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Le limitazioni ai diritti costituzionali a mezzo atto amministrativo nell’avvio dell’emergenza pandemica da COVID-19 di Fabio Ratto Trabucco* 7 maggio 2020 Sommario: 1. Lo Stato d’eccezione e l’iniziale gestione dell’emergenza pandemica in Italia. – 2. Le lacune del d.l. 6/2020 in punto di restrizioni alle libertà costituzionali a mezzo atto amministrativo. – 3. Segue: la limitazione alla libertà di circolazione in tempo di COVID-19. – 4. Segue: l’onere autodichiarativo per la circolazione. – 5. Conclusioni: un’iniziale gestione emergenziale incostituzionale nell’assordante silenzio generalizzato delle istituzioni. 1. Lo Stato d’eccezione e l’iniziale gestione dell’emergenza pandemica in Italia Sovrano è chi decide sullo Stato di eccezione, così il celebre Carl Schmitt definiva senza mezzi termini il detentore del potere nel suo mirabolante Teologia politica1. Partendo da concetti semplici e neutri come terra, mare, amico, nemico, Schmitt giunge a teorizzare la differenza tra legalità e legittimità, e quindi a correlare strettamente la sovranità con la possibilità di decidere sullo stato di eccezione2. Lo Stato d’eccezione si configura come un soggetto politico che detiene il controllo totale di ogni ambito sociale (così fu per Schmitt nel III Reich tedesco). Lo Stato d’eccezione, definibile anche come “Stato totale per energia”, si contrappone poi allo “Stato totale per debolezza”, come Schmitt definiva lo Stato creato dal compromesso liberaldemocratico, ritenuto incapace di un’autentica decisione politica e di sovranità, pur occupandosi di ogni ambito sociale. È ben vero che i costituzionalisti come Kelsen non hanno mai condiviso tale approccio ritenendo questo stato come del tutto pre-giuridico e quindi rigettando, anche con una certa dose d’ipocrisia, le implicazioni costituzionali della teoria schmittiana3. Ma il concetto di stato d’eccezione è stato ripreso anche in tempi recenti da Agamben che ritiene tale stato come un vuoto giuridico, una sospensione del diritto paradossalmente legalizzata ma pur sempre molto diffusa nella realtà odierna4. * Research Fellow in Comparative Public Law. 1 Cfr. C. SCHMITT (a cura di A. CARACCIOLO), Teologia politica, Giuffrè, Milano, 1992. 2 Cfr. M. KAUFMANN, Derecho sin reglas. Los principios filosoficos de la teoria del Estado de Schmitt, Fontamara, Roma, 2013. 3 Cfr. C. SCHMITT (a cura di A. CARACCIOLO), Dottrina della costituzione, Giuffrè, Milano, 1984. 4 Cfr. G. AGAMBEN, Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino, 2003. 1 La questione è anche se le emergenze siano eventi del tutto straordinari che si verificano in circostanze imprevedibili o se si tratta di dinamiche più ordinarie, che caratterizzano anche i tempi della politica normale. Nell’affrontare questo problema non si può escludere una lettura alternativa della concezione di Schmitt sullo stato di eccezione, interpretata alla luce del suo lavoro degli anni Trenta. Sulla base di quest’analisi, l’eccezione non viene rappresentata come il momento fondamentale di una comunità politica, ma come una minaccia dirompente per il nucleo materiale dell’ordine costituzionale su cui è fondata la comunità. Di conseguenza, le emergenze sono rappresentate come dispositivi legali progettati per gestire l’emergere di fenomeni sociali potenzialmente inquietanti5. Nel caso della pandemia da COVID-19 appare anzitutto evidente che l’iniziale gestione istituzionale dell’emergenza sanitaria da parte dell’esecutivo italiano è stata connotata da ampi ritardi ovvero sottovalutazioni dell’epidemia – anche per scongiurare effetti nefasti sull’economia nazionale a fronte delle discendenti spinte corporative. Basti considerare le fuorvianti e riduttive primigenie linee guide “sfornate” dal Ministero della Salute a fine gennaio 2020 tutte incentrate sul ricondurre l’ingresso del morbo nel nostro Paese ai soggetti meramente arrivati dalla Repubblica Popolare Cinese tralasciando ogni ipotesi di vettori indiretti. Di talché la tanto casuale quanto provvidenziale “scoperta” del primo ufficiale caso italiano “solo” in data 20 febbraio 2020. Infatti, nel dettare gli elementi cardine ai sanitari per l’individuazione del nuovo virus limitando al mero elemento geografico “cinese” l’identificazione di potenziali casi, il dicastero della Salute ha colpevolmente tralasciato (rectius, soppresso in forza d’incomprensibile modifica delle primissime direttive) il sostanziale elemento diagnostico di patologie respiratorie aventi decorso «insolito o inaspettato» come inizialmente indicato ma successivamente rimosso6. 5 Cfr. M. CROCE, Emergence vs. emergency. Governing the boundary between the exceptional and the normal, in «Ragion pratica», 2017, 48, 95-113. 6 Circolari del Ministero della Salute del 22 e 27 gennaio 2020, circa il trattamento e prevenzione da COVID-19. Particolarmente nelle prime linee guida su chi deve essere sottoposto al tampone orofaringeo si legge che è da trattare come caso sospetto anche «una persona che manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato». Tuttavia, la successiva e nuova versione delle linee guida ministeriali del 27 gennaio 2020 cancella quella frase e prevede controlli solo per chi ha legami con la Cina. Si noti vieppiù che il formale stato di emergenza COVID-19 é stato disposto con d.P.C.M. solo il successivo 31 gennaio. Tale elemento appare dirimente nel radicare la responsabilità del dicastero per il generato e deleterio ritardo che ha determinato la scoperta del “paziente 1” a Codogno solo il 20 febbraio 2020 laddove il suo decorso anomalo della patologia respiratoria non determinava inizialmente alcuna necessità di attivare il test, posto che le “seconde” linee guida si concentrano appunto esclusivamente sui legami e provenienza cinese del paziente. Prova ne sia che é comprovata, nell’area lodigiana ovvero lombarda, già nel corso di gennaio e febbraio la presenza di “strane” polmoniti, patologie che, per le Linee guida ministeriali del 27 gennaio 2020, non erano quindi campanelli d’allarme COVID-19. Tali contraddittorie indicazioni di fine gennaio 2020 appaiono dunque certificare la prima responsabilità (autentica “pistola fumante”) del ritardo governativo nell’affrontare l’emergenza da cui a cascata gli ulteriori ritardi dell’esecutivo nazionale nel contenimento pandemico. 2 Il tutto a tacer delle enormi responsabilità, ritardi le dissimulazioni portate avanti dal regime totalitario cinese tipicamente fondato su censura e controllo dei cittadini7 con un sistema di “diritti affievoliti” tipico sia della ferrea tradizione dei regimi socialisti che della secolare tradizione confuciana di primato delle esigenze collettive sull’individualismo8. Nonché delle annesse connivenze ovvero revirements scientifici in punto di protezioni e tracciamento dei contagi da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che, lungi dall’essere un organo scientifico indipendente, s’è ben ancora confermata quale mero soggetto politico-burocratico che risponde anche a soprattutto a logiche geostrategiche e personalistiche. La distonia fra il dovere cinese all’assoluta chiarezza e trasparenza sull’origine virale e l’acclarato ritardo nelle comunicazioni internazionali non giustificano indulgenza ovvero buonismo a fronte di conclamate opacità, anche interne, non solo del regime di Pechino ma anche del servilismo tra gerarchie – locale della Provincia di Hubei verso la centrale –, del Partito totalizzante. A fronte di una Cina che appare diplomaticamente volersi porre quale nuovo guardiano dell’ordine mondiale e chiaro competitor statunitense emerge un quadro di plurime violazioni di cui il Paese è manifestamente responsabile. Tuttavia, lo stesso primigenio studio avviato dal Procuratore generale del Missouri onde ipotizzare un’azione risarcitoria statale contro la Repubblica Popolare Cinese appare detenere un carattere più politico che fondamento giurisdizionale9. Se la giurisdizione della Corte internazionale di giustizia dell’Aja mai sarebbe accettata dal regime cinese, non meno peregrina appare l’ipotesi di una Corte internazionale ad hoc attivata dalle Nazioni Unite in cui la Cina detiene potere di veto financo per l’istituzione di una mera Commissione d’inchiesta. Nel caso italiano, a fronte dell’assoluto rispetto dei sanitari che rischiano quotidianamente e direttamente la loro salute negli ospedali appare dunque evidente che sono loro i nostri Armando Diaz e non certo l’esecutivo centrale laddove con la supponenza di poter gestire direttamente l’emergenza ha preferito inizialmente, per circa un mese, mantenere la direzione della crisi epidemiologica supportata dal comitato tecnico-scientifico. L’assenza di un commissario ad hoc nel caso COVID-19 – solo tardivamente nominato e con poteri limitati al potenziamento delle infrastrutture ospedaliere10, in rapporto, per esempio, alla struttura commissariale per la ricostruzione del ponte 7 Cfr. A. CANEPA, Lotta al COVID-19 e diritti dei cittadini nella Repubblica Popolare Cinese. Le peculiarità di un ordinamento socialista asiatico, in L. CUOCOLO (cur.), I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-19. Una prospettiva comparata, in «Federalismi.it», 83-96. 