NUOVA SERIE, ANNO I, N. 2
FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO
DI PISTOIA E PESCIA
STAMPATO CON IL CONTRIBUTO DI:
Il fascicolo affronta il periodo storico compreso tra il 1968 e gli anni
Settanta e mira a indagare come quegli anni incisero sulla cultura politica,
sociale e religiosa degli italiani, con effetti visibili ancora oggi sulla società.
Il numero si inserisce quindi nel dibattito storiografico sul tema del “lungo
Sessantotto”, senza dare per scontato che quanto avvenne in Italia negli
anni Settanta possa definirsi una diretta conseguenza delle proteste scoppiate in quell’anno. I contributi mettono in luce il cambiamento, in particolare sociale e culturale, che l’Italia affrontò alla fine degli anni Sessanta
e nel decennio successivo.
LUGLIO – DICEMBRE 2019
LUGLIO – DICEMBRE 2019
EFFETTO SESSANTOTTO
ISBN 978-88-6144-067-8
ISSN 2612-7164
€ 5,00
FARESTORIA
a cura di Francesca Perugi
FARESTORIA
PERIODICO DELL’ISTITUTO STORICO DELLA RESISTENZA
E DELL’ETÀ CONTEMPORANEA IN PROVINCIA DI PISTOIA
Il presente numero è stato stampato
con il contributo della Fondazione CARIPT
Copyright © 2019 by
IstItuto storIco della resIstenza
e dell'età
contemporanea In provIncIa dI pIstoIa
Viale Petrocchi, 159 - Pistoia 51100
Tel 0573 359399
In copertina: Sit-in di protesta all’Università del Michigan, 5 Novembre 1968. Dal sito: https://www.flickr.com/
photos/70251312@N00/8114586603/in/photostream/ (ultima consultazione 5/03/2020).
Il logo dell’Istituto è opera del pittore pistoiese Paolo Tesi e raffigura il monumento equestre a Garibaldi situato
nell’omonima piazza cittadina.
Traduzioni, saggi e articoli editi su Farestoria non esprimono necessariamente il punto di vista della redazione,
impegnando unicamente gli autori dei testi, che vengono pubblicati al fine di arricchire, attraverso l’informazione,
la conoscenza di una memoria storica che Farestoria vuole preservare portandola alla valutazione e alla comprensione critica delle nuove generazioni.
FARESTORIA
Presentazione
roberto barontInI
Introduzione
Francesca perugI
curatrIce
Saggi
gIulIa bassI
Francesca perugI
chIara melacca
marIa elena cantIlena
FIlIppo mazzonI
Contributi
santIna musolIno
Testimonianze
steFano bartolInI
Recensioni
PERIODICO DELL’ISTITUTO STORICO DELLA RESISTENZA
E DELL’ETÀ CONTEMPORANEA IN PROVINCIA DI PISTOIA
NUOVA SERIE, ANNO I, N. 2
LUGLIO – DICEMBRE 2019
EFFETTO SESSANTOTTO
e dell’età
presIdente dell’IstItuto storIco della resIstenza
contemporanea In provIncIa dI pIstoIa
5
Perché parlare ancora del ‘68
7
Servendo il popolo. Il discorso sulla violenza nelle riviste
della sinistra extraparlamentare italiana (1968-1972)
«Se lo Stato stesso ha il volto della violenza». Le ambiguità
del dissenso cattolico di fronte al terrorismo (1968-1978)
Mamma, come si fanno i bambini? La sessualità invisibile
delle figlie (1960-70): una ricerca di storia orale
«Il potere nasce dall’erba e dal fucile». La droga tra consumo
e contestazione nel lungo Sessantotto italiano
La nascita dei Consigli di Circoscrizione a Pistoia
Il movimento femminista e la questione della violenza
politica negli anni Settanta: una riflessione sociologica
9
29
45
61
79
99
Intervista collettiva a Renzo Innocenti, Andrea Ottanelli
e Rossella Dini
107
Chiara Martinelli, Alice Vannucchi
137
ISTITUTO STORICO DELLA RESISTENZA
E DELL’ETÀ CONTEMPORANEA IN PROVINCIA DI PISTOIA
Presidente: Roberto Barontini
Vice presidente: Sonia Soldani, Filippo Mazzoni
Direttore: Matteo Grasso
Viale Petrocchi, 159 - 51100 Pistoia - Tel. 0573 359399
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Farestoria
Rivista semestrale dell’Istituto Storico della Resistenza
e dell’età Contemporanea nella Provincia di Pistoia.
Autorizzazione del Tribunale di Pistoia n. 259 del 16.2.1981.
Redazione: Viale Petrocchi, 159 – 51100 Pistoia. Tel. 0573 359399
E-mail: farestoriaredazione@gmail.com
Direttore responsabile: Tommaso Artioli
Direttore di redazione: Stefano Bartolini
Comitato di redazione:
Roberto Barontini, Francesco Cutolo, Daniela Faralli, Matteo Grasso, Maurizio Lazzari,
Edoardo Lombardi, Chiara Martinelli, Filippo Mazzoni, Francesca Perugi, Alice Vannucchi
Presentazione
dI
roberto barontInI
Presidente
dell’IstItuto
e dell'età
storIco della resIstenza
contemporanea In provIncIa dI pIstoIa
Questo volume prosegue un ciclo di iniziative e di attività promosse dall’Istituto storico
della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia (ISRPT) volte ad analizzare il
1968 e le sue conseguenze, un anno di grandi cambiamenti sotto i punti di vista politici, sociali
e culturali.
A partire dal cinquantesimo anniversario, tanti studi locali e nazionali sono stati avviati
dagli enti di ricerca storica; l’istituto pistoiese vuole, con questo volume, fornire ulteriori stimoli
per una riflessione approfondita sul periodo. È necessario continuare a indagare soprattutto in
ambito comparativo fra le diverse realtà italiane in modo da ricostruire la portata complessiva
del fenomeno. Non solo per l’ambiente accademico, ma soprattutto nell’ottica di una diffusione
di conoscenze nel dibattito pubblico.
Oltre a questo numero di Farestoria, l’ISRPT ha concluso un ciclo comprendente presentazioni di libri e attività didattiche, in particolare il progetto Scenari del XX Secolo giunto
alla ventesima edizione e intitolato “Effetto ’68. Movimenti giovanili, cultura e politica in Italia e nel
mondo”. Il progetto ha coinvolto migliaia di studenti delle scuole secondarie di secondo grado
della Provincia di Pistoia in un percorso che si è districato non solo attraverso le fonti tradizionali, ma anche proponendo una dimensione soggettiva con un approfondimento sul cinema,
sulla fotografia, sui manifesti e sui muri. Gli incontri con gli studenti sono stati preceduti da un
corso di formazione per i docenti, al fine di analizzare il tema in modo approfondito, riservando
uno spazio per metodologie e pratiche per la didattica.
5
Introduzione
Perché parlare ancora del ‘68
dI
Francesca perugI
CuratriCe
Il secondo numero di Farestoria del 2019 affronta, da vari punti di vista, l’effetto che
le proteste del 1968 hanno avuto in Italia. Senza chiedersi se il ‘68 abbia vinto o perso, è innegabile che tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi del decennio successivo la società italiana
abbia vissuto una importante, quanto repentina, trasformazione ed è allo stesso modo incontrovertibile che quanto avvenuto quell’anno abbia concorso a tali cambiamenti.
Negli anni Cinquanta l’Italia si è trasformata da paese rurale a paese industriale. Per
esempio, in Toscana ancora alla fine degli anni Cinquanta del ‘900 la gestione della terra era
basata sul sistema mezzadrile, organizzato sulla spartizione della produzione a metà tra proprietario e mezzadro1. Nonostante le innumerevoli distinzioni tra contadini poveri e ricchi,
sedentari o itineranti, i toscani, come buona parte degli italiani, erano contadini da sempre:
solo dal 1958 infatti il numero di addetti all’industria superò quello dell’agricoltura.
Tra il 1948 e il 1968 in Italia e a Pistoia cambiarono il sistema economico, la vita quotidiana e la mentalità delle persone. Il mondo contadino sparì rapidamente quando i giovani si
traferirono intorno alle piccole e grandi fabbriche della città. Si passò pertanto da una società
rurale a una di operai salariati: se a Pistoia nel 1951 il 50% della popolazione era contadina
nel 1971 questa percentuale era scesa al 172. Inoltre, cambiò radicalmente la vita quotidiana: se
ancora nel 1950 le case delle campagne toscane senza luce elettrica erano il 40% e senza acqua
corrente l’89%, alla fine degli anni ‘60 molte famiglie avevano anche la televisione e una piccola utilitaria per andare in villeggiatura. Nel 1951 quasi la metà degli italiani non aveva alcun
titolo di studio e più di un italiano su dieci era analfabeta; dopo il 1962 divenne obbligatoria la
scuola media unica e dal 1968 furono rese accessibili le università con ogni diploma superiore.
Nonostante il lungo cammino ancora oggi da compiere sulla strada della scolarizzazione in
Italia, è possibile dire che alla fine degli anni ’60, per la prima volta nella storia, gli italiani
sapevano leggere3. Tutto ciò contribuì a trasformare la mentalità delle persone.
1 S. Bartolini, La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione, Settegiorni,
Pistoia 2015, p. 21.
2 Gli studi che hanno analizzato lo sviluppo economico del pistoiese nel secondo dopoguerra sono molti.
Segnaliamo l’ultimo uscito: S. Rosignoli, La provincia di Pistoia negli anni del boom economico italiano, in «Quaderni
di Farestoria», 3, 2018, pp.39-52.
3 M. Galfrè, Tutti a scuola! L’istruzione nell’Italia del Novecento, Carocci, Roma 2017.
7
L’Italia, che alla fine della guerra era una società patriarcale e contadina, dominata dal
conformismo, dove il controllo sociale era garantito da una vigilanza reciproca, dove l’orizzonte geografico era circoscritto ai luoghi raggiungibili a piedi, in soli venti anni divenne un
paese urbanizzato e capace di accettare il divorzio e di equiparare uomo e donna all’interno
delle famiglie4. Se il boom economico trasformò l’economia del paese, il ’68 ne cambiò la
mentalità, la cultura e la società5.
I primi due saggi di questo numero, di Bassi e Perugi, prendono in considerazione la
questione della violenza politica, un fenomeno che ha segnato la storia italiana per tutto il
decennio degli anni Settanta. In particolare, i due saggi analizzano come due soggetti, le riviste della sinistra extraparlamentare nel primo e le riviste del dissenso cattolico nel secondo,
affrontarono o non affrontarono il tema della violenza politica.
I saggi di Melacca e di Cantilena affrontano inoltre la questione dei cambiamenti sociali avvenuti in Italia negli anni Settanta. Il primo racconta, attraverso una serie di interviste,
la liberazione sessuale che molte donne vissero in quegli anni. Il saggio di Cantilena indaga
invece il tema del rapporto tra contestazione e consumi di massa, con un’analisi delle posizioni assunte dai gruppi della contestazione di fronte alla crescita del consumo di sostanze
stupefacenti.
Mazzoni pone l’attenzione sulla realtà pistoiese e ricostruisce come il processo di democratizzazione avviato nel ’68 abbia avuto tra le sue conseguenze politiche la nascita dei
consigli di circoscrizione.
Il contributo di Musolino indaga, con una metodologia sociologica, la questione dei
legami tra movimento femminista e violenza politica.
L’intervista condotta e rielaborata da Bartolini infine dà voce a tre protagonisti della
sinistra del ‘68 pistoiese attraverso tre interviste che mostrano i legami tra i fatti della città e
i grandi sommovimenti internazionali; e raccontano, col giusto distacco, l’impegno politico
di quegli anni.
Penso che studiare e raccontare, ancora, i fatti legati al ‘68 sia importante per mostrare
come l’Italia sia divenuta un paese moderno, da un punto di vista culturale come da un punto di vista economico, in pochissimi anni e da pochissimi decenni. Avere contezza di questo
dato può aiutarci a capire il presente: osservare, con uno sguardo di lungo periodo, i molti
problemi che ancora esistono nella nostra società ci permette infatti di collocarli in una prospettiva più consapevole.
4 In Italia la legge sul divorzio fu approvata nei primi anni ’70. Un referendum cercò di abolirla nel 1974, ma gli
italiani si espressero in favore della legge e il divorzio rimase legale. La riforma del diritto di famiglia, che ha
equiparato il ruolo dell’uomo e della donna all’interno del nucleo familiare, è stata approvata nel 1975.
5 Nel 2018 l’ISRPT ha pubblicato un numero di «Quaderni di Farestoria» interamente dedicato al boom economico
in Italia e a Pistoia, «Quaderni di Farestoria», 3, 2018.
8
Servendo il popolo.
Il discorso sulla violenza nelle riviste della
sinistra extraparlamentare italiana (1968-1972)
dI
gIulIa bassI
Abstract
La ricerca di una legittimazione politica e sociale è qualcosa con cui ogni movimento politico deve prima o poi fare i conti, in special modo quando la retorica avanzata è foriera di un messaggio fortemente eversivo. Questo lavoro intende analizzare il
discorso pubblico di alcuni tra i più importanti movimenti della sinistra extraparlamentare italiana («Avanguardia operaia», «Lotta continua», «Servire il popolo») e il modo
in cui, grazie a peculiari processi di soggettivazione e mobilitazione, tra il 1968 e il 1972
hanno elaborato il portato violento del proprio lessico rivoluzionario.
Giulia Bassi
Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”
Premessa
Ogni movimento politico, persino un’istanza rivoluzionaria, a un certo momento
del suo percorso deve scendere a patti con il bisogno di una conferma sociale e di un
riconoscimento pubblico. La ricerca della legittimazione politica e sociale ha caratterizzato il partito bolscevico nella Russia degli anni Venti del XX secolo, quando, chiusa
la stagione della guerra civile, Lenin dovette fare i conti con il movimento contadino,
dando quella serie di concessioni conosciute come Nuova politica economica (NEP).
La stessa necessità ha caratterizzato il discorso e l’agire politico del Partito comunista
italiano sul finire della guerra e nella fase di transizione dell’Italia verso un regime democratico parlamentare.
Quando poi si tratta di violenza, anche se solo in forma discorsiva, la questione
diviene ancora più complessa e delicata. Il bisogno di una legittimazione pubblica potrebbe spingere il movimento rivoluzionario a mettere in atto alcune strategie. Inizialmente, il gruppo in questione potrebbe procedere presentando l’azione rivoluzionaria
9
entro un quadro retorico e programmatico. È questa la fase della proposta politica; si
pensi, per esempio, al saggio Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale, più noto
come Tesi di aprile, scritto da Lenin nel 1917 e pubblicato sulla «Pravda» del 20 aprile. In
secondo luogo, lo stesso gruppo potrebbe mettere in moto tutta una serie di strategie
narrative volte a legittimare, su di un piano sociale e politico, l’imminente o l’avvenuta
azione dirompente. È questa la fase della strutturazione retorica del discorso; si pensi a
Stato e rivoluzione, saggio scritto dal leader bolscevico tra l’agosto e il settembre del 1917.
Obiettivo di questo lavoro è quello di analizzare tali meccanismi retorici nel discorso rivoluzionario di alcuni tra i più importanti movimenti politici italiani tra la fine
degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del XX secolo, lessico che in parte avevano ereditato proprio dalle esperienze della sinistra tradizionale, nazionale e internazionale. L’attenzione si è concentrata in particolare su tre influenti riviste della sinistra
extraparlamentare: «Avanguardia operaia», «Lotta continua» e «Servire il popolo», rispettivamente espressione dei gruppi politici di Avanguardia operaia e Lotta continua,
omonimi, e dell’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti). Il periodo preso in
esame è quello compreso tra il 1968 e soprattutto il 1969, anno della congiunzione del
movimento studentesco con le rivolte operaie nelle fabbriche, e il 1972. In particolare,
la scelta del 1972 come termine ad quem dipende non solo da ragioni interne alle riviste,
ma anche e soprattutto dall’intenzione di restare entro un periodo in cui le azioni terroristiche non sono ancora tali, moltiplicando attori e fattori in gioco, da mutare ulteriormente il discorso sulla violenza.
Nonostante le tre testate, fattore evidente sin dal titolo, siano rappresentative di
tre diverse sfumature della lotta studentesca e nonostante le palesi differenze ideologiche e propagandistiche, si è assunta l’ipotesi di una comune gestione discorsiva del contenuto violento delle proprie rivendicazioni, volta a normarlo, grazie a peculiari processi di soggettivazione e mobilitazione e all’uso pragmatico di certe categorie, come
“necessità” o “servizio per il popolo”.
Nelle pagine a seguire, dopo una breve introduzione di presentazione delle tre
riviste e dei gruppi di riferimento, si procederà in particolare a dettagliare i rapporti di
necessità che esistono tra un primo e un secondo livello di depotenziamento del portato
violento del discorso. Da una parte, quello costituito dallo stesso lessico rivoluzionario,
forma, inavvertita, di mediazione tramite una prima sovrascrizione narrativa dell’atto violento (fase della proposta politica); dall’altra, quello costituito dall’attenuamento dello stesso lessico rivoluzionario, seconda e ulteriore forma di mediazione politica
(fase della stabilizzazione politica). Infine, si procederà a illustrare le modalità con cui
questi due livelli rimangano operanti in forza del comune “bisogno” di eludere lo scandalo suscitato dalla pura e semplice “protoviolenza”, quel livello spontaneo di violenza
fattuale, non mediato e preverbale, che si è tentato in precedenza di sublimare1.
1 À mon père, Jean-Louis Bassi (1949-2016).
10
Testate e gruppi dell’analisi
La scelta di focalizzare l’analisi su tre testate tra loro dissimili e con degli sviluppi anche cronologicamente diversi è volta a mostrare come, nonostante relative specificità e differenze, i dispositivi discorsivi e le categorie utilizzati siano per molti aspetti
e in qualche modo simili2. È pacifico che in questa sede non possa essere portata avanti
una ricostruzione della formazione e della vita dei tre gruppi in questione, sui quali
esistono già alcune opere di riferimento3. Tuttavia, conviene comunque introdurli brevemente per contestualizzare la successiva analisi dei loro discorsi.
Innanzitutto si prenda «Avanguardia operaia», diretta inizialmente da Silverio
Corvisieri, cofondatore del movimento insieme a Massimo Gorla e Luigi Vinci, nata
principalmente come rivista teorica4. Apparve come foglio nel corso del biennio 19671968, espressione dell’omonimo gruppo nato a Milano nel 1967, inizialmente come
collegamento tra i militanti della IV Internazionale e gli operai di società rilevanti quali
la Sit-Siemens, la Pirelli, la SIP e la Borletti. Sin dai primordi, «Avanguardia operaia»
promosse la formazione dei primi Comitati unitari di base (o CUB) nelle fabbriche
milanesi, stabilendo collegamenti anche con gruppi di altre città. Tuttavia, il passaggio
a organizzazione nazionale fu successivo al 19725. La rivista uscì per ventisette numeri come mensile, continuando a uscire come settimanale. Dal 1973 fu affiancata da
«Politica comunista», bimestrale, poi mensile irregolare, curato dal Comitato centrale
dell’organizzazione di Avanguardia operaia e diretta inizialmente da Aurelio Campi6.
Dal 1974 si aggiunse «Il quotidiano dei lavoratori», inizialmente intitolato «Bandiera
rossa», un giornale che aveva l’intento di ampliare le argomentazioni e i temi, molto
specifici e unicamente legati alle lotte operaie, delle prime due riviste7. «Avanguardia
operaia» dedicava un settore particolarmente rilevante all’analisi e alla critica degli
2 Sulle riviste della sinistra extraparlamentare si vedano A. Lenzi, Al servizio della rivoluzione. I nuovi linguaggi
della politica degli anni ’70 attraverso «Il Manifesto» e «Lotta continua», in «Epekeina», a. 7, n. 1-2 (2016), pp. 1-13;
A. Mangano, Le riviste degli anni Settanta. Gruppi movimenti e conflitti sociali, a cura di G. Lima, Pisa, Centro di
documentazione di Pisa, Bolsena, Massari editore, 1998; Le culture del Sessantotto. Gli anni sessanta, le riviste, il
movimento, a cura di A. Mangano e G. Lima, Pistoia, Centro di documentazione di Pistoia, Bolsena, Massari
editore, 1998; P. Violi, I giornali dell’estrema sinistra, Milano, Garzanti, 1977.
3 Sul Sessantotto in generale si vedano almeno: A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, Milano,
Sperling & Kupfer, 2007; M. Flores e A. De Bernardi, Il Sessantotto, Bologna, il Mulino, 1998; D. Giachetti, Oltre
il Sessantotto. Prima, durante e dopo il movimento, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1998; R. Giovagnoli, Cultura e
società “giovanili” dopo il Sessantotto, in Italia moderna, La difficile democrazia, vol. IV, a cura di A. Abruzzese e O.
Calabrese, Milano, Electa, 1985, pp. 135-150; P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America.
Con un’antologia di materiali e documenti, Roma, Editori Riuniti, 1988.
4 Per quanto riguarda strettamente la rivista si veda A. Mangano, Le riviste degli anni Settanta, cit., pp. 88-89.
5 Il sessantotto. La stagione dei movimenti (1960-1979), a cura della Redazione “Materiali per una nuova rivista”,
Roma, Edizioni Associate, 1988, pp. 136-137.
6 A. Mangano, Le riviste degli anni Settanta, cit., pp. 214-215.
7 Ivi, pp. 246-247.
11
altri gruppi e delle loro riviste. Il giudizio tendeva poi a divenire quasi un rifiuto nel
caso di Lotta continua, di cui si rigettava il facile “spontaneismo”, e dell’Unione dei
comunisti italiani (marxisti-leninisti), di cui si disapprovava invece l’eccessivo “idealismo moralistico”. E non solo: caddero sotto la scure di «Avanguardia operaia» anche il
dogmatismo del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista)8, l’operaismo di Potere
operaio e l’eclettismo de «il manifesto»9.
«Servire il Popolo» iniziò le pubblicazioni nel novembre del 1968 come organo
ufficiale dell’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti)10. Il gruppo era nato il 4
ottobre 1968 grazie all’incontro di tre “colonne” principali. In primo luogo, la sezione
milanese che faceva capo all’esperienza di Falcemartello e di cui faceva parte il futuro
leader del gruppo, Aldo Brandirali; in secondo luogo, quella legata al movimento studentesco romano di cui l’esponente più noto è stato Luca Meldolesi; in terzo e ultimo
luogo, quella calabrese di cui il militante più conosciuto è stato Enzo Lo Giudice. A caratterizzare il gruppo è stata soprattutto la fascinazione per il maoismo, propagandato
con «fedeltà assoluta al modello cinese»11, una vera e propria operazione palingenetica di autostrutturazione ingegneristica del sé: fare la rivoluzione per questi militanti
significava innanzitutto diventare e presentarsi come rivoluzionari integerrimi12. La
strada intrapresa è stata per questo una forte irreggimentazione che avveniva tramite
una decisa convenzionalizzazione di pratiche e comportamenti attraverso la prescrizione dettagliata dei comportamenti moralmente degni, anche quelli più intimi relativi alla sfera sessuale – una sorta di “vademecum del perfetto rivoluzionario”.
Infine, «Lotta continua», rivista, poi quotidiano, legata a nomi importanti, come
Pio Baldelli, Marco Pannella, Pier Paolo Pasolini, Adriano Sofri e Giampiero Mughini,
una delle pubblicazioni (e dei gruppi) più influenti del panorama della sinistra extraparlamentare. Iniziò le sue pubblicazioni nel novembre del 1969 dopo non poche
difficoltà e aspri dibattiti all’interno dell’assemblea operai-studenti. La rivista nacque
proprio da una rottura in seno al movimento, dissociandosi dal gruppo de «La Classe», che successivamente dette vita a «Potere operaio»13. Sin dall’estate del 1969 e soprattutto dopo l’incontro con gli operai della FIAT Mirafiori, sotto la sigla di Lotta
8 Di cui si veda, per esempio, La via rivoluzionaria. Lineamenti della politica marxista-leninista, Milano, Edizioni
Servire il popolo, 1975. Specificamente sulla rivista si veda A. Mangano, Le riviste degli anni Settanta, cit., pp.
257-258.
9 La rivoluzione nel labirinto, a cura di F. Ottaviano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1993, p. 608.
10 Per questo gruppo si veda soprattutto il lavoro di S. Ferrante, La Cina non era vicina. Servire il popolo e il maoismo
all’italiana, Milano, Sperling & Kupfer, 2008.
11 Ivi, p. 21.
12 Si veda per esempio: Partito comunista (marxista-leninista) italiano, Tesi statuto, rapporto al Congresso di fondazione
(Milano, 15 aprile 1972), a cura di A. Brandirali, s.l. [ma Milano], Servire il popolo, s.d. [ma 1973].
13 A. Mangano, Le riviste degli anni Settanta, cit., pp. 162-163. Si veda anche Adriano Sofri, il ’68 e il Potere operaio
pisano, a cura di R. Massari, Roma, Massari editore, 1998.
12
continua – come gruppo e testata – si raccolsero varie esperienze della sinistra extraparlamentare italiana. In particolare, il gruppo riunì esponenti di Potere operaio toscano, alcuni militanti provenienti dall’esperienza dei «Quaderni rossi», rivista fondata
nel 1961 da un gruppo di intellettuali, tra cui Mario Tronti e Raniero Panzieri, e vari
esponenti del movimento studentesco torinese, iniziato con l’occupazione studentesca
di Palazzo Campana nel novembre del 196714. La qui presente analisi intende fermarsi
al febbraio 1972, limitandosi a quella che Luigi Bobbio ha individuato come la “fase
estremistica” di Lotta continua (1969-1972), prima della svolta “militarista” di Rimini,
della trasformazione del periodico in quotidiano, della “scoperta della politica” e della
successiva crisi (1973-1976)15.
Particolarmente dopo il 1970, su queste riviste e su molte altre analoghe, si assiste a una progressiva tematizzazione della violenza. Tuttavia, a un’analisi storica del
discorso non sfugge che la ricorsività di un lessico violento spesso abbia avuto come
conseguenza quella di produrre un effetto contrario rispetto agli iniziali intenti dichiarati dai suoi locutori. Questo, naturalmente, non significa affermare che tali gruppi
non abbiano fatto uso della violenza, ma semmai serve a evidenziare che, su di un
piano prettamente discorsivo, la reiterazione ha dato luogo a una “idiomatizzazione”
del suo linguaggio, cioè a una sua cristallizzazione e opacizzazione16. Tale sovradeterminazione linguistica ha quindi poi finito per incanalare il portato violento originario
entro canali regolamentativi, dinamica che a sua volta ha condotto a depotenziare l’effetto del dettato rivoluzionario.
Guardare a simili dispositivi retorici serve ad avere un’idea più precisa delle
dinamiche e delle transazioni comunicative – affatto evidenti – retroagenti alla formulazione di testi politici come quelli che si andranno ad analizzare. In molti degli articoli
o dei volantini di queste riviste, infatti, l’intento palese, ostentato è l’esaltazione della
minaccia, ma la volontà trasversale è la ricerca pubblica di una legittimazione sociale.
Come ha scritto lo storico James E. Young, per tutt’altro contesto ma descrivendo sistematiche simili, «una volta scritti, gli eventi assumono l’aspetto della coerenza che
la narrativa necessariamente impone loro e il trauma della loro non assimilabilità è
14 Sul movimento studentesco milanese si veda B. Bongiovanni, Il Sessantotto studentesco e operaio, in Storia di Torino.
Gli anni della Repubblica, a cura di N. Tranfaglia, vol. IX, Torino, Einaudi, 1999, pp. 777-826.
15 L. Bobbio, Storia di Lotta continua, Milano, Feltrinelli, 1988, p. 6, si veda anche il suo precedente Lotta continua.
Storia di una organizzazione rivoluzionaria, Roma, Savelli, 1979; A. Lenzi, Contributo allo studio di Lotta continua:
nuovi documenti dell’esperienza pisana, in «Ricerche di storia politica», n. 2 (2012), pp. 189-200.
16 Per questo meccanismo si veda S. Cotellessa, Linguaggio idiomatico e “abyme de la politique”: il discorso politico
in Jean-Jacques Rousseau, «Filosofia politica», n. 2 (1991), pp. 439-455. Da un punto di vista linguistico, si veda
O. Jorn, L’espressione idiomatica nel confronto interlinguistico e nella traduzione, in La subordination dans les langues
romanes: actes du colloque international, a cura di H. Leth Andersen e G. Skytte, Copenhagen, Munksgård, 1995,
pp. 193-201.
13
superato»17. Per questo motivo, la rappresentazione della violenza che ne scaturisce,
come ha scritto Jacques Guilhaoumu, è inscindibile da «une insistance quasi-obsessionelle sur la pure immédiateté, l’immanence absolue de l’événement au risque de sa
fétichisation»18.
Dispositivi retorici del discorso rivoluzionario
Andando al cuore di tali “meccanismi” discorsivi, è possibile individuare una
dinamica narrativa a due livelli. Come anticipato, quello che si potrebbe definire il
primo livello di mitigazione discorsiva o la prima forma di semantizzazione del contenuto violento del discorso rivoluzionario è quello costituito dallo stesso lessico rivoluzionario. Ciò vale a dire un discorso fortemente esortativo, massimamente utopico,
fortemente caricato, in massima istanza valutativo, grazie al quale l’atto eversivo viene
ricondotto all’interno di un sistema di princìpi morali che lo sovrascrivono, facendolo rientrare all’interno di un sistema di definizioni e classificazioni. L’illustrazione di
azioni, forme e manifestazioni della lotta e, al contempo, l’enunciazione di una deontologia rivoluzionaria hanno poi l’effetto immediato di ridurre il portato “scandaloso”
dell’azione eversiva narrata. Senza una spiegazione che la ricomprenda entro un sistema organico di princìpi e finalità, infatti, l’azione violenta risulterebbe pubblicamente
amorale, in quanto fine a sé stessa e inutilmente distruttiva. Per esercitare la violenza
e innescare la rivoluzione, dunque, si rendeva necessaria una preliminare forma di
legittimazione.
Il confine tra il primo e il secondo livello, cioè tra la descrizione teorica e illustrativa e la prescrizione pratica e morale, non è netto e la relazione tra le due istanze
si presenta a doppio scambio. Da una parte, l’impianto teorico serve a ché si diano
le possibilità di una legittimazione sociale dell’atto eversivo; dall’altra parte, l’azione
violenta non deve sussistere avulsa da un quadro teorico che le dia le possibilità per
una pubblica approvazione.
Il richiamo alla necessità di un pubblico riconoscimento e di una pubblica autorizzazione al proprio agire potrebbe sembrare paradossale considerando le esplicite
dichiarazioni d’intenti dei diversi gruppi contro il potere costituito e la società di cui
è espressione, e questo a prescindere dalle varie forme che questo “attacco al sistema”
ha assunto nel discorso: violento, immediato, definitivo, gradualista, cosiddetto dei
due tempi, estremista gradualistico, rimandato, e via dicendo. Sicuramente, la maggior parte delle formazioni della sinistra extraparlamentare ha parlato di abbattimento
17 Citato in Antropologia della violenza, a cura di F. Dei, Roma, Meltemi, 2005, p. 22.
18 J. Guilhaumou, Cartographier la nostalgie. L’utopie concrète de mai 68, Besançon, Presses universitaires de FrancheComté, 2013, p. 18.
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dello Stato e del sistema, come momento catartico a prescindere che questa rottura
prevedesse o meno, teoricamente, l’edificazione di un nuovo ordine. Si pensi a una
rivista come «Lotta continua», sulla quale non sono rari esempi di questo tipo: «a noi
non interessa abbattere una giunta democristiana. Quello che ci interessa è abbattere
il sistema capitalistico»19. Tuttavia, quello che le diverse formazioni hanno più o meno
tutte definito come il “sistema borghese-capitalistico”, con le sue leggi e le sue convenzioni stabilite, sembrava in realtà interferire pesantemente anche con le logiche del
loro discorso controtendente. La rivoluzione “gridata” non si risolveva, simpliciter, in
questa dichiarazione di abbattimento violento dello Stato e delle norme di quella società rappresentazione di quello Stato, e questo proprio perché, in definitiva, da quelle
leggi statali e da quelle norme sociali era inevitabilmente (e alla fin fine democraticamente) condizionata.
Quello che si palesa nei testi è che nessuno dei gruppi in questione ha operato
in realtà una pura e semplice astrazione ed estrazione del proprio discorso dalle convenzioni legali e sociali del contesto di riferimento, quello dell’Italia repubblicana e
democratica degli anni Settanta del secolo scorso. E questo contrariamente a quanto
veniva esplicitamente dichiarato con la ripetizione ossessiva di slogan e frasi violente,
come ancora in «Lotta continua»: «Unica soluzione la rivoluzione», «Lotta dura senza
paura», «Lotta continua è ciò che vale se vuoi abbattere il capitale»20.
Questa necessità discorsiva deriva dal fatto che tutti gli agenti politici coinvolti,
tanto i militanti di Lotta continua, quanto quelli di Avanguardia operaia, dell’Unione
dei comunisti italiani (marxisti-leninisti) o di altre formazioni analoghe, condividevano – e in definitiva sostenevano – le stesse rappresentazioni sociali, gli stessi spazi
sociali normativi, la stessa etica pubblica, gli stessi “princìpi di visione e divisione del
mondo”21. Ha spiegato Pierre Bourdieu che legittimità e consenso sul senso del mondo hanno a che fare non con atti coscienti e arbitrari, quanto su di un tipo di accordo
immediato (cioè non-mediato) tra strutture incorporate, inconsciamente acquisite e
legittimate, e strutture oggettive. “Strumento” principe e allo stesso tempo punto di
osservazione privilegiato dei processi di incorporazione e legittimazione è proprio il
linguaggio: «Non si deve dimenticare», spiegava il sociologo francese, «che i rapporti
di comunicazione per eccellenza, quali sono gli scambi linguistici, sono anche rapporti
di potere simbolico in seno ai quali si attualizzano i rapporti di forza tra i locutori e i
loro gruppi rispettivi»22.
19 «Lotta continua», Il nostro voto è la lotta di classe, a. II, n. 13, 6 giugno 1970, p. 8.
20 «Lotta continua», a. I, numero unico, 7 novembre 1969, p. 3, nei riquadri rossi.
21 Concetto di Pierre Bourdieu, per esempio in La distinction. Critique sociale du jugement, Paris, Éditions de Minuit,
1979.
22 P. Bourdieu, La parola e il potere. L’economia degli scambi linguistici, trad. it. di S. Massari, Napoli, 1988, p. 11.
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La ricerca della legittimazione sociale delle proprie intenzioni e del proprio agire
violento (antivitalistico) – responsabilità sociale della cui necessità sembravano esser
persuase entrambe le parti – è in definitiva un dispositivo politico che rientra a tutti
gli effetti entro quel sistema simbolico (vitalistico) che si dichiarava “sbagliato” e che
si decretava dovesse essere distrutto integralmente. Ciò significa che la ricerca del riconoscimento pubblico, la necessità di scongiurare l’orrore per una violenza anomica,
primitiva e preverbale, non avveniva, in ultima analisi, sul piano del presunto nuovo
ordine simbolico di riferimento – ne sarebbero sussistite le ragioni in tal caso? –, ma su
quello dell’esistente: la “società borghese”, “il sistema”, appunto, l’unico in realtà “a
disposizione”.
I testi più da vicino: narrazioni e normalizzazione della violenza
Tali elementi sopra descritti compaiono nei testi di tutte e tre le riviste, pur con
modalità narrative e retoriche differenti. Si analizzi innanzitutto il primo livello di normalizzazione o idiomatizzazione della violenza.
Per esempio, di «Avanguardia operaia» colpisce come, per certi aspetti, l’elemento violento, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe dalle modalità espressive
di un gruppo rivoluzionario, venisse praticamente epurato dai testi, sottaciuto, e soprattutto sublimato. Il momento della lotta veniva così depauperato del suo elemento
fondante, “sintattico”, attraverso un processo di decisa aulicizzazione. La componente
violenta era così semantizzata attraverso una rappresentazione della lotta che, nonostante l’attento e dettagliato bollettino, sembrava via via astrarsi in un movimento
congestionato in una ritualità fissa e ossessiva, perciò statica, priva di pathos. I testi
erano infatti fitti di descrizioni di questo tipo, tolti di ogni componente emotiva; si poteva leggere nell’articolo Nella situazione politica. Creare le condizioni per un rilancio dello
scontro di classe del marzo-aprile 1971:
Il lavoro di costruzione del partito rivoluzionario coincide con lo sforzo di
determinare le condizioni per un rilancio dello scontro di classe su di una base
ancor più ampia e politicamente matura. [...] Possiamo dire che inizia una nuova
fase del lavoro rivoluzionario che richiede da parte nostra un grosso sforzo per
accrescere il carattere proletario della nostra organizzazione23.
Anche per questo motivo, la rappresentazione della lotta operaio-studentesca,
lungi dal trovare nella descrizione un’entità soggettiva (obiettivo pur dichiarato), finiva per avere altresì una dimensione totalmente impersonale. Gli articoli di «Avanguar23 «Avanguardia operaia», Nella situazione politica. Creare le condizioni per un rilancio dello scontro di classe, n. 14-15,
marzo-aprile 1971, p. 8.
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dia operaia», esibendo una pianificazione rigida e stereotipata, finivano per tratteggiare un’immagine della battaglia fortemente spersonalizzata e spersonalizzante, dando
vita a un quadro programmatico sostanzialmente freddo.
La linea politica avanzata da «Servire il Popolo» era per molti aspetti simile. La
rivista neo-maoista, però, tendeva ad attenuare l’elemento violento con un registro stilistico decisamente più partecipativo e passionale. Infatti, si parlava di “lotta”, di “rivoluzione”, di “presa del potere”, di “abbattimento dello Stato borghese-capitalistico”
e anche di “odio di classe”, relegando però a un piano inespresso le reali implicazioni
violente conseguenti alla realizzazione di questa pianificazione. «L’Unione dei Comunisti», si poteva leggere nell’articolo Costruire il partito in fabbrica uscito su «Servire il
Popolo» del 15 giugno 1969, «è il potente nucleo di acciaio che sta costruendo il Partito
della classe operaia» il quale «deve dirigere la rivoluzione e realizzare la dittatura del
proletariato in Italia»24. Semmai, la rivista filo-cinese tematizzava la violenza come una
presenza costante del e nel sistema borghese-capitalistico, onnipresentemente dichiarato repressivo. Del resto, già durante i primi anni Sessanta, la sinistra americana aveva adottato e cominciato a utilizzare sempre più insistentemente la parola “sistema”
come etichetta semplificatoria di una realtà ben più complessa25. L’articolo La giusta
linea di lotta contro la reazione di «Servire il Popolo» del 20 marzo 1971, per esempio,
parlava di una consustanziale violenza del sistema borghese, insita nell’oppressione
militare e poliziesca, inevitabile poiché parallela all’inarrestabile avanzata della lotta
di classe26.
Completamente opposta, pur producendo il medesimo risultato, era infine la
retorica di «Lotta continua». Già il primo numero del 1° novembre 1969, nell’editoriale
Questo giornale, palesava l’obiettivo della rivista, e cioè «trovare i nessi per saldare le
lotte operaie con quelle degli studenti, dei tecnici, dei proletari più in generale, in una
prospettiva rivoluzionaria»27. Il fine era la rivoluzione, operazione che non poteva e
non può darsi, anche nel migliore dei casi, senza esercizio della violenza.
Anche la selezione delle foto e delle illustrazioni era tutta volta a sottolineare la
forza e la minaccia della contestazione, individuabile, in questo caso, nella quantità di
immagini che insistevano sulla massa dei partecipanti28, o che ritraevano un quadro
dei cortei dalle tinte fosche, come la messa in scena del funerale del crumiro o dell’im-
24 «Servire il Popolo», Costruire il partito in fabbrica, a. II, n. 7, 15 giugno 1969, p. 1.
25 Si veda su questo J. Varon, Bringing the War Home. The Weather Underground, the Red Army Faction, and Revolutionary Violence in the Sixties and Seventies, Berkeley, University of California Press, 2004, p. 24.
26 «Servire il Popolo», La giusta linea di lotta contro la reazione, a. IV, n. 11, 20 marzo 1971, p. 7.
