proposto ed approvato in
Commissione, è però venuto meno il riferimento espresso ai ridetti Comuni con un più
generale riferimento all’art. 1, c. 1, ai «comuni o nelle aree nei quali risulta positiva
almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque
nei quali vi é un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un’area già
5
interessata dal contagio del menzionato virus». Quindi, l’art. 3, c. 1, è stato dedicato ad
una non meglio precisata «attuazione delle misure di contenimento» da attuarsi «con
uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri». Giova precisare che
l’elenco delle misure è del tutto indeterminato ed indeterminabile laddove non si limita
ad un elenco finito di cui all’art. 1, c. 2, ma all’art. 2, c. 1, perviene a rimandare a
generiche «ulteriori misure di gestione dell’emergenza» in alcun modo esplicitate.
Orbene, tale sarebbe il presupposto legislativo dei decreti del vertice
dell’esecutivo quali adottati a raffica a partire da quello del 25 febbraio 2020 con
riferimento alla limitazione delle attività in cinque regioni settentrionali a fronte
dell’espansione pandemica. Si tratta di una previsione di limitazione dei diritti del tutto
indeterminata che basicamente non lascia spazio ad eccezione alcuna. Tale disposto
sarebbe espressione del principio solidaristico onde salvaguardare il diritto alla salute,
ex art. 32, Cost., un esercizio del biopotere necessitato. Tuttavia, si ribadisce, è una
previsione vaga e generica senza limite alcuno e con rinvio all’adozione di successivi
decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Sono poi seguiti a stretto giro due ulteriori decreti legge relativi, rispettivamente,
alle misure urgenti di sostegno a famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza
sanitaria delle aree lodigiane e padovane inizialmente colpite (d.l. 2 marzo 2020, n. 9)
nonché in tema di misure straordinarie per contenere gli effetti negativi sullo
svolgimento dell’attività giudiziaria in gran parte congelata sino al 30 giugno 2020 (d.l.
8 marzo 2020, n. 11, poi abrogato con il varo del nuovo e più ampio provvedimento
omnibus d.l. 17 marzo 2020, n. 18, cd. cura Italia). Infine, il ciclo dei cd. decreti legge
marzolini anti-COVID-19 s’è concluso con le nuove misure urgenti per contrastare la
pandemia che hanno finalmente dettagliato le possibili limitazioni, la durata temporale
dei discendenti provvedimenti amministrativi restrittivi e la rimodulazione della natura
delle sanzioni applicabili (d.l. 25 marzo 2020, n. 19).
2. Le lacune del d.l. 6/2020 in punto di restrizioni alle libertà costituzionali a mezzo
atto amministrativo
Appare in primis evidente l’abnorme vulnus del primigenio citato d.l. 6/2020,
convertito in l. 13/2020, che non s’è in modo alcuno premurato di determinare
puntualmente le limitazioni imponibili ai cittadini in tempo d’emergenza pandemica.
Si registra infatti una formulazione del tutto ampia e generica delle restrizioni
applicabili alle libertà ed ai diritti fondamentali quali risultanti dalla richiamata
elencazione dell’art. 1, c. 2. Solo il (tardivo e) successivo sopra richiamato d.l. 19/2020,
a far data dal 26 marzo 2020 ha provvisto fondamento legislativo ex post anche alle
misure disposte nei decreti e ordinanze adottati precedentemente sulla base
dell’additato inconsistente d.l. 6/2020.
6
A fronte di tali iniziali presupposti indeterminati, smilzi e generici, in punto di
limitazioni necessitate per contrastare la perigliosa patologia, la conseguente
decretazione del vertice governativo ha avuto una prima sinistra e forte avvisaglia con
il secondo d.P.C.M. adottato in data 1º marzo 2020, allorquando ancora il testo si
riferiva alle espresse mere aree lodigiane ed euganee, che prevedeva generalizzate
limitazione ai fini di contenere la diffusione del virus.
Tuttavia, successivamente, allorquando s’è compreso che la curva epidemica non
s’arrestava, complici evidenti violazioni non adeguatamente sanzionate (letterali fughe
notturne verso le coste e soprattutto verso il Meridione con ogni mezzo di trasporto)
ovvero strutture sanitarie al (quasi) collasso, e per l’effetto l’Italia s’avviava a divenire
il secondo Paese al mondo per contagi dopo quello d’origine del virus, tutti gli schemi
sono saltati. Vieppiù con il patente rischio che il virus si diffondesse massicciamente al
sud a fronte di sistemi sanitari in parte deficitari di risorse umane, finanziarie e
strumentali.
Tuttavia, non soltanto – e sarebbe forse anche giustificabile nella crisi del
momento –, sono venuti meno gli schemi comunicativi a mezzo di fughe di notizie,
smentite, conferme parziali, mezze parole e simili nella difficoltà di coordinamento fra
Governo centrali e Regioni, la maggior parte delle quali, peraltro, sostenute da
maggioranze politiche di diverso colore rispetto all’esecutivo romano.
Infatti, ciò che é stato letteralmente fatto a pezzi a partire dal d.P.C.M. notturno
dell’8 marzo 2020 e pedissequo decreto a valenza nazionale del giorno (rectius, della
tarda serata) successivo (a), come forse mai nella storia repubblicana italiana, é il
sistema delle fonti del diritto nei suoi più basilari elementi, peraltro in un certo sordo
silenzio generalizzato della stampa ma anche della stessa accademia giuridica che nulla
(ovvero in sordina) ha contestualmente eccepito13.
I d.P.C.M. 11 e 22 marzo 2020 hanno poi chiuso questo desolante cerchio
marzolino di decreti amministrativi di “salute pubblica”, aventi efficacia nazionale e
privi di un’adeguata base normativa primaria, attraverso la previsione della chiusura di
alcune attività commerciali pur lasciandone discutibilmente ancora aperte di altre che
apparentemente non avrebbero avuto effettive ragioni di continuare l’operatività ovvero
acconsentendo moduli procedimentali derogatori fondati sul principio del silenzioassenso.
La notte non ha evidentemente portato consiglio. Anzi, ha ancor di più spinto del
senso d’agire a mezzo decreto a valenza amministrativa del vertice dell’esecutivo in
luogo di procedere con il dovuto decreto legge da presentare alle Camere per la
conversione con ogni conseguenziale necessitato emendamento in forza dell’evolversi
della situazione. Infatti, rileva come nell’arco temporale fra l’8 ed il 25 marzo 2020,
Cfr. B. CARAVITA, L’Italia ai tempi del coronavirus: rileggendo la Costituzione italiana, in
«Federalismi.it», 2020, 6. Una peraltro incompleta raccolta dei primi lavori relativi ai profili giuridici
della pandemia è reperibile in S. MALVICINI, Covid-19. Raccolta di articoli, paper e post blog, in
«Federalismi.it», 2020.
13
7
con il lockdown nazionale (Lombardia e limitrofe province nei soli primi due giorni),
l’esecutivo ha emanato ben due nuovi decreti legge per contrastare la pandemia (in tema
di potenziamento del sistema sanitario e per il sostegno a famiglie, lavoratori ed
imprese: il primo dei quali, peraltro, proprio nella stessa data del d.P.C.M. dell’8 marzo
2020 con efficacia lombarda) ma in alcun modo s’è curato di procedere senza indugio
a fornire adeguati presupposti di natura legislativa ai sopravvenuti decreti
amministrativi d’imposizione di draconiane limitazioni a svariati diritti costituzionali.