8 Cfr. M. MAZZA, Lineamenti di diritto costituzionale cinese, Giuffrè, Milano, 2006, 107 e TIAN DAN, Rights Perspective, in «Beijing Review», 2005, 51, 19 ss. 9 Cfr. T. AXELROD, Missouri becomes first state to sue China over coronavirus response, in «TheHill.com», 21 aprile 2020. 10 D.P.C.M. 18 marzo 2020, di nomina del Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure di contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica COVID-19. 3 Morandi11 – è la tipica conferma di come la politica tema questa figura di staff che, se svolge egregiamente i propri compiti, offusca sine dubio la figura del vertice governativo. Il primigenio prezzo da pagare in assenza del commissario straordinario all’emergenza COVID-19 è stata l’assenza di una regia unica. Del resto, nominare un commissario ad emergenza in corso determina, a sua volta, l’effetto di delegittimare i titolari delle istituzioni. Aggiungiamo poi che storicamente il ministero della Salute è sempre stato in cima alla lista dei tagli ad ogni annuale legge finanziaria, di stabilità, di bilancio, o come vogliamo definirla, anche e soprattutto da ultimo in forza delle regole calate da Bruxelles, fiscal compact docet. Neppure erano trascorsi due giorni dalla proclamazione della Lombardia e di 14 province limitrofe quali “zone rosse” – dopo due settimane di colpevole riduzionismo e conseguenziale ritardo – e l’esecutivo estende draconiane norme di limitazioni dei diritti costituzionali a tutto il Paese. Ancora, due altri giorni dopo si procede alla chiusura delle attività aperte al pubblico lasciando però operativi gli uffici pubblici, poste, banche e servizi assicurativi che tali rimarranno per tutto il periodo di lockdown. S’è molto proceduto a spizzichi e bocconi con decreti “spezzatino” del Presidente del Consiglio col risultando di generare solo confusione. A sua volta il cordone sanitario iniziale lodigiano ed euganeo s’è dimostrato una pia illusione in termini di contenimento territoriale laddove la patologia già era ben latente nell’area lombardo-veneta-emiliana ed alcuna altra iniziativa di blocco è stata assunta per ben due settimane, evidente colpevole negligenza governativa che ha segnato irrimediabilmente l’espandersi della pandemia nel Nord. Ma quello che costituzionalmente non torna nella gestione iniziale dell’emergenza è l’iniziale messa in stand by del Parlamento. Orbene, complice una fattuale forte riduzione dei lavori parlamentari per ragioni sanitarie, le stesse Camere hanno operato quantomeno per il mese di marzo “a mezzo servizio”, e dunque s’è aperta la breccia per l’adozione di atti amministrativi del vertice dell’esecutivo limitanti diritti costituzionali, in primis di circolazione dapprima financo contenenti sanzioni penali e solo successivamente (ma anche con effetto retroattivo, sintomo di plateale “marcia indietro”), ex art. 4, d.l. 25 marzo 2020, n. 19, di natura amministrativa. L’atto sottoscritto dal Presidente del Consiglio nella notte di domenica 8 marzo 2020, così come i successivi del 9 e dell’11 marzo appaiono infatti tanto frettolosi (in quanto ab initio tardivi) quanto evidentemente lesivi delle prerogative delle Camere e privi di un adeguato fondamento legislativo12. Si tratta all’evidenza di un punto molto infimo della storia costituzionale democratica italiana. S’appalesano infatti delle misure limitative di diritti fondamentali adottate con meri decreti del Presidente del Consiglio 11 Cfr. A. Arcuri, Il governo delle emergenze: i rapporti tra decreti-legge e ordinanze di protezione civile dal terremoto de L’Aquila al crollo del ponte Morandi, in «Osservatorio sulle fonti», 2019, 2, pp. 12 Sia consentito rinviare a F. RATTO TRABUCCO, Prime note al d.P.C.M. 8 marzo 2020: con l’emergenza Coronavirus la gerarchia delle fonti diventa un optional, in «LexItalia.it», 2020, 3. 4 sulla base di smilzi presupposti legislativi, anziché un doveroso atto collegiale del governo previsto dalla Costituzione quale è il decreto legge, quantomeno con dettagliati presupposti per l’adozione di successivi atti amministrativi. A fronte di tali provvedimenti normativi ed annessa leggerezza giustificativa si legittima pure l’essere preoccupati per la tenuta dello Stato costituzionale di diritto a fronte di un uso allegro e disinvolto dei poteri normativi dell’esecutivo in situazioni emergenziali. La problematica dell’assenza di un’espressa previsione normativa costituzionale in situazioni emergenziali s’è manifestata chiaramente nell’inizio della gestione di questa pandemia. Se è vero che necessitas non habet legem tali atti appaiono del tutto indegni di un sistema di governo parlamentare, in sfregio alle più basilari regole della gerarchia delle fonti del diritto e della titolarità del solo Parlamento quali tesi a limitare la libertà di circolazione nonché imporre sanzioni senza un previo congruo presupposto di natura legislativa. Vista dall’estero l’Italia, nel periodo di massima crisi emergenziale sanitaria, è apparsa un Paese ripiegato su sé stesso, destinatario di plurimi aiuti umanitari stranieri con relativo altisonante battage mediatico, davanti al certo baratro della recessione con annesso blocco dell’economia ed impennata del debito pubblico. Il tutto mentre l’esecutivo (rectius, il capo dell’esecutivo) annaspava in provvedimenti urgenti a raffica obliterando che limitazioni a diritti fondamentali non possono che passare attraverso il vaglio parlamentare. Peraltro, a parte il procedere a limitare il diritto di circolazione ed iniziativa economica a mezzo d.P.C.M., ci si chiede seriamente se nell’esecutivo italiano (ma anche europeo) esista un piano strutturale per affrontare la futura emergenza lavorativa ed economica anziché mere e solite misure tampone. Orbene, nel marasma ed isteria collettiva che ha colpito il Paese a seguito della non meglio precisata introduzione del virus in Italia, gli effetti deleteri sono pacifici anche sulla normazione. Se il paziente zero resterà una chimera, a nulla è servito chiudere i collegamenti aerei con la Cina sin dal 31 gennaio 2020, obliterando gli arrivi indiretti via triangolazioni. Mentre la gestione sanitaria iniziale s’è rivelata traballante in molte Regioni con carenze di dispositivi, diagnostica e medicina territoriale, anche in forza delle deficitarie risorse e strutture regionali oggetto di tagli decennali al sistema ovvero privilegi attribuiti al servizio sanitario privato. Il primo tentativo di reazione governativo all’emergenza è stata l’adozione del d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, prontamente convertito in l. 5 marzo 2020, n. 13, nell’arco di meno di due settimane, con cui inizialmente veniva disposto un rigido cordone sanitario attorno agli undici Comuni dell’area del primo contagio. In sede di conversione, a seguito dell’unico emendamento governativo proposto ed approvato in Commissione, è però venuto meno il riferimento espresso ai ridetti Comuni con un più generale riferimento all’art. 1, c. 1, ai «comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi é un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un’area già 5 interessata dal contagio del menzionato virus». Quindi, l’art. 3, c. 1, è stato dedicato ad una non meglio precisata «attuazione delle misure di contenimento» da attuarsi «con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri». Giova precisare che l’elenco delle misure è del tutto indeterminato ed indeterminabile laddove non si limita ad un elenco finito di cui all’art. 1, c. 2, ma all’art. 2, c. 1, perviene a rimandare a generiche «ulteriori misure di gestione dell’emergenza» in alcun modo esplicitate. Orbene, tale sarebbe il presupposto legislativo dei decreti del vertice dell’esecutivo quali adottati a raffica a partire da quello del 25 febbraio 2020 con riferimento alla limitazione delle attività in cinque regioni settentrionali a fronte dell’espansione pandemica. Si tratta di una previsione di limitazione dei diritti del tutto indeterminata che basicamente non lascia spazio ad eccezione alcuna. Tale disposto sarebbe espressione del principio solidaristico onde salvaguardare il diritto alla salute, ex art. 32, Cost., un esercizio del biopotere necessitato. Tuttavia, si ribadisce, è una previsione vaga e generica senza limite alcuno e con rinvio all’adozione di successivi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri. Sono poi seguiti a stretto giro due ulteriori decreti legge relativi, rispettivamente, alle misure urgenti di sostegno a famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza sanitaria delle aree lodigiane e padovane inizialmente colpite (d.l. 2 marzo 2020, n. 9) nonché in tema di misure straordinarie per contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria in gran parte congelata sino al 30 giugno 2020 (d.l. 8 marzo 2020, n. 11, poi abrogato con il varo del nuovo e più ampio provvedimento omnibus d.l. 17 marzo 2020, n. 18, cd. cura Italia). Infine, il ciclo dei cd. decreti legge marzolini anti-COVID-19 s’è concluso con le nuove misure urgenti per contrastare la pandemia che hanno finalmente dettagliato le possibili limitazioni, la durata temporale dei discendenti provvedimenti amministrativi restrittivi e la rimodulazione della natura delle sanzioni applicabili (d.l. 25 marzo 2020, n. 19). 