Dialoghi Mediterranei
Periodico bimestrale dell'Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo
Viaggio a Pontito. Cronaca di una passeggiata
nel paese di pietra
Pontito (ph. Fresta)
di Mariano Fresta
È una giornata di gennaio, fredda e luminosa: la terra ha il suo vestito invernale, cangiante dal
grigio al marrone, e gli alberi protendono al cielo i rami spogli. Percorro una strada in salita, con
molte curve e molte buche che non mi fanno guardare il fondo valle là dove scorre pigramente la
Pescia, ancora non ingrossata dalle piogge.
Sto andando a Pontito [1], un paesino di montagna di cui ho sentito parlare solo da poco, come di
un luogo semi abbandonato. Soprattutto è stata la lettura di un articolo di Paolo De Simonis,
apparso su un numero della rivista Testimonianze, dedicato ai piccoli paesi in pericolo di estinzione,
a far nascere in me un vivo desiderio di andarlo a visitare [2]. De Simonis si è soffermato in modo
particolare su due personaggi, nati a Pontito e che hanno dato un certo lustro al paese, uno alla fine
del 1700 e l’altro nel ventesimo secolo. Il primo, Lazzaro Papi (1763-1834), fu chirurgo, poi
militare, col grado di ufficiale, nell’esercito inglese che operava in India; infine, tornato in patria,
letterato, drammaturgo e buon traduttore del Paradiso perduto di J. Milton.
Il secondo, Franco Magnani, nato nel 1934 e costretto nel 1946 ad emigrare, diventa cuoco a San
Francisco, ma per il troppo lavoro si ammala di una grave depressione, per curare la quale deve
interrompere per lungo tempo la sua attività. In questo periodo di malattia, si mette a dipingere
paesaggi; non trae, però, la sua ispirazione dalla realtà, perché sulla tela riporta i paesaggi di
Pontito, che sono rimasti impressi nella sua memoria e che riempiono i suoi sogni.
Ricordo del figlio illustre (ph. Fresta)
La sua è una pittura pignolescamente realistica e insieme visionaria, perché la rappresentazione del
paese è condotta fino nei minimi particolari, ma, quando sul finire del secolo scorso torna in Italia,
si avvede che tra la realtà, da una parte, e, dall’altra, le case, gli scorci delle strade e dei vicoli
rappresentati nelle sue tele, ispirati dal sogno e dalla nostalgia, c’è una profonda differenza: anche
se i luoghi da lui dipinti combaciano in buona parte con quelli reali, manca qualcosa, manca la vita
che nel frattempo ha abbandonato il paese [3].
Così, mentre guido evitando le buche e affrontando con prudenza le curve insidiose della strada
stretta, cerco di immaginare com’è il villaggio di Pontito oggi, rispetto al paese conosciuto
attraverso alcuni dipinti di Magnani visti su Internet. Sempre su Internet ho letto pure che
attualmente gli abitanti del paese sono una cinquantina e che, inoltre, vi hanno preso dimora una
trentina di albanesi che svolgono il lavoro di boscaioli. Vi sono poi altre notizie riguardanti gli
aspetti socio-economici e ci sono perfino delle pagine sul folklore in cui si riportano novelle e canti
raccolti presso gli anziani pontitesi.
Scorci di Pontito nelle opere di Magnani
La strada s’inerpica in mezzo ad un paesaggio brullo e povero, non solo per la veste invernale di
boschi e prati, ma anche per la totale mancanza di presenze umane; viaggio, infatti, in una completa
solitudine, non si incontra nessun autoveicolo né si vedono persone. Ogni tanto affiora qualche
edificio isolato, all’apparenza disabitato, ma non si individuano paesi. Si ha la sensazione di un
territorio abbandonato da tutti. Segni di singoli insediamenti si intravedono soltanto nel fondo valle,
accanto al fiume. Eppure, fino a qualche decennio fa questo territorio ospitava attività agricole ed
industriali che, insieme col paesaggio, l’avevano fatto ribattezzare, non si sa da chi, la “Svizzera
pesciatina”. Ora sembra che anche l’attività agricola sia stata abbandonata, mentre sono pochissimi
i segni di quella industriale.