A tacer della tecnica redazionale che ha connotato la conversione del d.l. 6/2020 che
appare fondata sull’illusoria speranza di contenere il contagio evitando di soffermarsi
sulla descrizione delle restrizioni concretamente imponibili. Un colpevole drafting
legislativo d’urgenza evidentemente complice della patente violazione costituzionale
dei diritti che si profilava all’orizzonte ed implementata dall’8 al 25 marzo 2020.
Il nodo è quindi che, in sostanza, con i quattro complessivi decreti del Presidente
del Consiglio dei Ministri dell’8, 9, 11 e 22 marzo 2020, sono state disposte draconiane
limitazioni alla libera circolazione dei cittadini ed al diritto d’iniziativa economica sulla
scorta di meri generici e vacui presupposti quali delineati in un decreto legge.
Inizialmente per una Regione ed ulteriori quattordici Province limitrofe.
Successivamente, dopo poco più di giornata s’è giunti al provvedimento bis che
raggiunge l’assoluto clou, per cui le suddette restrizioni sono estese a tutto il territorio
nazionale, isole comprese, con successive stringenti implementazioni per i settori
economici.
Gli atti de qua hanno di fatto imposto dei fortissimi limiti alla mobilità in entrata
ed in uscita nonché all’interno del Paese, di talché in concreto sono stati approntati posti
di blocco lungo le autostrade, nelle stazioni e negli aeroporti, per sanzionare chi non è
strettamente obbligato a muoversi a non uscire dai confini di zona, prima, e poi di fatto
da tutto il Paese. Uniche eccezioni che permettono la deroga al movimento, da
documentarsi debitamente alle forze dell’ordine, sono riconducibili esclusivamente a
ragioni di lavoro, di salute ovvero «di assoluta urgenza» (nozione quanto mai labile e
suscettibile d’interpretazioni arbitrarie che possono seco trascendere nell’abuso
sanzionatorio) mentre sul tema del burocratico ed oppressivo connesso imposto onere
della dichiarazione sostitutiva si tornerà in dettaglio nel paragrafo seguente.
Orbene, é pacifico che un decreto del Presidente del Consiglio nell’ordinamento
giuridico italiano è un mero atto amministrativo alla stregua del decreto ministeriale
adottato da un Ministro nell'ambito delle materie di competenza del suo dicastero. Il
valore normativo del d.P.C.M. è meramente amministrativo di talché sarà
esclusivamente impugnabile avanti al Tribunale amministrativo competente (nel caso
di specie il T.A.R. del Lazio avendo il decreto un’efficacia ultraregionale). A nulla vale
del resto neppure l’espresso richiamo in incipit ai d.P.C.M. della l. 23 agosto 1988, n.
400, in tema di organizzazione del Governo, laddove in alcun modo la stessa norma
avalla provvedimenti del vertice dell’esecutivo ovvero di un Ministro quali gravemente
limitativi della libertà di circolazione ovvero della libertà d’iniziativa economica (a
8
tacer della libertà personale) anche in relazione all’ampiezza della zona coinvolta pari
all’intera superficie del Paese.
Appare dunque ancora una volta lapalissiano che tali norme avrebbero dovuto
essere varate a mezzo decretazione d’urgenza con successiva conversione parlamentare
in legge come del resto avvenuto con il decreto legge di fine febbraio relativo ai primi
cluster del virus ratificato dalle Camere il 4 marzo e trasfuso nella l. 13/2020. L’aver
inserito nel primigenio decreto legge un generico ed indeterminato riferimento ad
ulteriori norme di contenimento da adottarsi dal Presidente del Consiglio costituisce
dunque una fictio iuris evidentemente creata al fine di dare una qualche base giuridica
legislativa ai successivi indeterminati atti amministrativi del Premier.
La vicenda marzolina assume quindi contorni grotteschi tra l’ipotesi
dell’abbaglio ovvero la supponenza del vertice governativo e dei relativi apparati
ovvero l’ignavia d’evitare di sottoporre sollecitamente un secondo atto di più ampie ed
espresse restrizioni al Parlamento, rimasto peraltro del tutto inerte avanti a tale pacifico
esproprio a nulla valendo la sua riduzione dell’attività per ragioni sanitarie.
L’esecutivo, pur di non ricorrere ancora al decreto legge – sarebbe stato il quarto
nell’arco di soli quindici giorni (un certo record nella storia repubblicana, vieppiù in
ordine alla stessa causa d’urgenza pur in via incrementale) – ha preferito agire a mezzo
di meri atti amministrativi privi di dettagliata base legislativa. Il che appare però
pacificamente abnorme e lesivo delle più elementari regole in materia di fonti del diritto
e dunque del tutto incostituzionale per avere leso la relativa riserva di legge. Vieppiù a
fronte di presupposti del tutto scarni e generici che di fatto lasciavano spazio ad ogni
più ampia compressione dei diritti fondamentali del cittadino. Sarà solo diciotto giorni
dopo, con il d.l. 19/2020, che si rattopperà il tutto con una più ampia e dettagliata
previsione delle limitazioni di diritti apponibili a mezzo d.P.C.M., nonché ulteriori
previsioni di corollario riconducibili ad almeno tre punti14.
In primo luogo, l’emanazione dei d.P.C.M., su proposta del Ministro della salute,
è preceduta da alcuni pareri obbligatori, per quanto non vincolanti, inizialmente in alcun
modo preconizzati15. Inoltre, per i profili di competenza scientifica è previsto un parere,
peraltro facoltativo (posta la tanta infelice quanto incerta espressione «di norma», ex
art. 3, c. 1), reso dal Comitato tecnico scientifico insediato in base ad ordinanza del
Capo del Dipartimento della Protezione civile16.
In secondo luogo, oltre a far salvo un potere di ordinanza del Ministro della salute
in caso di estrema necessità e urgenza, si configura un espresso potere di ordinanza
14
Cfr. F. CINTIOLI, Sul regime del lockdown in Italia (note sul decreto legge n. 19 del 25 marzo 2020),
in «Federalismi.it», 3.
15
Si tratta dei pareri dei Ministri dell’Interno, della Difesa e dell’Economia e delle Finanze e degli altri
Ministri competenti, nonché dei Presidenti delle Regioni interessate o del Presidente della Conferenza
delle Regioni e delle Province autonome, a seconda che il decreto riguardi il territorio di una Regione
ovvero l’intero territorio nazionale. È fatta salva la possibilità anche di una proposta di tali Ministri o del
Presidente di Regione o del Presidente della Conferenza.
16
Ordinanza del Capo del Dipartimento della Protezione civile del 3 febbraio 2020, n. 630.
9
concorrente delle Regioni, per l’introduzione di misure ulteriormente restrittive, nelle
more dell’adozione dei d.P.C.M., limitatamente ai settori di competenza e senza
incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia
nazionale. Elemento che anteriormente non era in alcun modo certo acconsentendo per
l’effetto a rimpalli di responsabilità fra Governo e Regioni in ordine alla creazione di
nuove “zone rosse” dopo la primigenia fissata con d.l. 6/2020.
In terzo luogo, si dispone che i Sindaci non possono adottare, a pena di
inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti dirette e a fronteggiare l’emergenza in
contrasto con le misure statali, né possono eccedere i limiti fissati per i poteri
emergenziali delle regioni.
In quarto luogo, il decreto intende regolare i rapporti tra Governo e Parlamento e
quindi prevede che i d.P.C.M. sono comunicati alle Camere entro il giorno successivo
alla loro pubblicazione e che il Presidente del Consiglio o un Ministro delegato debbano
riferire ogni quindici giorni alle Camere sulle misure di emergenza adottate.