2. Le lacune del d.l. 6/2020 in punto di restrizioni alle libertà costituzionali a mezzo atto amministrativo Appare in primis evidente l’abnorme vulnus del primigenio citato d.l. 6/2020, convertito in l. 13/2020, che non s’è in modo alcuno premurato di determinare puntualmente le limitazioni imponibili ai cittadini in tempo d’emergenza pandemica. Si registra infatti una formulazione del tutto ampia e generica delle restrizioni applicabili alle libertà ed ai diritti fondamentali quali risultanti dalla richiamata elencazione dell’art. 1, c. 2. Solo il (tardivo e) successivo sopra richiamato d.l. 19/2020, a far data dal 26 marzo 2020 ha provvisto fondamento legislativo ex post anche alle misure disposte nei decreti e ordinanze adottati precedentemente sulla base dell’additato inconsistente d.l. 6/2020. 6 A fronte di tali iniziali presupposti indeterminati, smilzi e generici, in punto di limitazioni necessitate per contrastare la perigliosa patologia, la conseguente decretazione del vertice governativo ha avuto una prima sinistra e forte avvisaglia con il secondo d.P.C.M. adottato in data 1º marzo 2020, allorquando ancora il testo si riferiva alle espresse mere aree lodigiane ed euganee, che prevedeva generalizzate limitazione ai fini di contenere la diffusione del virus. Tuttavia, successivamente, allorquando s’è compreso che la curva epidemica non s’arrestava, complici evidenti violazioni non adeguatamente sanzionate (letterali fughe notturne verso le coste e soprattutto verso il Meridione con ogni mezzo di trasporto) ovvero strutture sanitarie al (quasi) collasso, e per l’effetto l’Italia s’avviava a divenire il secondo Paese al mondo per contagi dopo quello d’origine del virus, tutti gli schemi sono saltati. Vieppiù con il patente rischio che il virus si diffondesse massicciamente al sud a fronte di sistemi sanitari in parte deficitari di risorse umane, finanziarie e strumentali. Tuttavia, non soltanto – e sarebbe forse anche giustificabile nella crisi del momento –, sono venuti meno gli schemi comunicativi a mezzo di fughe di notizie, smentite, conferme parziali, mezze parole e simili nella difficoltà di coordinamento fra Governo centrali e Regioni, la maggior parte delle quali, peraltro, sostenute da maggioranze politiche di diverso colore rispetto all’esecutivo romano. Infatti, ciò che é stato letteralmente fatto a pezzi a partire dal d.P.C.M. notturno dell’8 marzo 2020 e pedissequo decreto a valenza nazionale del giorno (rectius, della tarda serata) successivo (a), come forse mai nella storia repubblicana italiana, é il sistema delle fonti del diritto nei suoi più basilari elementi, peraltro in un certo sordo silenzio generalizzato della stampa ma anche della stessa accademia giuridica che nulla (ovvero in sordina) ha contestualmente eccepito13. I d.P.C.M. 11 e 22 marzo 2020 hanno poi chiuso questo desolante cerchio marzolino di decreti amministrativi di “salute pubblica”, aventi efficacia nazionale e privi di un’adeguata base normativa primaria, attraverso la previsione della chiusura di alcune attività commerciali pur lasciandone discutibilmente ancora aperte di altre che apparentemente non avrebbero avuto effettive ragioni di continuare l’operatività ovvero acconsentendo moduli procedimentali derogatori fondati sul principio del silenzioassenso. La notte non ha evidentemente portato consiglio. Anzi, ha ancor di più spinto del senso d’agire a mezzo decreto a valenza amministrativa del vertice dell’esecutivo in luogo di procedere con il dovuto decreto legge da presentare alle Camere per la conversione con ogni conseguenziale necessitato emendamento in forza dell’evolversi della situazione. Infatti, rileva come nell’arco temporale fra l’8 ed il 25 marzo 2020, Cfr. B. CARAVITA, L’Italia ai tempi del coronavirus: rileggendo la Costituzione italiana, in «Federalismi.it», 2020, 6. Una peraltro incompleta raccolta dei primi lavori relativi ai profili giuridici della pandemia è reperibile in S. MALVICINI, Covid-19. Raccolta di articoli, paper e post blog, in «Federalismi.it», 2020. 13 7 con il lockdown nazionale (Lombardia e limitrofe province nei soli primi due giorni), l’esecutivo ha emanato ben due nuovi decreti legge per contrastare la pandemia (in tema di potenziamento del sistema sanitario e per il sostegno a famiglie, lavoratori ed imprese: il primo dei quali, peraltro, proprio nella stessa data del d.P.C.M. dell’8 marzo 2020 con efficacia lombarda) ma in alcun modo s’è curato di procedere senza indugio a fornire adeguati presupposti di natura legislativa ai sopravvenuti decreti amministrativi d’imposizione di draconiane limitazioni a svariati diritti costituzionali. A tacer della tecnica redazionale che ha connotato la conversione del d.l. 6/2020 che appare fondata sull’illusoria speranza di contenere il contagio evitando di soffermarsi sulla descrizione delle restrizioni concretamente imponibili. Un colpevole drafting legislativo d’urgenza evidentemente complice della patente violazione costituzionale dei diritti che si profilava all’orizzonte ed implementata dall’8 al 25 marzo 2020. Il nodo è quindi che, in sostanza, con i quattro complessivi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8, 9, 11 e 22 marzo 2020, sono state disposte draconiane limitazioni alla libera circolazione dei cittadini ed al diritto d’iniziativa economica sulla scorta di meri generici e vacui presupposti quali delineati in un decreto legge. Inizialmente per una Regione ed ulteriori quattordici Province limitrofe. Successivamente, dopo poco più di giornata s’è giunti al provvedimento bis che raggiunge l’assoluto clou, per cui le suddette restrizioni sono estese a tutto il territorio nazionale, isole comprese, con successive stringenti implementazioni per i settori economici. Gli atti de qua hanno di fatto imposto dei fortissimi limiti alla mobilità in entrata ed in uscita nonché all’interno del Paese, di talché in concreto sono stati approntati posti di blocco lungo le autostrade, nelle stazioni e negli aeroporti, per sanzionare chi non è strettamente obbligato a muoversi a non uscire dai confini di zona, prima, e poi di fatto da tutto il Paese. Uniche eccezioni che permettono la deroga al movimento, da documentarsi debitamente alle forze dell’ordine, sono riconducibili esclusivamente a ragioni di lavoro, di salute ovvero «di assoluta urgenza» (nozione quanto mai labile e suscettibile d’interpretazioni arbitrarie che possono seco trascendere nell’abuso sanzionatorio) mentre sul tema del burocratico ed oppressivo connesso imposto onere della dichiarazione sostitutiva si tornerà in dettaglio nel paragrafo seguente. Orbene, é pacifico che un decreto del Presidente del Consiglio nell’ordinamento giuridico italiano è un mero atto amministrativo alla stregua del decreto ministeriale adottato da un Ministro nell'ambito delle materie di competenza del suo dicastero. Il valore normativo del d.P.C.M. è meramente amministrativo di talché sarà esclusivamente impugnabile avanti al Tribunale amministrativo competente (nel caso di specie il T.A.R. del Lazio avendo il decreto un’efficacia ultraregionale). A nulla vale del resto neppure l’espresso richiamo in incipit ai d.P.C.M. della l. 23 agosto 1988, n. 400, in tema di organizzazione del Governo, laddove in alcun modo la stessa norma avalla provvedimenti del vertice dell’esecutivo ovvero di un Ministro quali gravemente limitativi della libertà di circolazione ovvero della libertà d’iniziativa economica (a 8 tacer della libertà personale) anche in relazione all’ampiezza della zona coinvolta pari all’intera superficie del Paese. Appare dunque ancora una volta lapalissiano che tali norme avrebbero dovuto essere varate a mezzo decretazione d’urgenza con successiva conversione parlamentare in legge come del resto avvenuto con il decreto legge di fine febbraio relativo ai primi cluster del virus ratificato dalle Camere il 4 marzo e trasfuso nella l. 13/2020. L’aver inserito nel primigenio decreto legge un generico ed indeterminato riferimento ad ulteriori norme di contenimento da adottarsi dal Presidente del Consiglio costituisce dunque una fictio iuris evidentemente creata al fine di dare una qualche base giuridica legislativa ai successivi indeterminati atti amministrativi del Premier. La vicenda marzolina assume quindi contorni grotteschi tra l’ipotesi dell’abbaglio ovvero la supponenza del vertice governativo e dei relativi apparati ovvero l’ignavia d’evitare di sottoporre sollecitamente un secondo atto di più ampie ed espresse restrizioni al Parlamento, rimasto peraltro del tutto inerte avanti a tale pacifico esproprio a nulla valendo la sua riduzione dell’attività per ragioni sanitarie. L’esecutivo, pur di non ricorrere ancora al decreto legge – sarebbe stato il quarto nell’arco di soli quindici giorni (un certo record nella storia repubblicana, vieppiù in ordine alla stessa causa d’urgenza pur in via incrementale) – ha preferito agire a mezzo di meri atti amministrativi privi di dettagliata base legislativa. Il che appare però pacificamente abnorme e lesivo delle più elementari regole in materia di fonti del diritto e dunque del tutto incostituzionale per avere leso la relativa riserva di legge. Vieppiù a fronte di presupposti del tutto scarni e generici che di fatto lasciavano spazio ad ogni più ampia compressione dei diritti fondamentali del cittadino. Sarà solo diciotto giorni dopo, con il d.l. 19/2020, che si rattopperà il tutto con una più ampia e dettagliata previsione delle limitazioni di diritti apponibili a mezzo d.P.C.M., nonché ulteriori previsioni di corollario riconducibili ad almeno tre punti14. In primo luogo, l’emanazione dei d.P.C.M., su proposta del Ministro della salute, è preceduta da alcuni pareri obbligatori, per quanto non vincolanti, inizialmente in alcun modo preconizzati15. Inoltre, per i profili di competenza scientifica è previsto un parere, peraltro facoltativo (posta la tanta infelice quanto incerta espressione «di norma», ex art. 3, c. 1), reso dal Comitato tecnico scientifico insediato in base ad ordinanza del Capo del Dipartimento della Protezione civile16. In secondo luogo, oltre a far salvo un potere di ordinanza del Ministro della salute in caso di estrema necessità e urgenza, si configura un espresso potere di ordinanza 14 Cfr. F. CINTIOLI, Sul regime del lockdown in Italia (note sul decreto legge n. 19 del 25 marzo 2020), in «Federalismi.it», 3. 