Mulini e cartiere (ph. Fresta)
La Valleriana, altro nome del territorio, era nota per i suoi mulini e soprattutto per le cartiere che
sfruttavano la corrente e l’acqua del fiume; adesso, da quello che si può vedere ogni volta che la
strada permette di allungare lo sguardo fin laggiù, anche le rive del fiume appaiono deserte: nei
piazzali antistanti gli edifici dei vecchi mulini e delle cartiere non ci sono né persone, né veicoli,
non c‘è nessun movimento che indichi una qualsiasi attività lavorativa. Solo il fumo emesso da un
paio di ciminiere testimonia che qualche processo produttivo non può essere interrotto nemmeno di
domenica. Probabilmente si tratta di un’industria particolare che conviene tenere in attività anche
nei giorni festivi, come quella tradizionale della valle che produce carta filigranata utilizzata per la
stampa della cartamoneta e per altre carte di pregio.
A Pontito, come spiegano le guide, si può arrivare per tre percorsi diversi; io non riesco a capire
quale di questi percorsi abbia seguito, so solo che ora, a fine corsa, mi trovo nel luogo più alto del
paese. Dopo essere passato davanti ad una fontana con due getti d’acqua e una vasca di raccolta,
parcheggio in uno spiazzo lì vicino e scendo dall’auto.
Il Pillone, fontana pubblica (ph. Fresta)
Malgrado la mancanza di sete e la sensazione di gelo che emana dagli zampilli, bevo un sorso
dell’acqua della fontana, quasi come un battesimo purificatorio prima di entrare nel paese, o come
per assaporare l’atmosfera del borgo, cominciando proprio con quell’acqua che per secoli hanno
bevuto i paesani. La fontana, come avrei saputo dopo, è chiamata a Pontito “il Pillone” ed è
costruita in pietra, al pari di tutto il villaggio.
Ma, a proposito, dov’è il paese? Davanti a me, infatti, oltre la struttura del Pillone, e sulla mia
sinistra c’è una fitta muraglia vegetale che mi nasconde tutto il paesaggio; sulla mia destra, invece,
l’occhio spazia su ondulate colline boscose tra cui, nella caligine del mattino, spicca un borgo dai
tetti rossi. Dev’essere Stiappa.
Chiesa santi Lucia e Andrea (ph. Fresta)
Percorsi una cinquantina di metri di strada sterrata, ecco che appare, improvvisamente, la chiesa.
La pietra con cui è stata eretta è grigia, ma in questa mattinata di luce diffusa il colore tenue della
facciata si confonde quasi con lo sfondo del cielo. Risaltano, perché di colore marrone, il portone
massiccio e la grande croce lignea fissata alla sua sinistra. Accanto alla chiesa s’innalza la torre
campanaria, un tempo torre di avvistamento e ultima difesa del borgo. La chiesa non è aperta, si
apre solo in particolari occasioni festive, spiega un cartello esposto lì accanto.
Dopo aver ammirato questo secolare monumento mi avvio entrando sotto l’arco che sostiene il
campanile. Accanto c’è una piazzetta dedicata al concittadino Lazzaro Papi, dalla quale si dipartono
le strade che vanno verso la parte inferiore del borgo. Le strade scendono a precipizio: per rallentare
la corsa delle acque piovane e per frenare l’andatura dei viandanti, ad ogni metro circa c’è un
cordolo, un rialzo che attutisce la pendenza della discesa. Ai lati, un corrimano in ferro porge il suo
appoggio ai pedoni che salgono o scendono, specie nel periodo della neve.
Panoramica
Dopo qualche centinaio di metri percorsi nel borgo, mi rendo conto che tutte le strade, ripidissime,
partono dalla parte bassa dell’abitato e convergono tutte verso un unico punto accanto alla chiesa, in
modo che da lontano Pontito appaia come un enorme triangolo o un ventaglio, con il campanile a
segnarne il vertice.