27 «Lotta continua», Questo giornale, a. I, numero unico, 1° novembre 1969, p. 3.
28 Sullo stesso numero esempi a pp. 1, 4, 9.
17
piccato29, adorno di cartelli con su scritto “affitto” e “trattenute”30. Anche la vignetta
di chiusura del numero, il ritratto dell’odiato imprenditore Gianni Agnelli colpito da
sampietrini, era significativa in questo senso31. D’altra parte, un articolo contenuto nel
supplemento al primo numero chiariva:
Continueremo ad essere il gruppo più rabbioso di tutta la sinistra extraparlamentare, come dice «La Nazione»; «Lotta continua» è rabbiosa perché rabbiose
sono le masse. «Lotta continua» fa paura perché fanno paura le masse32.
In questo caso sono compresenti entrambi i livelli di normativizzazione della
violenza. Al primo livello, la ridondanza retorica ha l’effetto di sovradeterminare la
narrazione. Al secondo livello, l’utilizzo discorsivo delle masse scongiura l’immagine
di una violenza inutilmente distruttiva, conferendole un nome e togliendola dall’anonimia: una violenza relativa alla violenza delle masse, per e con le masse. D’altra
parte, in maniera del tutto analoga, l’ideologia comunista tradizionale aveva utilizzato discorsivamente il popolo, per esempio, nelle fasi di scontro frontale col nemico.
Troviamo simili semantiche nei testi del Partito comunista sovietico (PCUS) durante
la “Grande guerra patriottica”, tra il 1941 e il 1945, o in quelli del Partito comunista
italiano (PCI) durante la guerra civile, tra il 1943 e il 194433.
Questo secondo livello si palesa nei testi con una dinamica più complessa, esplicandosi in peculiari dispositivi narrativi e in particolari categorie retoriche che pongono le affermazioni ivi contenute sul piano della legittimità politica, con un contemporaneo effetto attenuante sul complessivo portato violento del discorso. Del tutto
singolare è la retorica di «Servire il Popolo», per esempio nello stesso utilizzo di categorie etiche di cui rappresentazione per antonomasia è la stessa denominazione del
giornale. L’editoriale del primo numero del novembre 1968 immediatamente chiariva
gli intenti pedagogico-morali del movimento politico. In esso si poteva leggere:
L’idea di servire il popolo totalmente e interamente, sviluppata in modo
geniale dal Presidente Mao Tse-tung, è il nucleo stesso della concezione comunista
del mondo. Questa idea è un’arma ideologica potente per distruggere gli egoismi,
per incoraggiare la dedizione all’interesse collettivo e riformare l’uomo nel più
29 Ivi, p. 8.
30 Ivi, p. 4.
31 Ivi, p. 12.
32 «Lotta continua», numero unico, supplemento al n. 1, 1° novembre 1969, p. 2.
33 Per questo uso del popolo tra PCUS e PCI, si veda G. Bassi, “Tutto il popolo sotto la bandiera della democrazia”. Il
Partito comunista italiano e la costruzione discorsiva del popolo (1943-1945)”, in «Storica», n. 67-68 (2017), pp. 31-81.
Si veda anche G. Bassi, Non è solo questione di classe. Il “popolo” nel discorso del Partito comunista italiano (19211991), Roma, Viella, 2019.
18
profondo del suo essere. Il nostro partito lavora per la liberazione completa del
proletariato34.
Emancipazione, felicità, giustizia sociale, benessere collettivo e generalizzato
sono stati del resto il dispositivo etico di qualsiasi semantica rivoluzionaria35. «Servire
il Popolo» non faceva eccezione in questo senso, come dimostra l’articolo Splendano
le bandiere rosse! del 31 maggio 1969: «la lotta di classe viene vissuta dalle masse popolari non solo per avere più oggetti e più denaro, bensì per realizzare la felicità in
una vita dignitosa e fatta di rapporti fra gli uomini basata sull’amore e sullo spirito
collettivistico»36.
Oltre alla frequenza, comune in tutte e tre le testate, di appellativi come “padroni”, “proletariato”, “reazionari”, “fascisti”, “rivoluzionari”, indicatori e descrittori
fortemente caricati in senso utopico, una esemplare categoria etico-narrativa è quella
di “avanguardia interna” (e non istituzionale), formulata da Adriano Sofri nel 1968.
Attraverso autoclassificazioni di questo tipo e l’assunto di «esigenze di emancipazione
che il proletariato sviluppa nella sua lotta autonoma», come si legge nell’articolo Legalità borghese e violenza rivoluzionaria del 18 aprile 1970, «Lotta continua» può affermare
di portare avanti «una propaganda ideologica costante che renda coscienza la necessità della lotta armata contro l’oppressione borghese», garantendo così cittadinanza alla
«violenza esercitata» proprio perché «espressione dei bisogni concreti delle masse»37.
Esemplare in questo senso l’articolo di «Lotta continua» del 1° dicembre 1971, eloquentemente intitolato Violenza e programma politico, in cui, oltre a spiegare il rapporto
tra violenza d’avanguardia e di massa, violenza e offensiva capitalistica, riappropriazione e organizzazione, si sosteneva che
Oggi la violenza proletaria ha un carattere essenzialmente “difensivo”. Il
che non vuol dire che vada usata solo per difendersi, al contrario, significa che,
in questa fase della lotta di classe l’uso della violenza da parte delle masse non
può voler dire la lotta per l’abbattimento violento dello stato borghese. La lotta
per l’abbattimento violento dello stato borghese non dipende dalla nostra scelta
soggettiva, o peggio individuale, ma da quella che è l’autonomia delle masse38.
34 «Servire il Popolo», a. I, n. 1, novembre 1968, p. 1.
35 Si veda per esempio l’imponente lavoro curato da Cesare Vetter e Marco Marin per quanto riguarda il concetto
di “felicità” su di un corpus di circa sette milioni di tokens (che è allo stesso tempo il corpus digitale più ampio)
sulla rivoluzione francese: La felicità è un’idea nuova in Europa. Contributo al lessico della rivoluzione francese, 2 voll.,
Trieste, EUT, 2005-2013.
36 «Servire il Popolo», Splendano le bandiere rosse!, a. II, n. 6, 31 maggio 1969, p. 2.
37 «Lotta continua», Legalità borghese e violenza rivoluzionaria, a. II, n. 10, 18 aprile 1970, p. 7.
38 «Lotta continua», Violenza e programma politico, a. III, n. 19, 1° dicembre 1971, pp. 2-3, corsivi miei.
19
Un concetto, questo, che ritroviamo analogo in due articoli di «Servire il Popolo»
dell’aprile del 1969, emblematicamente intitolati Spazzar via l’egoismo e Odio alla cultura
borghese. In entrambi viene infatti affermato che la rivoluzione doveva essere portata
avanti per «spazzar via l’egoismo», «per servire il popolo e non se stessi», per «servire
la causa del popolo e il suo interesse supremo»39. L’azione violenta era quindi presentata non soltanto come un compito, ma come un vero e proprio dovere, una necessità,
una risposta obbligata, eseguita non per sé stessi ma per e con il popolo.
A poco più di due anni di distanza, su «Lotta continua» del 2 febbraio 1971, i toni
si facevano ancora più accesi, ma l’impianto discorsivo rimaneva il medesimo:
i topi fascisti, servi fino al delitto, hanno ammazzato un compagno a Napoli. [...] Polizia e magistratura li aiutano, perché il compito che i padroni hanno
affidato ai loro servi fascisti, poliziotti e giudici, è quello di colpire la lotta di classe
e le avanguardie. Il nostro compito è proprio l’opposto... liquidare i fascisti40.
Nel passo, l’argomentazione del compito, del dovere cui attendere è accompagnata dall’opposizione tra un “noi” e un “loro”, farcita di peculiari sostantivi e forti
aggettivazioni valutative in un senso o in un altro («topi fascisti», «servi fino al delitto», «compagno»). Non dissimilmente, anche la sinistra tradizionale aveva utilizzato
tali retoriche; «l’Unità» del 2 aprile 1944, per esempio, nel pieno della lotta partigiana aveva apostrofato il nemico come «i tedeschi e i loro servi fascisti»41. Del resto,
questa dinamica narrativa è stata ed è tipica del linguaggio militaresco, ideologico e
rivoluzionario, anche in tempi di pace. Prendiamo per esempio il PCI nella sua fase
democratica. Si consideri il discorso del leader del partito, Palmiro Togliatti, Rinnovare
l’Italia, pronunciato al V Congresso nazionale, svoltosi a Roma tra il 29 dicembre 1945
e il 6 gennaio 1946. In un testo di 23.172 parole complessive (caratterizzato da 3.979
word types e 24.907 word tokens) il pronome personale “loro” compare 63 volte, “noi”
ben 102, classificandosi entrambi tra le parole più utilizzate. Questo non significa che
l’oratoria del segretario comunista fosse povera da un punto di vista lessicale, ipotesi
che non renderebbe merito dell’alta formazione di Togliatti. Questi dati palesano semmai l’uso strategico, più o meno consapevole, di alcuni elementi discorsivi in chiave
aggregante od oppositiva42.
Strettamente connessa alla polarizzazione narrativa tra “noi” e “loro”, e tra le
retoriche più frequenti, è la rappresentazione manichea della violenza nei termini, da
39 «Servire il Popolo», Spazzar via l’egoismo e Odio alla cultura borghese, aprile 1969, p. 3.
40 «Lotta continua», Liquidare i fascisti, a. IV, n. 2, 2 febbraio 1971, p. 2, corsivi miei.
41 «l’Unità», Dopo la strage del Colosseo. Morte agli invasori tedeschi!, Edizione meridionale, 2 aprile 1944
42 Si veda in proposito G. Bassi, Non è solo questione di classe, cit.
20
una parte, di “violenza agente”, ossia quella violenza ritratta in stretta associazione
con il potere, repressiva; dall’altra, di “violenza agita”, quella delineata, cioè, come
azione di liberazione, collegata a coloro che subiscono la violenza dell’autorità. Questa
retorica vincola strettamente le due forme di violenza in un rapporto biunivoco di necessità, specificamente nella dinamica “attacco” e “difesa”. Il meccanismo è analogo,
per certi aspetti, a quello evidenziato in precedenza, ossia quel dispositivo narrativo
grazie al quale erano posti in stretta interdipendenza reciproca “violenza” e “bisogni
del popolo”. In questo caso, però, siamo davanti a una seconda sistemica discorsiva,
per mezzo della quale si prefigura la violenza come risposta obbligata a un attacco
esterno.
Non vi è alternativa rappresentativa – in tutte e tre le testate ma si potrebbe
dire parimenti di altri lessici rivoluzionari – a questa proposizione della violenza nei
termini di un necessario scambio tra stimolo e risposta, condizioni agenti e interventi agiti, rivelatrice, peraltro, di un’intenzionale sottodeterminazione dei secondi sui
primi. Frasi come le seguenti di «Lotta continua» erano infatti all’ordine del giorno:
«Noi siamo violenti, perché la violenza è l’unica cosa che ci danno gratis tutti i giorni»
(inerzia agente), ma, poiché sussiste e opera questa condizione, «siamo per la violenza
delle masse» (inerzia agita), necessaria, in quanto agisce all’unico scopo di «liberarsi»
«dall’oppressione» subìta quotidianamente43.
Si confronti, per questo, proprio il passo precedente. In una rappresentazione
scenica cristallizzata, dove i protagonisti sono destinati a ricoprire sempre gli stessi ruoli, il compito dell’uno sembra in definitiva risolversi e legittimarsi nel compito
dell’altro: i padroni e i fascisti, aiutati dalla polizia e dalla magistratura, devono combattere la lotta di classe e le avanguardie che la guidano contro di loro; questi ultimi
devono combattere i padroni e i fascisti che muovono loro guerra.
Da questa premessa, funzionale alla ricerca di legittimazione politica e sociale,
ne scaturisce la visione (e la dichiarazione) dell’impossibile raggiungimento di qualsivoglia conciliazione o ricomposizione dialettica tra “autorità repressiva” e “masse
represse”, tra “sfruttatore” e “sfruttato”, tra “oppressore” e “oppresso”, tra “colonizzatore” e “colono”44: non si ammette alcun “hegeliano riconoscimento” tra i due termini
d’agente in questione. Si tratta in definitiva di quel «manicheismo delirante», di cui
ha parlato Frantz Fanon, che non prevede alcun compromesso proprio perché uno
dei due termini è sostanzialmente «superfluo»45. Sotto questo aspetto, per esempio, la
43 «Lotta continua», numero unico, suppl. al n. 20, p. 4.
44 Sulla concettualizzazione (neo)colonialista dello sfruttamento in patria si veda per esempio «Lotta continua»,
Il mercato degli schiavi, a. 1, n. 4, 13 dicembre 1969, p. 1, illustrazione di copertina.
45 F. Fanon, I dannati della terra, a cura di L. Ellena, prefazione di J-P. Sartre, Torino, Einaudi, 2007, p. xvii. Non è
un caso che durante gli anni Sessanta i testi di Fanon, specialmente per il suo contributo alla teoria marxista
del “soggetto rivoluzionario”, vengano da più parti ripresi, riletti e trasfigurati, in modo particolare tramite
21
violenza, che in «Avanguardia operaia» sembrava scomparsa, ricompare proprio nella
sua veste “sdoppiata”, come violenza esterna (agente) e violenza interna, di reazione
(agita). Nell’articolo Fascismo e Stato forte del luglio-agosto 1971 si sosteneva che la
«lotta degli studenti è rivolta contro il potere autoritario all’interno della scuola, dove
ai giovani si insegna ad essere sottomessi a chi comanda ed ha il potere»46. La repressione, infatti, viene presentata come «una funzione intrinseca dello Stato borghese democratico e parlamentare»47.
Ma era soprattutto «Lotta continua» a far un uso massiccio di tale dispositivo
narrativo, presentando le due polarità anche nei titoli di una stessa pagina; si veda per
esempio l’articolo Se il nemico ci attacca è un bene, sull’edizione del 29 novembre del
1969, oppure Trento: La giusta lotta dei proletari contro i crimini dei padroni e dei loro servi
fascisti, sul numero del 24 novembre 197048. «Lotta continua», nell’articolo Come tenere
viva la paura del 31 gennaio 1970, sosteneva che
In uno scontro tra proletari e polizia, la ragione non sta dalla parte di chi
se la prende, di chi ha il “morto”; la ragione sta sempre dalla parte degli operai
[perché] gli operai lottano per la loro emancipazione, contro lo sfruttamento, l’oppressione del dominio e della violenza quotidiana che caratterizza il regime dei
padroni.
Quindi, si diceva, sottovalutare la repressione continuando «il “solito” lavoro
politico» sarebbe un errore: «È giusto dire che “se il nemico ci attacca è un bene e non
un male”, ma è sbagliato non contrattaccare»49. E ancora sull’edizione del 24 marzo
1970, in un articolo ironicamente titolato Se ti sparano porgi l’altra guancia, veniva affermato:
Gli operai e gli studenti che lottano [...] [sanno] che violenza non sono solo
le fucilate di uno stupido padroncino, ma la violenza è quella continua, è quella
in fabbrica, nella scuola, nella vita d’ogni giorno. Contro quella violenza non si
conclude nulla con l’ordine e la legalità [...]50.
i lavori provenienti da quell’ampio laboratorio politico costituito dai «Quaderni piacentini» e dai «Quaderni
rossi» (p. xi).
46 «Avanguardia operaia a Corsico», Lavoratori studenti sfruttati a scuola come in fabbrica, n. 2, febbraio 1968, p. 3.
47 «Avanguardia operaia», Fascismo e Stato forte, n. 18, luglio-agosto 1971, p. 15.
48 In dettaglio e altri esempi: «Lotta continua», Se il nemico ci attacca è un bene, a. I, n. 2, 29 novembre 1969, pp.
6-7, citazione e illustrazioni; «Lotta continua», a. I, n. 3, 6 dicembre 1969, p. 11, vignetta rivoluzione; «Lotta
continua», Il mercato degli schiavi, a. 1, n. 4, 13 dicembre 1969, p. 1, illustrazione di copertina; «Lotta continua»,
Trento: La giusta lotta dei proletari contro i crimini dei padroni e dei loro servi fascisti, a. II, n. 21, 24 novembre 1970.
49 «Lotta continua», Come tenere viva la paura, a. II, n. 2, 31 gennaio 1970, p. 3.
50 «Lotta continua», Se ti sparano porgi l’altra guancia, a. II, n. 8, 24 marzo 1970, p. 3.
22
Questo era ancora più valido sin dagli episodi di «piazza Fontana e dall’assassinio di Pinelli», come spiegava l’articolo La violenza e il terrorismo pubblicato su «Lotta
continua» del 12 novembre 1970, perché «il ricorso della borghesia alla violenza, al delitto politico, all’illegalità fascista, al complotto terrorista è continuato interrottamente». Da questo momento più che mai, si concludeva, «per ogni lotta rivoluzionaria» la
«violenza» diveniva «una condizione necessaria»51. Si pensi in questo senso alla canzone di Paolo Pietrangeli, Mio caro padrone domani ti sparo, composta nel fuoco delle lotte
studentesche e operaie del 1969:
Mio caro padrone domani ti sparo / farò di tua pelle sapon di somaro / ti
stacco la testa ch’è lucida e tonda / così finalmente imparo il bowling. / Miei cari
compagni perché quelle facce / ho detto qualcosa che un po’ vi dispiace / se forse
ho ecceduto non fateci caso / vent’anni di rabbia fan parlare così. / Pensate che
bello / il giorno ventuno / padroni son tanti / e padrone è nessuno / pensate che
bello / pensate che bello / sarà. / Ma prima t’inchiodo / la lingua al palato / ti
faccio ingoiare / un pitone salato / e con quei occhi / porcini e cretini / alla mia
ragazza farò gli orecchini52.
Per il gruppo stretto intorno a «Lotta continua» problematiche e soluzioni rimanevano le medesime anche dopo la svolta “prendiamoci la città” del 1970: Diagnosi:
“sfruttamento”, terapia: “rivoluzione”, era il titolo di un articolo provocatorio contenuto
sull’edizione del 15 gennaio 197153. Continuando a utilizzare sequenze narrative tutte costruite sulle antinomie e sui contrasti, da questo momento la retorica di «Lotta
continua» rimandava anche a una forma di lotta sempre più generale e sempre più
generalizzata. Vogliamo la lotta generale [perché] lottiamo per vivere era l’eloquente titolo
di un articolo del febbraio 1972. Era una lotta, veniva chiarito, finalizzata a ottenere il
«salario garantito», per «lavorare di meno», per «la categoria unica», per «un aumento
salariale per tutti e che sia grosso», per «la casa per tutti», per «una riduzione dei prezzi di tutti i generi di prima necessità: cibi, affitti, vestiari», per «scuola, trasporti, assistenza gratuiti». Per questo, veniva intimato, «che polizia e fascisti stiano ben lontani
dalle fabbriche, dalle scuole, dai nostri quartieri»54. Un così vasto terreno di intervento
era selezionato certamente per questioni etiche, ma anche tatticamente per considerazioni politiche, data la possibilità di produrre e riprodurre ampie sacche di legittimità
pubblica, coagulando il consenso intorno al gruppo che se ne faceva promotore.
51 «Lotta continua», La violenza e il terrorismo, a. II, n. 20, 12 novembre 1970, p. 18.
52 P. Petrangeli, Mio caro padrone domani ti sparo, in Mio caro padrone domani ti sparo, Dischi del Sole, 1969.
53 È il sottotitolo di un articolo: «Lotta continua», Come ci curano i padroni e come possiamo fermarli. Diagnosi: “sfruttamento”, terapia: “rivoluzione”, a. III, n. 1, 15 gennaio 1971, pp. 12-13.
54 «Lotta continua», Vogliamo la lotta generale: lottiamo per vivere, a. IV, n. 2, 2 febbraio 1971, p. 26-32.
23
Alla stessa stregua, «Servire il Popolo» aveva proclamato nell’articolo Mettere
la politica al primo posto del gennaio 1969: «abbiamo imparato a criticare e a odiare
questa società» e «solo chi non odia questa società, chi vive legato alla borsa dei potenti può affermare che non esistono [sic] le condizioni della rivoluzione»55. La rivista
neo-maoista, peraltro, dal chiudersi del 1969 e ancor più nel 1970, utilizzava questo
dualismo narrativo sempre più in senso demarcativo: 50.000 contro la repressione, era
il titolo di un articolo uscito sull’edizione del febbraio 1971, in cui si parlava di una
manifestazione che era stata «guidata dalle giuste parole d’ordine contro il governo e
per la rivoluzione socialista»56.
In generale, tutti i cortei erano discorsivamente concettualizzati sui termini della
giustezza, della legittimità politica derivante dalla risposta popolare a un attacco. Per
esempio, su «Lotta continua» del 2 settembre 1970, in un articolo intitolato 1945-1970 il
popolo ricomincia a farsi giustizia da sé, era spiegato:
Il corteo ha avuto il significato di una giusta risposta popolare [per e con il
popolo, quindi] al tentativo padronale di usare i fascisti come momento di intimidazione dentro (CISNAL) e fuori della fabbrica (teppisti fascisti)57.
All’interno di questa narrazione, anche il collegamento con la Resistenza era volto a ottenere il medesimo scopo, dato che il richiamo alla lotta partigiana era in grado
di fornire legittimazione storica ed evocare sentimenti di partecipazione emotiva58. La
Resistenza, a guisa di un’illustre discendenza, era infatti spesso direttamente o indirettamente rievocata, anche se, come si tentava di chiarire nell’articolo Lettera ai partigiani
e ai compagni, uscito su «Lotta continua» del 12 novembre 1970, non si trattava di «”fare
dell’antifascismo”, o di rievocare e commemorare un qualcosa del passato» perché
parlare «di fascisti, oggi, è una necessità dettata con forza dal modo stesso in cui si va
ponendo lo scontro di classe nel nostro paese»59.
Si trattava comunque di risposte violente a un attacco esterno, quindi dettate da
(presunti e chiariti) rapporti di necessità. Per esempio, nell’articolo su citato, 1945-1970
il popolo ricomincia a farsi giustizia da sé, si raccontava dell’episodio culminante delle
lotte degli operai trentini contro Borghi alla Ignis di Spini di Gardolo in cui si fecero
55 «Servire il Popolo», Mettere la politica al primo posto, gennaio 1969, p. 2.
56 «Servire il Popolo», 50.000 contro la repressione, a. III, n. 5, 7 febbraio 1970, p. 1, corsivi miei.
57 «Lotta continua», 1945-1970 il popolo ricomincia a farsi giustizia da sé, a. II, n. 15, 2 settembre 1970, p. 8, corsivi
miei.
58 Sulla battaglia per il monopolio dei significati sulla Resistenza tra PCI e sinistra extraparlamentare si veda
G. Bassi, Una “guerra semantica”. La Resistenza tra Partito comunista italiano e Lotta continua: un approccio storicolinguistico (1970-1975), in «Quaderni di Storia e Memoria», n. 1 (2014), pp. 31-41.
59 «Lotta continua», Lettera ai partigiani e ai compagni, a. II, n. 20, 12 novembre 1970, p. 16, corsivi miei.
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marciare, sfilando con le mani alzate, «due fascisti» con attaccato al collo un cartello:
«“siamo fascisti, oggi abbiamo accoltellato 3 operai”»60. Mostrare la violenza come riscatto necessario dall’autorità repressiva aveva lo scopo di codificare il conflitto, ogni
conflitto che idealtipicamente contrapponeva e avrebbe contrapposto “polizia e fascisti”, da una parte, e “operai e studenti”, dall’altra, fornendone al contempo la corretta
chiave di lettura. Rientrava in questa retorica l’identificazione di un “nemico” dotato
di peculiari caratteristiche e l’auto-identificazione come gruppo avente caratteristiche
particolari e (spesso) contrarie al primo.
Riflessioni conclusive
L’analisi dei testi mostra chiaramente come la questione della violenza sia incorsa in una dinamica molto complessa nel discorso della sinistra extraparlamentare
italiana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo. Con questo
non si vuole negare l’importanza di altre letture, che hanno teso a interpretare come
“naturale” l’affermazione della violenza61 o come “scontato” l’antiautoritarismo della
cultura giovanile a cavallo tra anni Sessanta e anni Settanta del XX secolo62, alla stregua
di un fenomeno “dato” che sarebbe dilagato a macchia d’olio dagli Stati Uniti all’Europa e oltre.
Benché si sia potuto guardare soltanto a una selezione di testi presi su di un arco
temporale limitato, riguardanti per giunta solo tre delle tante testate e dei tanti gruppi
che sorsero esponenzialmente in questo lasso di tempo, emerge palesemente come il
discorso rivoluzionario venisse costruito all’interno di un piano narrativo fatto di spinte e contro-spinte, affermazioni e negazioni, dichiarazioni esplicite e intenti nascosti.
Anzi, proprio la compresenza di così tanti livelli su di una porzione così limitata di
campioni testuali è in grado di darci un’idea della proporzione del problema.
In ogni caso, se una lettura corsiva potrebbe cogliere solo il piano narrativo manifesto, vale a dire l’esaltazione discorsiva della violenza e della rivoluzione, un’adeguata analisi discorsiva è invece capace di mettere in luce la pluriplanarietà narrativa
di questi testi, di cui spia è quella che Michel Foucault ha definito la “polizia discorsiva”, l’accurata e sorvegliata selezione delle parole utilizzate63. La stratificazione evidenzia poi la trasversalità delle procedure dissonanti, mostrando la divaricazione tra
la dichiarazione violenta degli intenti e la formulazione normata della violenza del
discorso.
60 «Lotta continua», 1945-1970 il popolo ricomincia a farsi giustizia da sé, a. II, n. 15, 2 settembre 1970, p. 8, foto.
61 Per esempio L. Bobbio, Storia di Lotta continua, cit., p. 24.
62 Per esempio M. Flores e A. De Bernardi, Il Sessantotto, cit., p. 218.
63 M. Foucault, L’órdre du discours, s.l. [ma Paris], Gallimard, 1977.
25
Forme di rappresentazione della violenza come quelle qui descritte sono del resto elementi discorsivi comuni di tutta la retorica rivoluzionaria: le modalità e la ridondanza con cui viene presentata la violenza (primo livello di mitigazione); la dicotomia
tra “violenza agente” e “violenza agita”, e la contemporanea definizione del nemico
e della propria identità come gruppo (identificarsi, investirsi, vincolarsi, mobilitarsi);
la creazione di categorie etiche descrittive e prescrittive (secondo livello). Tutti questi elementi sono infatti uno degli strumenti fondamentali per classificare lo scontro,
classificare e auto-classificarsi come soggetti, riscattare moralmente le proprie azioni
e legittimare la propria azione sul piano politico e sociale. A questo scopo, movimenti
e partiti politici rivoluzionari hanno definito una serie di categorie in cui riconoscersi.
La sinistra extraparlamentare ha in particolare seguìto tre strade. In primo luogo, ha
creato ex novo categorie di auto-definizione e auto-identificazione, socialmente accettabili e condivisibili, politicamente legittimabili; nei testi e nelle riviste qui analizzate
abbiamo visto per esempio la formula dell’“avanguardia interna”, intesa come gruppo
di lavoro all’interno del più ampio movimento operaio e popolare. In secondo luogo,
ha utilizzato vecchie categorie già dotate, di per sé, di riconoscimento politico e sociale,
come quella, qui, dei “nuovi partigiani”, in chiara evocazione del movimento resistenziale. In terzo luogo, ha adottato appellazioni ed esiti di altra provenienza geografica e
politica, come “servire il popolo”, mutuato dal maoismo.
Tutte queste categorie, mentre hanno contribuito a diffondere pubblicamente le
ragioni del proprio agire, sono state in grado, anche, di promuovere un sistema di significati condivisi, instradando i membri del gruppo sulla “giusta” strada, prescrivendo pratiche sociali, rappresentazioni ideali e modelli d’azione capaci di fornire unità
e coesione all’azione collettiva. Questi percorsi narrativi, come quello che ha posto
la violenza “al servizio del popolo”, tramite il loro uso politico, hanno poi finito con
l’essere vissuti alla stregua di “entità sociali”, incontestabili e prescrittive, il cui uso e
la cui diffusione attraverso le riviste o i cortei hanno “convenzionalizzato” i militanti
e la loro lotta, per usare la terminologia di Serge Moscovici64. Infine, come avrebbero
chiosato i sociologi Peter Berger e Thomas Luckmann, questo genere di rappresentazioni soggettive si sono oggettivate per mezzo dei sistemi intersoggettivi di riferimento, come, appunto, le riviste o i cortei65.
La semplificazione delle categorie discorsive faceva intimamente parte di questa
modalità di conduzione del discorso. Jeremy Varon, nel volume del 2004 Bringing the
War Home. The Weather Underground, the Red Army Faction, and Revolutionary Violence
in the Sixties and Seventies, per quanto riguarda la nuova sinistra americana ha messo
in rilievo l’emergere di una polarizzazione narrativa tra “il Sistema” (the system) e “il
64 S. Moscovici, Le rappresentazioni sociali, Bologna, il Mulino, 2005.
65 P. Berger e T. Luckmann, Lo smarrimento dell’uomo moderno, Bologna, il Mulino, 2010.
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movimento” (the movement), come del resto si è semplicemente chiamato il movimento
studentesco statunitense. Ha infatti spiegato:
New Leftists increasingly used “the system” as a label for the complex entity they opposed and focused their protest on the structures that elites served. […]
To the system, they counterposed “the movement”, a capacious term that referred
to everyone from student and antiwar activists to black militants and politically
engaged hippies. It captured, in a word, activists’ sense of “us” – of being an
extended community distinct from a common adversary. With these contrasting
terms, New Leftists cast political conflict as a battle of two fundamentally incompatible forces that could be resolved in their favor only through some radical,
even revolutionary, transformation66.
Proprio la tematizzazione di una contrapposizione tra un “noi” interno, includente, e un “loro” esterno, escludente, come si è visto, è al cuore stesso di quella dinamica che conduce infine a depotenziare la violenza del discorso.
È paradigmatica in questo senso la definizione di Varon dei New Leftists come
«Agenti di Necessità» (Agents of Necessity)67. Identificarsi come “servi del popolo” o
“missionari”, votati all’adempimento, con rigore e «puritano disprezzo verso i piaceri
del mondo», per usare le parole di Hannah Arendt68, serviva a costruire la rappresentazione di sé stessi e del proprio gruppo entro il quadro di una sorta di “servitù
volontaria” votata al bene della collettività. Questa retorica era diretta, più o meno
consapevolmente, all’ottenimento di quattro obiettivi principali. In primo luogo, quello di investire (e investirsi) di una funzione politica e sociale; in secondo luogo, quello
di vincolare (e vincolarsi) politicamente e socialmente a gruppi di appartenenza specifici; in terzo luogo, quello di mobilitare (e mobilitarsi) socialmente e politicamente
per quel tramite; in quarto luogo e infine, quello di legittimare la propria azione (e
legittimarsi) a livello politico e sociale. Uno dei principali strumenti narrativi, come si
è visto, è stata proprio la sovrascrizione della violenza di una necessità morale che, in
nome di «ciò che serve al popolo»69, trascende la violenza specifica dell’atto. E quindi,
in ultima istanza, rende discorsivamente quella violenza “necessaria”, “non scandalosa”, “normata”.
66 J. Varon, Bringing the War Home, cit., p. 24.
67 Ivi, primo capitolo.
68 H. Arendt, Sulla rivoluzione, con una nota di R. Zorzi, Milano, Edizioni di Comunità, 1983, p. 153.
69 Art. 11, sezione 3 (Ripresa delle energie produttive) della piattaforma programmatica di Servire il popolo.
27
«Se lo Stato stesso ha il volto della violenza»
Le ambiguità del dissenso cattolico di fronte
al terrorismo in Italia (1968-1978)
dI
Francesca perugI
Abstract
L’area del dissenso cattolico italiano non ha avuto un atteggiamento univoco nei
confronti della violenza politica di sinistra tra il 1968 e il 1978. Il contributo ripercorre,
attraverso lo spoglio di alcune riviste di area, le ambiguità, i silenzi e le condanne da
parte dei cattolici di sinistra italiani della violenza politica del decennio.
Francesca Perugi, Università Cattolica di Milano
Era il ’68, quando la ferocia di certi comportamenti era ancora una novità.
Quando la gente si trovò improvvisamente costretta a trovare un significato alla follia.
Tutto quell’esibizionismo. La caduta delle inibizioni. Le autorità impotenti.
I ragazzi che danno fuori di matto. Che intimidiscono tutti. Gli adulti che non sanno cosa
dire, che non sanno cosa fare. È una commedia? La “rivoluzione” è vera?
È un gioco? Guardie e ladri? Che sta succedendo qui?
Pastorale americana, P. Roth
Introduzione
Il cattolicesimo italiano fu coinvolto direttamente nella stagione del terrorismo
degli anni ’70: da un lato alcuni dirigenti cattolici caddero vittima di attentati terroristici1, dall’altro alcuni terroristi erano cresciuti in ambienti profondamente cattolici.
Dopo il concilio Vaticano II, conclusosi nel 1966, una cospicua parte della Chiesa
cattolica auspicava che il rinnovamento iniziato dal concilio continuasse, fin da subito
1 La DC e il terrorismo nell’Italia degli anni di piombo. Vittime, storia, documenti, testimonianze: in memoria di Pino
Amato, a cura di V. Alberti, Roma, Rubettino, 2008.
29
però una minoranza di quest’ala iniziò a contestare la gerarchia accusandola di edulcorare la portata innovativa del concilio. Questa minoranza prese il nome di “dissenso cattolico”2. All’interno del dissenso cattolico maturarono idee molto simili a quelle
elaborate nei medesimi anni dai gruppi della nuova sinistra; e, nel giro di pochi anni,
alcuni cattolici, in particolar modo giovani, legarono il loro impulso di riforma della
Chiesa alla volontà di trasformare l’intera società, qualcuno fino ad aderire ai gruppi
extraparlamentari. Gli adulti, gli intellettuali cattolici, inizialmente vicini alle posizioni
del dissenso, si trovarono ben presto spiazzati e, come quelli descritti da Philip Roth,
non seppero cosa dire e non seppero cosa fare3.
Preso atto della formazione cattolica di alcuni terroristi condannanti e data prossimità tra dissenso cattolico e sinistra extraparlamentare italiana, la questione che si
pone è capire quanto il dissenso cattolico sia stato vicino ai gruppi armati dell’estrema
sinistra italiana.
Si è cercato di rispondere a questa domanda attraverso lo studio di quattro riviste, poiché i periodici furono strumento di diffusione culturale e luogo di elaborazione teorica per i gruppi del dissenso e, dunque, sono una cartina di tornasole per
comprendere le idee e i dibattiti che circolavano in quegli anni nel cattolicesimo progressista4. Tra i numerosi periodici sono stati scelti «Il Gallo», «Testimonianze», «Il
Tetto» e «Idoc» poiché hanno avuto una certa eco, tanto da sopravvivere al “riflusso
2 La storiografia ha dedicato sufficiente attenzione a definire il significato di dissenso cattolico in Italia. L’etichetta fu
attribuita nel ’68 [G. Bianchi, L’Italia del dissenso, Brescia, Queriniana, 1968] e già dal ’69 uscirono studi sui cattolici
e la contestazione [C. Falconi, La contestazione nella Chiesa. Storia e documenti del movimento cattolico antiautoritario in
Italia e nel mondo cattolico, Feltrinelli, Milano, 1969; A. Nesti, L’Altra Chiesa in Italia, Milano, Mondadori, 1970; M.
Boato (a cura di), Contro la chiesa di classe. Documenti della contestazione ecclesiale in Italia, Padova, Marsilio, 1969].
Mario Cuminetti, pur essendo stato un protagonista di questa stagione, nel 1980 ne fornì una sintesi, tutt’oggi
convincente, che definiva il dissenso come «posizione critica […] di gruppi, movimenti, persone, verso la Chiesa»;
un termine però ambiguo perché non riusciva a mettere a fuoco «né il segno progressista e non conservatore»
di quelle esperienze, né la volontà di non rompere con quella Chiesa che pur veniva duramente criticata [M.
Cuminetti, Il dissenso cattolico in Italia, Milano, Bur, 1980, p. 19]. Guido Verucci ha sottolineato il ruolo che il 1968
ebbe nel trasformare la contestazione interna alla Chiesa in aperto dissenso giungendo ad affermare che la crisi
vissuta dalla Chiesa cattolica di fronte al dissenso postconciliare è stata più grave di quella nei primi del Novecento di fronte al modernismo [G. Verucci, Il dissenso cattolico in Italia, in «Studi storici», 1, (2002), pp. 215-233]. Il
tema è stato recentemente ripreso da Alessandro Santagata che si è proposto di tenere insieme la partecipazione
dei cattolici al ’68 italiano e la contestazione interna alla Chiesa cattolica [A. Santagata, La contestazione cattolica.
Movimenti, cultura e politica dal Vaticano II al ’68, Roma, Viella, 2016].
3 Il coinvolgimento del mondo cattolico nella stagione del terrorismo italiano è stato studiato storicamente per
la prima volta da Guido Panvini con un lavoro che ha analizzato una questione prima messa in luce solo da
sociologi o politologi ed ha colmato così una lacuna nella storiografia italiana sulla stagione del terrorismo:
G. Panvini, Cattolici e violenza politica. L’altro album di famiglia del terrorismo italiano, Venezia, Marsilio, 2014. Il
coinvolgimento del mondo cattolico nella stagione conclusiva degli anni ’80 è al centro invece del lavoro di
Monica Galfrè, La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo (1980-1987), Roma- Bari, Laterza, 2014.
4 M. Cuminetti, Il dissenso cattolico … cit., pp. 22-23. L’ importanza delle riviste nel dibattito del dissenso cattolico
italiano è riaffermata anche in: C. Adagio, Le riviste del dissenso cattolico, in «Parolechiave», 18, 1998, pp. 119138; D. Saresella, Dal Concilio alla contestazione. Riviste cattoliche negli anni del cambiamento (1958-1968), Brescia,
Morcelliana, 2005, p. 7.
30
nel privato” degli anni ’80; provengono da diverse realtà geografiche; e sono mensili,
quindi con contenuti non dettati da circostanze occasionali, ma meditati5. La vicinanza
tra alcune di queste riviste e la sinistra italiana fu reale, tanto che il PCI e la sinistra indipendente garantirono loro finanziamenti. «Testimonianze», per la sua impostazione
politica e per la grande attenzione riservata al tema del dialogo tra cattolici e comunisti, instaurò legami stabili con intellettuali collegati al PCI toscano che, tramite padre
Balducci, padre della rivista, garantirono, sempre con molta discrezione, finanziamenti alla rivista6. Anche la sinistra indipendente finanziò sia «Testimonianze» che «Idoc»
per il contributo che queste fornivano alla «trasformazione di una notevole frangia
del mondo cattolico verso la sinistra»7. Non ci sono notizie in merito ai finanziamenti
ricevuti dalle altre due riviste, tutte comunque appartenevano alla medesima area del
cattolicesimo progressista e infatti furono legate, oltre che dall’organizzazione di iniziative comuni8, da una spiccata attenzione ai problemi sociali, sia locali che mondiali.