15 Si tratta dei pareri dei Ministri dell’Interno, della Difesa e dell’Economia e delle Finanze e degli altri Ministri competenti, nonché dei Presidenti delle Regioni interessate o del Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, a seconda che il decreto riguardi il territorio di una Regione ovvero l’intero territorio nazionale. È fatta salva la possibilità anche di una proposta di tali Ministri o del Presidente di Regione o del Presidente della Conferenza. 16 Ordinanza del Capo del Dipartimento della Protezione civile del 3 febbraio 2020, n. 630. 9 concorrente delle Regioni, per l’introduzione di misure ulteriormente restrittive, nelle more dell’adozione dei d.P.C.M., limitatamente ai settori di competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale. Elemento che anteriormente non era in alcun modo certo acconsentendo per l’effetto a rimpalli di responsabilità fra Governo e Regioni in ordine alla creazione di nuove “zone rosse” dopo la primigenia fissata con d.l. 6/2020. In terzo luogo, si dispone che i Sindaci non possono adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti dirette e a fronteggiare l’emergenza in contrasto con le misure statali, né possono eccedere i limiti fissati per i poteri emergenziali delle regioni. In quarto luogo, il decreto intende regolare i rapporti tra Governo e Parlamento e quindi prevede che i d.P.C.M. sono comunicati alle Camere entro il giorno successivo alla loro pubblicazione e che il Presidente del Consiglio o un Ministro delegato debbano riferire ogni quindici giorni alle Camere sulle misure di emergenza adottate. Elementi pregnanti e necessitati per ogni successiva adozione d’atti amministrativi tesi a restringere in maniera significativa i diritti costituzionali, in primis la circolazione e l’iniziativa economica. Tuttavia, la disinvolta gestione dei diritti degli italiani fra l’8 ed il 25 marzo 2020 a mezzo atto amministrativo privo di adeguati fondamenti legislativi (a tacer del precedente periodo dal 23 febbraio relativo ad aree molto limitate del Paese), resterà indelebile nella storia costituzionale. Senza tema di smentita si tratta chiaramente di quella che potrà essere ricordata come l’autentica notte dei diritti italiani, i diciotto giorni bui della nostra democrazia, ben superando altre anteriori e pur terribili acclarate limitazioni ovvero violazioni dei diritti avvenute, peraltro da parte delle forze dell’ordine e non di un potere statuale, nel corso del G-8 di Genova del 19-22 luglio 2001 (fatti della caserma di Bolzaneto e della scuola Diaz). 3. Segue: la limitazione alla libertà di circolazione in tempo di COVID-19 Il riferimento alle costrizioni di diritti imposte dall’esecutivo, senza una congrua e dettagliata base legislativa, è ovviamente anzitutto, ed a tacer d’altro, alla libertà di circolazione, ex art. 16, c. 1, Cost., da cui deriva che ogni individuo possa liberamente disporre della propria persona scegliendo dove, come e quando spostarsi, circolare e fissare la propria dimora sul territorio del Paese. Inoltre, si consideri la vigenza della Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen che ha previsto e reso operative l’abolizione dei controlli alle frontiere interne per tutti i cittadini in partenza dall’Italia verso un Paese membro dell’UE e viceversa. Convenzione che peraltro non é stata oggetto di sospensione dall’Italia pur a fronte dell’impellente emergenza sanitaria. Al riguardo è ben noto che la libertà di circolazione e soggiorno è tutelata a mezzo di una riserva di legge rinforzata per contenuto. La Carta fondamentale riserva la 10 materia alla sola legge e con draconiani limiti di contenuto della medesima. Infatti, le ridette limitazioni alla libertà di circolazione sono adottate dalla legge «in via generale per motivi di sanità o di sicurezza», così come disposto dall’art. 16, c. 1, Cost. In quest’ambito rientrano tutti quei casi d’emergenza sanitaria come un’epidemia (o supposta tale) in atto, e dunque il concreto e reale pericolo di diffusione di patologie ritenute perigliose per la popolazione. Del resto per insegnamento della Consulta le restrizioni devono non già solo riferirsi a situazioni di carattere generale quali epidemie o pubbliche calamità, ma anche che la legge deve essere applicabile alla generalità dei cittadini e non a singole categorie17. Tali motivi sanitari possono derivare da situazioni generali o particolari quali la necessità d’evitare l’accesso a zone infette o pericolanti ovvero isolare soggetti contagiosi, come nel caso dell’emergenza COVID-19. In tali frangenti la razionalizzazione della libertà di circolazione è ampiamente giustificata dalla tutela del diritto alla salute dei cittadini e particolarmente di coloro che non hanno contratto la patologia a cui fanno da contraltare i contagiati. Tuttavia la fonte di disciplina non può che essere quella primaria ovvero il decreto legge stante evidenti ragioni emergenziali. Del resto non si tratta certo di mettere in discussione il contenuto e la bontà delle severe restrizioni imposte in tema di libertà di circolazione, riunione ed iniziativa economica, certamente necessitato. Il nodo gordiano sono le modalità d’esercizio del cd. biopotere, che non possono in alcun caso legittimare un sovvertimento della gerarchia delle fonti laddove la cd. immunità di gregge in tal caso dev’essere realizzata a mezzo d’atti aventi forza di legge stante la loro inusitata valenza limitata vieppiù con efficacia sull’intero territorio nazionale. In tali casi è evidente che il rispetto del principio solidaristico si persegue con decisioni che passano attraverso il Parlamento e non per mezzo d’atti amministrativi del vertice governativo prontamente avallati dalla dottrina18 che perviene discutibilmente a richiamare il coacervo di decisioni in materia vaccinale onde suffragare gli scellerati decreti del vertice dell’esecutivo19. Vieppiù risibile appare fare riferimento alla legittimità dei pur invasivi (per gli agricoltori) provvedimenti amministrativi adottati in materia di contrasto alla Xylella fastidiosa, piaga agronomica della Puglia meridionale20. Il rapporto tra principio di precauzione e canone di proporzionalità quale descritto dalla giustizia amministrativa e costituzionale resta certamente fermo ma deve essere perseguito a mezzo fonte primaria qualora s’intenda porre, di fatto ma in via necessitata, agli arresti domiciliari l’intera popolazione italiana. 17 Corte cost.le, 14 giugno 1956, n. 2. Cfr. M. NOCCELLI, La lotta contro il coronavirus e il volto solidaristico del diritto alla salute, in «Federalismi.it», 13 marzo 2020. 19 Cons. St., sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6655. Cfr. M. MENDILLO, Precauzione e proporzionalità in una recente sentenza del Consiglio di Stato, in «GiustAmm.it», 2020, 3. 20 Cons. St., sez. III, 9 marzo 2020, n. 1692. 18 11 Particolarmente si contesta qui l’asserzione per cui le indicazioni offerte dalla Corte costituzionale e dal Consiglio di Stato in materia di obblighi vaccinali detengano una indubbia valenza generale21. Peraltro, se anche pur l’avessero è evidente che non possono compararsi le limitazioni a diritti costituzionali che sussistono fra l’essere obbligati a vaccinarsi versus il vedersi grandemente limitati negli spostamenti ovvero in generale nelle attività quotidiane a livello di coprifuoco militare sudamericano. Il tutto pur con i soliti dubbi applicativi a fronte di uno stile redazionale dei decreti governativi che non appare sempre impeccabile, di talché hanno necessitato le “solite” circolari esplicative molto “all’italiana” da parte del Dipartimento della Protezione Civile della Presidenza del Consiglio22 e del dicastero dell’Interno23. Dal canto suo, si ricorda come la Consulta circa la valutazione della legittimità costituzionale di una legge regionale valdostana per contrasto con gli artt. 3, 16, 41 e 120, Cost., per l’istituzione di una tariffa d’uso su strade di competenza comunale e regionale interessate da elevata congestione di traffico veicolare, ha avuto modo di affermare che «l’art. 16 della Cost. non preclude al legislatore di adottare misure articolabili in divieti […] sulla base di esigenze di pubblico interesse […]»24. Essa ben riconosce dunque ad una fonte normativa di rango primario il