Chissà quanta gente ha percorso queste viuzze, le ha riempite di voci, di saluti, di richiami, di risate
e di pianti. Oggi, invece, tutto è silenzio, c’è un’atmosfera triste che mi richiama alla memoria due
versi di Giuseppe Gioachino Belli:
Dappertutto un zilenzio come un ojjo
che si strilli non cc’è chi t’arisponna.
Questo silenzio, tuttavia, non è come quello dello squallido e disabitato Agro romano cantato dal
Belli, perché esso è in contrasto e stride con la pulizia delle strade, con i vasi dei fiori ben ordinati ai
lati delle abitazioni e negli angoli dei vicoli, con i pomelli metallici dei portoni ben lucidati, tutti
elementi che invece rimandano ad una vita quotidiana piuttosto intensa. Non credo che si tratti di un
paese di favola, dove non ci sono essere umani ma gnomi, folletti e fate che tengono pulite le strade,
coltivano piante e fiori e lucidano le maniglie delle porte. Ci devono essere delle persone che
eseguono questi lavori, pur se adesso non si fanno vedere.
Strade pulite e vasi da fiore (ph. Fresta)
Continuo a scendere piano piano per una delle ripide vie, incrociando strade che la intersecano
orizzontalmente; mi soffermo a guardare le pietre tagliate regolarmente, poste una sull’altra a
innalzare case e muri, a dare senso a questo materiale grigio ed opaco. Le pietre, ben squadrate sono
accostate e sovrapposte in maniera rigorosa, quasi maniacale: con la stessa maniacale attenzione che
è possibile vedere nelle tele di Magnani.
Anche nel percorrere queste vie trasversali non si incontrano persone; tutte le abitazioni sono
chiuse, non fanno capire se sono vuote o ancora vissute, qualche portoncino mostra la sua vecchiaia,
in una casa al secondo piano ci deve stare qualcuno, perché sulle scale c’è un gatto che non sembra
randagio e le ortensie sono ben tenute e floride. Su un tetto s’innalza un’antenna parabolica:
qualcuno che ha voglia di tenersi in contatto col mondo lontano.
Piante ornamentali e antenne televisive (ph. Fresta)
In un’altra strada, con l’asta infissa nel muro di un edificio, sventola il tricolore italiano; mi
avvicino all’edificio per vedere se si tratta di sede di un’ istituzione pubblica, ma tutto è anonimo.
Comunque anche la bandiera mi dà temi di riflessione: qui si sentono italiani, espongono l’emblema
della Nazione, ma lo Stato si è mai visto qui? Ha assolto i suoi compiti? Cosa ha fatto per impedire
che Pontito ed altre centinaia di abitati sulle montagne fossero costretti ad essere abbandonati? Non
era possibile rallentare e correggere in qualche modo il processo di sviluppo economico che ha
investito l’Italia dalla fine dell’Ottocento in poi?
Guardo l’orologio, si è fatto tardi, occorre tornare al posteggio. Il tempo è passato senza farsene
accorgere, non c’è stato nemmeno un rintocco dell’orologio della chiesa, dev’essere fermo. Ma
d’altra parte, a che servirebbe segnalare le ore che passano? Qui il tempo scorre senza balzi e senza
intoppi, in maniera silenziosa e quietamente fluida.
Se c’è il gatto ci sarà una famiglia (ph. Fresta)
Ritornato al luogo dove ho lasciato la macchina, mi accorgo che ci sono da visitare ancora due
luoghi. Il primo è il monumento ai caduti di tutte le guerre: non si trova, come altrove, al centro di
una piazza o addossato a qualche edificio, è invece uno spazio coperto e difeso da alberi ombrosi ed
ha un’atmosfera che ricorda un luogo sacro, come quello di una cripta di una chiesa romanica. Alla
poca luce che il sole riesce a far penetrare, si scopre che ha una sorprendente struttura: esso non è
una stele aerea di quelle che con enfasi inneggiano al valore dei soldati caduti per difendere la
patria; qui il monumento è disteso a terra, è una doppia cornice circolare di pietra grigia e di
mattoni, in cui è iscritta una stella a cinque punte. La lapide con i nomi dei morti è attaccata nella
parete dirimpetto, quasi nascosta dalle fronde dei cipressi.