Il Vaticano II e le encicliche Pacem in terris e Populorum progressio incisero molto sull’approccio politico dei cattolici ai temi internazionali, le riviste prese in esame alla fine
degli anni ’60 non si limitarono più a denunciare le situazioni di sfruttamento e di povertà, ma si impegnarono a ricercarne le cause. Lo squilibrio economico tra Nord e Sud
5 «Il Gallo» fu fondata a Genova da un gruppo di laici cattolici nel 1946, iniziò con temi letterari e dopo il Vaticano II si aprì a temi morali e politici. A metà anni ’60 aveva una tiratura di circa tremila copie e ha ritenuto
sempre motivo di merito non godere di finanziamenti esterni [P. Zanini, La rivista Il Gallo: dalla tradizione al
dialogo (1946-1965), Biblioteca francescana, Milano 2012, pp. 194 e ss.]. «Testimonianze» fu fondata da un gruppo di laici guidati da padre Ernesto Balducci nel 1958 e si interessò di tematiche internazionali, intraeccelsiali
e spirituali. Ebbe l’imprimatur della Santa Sede fino al 1966, scelse poi di dedicarsi a tematiche politiche e dal
1969 fu classificata come periodico prevalentemente politico, anche per beneficiare di alcune esenzioni fiscali
[Lettera da Giuseppe Padellaro a Ludovico Grassi, 28 gennaio 1969, Archivio Balducci, Archivio Testimonianze,
1, c.5]. «Testimonianze» stampava circa cinquemila copie ed aveva, nel 1977, duemilacinquecento abbonati
[Preventivo costi 1977, Archivio Balducci, Archivio Testimonianze, 2]. L’esperienza editoriale della rivista «Il
tetto» vide la luce a Napoli nel febbraio del 1964, quando alcuni giovani provenienti della Gioventù Italiana di
Azione Cattolica e dalla Congregazione mariana dei gesuiti di Napoli si sottrassero alla diretta influenza della
Democrazia cristiana e diedero vita ad un’esperienza culturale e politica autonoma fondando la nuova rivista
[M. de Pasquale, G. Dotoli, M. Selvaggio (a cura di), I linguaggi del Sessantotto, Roma, APES, 2008, p. 239]. l
tema religioso infatti rimase sempre quantitativamente dominante. La rivista inoltre si mantenne sempre legata
alla realtà locale di Napoli, sia per quanto riguardò i temi sociali che quelli ecclesiali. «Idoc» era nata da un
gruppo di sacerdoti olandesi negli anni del Vaticano II come bollettino di comunicazione tra i padri conciliari,
nel 1969 divenne rivista con sede Roma e a Milano e nella redazione entrarono alcuni membri della comunità
valdese. Era pubblicata in varie lingue e si proponeva di diffondere documenti provenienti da tutto il modo
della cristianità e di effettuare inchieste sociali e religiose. Fino al 1973 fu quindicinale edito dalla Queriniana
e usciva in circa 3000 copie; in seguito passò alle edizioni Ora Sesta. In generale sul tema si veda: S. Ristuccia
(a cura di), Intellettuali cattolici tra riformismo e dissenso, Milano, Edizioni di comunità, 1975.
6 Lettera di Luciano Martini a Antonio Tatò, 27 maggio 1977, Archivio Balducci, Archivio Testimonianze, 1, c. 10
7 Lettera di Luciano Martini a Antonio Tatò, 8 gennaio 1977, Archivio Balducci, Archivio Testimonianze, 2.
«Idoc» riceveva finanziamenti dalla sinistra indipendente tramite Mario Gozzini [Intervista a Arnaldo Nesti,
già direttore di «Idoc», Firenze 28/01/2016].
8 Le riviste organizzarono iniziative comuni come Opinione pubblica e fenomeno religioso [Cfr. «Idoc», 10, 1972, pp.
1-2].
31
del mondo, come tra le diverse classi sociali nei paesi occidentali, divenne argomento
di studio e le redazioni giunsero ad una prima conclusione comune: le cause della
distribuzione ingiusta delle risorse erano da attribuirsi al sistema capitalista; pertanto,
per raggiungere una maggior giustizia sociale, era necessario mettere in discussione
lo stesso sistema. Tra il 1967 e il 1968 si animò quindi un dibattito sulle vie da perseguire per il cambiamento e le redazioni si divisero al proprio interno tra coloro che
professavano la necessità di una via non violenta senza condizioni e coloro che invece
riconoscevano la possibilità in alcuni casi di una rivoluzione violenta.
Il periodo preso in esame si apre con il 1968 perché momento in cui la contestazione cattolica uscì dalla dimensione puramente ecclesiale e si saldò con la più ampia
protesta studentesca9. Il 1978 invece assume valore periodizzante per due motivi: con
la fine del pontificato di Paolo VI, il dissenso perse il proprio spazio all’interno del
cattolicesimo italiano; inoltre, il sequestro Moro segnò il culmine, sebbene non conclusivo, della stagione del terrorismo, quantomeno nell’immaginario collettivo.
Da un’analisi dei temi presi in esame e dei toni che le riviste utilizzarono nel
parlare della rivoluzione emergono tre momenti che, sebbene talvolta non delimitabili
cronologicamente in modo rigoroso, appaiono ben distinguibili. Una prima fase, intorno al 1968, fu contraddistinta da un fermento culturale e da un proliferare di articoli sul
tema della rivoluzione, che talvolta si spinsero fino alla legittimazione della violenza.
Una seconda fase tra il 1969 e il 1974 di silenzi sulle stragi neofasciste come sui primi
anni del terrorismo di estrema sinistra. Infine, una terza fase tra il 1975 e il 1978 in cui
il tema della violenza legata alla politica tornò oggetto di sparuti e incoerenti articoli.
Prima fase: il 1968 e la legittimazione della violenza
Negli anni ’60 un sommarsi di circostanze economiche, politiche, culturali e religiose creò un rapporto “osmotico” tra Sud America ed Italia e così l’attenzione e il fascino per i paesi del Sud del mondo, in particolare per l’America Latina, crebbero nella
stampa progressista italiana10. L’immaginario dei giovani italiani, in particolare cattolici, fu acceso da due eventi, che parevano proporre due vie nettamente alternative per
la trasformazione della società. L’una via teorizzava il ricorso alla lotta armata ed era
rappresentata dalla rivoluzione cubana di Ernesto Che Guevara e da Camillo Torres,
sacerdote colombiano morto in battaglia a fianco dei guerriglieri; l’altra era la vittoria
elettorale della Democrazia cristiana di Eduardo Frei in Cile che, in un quadro democratico, aveva avviato un percorso di riforma del paese. A questi due modelli antitetici
9 G. Turbanti, Il concilio Vaticano II e l’Italia, in Cristiani d’Italia, Melloni A. (direzione scientifica), vol. I, Roma, Istituto
della Enciclopedia italiana, 2011, pp. 303-315, p.312; A. Santagata, La contestazione cattolica, cit., pp. 187 e ss.
10 Definizione usata da Massimo De Giuseppe, L’altra America: i cattolici italiani e l’America Latina, Brescia,
Morcelliana, 2017, p. 23.
32
corrispondevano posizioni altrettanto divergenti nel cattolicesimo del dissenso, accomunate solo dall’individuare nel sistema capitalista il primo fattore di sopraffazione
nelle società contemporanee. Con tale premessa si insinuò in alcuni cattolici l’idea che
esistessero delle situazioni nelle quali il ricorso alla forza fosse l’unica possibilità per
coloro che volevano opporsi ai soprusi del capitalismo11. La Pro Civitate Christiana
- comunità di Assisi molto attiva nell’organizzazione di eventi religiosi – organizzò
per l’ultimo dell’anno del 1968 un incontro sul tema della violenza con l’obiettivo di
«passare all’aspetto operativo non per emozione o puro idealismo, ma per condizione
maturata e positiva»12. In quei giorni fu condotta un’inchiesta sull’opinione in merito
alla questione della violenza politica nel contesto italiano tra i giovani presenti, circa
1700. Fu chiesto loro se e quando il cristiano dovesse servirsi della forza per cambiare
la società e quasi il 60% degli intervistati rispose che in alcune circostanze, anche in
Italia, poteva essere legittimo ricorrervi13. L’interesse e la simpatia diffusa per l’idea di
rivoluzione erano palesi e infatti le riviste ne trattavano mensilmente.
Le riviste iniziarono ad interrogarsi sul tema della rivoluzione a partire dalle
rivolte antimperialiste nel Sud del mondo. «Il Gallo» ospitò mensilmente una rubrica
intitolata Aspetti del Terzo mondo con approfondimenti sull’America Latina, sull’Africa
e sui paesi in via di sviluppo, e nel 1967 un articolo su Camilo Torres fornì la prima
occasione per una riflessione sulla scelta per un cristiano della guerriglia rivoluzionaria. Secondo «Il Gallo» l’opzione della lotta armata era in contrasto con le istanze più
profonde del Vangelo; tuttavia il caso di Torres era complesso perché la Colombia era
un paese dove la violenza era elevata a sistema, quindi l’interrogativo che l’esperienza
suscitava era: «che fare quando la scelta si pone di fatto tra l’accettazione della sopraffazione delle classi dominanti oppure l’adesione ad una rivoluzione armata di segno
opposto?»14. La redazione de «Il Gallo» non si espresse in favore della lotta armata,
ma criticò anche l’opzione riformista, poiché il sistema imperialista impediva per sua
11 J. Ramos Regidor, Sviluppo dei popoli e rivoluzione, II, in «Aggiornamenti Sociali», 9-10, (1968), p. 588. Si vedano a
titolo di esempio le settimane organizzate sul tema della violenza: La violenza. Atti della Settimana degli Intellettuali
Cattolici Francesi (1-7 febbraio 1967), Roma, AVE, 1968; La violenza dei cristiani. Convegno giovanile universitario,
Assisi, 27-31 dicembre 1968, Assisi, Cittadella, 1969. Si sviluppò in quegli anni il dibattito su quella fu chiamata
Teologia della rivoluzione: cfr. Per una contestualizzazione si vedano A. Santagata, La contestazione cattolica,
cit., pp. 173 e ss.; G. Panvini, Cattolici e violenza politica, cit., pp. 257 e ss.
12 M. L. Algini, La violenza dei cristiani, in «Rocca», 3, (1969), p. 26. Gli atti dell’incontro sono pubblicati in La violenza
dei cristiani, cit...
13 Id. La violenza in una società in trasformazione, in «Rocca», 6, (1969), p. 44-46. Ai partecipanti furono poste alcune
domande, due delle quali risultano significative nell’economia del discorso qui proposto. «L’uso della violenza
ti pare necessario per un sostanziale cambiamento della società?» Il 5% rispose che la violenza era sempre
necessaria; il 27% si espresse per il mai e ben il 62% disse che l’avrebbe ammessa in casi estremi. «Quando ti
pare che il cristiano debba usare la violenza per cambiare la società?». Il 29% degli intervistati rispose che mai
il cristiano avrebbe dovuto ricorrervi, mentre il 31% era del parere che fosse lecito quando era l’unico mezzo
per cambiare la situazione e il 27% che lo fosse quando l’astenersene diventava di fatto complicità con il potere.
14 G. Ardini e G. Bosini, Camilo Torres un preta dell’America Latina, in «Il Gallo», 3, (1967), pp. 15-17
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stessa natura ogni rivoluzione pacifica e rendeva necessaria la rivoluzione popolare15.
Secondo “i galli” (come si firmavano i redattori della rivista) era lo stesso Gesù nel
Vangelo a schierarsi senza ambiguità in favore dei poveri chiedendo di battersi per
la giustizia, senza però fornire indicazioni riguardo i tempi, i metodi o i compagni di
strada da scegliere per portare avanti questa battaglia16. La rivista si schierò quindi per
una «non violenza attiva»: non era infatti possibile scegliere in senso assoluto né la via
pacifista né quella della lotta armata, entrambe potevano essere valutate con coscienza
a seconda delle situazioni17. Per esempio, a proposito dell’America Latina «Il Gallo»
propose una scelta esplicita per «la via pericolosa e rischiosa della rivoluzione»18. Invece per l’Italia la linea indicata dai galli era diversa: l’obiettivo era riformare la democrazia e cercare di coltivare una partecipazione popolare e democratica a tutti i livelli
istituzionali19.
Nel 1967 anche «Testimonianze» aprì la discussione rispetto alle varie strategie
rivoluzionarie. Nell’editoriale del settembre 1967 – presumibilmente condiviso dalla
redazione - la scelta tra violenza e non violenza appariva incerta. La redazione inizialmente riconosceva la necessità di un sovvertimento del sistema economico e politico
dei paesi del Terzo mondo, dove la rivoluzione era definita necessaria, ma nella conclusione affermava una posizione più moderata: le costruzioni sociali realizzate con
la violenza erano «precarie» e alcuni estremismi nei movimenti rivoluzionari erano
«discutibili»20. Sullo stesso numero seguiva una meditazione, altrettanto incerta, di
Ernesto Balducci, I Samaritani, che chiedeva in modo provocatorio come potesse la
Chiesa condannare la violenza delle guerriglie di liberazione quando per secoli aveva
legittimato le guerre combattute per una “causa giusta”.
Se la chiesa fosse davvero povera nella sostanza come nelle specie, essa si
troverebbe sempre, e con spontaneità, dalla parte dei poveri, ed oggi si troverebbe ad essere fermento dei popoli nuovi, che, nel prendere coscienza dei propri
diritti, scelgono come unica via di riscatto possibile la rivoluzione violenta. In che
modo potremmo farci banditori di pace e mitezza ai negri, ai Vietcong, ai guerriglieri di tutto il mondo, noi che in passato abbiamo giustificato le guerre fatte per
una causa giusta? C’è forse una causa più giusta di quella dei negri d’America?21.
15 C. Castellano, In fermento l’America Latina, in «Il Gallo», 10, (1967), pp. 18-20.
16 I galli, I cristiani e lo sviluppo, in «Il Gallo», 7-8,(1968), pp.30-32.
17 Ibidem.
18 Josué de Castro, America Latina: riforma o rivoluzione?, in «Il Gallo», 9, (1970), p. 18
19 A. Giolo, In Italia, oggi, che fare?, in «Il Gallo», 7-8, (1975), p. 19.
20 Editoriale, in «Testimonianze», 97, (1967), pp. 545-550.
21 E. Balducci, I Samaritani, in «Testimonianze», 97, (1967), pp. 551-557.
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È innegabile quindi che in alcuni passaggi di questo numero di «Testimonianze» emergano delle concessioni alla violenza rivoluzionaria22. Se ne accorsero infatti
anche gli stessi lettori e uno di loro criticò l’ambigua linea della rivista scrivendo: «o
si condanna per principio qualsiasi guerra o si condanna solo un certo tipo di guerra
[…] ritornando così al mito della guerra giusta»23. Il tema fu ripreso un anno dopo, nel
marzo del 1968, quando un intero numero fu dedicato al «dilemma politico e spirituale
fra mitezza cristiana e rivoluzione violenta»: qui «Testimonianze» riaffermò la mitezza
come superiore sia sul piano politico che su quello religioso24. Carlo Prandi, sociologo
esperto di America Latina, si rese conto del rischio di trasporre modelli sudamericani
nella realtà italiana: data infatti la grande diffusione dei miti legati alla guerriglia latinoamericana il pericolo era che modelli di lotta contro le dittature venissero adottati
anche in paese democratico come l’Italia25. La redazione di «Testimonianze» quindi
passò da una posizione di ambigua apertura alla lotta armata ad una più chiaramente pacifista, senza mostrare lacerazioni all’interno della redazione. All’interno della
redazione de «Il Tetto» invece il dibattito fu molto acceso. La rivista pubblicò un editoriale dove chiarì già nel 1968 la propria posizione in favore del pacifismo, pur criticando il sistema capitalista26. Giuseppe Merlino, un membro della redazione, criticò
però esplicitamente tale scelta nonviolenta: a suo parere infatti il pacifismo non poteva
considerarsi segno di rottura e di contraddizione, ma solo la scelta della violenza armata poteva incidere sul processo di maturazione delle coscienze. Secondo Merlino
la società borghese era quindi tollerante verso l’azione non violenta, ma impediva il
passaggio dalla libera espressione all’azione concreta27. Dopo gli attacchi di Merlini,
tutti pubblicati su «Il Tetto», la redazione ribadì la propria posizione, riproponendo
il modello di una resistenza mite incarnata nella figura di Cristo28, pertanto Merlino,
trovandosi isolato, non poté che abbandonare la rivista verso una militanza nei gruppi
marxisti-leninisti29.
Nell’ottobre del 1969 uscì a Roma il primo numero della rivista «Idoc Internazionale» che, grazie alla parte della redazione di stanza a Milano, ebbe stretti contatti con
22 G. Panvini, Cattolici e violenza politica, cit., pp. 189-190.
23 Lettera di Gianni Malavolti, in Lettere, in «Testimonianze», 98, (1967), pp. 734-735. Il dibattito proseguì ed
altri lettori chiesero un ulteriore approfondimento alla redazione in seguito all’ambiguità dei due testi citati
del numero 97: E. Turrini, Guerriglia e non violenza, in «Testimonianze», 102, (1968), p.189; R. Prato, L’imperativo
evangelico della pace, in «Testimonianze», 102, (1968), p .191.
24 Editoriale, in «Testimonianze», 102, (1968), p. 97-102.
25 C. Prandi, Chiesa e rivoluzione in America Latina: Camillo Torres, in «Testimonianze», 107, (1968), pp. 603-618.
26 Editoriale, «Il Tetto», 26, (1968), pp.3-7.
27 G. Merlino, Lettera, in «Il Tetto», 27-28, (1968), pp. 81-100.
28 Editoriale, in «Il Tetto», 29-30, (1968), pp. 3-10.
29A. Monasta, Il dissenso cattolico nell’esperienza di quattro riviste …, cit., p. 382.
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alcune personalità come i padri David M. Turoldo e Camillo De Piaz30, Mario Cuminetti e padre Fernando Vittorino Joannes, accusati di organizzare a Milano incontri nei
quali i giovani avanzavano «proposte perniciose di azione rivoluzionaria»31. La rivista
nei primi numeri non si occupò di rivoluzione: solo nell’estate del 1970 i preti guerriglieri fecero il loro ingresso tra le pagine di «Idoc», giudicati come cristiani che sceglievano di vivere l’amore di Cristo tra i poveri fino alle estreme conseguenze, anche
«verso il cammino oscuro della guerriglia»32. «Idoc» affermava senza incertezza che
se un cristiano si fosse trovato in mezzo allo scontro tra due eserciti, uno dei potenti e
l’altro degli oppressi, la fedeltà al Vangelo esigeva la scelta per quello degli oppressi.
Secondo «Idoc» il cristianesimo stesso, se autenticamente vissuto, era fortemente rivoluzionario, ma allo stesso tempo pacifico. La responsabilità della Chiesa era quindi
di promuovere uno sviluppo sociale ed economico senza la violenza delle armi33. Una
scelta per la non violenza quindi, tuttavia, «Idoc» riconosceva anche che il pacifismo
poteva divenire connivenza con il sistema oppressivo e quindi che, in alternativa,
«l’immediatismo rivoluzionario», inteso come rifiuto di ogni forma di mediazione, era
una tentazione esistente nelle coscienze dei cristiani34. Dato che il maggior pericolo era
la volontà dei poteri costituiti di impedire qualsiasi tipo di cambiamento nella società,
in conclusione, «Idoc» affermava che, laddove le vie legali fossero risultate inutili, non
rimaneva che la via delle armi per cambiare l’assetto sociale 35.
In conclusione, fino al 1968 le quattro riviste riconoscevano che laddove il sistema
aveva il volto della violenza, qualora le vie pacifiche si fossero dimostrate inefficaci, l’opzione della violenza rivoluzionaria poteva essere presa in considerazione dai cristiani.
Seconda fase: i silenzi nei primi anni della strategia della tensione (1969-1974)
Mentre il dissenso cattolico si interrogava sulla liceità o meno dell’uso della violenza questa entrò con prepotenza nella storia d’Italia il 12 dicembre del 1969 a Milano
in piazza Fontana. «Il Gallo» fu l’unica delle riviste qui considerate a dedicare, nei giorni
immediatamente successivi, un articolo alla strage giudicandola la dimostrazione della
violenza insita nel sistema36. «Testimonianze» invece né nel numero successivo né in
quelli seguenti fece cenno all’accaduto. Benché la rivista si dedicasse soprattutto a vicen30 M. Maraviglia, David Maria Turoldo. La vita, la testimonianza (1916-1992), Brescia, Morcelliana, 2016.
31 Lettera di Carlo Sbertoli al card. Colombo, 20 novembre 1968, in Corsia dei Servi, Enti e Istituzioni, in Archivio
Card. Colombo.
32 Perché i sacerdoti diventano guerriglieri, in «Idoc», 14, (1970), pp. 5-8.
33 Situazione della “teologia politica”, in «Idoc», 20, (1971), pp. 15-21.
34 Perché i sacerdoti diventano guerriglieri, in «Idoc», 14, (1970), pp. 5-8.
35 Editoriale, in «Idoc», 17, (1970), pp. 3-4.
36 I galli, La strage di Milano, in «Il Gallo», 1, (1970), p. 14.
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de interne alla Chiesa cattolica e si presentasse come mensile di spiritualità, la scelta di
non parlare affatto della strage milanese appare significativa. Soltanto i casi giudiziari
successivi suscitarono alcune riflessioni nella redazione. «Testimonianze» infatti, insieme a numerose altre testate, tra le quali «Il Gallo», scrisse un appello per sostenere che
Giuseppe Pinelli non si era suicidato e che, finché non fosse stata fatta piena luce sui
fatti, gli uffici della questura di Milano erano ritenuti responsabili delle incertezze che
gravavano sugli eventi37. In seguito, l’uccisione di Luigi Calabresi fu liquidata in poche
righe in chiusura di un editoriale nel quale l’omicidio del commissario non fu condannato, ma furono invece criticate le gerarchie ecclesiastiche schierate a fianco dello Stato
poiché la fine della conflittualità da queste auspicata equivaleva a legittimare la ripresa
indisturbata di una “prepotenza occulta” e del disordine costituito38. Anche «Il Tetto»,
rivista ancor più dedicata a riflessioni religiose ed ecclesiastiche, non trattò della strage:
come accadde per «Testimonianze», furono invece le vicende giudiziarie successive a
spingere i redattori a prendere una posizione pubblica e a sottoscrivere una dichiarazione che indicava gli uffici inquirenti come responsabili delle incertezze sul decesso
di Pinelli39. Perfino «Idoc», pur collaborando con alcune personalità milanesi, non fece
alcun riferimento all’accaduto fino al 1973 quando, in un numero dedicato alla città di
Milano, trovò spazio una riflessione sulla strategia della tensione. L’articolo fu affidato a
Camilla Cederna, collaboratrice de «L’Espresso» ed esperta dei temi legati alla strage di
piazza Fontana40. «Idoc» scelse quindi una giornalista marcatamente schierata che difatti
usò parole molto nette. Dopo la strage - scrisse la Cederna - le indagini si erano accanite
contro gli anarchici e la sinistra extraparlamentare, quando il vero responsabile era il
fascismo che, nonostante l’esistenza di una legge che ne vietava il ricostituirsi, era sempre esistito in Italia nel Movimento sociale difeso dalla Democrazia Cristiana. Pertanto,
sosteneva la Cederna nelle pagine di «Idoc», era necessaria una «nuova Resistenza, più
valida di quella degli anni ’40, senza più dimenticanze, compromessi e amnistie»41. Un
tema, quello del collegamento tra lotta armata degli anni Settanta e lotta partigiana, che
ebbe forte eco nei gruppi che decisero di impugnare le armi contro lo Stato42.
37 Manifesto per un processo politico, in «Testimonianze», 127, (1970), p. 668; Lettera di Giuseppe Gozzini, Una
testimonianza su Pinelli, in «Il Gallo», 1, (1970), p. 14.
38 Editoriale, in «Testimonianze», 144, (1972), pp. 241-245.
39 A proposito degli attentati del 12 dicembre 1969, in «Il Tetto», 42, (1970), pp. 350-351.
40 Camilla Cederna aveva pubblicato un’inchiesta sulla morte di Pinelli e nel 1971 era stata tra le principali ispiratrici
della lettera aperta su «L’Espresso» contro il commissario Calabresi. C. Cederna, Colpi di scena e colpi di Karatè,
gli ultimi incredibili sviluppi del caso Pinelli, in «L’Espresso», 13 giugno 1971; Id. Pinelli. Una finestra sulla strage,
Milano, Feltrinelli, 1971.
41 C. Cederna, Dalla trama rossa alla trama nera, in «Idoc», 11-12, (1973), pp. 5-6.
42 Cfr. S. Neri Serneri, Contesti e strategia della violenza e della militarizzazione nella sinistra radicale, in Verso la lotta
armata. La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta, S. Neri Serneri (a cura di), Bologna, Il
Mulino, 2012, p. 43.
37
Intanto nel 1973 con il colpo di stato militare in Cile, appoggiato dalla CIA e
della Democrazia cristiana cilena, nel silenzio della gerarchia cattolica cilena, si infranse per molti la speranza di una via riformista alla rivoluzione43. Quando poi né la Dc
italiana, legata a quella cilena, né la Santa Sede si espressero contro il colpo di Stato
di Pinochet, anche in Italia crebbe il timore di una svolta autoritaria, confermato dalle
notizie dell’esistenza di piani analoghi elaborate negli ambienti militari44. Secondo le
riviste i fatti cileni avevano mostrato che la DC e la Chiesa erano parte di un più ampio
sistema di poteri conservatori, complici del sistema capitalista, che aveva come unico
interesse quello di mantenere lo statu quo45.
Terza fase: il silenzio sul terrorismo rosso (1975-1978)
Tra i rari articoli che si occuparono del tema del terrorismo furono numerosi
quelli di condanna del terrorismo di destra, straordinariamente pochi quelli che affrontarono il problema del terrorismo di sinistra.
«Il Gallo» fu la rivista che, in generale, affrontò l’argomento del terrorismo più
spesso, ma con prese di posizione contrastanti. La rivista mise sullo stesso piano le
morti per incidente stradale, le guerre in Medio Oriente e in Vietnam, la cronaca italiana, perfino i terremoti46; talvolta incolpò della violenza il sistema capitalista, talaltra
la natura dell’uomo47. C’era un’unica certezza: la violenza fascista era più grave delle
altre perché aveva alle spalle poteri capaci di sovvertire il sistema democratico48. Dopo
il 17 novembre del 1977, quando Carlo Castellano, un collaboratore della redazione
storica, fu gambizzato dalle Brigate rosse, la condanna nei confronti dell’azione terroristica divenne più netta e tutta la strategia delle BR fu giudicata sbagliata, dato che
finiva con l’ostacolare coloro che lottavano contro l’oppressione49.
43 Per un approfondimento sul tema si veda: R. Nocera e C. Rolle Cruz (a cura di), Settantatré. Cile e Italia, destini
incrociati, Napoli, Think thanks, 2010.
44 Cfr. S. Neri Serneri, cit., p. 45; molti studi successivi confermarono l’idea di un Italia avamposto della NATO
e teatro di oscure manovre autoritarie cfr. G.M. Ceci, Il terrorismo italiano. Storia di un dibattito, Roma, Carocci,
2013, p. 205.
45 Editoriale, in «Testimonianze», 155, (1973) (chiuso nell’ottobre del 1973), p. 340; Editoriale, in «Il Tetto», 60, (1973),
pp. 495-497; Editoriale, «Idoc», 17-18, (1973), p. 1. Per un’analisi della posizione di «Idoc» a seguito del golpe
cileno cfr. C. Brunetti, La stampa cattolica e il golpe cileno, in R. Nocera e C. Rolle Cruz (a cura di), Settantatré, cit.,
pp. 25-54
46 Editoriale, in «Il Gallo», 9, (1974), p. 1; Editoriale, in «Il Gallo», 4, (1975), p. 1; Editoriale, in «Il Gallo», 5, (1975), p.
1; Editoriale, in «Il Gallo», 10, (1975), p. 1; Editoriale, «Il Gallo», 9, (1976), p.1; Editoriale, 7-8-9, (1977), p.1.
47 Editoriale, in «Il Gallo», 11, (1972), p.1.
48 C. Carozzo, Il fascismo rinasce, in «Il Gallo», 3, (1971), p. 15.
49 I Galli, Sconfiggere la violenza cambiando il Paese, in «Il Gallo», 1, (1978), p. 13.
38
«Testimonianze» non parlò del terrorismo di sinistra: fu infatti deciso in una riunione di redazione del giungo del 1975 che la rivista dovesse occuparsi esclusivamente
del mondo cattolico e dell’atteggiamento dei partiti della sinistra nei confronti di tale
mondo, escludendo altri fatti di attualità nazionale50. Solo in seguito ad una fortuita
coincidenza, Balducci scrisse una breve nota sull’omicidio da parte del neofascista Mario Tuti di due carabinieri a Empoli, perché il giorno prima della strage si trovava nella
città toscana ed aveva conosciuto i due carabinieri uccisi. Nella nota Balducci rigettava
la teoria degli opposti estremismi sostenendo che la violenza fascista non era paragonabile a quella di sinistra:
La violenza è sempre stolta, ma per lo più ha un brandello di motivazioni
ideali o quanto meno passionali che la ricongiungono al quadro della intelligibilità. Ma quella fascista è senza alcun lume di umanità e razionalità. […] Ormai è
chiaro che chi sceglie capitalismo non può più illudersi di dargli un volto umano:
sceglie fascismo. Tra il sì e il no non c’è nulla, voglio dire non c’è più nessuna
menzogna credibile. Neanche la menzogna degli opposti estremismi di cui si era
servita la casta dominante in questi ultimi anni per guadagnare il consenso della
base elettorale51.
Anche Giampaolo Meucci, membro della redazione, sostenne che porre sullo
stesso piano tutti i fenomeni di violenza politica favoriva chi proponeva rassicuranti
restaurazioni. Secondo Meucci la frequenza del ricorso alla violenza politica in Italia
era da addebitarsi al fatto che, in una democrazia giovane come quella italiana, le
classi dirigenti non erano state capaci di slanci di effettivo rinnovamento e non erano
riuscite a dare risposte politiche ferme e coerenti ai bisogni della società, quindi avevano aperto spazi alla violenza52. «Testimonianze» accusò i governanti di aver fomentato,
per incapacità e per interesse, una situazione di tensione politica che invece andava
combattuta senza patteggiamenti. Per opporsi alla violenza era necessario essere tutti
corresponsabili nella difesa, non tanto dell’ordine, quanto della bontà dell’ordine democratico53.
Quando il fenomeno terroristico negli anni ’70 raggiunse livelli inauditi per un
paese occidentale, nel 1975 lo Stato rispose approvando la legge Reale che, tra gli altri
provvedimenti, ampliava la possibilità per le forze dell’ordine di usare armi da fuoco
e di applicare il fermo preventivo. L’emanazione di una legislazione che aumentava
i poteri delle forze dell’ordine fu l’occasione di rinnovate riflessioni da parte delle ri50 Sintesi della riunione di redazione del 22 giugno 1975, Archivio Balducci, Archivio Testimonianze, 2.
51 E. Balducci, Il fascismo e la razza padrona, in «Testimonianze», 12, (1974), pp. 820-822.
52 G. P. Meucci, Violenza e paura, in «Testimonianze», 191, (1977), pp. 40-42.
53 Ibidem.
39
viste sul tema della violenza politica. Il silenzio di fronte ai quotidiani atti di violenza
politica lasciò spazio a dure critiche nei confronti della risposta autoritaria dello Stato.
Nel 1977«Il Tetto» criticò la legislazione speciale e interpretò l’offensiva scatenata dal
governo sulla questione dell’ordine pubblico come una manovra volta a distogliere
l’attenzione dei cittadini dai gravi problemi della crisi economica in atto e dalle manifestazioni criminose, come le stragi fasciste, che vedevano coinvolti i più elevati livelli dello Stato. La rivista giudicò repressive le misure che riducevano lo spazio di
libertà in difesa di una “presunta” legalità54. «Idoc», tra le riviste qui prese in esame,
assunse la posizione più critica nei confronti delle leggi speciali. Iniziò ad analizzare
l’argomento con il caso della Germania dove il governo aveva assunto alcune misure
per arginare il terrorismo di estrema sinistra. Secondo «Idoc» il vero scopo della legge
tedesca, come di quella italiana, era limitare fortemente la libertà di movimento, di
pensiero e di azione politica della sinistra55 ed era la dimostrazione che di fronte alle
richieste di cambiamento lo Stato non era capace di fornire alcuna risposta che non
fosse la repressione56. «Idoc» sembrò giustificare la violenza eversiva, come reazione
all’emarginazione sociale propria del sistema capitalista, e condannare la repressione
violenta dello Stato57.
Quando le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro, presidente del consiglio, la strategia della tensione raggiunse il suo culmine. Il mondo cattolico, anche quello progressista, si divise in un dibattito tra la linea della fermezza e quella della mediazione58. Le
riviste esaminate: «Il Gallo», «Il Tetto» e «Idoc» dedicarono, in modi diversi, spazio alla
vicenda; «Testimonianze» al contrario non ne parlò.
«Il Gallo» non parlò molto del sequestro, ma nell’estate del 1978 dedicò un
quaderno monografico «a tutti i violentati e gli assassinati di questi anni, e alle loro
famiglie»59. Aldo Moro era giudicato come uno dei pochi che era stato capace di capire
che la via delle intese era l’unica per la realizzazione di quella “alternativa” della quale
tanto si parlava; un’alternativa che grazie alla statura politica di Moro poteva essere
raggiunta nel rispetto delle diverse ideologie60. «Il Tetto» parlò della strategia della
tensione e non esitò ad individuarne occulti strateghi: se il Paese si trovava schiacciato
da un’emergenza che assumeva i toni della guerra civile era frutto di una strategia
lanciata da «occulti strateghi della tensione» che «sciaguratamente» era stata raccolta
54 S. Mattone, Sull’ordine pubblico, in «Il Tetto», 83, (1977), pp. 545-554.
55 Grave attacco alla democrazia nella Germania Federale, in «Idoc», 2, (1976), pp. 5-12.
56 F. Tortora, Violenza e crisi dell’utopia, in «Idoc», 9-10, (1977), pp. 1-5.
57 Stato, democrazia e forme politiche della violenza, in «Idoc», 9-10, (1977), p.7.
58 Cfr. G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Bologna, Il Mulino, 2016, pp.363-367.
59 Editoriale, in «Il Gallo», 7-8-9, (1978), p. 1.
60 Ibidem.
40
da un’organizzazione militare «anch’essa occulta, annidata purtroppo (a quanto sembra) in qualche segreto covo dell’ultrasinistra»61. «Idoc» compì la scelta più originale:
il numero del marzo-aprile del 1978 fu dedicato alle questioni economiche italiane,
apparentemente quindi non al tema del sequestro. L’editoriale dava però ragione della
scelta: il terrorismo era considerato come la volontà delle forze conservatrici, legate
a interessi capitalisti, di instaurare un clima di tensione tale da favorire il partito di
governo, la Dc, e impedire così la formazione di un governo in collaborazione con il
PCI anche accettando una sospensione della democrazia62. Secondo «Idoc» i poteri del
capitale ragionavano così: «si può perdere nel Vietnam, si può essere costretti a subire
l’Angola […], ma non è possibile mollare di un centimetro nell’area forte, industrializzata: in America Settentrionale, in Giappone, in Europa Settentrionale»63.
Durante i mesi del sequestro invece «Testimonianze» tacque: era in preparazione
da mesi un numero monografico su Giorgio La Pira, che avrebbe raggruppato i numeri
da aprile a luglio64, e quindi solo nel numero di fine estate, nell’agosto-settembre 1978,
trovò spazio un riferimento a Moro, ma all’interno di un ampio articolo dedicato alla
scomparsa di Paolo VI65. L’articolo si focalizzò sul ruolo del papa, assurto a punto di riferimento per il paese durante i mesi del sequestro, dimostrando di voler cogliere il significato dell’evento per la Chiesa piuttosto che approfondirne le ricadute sulla politica italiana.
Il silenzio della rivista appare però di difficile comprensione sapendo che Balducci non
mancò di prendere posizione durante il sequestro. Fu tra i firmatari di una lettera che
chiese alla BR di rispettare la vita di Moro e allo Stato di non arroccarsi su una difesa «feticista delle proprie prerogative e funzioni»66. In seguito all’uccisione di Moro si schierò
dalla parte dello Stato, in quanto «suprema garanzia dei diritti sui quali si regge in unità
il corpo sociale», ma riconobbe anche che per qualcuno «lo Stato stesso ha il volto della
violenza» e pertanto il suo crollo per costoro non sarebbe stato infausto67.
Conclusioni
Tendenzialmente il dissenso cattolico italiano si schierò in favore dei movimenti
61 Partito armato, stato d’assedio, costituzione, in «Il Tetto», 87, (1978), p. 313.
62 Editoriale, Perché questo numero, in «Idoc», 3-4, (1978), p.
63 Ibidem.
64 Paiano, Balducci, p. 835. «Testimonianze» affrontò una profonda riflessione sull’eredità di Giorgio La Pira:
una figura fondamentale nel movimento cattolico italiano, dalla quale tuttavia era necessario marcare una
discontinuità per differenziarsi da coloro che vi si ponevano in continuità per salvare la tradizione del movimento
cattolico come movimento politico cfr. lettera di Lodovico Grassi a Emma, Firenze 27 febbraio 1978, Archivio
Balducci, Archivio Testimonianze, 1, c.2.
65 Quale papa, in «Testimonianze», 8-9, (1978), pp. 475-477.
66 «Lotta Continua», 19 aprile 1978. Cfr. G. Formigoni, Aldo Moro, cit., p. 363.
67 E. Balducci, Violenza e non violenza dello Stato, in «Bozze», 6, (1978), p. 46.
41
anti imperialisti, in favore di una pace che non equivalesse al mantenimento dello status quo ma fosse il risultato di una liberazione dell’uomo dal sistema capitalista, anche
attraverso una fase di temporanea lotta rivoluzionaria violenta. Si riconobbe che in
alcuni Paesi non esisteva un’alternativa: come in Italia durante la Resistenza era stato necessario imbracciare il fucile contro la dittatura fascista e l’occupazione tedesca,
così in alcuni Paesi era necessario non arretrare di fronte alla scelta della lotta armata.
Se nel 1968 non fu certo un tabù parlare di rivoluzione, quando, già dal 1969, il tema
della violenza politica entrò in maniera prepotente nel dibattito politico e culturale del
Paese le riviste prese in esame iniziarono a tacere sull’argomento e sui fatti di cronaca
legati alla violenza politica. In un decennio, gli anni Settanta, durante il quale la lotta
armata monopolizzò il dibattito politico italiano, le riviste sostanzialmente accantonarono l’argomento e gli articoli che la analizzarono furono pochi e poco approfonditi.
Il silenzio degli anni Settanta è ancora più meritevole di attenzione se si osserva
quanto successe dopo, negli anni Ottanta, quando, come emerge dalla ricerca di Monica Galfré, molti uomini di Chiesa, alcuni dei quali legati alle riviste in esame, ebbero
un ruolo fondamentale nel percorso di dissociazione e pentimento intrapreso da alcuni
terroristi68.
Capire come mai nel decennio del terrorismo le riviste trascurarono la tematica
non è facile, è possibile però avanzare delle ipotesi. Non perdendo di vista i casi di
studio presi in esame, emerge che le riviste furono fucina di elaborazione intellettuale innovativa negli immediati anni del postconcilio, durante i quali poterono vantare
un’identità definita e un ruolo nella società italiana. Il ’68 tuttavia, come sostiene Verucci, segnò una cesura netta nella storia del dissenso cattolico italiano69. Coloro che
si attestavano su posizioni più contestative lasciarono la Chiesa cattolica, altri furono
riassorbiti nell’ortodossia grazie al ruolo ricoperto anche dai neonati movimenti ecclesiali e quindi, schiacciati tra i due estremi, coloro che cercarono di rimanere ancorati
ai temi del dissenso videro ridurre il proprio spazio nella società e persero la propria
carica di originalità intellettuale.
«Il Gallo», che secondo la ricostruzione di Paolo Zanini, aveva già smarrito la
propria singolarità alla conclusione del Vaticano II, negli anni Settanta ripiegò su tematiche religiose. Nella redazione di «Idoc» si palesò la tensione tra coloro che erano più
attenti alle questioni politiche e coloro che cercavano di mantenere maggior spazio per
i temi teologici e pastorali, cioè i sacerdoti come Arnaldo Nesti e Vittorino Ioannes. Il
referendum sul divorzio del 1974 segnò un punto di non ritorno per «Idoc»: l’interesse
per la politica prevalse e ciò provocò l’allontanamento di quei membri della redazione
68 M. Galfrè, La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987, Roma-Bari, Laterza, 2014.
69 G. Verucci, La Chiesa postconciliare, in La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri. Istituzioni, movimenti, culture,
vol. II, t. 2, in Storia dell’Italia repubblicana, Torino, Einaudi, 1994-97, pp. 299-382.
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che cercavano di conservare l’impronta religiosa70. Nel 1966 lo storico direttore de «Il
Tetto» Giorgio Jossa, storico di professione e intellettuale di fama, lasciò il timone della
redazione per divergenze con la linea politica assunta dalla rivista e in critica con le
analisi, a suo avviso troppo superficiali, della guerra in Vietnam; la direzione fu assunta allora da Pasquale Colella, ancora oggi a capo della redazione71. Risulta dai verbali
di redazione che «Testimonianze» negli anni ’70, per mancanza di determinazione e,
talvolta, di preparazione da parte dei redattori, visse un corso «spontaneo», forse si
può tradurre casuale, e padre Balducci, per tacito assenso di tutti, si trovò a «colmare i
vuoti e regolare gli avvicendamenti»72.