potere di “regolamentare” (e non già di sospendere tout court), la libertà di circolazione, in ossequio alla riserva di legge rinforzata ed assoluta contenuta appunto nell’art. 16 della Costituzione. Tuttavia il nodo in esame attiene a provvedimenti amministrativi dell’esecutivo, e non certo legislativi, in cui trovano il proprio presupposto le draconiane limitazioni della circolazione ed altri diritti, difettando alcun provvedimento legislativo nella gestione dell’emergenza COVID-19 sul piano nazionale circa l’indicazione determinata delle limitazioni degli spostamenti con mezzi di locomozione. Al riguardo appare del tutto insufficiente, al limite della capziosità e di fatto dell’ignavia del Parlamento che in tal modo delegava ogni ulteriore limitazione dei diritti costituzionali all’esecutivo, il riferimento inserito in sede di conversione all’art. 2, d.l. 6/2020, convertito in l. 13/2020. Di fatto quello che si contesta ai decreti in esame, e sino al d.l. 19/2020 del 25 marzo, è l’aver realizzato il precedente della gravissima sospensione contra legem dell’esercizio di diritti fondamentali dei singoli senza congrui presupposti legislativi per parte dell’autorità amministrativa quale è appunto il capo dell’esecutivo. Infatti, tale ipotesi ricorre allorché è in toto precluso al singolo di poter esercitare il diritto di circolazione ovvero altri diritti costituzionalmente garantiti. Peraltro nel caso di specie non si tratta di adottare, per incontrovertibili ragioni di sicurezza, in talune zone di singola cittadina o area, delle particolari modalità di 21 Cfr. M. NOCCELLI, cit., 22. Ordinanza Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento Protezione Civile, 8 marzo 2020, n. 646. 23 Circolare Ministero dell’Interno, 12 marzo 2020, prot. n. 15350. 24 Corte cost.le, 10 luglio 1996, n. 264. 22 12 esercizio del complesso articolato contenuto del diritto di circolazione o del diritto al lavoro dei singoli, come quella di circolare in auto o di accedere nel luogo di lavoro, tenendo conto cioè delle diverse ragioni di natura esistenziale che giustificano la mobilità dei singoli, vieppiù nell’ambito di un periodo non certo breve quale quello considerato nei provvedimenti a pioggia dell’esecutivo. Tale potere non deve ritenersi riconosciuto all’autorità amministrativa dalla legislazione primaria per finalità sanitarie – ritenendo ben inefficace lo smilzo riferimento del d.l. 6/2020 – non potendo per mezzo di mero atto amministrativo subordinare in maniera draconiana e (quasi) assoluta le esigenze di mobilità dei singoli, a quelle pubblicistiche di protezione della sanità pubblica ovvero, con altre non meno rilevanti necessità collettive, la cui cura è affidata ai pubblici poteri. In altri termini, dalla legislazione primaria non si desume un principio sostanziale e pregnante di individualismo, che pur è a fondamento delle presenti obiezioni, vale a dire che le libertà individuali, nello Stato sociale, ben vanno coniugate all’unisono con l’interesse della collettività. Seco possono certo subire delle compressioni in talune modalità di esercizio, per renderle compatibili con le libertà pari ordinate di altri, ma esse devono essere adottate esclusivamente a mezzo della fonte primaria e, se del caso, a mezzo decretazione d’urgenza, ex art. 77, Cost. Il sistema del rinvio ai decreti del capo dell’esecutivo ai fini dell’adozione d’indeterminate misure di contenimento appare a livello di mero escamotage onde evitare nuove e solerti chiamate in causa del Parlamento. Per quanti sforzi interpretativi si possano tentare per individuare un collegamento tra i plurimi decreti del vertice dell’esecutivo ed il coacervo normativo in materia di sanità pubblica, è evidente che i primi non possono in alcun modo essere considerati il presupposto né logico, né giuridico del secondo. Infatti, l’unica norma prima che contiene deleghe al Presidente del Consiglio dei Ministri di poteri è ampiamente connotata da generalità, indeterminatezza ed indefinità. Infatti, qualora una disposizione legislativa, intenda delegare al potere amministrativo la disciplina di una materia sottoposta a riserva di legge relativa, deve farlo tanto espressamente quanto nella determinatezza della misura finalisticamente orientata. È infatti impensabile una delega tacita ovvero “in bianco” a comprimere i diritti fondamentali dell’individuo. Ancora, la Consulta sancisce che nelle materie in cui la Costituzione stabilisce una riserva di legge relativa, é ammissibile che la legge ordinaria attribuisca all’autorità amministrativa l’emanazione di atti anche normativi, purché la legge indichi i criteri idonei a delimitare la discrezionalità dell’organo a cui il potere è stato attribuito25. Alcuna delimitazione in tal senso è rinvenibile nella normazione primaria circa la limitazione della circolazione in maniera (quasi) assoluta con provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri. 25 Corte cost.le, 27 maggio 1961, n. 26. 13 Se è vero che risulta indispensabile il richiamo alla fonte legittimante dei poteri esercitati dalla Pubblica Amministrazione, nel provvedimento in cui tali poteri s’esplicano, al fine di permettere la ricostruzione dell’iter logico-giuridico che ha portato all’emanazione dell’atto, e dunque per la sua validità, il mero richiamo alla l. 400/1988 ed al d.l. 6/2020 appaiono tanto generici quanto insufficienti onde supportare i provvedimenti di base giuridica legislativa. Infine, last but not least, ulteriore motivo per cui difetta una norma primaria che possa costituire la fonte del potere legittimante dell’atto amministrativo consiste nel fatto che stesso non si rinviene alcun giudizio di comparazione tra interessi costituzionalmente protetti: libertà fondamentali della persona da un lato versus esigenze di sicurezza sanitaria dall’altro. Affinché sia soddisfatto il principio della riserva di legge “relativa”, occorre che sia il legislatore a svolgere la ponderazione tra gli interessi tutelati in conflitto, e che la prevalenza di uno a scapito di altri, sia il risultato di una sua precisa scelta, salvo il delegarne all’autorità amministrativa le modalità di attuazione. Nelle norme primarie non si legge nulla che autorizzi ad ipotizzare che il legislatore avesse ritenuto di sacrificare per via amministrativa in toto diritti di cui all’art. 16, Cost., per esigenze di sanità pubblica a fronte di emergenza epidemica. Appare dunque che il potere amministrativo dell’esecutivo ha esorbitato dai limiti allo stesso imposti dall’ordinamento giuridico. Del resto neppure s’è trattato del caso di un Prefetto che possa emanare ordinanze contingibili in grado di comprimere o sospendere diritti costituzionali, perché questo potere sarebbe affidato al solo legislatore. Al riguardo, l’art. 2 del TULPS 18 giugno 1931, n. 773, che prevede tal potere prefettizio ha superato più volte il vaglio di costituzionalità ed ogni volta il giudice costituzionale ha riconosciuto la legittimità del potere in esame a condizione che il suo esercizio avvenga nel solco tracciato da norme primarie, che sia congruamente motivato e che il sacrificio imposto ai cittadini rispetti un principio di proporzionalità che dimostri la prevalenza dell’ interesse pubblico perseguito26. Un potere questo riconosciuto anche ad altre Autorità amministrative dalla legislazione primaria, oltre che a quella prefettizia, al fine di rendere compatibili, nella società postindustriale, le esigenze di mobilità dei singoli, con quelle pubblicistiche di protezione del contesto urbanistico, ambientale. Ovvero, con altre non meno rilevanti necessità collettive, la cui cura è affidata ai pubblici poteri, e che, altrimenti, potrebbero rimanere pregiudicate dall’afflusso indiscriminato di terzi in talune zone dell’area urbana di particolare pregio o, comunque, meritevole, come nel caso di specie, per esigenze contingenti, di particolare protezione27. Le ordinanze devono essere motivate, di durata predeterminata e non contrastare con i principi dell’ordinamento. Anche se, alla prova dei fatti, le ordinanze hanno potuto e dovuto incidere anche su libertà e diritti fondamentali per fronteggiare l’emergenza, 26 27 Cons. Stato, sez. IV, 2 giugno 1994, n. 467. Cons. Stato, sez. VI, 16 gennaio 2006, n. 85. 