Elementi pregnanti e necessitati per ogni successiva adozione d’atti
amministrativi tesi a restringere in maniera significativa i diritti costituzionali, in primis
la circolazione e l’iniziativa economica.
Tuttavia, la disinvolta gestione dei diritti degli italiani fra l’8 ed il 25 marzo 2020
a mezzo atto amministrativo privo di adeguati fondamenti legislativi (a tacer del
precedente periodo dal 23 febbraio relativo ad aree molto limitate del Paese), resterà
indelebile nella storia costituzionale. Senza tema di smentita si tratta chiaramente di
quella che potrà essere ricordata come l’autentica notte dei diritti italiani, i diciotto
giorni bui della nostra democrazia, ben superando altre anteriori e pur terribili acclarate
limitazioni ovvero violazioni dei diritti avvenute, peraltro da parte delle forze
dell’ordine e non di un potere statuale, nel corso del G-8 di Genova del 19-22 luglio
2001 (fatti della caserma di Bolzaneto e della scuola Diaz).
3. Segue: la limitazione alla libertà di circolazione in tempo di COVID-19
Il riferimento alle costrizioni di diritti imposte dall’esecutivo, senza una congrua
e dettagliata base legislativa, è ovviamente anzitutto, ed a tacer d’altro, alla libertà di
circolazione, ex art. 16, c. 1, Cost., da cui deriva che ogni individuo possa liberamente
disporre della propria persona scegliendo dove, come e quando spostarsi, circolare e
fissare la propria dimora sul territorio del Paese. Inoltre, si consideri la vigenza della
Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen che ha previsto e reso operative
l’abolizione dei controlli alle frontiere interne per tutti i cittadini in partenza dall’Italia
verso un Paese membro dell’UE e viceversa. Convenzione che peraltro non é stata
oggetto di sospensione dall’Italia pur a fronte dell’impellente emergenza sanitaria.
Al riguardo è ben noto che la libertà di circolazione e soggiorno è tutelata a mezzo
di una riserva di legge rinforzata per contenuto. La Carta fondamentale riserva la
10
materia alla sola legge e con draconiani limiti di contenuto della medesima. Infatti, le
ridette limitazioni alla libertà di circolazione sono adottate dalla legge «in via generale
per motivi di sanità o di sicurezza», così come disposto dall’art. 16, c. 1, Cost. In
quest’ambito rientrano tutti quei casi d’emergenza sanitaria come un’epidemia (o
supposta tale) in atto, e dunque il concreto e reale pericolo di diffusione di patologie
ritenute perigliose per la popolazione.
Del resto per insegnamento della Consulta le restrizioni devono non già solo
riferirsi a situazioni di carattere generale quali epidemie o pubbliche calamità, ma anche
che la legge deve essere applicabile alla generalità dei cittadini e non a singole
categorie17. Tali motivi sanitari possono derivare da situazioni generali o particolari
quali la necessità d’evitare l’accesso a zone infette o pericolanti ovvero isolare soggetti
contagiosi, come nel caso dell’emergenza COVID-19.
In tali frangenti la razionalizzazione della libertà di circolazione è ampiamente
giustificata dalla tutela del diritto alla salute dei cittadini e particolarmente di coloro
che non hanno contratto la patologia a cui fanno da contraltare i contagiati. Tuttavia la
fonte di disciplina non può che essere quella primaria ovvero il decreto legge stante
evidenti ragioni emergenziali.
Del resto non si tratta certo di mettere in discussione il contenuto e la bontà delle
severe restrizioni imposte in tema di libertà di circolazione, riunione ed iniziativa
economica, certamente necessitato. Il nodo gordiano sono le modalità d’esercizio del
cd. biopotere, che non possono in alcun caso legittimare un sovvertimento della
gerarchia delle fonti laddove la cd. immunità di gregge in tal caso dev’essere realizzata
a mezzo d’atti aventi forza di legge stante la loro inusitata valenza limitata vieppiù con
efficacia sull’intero territorio nazionale.
In tali casi è evidente che il rispetto del principio solidaristico si persegue con
decisioni che passano attraverso il Parlamento e non per mezzo d’atti amministrativi
del vertice governativo prontamente avallati dalla dottrina18 che perviene
discutibilmente a richiamare il coacervo di decisioni in materia vaccinale onde
suffragare gli scellerati decreti del vertice dell’esecutivo19. Vieppiù risibile appare fare
riferimento alla legittimità dei pur invasivi (per gli agricoltori) provvedimenti
amministrativi adottati in materia di contrasto alla Xylella fastidiosa, piaga agronomica
della Puglia meridionale20. Il rapporto tra principio di precauzione e canone di
proporzionalità quale descritto dalla giustizia amministrativa e costituzionale resta
certamente fermo ma deve essere perseguito a mezzo fonte primaria qualora s’intenda
porre, di fatto ma in via necessitata, agli arresti domiciliari l’intera popolazione italiana.
17
Corte cost.le, 14 giugno 1956, n. 2.
Cfr. M. NOCCELLI, La lotta contro il coronavirus e il volto solidaristico del diritto alla salute, in
«Federalismi.it», 13 marzo 2020.
19
Cons. St., sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6655. Cfr. M. MENDILLO, Precauzione e proporzionalità in una
recente sentenza del Consiglio di Stato, in «GiustAmm.it», 2020, 3.
20
Cons. St., sez. III, 9 marzo 2020, n. 1692.
18
11
Particolarmente si contesta qui l’asserzione per cui le indicazioni offerte dalla
Corte costituzionale e dal Consiglio di Stato in materia di obblighi vaccinali detengano
una indubbia valenza generale21. Peraltro, se anche pur l’avessero è evidente che non
possono compararsi le limitazioni a diritti costituzionali che sussistono fra l’essere
obbligati a vaccinarsi versus il vedersi grandemente limitati negli spostamenti ovvero
in generale nelle attività quotidiane a livello di coprifuoco militare sudamericano. Il
tutto pur con i soliti dubbi applicativi a fronte di uno stile redazionale dei decreti
governativi che non appare sempre impeccabile, di talché hanno necessitato le “solite”
circolari esplicative molto “all’italiana” da parte del Dipartimento della Protezione
Civile della Presidenza del Consiglio22 e del dicastero dell’Interno23.
Dal canto suo, si ricorda come la Consulta circa la valutazione della legittimità
costituzionale di una legge regionale valdostana per contrasto con gli artt. 3, 16, 41 e
120, Cost., per l’istituzione di una tariffa d’uso su strade di competenza comunale e
regionale interessate da elevata congestione di traffico veicolare, ha avuto modo di
affermare che «l’art. 16 della Cost. non preclude al legislatore di adottare misure
articolabili in divieti […] sulla base di esigenze di pubblico interesse […]»24. Essa ben
riconosce dunque ad una fonte normativa di rango primario il potere di “regolamentare”
(e non già di sospendere tout court), la libertà di circolazione, in ossequio alla riserva
di legge rinforzata ed assoluta contenuta appunto nell’art. 16 della Costituzione.
Tuttavia il nodo in esame attiene a provvedimenti amministrativi dell’esecutivo,
e non certo legislativi, in cui trovano il proprio presupposto le draconiane limitazioni
della circolazione ed altri diritti, difettando alcun provvedimento legislativo nella
gestione dell’emergenza COVID-19 sul piano nazionale circa l’indicazione
determinata delle limitazioni degli spostamenti con mezzi di locomozione. Al riguardo
appare del tutto insufficiente, al limite della capziosità e di fatto dell’ignavia del
Parlamento che in tal modo delegava ogni ulteriore limitazione dei diritti costituzionali
all’esecutivo, il riferimento inserito in sede di conversione all’art. 2, d.l. 6/2020,
convertito in l. 13/2020.