Le crisi redazionali, organizzative e intellettuali, che le riviste vissero negli anni
’70, speculari a quelle vissute da tutta l’area del dissenso, rendono comprensibili le
analisi tanto carenti in numero e in qualità del fenomeno del terrorismo.
Per tornare alla domanda iniziale, cioè se sia possibile individuare una prossimità
tra dissenso cattolico e gruppi armati della sinistra italiana, domanda che equivale a
chiedersi se quello del cattolicesimo di sinistra possa essere definito come un «altro album di famiglia» del terrorismo italiano, alcuni hanno dato risposta affermativa. Guido
Panvini per esempio ripercorre le esperienze di prossimità tra cattolicesimo e terrorismo
nel periodo tra il 1960 e il 1980 sostenendo la tesi che «la legittimazione della violenza politica nelle culture cattoliche è stato tema centrale nell’Italia degli anni Sessanta e
Settanta»73. Da un ulteriore studio delle fonti emerge però che il cattolicesimo e le riviste
furono coinvolte nella riflessione sulla violenza attorno al 1968 e di nuovo dal 1978, ma,
nel decennio di mezzo, la teorizzazione della violenza non è riscontrata se non in casi
singoli e la scelta della lotta armata non è individuabile se non in casi isolati all’interno
della cultura cattolica. L’ambigua figura del democristiano Corrado Corghi; la presenza
cattolica nelle esperienze emiliane all’origine delle Brigate Rosse; i preti operai che si
trovarono al fianco degli operai in lotta nelle fabbriche; la vita di alcuni brigatisti trascorsa in oratorio e nelle scuole cattoliche e proseguita magari in Università Cattolica o nel
sindacato della Cisl74. Sono tutti casi che mostrano una prossimità duratura e stabile tra
cattolicesimo di sinistra e i gruppi armati della sinistra, ma sono casi singoli.
Solo negli anni ’80 e solo «Testimoninze», forse soltanto Ernesto Balducci, avanzò un’autocritica sul ruolo avuto nel legittimare alcune scelte violente e nell’accompagnare le scelte di alcuni giovani verso la lotta armata. Di fronte alla sicurezza con
70 Intervista a Arnaldo Nesti, già direttore di «Idoc», Firenze 28/01/2016.
71 A. Monasta, Il dissenso cattolico nell’esperienza di quattro riviste: «Momento», «Note di cultura», «Note e rassegne»,
«Il tetto», cit., p. 381.
72 Relazione del consiglio uscente, 12 marzo 1978, Archivio Balducci, Archivio Testimonianze, 1.
73 G. Panvini, Cattolici e violenza politica, cit., p.9.
74 Cfr. capitoli centrali di G. Panvini, Cattolici e violenza politica, cit., pp.274 e ss.
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cui alcuni, anche di estrazione cattolica, avevano scelto la via delle armi e della rivoluzione violenta anche in un Paese democratico come l’Italia fu mostrato imbarazzo,
quasi un senso di colpa, dopo che per anni sulle proprie pagine «Testimonianze» aveva
giustificato le scelte rivoluzionarie nel Sud del mondo. Forse Balducci fu consapevole
che si era concretizzato nei percorsi personali di alcuni giovani cattolici il pericolo, individuato da Prandi già nel 1968, di un’ingenua trasposizione dei paradigmi contestativi propri del Terzo mondo all’esperienza in Italia. Nel 1983 pubblicò un articolo nel
quale riferiva di un incontro avuto con alcuni genitori di terroristi e in quell’occasione
riconobbe che i condannati spesso primeggiavano a scuola ed erano fin da piccoli impegnati nella vita associativa, anche di tipo parrocchiale, e che ciò che li aveva sempre
distinti dai loro coetanei era stata la passione per gli altri e l’irritazione per le ingiustizie75. Individuava quindi nella loro scelta della lotta armata anche un nucleo iniziale di
generosità e di umanità, una sensibilità peculiare maturata in ambienti cattolici.
Sulla questione si interrogò anche «La Civiltà Cattolica» che nel 1980 negò l’esistenza di un seme religioso della violenza, ma allo stesso tempo riconobbe che in alcuni percorsi individuali di avvicinamento ai gruppi armati aveva potuto influire una
certa visione del Cristo rivoluzionario diffusasi alla fine degli anni Sessanta76.
In conclusione, è innegabile che l’assenza di un’analisi significò una mancata
condanna. Infatti, i rari articoli sull’argomento tesero più a individuare le situazioni
economiche e sociali che avevano causato la nascita del terrorismo in Italia che a condannarlo. Tuttavia, dalla ricognizione condotta in questo lavoro, risulta ugualmente
innegabile che l’assenza di un’analisi non significò di fatto una legittimazione della
violenza in Italia. Se queste riviste giudicarono la lotta armata uno strumento efficace e
giustificato in alcuni paesi del Sud del mondo, mai avanzarono queste conclusioni per
la situazione italiana, nella quale invece riconoscevano che, seppur con innumerevoli
limiti, le regole democratiche funzionavano e che la via da percorrere era quella della
dialettica politica non violenta.
75 E. Balducci, Terroristi, nostri figli?, in «Testimonianze», 256, (1983), pp. 45-47.
76 Editoriale, Cause e responsabilità del terrorismo in Italia, in «La Civiltà Cattolica», 3116, 19 aprile 1980, pp. 105-106.
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Mamma, come si fanno i bambini?
La sessualità invisibile delle figlie (1960-70):
una ricerca di storia orale
dI
chIara melacca
Abstract
La contestazione giovanile del ’68, con i suoi attacchi alla morale borghese, è uno
tsunami che porta con sé la rivoluzione sessuale. In questa ricerca orale si analizzano
gli approcci alla sessualità delle giovani donne italiane negli anni Sessanta e Settanta,
con particolare attenzione al ruolo della figura materna in questo ambito. Il sesso è il
tabù per eccellenza, per cui le madri tendevano a sorvegliare e contenere la condotta
delle proprie figlie, senza peraltro riuscire a formarle sull’argomento, se non superficialmente.
Chiara Melacca, insegnante di lettere.
Premessa
Questo contributo analizza gli approcci alla sessualità delle giovani donne italiane negli anni Sessanta e Settanta, con particolare attenzione al rapporto tra madre e
figlia1. Il sesso era l’argomento tabù per eccellenza nell’Italia moralista del dopoguerra,
pertanto, anche in famiglia, anche in contesti affettivi, era difficile parlarne, preferendo
relegarlo dietro le porte della camera da letto. La rigida educazione delle donne nate
prima della seconda guerra mondiale induceva a sorvegliare e contenere la condotta
delle proprie figlie, senza peraltro riuscire a formarle, se non superficialmente, sull’argomento della sessualità. Le figlie, giovani donne tra gli anni Sessanta e Settanta, al
contrario vissero la così detta “rivoluzione sessuale” post-sessantottina scoprendo
aspetti della sessualità nuovi e liberandosi da molte inibizioni.
1 Questo contributo è frutto del lavoro di ricerca svolto per la tesi magistrale presso l’Università degli Studi di
Firenze, dal titolo Non come mia madre. Modelli femminili nella famiglia italiana. 1960-1970.
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Questo articolo vuole essere un contributo per comprendere se e come si possa
effettivamente parlare di rivoluzione sessuale in Italia, attraverso un confronto tra madri e figlie nella sfera dell’intimità.
Le fonti
Le fonti utilizzate per questa ricerca sono stati quattro diari conservati presso
l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, un diario proveniente da un
archivio privato e ventuno interviste. Le interviste sono state svolte attraverso un questionario di 49 domande. Le prime mirano a collocare il soggetto in base a coordinate
spazio-temporali2 e sociali (anno di nascita, luogo in cui viveva la famiglia, professione
dei genitori, livello d’istruzione, percorso di studi) cui vanno aggiunte le successive in
merito agli orientamenti politici e religiosi della famiglia. Le domande si focalizzano
poi sulle relazioni familiari: fino a che età ha vissuto a casa con i genitori? C’era dialogo in
famiglia? Se non c’era, perché? Di cosa si parlava, cosa era un tabù? C’era scontro? C’erano
restrizioni? Segue una serie di domande volta a ricostruire l’adolescenza e la prima
giovinezza della donna, incentrate sul tempo libero (libertà di movimento, interessi
principali, letture e musica preferita, eventuali viaggi all’estero). Una domanda vuole
indagare eventuali cambiamenti, a livello di crescita personale e rapporti familiari,
in seguito all’ingresso nel mondo del lavoro o dell’università, magari per l’allontanamento dal nucleo familiare. Tra le domande alcune sono più puntuali riguardano la
conoscenza di alcune personalità significative per la cultura giovanile di quegli anni,
per esempio i libri di Jack Kerouac e della Beat Generation; il testo di David Cooper, La
morte della famiglia; Don Milani; queste risposte possono contribuire a chiarire quanto
il soggetto fosse partecipe del “movimento”. A questo punto il focus ritorna sulla famiglia e compare la figura materna: Cosa pensava della famiglia? Della sua famiglia? Cosa
pensava del matrimonio? Qual era la sua idea di donna? L’idea che ne aveva sua madre? Cosa
pensava di sua madre? Pensando al futuro, da ragazza, si immaginava simile o diversa da sua
madre? La domanda sulle prospettive e desideri futuri, separa quest’ultimo gruppo
di domande da un altro incentrato sulla sessualità. Alcune domande riguardano il
rapporto di coppia e convivenza, quindi una serie di quesiti incentrati su alcune esperienze abbastanza “topiche” per il periodo (la comune, i collettivi, sigarette e droghe
leggere o pesanti, il femminismo, le manifestazioni politiche, il movimento del Sessantotto). Si chiede quindi se la madre fosse a conoscenza e approvasse determinate
scelte, se condividesse o meno le sue idee. Infine si affronta il rapporto con la madre
2 Queste informazioni accompagnano sempre le citazioni dalle interviste, attraverso l’indicazione tra parentesi
di luogo e data di nascita; il luogo è indicato attraverso la sigla della provincia, preceduto da “p.” quando non
coincide con la città capoluogo.
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con quesiti specifici: Se il rapporto con il genitore era difficile è migliorato? Se ritiene vi fosse
distanza tra lei e sua madre, tra il suo e il vostro modo di guardare al mondo in cosa la misurerebbe? Era una distanza abissale o minima? Due “domande-specchio” cercano di esemplificare la distanza tra madre e figlia: Cosa lei riteneva inaccettabile mentre per sua madre era
assolutamente normale? Cosa lei riteneva normale mentre per sua madre era assurdo? Chiude
il questionario una domanda sul rapporto della donna intervistata con i propri figli,
con particolare riferimento alle differenze che ella nota rispetto a quello suo con sua
madre. Alcuni questionari hanno ricevuto solo risposte laconiche, in altri casi ho avuto
la fortuna di poter raccogliere delle storie di vita.
Il campione delle donne intervistate non è omogeneo, pochi soggetti sono del
Nord Italia, altrettanti della Toscana, la maggior parte sono meridionali. Ciò è da ricondurre alla mia origine pugliese e alla maggiore facilità nel raggiungere in quelle
zone donne corrispondenti ai criteri anagrafici necessari. A inchiesta conclusa si può
affermare tuttavia che le esperienze esaminate sono così diverse da coprire in modo
soddisfacente la casistica in merito.
Vivere la sessualità: combattere i tabù
Parlare di sesso
Anni Settanta. L’amore come la rivoluzione, così, senza retorica. L’amore come
sesso, perché il corpo liberato diventa prepotente. […] Anni Settanta. Il dovere di dire
di sì, sempre e comunque. E ridere delle madri. Le madri del no, comunque e sempre.
Le madri: un’unica mossa e il gioco è fatto. Le madri: un solo sì nella vita e via il piacere, via il corpo, i pensieri, il tempo, via! Le accarezza i capelli dolcemente. Facciamo
l’amore? L’amore? L’amore non esiste! L’ironia di un sorriso gli consegna un bicchiere
e una sconfitta. Attonito, fruga fra gli anni settanta in cerca di una spiegazione.3
Gli anni Sessanta e Settanta in Italia, come nel resto dell’Occidente, vedono il
dispiegarsi della liberazione sessuale che coinvolge principalmente la donna, la principale vittima delle precedenti pressioni moraliste. Era lei che peccava, lei che perdeva
l’onore, lei che adottava atteggiamenti sconvenienti. Raramente strali simili si appuntavano sulla categoria maschile, che, anzi, tendeva a far propria una doppia morale,
per cui quello che egli desiderava era consentito e anche insistentemente richiesto.4
Nel corso degli anni Sessanta comincia a diffondersi e mettere radici una nuova mentalità riguardo ai comportamenti sessuali. La verginità perde il suo valore assoluto,
soprattutto il sesso comincia a essere considerato parte integrante e necessaria della
relazione di coppia, espressione dell’amore. La pillola anticoncezionale, poi, garanten3 P. Paccini, Viola, Autodafé, Milano, 2011, pp. 52-53.
4 G. Parca, Le italiane si confessano, Firenze, Parenti, 1959.
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do una maggiore copertura rispetto al rischio di gravidanze, rende le donne più sicure,
e libere di vivere la propria sessualità con serenità. Bisogna, però, specificare con Anna
Bravo che «si parlava di sesso più di quanto lo si facesse, meno di quel che si pensava
all’esterno e molto di più di quanto succedeva prima», e che «rivoluzione sessuale non
voleva dire più sesso, voleva dire più libertà di scegliere come, quando, con chi farlo».5
Possiamo affermare che le donne delle regioni meridionali, in particolare quelle
che vivevano in provincia e, tra queste, soprattutto le nate negli anni Quaranta-Cinquanta subiscono un forte condizionamento morale in merito ai costumi sessuali.
Male. Molto rigida l’educazione ricevuta… avevo un blocco a livello psicofisico. Era un tabù... finché non me ne sono andata, finché non ho avuto indipendenza economica… quello mi ha fatta liberare, decidere della mia vita… anche in
quel senso. (Gloria, p. Le, 1952) – Non la vivevo. (Giuseppina, p. Pz, 1949) - Avevamo tutti i tabù di questo mondo... lì l’educazione aveva colpito. Entrambi i genitori erano moralisti. La rivoluzione sessuale arriva con la contestazione, ma non
è che la me la sentissi: non accettavo il libero amore. Ero abbastanza inibita. Con
mio marito fu diverso, eravamo entrambi ragazzi e ci confrontavamo, parlavamo
di tutto. (Angela, Ba, 1950).
Per le nate nel decennio successivo – nel medesimo contesto provinciale - la
situazione non è cambiata, la sessualità continua a essere vissuta “male” o, citando le
nostre intervistate, a non essere vissuta affatto.
In merito alla sessualità allora c’era un tabù nero. Io non ci pensavo: dicevo
sempre che ero piccola. Anche quando poi conobbi mio marito io gli dicevo che
non uscivo così venne lui a casa. (Giorgia, p. Br, 1959) - Male perché me l’avevano
fatta vivere così. Masturbarsi per esempio era una cosa inconcepibile. C’era sempre
la religione in mezzo. Anche delle mestruazioni sono venuta a sapere dalle amiche.
Se ti dicono da bambina di non fare una cosa poi non riesci a viverla bene neanche se lo vuoi. Poi soprattutto tra amici riesci ad allargare gli orizzonti. (Edda, Br,
1961) - Non la vivevo. Mi ero innamorata di un ragazzo vicino casa da piccola, alle
scuole superiori di uno che era sullo stesso pullman, fantasticavo. (Rosaria, p. Le,
1963) - Non la vivevo… in virtù della educazione religiosa che si era un po’ radicata
per credo (sgretolata poi) c’è stato un lungo periodo della vita che pensavo che si
potesse avere un rapporto sessuale solo se si era sposati… poi dopo quest’idea si è
sgretolata ovviamente, quando sono arrivata alle superiori… però ho aspettato di
essere convinta che quella era la persona giusta […] la vivevo bene... con serenità,
purché fossi convinta. (Simona, p. Fi, 1961) - Problema grosso. Ancora oggi ho dei
pudori legati alla mia educazione. A volte veramente stupidi. (Marta, Le, 1962).
5 A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del Sessantotto, Bari, Laterza, 2008, pp. 12;181.
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Per coloro che vivevano nelle città più grandi e in un ambiente culturale più
aperto i toni si fanno più sfumati. Ciò è vero già negli anni Sessanta per città come
Milano e Firenze:
All’inizio come una cosa di cui temere che mi scoprissero, per pudore; non
scoprii il piacere attraverso il sesso, poi ha coinciso. Ogni volta che ho avuto una
storia mi sentivo innamorata e c’era il sesso, non era un problema, ma una cosa
bella. Le donne danno sesso per amore e gli uomini danno amore per il sesso (Danila, 1950); Io su questo argomento son sempre stata tranquilla, ho fatto sempre
quello che sentivo di fare (Beatrice, 1950).
Nella testimonianza di Azzurra (Fi, 1966), che ha vissuto la sua adolescenza alla
fine degli anni Settanta, non sentiamo più tracce di paure e accenti cupi, la mente torna
indietro a quei giorni e sembra captare, tutto sommato, una certa serenità:
Onestamente non male: avevo delle amiche scapatissime, quindi... che mi
hanno insegnato tutto; una che era un anno più piccola di me che era molto avanti
a me... no, devo dire che non ho mai avuto problemi, né per il primo bacio, né per
il primo rapporto… diciamo la vivevo in maniera molto serena... mi sono scoperta le mie cose da sola... si chiedeva: ma a te è successo questo, a me è successo
quest’altro... […] quando si trovava una che l’aveva fatto, s’alzava le mani tutti
come a chiedere.
Si fa strada un certo disincanto in merito al sistema tradizionale dei valori, una
forma di noncuranza per i costumi sessuali praticati e propugnati dalle madri – che,
se non vogliono ascoltare, vengono escluse senza mezzi termini da questa sfera della
vita delle figlie. Nelle regioni meridionali il processo avviene invece più lentamente.
Permane una diffusa disinformazione.6 Il sesso può essere un mito, come un mostro, in ogni caso un’incognita. Le giovani donne nel loro tentativo di scardinamento
hanno bisogno di sostegno, e in assenza di altri appoggi, procedono insieme tenendosi
per mano.
Qualche donna nata in questi contesti di provincia però può avere più fortuna
di altre, e, come per altri aspetti della vita, lo spostamento per studio o lavoro in città
più grandi e in ambienti meno conservatori apre nuove finestre sull’argomento del
sesso. Infatti, alla domanda Come viveva la sua sessualità? Gina (p. Im, 1940) risponde:
6 “Vorrebbero informazioni sulla sessualità, ma per lo più non conoscono neppure i pochissimi che affrontano i
temi del divorzio, dell’aborto, della contraccezione, dell’omosessualità, come l’AIED. […] Osservano avidamente
i corpi e le pratiche della seduzione, su cui famiglia, scuola, media rispettabili tacciono; […] cercano un nuovo
modo di diventare donne procedendo con esitazioni, molti compromessi sul piano dei comportamenti sessuali,
a volte con ribellioni […]” A. Bravo, A colpi di cuore, cit., p. 66.
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“a Milano tranquillamente”. La svolta arriva con l’università anche per Arianna e
Martina.
Benissimo a Firenze. Nell’adolescenza con tutte le incognite, i timori e l’ignoranza del caso. La famosa storia di quando mi son venute le mestruazioni:
cominciai a gridare che avevo sangue... pensavo di star male… mia madre subito
accorse... Il mio babbo non sapeva che dire. C’era la signora che veniva ad aiutare
la mamma a fare le pulizie che mi fa sei diventata una signorina! Che cacchio vuol
dire? Senti a che livello! (Arianna p. Si, 1950)
Ho scoperto la masturbazione molto tardi, quasi ventenne, ma l’ho praticata raramente. Da ragazzina, mi piaceva osservarmi allo specchio ed ero molto
critica. In generale mi trovavo brutta e non mi accettavo, come tante adolescenti.
Mia madre peggiorava le cose, osservando con aria critica i miei brufoli o i miei
peli superflui. […] Quando ero vicina a diventare “signorina”, ricordo che mia
madre mi diede da leggere dei libri che le aveva dato il prete, ma io non ricordo
di averci capito qualcosa, infatti le mestruazioni furono una sgradita sorpresa per
me e credetti di avere qualche male. Meno male che le compagne ne sapevano più
di me. Inoltre, quando dalle stesse compagne seppi che i rapporti sessuali avvenivano regolarmente e non solo per procreare, per me fu uno “shock”. Nessuno mi
aveva detto che l’amore fra due persone era la cosa più bella del mondo e l’atto
sessuale la conseguenza naturale di una unione profonda e meravigliosa. E dire
che i miei si erano sposati per amore. Penso che mia madre, educata dalle suore,
avesse grossi tabù al riguardo, l’ho intuito da molti piccoli particolari, quindi darmi dei libri da leggere per lei era un modo per salvarsi dal parlare di certe cose.
(Martina, p. Rg, 1952).
Le mamme e il sesso: come nascono i bambini?
Probabilmente la madre di Martina era in ottima compagnia, dato che solo due
delle donne intervistate hanno affermato di aver parlato con le madri anche di argomenti inerenti al sesso. Tiziana (Na, 1962) ricorda che ne parlava con la madre, ma per
grandi linee, e le esperienze sessuali erano vissute “con molta attenzione e consapevolezza, leggevamo riviste e libri sull’argomento”.
Viola ci propone un dialogo tra una figlia emancipata e una madre certamente
aperta ma strettamente ancorata ai propri valori, quale quello che poteva realmente
avvenire all’inizio degli anni Settanta tra una madre e una figlia con una certa confidenza, dove il pudore è mascherato dall’ironia.
“Giulia, ma si può sapere che fate, tu e Fiorenzo, tutte le sere?” “Andiamo
in giro.” “Tutte le sere, fino a tardi?” “Con gli amici si fa tardi, a casa dell’uno o
dell’altro.” “Si, ma tutte le sere?” “Beh, poi guardiamo anche le stelle, parliamo”
“E quando non ci sono le stelle?” “Oh, mamma! Scopiamo!” E giù sghignazzi.
50
“Oddio, e se resti incinta?” Il diaframma era volato sul tavolo come un vessillo.
“Con questo non succede.” Ancora sghignazzi. Vostra madre, pallida, lo aveva
guardato con timore. “Ma.. non ti fa male?” “No di certo.” “E cosa ti resterà da
dare all’uomo della tua vita se non sarà Fiorenzo?” Nei suoi ricordi, solo vostro
padre […]. “Qualcosa gli darò.” […] Ma poi vostra madre si era arresa ammettendo che la verginità non era più una cosa così importante come ai suoi tempi e
“meno male”, aveva concluso, “che esiste questo coso […] diaframma […] così voi
bambine non rischiate di restare incinte. Insomma, c’è più libertà, e poi voi siete
così ingenue, in fondo.” Molto in fondo, pensasti.7
Tutte le altre 18 donne sono decisamente più categoriche: con la madre di sesso e
problemi, dubbi, curiosità relativi, non si parlava. Anche per la disposizione di queste,
perché, come osserva Dacia Maraini, «spesso le madri non vogliono vedere la sessualità delle figlie, non la vogliono vedere perché è troppo pericolosa, la devono cancellare,
devono stare lì a tenerla a bada».8 In ogni caso la paura del giudizio era molto forte.
Infatti, spesso, le madri avevano sposato – e ci credevano fermamente – quella morale
che loro stavano rigettando, chi più timidamente, chi meno.
No, neanche dopo il matrimonio. Prima non avevo avuto esperienze. Non
mi ha mai chiesto niente. Lei era fissata con la verginità. Con le amiche si parlava
un po’ degli innamorati. Una volta con un’amica trovammo i giornalini erotici di
mio fratello, li vedevamo di nascosto. Una volta per caso trovai in un cassetto un
giornaletto pornografico sempre di mio fratello. Una amica delle medie aveva i
genitori più giovani dei miei e suo padre aveva i giornali pornografici e lei ce li
faceva vedere. (Rosaria, p. Le, 1963).
Sono, difatti, le amiche le confidenti predilette. Le uniche con cui si parla più o
meno liberamente di sesso e delle paure legate a esso. È questo pure il caso di Alessandra Di Pietro, che nel suo diario racconta il suo percorso di lenta scoperta della
sessualità con la sua compagna di giochi:
Nutrivamo, Lella ed io, verso i segreti del sesso una curiosità scientifica,
che bisognava affrontare con una seria indagine a tutto campo, sia ascoltando i
discorsi degli adulti, sia interrogando apertamente chi ne sapeva più di noi, sia
leggendo libri che parlassero di queste cose; pazientemente mettevamo da parte
le tessere di un puzzle che via, via componevamo […] Ci interessava sapere quello
che accadeva al corpo femminile quando da bambine si diventava donne, sapere
7 Ivi, pp. 62-63.
8 D. Maraini, A. Salvo, S. Vegetti Finzi, Madri e figlie. Ieri e oggi, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 27. “Le madri, senza
neanche volerlo, diventano le aguzzine della sessualità delle figlie e questo non può che renderle nemiche,
quasi sempre è così”.
51
come nascevano i bambini e cosa accadeva fra uomo e donna da fidanzati e poi
da sposati.
Questa scoperta passava anche per le immagini di nudi di un testo illustrato
della Gerusalemme liberata, poi attraverso la visione dei film holliwoodiani, i cui attori
imitavano nei loro giochi:
Nessuna remora ci tratteneva dal mimare gli incontri amorosi e per molto
tempo furono i baci e gli abbracci reciproci i momenti forti del gioco degli innamorati. […] Ormai a quell’epoca ero giunta a sapere proprio tutto e passai le informazioni a tutte le bambine di mia conoscenza, per smania pedagogico-scientifica
e anche per una sorta di amore di verità, nutrendo confusamente sdegno di fronte
a chi, come gli adulti, pretendeva di tenerci all’oscuro di cose reali e importanti
come quelle.9
Alcune eccezioni alle confidenze tra amiche riguardano il fidanzato e le sorelle
maggiori. Alcune – poche a dire il vero – affermano non vi fosse molta intimità nemmeno con le amiche, per cui si discuteva con il proprio lui, oppure ci si informava per
proprio conto.
Non parlavo di dubbi e curiosità assolutamente con mia madre, ma neanche con le amiche.. non c’era tanto spazio per l’amicizia.. semmai con il fidanzato.
(Gloria, p. Le, 1952) - No, ma neanche tra amiche, non c’era quell’intimità. Semmai
mi informavo da sola. (Edda, Br, 1961) - No. Ne parlavo con le amiche, ma nemmeno tanto.. perché io facevo cose più da grande, io che avevo avuto un rapporto
sessuale a 15 anni.. forse a 17 anni ci siamo rimesse in sintonia e ne parlavamo di
più. All’inizio io tendevo molto a vergognarmi, perché pensavo di aver fatto una
cosa sbagliata. Con mia cugina, perché era più grande.. poi frequentavano ragazzi
normali, il mio era anche visibilmente diverso dalla tipologia di ragazzo.. un po’
mi sentivo giudicata. (Marta, Le, 1962) - Con mia sorella. Siamo state cresciute
come gemelle [un anno di differenza], solo con la mia sorella, poco con le amiche.
(Simona, p. Fi, 1961) - No. In caso di dubbi io leggevo, poi col movimento femminista si parlava tra di noi. Rispetto alla media generale mi sono resa conto che ero
abbastanza informata. Leggevo libri sull’argomento. (Beatrice, Fi, 1950).
La maggior parte ricorda di averne discusso sempre fra donne, fra coetanee o
con amiche più grandi, magari con qualche esperienza.
Ne parlavo con le amiche e risolvevo con le enciclopedie… avevo l’enci9 ADN, Alessandra Di Pietro, Ognuno va per la sua strada, pp. 73-74.
52
clopedia medica. Insomma eravamo autodidatte. […] si andava a vedere tutte le
cose nell’enciclopedia […] mi son fatta una cultura personale su certi argomenti
tramite enciclopedia. A Firenze c’era l’AIED, l’Associazione Italiana Educazione
Demografica, con i consultori. E si compravano questi libri. Conosci il tuo corpo...
c’era tutta una letteratura sulla scoperta del proprio corpo. (Arianna, p. Si, 1950).
Una volta mi permisi di accennare alla pancia di una donna incinta e mia
madre mi diede una sonora sberla. Mia madre si allenava con me dandomi sculacciate e nerbate. Parlavo dei ragazzini che frequentavo (all’ACR) di problemi
e curiosità non con mia madre ma con qualche amica più scaltra e con qualche
esperienza. […] Ero ancora immatura per affrontare qualsiasi argomento che trattasse di sessualità. Qualcosa riuscivo a conoscerla su qualche rivista che qualche
collega di lavoro portava. Assolutamente non ne parlavo con mia madre: delle
mestruazioni non sapevo nulla, mi informò mia sorella maggiore quando arrivarono. (Sara, p. Le, 1952).
E, Sara, aggiunge:
Ed anche del concepimento non si parlava mai. Qualcosa mi disse una
giovane vicina di casa: era spaventata dal dolore del parto e si chiedeva da dove
sarebbe uscito il bambino e mi riferì la risposta un po’ maligna della suocera: da
dove è entrato il piacere esce il dolore.
A conferma di questa tendenza a evitare in tutto e per tutto l’argomento, anche
in merito al concepimento, dall’inchiesta emerge che solo tre hanno “scoperto come
si fanno i bambini” a seguito di informazioni da parte della madre, Amalia (Ta, 1952),
Gina (p. Va, 1954) e Tiziana (Na, 1962): “Me ne parlò mia madre quando ero in prima
media”. Rosaria (p. Le, 1963), invece, racconta: “Io chiedevo come ero nata ma mia
madre diceva che mi aveva presa a Roma e mio fratello a Londra. Forse ho capito
come si fanno i bambini da sola, leggendo i libri e le riviste”. Anche Alessandra (p.
So, 1954) ricorda che sia “stata una lenta consapevolezza confermata da letture orientate da insegnanti e centri religiosi”. Poche l’hanno “scoperto” con amiche e vicine
di casa quando frequentavano le elementari, la maggior parte durante gli anni delle
scuole medie e superiori insieme alle compagne, alcune delle quali potevano essere
incinte, come racconta Gloria (p. Le, 1952).
Magda Abbondanza nel suo diario ripercorre la scoperta del concepimento. O
meglio la mancata scoperta in occasione della nascita del nipotino, avvenuta subito
dopo il matrimonio del fratello, a opera della madre, tutta intenta a “tenerla all’oscuro di tutto” e occultare il pancione di sua cognata nelle foto. Ma, ecco, interviene
un’amica:
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Una gentile coetanea più esperta in biologia mi ha illuminato su come i
cavoli non centrino nella regolazione delle nascite sul nostro pianeta. La stessa
cara ragazza mi ha iniziato su come la luna influisce oltre che sulle maree anche
nei nostri cicli mestruali, nel senso che quando a 13 anni il mio corpo ha deciso di
svilupparsi, tutto il rione ne fu al corrente. La causa di questa propaganda: le mie
urla atterrite. Nessuno, prima, si era preso la briga di avvertirmi della funzione
ghiandolare del nostro corpo femminile, che le mestruazioni non sono un male
inguaribile ma un avvenimento necessario se un domani uno vuole avere figlioletti.10
Non sono poche le donne che hanno pensato a mali terribili alla comparsa del
menarca, in quanto prive di qualsiasi forma di informazione utile a comprenderne
forma e senso, come abbiamo avuto modo di apprendere anche da alcune delle nostre
protagoniste:
Non si facevano mai discorsi sul sesso, neanche riguardo le mestruazioni.
Quando io ho avuto le mestruazioni non sapevo che cosa fossero: quando ho visto
quel sangue pensavo fosse venuto quando avevo scavalcato un muretto cosa che
mia madre non voleva facessi perché era una cosa da maschi, […] Andai in bagno
e mi tamponai con l’alcool fino a che mi resi conto che questo sangue non diminuiva e andai da mia madre piangendo dicendo “ho fatto una cosa che non dovevo
fare, ho scavalcato il muretto” “e cosa ti sei fatta?” “Mi son tagliata in mezzo alle
gambe”. Quando le ho detto così lei ha capito. Allora mi ha presa da parte e mi ha
spiegato che non mi dovevo preoccupare, “sei diventata grande”. In quel momento per me era una tragedia, non una cosa bella! E tutte le persone mi facevano gli
auguri e io li ho odiati. (Marta, Lecce, 1962).
La stessa reazione per nulla felice ricorda Anna Rita Perazzoli (p. Ascoli Piceno,
1955):
Dalla scorsa primavera ho notato anch’io dei cambiamenti nel mio corpo di
adolescente. All’inizio mi ero sentita impotente e disperata, poi mi ero rassegnata. “Sei diventata finalmente una donna!” aveva esclamato trionfale papà al mio
primo menarca e io mi ero sentita morire dentro pensando che mi sarebbe stato
impossibile eguagliare mamma [nel] suo atteggiamento contegnoso e che, a pensarci bene, nemmeno lo volevo. Addio cavalcate in sella alla mia Legnano rossa
[…], addio capriole […].11
10 ADN, Magda Abbondanza, Magma, pp. 41-42.
11 ADN, Anna Rita Perazzoli, Volevo essere un pesce, p. 56.
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A Milano, invece, Danila (1950) scopre i misteri del concepimento “in prima media [attraverso le] lezioni di educazione sessuale in classe mista”. Con le madri tutt’al
più si poteva parlare delle relazioni amorose in senso lato, dei ragazzi che si frequentavano. Ma, ancora, sono veramente poche le donne che mettevano a parte le madri
dei propri sentimenti e di eventuali problematiche relazionali, nonché le madri che se
ne informavamo – comprese un paio che leggevano di nascosto i diari delle figlie per
scoprire “gli innamoramenti”.
Parlavo con mia madre dei miei fidanzati quando ci litigavo: lei mi dava
torto. (Danila, Mi, 1950) – […] i ragazzi li vedeva perché venivano a casa o a prendermi. Mi dava consigli, come di farli aspettare e non scendere subito, che io non
seguivo non capendo perché dovessi. (Angela, Ba, 1950).
La prima volta
Dall’inchiesta emerge inoltre che l’età media del primo rapporto sessuale è 19
anni e 3 mesi.12 Colpisce la precisazione di alcune donne: tardi. Ciò può voler significare tardi rispetto alle coetanee e quindi suggerire un’età media per le donne di quegli
anni più bassa. Oppure tale indicazione può essere ricondotta a una forma di condizionamento del presente, in cui l’età al primo rapporto sessuale è inferiore. Sette delle
nostre intervistate indicano che l’uomo con cui hanno avuto le prime esperienze era
colui che poi è diventato il marito13. Per cui i primi rapporti si hanno sia nel corso del
fidanzamento, che a ridosso del matrimonio. Una specifica: “La prima notte di nozze.
Ho subito preso la pillola dal medico curante. Non volevo avere subito figli, per divertirmi e viaggiare, inoltre avevo paura del parto, non ero mai stata in ospedale”. Solo
una delle intervistate ha iniziato ad avere rapporti prima dell’inizio delle scuole superiori, nove durante gli anni di liceo, tre subito dopo e otto durante gli anni dell’università o comunque successivamente, intorno ai 25 anni. Arianna (p. Siena, 1950) ricorda
con noi l’ansia e i tentennamenti riguardo a una decisione così importante:
Sempre a Firenze. Piccoli accenni nell’adolescenza col famoso tipo che veniva da fuori che s’andava in macchina a Siena. Pomiciatine, qualche toccatina. Le
prime esperienze a Firenze. Con un tizio più grande di me con il quale uscivo, c’erano tutti questi tentativi in macchina che io naturalmente ricusavo… mi ricordo
in quel periodo eravamo io e un’altra mia amica che si faceva: che si fa? Si salta il
12 Dal calcolo è stato escluso l’unico caso di 48 anni perché troppo distante dagli altri. Inoltre una donna ha indicato
genericamente “prima dei 18 anni” che è stato inteso come 17, un’altra “all’università” inteso come 22, infine
una “durante il liceo” intesa sempre come 17.
13 Anche Magda Abbondanza ci informa dalle pagine del suo diario che “a 21 e ½ decisi proprio con il futuro
coniuge di dare addio alla mia verginità, che avevo deciso di buttare come una zavorra inutile dalla mia vita.
Ciò avvenne in una mansarda di Porta Romana, dove I. viveva con un cantautore”. ADN, Magma, p. 27.
55
fosso o non si salta? Ma io lo salto! Ma sei sicura? Sì sì saltiamolo! Avevo 21 anni.
Era il momento di saltare sto fosso. E ho cominciato immediatamente a prendere
la pillola.
Anche dal diario di Azzurra abbiamo prova di simili discorsi tra amiche, di
scambi di emozioni, speranze, timori in confidenza. Nel contesto di amori ancora semi-platonici e quasi irraggiungibili (“Sai, non so che darei perché il mio amore fosse
corrisposto, sarebbe bellissimo, stupendo!”) insieme all’attesa dell’amore vero e pieno,
fa capolino il desiderio di esprimerlo anche attraverso il sesso.
E sul fare l’amore, che ne pensi? – Ancora non sono in grado di dare giudizi, di esprimere pareri sul fatto di fare l’amore. Però voglio dirti una cosa: sarei
felicissima di avere un ragazzo e se tutto andasse bene sarei felicissima di fare
l’amore con lui, perché adesso mi sento pronta e abbastanza matura per farlo. […]
Tu cosa nei pensi? – Hai tanta ragione, sai?! […] Sai, me lo ha anche chiesto, ma
non ne ho avuto il coraggio. Io spero che questa paura se ne vada via, sennò sono
finita, penso proprio che non lo farò più. Lui dice che sono scema, perché non
posso riuscire a far tutto, ma non quello, e ha ragione, ma che ci posso fare? […]
se fosse una cosa, non dico seria, ma una cosa normale, come fanno tutti i cristiani
quando stanno insieme, allora si! Ma Dio mio, perché saranno così complicati?14
L’omosessualità, questa sconosciuta
Solo Amalia (Ta, 1952) confessa che all’epoca pensava fosse contro natura. Giorgia (p. Br, 1959) afferma: “Mi dispiaceva, all’inizio mi facevano pena perché pensavo
che nessuno li accettava, allora era una cosa brutta. Non se ne parlava mai, non si
sapeva di molti. In ogni caso non li condannavamo”. In quegli anni si parlava dell’omosessualità forse anche meno del sesso. Giuseppina (p. Pz, 1949), allora “non la conoscevo”. Sara (p. Le, 1952): “Nel nostro modo di pensare questo argomento non esisteva
e quindi non formulavo giudizi. Mia madre non poteva formulare nessun giudizio
perché non sapeva che cosa potesse significare questo termine. Si poteva notare l’effemminatezza di qualcuno, ma finiva lì”. Nelle province meridionali non se ne sentiva
parlare, l’argomento non era oggetto di discussione. “All’epoca non si parlava proprio
di omosessualità. Non so neanche che pensava mia madre. Allora anche se c’era un
omosessuale non lo diceva, era tabù” (Rosaria, p. Le, 1963). Molte figlie non ricordano
di averne mai discusso con le madri. Delle altre, la maggior parte riporta un giudizio
non negativo, una disposizione “senza problemi” nei confronti dell’omosessualità, sia
propria che della madre. Qualcuna ricorda, invece, i pregiudizi della madre, come
Gloria (p. Le, 1952); sia la madre di Angela (Ba, 1950) che di Marta (Le, 1962) pensa14 Archivio personale, Diario di Azzurra, 22 febbraio 1983.
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vano che gli omosessuali fossero malati. La madre di Tiziana (Na, 1962) “pensava che
fossero persone molto sensibili ma li compativa per quello che la vita riservava loro di
umiliazioni e scherno”. Ella riteneva che ognuno fosse libero di amare chi vuole. L’opinione della maggior parte delle intervistate non si discosta molto, spesso legata anche
ad amicizie con giovani gay.
Ne parlavamo tra noi amiche senza mai scadere nella derisione. Nel condominio dove vivevo (dopo gli anni al pensionato) vivevano due ragazzi gay, molto
educati e tranquilli. Erano accettati da tutti ed avevano buoni rapporti con i vicini.