14 secondo la tecnica del bilanciamento dei valori in conflitto, mettendo talora inevitabilmente in crisi le riserve di legge, persino quelle assolute. La tecnica è quella della legge che delega al potere di ordinanza il contemperamento possibile, da sperimentare alla luce della necessità concreta28. Il recupero del potere di ordinanza al quadro costituzionale e allo Stato di diritto passa allora per un duplice ragionamento29. In primo luogo, lo stato di necessità, che anche se non fosse – secondo le suggestioni di Cammeo, Miele, Mortati e Santi Romano30 –, fonte del potere d’ordinanza, è nondimeno principio e valore presente nel tessuto costituzionale negli artt. 77 e 78 Cost. In secondo luogo, il potere di ordinanza è comunque attratto nel circuito della legalità, perché è pur sempre la legge che lo conferisce e il modo di esercizio è quello che deve rispettare obbligo di motivazione, concertazione con amministrazioni di volta in volta competenti, principio di proporzionalità e ragionevolezza, limiti di durata, procedimentalizzazione per quanto possibile. Il tutto assicurerebbe anche la legalità in chiave di “raffrontabilità” alla fattispecie legale e il controllo giudiziale avrebbe, da questo punto di vista, un ruolo chiave. Così come, infatti, il recupero della legalità deve avvenire necessariamente ex post delegando al potere di ordinanza quel bilanciamento tra valori in conflitto che serve a fronteggiare la necessità, allo stesso modo il controllo giurisdizionale fungerebbe da elemento di compensazione successivo. Orbene, quali sono i limiti insuperabili del potere amministrativo? Il primo è certamente costituito dalla possibilità di incidere su diritti anche di rango costituzionale, coperti da riserva di legge assoluta. La giurisprudenza amministrativa ha infatti da tempo affermato per i ridetti atti che «le ordinanze prefettizie di ordine pubblico e di urgenza ai sensi dell’art. 2, T.U.L.P.S. n. 773/1931, sono utilizzabili soltanto nei casi di riserva relativa di legge ma in tali casi possono incidere anche nei riguardi di diritti costituzionalmente garantiti (i quali ultimi non possono essere tutelati oltre i limiti ad essi coessenziali, tali da consentire l’esplicarsi delle esigenze necessarie ad assicurare la vita stessa della comunità e quindi anche l'adozione di misure d'urgenza prefettizie). Pertanto le ordinanze prefettizie in parola sono emanabili anche in materia di libera iniziativa economica e di diritto di proprietà, salvo il riscontro in concreto del rispetto dei limiti posti all'esercizio del relativo potere, fra i quali quello dell’adeguatezza del provvedimento ed i presupposti dell'urgenza e della grave necessità ed urgenza, Cfr. E.C. RAFFIOTTA, Norme d’ordinanza. Contributo a una teoria delle ordinanze emergenziali come fonti normative, Bononia University Press, Bologna, 2019. 29 Cfr. G. MORBIDELLI, Delle ordinanze libere a natura normativa, in «Diritto amministrativo», 2016, 12, 33-70. 30 In tema, cfr.: C. MORTATI, La Costituzione in senso materiale, Milano, Giuffrè, 1940; G. MIELE, La situazione di necessità dello Stato, in «Archivio di diritto pubblico», 1936, 425 ss.; S. ROMANO, Sui decreti-legge e lo stato di assedio in occasione del terremoto di Messina e di Reggio Calabria, in «Rivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione in Italia», 1909, 1, 251 ss.; F. CAMMEO, Lo stato di assedio e la giurisdizione, in «Giurisprudenza italiana», 1898, 369 ss. 28 15 considerati sotto il profilo della sicurezza e dell’ordine pubblici ai quali, cioè, in mancanza della ordinanza di urgenza, stia per venire un pericolo»31. Nel caso di specie non è però certo che sussista la presenza della compressione di diritti di circolazione, riunione, associazione, tutela del lavoro ed iniziativa economica, soggetti ad una mera riserva relativa di legge e come tali dunque legittimamente sottoposti alla regolamentazione del potere amministrativo, salva l’individuazione dei principi posti dalla legge. Tuttavia, non vale opporre che la dottrina è piuttosto divisa sulla qualificazione della riserva di legge per la libertà di circolazione, la quale, se è senz’altro rinforzata, è stata ritenuta ora assoluta e ora relativa. Peraltro, a sgombrare il campo interviene l’elemento per cui l’oggetto della disposizione costituzionale non é infatti la sola circolazione ed il soggiorno in senso stretto, ma anche la fissazione della propria residenza e del proprio posto di lavoro. Di talché non appare certo ragionevole motivare tali limitazioni draconiane a mezzo d.P.C.M. in forza dell’esistenza di una mera riserva di legge relativa. La situazione, nel caso dell’emergenza COVID-19 è stata ancora più peculiare poiché il Governo non ha inizialmente emanato un’apposita normativa primaria con chiara e tassativa indicazione delle forme di contenimento in punto di limiti da imporre alla comunità ai fini di contrasto della diffusione della patologia. Questo avverrà solo con il d.l. 19/2020, dopo diciotto lunghi giorni di restrizioni fissate dall’esecutivo senza precisi paletti legislativi nel merito degli stessi. Le limitazioni di diritti e libertà sono dunque avvenute per diciotto lunghi giorni sulla scorta di una “delega in bianco” stante l’intensità massima ed assoluta delle misure, a partire dal blocco totale degli spostamenti. A fronte di una lunga durata del formale stato di emergenza, proclamato il 31 gennaio e sino al 31 luglio 2020, e salvo ulteriori possibili estensioni, v’è la dirimente circostanza che lo stato di emergenza interessa l’intero territorio nazionale, senza esclusioni. Inoltre, è pacifico che la “chiusura” dell’Italia non ha precedenti nella storia del Paese: dal divieto di libera circolazione, al blocco delle attività produttive e commerciali sino alla soppressione del diritto al lavoro con annesso impoverimento dei ceti più deboli. Il tema è quello del confronto tra l’illegittimità costituzionale tout court delle ordinanze libere e l’impossibilità che esse vengano ad intaccare le libertà costituzionali ed i diritti fondamentali, riprendendo il solco di quella dottrina che ha cercato di delimitare i diritti che sono effettivamente comprimibili dalle ordinanze32. Ma, nel caso di specie, appare dirimente che difetta quel presupposto legislativo che legittima l’esercizio dei poteri di polizia per la tutela della sanità pubblica che ne rendono legittimo l’esercizio. 31 T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 11 gennaio 1989, n. 1. Cfr. G. MORBIDELLI, cit., 33-70 e A. CARDONE, La “normalizzazione” dell’emergenza, Torino, Giappichelli, 2011. 32 16 Il potere esercitato dal Presidente del Consiglio attraverso proprio decreto dall’8 al 25 marzo 2020, di fatto inquadrato quale provvedimento d’urgenza, non risulta quindi essere stato inserito in un quadro normativo pregnante, definito e determinato, che si sia dato carico della particolarità dell’evento che occorreva fronteggiare. Infine occorre pure verificare l’uso del potere in relazione alla compressione dei diritti costituzionali sopra citati. Infatti, il potere del capo dell’esecutivo non già solo non avrebbe potuto sopprimere o sospendere totalmente nessuno dei diritti costituzionali sopra indicati ma, in realtà, i plurimi decreti marzolini non si preoccupano di contemperare le esigenze generali di sicurezza con lo svolgimento di diritti essenziali in un ordinamento democratico. 4. Segue: l’onere auto-dichiarativo per la circolazione Con l’estensione a tutto il Paese della nozione di “zona rossa” (rectius, politically correct definita “zona arancione [scuro]”) per cui financo spostamenti pedonali devono essere motivati e se del caso attestati, di fatto si limita il movimento a tutti i residenti e dimoranti nel Paese nonché a coloro che debbano svolgervi attività lavorativa. Il discorso richiama qui l’obbligo della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, ex art. 47, d.P.R. 445/2000, di per sé non espressamente evocata dai vari d.P.C.M. ma di fatto imposta e diffusa dal Ministero dell’Interno a partire dalla Direttiva ai Prefetti dell’8 marzo 2020, n. 14606, e successive note integrative ai Questori che hanno anche mutato il contenuto dell’atto33, in forza dei poteri di controllo affidati al Prefetto, ex art. 3, c. 5, d.l. 6/2020, e successivamente dall’art. 4, c. 9, d.l. 19/2020. S’impone quindi all’interessato l’onere d’attestare per iscritto la sussistenza delle situazioni che consentono la possibilità di spostamento sotto minaccia di reato contro la fede pubblica in caso di mendacio. La sua previsione appare tanto discutibile e sciatta in punto normativo, laddove avvenuta con mero atto d’amministrazione interna del dicastero competente all’ordine pubblico palesemente incapace di produrre effetti esterni nei confronti dei privati, quanto indecorosa in punto di sfiducia sociale. Inoltre è lo specchio assoluto della perenne burocratizzazione di stampo cartaceo che connota il nostro Paese a fronte di una cultura carsica del sospetto nei confronti del cittadino italiano, potenziale indisciplinato se non reo, e dunque da assoggettare a dichiarazione scritta. L’obbligo autodichiarativo reca poi con sé un evidente e pregnante controllo poliziesco non già solo del territorio ma financo dei minimi spostamenti delle persone, per l’effetto Direttiva del Ministro dell’Interno, 8 marzo 2020, n. 14606, diretta ai Prefetti, in cui si precisa che onere giustificativo dello spostamento «potrà essere assolto producendo un’autodichiarazione ai sensi degli artt. 46 e 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, che potrà essere resa anche seduta stante attraverso la compilazione dei moduli appositamente predisposti in dotazione agli operatori delle Forze di polizia e della Forza pubblica». 