Di fatto quello che si contesta ai decreti in esame, e sino al d.l. 19/2020 del 25
marzo, è l’aver realizzato il precedente della gravissima sospensione contra legem
dell’esercizio di diritti fondamentali dei singoli senza congrui presupposti legislativi
per parte dell’autorità amministrativa quale è appunto il capo dell’esecutivo. Infatti, tale
ipotesi ricorre allorché è in toto precluso al singolo di poter esercitare il diritto di
circolazione ovvero altri diritti costituzionalmente garantiti.
Peraltro nel caso di specie non si tratta di adottare, per incontrovertibili ragioni di
sicurezza, in talune zone di singola cittadina o area, delle particolari modalità di
21
Cfr. M. NOCCELLI, cit., 22.
Ordinanza Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento Protezione Civile, 8 marzo 2020, n.
646.
23
Circolare Ministero dell’Interno, 12 marzo 2020, prot. n. 15350.
24
Corte cost.le, 10 luglio 1996, n. 264.
22
12
esercizio del complesso articolato contenuto del diritto di circolazione o del diritto al
lavoro dei singoli, come quella di circolare in auto o di accedere nel luogo di lavoro,
tenendo conto cioè delle diverse ragioni di natura esistenziale che giustificano la
mobilità dei singoli, vieppiù nell’ambito di un periodo non certo breve quale quello
considerato nei provvedimenti a pioggia dell’esecutivo.
Tale potere non deve ritenersi riconosciuto all’autorità amministrativa dalla
legislazione primaria per finalità sanitarie – ritenendo ben inefficace lo smilzo
riferimento del d.l. 6/2020 – non potendo per mezzo di mero atto amministrativo
subordinare in maniera draconiana e (quasi) assoluta le esigenze di mobilità dei singoli,
a quelle pubblicistiche di protezione della sanità pubblica ovvero, con altre non meno
rilevanti necessità collettive, la cui cura è affidata ai pubblici poteri.
In altri termini, dalla legislazione primaria non si desume un principio sostanziale
e pregnante di individualismo, che pur è a fondamento delle presenti obiezioni, vale a
dire che le libertà individuali, nello Stato sociale, ben vanno coniugate all’unisono con
l’interesse della collettività. Seco possono certo subire delle compressioni in talune
modalità di esercizio, per renderle compatibili con le libertà pari ordinate di altri, ma
esse devono essere adottate esclusivamente a mezzo della fonte primaria e, se del caso,
a mezzo decretazione d’urgenza, ex art. 77, Cost. Il sistema del rinvio ai decreti del
capo dell’esecutivo ai fini dell’adozione d’indeterminate misure di contenimento
appare a livello di mero escamotage onde evitare nuove e solerti chiamate in causa del
Parlamento.
Per quanti sforzi interpretativi si possano tentare per individuare un collegamento
tra i plurimi decreti del vertice dell’esecutivo ed il coacervo normativo in materia di
sanità pubblica, è evidente che i primi non possono in alcun modo essere considerati il
presupposto né logico, né giuridico del secondo. Infatti, l’unica norma prima che
contiene deleghe al Presidente del Consiglio dei Ministri di poteri è ampiamente
connotata da generalità, indeterminatezza ed indefinità. Infatti, qualora una
disposizione legislativa, intenda delegare al potere amministrativo la disciplina di una
materia sottoposta a riserva di legge relativa, deve farlo tanto espressamente quanto
nella determinatezza della misura finalisticamente orientata. È infatti impensabile una
delega tacita ovvero “in bianco” a comprimere i diritti fondamentali dell’individuo.
Ancora, la Consulta sancisce che nelle materie in cui la Costituzione stabilisce
una riserva di legge relativa, é ammissibile che la legge ordinaria attribuisca all’autorità
amministrativa l’emanazione di atti anche normativi, purché la legge indichi i criteri
idonei a delimitare la discrezionalità dell’organo a cui il potere è stato attribuito25.
Alcuna delimitazione in tal senso è rinvenibile nella normazione primaria circa la
limitazione della circolazione in maniera (quasi) assoluta con provvedimenti del
Presidente del Consiglio dei Ministri.
25
Corte cost.le, 27 maggio 1961, n. 26.
13
Se è vero che risulta indispensabile il richiamo alla fonte legittimante dei poteri
esercitati dalla Pubblica Amministrazione, nel provvedimento in cui tali poteri
s’esplicano, al fine di permettere la ricostruzione dell’iter logico-giuridico che ha
portato all’emanazione dell’atto, e dunque per la sua validità, il mero richiamo alla l.
400/1988 ed al d.l. 6/2020 appaiono tanto generici quanto insufficienti onde supportare
i provvedimenti di base giuridica legislativa.
Infine, last but not least, ulteriore motivo per cui difetta una norma primaria che
possa costituire la fonte del potere legittimante dell’atto amministrativo consiste nel
fatto che stesso non si rinviene alcun giudizio di comparazione tra interessi
costituzionalmente protetti: libertà fondamentali della persona da un lato versus
esigenze di sicurezza sanitaria dall’altro. Affinché sia soddisfatto il principio della
riserva di legge “relativa”, occorre che sia il legislatore a svolgere la ponderazione tra
gli interessi tutelati in conflitto, e che la prevalenza di uno a scapito di altri, sia il
risultato di una sua precisa scelta, salvo il delegarne all’autorità amministrativa le
modalità di attuazione. Nelle norme primarie non si legge nulla che autorizzi ad
ipotizzare che il legislatore avesse ritenuto di sacrificare per via amministrativa in toto
diritti di cui all’art. 16, Cost., per esigenze di sanità pubblica a fronte di emergenza
epidemica.
Appare dunque che il potere amministrativo dell’esecutivo ha esorbitato dai limiti
allo stesso imposti dall’ordinamento giuridico. Del resto neppure s’è trattato del caso
di un Prefetto che possa emanare ordinanze contingibili in grado di comprimere o
sospendere diritti costituzionali, perché questo potere sarebbe affidato al solo
legislatore. Al riguardo, l’art. 2 del TULPS 18 giugno 1931, n. 773, che prevede tal
potere prefettizio ha superato più volte il vaglio di costituzionalità ed ogni volta il
giudice costituzionale ha riconosciuto la legittimità del potere in esame a condizione
che il suo esercizio avvenga nel solco tracciato da norme primarie, che sia
congruamente motivato e che il sacrificio imposto ai cittadini rispetti un principio di
proporzionalità che dimostri la prevalenza dell’ interesse pubblico perseguito26.
Un potere questo riconosciuto anche ad altre Autorità amministrative dalla
legislazione primaria, oltre che a quella prefettizia, al fine di rendere compatibili, nella
società postindustriale, le esigenze di mobilità dei singoli, con quelle pubblicistiche di
protezione del contesto urbanistico, ambientale. Ovvero, con altre non meno rilevanti
necessità collettive, la cui cura è affidata ai pubblici poteri, e che, altrimenti, potrebbero
rimanere pregiudicate dall’afflusso indiscriminato di terzi in talune zone dell’area
urbana di particolare pregio o, comunque, meritevole, come nel caso di specie, per
esigenze contingenti, di particolare protezione27.
Le ordinanze devono essere motivate, di durata predeterminata e non contrastare
con i principi dell’ordinamento. Anche se, alla prova dei fatti, le ordinanze hanno potuto
e dovuto incidere anche su libertà e diritti fondamentali per fronteggiare l’emergenza,
26
27
Cons. Stato, sez. IV, 2 giugno 1994, n. 467.