Non mi è mai capitato di frequentare persone intolleranti o aggressive, per cui
l’argomento omosessualità è stato sempre affrontato da me e dai miei amici con
rispetto. (Martina, p. Rg, 1952).
Io avevo un amico, un compagno delle medie gay. […] La cosa non mi ha
mai disturbato perché era mio amico, che mi interessava a me?! Io stavo con lui
a parlare di libri e di musica. Mi ha un po’ deviato fra virgolette: io ho sempre
pensato che si potesse essere amici con un maschio, mentre la maggior parte dei
maschi la pensava diversamente. Per me era facile perché il mio amico era gay,
quindi ero contenta di avere un amico maschio. (Beatrice, Fi, 1950).
Allora l’omosessualità non era un tema diffuso. Gli omosessuali si nascondevano, la società li criminalizzava. Qualche caso era conosciuto all’interno dei
collettivi femministi. (Danila, Mi, 1950).
Pregiudizi mai, tentazioni mai. Ero aiutata dal fatto che avevo amici omosessuali, poi dopo transessuali. (Marta, Le, 1962).
Avevo tanti amici omosessuali, facendo teatro si manifestavano di più, avevo anche delle amiche lesbiche. (Angela, Ba, 1950).
Come si evince abbastanza facilmente l’omosessualità era più conosciuta, anche
attraverso incontri e amicizie, nelle città capoluogo, mentre nei paesini delle stesse
province spesso non si sapeva nemmeno cosa fosse, o, peggio, si considerava ancora
peccato. Per quanto riguarda i pregiudizi delle madri, invece, la distanza Nord-Sud si
riduce, l’opinione personale in merito restando strettamente legata all’apertura mentale, piuttosto che a quella dell’ambiente circostante.
Conclusioni
La relazione madre-figlia negli anni Sessanta e Settanta più che dallo scontro è
dominata dal silenzio. L’indagine condotta smentisce la mia ipotesi di partenza, costellata di urla, porte sbattute e fughe da casa. Questi casi esistono, ma sono la minoranza; facendo più clamore attirano l’attenzione dei più e occupano la scena. Così ho
scoperto che lo scontro c’era, ma non era espresso. Le idee, le aspettative, i sogni erano
57
diversi, distanti, come era inevitabile tra due generazioni separate dalla guerra, dalla
ricostruzione e poi dal Boom economico degli anni Cinquanta e ora da trasformazioni
culturali dilagate attraverso il Sessantotto. Madri e figlie sono quasi sempre due donne
distanti, benché legate da affetto e stima, e questa distanza si può misurare nel silenzio.
O meglio, nei silenzi. Silenzio sui desideri futuri, silenzio sul tempo libero, talvolta
silenzio sulle idee politiche, silenzio sulle opinioni, soprattutto silenzio sulle frequentazioni maschili e sulla sessualità. La maggior parte delle donne intervistate riduce gli
argomenti di dialogo in famiglia alla quotidianità, raramente ci si allarga all’attualità e
alla politica, ancora meno a temi più personali.
Non c’era confidenza con i figli, come le madri non ne avevano avuta con i propri genitori; così questa carenza di dialogo può essere ricondotta all’educazione di
queste mamme che hanno vissuto l’infanzia o adolescenza durante gli anni Trena e la
guerra. L’intimità, specialmente nelle comunità più tradizionali, come nelle province
meridionali, era la sfera più ristretta e, possiamo dire, coincideva con il singolo; ogni
tanto lambiva il coniuge, poco i figli. Così le mestruazioni arrivavano come un fulmine
a ciel sereno nelle vite delle ragazze di allora, e c’era persino chi, come abbiamo letto,
non pensava ci fosse sesso al di fuori dell’atto riproduttivo. Dunque non si parlava
di sesso, perché non “si usava” parlarne, e perché una cappa pesante premeva sulle
madri e non permetteva loro di muoversi agevolmente in questo campo: il pudore.
Pudore ricevuto in dono da un’educazione spesso rigida e trasmesso anche alle figlie,
che confessano sovente di conservarlo ancora oggi, insieme ad altri “lasciti” materni,
nonostante l’adesione convinta a un sistema di valori tutto nuovo.
C’era vergogna, imbarazzo, ignoranza. Le madri delle intervistate sono spesso coetanee delle lettrici di fotoromanzi che studia Gabriella Parca, e certamente condividono
con loro gli stessi dubbi e pregiudizi, le stesse paure e superstizioni, la stessa morale ancora maschilista; una morale che giudicava diversamente a seconda del genere, specchio
di una disparità di trattamento, tutta a svantaggio del sesso debole, perché se all’uomo
era tutto concesso, per la donna era prevista un’attenta e vigile sorveglianza, a difesa
della preziosa virtù.15 Difficile, dunque, intavolare conversazioni su argomenti di cui si
sa poco, meglio soprassedere. Ugualmente difficile accettare o anche solo riconoscere
un costume diverso, moderno. Alcune madri ripropongono allora il mito/spauracchio
della verginità: un’ossessione, dice una delle figlie intervistate. Per via della formazione
cattolica, per via della propria morale conservatrice, per paura e inconsapevolezza.
15 G. Parca, Le italiane si confessano, cit., pp. 9-11. “In questa nostra Italia, fatta dagli uomini e per gli uomini, la
donna è soltanto un ospite. Non le si chiede alcuno sforzo mentale, e in cambio non le si lascia alcuna iniziativa. L’educazione che riceve, non solo in famiglia, ma a scuola, attraverso le letture, il cinema, le trasmissioni
radiofoniche ed ora televisive, è volta a fare di lei un essere complementare: tutta la sua vita è vista in funzione
dell’uomo, a cui deve soprattutto piacere per ottenere una buona sistemazione, ossia il matrimonio. In queste
condizioni è ben difficile che essa possa avere una sua autonomia spirituale con proprie opinioni ed idee, ed è
inevitabile che senta il bisogno di aiuto e consigli”. Ivi, p. 2.
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Le figlie sono cresciute in un contesto differente. Educate secondo il costume
materno, se ne discostano più o meno radicalmente. Non parlano della propria sessualità con le madri perché non trovano orecchie pronte ad accogliere certi discorsi,
ma anche perché sono consapevoli della loro adesione a una morale che rispettano,
sebbene non più condivisa. Così cercano e trovano risposte altrove: nelle amiche, nel
confronto diretto e su un livello paritario con il partner, nei libri e nelle riviste, nei
consultori, come quelli dell’AIED. Il pudore resta, come l’imbarazzo nell’affrontare il
tema: il sesso è ancora per le donne intervistate una questione privata e intima. Nonostante ciò lo si affronta. Dalle interviste emerge anche la maggiore sicurezza e consapevolezza di queste donne; la consapevolezza di sé, dei propri desideri e delle scelte, del
proprio corpo, conquistata lontano dagli occhi delle madri.
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«Il potere nasce dall’erba e dal fucile»
La droga tra consumo e contestazione
nel lungo Sessantotto italiano
dI
marIa elena cantIlena
Abstract
L’articolo analizza come sia cambiato il rapporto tra consumo di massa e contestazione negli «anni del ‘68», concentrandosi sul consumo di droga. Vengono ricostruite le posizioni assunte in merito dai gruppi della nuova sinistra e si presta attenzione
ai significati attribuiti al consumo delle diverse sostanze stupefacenti. Questo dibattito
riflette le trasformazioni intervenute nel modo di intendere la militanza, i bisogni e la
soggettività, consentendo di tracciare continuità e rotture tra il ’68 e il ’77.
Maria Elena Cantilena, Università di Trieste e Udine
Ipotesi per una ricerca
Il presente lavoro intende ricostruire e analizzare il rapporto tra consumo e contestazione giovanile in Italia nel periodo 1966-1976, concentrandosi in particolare sul
consumo di droga1. Sono state ricostruite le posizioni assunte dai principali gruppi
della nuova sinistra e dal filone controculturale in merito al significato da attribuire
a questo consumo per affrontare poi alcune questioni più ampie: come si inserisce il
consumo di droga nell’ambito della più generale crescita dei consumi giovanili del
periodo post bellico? Qual è il rapporto tra la contestazione sessantottesca e consumo
di massa e che significati assume la droga in questo contesto? Come cambia questo
rapporto nell’arco della lunga e peculiare “stagione dei movimenti” italiani?
La storiografia italiana non ha ancora affrontato in modo organico il tema del
consumo di droga2 mentre invece è stato molto dibattuto il rapporto tra l’incremento
1 È difficile fornire una definizione univoca di droga. Nel saggio si farà riferimento alle sostanze il cui consumo
è illegale, senza trattare la complicata situazione di barbiturici e psicofarmaci.
2 Sono recentemente stati pubblicati alcuni contributi, anche se non pienamente storiografici: P. Nencini, La
minaccia stupefacente. Storia politica della droga in Italia, Bologna, Il Mulino, 2017; V. Roghi, Piccola città. Una storia
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dei consumi post-bellici e la formazione di un’identità giovanile. Si possono ricordare
diversi studi che, intrecciando le categorie di genere, generazione e consumi, hanno ricostruito questi processi, individuandone i prodromi negli anni ’50 e ’60, soffermandosi sul retroterra culturale della generazione del ‘683. Non mancano ovviamente i lavori
che hanno indagato la costruzione della categoria di giovani e il rapporto col consumo
in un’ottica di più lungo periodo4 ma ancora molto si potrebbe fare per analizzare il
rapporto, conflittuale e ambivalente, tra «lungo Sessantotto» e consumi. Il ’68 è stato
oggetto di molti studi, che hanno elaborato diverse chiavi interpretative del fenomeno.
Il presente articolo assume quella di «anni del ‘68», formulata da Simone Neri Serneri, che ne ha messo in luce le principali caratteristiche: la mobilitazione sincronica in
diversi contesti nazionali, il carattere generazionale, la vocazione antiautoritaria, la
valorizzazione della soggettività individuale e collettiva, l’intreccio tra connotazione
politica e connotazione culturale della protesta. Neri Serneri sottolinea anche come la
dimensione generazionale e quella transnazionale si alimentarono della circolazione
di interrogativi, idee, valori e pratiche condivisi da un universo giovanile che, nelle diverse realtà nazionali europee, era divenuto un soggetto sociale generazionale, distinto e consapevole di sé5. A mio avviso, è possibile riscontrare tutti questi elementi nella
nascita del “mito psichedelico”, nella sua diffusione transnazionale all’interno della
cultura giovanile, negli interrogativi ad esso correlati su come formulare delle strategie
di consumo alternativo. Non si intende ridurre il “lungo Sessantotto” italiano a solo
processo culturale, ignorando i forti obiettivi politici e i riferimenti marxisti assunti dai
gruppi della contestazione. Si intende piuttosto indagare il loro rapporto con il consumo, che rimanda al rifiuto della società capitalistica, ricordando però quanto anche i
giovani contestatori fossero immersi, per formazione culturale e generazionale, nella
società dei consumi di massa e come ciò abbia innescato dei corti circuito conflittuali.
Come ha sottolineato infatti Angelo Ventrone:
«Il motto capace di esprimere sinteticamente la visione dei protagonisti
della protesta era chiaro: “Cosa vogliamo? Tutto!” che da una parte era coerente
con la logica propria della società consumistica (volere sempre di più), dall’altra
ne era però anche l’esatto rovesciamento. L’invito era infatti a non accontentarcomune di eroina, Bari-Roma, Laterza, 2018.
3 S. Piccone Stella, La prima generazione. Ragazze e ragazzi nel miracolo economico italiano, Milano, Franco Angeli,
1993; P. Ghione, M. Grispigni (a cura di), Giovani prima della rivolta, Roma, Manifestolibri, 1998; D. Giachetti,
Anni Sessanta comincia la danza. Giovani, capelloni, studenti ed estremisti negli anni della contestazione, Pisa, BFS,
2002; Capuzzo P. (a cura di), Genere, generazione e consumi. L’Italia degli anni Sessanta, Milano, Carocci, 2003.
4 M. Canevacci, Ragazzi senza tempo. Immagini, musica, conflitti delle culture giovanili, Genova, Costa & Nolan, 1996;
P. Sorcinelli, A. Varni (a cura di), Il secolo dei giovani. Le nuove generazioni e la storia del Novecento, Donzelli, Roma,
2004.
5 S. Neri Serneri, Gli «anni del ’68 in Europa». Epifania e rivoluzione, in «Contemporanea», 3, 2008, pp. 471-477.
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si solo di quei beni materiali che venivano distribuiti in maniera crescente per
stordire le coscienze, ma di continuare a chiedere fino a pretendere l’impossibile,
ovvero fino a mettere in discussione le basi stesse del sistema6».
Questo rapporto conflittuale e ambivalente è stato già in parte analizzato dalla
storiografia internazionale. Axel Schildt e Detlef Siegfried hanno curato un’opera che
indaga i modi con cui hanno convissuto il marxismo e i consumi giovanili durante il
’68 nei paesi nord europei, delineando il confronto e le influenze reciproche tra cultura
di massa e controcultura7. In Italia, il tema è stato recentemente sollevato da Paolo Capuzzo, il quale, elaborando una panoramica storiografica sui consumi nell’Italia degli
anni Settanta, ha tracciato un profilo delle pratiche alternative di consumo elaborate
dai gruppi controculturali e delle influenze che queste hanno avuto sul mercato generale, suggerendo nuove piste di ricerca8. Date queste premesse, l’articolo si concentrerà sul significato attribuito al consumo di droga, indagando le posizioni assunte dai
diversi gruppi, a partire dal movimento beat fino ai circoli del proletariato giovanile.
Si intende infatti riunire in un’unica narrazione i fermenti in atto nel mondo giovanile
pre-68 fino alle soglie del movimento del ’77, mettendo in luce continuità e differenze,
con l’emersione di un diverso modo di concepire il desiderio e i bisogni, passando dalla critica verso i consumi e lo spreco alla rivendicazione del “diritto al lusso”.
L’Italia alla “scoperta” della droga: dai beat alla controcultura
Bisogna innanzitutto accennare alla difficoltà di fornire dati precisi sul consumo di una sostanza illegale. I parametri usati per quantificare il consumo di droga si
basano sui dati relativi ai sequestri, agli arresti, ai ricoveri nelle strutture pubbliche e
ai decessi. Sfuggono le pratiche di consumo non incappate nelle strutture statali e i
ricoveri nelle cliniche private. In Italia la situazione è resa più complessa dalla mancanza di dati aggregati fino alla fine degli anni Settanta9. Nel periodo precedente, qui
analizzato, le diverse fonti concordano comunque nel registrare un graduale aumento
6 A. Ventrone, Vogliamo tutto. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione. 1960-1988, Milano, Mondadori,
2012, p. 154.
7 A. Schildt, D. Siegfried eds., Between Marx and Coca-Cola. Youth Cultures in Changing European Societies. 1960-1980,
Oxford-New York, Berghahn, 2005.
8 P. Capuzzo, Crisi e trasformazione della società dei consumi negli anni Settanta, in F. Balestracci, C. Papa (a cura di),
L’Italia degli anni Settanta. Narrazioni e interpretazioni a confronto, Soveria Mannelli, Rubbetino, 2019, pp. 189-203.
9 È solo grazie alle disposizioni previste dalla legge 685/1975 che inizieranno infatti ad essere raccolti e aggregati
in report annuali i dati provenienti da Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza e Ministero della Sanità. Si veda:
CNR- Reparto Biostatistica ed Epidemiologia, Istituto Superiore di Sanita; Con la collaborazione della DADDirezione Centrale Antidroga-Ministero dell’Interno, Rapporto droga. Italia 1977-78-79, Pisa, Giardini editori,
1980.
63
del consumo a partire dalla fine degli anni Sessanta, e un cambiamento nella composizione sociale degli assuntori. Si passò infatti da un consumo ridotto di oppiacei e cocaina, diffuso soprattutto tra l’alta borghesia e il mondo dello spettacolo, a un consumo
che assunse dimensioni di “massa” tra i giovani. Tra le sostanze stupefacenti più usate:
cannabis e derivati, allucinogeni, anfetamine10. La droga, inoltre, entrò nel dibattito
pubblico, associata ai fermenti in atto nel mondo giovanile. A partire dall’autunno
1965, la stampa registrò la presenza dei beat per le strade di Roma e di Milano, giovani,
italiani e stranieri di passaggio, che si riunivano nelle piazze e nei pressi delle metro
per stare insieme tra pari, socializzare, esprimere il loro dissenso verso la società, esaltando al contempo uno stile di vita basato sul viaggio avventuroso e a basso costo. La
stampa coniò per loro l’espressione “capelloni”, definendoli come degli “esseri di apparente sesso maschile”, “nemici dell’igiene”, dediti al vizio e al crimine, protagonisti
di “festini a base di orge e droga”, fautori della corruzione dei costumi delle giovani
ragazze. Gli stessi stilemi retorici saranno usati anche per descrivere i contestatori del
’68, aggiungendovi “l’accusa” di essere comunisti11. La droga iniziò quindi ad essere
presente nel dibatto pubblico; i “capelloni” furono indicati come i principali consumatori e “untori” del “contagio” legato al “flagello della droga”12. In questo clima, a
Milano, nel novembre 1966, prese avvio l’esperienza di Mondo Beat, la prima rivista
underground italiana. Il giornale si occupava di pacifismo, ribellione giovanile contro
l’autoritarismo di famiglia, scuola e società, di fughe da casa e disgusto verso il consumismo borghese. Non mancarono però articoli di approfondimento sullo Zen, sulla
beat generation americana e sui fermenti in atto nel mondo giovanile in Italia e all’estero13. Mondo Beat ospitò anche contribuiti di altri due gruppi giovanili milanesi, i Provo
e l’Onda Verde, mostrando una certa consapevolezza sugli obiettivi che la loro protesta
si prefiggeva. Si affermava infatti che la società dei consumi si fosse dimostrata capace
di integrare operai e contadini, rendendoli «difensori del sistema», indicando allora i
giovani come «l’unica forza sociale che agisce realmente per combattere questo sche10 Per l’aspetto medico: Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, Droga e società italiana, Milano, Giuffré,
1974; L. Cancrini, Esperienze di una ricerca sulle tossicomanie giovanili in Italia, Milano, Mondadori, 1973; Id.,
Tossicomanie, Roma, Editori Riuniti, 1980. Sui sequestri, registrati attraverso fonti giornalistiche: E. Catania, P.
Vigorelli, L’ industria della droga, Venezia, Marsilio, 1973; M. Pantaleone, Mafia e droga, Torino, Einaudi, 1979.
11 Per un’analisi della campagna stampa sull’associazione droga-giovani: M. Rusconi, G. Blumir, La droga e il sistema. Cento drogati raccontano. La nuova repressione, Milano, Feltrinelli, 1973; A. Bargellini, B. Macchia, I. Morelli
(a cura di), La droga questa epidemia moderna, Firenze, Libreria editrice fiorentina, 1977; V. Roghi, Piccola città, cit.
12 Un interessante confronto può essere fatto con il caso tedesco, si veda: K. Weinhauer, The End of Certainties: Drug
Consumption and Youth Delinquency in West Germany, in A. Schildt, D. Siegfried eds., Between Marx and Coca-Cola,
cit., pp. 376-397.
13 Vennero pubblicati sette numeri, da novembre 1966 a luglio 1967. I giornali sono integralmente riprodotti in:
G. De Martino, M. Grispigni, I capelloni. Mondo Beat, 1966-1967. Storia, immagini, documenti, Roma, Castelvecchi,
1997.
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ma sociale e i gruppi di potere che lo sostengono»14. Contestualmente, questi giovani
svolsero manifestazioni ed happening provocatori per contestare la guerra in Vietnam
e criticare l’atteggiamento che stampa e polizia italiana adottavano nei loro confronti15. Nella rivista non vi sono articoli espressamente dedicati alla droga ma si esalta
lo stile di vita della beat generation, al quale l’abuso di droghe non era estraneo, e si
guarda con ammirazione ai fermenti in atto nel mondo giovanile americano, dove si
stava diffondendo il mito psichedelico16. Fernanda Pivano ha sicuramente avuto un
ruolo molto importante nel far conoscere al mondo giovanile italiano l’underground
statunitense17. Nel 1967, si cimentò anche nella creazione di Pianeta Fresco18, una rivista
che si ispirava al San Francisco Oracle, nascendo col dichiarato scopo di unire «l’alto
e il basso dell’emisfero underground italiano e americano»19. I temi trattati erano la
non violenza, la libertà di espandere la propria coscienza attraverso l’uso di sostanze
allucinogene e dell’esperienza mistico-religiosa, il tutto presentato con una veste grafica molto raffinata. Le suggestioni sul mito psichedelico arrivavano altresì dal mondo
della musica, anche se in Italia i musicisti mostrarono una certa ritrosia sul tema. I
Rokes, ad esempio, sostenevano di voler introdurre in Italia, attraverso le loro canzoni,
le tematiche del movimento hippy, di cui condividevano tutte le idee, «tranne quella
a proposito della droga, naturalmente»20. Anche in campo medico e intellettuale si discuteva di LSD, dibattendo sulla sua pericolosità. Lo psichiatra Giovanni Jervis, commentando i risultati del famoso Convegno di Londra «Dialetics of Liberation» (15-30
luglio 1967), organizzato da Ronald Laing e David Cooper, sosteneva che, prima di discutere sull’effettiva efficacia del tipo di protesta messa in atto dagli hippie, bisognasse «demistificare i pregiudizi emotivi» legati al loro uso di droghe, con riferimento a
14 M. Daniele, Metodologia provocatoria dell’Onda verde, 1, 1 marzo 1967. Sulle critiche alla società dei consumi e sulla
metodologia di contestazione da adottare, si veda anche: A. Pilati., Di privato non abbiamo più che il gabinetto,
la memoria, l’onanismo e la morte, 2, 15 marzo 1967; L. Cafici, Dalla foglia di fico alla vernice; l’abbigliamento è uno
scherzo inesauribile perché giovane, 4, 31 maggio 1967.
15 S. Casilio, Una generazione d’emergenza. L’Italia della controcultura (1965-1969), Firenze, Le Monnier, 2013; P.
Echaurren, C. Salaris, Controcultura in Italia, 1966-1977. Viaggio nell’underground, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.
16 Cfr. S. Shortall, Psychedelic Drugs and the Problem of Experience, in «Past and Present Supplements», 9, 2014, pp.
187-206; D. Farber, The Intoxicated State/Illegal Nation. Drugs in the Sixties Counterculture, in P. Braunstein, M.W.
Doyle eds., Image Nation. The American Counterculture of the 1960s and ‘70s, New York-London, Routledge, 2002.
17 F. Pivano (a cura di), Poesia degli ultimi americani, Milano, Feltrinelli, 1964; Id., L’ altra America negli anni Sessanta.
Antologia in due volumi, Roma, Officina-Lerici, 1971-1972; Id., Beat hippie yippie. Dall’underground alla controcultura,
Roma, Arcana, 1972; Id., C’era una volta un beat. 10 anni di ricerca alternativa, Roma, Arcana, 1976.
18 Vi collaborano Ettore Sottsass, Allen Ginsberg nella veste di «direttore irresponsabile», Poppi Rocchetti ed
esponenti dei gruppi beat italiani, come il C-13 di Lucca. Ne uscirono solo due numeri, il primo nel dicembre
1967 e il secondo nei primi mesi del 1968.
19 «Pianeta Fresco» si affiliò all’Underground Press Syndicate pubblicando la traduzione di articoli del «San
Francisco Oracle», del «The East Village Other» e del «Village Voice».
20 F. Zampa, Rokes profumati augh!, «Big», n. 39, 27 settembre 1967, cit. in D. Giachetti, Anni sessanta comincia la
danza, cit., p. 107.
65
LSD, marijuana, mescalina, farmaci psichedelici. Jervis riteneva che questi non fossero
dannosi per la salute: «L’unico pericolo veramente serio che comporta l’uso di queste
sostanze è quello di essere messi in carcere per il fatto di tenerle in casa o di farne uso.
Esse possono venire considerate quasi innocue in senso assoluto, e senz’altro innocue
se paragonate all’alcol o al solo tabacco»21.
Mentre si dibatteva sempre più sugli effetti e le potenzialità dello LSD e le immagini della summer of love statunitense facevano il giro del mondo, a Milano Mondo Beat
affittava regolarmente un terreno per dare vita all’esperienza di un campeggio, che si
concludeva con lo sgombero da parte della polizia per ragioni igieniche e con il salasso
economico e la fine del giornale22. Alcuni protagonisti di quell’esperienza dettero però
vita a nuovi esperimenti editoriali, riviste uscite quasi sempre come numeri unici, sulle quali, ai temi precedentemente trattati, si aggiungeva ora in modo esplicito anche
quello delle droghe leggere e allucinogene23. Tra la fine del 1967 e il 1968, iniziarono
i primi esperimenti di editoria underground anche in altre città, come Roma, Lucca,
Torino24 mentre il protagonismo giovanile saliva sempre più alla ribalta, nella veste
però di movimento studentesco. Il rapporto tra questo e i gruppi beat fu difficile, fatto
di continuità e rotture, di una comune dimensione generazionale ma di un diverso
quadro di riferimenti politici. L’esperienza dei beat, numericamente limitata, con il
suo pacifismo integrale e il rifiuto della società che si traduceva “nell’uscire fuori” da
essa, apparve agli studenti come troppo schiacciata su tematiche borghesi, esistenziali
e quindi impolitiche. Silvia Casilio sostiene però che non sarebbe corretto parlare di
un movimento tutto politico ed uno tutto controculturale, perché i due si influenzarono reciprocamente e mostrarono alcuni elementi di continuità. Ne possono essere
un esempio la “presa di parola” in funzione antiautoritaria e il nuovo modo di intendere la partecipazione, concepita come spazio fisico in cui praticare quotidianamente
le esperienze di gruppo, in modo nuovo e diverso dai meccanismi dei partiti e della
associazioni politiche tradizionali25. Nelle parole d’ordine del movimento studentesco
21 G. Jervis., Il congresso di Londra, ‘dialettiche della liberazione’, in «Quaderni Piacentini», n. 32, ottobre 1967, p. 17.
22 S. Casilio, Una generazione d’emergenza, cit.; A. Tonelli, Comizi d’amore. Politica e sentimenti dal ‘68 ai papa boys,
Roma, Carocci, 2007; N. Del Corno, Dai beat ai punk. Dieci anni di controcultura a Milano (1967-1977), in «Clionet»,
1 (2017).
23 «Urlo Beat Milano», 23 luglio 1967; «Grido Beat Milano», 30 settembre 1967; «Urlo e Grido Beat», dicembre
1967; «Parentesi Beat», 1967. Il clima in cui nascono queste riviste è raccontato in un romanzo memorialistico,
in cui si parla anche della circolazione di hashish in questo ambiente. Si veda: S. Ferradini, Fiori chiari. Storia del
movimento beat a Milano, Milano, La Scimmia Verde, 1977.
24 A Brescia: «Pensiero». A Cinesello Balsamo: «Pensiero Beat»; «Stampa Libera»; «Mai». A Torino: «Uomini». A
Monza: «The Beatnik’s»; «Il Ribelle». A Reggio Emilia: «Provo». A Roma: «Provo Capellone», del gruppo Provo
Roma-1. A Lucca: «Noi la pensiamo così… e via»; «Esperienza 2»; prodotte entrambe dal gruppo C13. Per
approfondimenti su questi gruppi di veda: Gallino I. M., 1965-1985. Venti anni di controcultura, Ignazio Maria
Gallino, Milano, 2016, pp. 62-87.
25 S. Casilio, Una generazione d’emergenza, cit., pp. 123-135.
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ed operaio del ’68-’69 non vi è alcun riferimento alla droga ma era presenta la critica
alla società dei consumi, accusata di decidere in anticipo ogni cosa. Elvio Fachinelli
leggeva in questa critica avanzata dai giovani il timore che «la liberazione dal bisogno
sembra avere come sua condizione la rinuncia al desiderio»26, ovvero la paura che
l’offerta della sicurezza implicasse la perdita dell’identità personale. Il desiderio però,
inteso non come possesso ma come ricerca di senso da dare alla propria vita, costituiva la tensione utopica del movimento, la forza necessaria per rifiutare il presente, la
spinta che portava sempre oltre gli obiettivi mantenendo in vita il gruppo. È in questa
tensione tra critica alle sicurezze “castranti” offerte dal consumismo e ricerca di senso
che possono inserirsi le riflessioni sulla droga che i giornali della controcultura iniziarono ad elaborare dai primi anni ’70, nel tentativo di tenere insieme istanze “personali”
ma anche “politiche”.
Il consumo di droga e il suo significato nelle pagine delle riviste controculturali
Dal 1970 si registrò un maggiore sviluppo delle riviste controculturali in Italia,
nelle quali si trattava in modo esplicito il tema della droga. La controcultura italiana si
richiamava a quella straniera ma possedeva al contempo una carica di antagonismo e
politicizzazione maggiore27. Un esempio perfetto di ciò è il mensile Re Nudo, pubblicato dal 1970 al 1980, diretto da Andrea Valcarenghi – già partecipe alle esperienze beat
milanesi e al ’68 studentesco. La rivista dichiarava sin da subito il proprio interesse
per i temi classici della controcultura (musica, mondo giovanile, droga) ma, allo stesso
tempo, sosteneva che la «caratteristica fondamentale per un giornale underground italiano deve essere la denuncia organica delle istituzioni repressive dello stato: fabbrica,
scuola, istituti psichiatrici e carcere»28. Vi si trovano quindi articoli su Black Panthers,
John Sinclair, i Weathermen, la musica rock e gli scrittori dell’underground insieme a
quelli sulle lotte nelle fabbriche, nei quartieri e nelle scuole. Riguardo alla droga poi, il
giornale si proponeva di effettuare una puntuale opera di controinformazione «rispetto alla ricorrente mistificazione e disinformazione operata dai canali d’informazione
tradizionali»29, pubblicando degli articoli sul tema praticamente in ogni numero. L’attenzione che la rivista tributava alle questioni culturali era dettata dalla convinzione
che fosse necessario superare la scissione tra personale e politico, per attuare la «vera
rivoluzione», che doveva essere sia politica che culturale, sostenendo la necessità che
26 E. Facchinelli, Il desiderio dissidente, in «Quaderni Piacentini», 33, febbraio 1968, p. 76.
27 A. Portelli, Dall’americanismo all’altra America: pacifismo, antimperialismo, controculture, in P. Ghione, M. Grispigni
(a cura di), Giovani prima della rivolta, cit., pp. 133-142.
28 Re Nudo?, in «Re Nudo», 1, dicembre 1970, p. 3.
29 Ibidem.
67
«il Mao del marxismo occidentale si faccia crescere i capelli lunghi della controcultura
americana»30. Re Nudo si fece promotore della diffusione della conoscenza della psichedelia americana, dedicando molti articoli a Timothy Leary e alla controinformazione
sugli effetti di Lsd e cannabis31, sostanze considerate uno strumento utile per la liberazione individuale, una via verso l’allargamento della coscienza e il risveglio mistico.
Uno strumento però che può funzionare solo in base all’uso che se ne fa, come viene
spiegato su in un articolo intitolato «Il potere nasce dall’erba e dal fucile», nel quale
si risponde anche alle critiche mosse dai gruppi extraparlamentari, secondo i quali
il consumo di droga è un “atteggiamento borghese” che causa l’indebolimento della
lotta di classe.
La canapa indiana, gli allucinogeni sono parte integrante della controcultura, strumento di liberazione contro le sostanze distruttrici che il sistema ufficialmente o clandestinamente ci propina: alcool, oppio, morfina, eroina, anfetamine.
Strumento di liberazione non vuol dire bacchetta magica, vuol dire che il risultato
che ottieni usando uno strumento è strettamente dipendente dalla tua volontà di
usarlo in un modo piuttosto che in un altro. I compagni quindi che dicono la droga (intendendo l’erba o l’acido) essere di per sé una fuga dalla realtà e quindi antagonista alla lotta di classe, sono tanto “fuori” quanto gli amici che dicono la droga
sia di per sé rivoluzionaria, dandogli appunto la funzione di bacchetta magica32.
La droga inoltre, secondo Re Nudo mostrava gli elementi di contraddizione del
capitalismo, acuiva le tensioni generazionali e metteva in luce il carattere marcatamente di classe delle repressione, dato che essa era consumata ormai da giovani di
ogni classe ma erano soprattutto i proletari ad essere arrestati. Quindi «è certo che
per fare la rivoluzione, non c’è bisogno della droga. Ma la droga può aiutare a fare la
rivoluzione»33. A queste posizioni di apertura verso LSD e cannabis, di cui si chiedeva
la liberalizzazione, corrispondeva una netta contrarietà verso l’uso delle anfetamine,
definite una “droga fascista” perché induceva effetti che portavano a comportamenti
violenti, e dell’eroina, considerata una strumento del capitale per anestetizzare le forze
del proletariato giovanile34. Questa doppia visione sul consumo di droga era condivisa
30 A. Valcarenghi, Underground a pugno chiuso, Arcana, Roma, 1973, p. 117.
31 Nel n.0 c’è un quiz sulla marijuana, vero o falso e spiegazioni delle risposte. Nel n.1 tocca all’LSD. Dedica poi
spazio a Leary, considerato un perseguitato politico a causa della rivoluzione psichedelica che sta conducendo,
e ai Weathermen che lo hanno fatto evadere dal carcere. Nel n. 7 (settembre 1971) ci sono consigli su come
assumere al meglio LSD per garantirsi la buona riuscita del “viaggio”.
32 Il potere nasce dall’erba e dal fucile, «Re Nudo», n. 9, novembre-dicembre 1971, p. 4.
33 A. Valcarenghi, Underground a pugno chiuso, cit., p. 124.
34 Nel n. 8 (ottobre 1971) c’è una tabella in cui si schematizzano gli effetti e i danni delle diverse sostanze, con lo
scopo di denunciare l’informazione errata fornita dai “quotidiani borghesi”. Si insiste molto sulla pericolosità
di anfetamina, barbiturici e tranquillanti che però sono legali e vengono prodotti e distribuiti dalle case
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e riproposta da altri giornali controculturali, che nei primi anni Settanta fiorirono su
tutto il territorio nazionale35. Su questi giornali si può osservare un’attenzione sempre
crescente all’aspetto grafico e un frequente ricorso alle strisce di fumetti, usati per veicolare messaggi politici con un linguaggio semplice e ironico. Una menzione particolare merita il numero 0 di Get Ready (Milano, 1971-1972), impaginato in modo da ricordare uno spinello, coi colori della copertina che richiamano la bandiera americana36. In
questi giornali si trovano molti articoli dedicati alla controinformazione sulle droghe
e all’esperienza psichedelica, mentre crescono anche le guide esplicitamente dedicate
ai vari aspetti della questione, fino ad arrivare ai consigli per l’utilizzo della cannabis
in cucina37. La ricerca di forme alternative di consumo non riguardava solo le droghe
leggere e allucinogene ma investiva anche i modi di viaggiare, fruire la musica38, riappropriarsi del tempo libero. Si tentò l’esperimento delle comuni, dove praticare un
diverso modo di vivere e riscoprire il contatto con la natura39. Si pubblicarono guide
che indicavano un circuito alternativo per viaggiare, dormire, mangiare e acquistare
oggetti artigianali a basso prezzo40. Questa «apparente confusione tra offerte commerciali, consigli pratici, riflessioni sul senso della vita rifletteva un nuovo approccio al
consumo», che «comportava una riclassificazione degli oggetti della vita materiale che
li rendesse funzionali a un’istanza di liberazione e non espressione delle modalità distributive fissate dal complesso industrial-commerciale»41.
farmaceutiche.
35 A tal proposito, si possono ricordare: «Roman High Roma Sotto/Fallo» (Roma, 1971-1973); «P.L.M., Peace, Love,
Musica» (Bologna, 1972); «Cerchio Magico» (Milano, 1973-1975); «Paria» (Viganello, 1971-1975); «Il Buco» (Bari,
1974-1975). Quasi tutti i giornali citati nell’articolo sono stati reperiti presso il Centro di Documentazione di
Pistoia, l’Archivio Storico il Sessantotto di Firenze, la Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma.
36 «Get Ready. Periodico fatto a mano», n. 0, s.d. [ma dopo ottobre 1971]. Anche il n. 1 ha la stessa forma ma una
diversa grafica e non raggiunge lo stesso impatto visivo. In entrambi i numeri sono presenti articoli su musica
e droga.
37 Si vedano: i Dossier di Stampa Alternativa, 1973, da n. 0 a n. 6 e Superdroga 1973; … Ma l’amore mio non muore.
Origini documenti strategie della “cultura alternativa” e dell’”underground” in Italia, Roma, Arcana, 1971, pp. 91-135;
Le droghe & il loro abuso, Roma, Savelli, 1976; Stampa Alternativa (a cura di), Guida ragionata agli allucinogeni,
Roma, Savelli, 1978.
38 J. Tomatis, Storia culturale della canzone italiana, Milano, Il saggiatore, 2019, pp. 467-495.
39 Comune agricola. Un manuale d’uso per vivere in campagna, Roma, Savelli, 1978; Marilena Moretti, La rivoluzione
non è una cosa seria, 2006, documentario autobiografico sulla comune nella cascina a Ponte a Egola 1971-1972.
40 Andare in India, Roma, La nuova sinistra, 1974; Stampa Alternativa (a cura di), Andare in Oriente, Roma, Savelli,
1976; Id., Andare a Londra, Roma, Savelli, 1977; Id., Andare a Parigi, Roma, Savelli, 1977; Id., Andare ad Amsterdam,
Roma, Savelli, 1977; Guida al consumo alternativo, Roma, Savelli, 1978.
41 P. Capuzzo, Crisi e trasformazione della società dei consumi negli anni Settanta, cit., p. 202.
69
La droga e il confine tra lecito e illecito: un dibattito su depenalizzazione e liberalizzazione
I consumatori di sostanze stupefacenti dovevano fare i conti con l’illegalità del
loro consumo, indipendentemente dal significato che vi attribuivano, dal tipo di sostanza usata e dal grado di assuefazione. Alcuni gruppi si impegnarono allora attivamente per cercare di spostare il confine tra lecito e illecito. L’area controculturale, ad
esempio, iniziò non solo a fare controinformazione sugli effetti degli stupefacenti, ma
anche ad organizzare gruppi specifici ed eventi dedicati al contrasto della normativa
vigente. La legge 1041/1954, infatti, non prevedeva alcuna differenza tra le diverse sostanze e puniva spacciatori, tossicomani e consumatori in egual modo, con un periodo
di reclusione dai 3 ai 15 anni42. Fu allora fondato il SIMA, un gruppo che si occupava
di fornire assistenza medico-legale gratuita ai consumatori e tossicodipendenti in difficoltà, le cui attività furono spesso e ampiamente pubblicizzate da Stampa Alternativa,
Re Nudo, Fallo43. Inoltre, inserendosi nel più ampio dibattito pubblico e politico in merito ad un rinnovamento legislativo, Re Nudo e Stampa Alternativa riuscirono a organizzare, insieme al Partito Radicale, il «I Congresso nazionale Libertà e Droga (Roma,
giugno 1973)». Le posizioni degli organizzatori si indirizzavano verso la richiesta di
una liberalizzazione delle droghe leggere (includendovi anche gli allucinogeni). L’organizzazione del Convegno metteva però sapientemente l’accento soprattutto sui limiti da superare, sia rispetto alla legislazione vigente che alla proposta di legge avanzata
per sostituirla, la cosiddetta Gaspari-Gonella, riuscendo in questo modo a coinvolgere
importanti figure del panorama nazionale, medici, giuristi e politici di schieramenti
diversi, garantendo una partecipazione e un’attenzione più ampia che superasse la
sola area controculturale o radicale44.
Nel frattempo, il crescente consumo di eroina faceva registrare un primo decesso nel 1973. L’urgenza di dotarsi di nuovi strumenti per contrastare il nascente fenomeno acuiva le tensioni tra i vari gruppi della nuova sinistra. La controcultura e i gruppi
nati dal ’68 come Potere Operaio, Avanguardia Operaia, e Lotta Continua condividevano molti temi politici ma li declinavano in modo diverso. I gruppi liquidavano molte questioni poste da Re Nudo come “problematicismo piccolo borghese”45, di matrice
42 Legge 22 ottobre 1954, n. 1041. Disciplina della produzione, del commercio e dell’impiego degli stupefacenti,
in «Gazzetta Ufficiale», Serie Generale n. 260 del 12-11-1954, art. 6.