33 17 assoggettate, durante la cd. fase 1 della pandemia, a sistematiche verifiche per ogni limitato transito – si badi anche se il medesimo non costituiva in alcun modo un rischio per la diffusione del contagio, es. il pescatore o il runner solitario. Indi gli inevitabili eccessi da parte delle stesse forze dell’ordine non di rado trascese in sanzioni ingiustificate poi magari oggetto d’annullamento in autotutela da parte del Prefetto competente. Tutto ciò la dice lunga di come è stato impostato lo stesso controllo del territorio e delle persone ai tempi pandemici del COVID-19 in Italia, in violazione peraltro del principio di ragionevolezza e di bilanciamento del rischio evidentemente disomogeneo tra regioni nonché tra maggiori e minori centri ovvero in relazione alla densità abitativa. Del resto basti un mero dato in chiave comparata europea, laddove lo stesso obbligo autodichiarativo s’annovera, a parte il caso italiano, solo in Francia, Grecia nonché nella regione iberica autonoma della Catalogna. Alcun altro Paese ha previsto che ogni spostamento dei cittadini debba essere oggetto di apposita dichiarazione scritta – peraltro neppure anche online, come previsto in Francia, ovvero anche telefonica in Grecia con sistema d’invio di messaggio di testo ad un portale nazionale – del cui contenuto l’interessato è tenuto a provare la verità salva ipotesi penale quale individuata nel reato di falso ideologico del privato in atto pubblico, ex artt. 483, c.p. e 76, d.P.R. 445/2000. Resta peraltro dubbio, e non solo con riguardo ai primi diciotto giorni di lockdown nazionale, che possa configurarsi il predetto reato in caso di mendace dichiarazione laddove difetta un adeguato presupposto legislativo ai vari d.P.C.M. succeduti, di talché l’inidoneità dell’atto a radicare l’obbligo giuridico di provare la verità del contenuto. Manca infatti radicalmente una norma giuridica di rango primario o secondario che obblighi il privato a dichiarare il vero nella dichiarazione sostitutiva circa lo spostamento effettuato, ricollegando specifici effetti dell’atto-documento (le relazioni di servizio, i verbali riportanti gli esiti dell’attività svolta, etc.), nel quale la dichiarazione sarebbe inserita ovvero trasfusa dal pubblico ufficiale ricevente34. Il giudice penale ben potrebbe quindi dubitare della legittimità dei provvedimenti amministrativi marzolini adottati con tali d.P.C.M., ma anche dei successivi sempre difettando la previsione per via legislativa ovvero atto amministrativo generale (fondato su norma di legge, ex art. 23, Cost.), la cui inosservanza si contesta all’imputato e, di conseguenza, disapplicarli e pronunciare un’assoluzione perché il fatto non sussiste. D’altro canto, nei giudizi penali che saranno incardinati, non difetterà sine dubio l’eccezione di legittimità costituzionale con riferimento al d.l. 6/2020, convertito in l. 13/2020, per il periodo di sua vigenza sino all’abrogazione da parte del d.l. 19/2020, ovvero per i d.l successivi, nella parte in cui s’apre la via a provvedimenti amministrativi restrittivi di diritti costituzionali in assenza di congrui e predeterminati parametri. 34 Ex plurimis: Cass. pen., Sez. V, 24 maggio 2017, n. 25927; Cass. pen., Sez. V, 12 agosto 2008, n. 33382; Cass. pen., S.U., 31 maggio 1999, n. 6. 18 Concludono il tanto desolante quanto claudicante quadro dichiaratorio orchestrato due ulteriori deprecabili elementi. Il primo è costituito dal fatto che l’autodichiarazione contiene un espresso riferimento alla negatività virale da COVID19, in assenza di alcuna diagnostica intervenuta, di talché l’interessato dichiara un fatto personale di cui non ha contezza assoluta. Il secondo è l’espresso riferimento in modulistica all’art. 495, c.p., delitto integrabile solo per false attestazioni a pubblico ufficiale aventi a oggetto l’identità, lo stato o altre qualità della persona, ipotesi del tutto remota nel caso delle autodichiarazioni per l’emergenza COVID-19. Infatti, posto che le dichiarazioni raccolte nel modulo di autocertificazione assumono un mero valore di verbalizzazione scritta dell’interessato delle dichiarazioni rese al pubblico ufficiale circa le ragioni dello spostamento, appare pacifico che solo nell’ipotetico caso di dichiarata falsa identità, stato civile, professione, dignità, grado accademico, ufficio pubblico ricoperto ovvero precedente condanna e similari35, potrà ravvisarsi il suddetto reato ma non certo per la quasi totalità delle concrete possibili ragioni addotte dal soggetto per giustificare la circolazione sulla pubblica via. Se tale evocata ipotesi di reato potrebbe ritenersi configurabile in caso di dichiarazione relativa ad esigenze lavorative connesse allo svolgimento di una determinata professione in realtà non svolta dall’interessato, per cui la falsità si trasla dalle ragioni dello spostamento al suo presupposto, per certo non potrà invece considerarsi una qualità personale lo stato di salute dell’interessato o di terzi ovvero altre addotte ragioni di assoluta urgenza36. Del resto, più correttamente avrebbe potuto farsi riferimento al meno grave reato di cui all’art. 496 c.p. che persegue le mere false dichiarazioni rese a pubblico ufficiale ma senza alcuna attinenza con la formazione di un atto pubblico37, il cui concetto penalistico è ben più ampio di quello del diritto civile38, ma tale richiamo è del tutto assente nella modulistica imposta dal dicastero dell’Interno. Indi, tale riferimento codicistico appare piuttosto essere stato furbescamente (sic!) inserito nella modulistica dai vertici del dicastero dell’Interno in quanto reato più grave del falso ideologico del privato in atto pubblico, ex art. 483 c.p., e che dunque consente l’arresto in flagranza di reato. L’apparente refuso in tempo di pandemia ed i riferimenti disinvolti alla dichiarazione sostitutiva inseriti nell’inopinata Direttiva ministeriale nascondono quindi un autentico artifizio formale in chiave deterrente e repressiva calpestando norme penali e logica della vita reale. Last but not least, l’ipotesi del reato di falso in sede autodichiarativa, qualunque esso sia, appare preclusa in forza del principio nemo tenetur se detegere (ovvero nemo tenetur se ipsum accusare) che trae origine dal V Emendamento alla Costituzione USA, operante in ragione del particolare momento in cui la dichiarazione mendace è realizzata e per il fine d’evitare 35 Cass. pen., Sez. V, 8 maggio 2019, n. 19695. Cfr. M. GRIMALDI, Covid-19: la tutela penale dal contagio, in «Giurisprudenza penale», 2020, 4, 27. 37 Cass. pen., Sez. V, 18 febbraio 2015, n. 7286; Sez. IV, 11 maggio 2009, n. 19963; Sez. V, 17 dicembre 1997, n. 11808. 38 Ex multis, Cass. pen., Sez. v, 24 gennaio 2019, n. 3542. 36 19 una contestazione da parte del pubblico ufficiale. Ergo, per come strutturata l’architettura punitiva, i delitti di falso a fini antipandemici in sede autodichiarativa sono dunque tutti pacificamente posti “fuori gioco”. Si tratta perciò d’autentico inutile e vessatorio fardello imposto al cittadino, frutto della radicata cultura burocratica inquisitoria italiana di stampo francese nonché d’arruffati coacervi normativi di rango amministrativo interno che, a loro volta, attestano due dati, tanto significativi, quanto ulteriormente detestabili. Da un lato, la chiara manifestazione di sfiducia verso il cittadino italiano assoggettato a dichiarazione formale scritta per uscire sulla pubblica via, reso edotto di una sanzione penale priva di adeguato fondamento normativo e di fattuale requisito oggettivo del reato. Dall’altro lato la bieca volontà d’attivare una capillare e massiva azione di controllo del territorio e, soprattutto, delle persone, sussumendo che qualsivoglia minimo spostamento anche individuale sia necessariamente veicolo di contagio e dunque ingiustificato e debba per l’effetto essere oggetto di dichiarazione facente fede sino a denuncia penale laddove sia smentita. La cultura burocratico-repressiva italiana non s’è dunque in alcun modo smentita in tempo di COVID-19 e questo la dice lunga di quanto la stessa classe politica italiana nutra affidamento nei cittadini nel XXI secolo, ritenendo dunque che mere raccomandazioni ovvero ipotesi sanzionatorie subordinate a patenti, plateali ed accertate violazioni dei divieti d’assembramento ovvero di mancato rispetto del distanziamento sociale non siano in alcun modo sufficienti a contenere la pandemia. I lineamenti intrapsichici connessi alla normativa emergenziale antipandemica italiana confermano quindi un sistematico controllo sociale che non può approvarsi laddove l’impiego delle forze dell’ordine ben poteva forse essere più utilmente impiegato nel sofferente settore sanitario ed annessi, in luogo di lanciare una puntuale strategia di cd. Grande Fratello in salsa sanitaria alla ricerca dell’untore, supposto ingiustificatamente fuori dal domicilio. D’altro canto, i retaggi del controllo del territorio e delle persone che derivano dalla normativa emergenziale antiterroristica degli anni Settanta del secolo scorso persistono per generazioni nei burocrati deputati all’ordine pubblico italiana. A sua volta, la dichiarazione sostitutiva, apparente evoluzione della semplificazione laddove sostituisce certificazioni, ex art. 46, d.P.R. 445/2000, nel caso del contenimento sociale anti-COVID-19 s’è rivelata invece un abile strumento operativo d’ulteriore e parossistico controllo sociale nella veste della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, ex art. 47, d.P.R. cit., peraltro a sua volta neppure ipotizzabile circa i motivi di spostamento, e dunque trasformata in una sorta d’ultroneo ed abnorme affidavit antipandemia. 