Monumento ai Caduti (ph. Fresta)
Poco distante è il piccolo cimitero. Dalla pietra grigia con cui è stato costruito il paese qui si passa
all’esplosione multicolore dei fiori che, malgrado la stagione, con il loro pieno vigore ornano le
tombe. È forse il cimitero il luogo più ameno di Pontito: se per le strade del borgo regna un silenzio
che invita ad una meditazione sul destino misero dell’uomo e delle sue opere, qui, in questa parte
del paese, sulla quale il sole splende pienamente e fa quasi rilucere le pietre tombali e dà vita ai fiori
e alle piante, proprio qui si vedono la forza e la voglia che spingono gli uomini a vivere e a lasciare
memoria di sé e delle loro azioni.
Ed è nel cimitero che incontro l’unica persona che mi è stata data di vedere a Pontito. È un signore
quasi novantenne, ma ancora agile e vivace, che è venuto da Pistoia a far visita alla moglie morta da
tempo e ai suoi genitori e agli amici. Mi dice che sarà ospitato a pranzo da una sua nipote che abita
ancora a Pontito e che certamente sarà una di quelle signore invisibili che curano i vasi di fiori
accanto agli usci delle dimore.
Panni stesi, qualcuno abita qui (ph. Fresta)
I paesi disabitati sono generalmente chiamati ghost town, paesi fantasma; la loro caratteristica è
quella di non essere più abitabili: le case private e gli edifici pubblici sono senza tetto, i muri caduti
o pericolanti, le strade ingombre di macerie; e soprattutto per lunghi anni nessuno vi ha più vissuto.
Causa di questo sfacelo e dell’abbandono degli abitanti è stato un qualche terremoto, oppure una
gigantesca frana, o qualche altra catastrofe che ha distrutto tutto quanto era stato costruito
dall’uomo in secoli di lavoro. A Pontito, invece, tutto è perfetto, difficile trovare muri pericolanti, al
massimo c’è qualche porta consunta per vecchiaia. E le strade sono pulite, nemmeno una cicca di
sigaretta, un pezzettino di carta… Pontito è un ossimoro: vive ed è morto.
Cimitero (ph. Fresta)
Sacks racconta che Magnani provò una grande delusione nel vedere il suo paese natìo dopo che ne
era stato lontano per un quarantennio; e fu tale il dispiacere da fargli desiderare di non tornarci più.
La delusione di Magnani è comprensibile, perché nelle sue tele soltanto apparentemente si vedono
le case, le strade, la campagna nella loro fisicità e materialità; in effetti egli voleva dipingere
l’atmosfera paesana che aveva conosciuto nella sua fanciullezza e, per non rischiare di perderne
anche una minima parte, nelle sue tele la realtà è rappresentata in modo estremamente preciso, con
una ricerca quasi maniacale del dettaglio. L’oggetto della pittura del Magnani non erano i blocchi di
pietra grigia con cui i pontitesi avevano costruito i loro vicoli e i loro edifici, bensì il “vissuto” della
sua adolescenza che quelle pietre rievocavano nel suo subconscio.
Stranamente nei suoi quadri non compaiono persone: se in essi si vuole trovare la “vita”, bisogna
cercarla dentro gli oggetti dipinti, invisibile a chi guarda, ma ben presente nella mente di Magnani.
Forse si può dire che la vita degli abitanti di Pontito (il lavoro, i rapporti sociali e quelli umani, il
linguaggio, le ore passate nelle veglie invernali e le chiacchiere scambiate davanti alle case nei mesi
estivi, i giochi dei ragazzi, i matrimoni e i funerali, il senso di appartenenza al paese, ecc.) si è
trasferita e materializzata nel grigio della pietra che domina nella realtà come pure nella pittura di
Magnani.