Cons. Stato, sez. VI, 16 gennaio 2006, n. 85.
14
secondo la tecnica del bilanciamento dei valori in conflitto, mettendo talora
inevitabilmente in crisi le riserve di legge, persino quelle assolute. La tecnica è quella
della legge che delega al potere di ordinanza il contemperamento possibile, da
sperimentare alla luce della necessità concreta28.
Il recupero del potere di ordinanza al quadro costituzionale e allo Stato di diritto
passa allora per un duplice ragionamento29. In primo luogo, lo stato di necessità, che
anche se non fosse – secondo le suggestioni di Cammeo, Miele, Mortati e Santi
Romano30 –, fonte del potere d’ordinanza, è nondimeno principio e valore presente nel
tessuto costituzionale negli artt. 77 e 78 Cost. In secondo luogo, il potere di ordinanza
è comunque attratto nel circuito della legalità, perché è pur sempre la legge che lo
conferisce e il modo di esercizio è quello che deve rispettare obbligo di motivazione,
concertazione con amministrazioni di volta in volta competenti, principio di
proporzionalità e ragionevolezza, limiti di durata, procedimentalizzazione per quanto
possibile. Il tutto assicurerebbe anche la legalità in chiave di “raffrontabilità” alla
fattispecie legale e il controllo giudiziale avrebbe, da questo punto di vista, un ruolo
chiave. Così come, infatti, il recupero della legalità deve avvenire necessariamente ex
post delegando al potere di ordinanza quel bilanciamento tra valori in conflitto che
serve a fronteggiare la necessità, allo stesso modo il controllo giurisdizionale
fungerebbe da elemento di compensazione successivo.
Orbene, quali sono i limiti insuperabili del potere amministrativo? Il primo è
certamente costituito dalla possibilità di incidere su diritti anche di rango costituzionale,
coperti da riserva di legge assoluta.
La giurisprudenza amministrativa ha infatti da tempo affermato per i ridetti atti
che «le ordinanze prefettizie di ordine pubblico e di urgenza ai sensi dell’art. 2,
T.U.L.P.S. n. 773/1931, sono utilizzabili soltanto nei casi di riserva relativa di legge
ma in tali casi possono incidere anche nei riguardi di diritti costituzionalmente garantiti
(i quali ultimi non possono essere tutelati oltre i limiti ad essi coessenziali, tali da
consentire l’esplicarsi delle esigenze necessarie ad assicurare la vita stessa della
comunità e quindi anche l'adozione di misure d'urgenza prefettizie). Pertanto le
ordinanze prefettizie in parola sono emanabili anche in materia di libera iniziativa
economica e di diritto di proprietà, salvo il riscontro in concreto del rispetto dei limiti
posti all'esercizio del relativo potere, fra i quali quello dell’adeguatezza del
provvedimento ed i presupposti dell'urgenza e della grave necessità ed urgenza,
Cfr. E.C. RAFFIOTTA, Norme d’ordinanza. Contributo a una teoria delle ordinanze emergenziali come
fonti normative, Bononia University Press, Bologna, 2019.
29
Cfr. G. MORBIDELLI, Delle ordinanze libere a natura normativa, in «Diritto amministrativo», 2016, 12, 33-70.
30
In tema, cfr.: C. MORTATI, La Costituzione in senso materiale, Milano, Giuffrè, 1940; G. MIELE, La
situazione di necessità dello Stato, in «Archivio di diritto pubblico», 1936, 425 ss.; S. ROMANO, Sui
decreti-legge e lo stato di assedio in occasione del terremoto di Messina e di Reggio Calabria, in «Rivista
di diritto pubblico e della pubblica amministrazione in Italia», 1909, 1, 251 ss.; F. CAMMEO, Lo stato di
assedio e la giurisdizione, in «Giurisprudenza italiana», 1898, 369 ss.
28
15
considerati sotto il profilo della sicurezza e dell’ordine pubblici ai quali, cioè, in
mancanza della ordinanza di urgenza, stia per venire un pericolo»31.
Nel caso di specie non è però certo che sussista la presenza della compressione
di diritti di circolazione, riunione, associazione, tutela del lavoro ed iniziativa
economica, soggetti ad una mera riserva relativa di legge e come tali dunque
legittimamente sottoposti alla regolamentazione del potere amministrativo, salva
l’individuazione dei principi posti dalla legge.
Tuttavia, non vale opporre che la dottrina è piuttosto divisa sulla qualificazione
della riserva di legge per la libertà di circolazione, la quale, se è senz’altro rinforzata, è
stata ritenuta ora assoluta e ora relativa. Peraltro, a sgombrare il campo interviene
l’elemento per cui l’oggetto della disposizione costituzionale non é infatti la sola
circolazione ed il soggiorno in senso stretto, ma anche la fissazione della propria
residenza e del proprio posto di lavoro. Di talché non appare certo ragionevole motivare
tali limitazioni draconiane a mezzo d.P.C.M. in forza dell’esistenza di una mera riserva
di legge relativa.
La situazione, nel caso dell’emergenza COVID-19 è stata ancora più peculiare
poiché il Governo non ha inizialmente emanato un’apposita normativa primaria con
chiara e tassativa indicazione delle forme di contenimento in punto di limiti da imporre
alla comunità ai fini di contrasto della diffusione della patologia. Questo avverrà solo
con il d.l. 19/2020, dopo diciotto lunghi giorni di restrizioni fissate dall’esecutivo senza
precisi paletti legislativi nel merito degli stessi.
Le limitazioni di diritti e libertà sono dunque avvenute per diciotto lunghi giorni
sulla scorta di una “delega in bianco” stante l’intensità massima ed assoluta delle
misure, a partire dal blocco totale degli spostamenti. A fronte di una lunga durata del
formale stato di emergenza, proclamato il 31 gennaio e sino al 31 luglio 2020, e salvo
ulteriori possibili estensioni, v’è la dirimente circostanza che lo stato di emergenza
interessa l’intero territorio nazionale, senza esclusioni. Inoltre, è pacifico che la
“chiusura” dell’Italia non ha precedenti nella storia del Paese: dal divieto di libera
circolazione, al blocco delle attività produttive e commerciali sino alla soppressione del
diritto al lavoro con annesso impoverimento dei ceti più deboli.
Il tema è quello del confronto tra l’illegittimità costituzionale tout court delle
ordinanze libere e l’impossibilità che esse vengano ad intaccare le libertà costituzionali
ed i diritti fondamentali, riprendendo il solco di quella dottrina che ha cercato di
delimitare i diritti che sono effettivamente comprimibili dalle ordinanze32. Ma, nel caso
di specie, appare dirimente che difetta quel presupposto legislativo che legittima
l’esercizio dei poteri di polizia per la tutela della sanità pubblica che ne rendono
legittimo l’esercizio.
31
T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 11 gennaio 1989, n. 1.
Cfr. G. MORBIDELLI, cit., 33-70 e A. CARDONE, La “normalizzazione” dell’emergenza, Torino,
Giappichelli, 2011.
32
16
Il potere esercitato dal Presidente del Consiglio attraverso proprio decreto dall’8
al 25 marzo 2020, di fatto inquadrato quale provvedimento d’urgenza, non risulta
quindi essere stato inserito in un quadro normativo pregnante, definito e determinato,
che si sia dato carico della particolarità dell’evento che occorreva fronteggiare.