43 Cfr. N. Del Corno, Dai beat ai punk, cit.; I.M. Gallino, 1965-1985. Venti anni di controcultura, cit.
44 Gli estratti degli atti del convegno sono presenti in: Stampa Alternativa, I Congresso Nazionale Libertà e Droga,
Roma 23-24 giugno 1973, Dossier n. 3. Cfr. Dossier di Stampa Alternativa 1973, da n. 0 a n. 6, i bollettini e i
supplementi, esempi di controinformazione sulle droghe, conservati presso il Centro di Documentazione di
Pistoia.
45 A. Valcarenghi, Underground a pugno chiuso, Arcana, Roma, 1973, p. 79.
70
esistenziale, e avevano un atteggiamento moralistico sulla questione delle droghe leggere, «guardate con sospetto, perché considerate legate alla ricerca dell’evasione da un
impegno politico totalizzante e perché rappresentavano un possibile strumento che la
polizia avrebbe potuto usare per screditare l’organizzazione»46. La questione era stata
affrontata esplicitamente in un articolo di Potere Operaio del 1972, in cui si ironizzava
sulla rivoluzione psichedelica, con il suo partire da sé, dal cambiamento interiore come
mezzo per liberarsi dallo sfruttamento, sostenendo che la riappropriazione proletaria
necessitasse di ben altre armi47. La crescita del consumo di eroina e la sua diffusione
tra i militanti preoccupava però tutti ed era denunciata, sui diversi giornali, come una
strategia messa in atto dal capitalismo per distruggere le forze rivoluzionarie. Andando più in profondità nelle analisi sulle cause della sua diffusione e sulle strategie da
mettere in campo per contrastarla emergevano però posizioni divergenti. Nel 1975,
Silviero Corvisiero, dirigente di Avanguardia Operaia e direttore del Quotidiano dei
lavoratori esprimeva la propria contrarietà al consumo di droga in questi termini: «Bisogna opporsi a qualsiasi strumento di evasione, a tutto quello che induce a ripiegare
su piani individuali, sia una sigaretta di marijuana, un litro di grappa o una superstizione religiosa» e definiva l’LSD «una aberrazione ideologica»48, perché la coscienza di
sé non può essere acquisita attraverso stimolazione chimiche. Allo stesso tempo, però,
AO sembrava prendere atto del fatto che ormai il consumo di hashish fosse diffuso
anche tra i suoi militanti perché fondò, insieme al Movimento Lavoratori per il Socialismo e al PdUP, il Comitato Nazionale Antidroga49. Vi aderirono anche personalità
come Natalia Aspesi, Corrado Stajano, Ernesto Balducci, il vicedirettore dell’ospedale
psichiatrico «G. Antonini» Alberto Madeddu. Il Comitato chiedeva la depenalizzazione di hashish e marijuana ma una “guerra senza quartiere” a tutte le altre droghe, compresi gli allucinogeni. Depenalizzazione che non implicava automaticamente l’accettazione del suo consumo, come dimostrava la posizione di Corvisiero, ma era sentita
come necessaria per evitare la criminalizzazione del movimento attraverso gli arresti
per droga. Lo scontro tra liberalizzazione e depenalizzazione delle droghe leggere sottendeva anche a due diversi modi di intendere la militanza. Da Re Nudo replicarono
infatti che la costituzione del Comitato: «È il modo più subdolo per colpire la cultura
giovanile, che è sì erba e fumo, ma anche femminismo, lotte di liberazione sessuale,
immaginazione al potere. A partire dalla droga vogliono colpire il movimento»50.
46 Testimonianza di Andrea Barzini in in A. Ventrone, Vogliamo tutto, cit., p. 164-165.
47 Utopie del capitale, in «Potere Operaio», 47-48, 20 maggio-20 giugno 1972, p. 39.
48 S. Corvisiero cit. in L. Ravera, Droga: questa polemica sa d’acido, in «Muzak», 8, dicembre 1975, p. 14.
49 “No alla droga arma della borghesia!”, in «Fronte Popolare», 12 ottobre 1975.
50 L. Ravera, Droga, cit.
71
Lotta Continua parve assumere una posizione defilata rispetto a questo scontro,
sostenendo che «il problema non è contrapporre militanza e distrazione, impegno ed
evasione, ma fare in modo che di nuovo la politica, lo studio, la voglia di cambiare
il mondo, sappiano dare un senso e una risposta a tutta la confusione e il senso di
mancanza di tanti strati giovanili»51. LC non aderì al Comitato Antidroga e si trovò ad
affrontare una trasformazione interna sul tema. Dall’iniziale contrarietà verso il consumo di droghe leggere, iniziò a mettere in discussione questa posizione, soprattutto
dopo le dichiarazioni del suo dirigente Mauro Rostagno. Nel 1975 egli sostenne infatti
che consumo di cannabis e impegno militante non fossero incompatibili, arrivando a
chiedere la liberalizzazione delle droghe leggere, anche come strumento per combattere la diffusione di quelle pesanti52. Il quotidiano Lotta Continua si trovò, del resto,
ad essere terreno di un vivace scambio di opinioni tra militanti attraverso le pagine
dedicate alla posta dei lettori53.
Il dibattito sui confini tra lecito e illecito stimola una serie di considerazioni.
Gli stupefacenti sono stati generalmente presentati come “paradisi artificiali”, fonte
di illusione e tossicità. È interessante notare come la controcultura capovolga completamente questa logica, senza distruggerla del tutto, presentando la società capitalista
come tossica, inautentica e pericolosa – non è infrequente leggere nei suoi giornali
espressioni come “la droga della televisione, la droga del consumo” – mentre le sostanze psichedeliche sarebbero quelle che consentono di accedere a una condizione
di liberazione e di autenticità. Nel corso della storia, il confine tra lecito e illecito è
continuamente rinegoziato, come dimostra l’esperienza di sostanze ritenute inizialmente illecite e poi accettate, o viceversa, e ciò si lega strettamente anche alle forme
di socializzazione che si creano intorno al loro consumo54. Come sottolineato da Sarah
Shortall, la retorica della droga erige i “confini tra naturale e artificiale”. Le droghe
però possono rientrare in entrambi i fronti di questo “confine”, quindi possono servire anche a scardinarlo. Questo può spiegare perché le droghe polarizzano i dibattiti
ma sono anche flessibili nella capacità di acquistare un ampio spettro di significati
culturali. I discorsi sulla droga così non riflettono solo i contesti storici e culturali nei
51 Ibidem.
52 M. Rostagno, Non c’è da scegliere tra due strade; e se si dovesse io non dubito che le sceglierei entrambe (Gregory Corso), in
«Re Nudo», 35, anno V, ottobre [1975], pp. 8-9. Le sue parole innescarono una polemica con Corvisieri riassunta
in «Re Nudo», 36, anno V, novembre [1975] pp. 8-10.
53 Care compagne, cari compagni. Lettere a Lotta Continua, Roma, Cooperativa giornalisti Lotta continua, 1978.
54 D. Musto, The American Disease. Origins of Narcotic Control, New Heaven and London, Yale University Press,
1973; H.W. Morgan, Drugs in America. A Social History, 1800-1980, New York, Syracuse University Press, 1981;
J. Goodman, P.E. Lovejoy, A. Sherratt eds, Consuming Habits. Global and Historical Perspectives on How Cultures
Define Drugs, London-New York, Routledge, 1995; W. Schivelbusch, Storia dei generi voluttuari. Spezie, caffe,
cioccolato, tabacco, alcol e altre droghe, Milano, B. Mondadori, 1999.
72
quali vengono consumate ma contribuiscono anche a plasmarli55. Nel nostro caso, la
controinformazione sulle droghe e l’allarme sull’eroina lanciato dalla nuova sinistra
contribuirono a trasformare la sensibilità sul tema, inserendosi nel più ampio dibattito
pubblico, cui partecipavano politici, medici, cattolici, giornalisti, associazioni di varia
natura. Ed è in questo clima che venne formulata la nuova legge, la 685/1975, che considerava il consumo di droga non solo nella sua dimensione criminale ma anche come
problema socio-sanitario, affiancando l’approccio curativo a quello repressivo56.
«Le panchine hanno ormai i colori dei nostri jeans»: eroina e proletariato giovanile
La crescente diffusione di eroina costituiva motivo di grande preoccupazione
per la nuova sinistra e si inscriveva in un momento di ripensamento, tra spinte verso
“l’istituzionalizzazione”, con la creazione di cartelli elettorali, e l’insorgere di una crisi della militanza. Su questa influiva anche l’insoddisfazione per la scarsa attenzione
che i gruppi avevano riservato a tematiche ritenute personali. Il femminismo affermò
invece la politicità del corpo e introdusse nuove pratiche, come il separatismo e l’autocoscienza. I suoi rapporti con la nuova sinistra nel periodo 1972-1976 oscillarono da
una sostanziale indifferenza da parte dei gruppi ad un «intempestivo riconoscimento
politico», passando per fasi di intensa conflittualità57. L’approccio proposto dal femminismo, del personale che diventa politico, fu ripreso e rielaborato anche da un altro
soggetto, il proletariato giovanile. L’espressione era usata da Re Nudo sin dal 1971, per
indicare genericamente i giovani militanti interessati alle comuni, alle droghe leggere,
alla musica come spazio di comunicazione. A partire dalla fine del 1975, invece, proletariato giovanile iniziò ad indicare una generazione di giovani militanti diversi da
quelli del ’68, per estrazione sociale e prospettive occupazionali. Esso era composto in
maggioranza dai “non garantiti”, operai e apprendisti di piccole officine, disoccupati,
studenti, studenti lavoratori, abitanti delle periferie, soggetti ai quali la crisi economica sembrava prospettare precarietà e sottoccupazione. «Le panchine hanno ormai i
colori dei nostri jeans» scrivono i giovani di Limbiate, lamentando la stanchezza della
vita nella periferia urbana che non offre niente. C’era la sede di Lotta Continua ma
«era troppo stretta», «se ti trovavi lì dovevi subirti le menate moralistiche». Si veniva
55 S. Shortall, Psychedelic Drugs and the Problem of Experience, cit.
56 Legge 22 dicembre 1975, n. 685. Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e
riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, in «Gazzetta Ufficiale», Serie Generale n. 342 del 30-12-1975.
57 P. Stelliferi, “Una originaria, irriducibile asimmetria”. Il rapporto della nuova sinistra con i femminismi in Italia (19721976), in «Italia contemporanea», 287, 2018, pp. 15-43. Per un inquadramento sul rapporto femminismo-nuova
sinistra, si vedano anche: E. Petricola, Parole da cercare, in Bertilotti T., Scattigno A. (a cura di), Il femminismo degli
anni Settanta, Roma, Viella, 2005, pp. 199-224; Voli S., Quando il privato diventa politico. Lotta Continua 1968-1976,
Roma, Edizioni Associate, 2006.
73
cacciati dai pochi bar aperti della zona perché si era «capelloni, drogati, ma soprattutto perché si ‘consumava’ poco». Nell’hinterland milanese iniziarono allora ad essere
occupati degli immobili vuoti, creando così i primi circoli del proletariato giovanile58.
Dai loro documenti emerge la stanchezza verso una militanza intesa «come sacrificio,
impegno, grigio efficientismo» e la richiesta di una «politica come svago, piacere,
liberazione»59. Organizzarono allora feste cittadine60, autoriduzioni dei biglietti dei
cinema di prima visione, espropri, spese proletarie. Uno dei temi più sentiti era quello
dell’eroina, che si cercava di contrastare organizzando assemblee per «costruire insieme anche a chi si buca un’alternativa di vita e non di morte». Il consumo di cannabis
era invece considerato «un’occasione, uno strumento collettivo, un modo diverso di
stare insieme, uno strumento per recuperare la tua fantasia»61. Fumare tra amici era
descritto dunque come un «rito di comunicazione collettiva», paragonandolo al rapporto che avevano i vecchi proletari con l’osteria. Si negava l’idea che l’erba portasse
alle droghe pesanti ma si combatteva anche la cosiddetta “ideologia del fumo”, intesa come evasione totale, come fine e non come mezzo. Per il proletariato giovanile,
nei casi in cui si verificava effettivamente il passaggio dal fumo al buco, questo doveva essere considerato come «un fenomeno complesso di disperazione, impotenza,
mancanza di alternative», senza cercare la motivazione solo negli effetti intrinsechi
delle sostanze. L’eroina è definita «ideologia della disperazione, scelta – più o meno
cosciente – di autodistruzione invece che di lotta, causata dalle condizioni materiali
e culturali della disaggregazione dei giovani»62. I circoli si posero il problema dei rapporti tra militanti e giovani che si bucano, partendo da un assunto chiave: i militanti
devono rifiutarsi di etichettare, separare, emarginare nuovamente chi si buca, «per
noi non ci sono drogati»63.
Cosa fare con i “compagni che si bucano” era un problema sentito con molta
urgenza da tutti ed è anche uno dei terreni su cui si consumò lo scontro durante il Festival Pop organizzato da Re Nudo a Parco Lambro nel giugno 1976. Durante il raduno,
pensato come la grande festa del proletariato giovanile, si verificano espropri per il
cibo (all’esterno e all’interno del Festival), tensioni con gli omosessuali, aggressioni a
58 Sarà un risotto che vi seppellirà. Materiali di lotta dei circoli proletari giovanili di Milano, Squi/libri, Milano, 1977, pp.
16-18.
59 M. Monicelli, L’ultrasinistra in Italia. 1968-1978, Roma-Bari, Laterza, 1978, p. 89.
60 Il 22 febbraio c’è una festa da ballo in piazza della Scala. Il 21 marzo c’è un raduno intorno al Castello sforzesco.
Il 25 settembre i circoli organizzano una caccia al tesoro (mezz’etto di erba), concepita come occasione culturale
e provocatoria contro la legge che punisce chi fa uso di droghe leggere. Cfr. P. Echaurren, C. Salaris, Dieci anni
di controcultura, cit.
61 Sarà un risotto che vi seppellirà, cit., pp. 23-24.
62 Ivi, pp. 25.
63 Ivi, p. 26.
74
spacciatori ed eroinomani. La linea generale da seguire sarebbe dovuta essere quella
di allontanare gli spacciatori ma non gli eroinomani. Uno di loro lamentò però di essere stato sprangato. Davanti ad una telecamera si svolse allora un intenso scambio di
battute tra quanti condannavano l’aggressione e chi accusava invece l’eroinomane di
essere una minaccia per il movimento. Alcuni sostenevano che non bisognasse giudicare ma aiutare i compagni che bucano, altri controbattevano ricordando che chi buca
è anche disposto a spacciare, se in stato di necessità, e va quindi allontanato «prima che
rovini altra gente»64. La questione era evidentemente spinosa anche perché nonostante
l’introduzione di una nuova legge sugli stupefacenti, le campagne informative e il dibattito politico interno alla nuova sinistra il consumo di eroina e i morti per overdose
aumentavano. Si manifestava inoltre una spaccatura tra la generazione del ’68 e questi
nuovi militanti, formatisi nel corso degli anni Settanta, che Re Nudo giudicava ormai
estranei alla pratica della controcultura.
Non è più sufficiente liberalizzare lo spinello se non si capisce cosa c’è dietro l’esigenza di fumarsi lo spinello. E qui arriva il peggio: la nuova generazione
dei 18-ventenni […] quelli che hanno da subito fumato lo spinello come potevano
bere la coca cola, quelli già vittime di un atteggiamento consumista di tutta la
vita, anche quella alternativa […] vittime e figli di questa società che costringe
all’ideologia del consumismo anche chi materialmente non può consumare. […]
gente che consuma o aspira a consumare “in modo alternativo” sesso, panini, erba
o eroina esattamente nello stesso modo in cui la borghesia consuma puttane, caviale, la cocaina»65.
Il diverso approccio al consumo del proletariato giovanile rispetto alla generazione del ’68 diventò ancora più chiaro alla fine del 1976. Il 27-28 novembre si svolse il
I Happening Nazionale del Proletariato Giovanile alla Statale di Milano, dove si chiese
che il ricavato della prima della Scala fosse devoluto ai Centri di lotta all’eroina del
proletariato giovanile. Il 7 dicembre i Circoli misero in scena la contestazione, che riecheggiava quella del ’68, ribaltandone però completamente e consapevolmente i propositi. Il loro documento di rivendicazione iniziava ricordando la contestazione alla
Scala degli studenti del ’68 che: «erano lì sia a denunciare il consumismo, affermando
che la liberazione degli individui non passa attraverso la scalata ai beni di consumo,
sia a ricordare che la società dei consumi è sempre società borghese, dove esistono
discriminazioni di classe e diseguaglianze». Nel 1976, invece, il proletariato giovanile,
protestava contro la società dei sacrifici e rivendica: «il diritto di impossessarci dei pri64 A. Rastelli, Nudi Verso la Follia - Parco Lambro 1976, Italia, 2004, pt. 3, minuti 3:00-7:00, consultato l’ultima volta
in data 14.10.19 https://www.youtube.com/watch?v=a_bkt2V0xH8
65 Quali falchi dal disio chiamati…, in «Re Nudo», 44-45, agosto settembre 1976, pp. 3-4.
75
vilegi della borghesia [che] è un elemento nuovo rispetto al ’68: ieri uova marce, oggi
autoriduzioni»66.
Nel mezzo, sono cambiate molte cose, compresi i riferimenti culturali: se nel ’68
i testi più letti nel movimento erano i classici del marxismo e della Scuola di Francoforte, alla metà degli anni ‘70 si discutevano anche: la teoria dei bisogni – intesi come vero
terreno di scontro tra soggettività e potere – di Agnes Heller67; le riflessioni sul potere
e sull’importanza del «valore delle esperienze» di Michel Foucault68; la teoria sulla
dimensione rivoluzionaria del desiderio di Gilles Deleuze e Felix Guattari69. Il corpo
è diventato terreno di scontro politico, è cambiata l’idea della militanza, si è incrinata
la fiducia nel futuro a causa della crisi economica70. Tutto ciò ha cambiato anche l’approccio al consumo; si rivendicano i beni “superflui” e il desiderio di ottenere «che le
cose cambino da ora, subito»71. Davanti alla Scala i Circoli intendevano affermare che:
La logica dei sacrifici è la logica borghese che dice: ai proletari la pastasciutta, ai borghesi il caviale. Noi rivendichiamo il diritto al caviale […] I privilegi che
la borghesia rivendica per sé sono nostri, li paghiamo noi. Per questo li vogliamo
conquistare e ne facciamo una questione di principio. Vogliamo tutti i proletari
con la pelliccia? No, vogliamo semplicemente prenderci le pellicce che i borghesi
portano e ostentano a nostre spese per umiliarci72.
Il proletariato giovanile indicava come sue cifre distintive la creatività ma anche
la capacità di usare la forza, e intendeva affermare una sua autonoma produzione culturale: «l’incasso della prima deve andare ai centri di lotta contro l’eroina, la cultura
deve essere operaia»73. Questo rovesciamento del valore attribuito al consumo e all’importanza di bisogni e desideri è indicativo di una rottura polemica con l’esperienza del
lungo Sessantotto e può considerarsi il preludio del movimento del ’77.
66 Sarà un risotto che vi seppellirà, cit., p. 107-108.
67 A. Heller, La teoria dei bisogni in Marx, Milano, Feltrinelli, 1974.
68 M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1976; Id., Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977.
69 G. Deleuze, F. Guattari, L’Antiedipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino, 1975.
70 Per una panoramica generale sulle trasformazioni in atto nel decennio si vedano: F. Lussana, G. Marramao (a
cura di), L’Italia Repubblicana nella crisi degli anni settanta. II Vol. Culture, nuovi soggetti, identità, Soveria Mannelli,
Rubbettino 2003; A. De Bernardi, V. Romitelli, C. Cretella, Gli anni Settanta. Tra crisi mondiale e movimenti collettivi,
Bologna, Archetipo libri, 2009. Riguardo al rapporto contestazione-violenza e alla sua trasformazione nell’arco
del decennio, si rimanda a: A. Ventrone, Vogliamo tutto, cit.; S. Neri Serneri (a cura di), Verso la lotta armata. La
politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta, Bologna, il Mulino, 2012; G. Panvini, Ordine nero,
guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (1966-1975), Torino, Einaudi, 2009.
71 Sarà un risotto, cit., p. 92.
72 Ivi, p. 108.
73 Ivi, pp. 103-109.
76
Conclusioni
Con questa ricostruzione, pur parziale, si è cercato di mettere in luce come sia
cambiato il significato attribuito al consumo di droga durante gli «anni del ‘68». In
linea generale, si può sostenere che emerga una maggiore attenzione per la differenziazione tra i diversi stupefacenti, anche quando se ne continua a rifiutare il consumo.
Il mito psichedelico pare offuscarsi ma resta una certa disponibilità a considerare l’uso
di alcune sostanze come una pratica di consumo e socializzazione accettata. La ricostruzione del dibattito sulla droga consente di osservare anche i cambiamenti avvenuti
in relazione al rapporto contestazione-consumo, ai riferimenti culturali, al modo di
concepire la soggettività, i bisogni e la militanza segnando le eredità e le rotture rispetto alle questioni messe in campo nel ’68. Neri Serneri considera il ’68 come «l’epifania
delle tensioni che lo sviluppo e la maturazione della Golden Age in Europa coltivava
al proprio interno». Il movimento contestava gli esiti di quello sviluppo, partendo però
dalle risorse che gli aveva offerto e dalle sue contraddizioni interne. Rivendicava la
centralità della soggettività – e i consumi avevano aperti nuovi spazi per la soggettività giovanile - esprimendo al contempo la paura di «percepirsi espropriati della
propria identità individuale e collettiva proprio dal diffondersi di quella cultura dei
consumi»74. La droga si configura quindi come uno dei campi su cui si gioca il confine
tra “l’espropriazione” e la “riappropriazione” della soggettività. Da un lato, essa è
frutto di sistema di produzione e traffico internazionale, che interconnette domanda
e offerta in diverse parti del globo, configurandosi quindi come uno di quei prodotti
del capitalismo che la contestazione criticava75. Allo stesso tempo, però, i consumatori
attribuiscono al loro uso di stupefacenti un sistema di valori e significati, che varia
in base alla sostanza, al gruppo, al momento storico. Per cercare di sciogliere questa
contraddizione, ritengo sia utile superare le teorie francofortesi, riferimento culturale
del ’68, e riconoscere invece nei discorsi e nelle pratiche tentate dalla controcultura una
certa agency del consumatore, una capacità nel risemantizzare i consumi creando identità, significati, valori76. La questione resta complicata, perché, come nota Capuzzo,
anche se si riconosce al consumatore una capacità soggettiva nel costruire significati
attraverso le pratiche di consumo, si deve riconoscere anche il carattere negativo della
sua libertà, condizionata dalla presenza di potenti attori commerciali77.
74 S. Neri Serneri, Gli «anni del ‘68» in Europa, cit., p. 475.
75 C. Lamour, M.R. Lamberti Les grandes manoeuvres de l’opium, Paris, Seuil, 1972; A.W. McCoy, The Politics of Heroin
in Southeast Asia, New York, Harper & Row, 1972; W.B. McAllister, Drug Diplomacy in the Twentieth Century. An
International History, London-New York, Routledge, 2000.
76 M. de Certeau, L’invention du quotidien, Paris, Gallimard, 1990.
77 P. Capuzzo, Le teorie sul consumo, in S. Cavazza, E. Scarpellini (a cura di), Il secolo dei consumi, Roma, Carocci,
2009, p. 83.
77
Nonostante il permanere di queste contraddizioni, indagare il consumo di droga e il rapporto con il ’68 può arricchire tutta la storiografia sull’Italia repubblicana.
Questa si è occupata di droga in modo marginale, ricordando la diffusione dell’eroina,
da metà anni ’70 in poi, come uno dei fattori di “morte” del movimento78. Seguendo
l’interpretazione fornita da Robert Stephens79, ritengo invece che per comprendere pienamente la diffusione del consumo di massa delle diverse droghe bisogni considerare
la globalizzazione degli scambi, economici e culturali, che favoriscono la circolazione
della merce e delle pratiche di consumo ad essa connesse, con una velocità inedita
rispetto al passato. Un processo in cui il boom economico post-bellico ha un ruolo centrale e che si è intrecciato con le richieste di una maggiore partecipazione democratica
innescate dal ’68. Dopo il ’68 non cresce solo il consumo ma anche l’attenzione al tema,
la critica ad un approccio unicamente repressivo; compaiono nuovi soggetti non statali
che propongono strategie di recupero alternative e si tenta di rinegoziare il confine tra
lecito e illecito. Studiare il consumo di droga consente così di osservare, in filigrana,
le “linee di frattura” dei processi di modernizzazione dell’Italia post-bellica, in cui
convivono l’aumento del benessere e dei consumi e il loro “lato oscuro”, la diffusione
di fenomeni fonte di allarme sociale (come l’eroina) insieme all’intervento in campo
di nuovi soggetti, segno del raggiungimento di una maggiore maturità democratica.
78 Si veda, ad esempio: G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2003;
L. Falciola, Il movimento del 1977 in Italia, Roma, Carocci, 2015. Guglielmo Pescatore, invece, in quanto studioso
dei media, ha suggerito una lettura dell’eroina come un esempio di «consumo identitario-partecipativo»,
insistendo sulla sua dimensione estetica più che su quella politica; si veda: G. Pescatore, La cultura popolare negli
anni Settanta tra cinema, televisione, radio e fumetto, in A. De Bernardi, V. Romitelli, C. Cretella (a cura di), Gli anni
Settanta, cit., pp. 153-164.
79 R.P. Stephens, Germans on Drugs. The Complications of Modernization in Hamburg, Ann Arbor, The University of
Michigan Press, 2007.
78
La nascita dei Consigli di Circoscrizione a Pistoia
dI
FIlIppo mazzonI
Abstract
Il decennio 1970 – 1979 è ricordato non soltanto per la violenza politica, per gli
eventi di strage e terrorismo ma anche come un periodo tra i più fecondi in termini di
riforme. Tra le leggi approvate dal Parlamento in quel periodo un posto importante è
occupato dalla legge 278/1976, che disciplinava l’organizzazione e il funzionamento
delle circoscrizioni o dei quartieri. Il contributo in oggetto ha il compito di ricostruire
la storia del decentramento amministrativo a Pistoia tra il 1966 e il 1977.
Filippo Mazzoni, Istituto storico della Resistenza di Pistoia.
Può sembrare paradossale od “originale”, ma i germi della nascita delle circoscrizioni a Pistoia sono contenuti nella scelta compiuta da Pietro Leopoldo nel giugno
1775. In quell’occasione il granduca di Toscana con un motu proprio disponeva l’unificazione dei cinquantotto comunelli alle quattro cortine già esistenti e identificabili
nelle quattro comunità corrispondenti alle porte di accesso alla città: Porta al Borgo,
Porta Carratica, Porta Lucchese e Porta S. Marco
Il territorio della comunità di Porta al Borgo comprendeva i comuni di Porta S.
Marco, Sambuca, San Marcello e Marliana ed era abitato da 15.000 persone. La comunità di Porta S. Marco si estendeva su una superficie di 6500 ettari ed inglobava i comuni di Cantagallo, Montale e Porta al Borgo, ed era popolata da 10.000 persone. Porta
Carratica e Porta Lucchese confinavano rispettivamente con le comunità di Tizzana,
Porta S. Marco e Porta Lucchese l’una e con i comuni di Serravalle, Porta Carratica e
Porta al Borgo l’altra, abitate rispettivamente da 8.000 e 7.000 individui.
Tutte le Cortine avevano un gonfaloniere, l’equivalente del sindaco, e cinque
priori, i quali venivano designati mediante sorteggio effettuato da una borsa in cui
erano stati «imborsati» tutti i nomi dei «possessori» di beni non inferiori ad una
massa di estimo. Gonfaloniere era il primo sorteggiato. I consiglieri, che costitui-
79
vano il «Consiglio generale della Comunità», venivano scelti con lo stesso procedimento.
Con questa decisione si dette un assetto territoriale e amministrativo diverso da
quello del passato, che favorì la parità tra città e campagna, affidò ai proprietari locali
il potere di autogoverno e ridusse l’influenza della nobiltà pistoiese improduttiva. Le
Cortine misero sotto il proprio controllo le opere e le compagnie rurali, in precedenza
amministrate da nobili non residenti nelle medesime. I nuovi proprietari, creati con le
alienazioni dei patrimoni nobiliari, o ecclesiastici o del demanio statale, scalfirono la
preponderanza della nobiltà latifondista nel governo delle Cortine.
All’indomani dell’unificazione del Regno d’Italia tornò prepotentemente alla
ribalta la questione della trasformazione dei confini comunitari. Questa vicenda sarà,
fino al 1878, al centro del dibattito politico e amministrativo e assorbirà tutte le energie
dei cittadini e degli uomini politici, determinando, pertanto, il clima politico in città.
La disputa tra l’amministrazione comunale da un lato e le quattro comunità
dall’altro prende le mosse dalla proposta di annessione al comune di Pistoia di tutta
la comunità di Porta Carratica, di metà Porta Lucchese e di piccola parte di Porta al
Borgo e Porta S. Marco.
Il progetto, approvato dal Consiglio comunale il 30 ottobre 1873, è immediatamente avversato dalle comunità che lo giudicano come un’annessione allo scopo di
riordinare le precarie finanze del comune di Pistoia.
Ciò viene colto non soltanto dalle Cortine ma anche dalla stessa comunità di
Porta Carratica che in un opuscolo del 25 gennaio 1874 evidenziava quanto segue:
la continuazione di caseggiato non è sufficiente a motivare l’annessione
perché Pistoia ha ancora racchiusi fra le sue mura ampi spazi verdi coltivati sui
quali il nulla osta a che il Comune costruisca strade e abitazioni; se la città fornisce
ai contadini di smerciare i loro prodotti è vero anche il contrario; l’istruzione è
pagata con i lasciti e con la partecipazione di tutti i comuni; sono forse in numero
maggiore i cittadini che si recano a lavorare nei suburbi che viceversa; per il dazio
si afferma che l’annessione non impedirebbe alle persone di spostarsi al di fuori
della città e nemmeno lo svolgimento del contrabbando di merci soggette a dazio; per ottenere tale risultato basterebbe che si diminuisse il dazio. L’unica reale
motivazione rimane dunque quella di risanare il bilancio dell’Amministrazione
comunale pistoiese1.
Per uscire da questa impasse la sottoprefettura presentò una nuova proposta per
l’annessione che fu respinta dal comune di Pistoia e da questi considerata come non
rispondente alle sue necessità.
1 G. Beneforti, Appunti e documentazione per una storia urbanistica di Pistoia 1840 – 1940, Pistoia, Tellini, 1979, p. 10.
80
Dell’accaduto si interessava anche il Consiglio Provinciale con la nomina di una
specifica commissione nella seduta del 26 febbraio 1875.
A conclusione del suo mandato rivelerà la presenza, all’interno delle mura urbane,
di tredici macellerie, sedici forni e quindici vendite di coloniali, mentre all’esterno erano
presenti tredici macellerie, trentasette forni, trentasette vendite di liquori e coloniali.
L’esito di questa inchiesta fece pendere la bilancia a favore dell’annessione adottata con decreto regio del 29 Dicembre 1877 e confermata nel Settembre successivo.
Ciò determinava la nascita del comune unificato la cui storia, soprattutto fino ai primi
anni del ‘900, sarà influenzata dalla contrapposizione di interessi tra città e campagna
e caratterizzerà la formazione dei primi raggruppamenti politici.
Il lento avvio del decentramento a Pistoia: 1966 – 1970
Trasformazioni urbanistiche, sviluppo della vita politica, culturale e sociale caratterizzano la città di Pistoia sino all’avvento del fascismo. Con la conclusione del
secondo conflitto mondiale e la conseguente rinascita della democrazia, dei partiti politici, dell’associazionismo in tutte le sue forme, la questione del decentramento entra
prepotentemente nel dibattito politico cittadino.
L’occasione è data dalla seduta del Consiglio Comunale del 28 febbraio 1966 dedicato, tra l’altro, alla nomina di una specifica commissione consiliare sull’argomento.
Nella relazione presentata dall’assessore Renzo Bardelli si specificava l’opportunità e
la necessità di creare degli strumenti in grado di determinare un avvicinamento degli
amministratori agli amministrati, affinché questi si sentissero partecipi della “battaglia” che gli Enti locali conducevano nel paese per la loro autonomia. Con il decentramento si gettavano le basi di un’impostazione più seria e democratica dei rapporti
a livello locale poiché si permetteva ad una larga fetta di cittadinanza di conoscere la
vita, l’orientamento e l’attività dell’amministrazione comunale, si accresceva il potere
dell’ente esercitato diversamente rispetto al passato.
Per riuscire nell’intento diventava indispensabile la costituzione dei Consigli di
zona, cioè organi intermedi fra il comune e la popolazione, con il compito di accorciare le distanze tra il Consiglio Comunale e i cittadini, assolvendo ad una funzione
di interpretazione delle molteplici espressioni della volontà collettiva, valutando le
esigenze popolari nelle loro relazioni con la molteplicità dei problemi cittadini. Con
ciò si sarebbe giunti alla nascita di un qualcosa che avrebbe inciso e non poco sulla collettività, dando, fra l’altro nuove dimensioni alle istituzioni democratiche già presenti
nella società2.
2 Archivio storico del Comune di Pistoia, Delibera n. 42 del Consiglio Comunale del 28 febbraio 1966, p. 59.
81
Nel dibattito il consigliere del PCI Sergio Cipriani ricordò l’esperienza delle
Consulte Popolari che aveva permesso all’amministrazione di sviluppare contatti con
la popolazione e ai cittadini di prendere coscienza delle problematiche del Comune,
anche se era emerso un certo spirito campanilistico per la risoluzione di determinati
problemi. Il rappresentante socialdemocratico a sua volta si pronunciava per la concessione di una funzione di informazione ai consigli di zona e favorevolmente per
l’istituzione di un’apposita commissione consiliare la quale avrebbe dovuto esaminare
la proposta e i suggerimenti contenuti nella relazione dell’assessore.
Il consigliere democristiano Luciano Stanghellini sottolineava che non esistevano motivi particolari e tali da far indurre ad un avvicinamento dell’amministrazione
alla cittadinanza. Inoltre, sottolineava che la città di Pistoia non essendo di vaste dimensioni non necessitava di decentrare un qualcosa di troppo grande, infine si esprimeva a favore della costituzione di un’apposita commissione consiliare purché la partecipazione dei rappresentanti della DC non vincolasse l’atteggiamento che il gruppo
riteneva opportuno adottare.
Il consigliere Biagini evidenziava come il problema del decentramento fosse stato impostato in termini generali anziché particolari, inoltre si chiedeva se i futuri Consigli di zona avrebbero avuto un carattere elettivo o di nomina comunale e se questi
fossero stati dotati di poteri oppure svolto una semplice funzione informativa.
Al termine del dibattito il Consiglio Comunale deliberava con voto unanime la
costituzione di una commissione consiliare incaricata di approfondire lo studio del
decentramento e le attribuzioni dell’Ufficio Pubbliche Relazioni, composta nel modo
seguente: Presidente: Corrado Gelli Sindaco, Consiglieri Ariodante Francesco (PSDI),
Bardelli Agostino (DC), Breschi Raffaello(PSI), Cotti Silvano (PCI), Filippini Gino
(PCI), La Scala Francesco (MSI), Nesti Oscar (PSI), Soverchia Oreste (DC), Stanghellini
Luciano (DC), Stivala Augusto (PLI), Toni Francesco (PCI).
Nello spazio di poche settimane la commissione fu costretta allo scioglimento a
causa del ritiro dei rappresentanti della Democrazia Cristiana e dell’esponente socialdemocratico.
I rispettivi capigruppo Stanghellini e Ariodante motivarono che quanto accaduto era dipeso dalla mancanza di una qualsiasi concreta possibilità di intesa e di
conciliazione tra l’atteggiamento diverso della maggioranza e della minoranza democristiana e socialdemocratica sul particolare problema in quanto investiva una grave
e delicata scelta tra due sistemi di decentramento, politico quello della maggioranza,
amministrativo quello delle minoranze3.
3 Decentramento: cronaca di un’esperienza, a cura dell’Ufficio Decentramento del Comune di Pistoia, Pistoia, 1974,
p.9.
82
A partire da questo momento la questione del decentramento conoscerà un certo
rallentamento internamente al Consiglio Comunale, mentre la Giunta comunale sviluppava la politica di espressione dei comitati di quartiere e di zona. Questa scelta si
rivelerà degna di nota poiché già nel 1968 nacque, per iniziativa di militanti di formazioni politiche di sinistra, il primo comitato di quartiere nella zona del Belvedere
operante sul problema della casa. A questo seguirà nel dicembre 1969 il comitato di
zona delle Fornaci, anche se inizialmente assunse le caratteristiche di una commissione politica e soltanto successivamente si trasformerà nell’organismo precedentemente
ricordato. Con l’approssimarsi delle consultazioni amministrative del giugno 1970 il
tema del decentramento tornò prepotentemente alla ribalta e lo sarà ancora di più
all’indomani dell’accordo concluso tra comunisti e socialisti per la formazione di una
Giunta organica di sinistra. Nel documento sottoscritto da entrambe le forze politiche
si poteva leggere quanto segue:
il terreno di confronto con gli altri gruppi è costituto anzitutto dal problema del decentramento inteso come organizzazione di formazione dal basso della
volontà popolare, affinché nelle frazioni, nei quartieri, nelle varie istituzioni della
società civile riavvii un intenso dibattito teso a sperimentare e sviluppare tutti i
modi atti ad assicurare l’effettiva partecipazione popolare alle decisioni dell’assemblea elettiva locale, emanazione prima della sovranità popolare. Con questa
impostazione il decentramento corrisponderà alle istanze di partecipazione attiva
che vengono dai luoghi di lavoro e di produzione, in particolare dai giovani, dagli
operai, dai contadini, che una ventennale politica di vertice imposta dai governi a
direzione democristiana nel nostro paese ha finora cercato di escludere dai centri
decisionali e che ora, legittimamente aspirano ad essere protagonisti di una nuova
forma di organizzazione della vita civica. Tale esperienza, appunto perché realizzata alla base della società civile, può dar luogo, dove sia ribaltata la tradizionale
e superata prassi di formazione delle decisioni, ad originali forme di democrazia
diretta e ad un loro proficuo intreccio con le forme istituzionali della democrazia
rappresentativa4.
Nel novembre 1970 furono organizzate diciotto assemblee territoriali per discutere del bilancio di previsione riferito all’esercizio finanziario 1971. Le frazioni coinvolte in questa iniziativa furono Bonelle, Bottegone, Casermette, Chiazzano, Le Piastre,
Pistoia Nuova, Piteccio, Pontenuovo, Ponte alle Tavole, Pracchia, Spazzavento, Villaggio Belvedere. Successivamente furono disposti incontri con le categorie economiche
e sociali, con i gruppi culturali, i movimenti giovanili, le organizzazioni sindacali e
quelle di fabbrica.
4 Ivi, pp. 20 – 21.
83
Nel corso di queste assemblee furono diversi i comitati di zona e di quartiere che
annunciarono la loro costituzione e che orientarono il loro raggio d’azione nell’esame
del bilancio e del piano degli investimenti, nei confronti della politica urbanistica e
delle licenze edilizie, nel controllo e gestione dei servizi sociali, scuole, biblioteche,
unità sanitarie locali, nelle condizioni sanitarie nella città e nelle fabbriche, infine nei
trasporti.
Non appena fu concluso il ciclo assembleare furono predisposti una serie di momenti e di appuntamenti dedicati alle tematiche del decentramento e della partecipazione, mentre nel marzo 1971 fu avviata una consultazione generale con i comitati di
quartiere e di zona, che nel frattempo avevano dato vita ad un gruppo di coordinamento e nel giugno dello stesso anno, come vedremo nel prossimo paragrafo, l’assise
consiliare tornerà ad occuparsi della formazione di una nuova commissione ad hoc
sull’argomento.