5. Conclusioni: un’iniziale gestione emergenziale incostituzionale nell’assordante silenzio generalizzato delle istituzioni 20 Non vi è chi non veda la presenza dell’eliminazione dei diritti di circolazione, associazione, riunione, lavoro e d’iniziativa economica, che vengono non soltanto compressi, con la previsione della necessità di munirsi di una sorta d’apposito lasciapassare scritto ovvero dichiarazione sostitutiva da esibire alle solerti forze dell’ordine, in funzione della salvaguardia della sanità pubblica. Ne vale obiettare che tali limiti di circolazione ovvero d’attività economica sarebbero resi più pregnanti dalla responsabilità dello Stato italiano nei confronti della comunità internazionale per il timore di ulteriore diffusione estera del contagio. Appare dunque pacificamente incostituzionale ed in assoluta violazione al principio della riserva di legge in punto di diritto di circolazione l’aver proceduto a mezzo mero decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri onde imporre limitazioni alla libertà di circolazione di tal fatta, vieppiù nella claudicante generica modalità descritta inizialmente dal d.l. 6/2020. Una fonte legislativa contenente un mero rinvio generico a successivo atto amministrativo che si configura per l’effetto doppiamente lesivo di varie libertà costituzionali nonché della gerarchia delle fonti. Diversamente dovremmo pensare ad un’evoluzione (ma sarebbe meglio dire involuzione) dei poteri del Presidente del Consiglio verso quelli del Capo di Stato russo laddove la relativa Carta ammette decreti presidenziali (ukaz) aventi forza di legge che, peraltro, non possono modificare leggi già esistenti e decadono qualora sia approvata una legge del Parlamento (Duma) che disciplina il medesimo oggetto. La redazione e pubblicazione dei quattro discutibili d.P.C.M. seriali dell’8, 9, 11 e 22 marzo 2020 appare dunque un pacifico reiterato abuso in sfregio alla rigida gerarchia delle fonti che imponeva il ricorso alla decretazione d’urgenza sotto riserva di conversione parlamentare onde limitare il diritto di circolazione ed annessi per i soggetti residenti e dimoranti nel Paese. Del resto non si vede come un tale atto avrebbe potuto reggere avanti al T.A.R. Lazio laddove non si trattava certo d’istituire una mera zona a traffico limitato. Infatti, é ampiamente noto che limitazioni alla libertà di circolazione e di iniziativa economica a mezzo ordinanze sindacali sono del tutto giustificabili39 allorquando scaturiscono dall’esigenza di tutela del patrimonio culturale ed ambientale dell’area, cui la Costituzione riconosce valore primario40. 39 Cons. Stato, sez. V, 13 novembre 2015, n. 5191; Cons. Stato, sez. V, 7 novembre 2012, n. 4386; ord. Cons. Stato, sez. V, 25 luglio 2012, n. 2898; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 13 giugno 2013, n. 1546; ord. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 28 marzo 2013, n. 802; ord. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 13 dicembre 2012, n. 1720; ord. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 8 ottobre 2012, n. 1402; ord. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 30 aprile 2012, n. 606; Cons. Stato, sez. V, 3 febbraio 2009, n. 596. 40 Cfr. M. CALABRÒ, Istituzione di una zona a traffico limitato e profili di criticità connessi alla previsione di limitazioni alla libertà di circolazione stradale, in «Il Foro Amministrativo C.d.S.», 2009, 7-8, 1754-1778 e S. AMOROSINO, Le limitazioni amministrative alla circolazione: profili critici, in «Il Foro amministrativo T.A.R.», 2003, 11, 3403-3411. 21 Limitare la libertà di locomozione per mezzo di un atto amministrativo, vieppiù privo di adeguato fondamento legislativo che ne tratti oggetti, principi e limiti, pur nell’assoluta buona fede istituzionale (ma forse sarebbe più opportuno evocare il pressapochismo e l’approssimazione), appare alla stregua di sinistri regimi autoritari ovvero di Presidenti di Paesi con tradizioni democratico-culturali ben diversi dalla nostra, a nulla valendo che il mezzo valga il fine dell’emergenza sanitaria in corso. L’aver evitato la decretazione d’urgenza (rectius, averla inizialmente utilizzata inserendovi generici presupposti per successivi atti amministrativi), pur così abusata nei decenni scorsi, grida ora vendetta ed accettare che un Presidente del Consiglio con “miseri” propri decreti abbia imposto vincoli alla libera circolazione dei cittadini. Per quasi tre settimane é stato quindi perpetrato un chiaro abuso di poteri di cui non soltanto il medesimo s’assume la responsabilità politica ma anche quella giuridica per l’aver defraudato il Parlamento della titolarità a sanzionare tali limitazioni in tutto il Paese. A ben vedere appare ancora una volta l’incapacità ed irresponsabilità gestionale delle istituzioni governative italiane. A fronte di crisi emergenziali si forniscono risposte con mezzi e fonti spesso inadeguati se non del tutto incostituzionali come ampiamente nel caso di specie. I motivi per cui tali limitazioni non sono state adottate a mezzo decretazione d’urgenza – ovvero senza un robusto fondamento legislativo insito nella stessa – non sono stati chiariti e forse mai lo saranno, nel silenzio generalizzato delle opposizioni, della stampa e, soprattutto, del Parlamento in sé ridotto ad un feticcio a mezzo servizio nella psicosi virus. Eppure assicurare la continuità della funzione legislativa è un dovere morale e giuridico per i parlamentari ma troppo forte era evidentemente il timore del contagio e ben venga dunque la supplenza governativa (sic!) a fronte di un mero indeterminato rinvio legislativo, ex art. 2, d.l. 6/2020. Tuttavia, di fatto, e a ben vedere, il rischio maggiore é quello di aver creato un precedente con tali discutibili (e pure raffazzonati nei contenuti) provvedimenti governativi extra ordinem, sanzionando poteri emergenziali a mezzo di meri atti amministrativi del Presidente del Consiglio in sfregio alle regole costituzionali su vari diritti stante l’ineluttabile riserva di legge in materia. L’emergenza COVID-19, nella sua spirale perversa, appare aver recato con sé una sorta di “russificazione” dei poteri della figura del Presidente del Consiglio che in realtà non giova ad alcuno. Certifica l’incapacità gestionale dell’emergenza, la sua sottovalutazione, la subordinazione della medesima agli interessi delle lobbies corporative economiche, l’impreparazione del sistema sanitario giunto “nudo” avanti alla pandemia. Salvo dover ritenere fondata la nostra Repubblica sul tradimento e sull’immoralità per mezzo del vertice governativo che sovverte la gerarchia delle fonti, l’emergenza ha annullato per quasi ben tre settimane – dall’8 al 25 marzo 2020 – il principio della riserva di legge per le imposte limitazioni dei diritti e derubricato il Parlamento a mero osservatore. Ad onta della necessità di avere una cd. democrazia decidente in presenza di momenti di crisi del sistema, la superficialità con cui l’esecutivo ha affrontato 22 l’emergenza dal punto normativo sostanziale circa il rispetto delle fonti del diritto appare evidentemente lesiva della stessa reputazione giuridica dei soggetti che hanno sottoscritto tali norme. Non sono sufficienti maldestri appelli mediatici alla Nazione e far leva su un’emergenza (intern)nazionale per giustificare il ricorso a misure draconiane a mezzo di meri provvedimenti del Presidente del Consiglio fondati su blando e generico disposto legislativo. Ma del resto, e a ben vedere, la disastrosa situazione italiana non è che il mero frutto della mancata preparazione iniziale all’ineludibile arrivo dell’epidemia a partire dalle sopracitate fuorvianti e contraddittorie linee guida varate dal dicastero della Salute. I burocrati che le hanno redatte restano ma i politici, privi di background sanitario alcuno, che le hanno sottoscritte passano. Il ricorso a provvedimenti discutibili in punto di rispetto del sistema delle fonti del diritto non è che un corollario che attesta le deficienze iniziali. Vieppiù esso certifica anche l’ignavia parlamentare che con un mero generico rinvio ad indefinite norme collocate in un comma di decreto legge (peraltro convertito quasi all’unanimità)41 ha rimesso tutta la responsabilità all’esecutivo forse anche per deprecabili calcoli politici. La successiva deficienza redazionale ha quindi fatto il resto anche in punto di ferree e stringenti regole tese a contrastare la virulenza epidemica in uno con il peculiare e malcelato controllo sistematico del territorio e delle persone che, presupponendo il tanto stereotipato mancato senso civico italiano, ha tratto ampio “giovamento” dall’imporre un’autodichiarazione sostitutiva sotto pena di sanzione penale in caso di mendacio. In verità la coscienza civica s’è rivelata congrua stante gli inoppugnabili dati delle minimali sanzioni in rapporto al florilegio esponenziale (e chiaramente tanto ingiustificato quanto invasivo) di verifiche eseguite42: gli italiani si sono dimostrati un popolo ampiamente disciplinato e rispettoso ad onta dello stretto controllo inquisitorio e dell’iniziale lesione dei diritti costituzionale senza solida base legislativa. 41 Il d.l. 6/2020 è stato convertito in legge alla Camera con 462 voti favorevoli e 2 contrari mentre al Senato con 234 voti favorevoli, nessuno contrario e 5 astensioni. 42 Dall’11 marzo al 24 aprile 2020 sono state controllate dalle forze dell’ordine ben 10.344.667 persone pari a circa 1/10 degli abitanti, con solo il 3,6% di soggetti sanzionati. Fonte: Ministero dell’Interno, 25 aprile 2020. 23