Infine occorre pure verificare l’uso del potere in relazione alla compressione dei
diritti costituzionali sopra citati. Infatti, il potere del capo dell’esecutivo non già solo
non avrebbe potuto sopprimere o sospendere totalmente nessuno dei diritti
costituzionali sopra indicati ma, in realtà, i plurimi decreti marzolini non si preoccupano
di contemperare le esigenze generali di sicurezza con lo svolgimento di diritti essenziali
in un ordinamento democratico.
4. Segue: l’onere auto-dichiarativo per la circolazione
Con l’estensione a tutto il Paese della nozione di “zona rossa” (rectius, politically
correct definita “zona arancione [scuro]”) per cui financo spostamenti pedonali devono
essere motivati e se del caso attestati, di fatto si limita il movimento a tutti i residenti e
dimoranti nel Paese nonché a coloro che debbano svolgervi attività lavorativa. Il
discorso richiama qui l’obbligo della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, ex
art. 47, d.P.R. 445/2000, di per sé non espressamente evocata dai vari d.P.C.M. ma di
fatto imposta e diffusa dal Ministero dell’Interno a partire dalla Direttiva ai Prefetti
dell’8 marzo 2020, n. 14606, e successive note integrative ai Questori che hanno anche
mutato il contenuto dell’atto33, in forza dei poteri di controllo affidati al Prefetto, ex art.
3, c. 5, d.l. 6/2020, e successivamente dall’art. 4, c. 9, d.l. 19/2020. S’impone quindi
all’interessato l’onere d’attestare per iscritto la sussistenza delle situazioni che
consentono la possibilità di spostamento sotto minaccia di reato contro la fede pubblica
in caso di mendacio.
La sua previsione appare tanto discutibile e sciatta in punto normativo, laddove
avvenuta con mero atto d’amministrazione interna del dicastero competente all’ordine
pubblico palesemente incapace di produrre effetti esterni nei confronti dei privati,
quanto indecorosa in punto di sfiducia sociale. Inoltre è lo specchio assoluto della
perenne burocratizzazione di stampo cartaceo che connota il nostro Paese a fronte di
una cultura carsica del sospetto nei confronti del cittadino italiano, potenziale
indisciplinato se non reo, e dunque da assoggettare a dichiarazione scritta. L’obbligo
autodichiarativo reca poi con sé un evidente e pregnante controllo poliziesco non già
solo del territorio ma financo dei minimi spostamenti delle persone, per l’effetto
Direttiva del Ministro dell’Interno, 8 marzo 2020, n. 14606, diretta ai Prefetti, in cui si precisa che
onere giustificativo dello spostamento «potrà essere assolto producendo un’autodichiarazione ai sensi
degli artt. 46 e 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, che potrà essere resa anche seduta stante
attraverso la compilazione dei moduli appositamente predisposti in dotazione agli operatori delle Forze
di polizia e della Forza pubblica».
33
17
assoggettate, durante la cd. fase 1 della pandemia, a sistematiche verifiche per ogni
limitato transito – si badi anche se il medesimo non costituiva in alcun modo un rischio
per la diffusione del contagio, es. il pescatore o il runner solitario. Indi gli inevitabili
eccessi da parte delle stesse forze dell’ordine non di rado trascese in sanzioni
ingiustificate poi magari oggetto d’annullamento in autotutela da parte del Prefetto
competente. Tutto ciò la dice lunga di come è stato impostato lo stesso controllo del
territorio e delle persone ai tempi pandemici del COVID-19 in Italia, in violazione
peraltro del principio di ragionevolezza e di bilanciamento del rischio evidentemente
disomogeneo tra regioni nonché tra maggiori e minori centri ovvero in relazione alla
densità abitativa.
Del resto basti un mero dato in chiave comparata europea, laddove lo stesso
obbligo autodichiarativo s’annovera, a parte il caso italiano, solo in Francia, Grecia
nonché nella regione iberica autonoma della Catalogna. Alcun altro Paese ha previsto
che ogni spostamento dei cittadini debba essere oggetto di apposita dichiarazione scritta
– peraltro neppure anche online, come previsto in Francia, ovvero anche telefonica in
Grecia con sistema d’invio di messaggio di testo ad un portale nazionale – del cui
contenuto l’interessato è tenuto a provare la verità salva ipotesi penale quale individuata
nel reato di falso ideologico del privato in atto pubblico, ex artt. 483, c.p. e 76, d.P.R.
445/2000. Resta peraltro dubbio, e non solo con riguardo ai primi diciotto giorni di
lockdown nazionale, che possa configurarsi il predetto reato in caso di mendace
dichiarazione laddove difetta un adeguato presupposto legislativo ai vari d.P.C.M.
succeduti, di talché l’inidoneità dell’atto a radicare l’obbligo giuridico di provare la
verità del contenuto. Manca infatti radicalmente una norma giuridica di rango primario
o secondario che obblighi il privato a dichiarare il vero nella dichiarazione sostitutiva
circa lo spostamento effettuato, ricollegando specifici effetti dell’atto-documento (le
relazioni di servizio, i verbali riportanti gli esiti dell’attività svolta, etc.), nel quale la
dichiarazione sarebbe inserita ovvero trasfusa dal pubblico ufficiale ricevente34.
Il giudice penale ben potrebbe quindi dubitare della legittimità dei provvedimenti
amministrativi marzolini adottati con tali d.P.C.M., ma anche dei successivi sempre
difettando la previsione per via legislativa ovvero atto amministrativo generale (fondato
su norma di legge, ex art. 23, Cost.), la cui inosservanza si contesta all’imputato e, di
conseguenza, disapplicarli e pronunciare un’assoluzione perché il fatto non sussiste.
D’altro canto, nei giudizi penali che saranno incardinati, non difetterà sine dubio
l’eccezione di legittimità costituzionale con riferimento al d.l. 6/2020, convertito in l.
13/2020, per il periodo di sua vigenza sino all’abrogazione da parte del d.l. 19/2020,
ovvero per i d.l successivi, nella parte in cui s’apre la via a provvedimenti
amministrativi restrittivi di diritti costituzionali in assenza di congrui e predeterminati
parametri.
34
Ex plurimis: Cass. pen., Sez. V, 24 maggio 2017, n. 25927; Cass. pen., Sez. V, 12 agosto 2008, n.
33382; Cass. pen., S.U., 31 maggio 1999, n. 6.
18
Concludono il tanto desolante quanto claudicante quadro dichiaratorio
orchestrato due ulteriori deprecabili elementi. Il primo è costituito dal fatto che
l’autodichiarazione contiene un espresso riferimento alla negatività virale da COVID19, in assenza di alcuna diagnostica intervenuta, di talché l’interessato dichiara un fatto
personale di cui non ha contezza assoluta. Il secondo è l’espresso riferimento in
modulistica all’art. 495, c.p., delitto integrabile solo per false attestazioni a pubblico
ufficiale aventi a oggetto l’identità, lo stato o altre qualità della persona, ipotesi del tutto
remota nel caso delle autodichiarazioni per l’emergenza COVID-19. Infatti, posto che
le dichiarazioni raccolte nel modulo di autocertificazione assumono un mero valore di
verbalizzazione scritta dell’interessato delle dichiarazioni rese al pubblico ufficiale
circa le ragioni dello spostamento, appare pacifico che solo nell’ipotetico caso di
dichiarata falsa identità, stato civile, professione, dignità, grado accademico, ufficio
pubblico ricoperto ovvero precedente condanna e similari35, potrà ravvisarsi il suddetto
reato ma non certo per la quasi totalità delle concrete possibili ragioni addotte dal
soggetto per giustificare la circolazione sulla pubblica via. Se tale evocata ipotesi di
reato potrebbe ritenersi configurabile in caso di dichiarazione relativa ad esigenze
lavorative connesse allo svolgimento di una determinata professione in realtà non svolta
dall’interessato, per cui la falsità si trasla dalle ragioni dello spostamento al suo
presupposto, per certo non potrà invece considerarsi una qualità personale lo stato di
salute dell’interessato o di terzi ovvero altre addotte ragioni di assoluta urgenza36. Del
resto, più correttamente avrebbe potuto farsi riferimento al meno grave reato di cui
all’art. 496 c.p. che persegue le mere false dichiarazioni rese a pubblico ufficiale ma
senza alcuna attinenza con la formazione di un atto pubblico37, il cui concetto
penalistico è ben più ampio di quello del diritto civile38, ma tale richiamo è del tutto
assente nella modulistica imposta dal dicastero dell’Interno.