La costituzione della commissione consiliare per il decentramento e il dibattito sulla funzione e il ruolo dei comitati di quartiere: 1971 -1972
Alla vigilia della nuova discussione consiliare sul decentramento risultavano
costituiti i seguenti comitati di quartiere e di zona: Bonelle – Ramini, Candeglia, Casermette, Cireglio, Fornaci, Le Piastre, Piazza, Pistoia Centro, Pistoia Nuova, Piteccio,
Ponte alle Tavole, Pontelungo – Spazzavento, Pontenuovo, Porta al Borgo, Pracchia,
Santomato, Santomoro, Saturnana – Le Grazie, Via Borgognoni, Via Vivaldi, Villaggio
Belvedere, Villaggio Scornio, Uzzo – Corbezzi. Il 21 giugno 1971 i consiglieri furono
chiamati ancora una volta a discutere sulla costituzione di una nuova commissione
consiliare per il decentramento. I lavori furono aperti dalla relazione del Sindaco Francesco Toni mentre il dibattito fu principalmente rivolto al ruolo e alla funzione dei
comitati di quartiere e di zona.
Il gruppo democristiano affermava quanto segue:
Per tali comitati il gruppo DC concorda nel ritenere che essi non debbano
diventare dei Consigli di Quartiere in formato ridotto e che non sia necessario che
essi riflettano nella loro composizione le forze politiche rappresentate nell’Amministrazione Comunale.
Se vogliamo che la partecipazione costituisca una via veramente democratica, si devono investire coloro i quali sentono i problemi della loro zona indipendentemente dalle rappresentanze che si rispecchiano in Consiglio Comunale […].
È necessario quindi attuare una sperimentazione che costituisca un importante momento di verifica nel processo di attuazione del decentramento, tenuto
conto del vuoto legislativo esistente al riguardo. Tale vuoto, lungi dal costituire
un ostacolo, è invece un elemento positivo che dà spazio alla ricerca delle vie più
84
rispondenti allo scopo e che metterà alla prova le nostre capacità di trovare i modi
più rispondenti alle ragioni di fondo che ispirano il decentramento5.
I successivi interventi furono rivolti al ruolo delle assemblee ed ai potenziali
rischi connaturati alla costituzione e al funzionamento delle assemblee e dei comitati
ed infatti il consigliere Franco Bechi del PSI rimarcava quanto segue:
Il rischio di una loro strumentalizzazione ad opera dei partiti e, particolarmente, da parte di quelli meglio organizzati o elettoralmente più forti;
Il rischio di una loro utilizzazione in senso qualunquista;
Il rischio di una eccessiva frammentazione dei comitati (la Giunta dovrebbe promuovere la fusione di alcuni comitati insediati in zone limitrofe e fra loro
omogenee);
Il rischio che fra l’amministrazione e i comitati si stabilisca un rapporto di
carattere esclusivamente antagonistico;
Il rischio che, in mancanza di una legislazione che riconosca ai comitati di
quartiere poteri effettivi di decisione e di spesa, si diffonda un senso di frustrazione che ne potrebbe alla lunga eliminare lo slancio6.
Altri, come il consigliere socialdemocratico Nicola Cariglia, evidenziavano la
bontà dell’adozione di un sistema basato sulla rappresentatività numerica sull’esempio dei comuni di Prato e di Siena. A sua volta il capogruppo del PCI Vannino
Chiti confermava la necessità di creare comitati di quartiere in modo aperto e profondamente democratico e che le proposte fossero confrontate anche con i citati
organismi.
Sul ruolo che avrebbe dovuto assumere la futura commissione affermava quanto
segue:
una serie di contatti con i comitati di quartiere e con le popolazioni portando questi nostri orientamenti, recependo quanto è stato fatto, per ritornare poi
ad una definitiva discussione in Consiglio Comunale; dovrà infine andare ad un
convegno con i Comitati di quartiere, che rappresenti un momento di riflessione,
di scambio di esperienza, di ricerca di indirizzi comuni7.
Al termine del dibattito il Consiglio Comunale deliberava all’unanimità la formazione di una nuova commissione consiliare per il decentramento, presieduta dal
Sindaco e formata dai consiglieri Barontini Roberto (PRI), Bechi Franco (PSI), Buiani
5 Decentramento, Comune di Pistoia, 1971, p. 41
6 Ivi, p. 45
7 Ivi, p. 48
85
Ermanno (DC), Dolce Giovanni (PCI), Morandi Marcello (PCI), Nesti Oscar (PSU), Zollo Gabriele (DC).
Nell’ottobre del 1971 la Democrazia Cristiana organizzava un’iniziativa dal titolo “Dibattito sulla funzione dei Comitati di Quartiere del Comune di Pistoia”. Nella relazione introduttiva svolta da Ivano Paci si criticava, innanzitutto, il cosiddetto “primo
tempo” del decentramento, sottolineando come la Giunta avesse convocato riunioni in
certe zone e in certe frazioni alla presenza dell’assessore, del Sindaco o del vicesindaco. Ciò era giudicato negativamente poiché il tutto si era svolto in modo arbitrario ed
emarginando le forze minoritarie.
In merito ai comitati di quartiere Ivano Paci riteneva che a questi fosse contemplata la funzione di far partecipare i cittadini, di informarli sulla reale consistenza dei
problemi e che ascoltassero eventuali idee, proposte e suggerimenti provenienti da essi.
A sua volta Romano Paci, esponente di un comitato di quartiere specificava che
questi si erano sviluppati a causa di una crisi dell’istituto della rappresentanza della delega, ma anche per un’esigenza di maggiore partecipazione ed autonomia ai livelli locali.
Essi dovevano avere anche lo spazio di sperimentare e promuovere dal basso
questa nuova partecipazione popolare e di rifondare in un certo senso la democrazia
nel nostro paese. Il comitato di quartiere, secondo la sua opinione, doveva crescere
e svilupparsi autonomamente, consentendo soltanto la messa a disposizione di una
struttura minima in cui questi cittadini avrebbero potuto organizzarsi.
L’avvocato Fabio Stignani muoveva una serie di considerazioni e critiche sul
ruolo dei comitati di quartiere, rilevando che dovevano occuparsi dei problemi reali
dei cittadini evitando qualsiasi discussione su questioni lontane e diverse da quelle
interessanti l’ente locale.
Il dibattito si concludeva con i contributi di Angiolo Bianchi, Luciano Stanghellini e Repice Cosimo. Se i primi due si dichiaravano a favore della partecipazione dei
democratici cristiani ai comitati di quartiere, Repice dichiarava quanto segue:
La Dc non deve partecipare ufficialmente alla costituzione dei Comitati di
quartiere per non assecondare un disegno, possibile o probabile ma comunque
teso al conseguimento di fini del PCI che non sono certo quelli del decentramento
democratico;
Gli iscritti alla DC invece laddove i Comitati sono sorti o vanno sorgendo
debbono parteciparvi e nella misura massima possibile per evitare ogni e qualsiasi
strumentalizzazione da parte del PCI;
Questa partecipazione anzi deve essere sorretta dalla Segretaria Provinciale del Partito attraverso consigli, studi, ecc che servano da guida uniforme agli
amici impegnati nei Comitati di quartiere8.
8 Dibattito sulla funzione dei comitati di quartiere del comune di Pistoia, Organizzativo DC Pistoia, 16 ottobre 1971, p. 20.
86
La vera e propria nascita del decentramento a Pistoia si può far risalire al 1972 ed
in primo luogo alla relazione sull’attività svolta dal comitato di quartiere delle Fornaci.
Nel dicembre 1972 a Prato fu organizzato un convegno sulla “Partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica”, coordinato dai comuni toscani ed a cui prese
parte anche l’assessore al decentramento del comune di Pistoia Enea Cotti.
Lo stesso assessore nel suo intervento pose l’accento su alcune delle esperienze
più avanzate svolte dai comitati di quartiere, inoltre ricordò che ci sarebbe stato un
confronto per fissare statuti, regolamenti, finanziamenti, le modalità di elezione, infine anche per l’elaborazione del bilancio comunale si prevedeva un incontro con tutti
i comitati, dopodiché le assemblee lo avrebbero discusso ed apportato le necessarie
indicazioni ed esigenze delle varie zone.
Questo percorso si sarebbe concluso con una riunione di tutti comitati i quali
avrebbero messo a confronto le varie necessità in modo da fornire un contributo di
ampio respiro alle scelte della Giunta e allo stesso Consiglio. Il convegno si concludeva con l’approvazione di un documento in cui si valutava positivamente l’esperienza
del decentramento sin qui svolta in Toscana, sperando che questa fosse estesa anche ai
quei comuni della nostra regione che fino a quel momento non l’avevano promossa.
Dal primo convegno comunale sul decentramento all’approvazione del regolamento istitutivo dei Comitati di zona
Il percorso per approdare ad una completa definizione e organizzazione del decentramento comunale, prosegue pur con alcune difficoltà, anche nel corso del biennio
1973 – 1974, caratterizzato dallo svolgimento di appuntamenti di rilievo e che faranno
da apripista alla normativa regolamentare deliberata dal consiglio nel dicembre 1974.
Il primo di questi incontri si svolse nel gennaio 1973 e fu dedicato alla discussione del
bilancio di previsione con i comitati di quartiere.
I lavori furono introdotti dall’assessore al decentramento Enea Cotti il quale ricordava come questa procedura fosse un fatto nuovo e che comunque era necessario
andare avanti.
Altresì si doveva intraprendere una ricerca più attenta, attraverso le assemblee
per sviluppare il confronto e la discussione tra la popolazione e gli organismi democratici, come le associazioni culturali, ricreative, sindacali, economiche, consigli di fabbrica, ma era indispensabile anche un largo confronto tra gli stessi comitati di quartiere
per giungere alla definizione delle priorità9.
In aggiunta a quanto affermato ribadiva l’importanza e la necessità del decentramento il tutto accompagnato da una precisa volontà politica delle varie formazioni
9 Discussione del bilancio di previsione 1973 con i comitati di quartiere, a cura dell’Assessorato al Decentramento, p. 29.
87
e raggruppamenti presenti in consiglio e nello stesso tessuto sociale cittadino in modo
che questa fosse portatrice di un movimento di larga partecipazione. Successivamente ricordava l’esperienza dei venticinque comitati di quartiere, rinnovava l’invito a
costituire apposite commissioni di lavoro all’interno di questi organismi in modo da
raggiungere risultati di tutto rispetto e conseguentemente far aumentare la conoscenza
e la coscienza dei problemi e delle difficoltà che quotidianamente incontrava l’amministrazione comunale nel dispiegare il suo operato verso la cittadinanza. Ventidue furono le assemblee organizzate nel periodo 12 gennaio – 15 febbraio 1973 dove i comitati
di quartiere e di zona discussero della necessità di un loro potenziamento, di come
renderli maggiormente funzionanti e di affidarli effettivi poteri in relazione a piccoli
interventi. Particolare attenzione fu posta ai problemi urbanistici e della casa, al settore
del turismo, agli spazi a verde e alle attrezzature sportive, ma anche alla scuola.
Un sostanziale consenso fu manifestato verso le scelte compiute dall’azienda del
gas in direzione della metanizzazione, e per la realizzazione di interventi nell’ambito
dei rifiuti solidi urbani, infine non si può eludere il richiamo riguardo alle criticità nel
settore dei trasporti e relativamente al traffico ecc.
Il primo convegno comunale sul decentramento fu aperto dalla relazione dell’assessore al ramo il quale rinnovò l’esigenza di una maggiore partecipazione popolare
alla gestione della cosa pubblica, sottolineando come questa non fosse più un fatto di
volontà di una piccola avanguardia, ma un’esigenza che nasceva dalla partecipazione
alle lotte politiche e sindacali per le riforme che si erano sviluppate sempre più compatte nel nostro paese in quel periodo. L’iniziativa era da considerare un importante
momento di verifica, di scambio di esperienze per andare avanti sulla strada di un’effettiva partecipazione popolare ad una gestione che doveva riguardare tutte le fasi
della vita dell’Ente. Questo appuntamento era scaturito dalla volontà espressa dai cittadini nei diversi incontri, con gli stessi Comitati di Quartiere, e da precise indicazioni
e richieste che i diversi gruppi consiliari dell’arco costituzionale avevano avanzato.
Rispetto alle modalità di gestione dei comitati, l’assessore Cotti riteneva errata qualsiasi forma di assembleismo e spontaneismo per questi organismi e quindi era più che
mai necessario giungere alla definizione di un disciplinare regolamentare. Il dibattito
fu rivolto alle problematiche e alle criticità insite nei comitati di quartiere e di zona ed
in particolar modo affermò quanto segue:
un Comitato di Quartiere trova le forze per affrontare i problemi locali,
riesce ad agganciarsi con le masse, nella misura in cui chiarisce autonomamente la sua lotta politica […]. Vediamo che di fronte alle inadempienze governative spesso sono i Comuni democratici che intervengono nel campo della scuola,
dell’assistenza sociale, della sanità, del carovita ecc. per cui è facile pensare che
debba essere loro compito intervenire ancora più esattamente e più a fondo. Con-
88
cetto, questo, parzialmente giusto perché se è vero che l’Ente locale è più adatto a
intervenire è anche vero che le sue possibilità di intervento sono assai limitate10.
Nello svolgimento dei lavori fu posta attenzione anche alla situazione finanziaria degli Enti Locali, al ruolo dei comitati in relazione allo sviluppo economico della città di Pistoia e al tema della gestione sociale. Nel corso del 1974 ben tre sedute
consiliari furono dedicate al tema della partecipazione e del decentramento al fine di
stabilire un’organica disciplina regolamentare in ordine al funzionamento e all’organizzazione dei comitati di quartiere e di zona. La prima di queste riunioni si svolse il
17 giugno e l’assessore preposto non esitò a giudicare il provvedimento come un qualcosa di determinante per la vita politica e amministrativa della città di Pistoia, inoltre
confermava che il decentramento era da considerarsi come un organo di democrazia
protagonista delle esigenze della collettività, ma anche come momento di incontro di
tutta la società civile, attraverso le sue istituzioni democratiche quali i sindacati, le
associazioni ricreative, sportive e di categoria. Fra l’altro sottolineava che, dalla lettura
delle norme regolamentari, si esplicitava la volontà dell’amministrazione comunale e
degli stessi Comitati di procedere rapidamente all’attuazione della seconda fase del
decentramento democratico in modo da rispondere compiutamente e celermente alla
crisi di partecipazione.
Nella seduta del 2 dicembre l’assessore ricordava che il ritardo nell’approvazione della delibera era dovuto alla richiesta pervenuta da diversi gruppi consiliari di
unire la discussione sull’argomento a quella sul regolamento del consiglio comunale.
Egli ricordava che nel periodo intercorso il processo di decentramento non aveva subito particolari interruzioni, anzi i comitati si erano contraddistinti nell’organizzazione
di eventi e manifestazioni sia di carattere generale e particolare come il rinnovo del
comitato di zona di Bottegone o la costituzione del comitato provvisorio nella zona
Vergine – Fortezza.
I dibattiti delle sedute del 2 e del 16 dicembre furono particolarmente effervescenti, l’intervento del consigliere democristiano Paci esprimeva perplessità in ordine
ai compiti e alle funzioni assegnate ai comitati in termini di consultazione e collaborazione con le associazioni sportive, culturali e con le stesse istituzioni sociali di zona e
di quartiere. Ribadiva la necessità di chiarimenti rispetto al raggruppamento o alla disaggregazione dei comitati di zona, confidando nella capacità e nella volontà dell’amministrazione comunale di intervenire su quest’aspetto, poiché riteneva impensabile
e improponibile un territorio comunale in cui avrebbero potuto operare settantadue
comitati di zona e di quartiere rendendo ingovernabile il tutto.
10 Decentramento: cronaca di un’esperienza, op. cit., p.35.
89
Relativamente ai pareri richiesti e previsti dalla normativa regolamentare, per
l’esponente democristiano, questi avrebbero contribuito a rendere il lavoro del consiglio più pesante nel caso che quanto stabilito fosse stato rispettato alla lettera.
Il consigliere socialista Bechi auspicava la massima convergenza e unità tra le
forze politiche su un argomento delicato e importante come questo. Altresì rilevava
che eventuali divergenze o contrapposizioni avrebbero creato notevoli ripercussioni
a livello cittadino, inoltre proponeva un’analisi e una valutazione sulla vita e il modo
di conduzione dei comitati di zona e di quartiere sia negli aspetti positivi che in quelli
negativi, sia nell’atteggiamento dell’amministrazione nei loro confronti.
Il consigliere comunista Mochi sollecitava una rapida approvazione del regolamento, poiché questa avrebbe permesso un rafforzamento della vita democratica e
consentito una più larga partecipazione dei cittadini; anche perché questi organismi
erano eletti a suffragio universale e si ipotizzava fra l’altro di comprendere persino i
cittadini che avevano raggiunto il diciottesimo anno di età.
I successivi interventi furono rivolti al sistema di elezione dei comitati, alle incompatibilità per coloro che facevano parte di queste organizzazioni e infine sulla possibilità di presentare liste autonome alle elezioni.
A conclusione del dibattito con unanime consenso l’assemblea cittadina approvava il Regolamento degli organismi di decentramento, modificato rispetto alla proposta
presentata in sede consiliare il 17 giugno 1974 e composto di ventinove articoli che disciplinavano l’organizzazione, il funzionamento e le competenze dei comitati di quartiere e di zona.
Le norme presumevano la divisione del territorio comunale nei seguenti venti
distretti:
Distretto 1 – Pracchia, Orsigna;
Distretto 2 – Le Piastre, Cireglio, Piazza, Campiglio;
Distretto 3 – Piteccio, San Felice, San Mommè, Le Grazie, Saturnana;
Distretto 4 – Uzzo, Corbezzi;
Distretto 5 – Villa di Baggio, Iano;
Distretto 6 – Santomoro, Valdibure;
Distretto 7 – Gello, Capostrada, Sarripoli;
Distretto 8 – Belvedere, Scornio;
Distretto 9 Fornaci, Immacolata, Candeglia;
Distretto 10 – Ponte alle Tavole;
Distretto 11 – Porta al Borgo;
Distretto 12 – Casermette;
Distretto 13 – Pistoia Nuova;
Distretto 14 – Pistoia Centro, Vergine, Fortezza;
Distretto 15 – Pontenuovo, Santomato, Chiesina Montalese, S. Agostino;
90
Distretto 16 – Oltreombrone;
Distretto 17 – Bonelle, Ramini;
Distretto 18 – Sperone;
Distretto 19 – Nespolo, Chiazzano;
Distretto 20 – Bottegone
Il regolamento stabiliva quali organi del quartiere e della zona: l’assemblea, il
comitato, il presidente.
L’assemblea rappresentava l’organo democratico di base ed era formata da tutti
coloro che avevano compiuto il 18°anno di età, residenti od operanti nel quartiere o
nella zona. Essa aveva il compito di favorire il contatto diretto tra la popolazione e gli
organi del quartiere, di informare i cittadini sull’attività svolta o in corso di svolgimento da parte degli organi decentrati, di promuovere la loro partecipazione al dibattito
sugli indirizzi e le scelte della politica del quartiere, inoltre intervenivano nella determinazione delle scelte di politica generale o locale e alla definizione delle modalità di
funzionamento dei servizi comunali.
Il comitato di quartiere o di zona convocava l’assemblea generale dei cittadini
per discutere le problematiche ivi presenti, redigeva annualmente, previa consultazione dei cittadini, un rapporto relativo allo stato del quartiere o della zona avanzando
proposte e priorità di intervento agli enti pubblici competenti, stabiliva, poi, rapporti
di consultazione e collaborazione con le associazioni di base cioè partiti politici, circoli
ricreativi, organizzazioni culturali, sindacali e di categoria.
Il presidente era eletto dal comitato a maggioranza di 2/3 dei componenti oppure sempre a maggioranza del 2/3 ma dei presenti. Egli rappresentava il quartiere o
la zona, convocava e presiedeva il comitato e le assemblee, dava corso alle decisioni
adottate dal comitato, infine poteva essere invitato alle riunioni di Giunta per esporre
le problematiche del quartiere o della zona.
Ai comitati era affidata la gestione di impianti sportivi, scuole materne, asili
nido, servizi scolastici, istituzioni sanitarie locali, centri sociali ed altre strutture presenti nel quartiere o nella zona. In aggiunta esprimevano proposte e pareri obbligatori
per la formazione del bilancio di previsione, sull’impostazione dei programmi annuali
e pluriennali di intervento che l’amministrazione intendeva predisporre rispetto alle
opere pubbliche, ma anche in relazione all’organizzazione urbanistica, produttiva e
commerciale del territorio, sulla viabilità e il traffico, le licenze edilizie e di commercio
sempre nell’ambito territoriale su cui insisteva il quartiere. Collaboravano con l’amministrazione comunale attraverso suggerimenti, proposte e pareri rispetto alla ristrutturazione degli uffici comunali e all’assetto dei servizi decentrati comunali, infine, avevano facoltà di intervenire anche in relazione al miglioramento dei servizi offerti dalle
aziende municipalizzate pronunciandosi anche in ordine alle loro funzioni.
91
Il Presidente o gli stessi consiglieri delegati dal comitato potevano richiedere
l’iscrizione all’ordine del giorno del Consiglio di argomenti o questioni riguardanti
il quartiere o la zona che essi rappresentavano o riguardanti la vita in generale del
Comune. I medesimi potevano intervenire alle sedute consiliari in cui si discuteva di
questioni relative alla zona, al quartiere o alla stessa amministrazione comunale. Si
stabiliva che questi avrebbero designato due soggetti all’interno di ogni commissione
consiliare speciale, mentre una rappresentanza del comitato di quartiere o di zona vi
prendeva parte nel caso in cui fossero stati affrontati argomenti di pertinenza del quartiere o della zona specifica. Infine erano obbligatoriamente tenuti a presentare entro il
30 ottobre di ogni anno la proposta di bilancio da inserire nel bilancio di previsione
dell’anno successivo, mentre entro il 30 marzo rendicontavano le spese sostenute nel
corso dell’anno precedente. Oltre a ciò non dobbiamo dimenticare che le assemblee di
ciascun comitato di quartiere o di zona procedevano all’approvazione di un proprio
statuto conforme alle norme contenute nel regolamento ivi illustrato.
La genesi delle circoscrizioni
Con l’approvazione, da parte del Consiglio comunale del regolamento sui distretti aveva finalmente inizio anche nella città di Pistoia il processo di decentramento
che conoscerà, anche a seguito delle innovazioni legislative, trasformazioni di rilievo.
Questo percorso di avvicinamento alle circoscrizioni fu preceduto dall’organizzazione della conferenza sul decentramento che si tenne il 13 e il 14 dicembre 1975
presso la Sala Maggiore del Palazzo Comunale.
I lavori furono aperti dall’assessore al decentramento Giuliano Beneforti,( assessore della Giunta Toni, insediatesi il 20 luglio 1975) il quale nella sua relazione evidenziava come il decentramento rappresentasse un momento importante di confronto e
unione delle istituzioni alla società civile al fine di ridurre il distacco tra amministrazione e cittadinanza ma in particolare affermava quanto segue:
Il decentramento amministrativo deve diventare un nuovo modo di essere
e di operare dalle amministrazioni comunali per affermare un costume nuovo di
efficienza e controllo, per avvicinare lo Stato ai cittadini […].
È opportuno che il decentramento amministrativo si apra alla partecipazione diretta attraverso canali da sperimentare con gradualità e attenzione […].
Il primo canale di partecipazione sono le elezioni dirette dei Consigli decentrati a suffragio universale con meccanismo che favoriscano il confronto fra le
forze presenti e consentano maggiore consapevolezza, conoscenza e possibilità
di effettiva scelta. Altri canali possono aprire il varco della partecipazione diretta.
L’assemblea popolare, che può anche avere compiti istituzionali definiti, nell’ambito delle attribuzioni decentrate di controllo, di orientamento, di discussione
92
generale, ma anche di verifica e indirizzo in merito a questioni di particolare rilevante importanza. Le strutture associative, ricreative, culturali, coinvolte direttamente nella pratica amministrativa. Lo sviluppo delle forme di autogestione di
attrezzature, impianti e servizi particolare. Queste ed altre forme istituzionalizzate nell’esercizio amministrativo decentrato possono avviare il superamento di una
possibile separazione fra istituzioni e società civile […]11.
Sull’attività dei comitati di quartiere e di zona segnalava l’organizzazione di
iniziative autonome ma anche riguardanti la vita politica e sociale cittadina, ricordava
che avevano stretto rapporti con l’amministrazione comunale e contribuito allo sviluppo di forme di partecipazione consultiva sulle scelte adottate dal Comune.
Concludeva confermando l’importanza e l’indispensabilità dello svolgimento
delle elezioni dei consigli di distretto, ai quali, si doveva affidare, in un futuro non
troppo lontano, specifici compiti e funzioni a completamento del ruolo ad essi demandato. Secondo la sua opinione, detti organismi, avrebbero dovuto esprimere pareri
consultivi, accanto all’affidamento delle competenze di manutenzione ordinaria delle
sedi stradali, degli impianti sportivi, della rete fognaria e dello stesso verde pubblico.
Sarebbero stati coinvolti anche nella gestione dei servizi di nettezza urbana, anagrafici,
di polizia, di accertamento tributario, nella concessione delle licenze edilizie e delle
autorizzazioni commerciali e persino nella gestione dei servizi sociali.
Tra coloro che intervennero nel dibattito, ricordiamo i contributi di Vinicio Tredici, presidente del Distretto n. 15 (Pontenuovo, Santomato, Chiesina Montalese, S.
Agostino) e di Don Manfredo Caroli, presidente del comitato di quartiere «Belvedere
– Scornio».
Il primo si soffermò sulle difficoltà, le criticità e i ritardi incontrati con l’amministrazione comunale, evidenziando, tra l’altro la mancanza di un vero e proprio ordinamento sull’argomento, il tutto giudicato dall’esponente nel seguente modo:
«L’elemento determinante della continua altalena fra partecipazione e impegno su aspetti più generali e qualificanti da una parte e assenza di iniziativa e
rivendicazione verso l’ente dall’altra […]. Il rapporto con l’Amministrazione Comunale ha introdotto momenti di freno nello sviluppo della partecipazione, per la
mancanza di una struttura organizzativa adeguata alle nuove realtà […]»12.
Dopodiché evidenziò la necessità di procedere rapidamente all’attribuzione
di reali poteri di intervento ai comitati, affinché si giungesse a un consolidamento di
11 Comune di Pistoia, Assessorato al Decentramento, Istituzionalizzazione delle Assemblee e dei Consigli di Distretto,
Atti del convegno, Pistoia, Palazzo Comunale 13 – 14 dicembre 1975, p. 10.
12 Ibidem, p. 27.
93
quest’esperienza. Don Manfredo Caroli, presidente del comitato di quartiere «Belvedere – Scornio», elogiava il ruolo e il contributo dei comitati, giudicati dal religioso
come un qualcosa che si poneva:
«Nel vivo e nel contesto globale della realtà politico – sociale come momento d’incontro, di confronto e sintesi. Una sintesi che si riflette nell’uomo che,
nel quartiere, rivive non più e solo un aspetto della sua vita, ma i suoi molteplici
aspetti della sua esistenza. Del resto, è ormai acquisito che i problemi non sono
mai singoli né vanno affrontati settorialmente: non si può per esempio parlare di
scuola senza parlare di fabbrica; di casa senza parlare di famiglia, di programmazione senza parlare di finanza e viceversa»13.
Sul decentramento, formulava un giudizio sostanzialmente positivo, auspicando quanto segue:
«Ai comitati gli strumenti conoscitivi sul piano di diritto e di fatto, oltre che
gli aspetti politici espressi dai capigruppo del Consiglio Comunale […]. Vedrei
bene che, per decisioni interessanti tutta la comunità locale del Comune, i Comitati potessero esprimersi attraverso un organismo rappresentativo di tutti gli stessi
ed espressione sintetica dei medesimi»14.
Il suo intervento terminava con l’esaltazione del ruolo assembleare considerato
come l’elemento portante del Comitato. I successivi contributi invitavano a riflettere
sui poteri, sulle decisioni affidate o in corso di affidamento ai comitati, mentre alcune
riserve erano pronunciate dal comitato di zona di Bottegone, rispetto ad alcuni articoli
del regolamento.
La chiusura fu affidata all’assessore regionale Lino Federigi il quale nel suo articolato intervento, giudicava positivamente le esperienze del decentramento amministrativo per quartieri considerate, come un qualcosa di organico alla lotta che le amministrazioni comunali, all’epoca, conducevano verso la rivendicazione di una maggiore
autonomia dallo Stato centrale. Il decentramento era giudicato dall’esponente politico
nei seguenti modi e termini:
«Il tema del decentramento non è perciò un diversivo rispetto ai problemi
urgenti che stanno di fronte ai lavoratori e al movimento democratico, ma un
aspetto fondamentale della via da seguire per uscire dalla grave crisi che travaglia oggi la vita del paese e dello Stato. Il decentramento è uno degli strumenti
13 Ivi, p. 34.
14 Idem
94
di rinnovamento, di trasformazione dello stato burocratico e accentratore che è
servito ad attuare uno sviluppo sociale economico distorto […]. Il decentramento
in quanto strumento di partecipazione è una condizione necessaria per affermare
un nuovo modo di fare politica, un nuovo modo di governare»15.
Egli riteneva positive le varie esperienze dei consigli di quartiere che si erano
sviluppate nel nostro paese e dunque anche in Toscana, rilevando, anche i limiti presenti in esse, accertando le distorsioni e le criticità incontrate dagli stessi comitati e dalla cittadinanza. Terminava il suo intervento evidenziando che i consigli di quartiere si
erano posti in alcune occasioni come soggetti fortemente critici dell’amministrazione
comunale, e quindi, desiderava che valutassero e riflettessero sulla realtà del paese nel
suo insieme e considerassero il Comune come un amico, come un alleato, altrimenti
avrebbero fatto il gioco di chi scaricava le tensioni sociali in periferia.
Nei primissimi mesi del 1976 il Consiglio Comunale deliberava sull’istituzione
del distretto n. 21 mediante scorporo del distretto n°14, inoltre nell’intero testo regolamentare alla parola “Comitato” si sostituiva la parola “Consiglio”, mentre alle parole
“Quartiere o Zona” subentrava la parola “Distretto”, infine si abrogava l’articolo 1
comma 1, parte dell’articolo 2 e nella sua totalità gli articoli 7,8 e 9 del regolamento
deliberato nel dicembre 1974. A queste modifiche successe nel maggio 1976 il regolamento dei consigli circoscrizionali all’interno del quale erano contenuti i principi, i
poteri e le funzioni delegate alle nascenti circoscrizioni.
La normativa licenziata dal Consiglio Comunale si componeva di quaranta articoli e disponeva la seguente ripartizione territoriale identificabile in dieci circoscrizioni:
Circoscrizione n.1 – Centro Storico
Circoscrizione n.2 – Nespolo – Chiazzano – Chiesina Montalese – Santomato – Pontenuovo – S. Agostino – Borghetto – Le Querci – San Quirico
Circoscrizione n.3 – Ponte alla Pergola – Bottegone – Piuvica – San Sebastiano – Sant’Angelo – Badia a Pacciana – Canapale – Case Nesti
Circoscrizione n.4 - La Vergine – Sperone – Bonelle – Ramini – Masiano – Fornacette – S.
Pierino Casa al Vescovo – Montesecco
Circoscrizione n. 5 – Porta Lucchese, Pontelungo – Spazzavento – Castagno – Bargi –
Case Soldi – San Pantaleo – Ciliegiole – Vicofaro sud
Circoscrizione n.6 – Pistoia nuova – Ponte alle Tavole – Torbecchia – Arcigliano – Vicofaro
nord – San Biagio – Gugliano
Circoscrizione n.7 – Campiglio – Piazza – Sarripoli – Gello – Capostrada – Corbezzi –
Uzzo – Valdibrana – Villaggio Belvedere – Scornio – Porta al Borgo – Stazzana
15 Ivi, p. 119
95
– Campopiano – Pupigliana – Montevestito
Circoscrizione n.8 – Bussotto – Lupicciano – Baggio – Casermette – Fornaci – Candeglia –
Santomoro – Villa di Baggio – Iano – S. Alessio – Germinaia – Ponzano – Cignano
Circoscrizione n.9 – Pracchia – Orsigna – Le Piastre – Cireglio – Borghetto – Cassarese –
Pontepetri – Pian di Giuliano
Circoscrizione n.10 – Castagno – Fabbiana – Ponte Calcaiola – San Felice – Le Grazie –
Piteccio – San Mommè – Collina – Spedaletto
In ossequio alle disposizioni contenute nella legge 278 erano organi della circoscrizione: il consiglio circoscrizionale ed il presidente. Il Consiglio circoscrizionale,
innanzitutto, rappresentava le esigenze della popolazione della circoscrizione nell’ambito dell’unità del Comune, era composto da sedici consiglieri ed eletto dai cittadini
inoltre esercitava poteri propositivi, consultivi, deliberativi e d’intervento. Aveva la
facoltà di formulare proposte, rivolgere interrogazioni al Sindaco o alla Giunta su questioni attinenti la vita della circoscrizione, poi poteva chiedere l’iscrizione all’ordine
del giorno del Consiglio Comunale di argomenti interessanti la circoscrizione.
Entro il 31 luglio di ogni anno inviava all’amministrazione comunale, una relazione circa la situazione socioeconomica e le prospettive della circoscrizione per l’anno
successivo.
Il Consiglio pronunciava obbligatoriamente il proprio parere su una serie di atti
e materie tra le quali ricordiamo il bilancio preventivo e i relativi piani economici pluriennali d’investimento, il P.R.G. e relative varianti, piani particolareggiati di attuazione del P.R.G., piano di adeguamento e sviluppo della rete di vendita per la parte
relativa alla circoscrizione ecc.
In materia di poteri deliberativi si trasferivano alle circoscrizioni le funzioni riguardo alla manutenzione ordinaria di vie e piazze comunali, verde attrezzato, fabbricati comunali o adibiti a servizi comunali, impianti sportivi e la gestione di asili nido
e scuole comunali per l’infanzia, attività di sostegno nelle scuole elementari e medie a
tempo pieno, centri sociosanitari, consultori comunali, condotte mediche e ostetriche,
polizia locale, attività sportive e di ricreazione sociale.
Il Presidente del Consiglio Circoscrizionale era eletto dal Consiglio con almeno 9 voti. Qualora non avesse raggiunto il quorum previsto si svolgeva una seconda
votazione e se anche in questo caso nessuno fosse stato designato, si procedeva ad un
ballottaggio tra i due consiglieri più votati risultandone colui che avesse conseguito il
maggior numero di voti.
Egli rappresentava la circoscrizione, convocava e presiedeva il consiglio, curava
l’applicazione dei regolamenti e l’osservanza delle deliberazioni comunali, dirigeva l’attività amministrativa nelle materie decentrate alle circoscrizioni, dava corso alle deliberazioni assunte dal consiglio, riferiva al Sindaco e agli assessori competenti dei problemi
96
della circoscrizione, infine vigilava sull’attività degli uffici della circoscrizione e potevano essere affidate alla sua persona funzioni delegate da parte del primo cittadino.
Il funzionamento del Consiglio Circoscrizionale era disciplinato da un regolamento interno, già previsto dalla legge 278 e che avrebbe dovuto prevedere la modalità
di elezione e le funzioni dell’eventuale vicepresidente della circoscrizione, le prerogative e le facoltà dei singoli consiglieri circoscrizionali, le condizioni per la pubblicizzazione delle riunioni, delle deliberazioni e dell’attività del consiglio fra i cittadini,
l’articolazione del consiglio in commissioni aperte alla partecipazione dei cittadini,
infine si indicavano le regole per l’espressione del voto nelle riunioni, la disciplina
dello svolgimento degli interventi ecc.
Il titolo sesto della normativa regolamentare organizzava la partecipazione popolare, contemplando, la possibilità di convocazione, da parte del Consiglio circoscrizionale, di assemblee su problematiche riguardanti la circoscrizione, mentre era obbligato ad indirla sullo schema di bilancio di previsione predisposto dalla Giunta, sul
piano di adeguamento e sviluppo della rete di vendita, sul P.R.G., ed anche sui piani
particolareggiati di zona e delle lottizzazioni.
Il regolamento, consentiva che i cittadini residenti nel territorio circoscrizionale
potessero rivolgere al Consiglio petizioni e proposte di deliberazione sulle materie di
sua competenza, sottoscritte da un decimo degli elettori ivi residenti, mentre il Consiglio doveva assumere le proprie decisioni entro sessanta giorni dal ricevimento della
proposta.
A seguito delle elezioni anticipate del giugno 1976, soltanto il 6 e il 7 febbraio 1977
i cittadini pistoiesi furono chiamati alle urne per i consigli circoscrizionali, la risposta fu
massiccia poiché votò oltre l’80% degli aventi diritto cioè circa 60.000 cittadini.
Furono 160 i consiglieri eletti con il sistema dello scrutinio di lista, settantadue le
liste che si presentarono nelle dieci circoscrizioni, cioè una media di poco più di sette
per ogni circoscrizione, mentre i risultati confermarono l’avanzata del PCI che aumentò
di circa il 2% rispetto alle elezioni per la Camera dei deputati e del 3,5% rispetto alle comunali del 1975 e ciò permise ai comunisti di ottenere ottantacinque seggi, contro i quarantasei della democrazia cristiana, i sedici dei socialisti. Le consultazioni si rivelarono
un successo oltre ogni più rosea previsione, a dimostrazione che i cittadini credevano
veramente nelle circoscrizioni, nel decentramento, nella partecipazione e soprattutto
erano convinti di poter incidere nelle scelte operate dall’amministrazione comunale.
I primi presidenti eletti nelle dieci circoscrizioni furono i seguenti: Rossi alla Circoscrizione n.1, Zoppi alla Circoscrizione n.2, Poli alla Circoscrizione n.3, Vannini alla
Circoscrizione n.4, Mochi alla Circoscrizione n.5, Gariboldi alla Circoscrizione n.6, Pavesi alla Circoscrizione n.7, Cocchi, Caporali e Biagioli rispettivamente alla n. 8, 9 e 10.
97
Il movimento femminista e la questione
della violenza politica negli anni Settanta:
una riflessione sociologica
dI
santIna musolIno
Abstract
L’obiettivo del contributo è quello di offrire una breve riflessione sociologica
sulla questione della violenza politica all’interno del dibattito femminista. Il confronto
con questo “nodo problematico” – per quanto frammentario e rimasto nel solo spazio
comunicativo costruito dal movimento – è stato un tassello importante nel processo di
definizione dell’identità collettiva del movimento femminista.
Santina Musolino, Università degli Studi “Roma Tre”.
Introduzione e note metodologiche
L’obiettivo del contributo è quello di offrire una breve riflessione sociologica
sul rapporto tra il femminismo e la violenza politica che durante gli anni Settanta ha trovato una delle sue principali espressioni nella lotta armata. In particolare, si cercherà di mettere in luce quale sia stato il ruolo occupato dalla questione
della violenza politica nel dibattito femminista e nella costruzione dell’«identità
collettiva»1 del movimento focalizzandosi sulle «pratiche di scrittura femministe»2
poiché è attraverso esse che il movimento femminista è riuscito a ritagliarsi uno
spazio di comunicazione autonomo capace di plasmarne e orientarne la rappresentazione simbolica. Le riviste femministe Differenze ed Effe, i Quaderni piacentini – soprattutto i numeri del 1977 e del 1978 contenenti alcune considerazioni femministe
sul movimento e sul terrorismo di sinistra – e infine, le testimonianze e i contributi
di femministe o collettivi femministi all’interno di pubblicazioni più recenti hanno
costituito il gruppo di fonti secondarie oggetto di un’analisi comprensiva ed erme1 A. Melucci, L’Invenzione del presente: Movimenti, identità, bisogni individuali, Bologna, Il Mulino, 1982.
2 F. Paoli, Pratiche di scrittura femminista. La rivista Differenze, 1976-1982, Milano, Frano Angeli, 2011.
99
neutica finalizzata a comprendere i punti di vista e i significati prodotti dagli attori/
dalle attrici sociali3.
Il tema della violenza politica nel dibattito femminista
La questione della violenza politica e, soprattutto, della violenza agita dalle donne rappresenta uno dei «nodi scottanti»4 che il movimento femminista si è trovato ad
affrontare. Nei primi anni Settanta, quando il movimento delle donne era ancora in
incubazione, il rapporto con la violenza era vissuto in modo più frammentato così
come frammentata era la presenza femminile nei diversi collettivi, nella vecchia e nuova sinistra. In questa fase, non sembrava necessario che un discorso sulla violenza
venisse elaborato e provenisse dalle donne. Tale esigenza ha cominciato a delinearsi
«con il passaggio alla dimensione di massa»5, quando il movimento si è imposto come
il «soggetto più visibile»6 della seconda metà del decennio7.