Oggi ricorrono spesso le espressioni di “beni” e di “patrimoni immateriali”. Ecco, un paese
abbandonato dai suoi abitanti, tristemente vuoto di vita reale, continua a vivere grazie
all’immaterialità del suo vissuto, continua a vivere nella memoria di coloro che sono rimasti e nella
sensibilità di chi va a visitarlo; e quindi, come dice Vito Teti, non muore mai [4].
Torre medievale, oggi campanile (ph. Fresta)
Dopo le sciagure naturali, i governanti talora suggeriscono alle popolazioni di trasmigrare altrove,
di ricostruire l’abitato a qualche km di distanza. La stragrande maggioranza della gente in genere
rifiuta il suggerimento, perché sa in fondo che la perdita dei beni materiali è recuperabile mentre si
perde per sempre quel collante invisibile, misterioso che fa sì che un paese sia un paese. Come
dimostrano i centri abitati costruiti ex novo a poca distanza da quelli antichi, che hanno scuole,
municipio, chiese, servizi pubblici, farmacie e ospedali, ma che faticano a trovare un’identità, una
propria personalità.
Che fare di un paese come Pontito? Difficile, forse impossibile dare una risposta realistica. Oggi si
pensa al turismo, ma neanche il turismo riuscirebbe a rivitalizzarlo. Turismo, infatti, significa
visitatori, comitive di persone che girano per il borgo. Non è facile tuttavia raggiungere Pontito,
perché è piuttosto lontano dalle grandi città e la strada da percorrere non è agevole. E poi, non offre
richiami allettanti; certo c’è il bel monumento della chiesa che conserva qualche dipinto di un certo
pregio: purtroppo essa raramente è aperta e visitabile. E poi è un monumento da vedere tutto il
paese nel suo insieme, con la sua struttura urbanistica di montagna, tutta in pietra, perfettamente
conservata. Ma non c’è in tutto il paese un bar, né una trattoria; difficile potervisi fermare per più di
due ore. Dopo aver bevuto un altro sorso d’acqua dal Pillone, non resta che risalire sulla macchina e
tornare indietro.
Piazzetta sotto campanile (ph. Fresta)
Pontito viveva quando i suoi bisogni erano pochi e i suoi sogni poveri. Adesso i nostri bisogni sono
cresciuti smisuratamente e i nostri sogni si confondono con le realtà virtuali create dall’elettronica.
Pontito non fa per noi moderni, qui ci si può venire in una specie di pellegrinaggio, solo per vedere
come vivevano i montanari una volta, scattare qualche foto ricordo e assistere per qualche ora alla
lenta ma fiera agonia di una comunità e di un paese.
Non sono richiami per turisti spensierati.
Dialoghi Mediterranei, n. 32, luglio 2018
Note
[1] Pontito è una frazione del comune di Pescia (Pistoia) a 750 metri s.l.m.; si trova in una vallata conosciuta
come la “Svizzera pesciatina” e fa parte dei “dieci castella”, dei dieci borghi, cioè, che la
compongono.
[2] P. De Simonis, Paesi sospesi, in «Testimonianze», L’Italia dei piccoli centri, n. 507-508, 2016: 28-34.
[3] La sua storia ci è stata raccontata dal neurologo O. Sacks in Un antropologo su Marte. Sette racconti
paradossali, Adelphi, Milano 1995: 215 segg.. Il testo di Sacks si può leggere nel sito
www.pontito-spazioinwind.libero.it; in esso si trova anche il racconto di come Magnani si sia
avvicinato alla pittura.
[4] Vito Teti, Il senso dei luoghi. Memoria e vita dei paesi abbandonati, presentazione di P. Matvejević,
Donzelli, Roma 2004 (terza edizione 2014).
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Mariano Fresta, già docente presso il Liceo classico di Montepulciano, ha collaborato con Pietro Clemente,
nella Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in
Toscana, di espressività popolare (canti e proverbi), di alimentazione, di allestimenti museali
(Tepotratos-Monticchiello), di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura
italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Lo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha
pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di
Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità
culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano,
in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi
partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar
maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003. Tutti i suoi lavori si
possono leggere in http//marianofresta.altervista.org.
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