Indi, tale riferimento codicistico appare piuttosto essere stato furbescamente
(sic!) inserito nella modulistica dai vertici del dicastero dell’Interno in quanto reato più
grave del falso ideologico del privato in atto pubblico, ex art. 483 c.p., e che dunque
consente l’arresto in flagranza di reato. L’apparente refuso in tempo di pandemia ed i
riferimenti disinvolti alla dichiarazione sostitutiva inseriti nell’inopinata Direttiva
ministeriale nascondono quindi un autentico artifizio formale in chiave deterrente e
repressiva calpestando norme penali e logica della vita reale. Last but not least, l’ipotesi
del reato di falso in sede autodichiarativa, qualunque esso sia, appare preclusa in forza
del principio nemo tenetur se detegere (ovvero nemo tenetur se ipsum accusare) che
trae origine dal V Emendamento alla Costituzione USA, operante in ragione del
particolare momento in cui la dichiarazione mendace è realizzata e per il fine d’evitare
35
Cass. pen., Sez. V, 8 maggio 2019, n. 19695.
Cfr. M. GRIMALDI, Covid-19: la tutela penale dal contagio, in «Giurisprudenza penale», 2020, 4, 27.
37
Cass. pen., Sez. V, 18 febbraio 2015, n. 7286; Sez. IV, 11 maggio 2009, n. 19963; Sez. V, 17 dicembre
1997, n. 11808.
38
Ex multis, Cass. pen., Sez. v, 24 gennaio 2019, n. 3542.
36
19
una contestazione da parte del pubblico ufficiale. Ergo, per come strutturata
l’architettura punitiva, i delitti di falso a fini antipandemici in sede autodichiarativa
sono dunque tutti pacificamente posti “fuori gioco”.
Si tratta perciò d’autentico inutile e vessatorio fardello imposto al cittadino, frutto
della radicata cultura burocratica inquisitoria italiana di stampo francese nonché
d’arruffati coacervi normativi di rango amministrativo interno che, a loro volta,
attestano due dati, tanto significativi, quanto ulteriormente detestabili. Da un lato, la
chiara manifestazione di sfiducia verso il cittadino italiano assoggettato a dichiarazione
formale scritta per uscire sulla pubblica via, reso edotto di una sanzione penale priva di
adeguato fondamento normativo e di fattuale requisito oggettivo del reato. Dall’altro
lato la bieca volontà d’attivare una capillare e massiva azione di controllo del territorio
e, soprattutto, delle persone, sussumendo che qualsivoglia minimo spostamento anche
individuale sia necessariamente veicolo di contagio e dunque ingiustificato e debba per
l’effetto essere oggetto di dichiarazione facente fede sino a denuncia penale laddove sia
smentita.
La cultura burocratico-repressiva italiana non s’è dunque in alcun modo smentita
in tempo di COVID-19 e questo la dice lunga di quanto la stessa classe politica italiana
nutra affidamento nei cittadini nel XXI secolo, ritenendo dunque che mere
raccomandazioni ovvero ipotesi sanzionatorie subordinate a patenti, plateali ed
accertate violazioni dei divieti d’assembramento ovvero di mancato rispetto del
distanziamento sociale non siano in alcun modo sufficienti a contenere la pandemia.
I lineamenti intrapsichici connessi alla normativa emergenziale antipandemica
italiana confermano quindi un sistematico controllo sociale che non può approvarsi
laddove l’impiego delle forze dell’ordine ben poteva forse essere più utilmente
impiegato nel sofferente settore sanitario ed annessi, in luogo di lanciare una puntuale
strategia di cd. Grande Fratello in salsa sanitaria alla ricerca dell’untore, supposto
ingiustificatamente fuori dal domicilio.
D’altro canto, i retaggi del controllo del territorio e delle persone che derivano
dalla normativa emergenziale antiterroristica degli anni Settanta del secolo scorso
persistono per generazioni nei burocrati deputati all’ordine pubblico italiana. A sua
volta, la dichiarazione sostitutiva, apparente evoluzione della semplificazione laddove
sostituisce certificazioni, ex art. 46, d.P.R. 445/2000, nel caso del contenimento sociale
anti-COVID-19 s’è rivelata invece un abile strumento operativo d’ulteriore e
parossistico controllo sociale nella veste della dichiarazione sostitutiva dell’atto di
notorietà, ex art. 47, d.P.R. cit., peraltro a sua volta neppure ipotizzabile circa i motivi
di spostamento, e dunque trasformata in una sorta d’ultroneo ed abnorme affidavit
antipandemia.
5. Conclusioni: un’iniziale gestione emergenziale incostituzionale nell’assordante
silenzio generalizzato delle istituzioni
20
Non vi è chi non veda la presenza dell’eliminazione dei diritti di circolazione,
associazione, riunione, lavoro e d’iniziativa economica, che vengono non soltanto
compressi, con la previsione della necessità di munirsi di una sorta d’apposito
lasciapassare scritto ovvero dichiarazione sostitutiva da esibire alle solerti forze
dell’ordine, in funzione della salvaguardia della sanità pubblica. Ne vale obiettare che
tali limiti di circolazione ovvero d’attività economica sarebbero resi più pregnanti dalla
responsabilità dello Stato italiano nei confronti della comunità internazionale per il
timore di ulteriore diffusione estera del contagio.
Appare dunque pacificamente incostituzionale ed in assoluta violazione al
principio della riserva di legge in punto di diritto di circolazione l’aver proceduto a
mezzo mero decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri onde imporre limitazioni
alla libertà di circolazione di tal fatta, vieppiù nella claudicante generica modalità
descritta inizialmente dal d.l. 6/2020. Una fonte legislativa contenente un mero rinvio
generico a successivo atto amministrativo che si configura per l’effetto doppiamente
lesivo di varie libertà costituzionali nonché della gerarchia delle fonti.
Diversamente dovremmo pensare ad un’evoluzione (ma sarebbe meglio dire
involuzione) dei poteri del Presidente del Consiglio verso quelli del Capo di Stato russo
laddove la relativa Carta ammette decreti presidenziali (ukaz) aventi forza di legge che,
peraltro, non possono modificare leggi già esistenti e decadono qualora sia approvata
una legge del Parlamento (Duma) che disciplina il medesimo oggetto.
La redazione e pubblicazione dei quattro discutibili d.P.C.M. seriali dell’8, 9, 11
e 22 marzo 2020 appare dunque un pacifico reiterato abuso in sfregio alla rigida
gerarchia delle fonti che imponeva il ricorso alla decretazione d’urgenza sotto riserva
di conversione parlamentare onde limitare il diritto di circolazione ed annessi per i
soggetti residenti e dimoranti nel Paese.
Del resto non si vede come un tale atto avrebbe potuto reggere avanti al T.A.R.
Lazio laddove non si trattava certo d’istituire una mera zona a traffico limitato. Infatti,
é ampiamente noto che limitazioni alla libertà di circolazione e di iniziativa economica
a mezzo ordinanze sindacali sono del tutto giustificabili39 allorquando scaturiscono
dall’esigenza di tutela del patrimonio culturale ed ambientale dell’area, cui la
Costituzione riconosce valore primario40.
39
Cons. Stato, sez. V, 13 novembre 2015, n. 5191; Cons. Stato, sez. V, 7 novembre 2012, n. 4386; ord.
Cons. Stato, sez. V, 25 luglio 2012, n. 2898; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 13 giugno 2013, n.
1546; ord. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 28 marzo 2013, n. 802; ord. T.A.R. Lombardia, Milano,
sez. III, 13 dicembre 2012, n. 1720; ord. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 8 ottobre 2012, n. 1402;
ord. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 30 aprile 2012, n. 606; Cons. Stato, sez. V, 3 febbraio 2009, n.
596.
40
Cfr. M. CALABRÒ, Istituzione di una zona a traffico limitato e profili di criticità connessi alla
previsione di limitazioni alla libertà di circolazione stradale, in «Il Foro Amministrativo C.d.S.», 2009,
7-8, 1754-1778 e S. AMOROSINO, Le limitazioni amministrative alla circolazione: profili critici, in «Il
Foro amministrativo T.A.R.», 2003, 11, 3403-3411.
21
Limitare la libertà di locomozione per mezzo di un atto amministrativo, vieppiù
privo di adeguato fondamento legislativo che ne tratti oggetti, principi e limiti, pur
nell’assoluta buona fede istituzionale (ma forse sarebbe più opportuno evocare il
pressapochismo e l’approssimazione), appare alla stregua di sinistri regimi autoritari
ovvero di Presidenti di Paesi con tradizioni democratico-culturali ben diversi dalla
nostra, a nulla valendo che il mezzo valga il fine dell’emergenza sanitaria in corso.
L’aver evitato la decretazione d’urgenza (rectius, averla inizialmente utilizzata
inserendovi generici presupposti per successivi atti amministrativi), pur così abusata
nei decenni scorsi, grida ora vendetta ed accettare che un Presidente del Consiglio con
“miseri” propri decreti abbia imposto vincoli alla libera circolazione dei cittadini. Per
quasi tre settimane é stato quindi perpetrato un chiaro abuso di poteri di cui non soltanto
il medesimo s’assume la responsabilità politica ma anche quella giuridica per l’aver
defraudato il Parlamento della titolarità a sanzionare tali limitazioni in tutto il Paese.
A ben vedere appare ancora una volta l’incapacità ed irresponsabilità gestionale
delle istituzioni governative italiane. A fronte di crisi emergenziali si forniscono
risposte con mezzi e fonti spesso inadeguati se non del tutto incostituzionali come
ampiamente nel caso di specie. I motivi per cui tali limitazioni non sono state adottate
a mezzo decretazione d’urgenza – ovvero senza un robusto fondamento legislativo
insito nella stessa – non sono stati chiariti e forse mai lo saranno, nel silenzio
generalizzato delle opposizioni, della stampa e, soprattutto, del Parlamento in sé ridotto
ad un feticcio a mezzo servizio nella psicosi virus. Eppure assicurare la continuità della
funzione legislativa è un dovere morale e giuridico per i parlamentari ma troppo forte
era evidentemente il timore del contagio e ben venga dunque la supplenza governativa
(sic!) a fronte di un mero indeterminato rinvio legislativo, ex art. 2, d.l. 6/2020.
Tuttavia, di fatto, e a ben vedere, il rischio maggiore é quello di aver creato un
precedente con tali discutibili (e pure raffazzonati nei contenuti) provvedimenti
governativi extra ordinem, sanzionando poteri emergenziali a mezzo di meri atti
amministrativi del Presidente del Consiglio in sfregio alle regole costituzionali su vari
diritti stante l’ineluttabile riserva di legge in materia.
L’emergenza COVID-19, nella sua spirale perversa, appare aver recato con sé
una sorta di “russificazione” dei poteri della figura del Presidente del Consiglio che in
realtà non giova ad alcuno. Certifica l’incapacità gestionale dell’emergenza, la sua
sottovalutazione, la subordinazione della medesima agli interessi delle lobbies
corporative economiche, l’impreparazione del sistema sanitario giunto “nudo” avanti
alla pandemia. Salvo dover ritenere fondata la nostra Repubblica sul tradimento e
sull’immoralità per mezzo del vertice governativo che sovverte la gerarchia delle fonti,
l’emergenza ha annullato per quasi ben tre settimane – dall’8 al 25 marzo 2020 – il
principio della riserva di legge per le imposte limitazioni dei diritti e derubricato il
Parlamento a mero osservatore.
Ad onta della necessità di avere una cd. democrazia decidente in presenza di
momenti di crisi del sistema, la superficialità con cui l’esecutivo ha affrontato
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l’emergenza dal punto normativo sostanziale circa il rispetto delle fonti del diritto
appare evidentemente lesiva della stessa reputazione giuridica dei soggetti che hanno
sottoscritto tali norme. Non sono sufficienti maldestri appelli mediatici alla Nazione e
far leva su un’emergenza (intern)nazionale per giustificare il ricorso a misure
draconiane a mezzo di meri provvedimenti del Presidente del Consiglio fondati su
blando e generico disposto legislativo.
Ma del resto, e a ben vedere, la disastrosa situazione italiana non è che il mero
frutto della mancata preparazione iniziale all’ineludibile arrivo dell’epidemia a partire
dalle sopracitate fuorvianti e contraddittorie linee guida varate dal dicastero della
Salute. I burocrati che le hanno redatte restano ma i politici, privi di background
sanitario alcuno, che le hanno sottoscritte passano.
Il ricorso a provvedimenti discutibili in punto di rispetto del sistema delle fonti
del diritto non è che un corollario che attesta le deficienze iniziali. Vieppiù esso certifica
anche l’ignavia parlamentare che con un mero generico rinvio ad indefinite norme
collocate in un comma di decreto legge (peraltro convertito quasi all’unanimità)41 ha
rimesso tutta la responsabilità all’esecutivo forse anche per deprecabili calcoli politici.
La successiva deficienza redazionale ha quindi fatto il resto anche in punto di
ferree e stringenti regole tese a contrastare la virulenza epidemica in uno con il peculiare
e malcelato controllo sistematico del territorio e delle persone che, presupponendo il
tanto stereotipato mancato senso civico italiano, ha tratto ampio “giovamento”
dall’imporre un’autodichiarazione sostitutiva sotto pena di sanzione penale in caso di
mendacio. In verità la coscienza civica s’è rivelata congrua stante gli inoppugnabili dati
delle minimali sanzioni in rapporto al florilegio esponenziale (e chiaramente tanto
ingiustificato quanto invasivo) di verifiche eseguite42: gli italiani si sono dimostrati un
popolo ampiamente disciplinato e rispettoso ad onta dello stretto controllo inquisitorio
e dell’iniziale lesione dei diritti costituzionale senza solida base legislativa.
41
Il d.l. 6/2020 è stato convertito in legge alla Camera con 462 voti favorevoli e 2 contrari mentre al
Senato con 234 voti favorevoli, nessuno contrario e 5 astensioni.
42
Dall’11 marzo al 24 aprile 2020 sono state controllate dalle forze dell’ordine ben 10.344.667 persone
pari a circa 1/10 degli abitanti, con solo il 3,6% di soggetti sanzionati. Fonte: Ministero dell’Interno, 25
aprile 2020.
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