Uno dei primi problemi sollevati dalla violenza politica proveniente dall’estrema sinistra e dal coinvolgimento femminile in essa è stato quello relativo alla legittimità o meno dell’uso della violenza stessa. A tal proposito, Grazia e Donata Francescato
– in un contributo del 1977 sulla rivista femminista Effe – esprimevano la loro contrarietà nei confronti della violenza considerata un mezzo inadeguato perché incapace di
attuare un reale cambiamento sociale e, anzi, tendente a creare nuove forme di dominio e oppressione:
«L’uso della lotta armata nelle condizioni storiche della società occidentale
attuale non è una scorciatoia per la rivoluzione, ma un vicolo cieco. Per questo
motivo — e per il fatto che apparteniamo ad un movimento, quello delle donne,
che si è sempre qualificato come non violento perché consapevole che dalla violenza non emergono mutamenti sociali duraturi ma solo forme nuove di oppressione — siamo drasticamente contrarie all’azione terroristica come strategia per
mutare la società in cui viviamo»8.
L’idea che dalla violenza non derivino altro che nuove forme di dominio e oppressione la si ritrova in quella parte della riflessione femminista che si è soffermata
3 A. Decataldo, E. Ruspini, La ricerca di genere, Roma, Carocci, 2014, p. 39.
4 A. R. Calabrò, L. Grasso, Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Storie e percorsi a Milano dagli anni ’60
agli anni ’80, Milano, Franco Angeli, 2004.
5 A. Bravo, “Noi e la violenza. Trent’anni per pensarci”, in «Genesis. Rivista della società italiana delle storiche»,
III/1, (2004), p. 19.
6 Ibidem.
7 Ivi p. 19.
8 http://efferivistafemminista.it/2014/11/le-vivandiere-del-terrorismo/
100
sulla «logica della pura “distruzione” del nemico»9 come caratteristica che ha permeato la lotta armata e che sarebbe stata responsabile, scrive Manuela Fraire, di «due tipi
di fenomeni opposti ma simmetrici: l’assunzione dei modi di lotta della controparte o
il culto esasperato del bisogno individuale»10. Entrambi i fenomeni, secondo l’interpretazione di Fraire, avrebbero determinato il medesimo risultato e cioè «lo scollamento
di ristrette minoranze (vedi le BR) o del singolo (vedi molti compagni del ’77) dai
movimenti»11.
L’allontanamento dai movimenti avrebbe fatto perdere di vista a queste “ristrette minoranze” la dimensione di massa della lotta e le avrebbe indotte a sentirsi legittimate nel porsi come “braccio armato” di una rivoluzione che per compiersi implicava
il ricorso all’unico strumento considerato efficace, cioè l’annientamento fisico di coloro
che venivano identificati come “nemici”:
una cosa è battersi con la polizia a colpi di molotov e di manici di picconi,
tendere agguati a capi ed esponenti della destra estrema, ma tenendo ferme nei
fatti la priorità del “lavoro di massa”, l’eccezionalità del ricorso alle armi […],
altra cosa è pensare a un centro unico e indiviso (il “cuore dello stato”), autoproclamarsi avanguardia armata del proletariato, vedere nell’atto esemplare la sola
strategia efficace, ridurre le persone a simboli, e assassinarle12.
Un pensiero condiviso all’interno del dibattito femminista sulla violenza politica
è stato quello circa «lo spazio tolto ai movimenti, che ne furono uccisi, e al femminismo
in particolare, dal terrorismo»13. All’interno di un quadro interpretativo che individuava nel fenomeno terroristico una delle principali cause della crisi dei movimenti
intesi come spazi di espressione e di condivisione, il rapimento Moro ha rappresentato
l’evento che maggiormente si è imbattuto su quel che era rimasto del movimento femminista14 e che ha costretto molte esponenti a fare i conti con ciò che il terrorismo rappresentava per loro. Durante i cinquantasei giorni del sequestro Moro, l’oscillazione
tra giudizio politico e motivazioni personali sembra aver caratterizzato il movimento
femminista: «dalla condanna del terrorismo fatta come movimento si è passati infatti all’implicito avallo dello stesso allorché si è preteso di assumere una posizione di
equidistanza tra BR e Stato»15. Lo slogan “Né con lo Stato né con le Br” si è configurato
9 M. Fraire, Care compagne, cari compagni, in «Quaderni piacentini», 65-66, (1978), p. 174.
10 Ibidem.
11 Ibidem.
12 A. Bravo, “Noi e la violenza. Trent’anni per pensarci”, cit., p. 15.
13 A. Rossi-Doria, Dare forma al silenzio. Scritti di storia politica delle donne, Roma, Viella, 2007, p. 263.
14 T. Bertilotti, A. Scattigno (a cura di), Il femminismo degli anni Settanta, Roma, Viella, 2005.
15 M. Fraire, Care compagne, cari compagni, cit., p. 172.
101
come «uno slogan di rifiuto, e anche di fuga»16 da parte dell’intero movimento che
avrebbe avuto, rispetto a questa specifica vicenda storica, una reale difficoltà a prendere la parola.
Inoltre, la riflessione collettiva sul caso Moro ha fatto emergere le contraddizioni
interne al movimento femminista, provocandone la deriva. Se, infatti, all’inizio «c’era
l’esplicita volontà di misurarsi con le condizioni umane del prigioniero Aldo Moro, di
esprimere una analisi critica della propaganda della virilità dello Stato e della virilità
delle virtù civili», ben presto le differenziazioni politiche e partitiche hanno finito con
il prevalere sulla loro formazione di donne e di femministe: «È stato questo gioco neanche tanto sotterraneo di schieramento che ha pesato, e profondamente, sul movimento
delle donne, provocandone lo sbandamento e il silenzio»17.
Il silenzio, almeno sul piano dell’opinione pubblica, delle femministe durante la prigionia e poi l’omicidio di Aldo Moro si inserisce all’interno di quel «problema
enorme»18 per il movimento femminista che è stato – scriveva Michi Staderini – «la nuova paura di esprimersi politicamente su certi fatti, quali il terrorismo, che porta con sé la
paura di esprimersi politicamente tout court»19. A questo tema, nel 1979, sono state dedicate le pagine dello speciale della rivista Differenze, nato dal desiderio delle femministe
di «dire una parola politica»20. All’interno di questo numero, il contributo di Roberta
Tatafiore, intitolato Uno sguardo “fuori” la lotta armata, ribadiva l’impossibilità di astenersi
dall’esprimere giudizi su questa forma di violenza politica nei confronti della quale aveva provato di volta in volta «il sentimento della paura, il rifugio dell’esorcizzazione, il
riconoscimento della complicità»21. In queste pagine, Tatafiore ha esplicitamente individuato nella ricerca di un concetto diverso di giustizia e nella passione per la verità valori
fondamentali per se stessa come femminista e per il movimento. Ha anche sottolineato
l’incompatibilità di tali valori con la lotta armata dal momento che «lottare con la pistola
è come prendersi il compito di pensare per gli altri, […] ipotecare il modello di vita che
ha sotteso la rottura e imporlo»22. In linea con questa analisi di Tatafiore è buona parte
del femminismo radicale che si sente «estraneo»23 alla violenza sostanzialmente perché
essa rappresenta «un cedimento al bisogno di contrapposizione con il maschile e con le
sue istituzioni, una duplicazione del suo spirito e dei suoi metodi»24.
16 A. M. Mori, Il silenzio delle donne e il caso Moro, Cosenza, Edizioni Lerici, 1978, p. 40.
17 Ivi p. 48-49.
18 M. Staderini, Ambiguità, in «Differenze», 1979, p.16.
19 R. Tatafiore, Uno sguardo fuori la lotta armata, in «Differenze», 1979, p.16.
20 A. Biondi, L. Migale, M. Staderini, R. Tatafiore, La redazione di questo numero pensa che…, in «Differenze», 1979, p. 5.
21 R. Tatafiore, Uno sguardo fuori la lotta armata, in «Differenze», 1979, p. 9.
22 Ivi p. 10.
23 T. Bertilotti, A. Scattigno (a cura di), Il femminismo degli anni Settanta, p. 258.
24 Ivi p. 264.
102
Il rifiuto dei valori ideologici e culturali da cui tale violenza è prodotta è la premessa fondamentale per comprendere perché l’adesione da parte di alcune donne a metodi
di lotta che contengono in sé quelli che vengono identificati come valori maschili è stata
interpretata «in termini di un’adesione ad un modello emancipatorio, non di liberazione;
un modello che pone la donna allo stesso livello dell’uomo appiattendo però pesantemente la specificità e le potenzialità che l’essere donna contiene e rappresenta»25.
Sul finire degli anni Settanta, la riflessione sulla violenza politica si è declinata
in un’analisi del rapporto tra donne, violenza e identità non priva di un risvolto autocritico. Il Collettivo romano “Donna e Politica”, in proposito, nel giugno del 1978,
pubblicava un documento significativo che prendeva le mosse proprio dalla vicenda
Moro come testimonianza di una violenza proveniente dalla sinistra:
in passato alcune di noi avevano accettato la politica connessa ad un uso
pratico e ideologico della violenza. Se alcune di noi potevano «capire» sequestri,
appropriazioni, episodi di lotta armata, oggi occorre tornarci sopra. Non si tratta
solo di aver cambiato “opinione politica”, è una trasformazione più profonda. Ci
chiediamo se la politica debba essere necessariamente fanatica. Anche noi fino
a pochi anni fa eravamo fanatiche, prima come militanti della sinistra poi come
donne del movimento. Ma l’estremismo è dogmatico, non ci serve più26.
In un testo collettaneo pubblicato nel 1979 un gruppo di femministe, provenienti
per lo più da contesti della sinistra radicale, sottolineava che «in un momento in cui la
violenza è per tutti il nodo politico decisivo, e in cui anche il movimento femminista
ha visto chiusa una sua fase dall’esplodere del terrorismo»27 fosse necessario avviare
«un lungo e paziente lavoro di scavo sul rapporto tra noi e la violenza: non solo quella che subiamo, ma anche quella che portiamo dentro ed esercitiamo»28. Per queste
donne, dunque, l’esplorazione del significato della violenza per il femminismo rappresentava una condizione indispensabile per poter «analizzare in quanto donne questo o altri analoghi fenomeni, che pure tanto determinano la nostra vita individuale e
collettiva»29. Il fatto che il movimento femminista non sia stato storicamente estraneo
alla pratica della violenza è riconosciuto anche da Luisa Di Gaetano la quale, tuttavia,
ha considerato tale constatazione come parte della motivazione che ha portato le femministe a compiere una scelta definitiva di non violenza:
25 A. R. Calabrò, L. Grasso, Dal movimento femminista al femminismo diffuso, Milano, Angeli, 2004.
26 http://efferivistafemminista.it/2014/12/donne-e-politica/
27 L. Boccarossa, G. Ciuffreda, Donne, violenza e identità, in L. Manconi (a cura di), La violenza e la politica, Savelli,
Roma 1979, p. 89.
28 Ibidem.
29 Ibidem.
103
«la nostra scelta di non violenza non è una scelta «morale», ma una scelta
che deriva da una storia di violenza subita ma anche praticata seppure in forme
non mortifere. […] Detto questo, non accettiamo certo la violenza fisica come una
pratica politica. Ma riteniamo necessario affrontare e cercare di capire quello che è
uno dei nodi più drammatici per il femminismo»30.
Osservazioni conclusive
Gli scritti femministi presentati in questo contributo hanno permesso di considerare sia le riflessioni “a caldo” sia quelle più recenti, frutto di una trentennale elaborazione di quanto accaduto31, che hanno dato vita a uno spazio narrativo «autonomo di
discussione, di pensiero, di prassi tra donne»32.
L’analisi – che non ha pretese di esaustività – del dibattito femminista intorno
alla questione della violenza politica ha consentito di individuare i seguenti nuclei
tematici affrontati più di frequente e sviluppati più approfonditamente dalle scrittrici
femministe: 1) La questione della legittimità o meno della violenza politica; 2) L’idea
del terrorismo come causa del restringimento degli spazi di espressione e della crisi
del movimento femminista; 3) La reticenza di buona parte del movimento a esprimersi
sul terrorismo negli anni in cui le organizzazioni armate, in Italia, erano drammaticamente attive. Durante gli anni Settanta, infatti, si era nel pieno dell’offensiva terroristica e delle sue ricadute sulla politica, compresa quella delle donne e coloro che hanno
preso la parola per esprimere un’opinione in quel periodo lo hanno fatto soprattutto
con l’intento di ribadire la propria contrarietà all’uso delle armi e al ricorso alla violenza come strumento per produrre cambiamento.
Il terrorismo ha certamente costretto il movimento femminista a misurarsi con il
delicato tema della violenza in tutte le sue sfaccettature, compresa la violenza politica,
il suo significato e la sua legittimità o meno. Il confronto con la violenza politica, per
quanto frammentario e rimasto nel solo spazio comunicativo costruito dal movimento,
è stato fondamentale per capire e definire cosa poteva e doveva essere la lotta politica
«fuori dalla logica dello Stato e dei terroristi»33. È stato, dunque, un tassello importante
nel processo di definizione dell’identità del movimento femminista principalmente
perché ha fatto emergere un rapporto irrisolto con la violenza di cui una parte del
femminismo italiano sente il peso della responsabilità: «non la violenza che lo stato e
i gruppi neofascisti hanno rovesciato sui movimenti, non la violenza esercitata contro
30 http://efferivistafemminista.it/2014/10/per-fare-i-conti-con-la-violenza-armata/
31 A. Bravo, “Noi e la violenza. Trent’anni per pensarci”, cit., p. 1.
32 A. Biondi, L. Migale, M. Staderini, R. Tatafiore, La redazione di questo numero pensa che…, in «Differenze», 1979,
p. 6.
33 http://efferivistafemminista.it/2014/11/le-vivandiere-del-terrorismo/
104
il corpo delle donne, ma quella di cui in vario grado portiamo una responsabilità per
averla agita, tollerata, misconosciuta»34.
La vicenda di Aldo Moro e il suo tragico epilogo hanno svolto una funzione
periodizzante rispetto alla posizione assunta soprattutto da una parte del femminismo cosiddetto “radicale” in relazione alla questione della violenza politica; ha rappresentato un «groviglio politico e morale»35 che avrebbe dovuto o potuto far uscire
le voci femministe fuori dal loro spazio di comunicazione autonomo e se così non è
stato è perché esse «non hanno risolto la questione del loro rapporto con i vari gradi di
violenza»36. Il rapporto delle femministe italiane con la sfera politica è rimasto bloccato, osserva Rossana Rossanda, da una «duplice condizione di estraneità verso le forme
violente - dirette o indirette – della politica com’è e di adiacenza con la rottura diretta,
e in qualche modo violenta, tradizionale anche essa. È il paradosso della specifica non
violenza delle femministe»37.
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65-66, febbraio 1978.
34 A. Bravo, “Noi e la violenza. Trent’anni per pensarci”, cit., p. 1.
35 Anna Maria Mori, Il silenzio delle donne e il caso Moro, Cosenza, Edizioni Lerici, 1978, p. 39.
36 Ibidem.
37 Anna Maria Mori, Il silenzio delle donne e il caso Moro, cit., pp. 39-40.
105
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http://www.bibliotecadigitaledelledonne.it/825/
http://www.bibliotecadigitaledelledonne.it/836/1/differenze%20speciale.pdf
106
Testimonianze
Intervista collettiva a Renzo Innocenti,
Andrea Ottanelli e Rossella Dini
a cura dI
steFano bartolInI
Abstract
Presentiamo un’intervista collettiva realizzata alla presenza del pubblico il 29
settembre del 2016 presso la sala Luciano Lama della Camera del lavoro di Pistoia
nell’ambito della settimana dell’Archivio storico della CGIL, contestualmente alla presentazione della mostra “Gli anni ’60. La CGIL e la costruzione della democrazia”. Una
foto dell’evento e il programma della giornata sono riportati al termine della trascrizione. *
Stefano Bartolini, Istituto storico della Resistenza di Pistoia; Fondazione Valore
Lavoro
Bartolini
Condurrò questa “chiacchierata” con i metodi che noi storici chiamiamo della
“storia orale”, cioè un’intervista, che poi non è la classica intervista giornalistica ma
è per l’appunto una “chiacchierata” e che per primissima cosa tende di solito ad appurare con chi si sta parlando. Quindi io come prima cosa chiederò a loro, a Renzo,
Andrea e Rossella, di raccontarci un po’ da dove vengono, qual è la loro famiglia, il
loro ambiente sociale di riferimento, come vedevano Pistoia e attraverso quale percorso arrivano, sul finire degli anni Sessanta, all’impegno politico, così ci addentriamo in
quell’epoca.
Innocenti
L’ambiente nel quale nasco a Pistoia è quello popolare, con Piazza Mazzini centro periferico di Pistoia. Ho vissuto la fine di un’economia prettamente rurale, ricordo
ancora quando portavano alla latteria di Porta al Borgo, con il carro trainato dai cavalli,
il latte fatto nelle stalle. Si iniziano poi a vedere i motorini, i “Mosquitos” degli operai
della San Giorgio che andavano a lavorare. Passaggi di una grande fase di transizione.
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Ho avuto la fortuna di nascere e di vivere in quegli anni. Una famiglia numerosa con
babbo operaio, mamma casalinga, con le difficoltà che in quel momento caratterizzavano un’economia che non era ancora partita e che non garantiva grandi “svolazzi”.
Ciononostante le cose essenziali c’erano tutte e c’era soprattutto voglia di uscire da
quello che stava alle spalle dei genitori che avevano passato il Ventennio fascista e poi
il periodo della guerra con grandissimi sacrifici, abnegazioni, lutti, tragedie. Questa
grande voglia di riscatto, di realizzare qualcosa di nuovo, era una cosa che si avvertiva
con la volontà di stare nelle piazze o da altre parti a chiacchierare, farlo tutte le volte
che era possibile. Non erano chiacchiericci, era il modo attraverso il quale la gente
esprimeva la voglia di rinascere, di stare insieme e di esprimere nuovi valori per una
comunità che avesse una speranza per un futuro migliore, per il resto della loro vita e
soprattutto per i figli. Anni di grandi trasformazioni e di contraddizioni.
Un ambiente molto caratterizzato dalla presenza del cattolicesimo in famiglia,
vissuto con spirito laico, non in termini di bigottismo o di clericalismo. Gli anni ’60 si
annunciarono con una grande voglia di una nuova testimonianza attraverso il Concilio Vaticano II, che è stato un punto di svolta importante, con i documenti conciliari che
cominciavano a parlare di pace su questa terra e della fine delle disuguaglianze e delle
ingiustizie nel mondo, di uguaglianza all’interno del mondo del lavoro, di dignità nel
lavoro. Cose che avvenivano poi attraverso una partecipazione, con un sacerdote che
nella mia vita ha rappresentato un momento molto importante, don Caroli Manfredo.
Dopo i primi anni vissuti in Porta al Borgo ci trasferimmo al Villaggio Belvedere,
che era uno dei primi insediamenti di edilizia popolare fatti con il piano Fanfani se
non ricordo male: una casa ma organizzata come una comunità, ancora oggi si vedono
questi elementi. Immaginatevi cosa significava per l’epoca, per chi ha una memoria o
ha visto fotografie riguardanti la Cirenaica1, che era il quartiere popolare al di là della
Brana. Da quello e dalle casine di via Erbosa si passa ad avere una comunità vera e
propria, si fa uno sforzo per cercare di mantenere un tessuto sociale, un radicamento
sul territorio organizzato con i servizi sociali. Lì fu inviato un giovane sacerdote, Manfredo Caroli, proveniente dall’influenza fiorentina di Mazzi e di altri, di Balducci, di
don Milani che informò un po’ tutta questa sensibilità forte. Un profondo rispetto per
la pluralità di pensiero, questione importantissima che credo abbia segnato fortemente, perlomeno le mie riflessioni, da quel momento in poi. Grande rispetto delle idee
1
*
L’intervista collettiva è stata realizzata da Stefano Bartolini, trascritta da Edoardo Lombardi e successivamente
rivista dai testimoni e dal curatore. Per ragioni di spazio e di fruibilità, dal testo trascritto sono state eliminate
numerose ripetizioni tipiche del linguaggio parlato e rese leggibili alcune frasi nell’originale poco lineari. Si è
cercato di intervenire il meno possibile senza alterare il senso del discorso, mantenendo divagazioni, incertezze,
forme dialettali, aspetti problematici e lo stile tipico del parlato. Le registrazioni originali sono conservate presso
l’Archivio storico della CGIL di Pistoia, di proprietà della Fondazione Valore Lavoro, e ivi consultabili.
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degli altri, anche di quelle che a prima vista sembrerebbero bischerate2; perché se si
esprimono molto probabilmente un fondo c’è. Questo è l’ambiente nel quale nasco,
l’ambiente nel quale mi impegno all’interno di un movimento, che è quello delle ACLI,
che alla fine degli anni ’60, con il convegno di Vallombrosa, cominciano ad affrontare
un ragionamento di autonomia all’interno del mondo cattolico rompendo il cosiddetto
“quadrilatero”, disegnato dalla presenza della Democrazia cristiana come “il” partito
del mondo cattolico, con le organizzazioni che venivano definite “collaterali”, la Coldiretti, ACLI ed altri.
Si incominciava, anche dietro alle indicazioni Conciliari, a puntare molto
sull’autonomia dei laici in politica, sulla responsabilità individuale delle scelte in
politica. A Pistoia nel 1971, per la prima volta dalla rottura del patto di Roma, il 1°
maggio vede delle bandiere che non sono rosse3. Uso questa espressione per dire che
volevamo rendere evidente che c’era una presenza anche di altre testimonianze del
mondo del lavoro, di lavoratori che non erano comunisti, non erano socialisti, non
erano appartenenti a quel mondo ma che comunque vivevano in modo unitario la
festa dei lavoratori.
Ottanelli
Provengo da una famiglia della media borghesia: il babbo rappresentante e la
mamma casalinga. Una famiglia in cui non si parlava di politica o se ne parlava molto
poco. Una famiglia, come ce n’erano tante in quegli anni, che costruiva giorno per giorno con sacrifici e con impegno e lavoro – la mamma ricamava in casa – il proprio benessere per garantire anche a me un futuro diverso da quello che avevano avuto i miei
genitori, in particolare per quanto riguardava gli studi. Sono figlio unico, e credo che
questo sia stato importante, perché quando poi ho cominciato ad avere dieci, undici
anni, ho sentito molto forte il bisogno del senso dell’appartenenza; cioè di essere parte
di una comunità, parte di un gruppo di persone che facevano un percorso comune. E
questo senso di appartenenza l’ho maturato in due luoghi fisici che a quell’epoca erano molto importanti nella nostra città, ma credo in tutta Italia: la strada, perché quelli
erano gli anni in cui tra coetanei potevamo giocare, passare il tempo libero e intessere
amicizie all’aperto, e l’altro luogo era la parrocchia. Io ho abitato prima in via S. Pietro
e poi sul viale Arcadia e quindi appartenevo alla parrocchia della SS. Annunziata, che
era molto frequentata da noi giovani: avevamo, ad esempio, la possibilità di giocare a
calcio nel chiostro. Ritornandoci, non capisco come si facesse perché nel mezzo c’era
2 Con il termine “Cirenaica” veniva chiamata un’area abitativa povera, emarginata e socialmente degradata situata
fuori dal centro cittadino ubicata fra il torrente Brana, gli ex macelli e l’attuale area sportiva dello Stadio e del
Parco della rana, al margine del futuro quartiere delle Casermette.
3 In pistoiese sta a indicare idee semplici, ingenue.
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un pozzo e poi non c’era niente per segnalare le porte. Si giocava con due maglioni
appoggiati per terra con discussioni continue sulla validità dei goal. Ma c’era anche il
ping-pong, l’avevamo fatto da noi, poi arrivò il flipper e poi c’era l’Azione Cattolica.
Io ho fatto tutto il percorso all’interno dell’Azione cattolica e credo di avere ancora le
tessere. Non sono stato uomo dell’Azione cattolica, poiché a quell’età avevo già preso
altre strade. Però fino a lì sono stato all’interno di questo percorso in cui era abbastanza
chiaro il fatto che noi tutti eravamo un mondo separato rispetto agli altri, alla sinistra.
Io non ho mai avuto sacerdoti o persone responsabili dell’Azione Cattolica che facessero indottrinamento politico in maniera chiara: assolutamente no. Ma attraverso il
catechismo e le “adunanze settimanali”, percepivamo che eravamo collocati all’interno di un processo che formava una classe dirigente all’interno del mondo cattolico,
alternativo a tutte le altre realtà sociali e politiche.
D’altronde vivendo sul viale Arcadia mi trovavo a condividere giochi, tempi,
spazi e luoghi con coetanei appartenenti a famiglie di personalità, dirigenti e responsabili della Democrazia cristiana: si trattava dei Caselli, Cipriani, Gestri, Lelli, Pratesi
ecc. Erano intorno a me, frequentavo le loro abitazioni ed eravamo tutti insieme all’interno di questo particolare clima. Lì, fra l’altro, proprio nella strada e nella parrocchia,
ho conosciuto persone che poi hanno fatto con me un percorso di vita molto lungo, tra
cui Marco Bruni.
Sulla metà degli anni ‘60, però, avevo anche gli occhi attenti ai fermenti che agitavano il mondo cattolico pistoiese, cosiddetto del dissenso, tra cui il gruppo del Ventiquattro, nato nel 1964, che pubblicava un omonimo “periodico indipendente giovani
cattolici” ciclostilato4 e alcuni mi risulta che provenissero dalle ACLI. Ricordo diversi
incontri nella loro sede di corso Amendola con esponenti dell’Isolotto che venivano a
raccontare la loro innovativa esperienza ecclesiale vissuta con don Mazzi. In quell’ambiente l’altra grossa novità era rappresentata dall’esperienza di Cineforum, non solo
per l’attività di proiezione e dibattito sui film, ma per quell’esperienza di giornalismo
militante che era il periodico Cineforum pistoiese5, che metteva in discussione i centri
del potere pistoiese, l’assetto della politica cittadina e poneva all’attenzione dei cittadini i problemi dei diritti degli handicappati e dei “reclusi” nel manicomio delle Ville
Sbertoli.
Era il periodo in cui mettevamo in discussione le certezze trasmesse nel percorso compiuto all’interno della parrocchia che erano molto tradizionali, didascaliche,
da abc del cattolicesimo. C’era, invece, un altro modo di vivere la propria fede che si
4 Il riferimento è alla partecipazione dei giovani della ACLI al corteo promosso dalla Camera del lavoro, che
inizia con il 1970. Cfr: S. Bartolini, Lavoro fiori e lambrette. Il 1° maggio nella Pistoia repubblicana, all’URL: http://
www.toscananovecento.it/custom_type/lavoro-fiori-e-lambrette/ (visitato in data 30 dicembre 2019).
5 «il ventiquattro», periodico indipendente giovani cattolici.
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coniugava con una parola che per noi in quel momento aveva un grosso valore: l’impegno, non solo per costruire la propria vita ma per contribuire all’elaborazione di un
progetto di società nuova e di una forte solidarietà che, ad esempio, si concretizzava
nei trasferimenti quotidiani a Firenze devastata dall’alluvione del 1966.
Da questo punto di vista ebbe molta importanza per alcuni di noi l’altra esperienza formativa costituita dal Doposcuola delle Stinche. Entrai in contatto con un
gruppo di miei coetanei che avevano ottenuto dal Comune alcuni locali della scuola
dove io avevo fatto le elementari, cioè San Mercuriale, per impiantarvi un doposcuola
e aderii al progetto insieme almeno ad altri due amici che provenivano dalla S.S. Annunziata.
Lì mettemmo su un doposcuola basato sui contenuti dei libri di Don Milani e
della Scuola di Barbiana che sono stati fondamentali per me e per quelli della mia generazione: Lettera a una professoressa per una nuova visione dell’insegnamento e L’obbedienza non è più una virtù, che ci insegnava a rileggere la storia d’Italia in una maniera
totalmente diversa da quella che avevamo imparato, affrontando i temi dell’obiezione
di coscienza e del pacifismo.
Il doposcuola andò avanti due anni in locali ampi e freddi che però ci fecero
confrontare con il problema della casa a Pistoia. San Mercuriale, infatti, era una seconda Cirenaica; al piano terra abitavano alcune famiglie indigenti che forse erano
ancora lì dalla fine della guerra, e insieme al convento di San Lorenzo6 e alle case
minime di via Valiani, dove era attivo il doposcuola di Giuliano Capecchi, costituiva
l’esempio vivente del problema irrisolto nella nostra città di un’abitazione dignitosa
per tutti.
San Mercuriale era un ex convento diventato poi scuola elementare e infine totalmente abbandonato. Al piano terra abitavano alcuni nuclei famigliari con gli adulti con occupazioni precarie e molti bambini con difficoltà scolastiche che iniziarono
immediatamente a frequentare il nostro doposcuola, così come altri arrivarono dal
quartiere di S. Marco
Ricordo benissimo, lo saprei riconoscere anche ora, l’odore della povertà che si
respirava in quei locali che aveva impregnato quelle mura, un odore che sapeva di cucina economica a legna, di servizi igienici ignobili, di pareti non imbiancate e di panni
umidi stesi ad asciugare sulle stufe.
Lì il nostro gruppo crebbe, arrivarono maestre e liceali appena diplomati e persone del mondo cattolico, tra cui le ACLI, che cercavano un impegno per un percorso
di riscatto personale e sociale, collettivo.
6 «Cineforum pistoiese», 1968-1973. Su Cineforum e Ventiquattro vedi la tesi di laurea di F. Perugi, Il dissenso cattolico
a Pistoia (1956-1970), Università degli studi di Firenze, A.A. 2010-2011.
111
Bartolini
Tu Rossella invece hai avuto un percorso un po’ diverso…
Dini
Completamente. Noi tre siamo pressoché coetanei, ma io ho avuto un percorso
completamente diverso dal loro: per certi versi con minor fortuna per gli ambienti in
cui ero cresciuta; per altri versi forse sono riuscita a “liberarmi” prima. Mi spiego: intanto io non sono pistoiese e quindi non posso fare gli stessi riferimenti, né territoriali
né ambientali che hanno loro. Io sono originaria di Montecatini, la mia famiglia è ancora là: sono io che sono venuta via. Anch’io di piccolissima borghesia, non piccola ma
piccolissima: mio padre impiegato, mia madre casalinga, come da modello classico di
quegli anni. Due figli e non di più perché era difficile poterseli permettere; famiglia fra
l’altro con una differenziazione interna tra mia madre cattolica – io ho sempre avuto
l’impressione, ma questa è la mia la percezione, di un cattolicesimo conformista – e
mio padre agnostico. Tra l’altro, ex partigiano, iscritto fin da subito al Partito comunista, militante e uno dei dirigenti della sezione montecatinese; quindi ho vissuto in
una famiglia in cui mia madre dominava per certi versi, e mio padre per altri. Il mio
richiamo intellettuale era quello di mio padre: io avevo, come dire, un forte feeling, potremmo dire oggi, nei confronti di tutto quello che veniva da mio padre, che spesso era
in contrasto, ovviamente, con la mamma – provenienti proprio da due schemi mentali
diversi –, anche se lei si subordinava ovviamente al marito. La mamma era comunista,
nel senso che votava per il Partito comunista, perché il marito era comunista. Non si
dà ancora pace, poveretta (lei è ancora viva), perché negli ultimi anni, cercando sulle
schede elettorali il Partito comunista, non lo trova; e non riesce a capire come votare,
nonostante le mie spiegazioni.
Io appartenevo, da un punto di vista territoriale e sociale – le due cose coincidevano –, alla zona popolare di Montecatini, cioè la zona sud, al di sotto della ferrovia.
Noi che abitavamo nella zona sud eravamo tutti di ceto popolare. Mio padre credo che
fosse quasi un’eccezione privilegiata perché era un impiegato. Tutta la zona sud naturalmente rappresentava una sorta di serbatoio elettorale del Partito comunista: non
era certo nelle zone del centro che il PCI acquisiva voti, ma nelle zone periferiche, nelle
zone che ancora erano a metà tra città e campagna.
Un piccolo riferimento al presente, a dimostrazione che il passato non passa
mai. In questo periodo si sta sviluppando a Montecatini una forte discussione sulla
scelta da fare per il raddoppio della linea ferroviaria. La scelta che viene fatta dalle
Ferrovie, e ormai pare anche dalla Regione toscana, è quella della cosiddetta “ferrovia
rasoterra”. Con conseguenze importanti sia a livello urbanistico sia livello sociale: la
disgregazione cioè di quel poco di unità armonica che ancora può esistere nella comunità montecatinese: la chiusura della zona sud rispetto alla zona del centro. Cioè il
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muro, con i sottopassi, ecc. Questo significa un ulteriore passo verso la divisione della
città: che prima era divisione sociale, proprio perché la zona sud era una zona popolarissima, che oggi si sta riproponendo in termini aggiornati: la zona sud oggi è di nuovo
molto popolare ma in termini disgregati, perché ora è piena di extracomunitari, è la
zona che ospita tutta l’emigrazione, o meglio immigrazione proveniente dall’estero;
con l’operazione ferrovia si ripropongono questioni che sono decennali, se non secolari addirittura.
Ecco, questo per dirvi l’ambiente in cui sono vissuta. Io sono andata a scuola dai
tre anni – allora era asilo, non era scuola materna – fino ai nove, quarta elementare, dalle
suore. A nove anni chiesi alla mia famiglia, e ebbi per fortuna l’appoggio di mio padre,
di venire via, minacciando che io a scuola non ci sarei più andata se non mi avessero
iscritta alla scuola pubblica. Cioè io non volevo più stare lì: perché non volevo stare lì?
Nove anni sono pochi per capire, sono le costruzioni che io ho fatto in termini retrospettivi dopo, quando ho acquisito una certa maturità. Il problema erano gli anni di Pio
XII. È vero che erano anche gli anni da cui poi, dieci anni dopo, si ebbe il Concilio, si
ebbe l’apertura di Giovanni XXIII, ma si ebbero in certi ambienti, non in altri. Io dalle
suore che cosa ho imparato? Ho imparato, intanto, a vivere con una cappa di piombo
addosso: che era quella del controllo di tutta la mia vita. Non solo si stava a scuola dalla
mattina alla sera, e si imparava anche, perché sul piano didattico le suore erano molto
brave. Contemporaneamente tutto era infarcito di funzioni religiose, di lezioni morali
iniettate in un certo modo, di controllo di tutti gli aspetti della vita. Per esempio, il
lunedì mattina una delle torture era l’interrogatorio sul perché il giorno prima non eri
andata all’oratorio. E se non eri andata all’oratorio delle suore perché eri andata con la
mamma al cimitero per la visita ai defunti, poteva passare. Ma se eri andata al cinema
per conto tuo, o anche con uno della famiglia, allora erano guai seri. Perché tutto doveva essere controllato. All’oratorio e al cinema dell’oratorio. Ricordo quelle infinite
proiezioni di Marcellino pane e vino: ricordo i pianti che facevamo alla fine di questo film,
quando il povero Marcellino moriva davanti al crocefisso a cui aveva portato il pane e
il vino. Questo martirio veniva celebrato come uno dei momenti caratteristici della vita:
e a noi bambine questa cosa faceva impressione. Non è che trovassimo proprio un’ispirazione nella morte di questo bambino. Non ci piaceva per niente.
Quindi ecco, c’era questa sorta di controllo un po’ su tutta la vita. Che tra l’altro sollecitava anche elementi di ipocrisia, perché… perché non dovevo dirti che ero
andata al cinema la domenica. Insomma: c’era un clima da controllo totalizzante della
tua vita, anche quella che poteva svolgersi ai margini della scuola e che invece veniva
riassorbita tutta nel “tutto sotto il nostro controllo, tutto ispirato a”. Si veniva iscritti
all’Azione cattolica automaticamente dopo aver fatto la prima comunione; ricordo di
non esserci poi mai andata, questo però per mie libere scelte. In breve: era questa la
cappa di piombo da cui io avvertivo di voler uscire.
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Questa è l’origine anche di un certo spirito anticlericale, che ho maturato negli
anni. Soltanto dopo e con una certa maturità sono riuscita ad abbandonare lo spirito
anticlericale e cercare di capire sul piano storico che cosa era avvenuto. Detto questo,
uscita dalle suore mi sono trovata nella scuola pubblica, per fortuna devo dire, dove
tuttavia si avvertiva una certa selezione di classe. Io ho fatto la vecchia scuola media,
non quella unificata, che iniziava proprio quando io terminavo il ciclo. Ma nella vecchia scuola media gli elementi di selezione c’erano e si avvertivano. Noi della zona sud
eravamo in pochissimi a superare lo scoglio del diploma. Passata al liceo, feci un’altra
grande scoperta. Mi volli iscrivere al ginnasio: convincendo sempre mio padre che su
questo piano per fortuna mi sorreggeva – perché aveva fortemente voluto per i figli
l’istruzione, aveva maturato la convinzione che i figli dovessero essere assolutamente istruiti, costi quel che costi, con qualsiasi sacrificio: si mandano a scuola, si fanno
studiare. Il grande liceo Forteguerri, vissuto da Montecatini, era un mito. Poi ci sono
arrivata al mito e mi è sembrato molto meno mito di quello che sembrava da lontano.
Ve lo raffiguro proprio con due, tre esempi: io sono arrivata al ginnasio, la quarta ginnasio, a tredici anni e mezzo, con una bella compagnia di trentasei compagni di classe;
io ero nella sezione C, la sezione ultima, quella che si era dovuta fare perché prima bastavano due sezioni; ma cominciava la scolarizzazione di massa in quegli anni e quindi
aumentavano anche gli iscritti ai licei. Al liceo Forteguerri eravamo in molti a venire
dalla Valdinievole, il treno la mattina era pieno di pendolari. Allora, fatto il ginnasio,
siccome il liceo ha solo due sezioni, uno doveva scomparire: una sezione intera doveva
scomparire. Perché più di due sezioni al liceo non ci potevano stare: erano A e B. E chi
scompariva? I miei compagni della Valdinievole scomparvero in tanti, non so perché:
probabilmente qualche motivo c’è. Non scomparivano i grossi nomi: i Calamandrei, i
Doretti, ecc. ecc… Come non scomparivano i figli della borghesia pistoiese, anche se
scadenti sul piano strettamente scolastico. Scomparivano gli altri; io ero una secchiona
e quindi c’era poco da fare, mi dovettero tollerare e finii anch’io al liceo proprio in
ragione dei miei voti, del mio rendimento scolastico e della mia pertinacia, sorretta
da mio padre, nel voler assolutamente esercitare un diritto; in quel periodo era una
grande conquista il poter studiare, non era mica cosa facile né sostenuta dalle famiglie;
e spesso non solo non era sostenuta, non era sostenibile. È questo il problema. Quindi
ero fra le persone privilegiate, che uscendo da una famiglia di estrazione assolutamente popolare, di grande modestia, fra l’altro proveniente da un’area periferica, com’era
in quel momento Montecatini rispetto alla “capitale” che era Pistoia, e rispetto al mitico liceo Forteguerri che doveva produrre soltanto classe dirigente e quindi valorizzare
elementi della borghesia; io ero un pesce fuor d’acqua in un certo senso e questo lo avvertivo pesantemente. Erano gli anni – tanto per non far nomi ma è storia – del preside
Arles Santoro, quelli in cui la selezione operava in termini piuttosto massicci. Del resto,
i numeri stanno lì, non se li inventa nessuno. Quando da tre sezioni, numerosissime,
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si passa a due sezioni qualcosa vuol dire; vuol dire che qualcuno è stato lasciato per
strada. Il problema è chi è stato lasciato per strada: quindi si cominciava ad avvertire
in questo contesto la pesantezza di una situazione sociale e anche politica, perché c’era
anche discriminazione politica oltre che sociale.
Bartolini
Tutti e tre avete raccontato in qualche modo, con esperienze diverse, quella che
è un’Italia di cui io ho avuto modo di vedere il finale ma che non c’è più: dal punto di
vista culturale, sociale. L’emarginazione sociale, questi quartieri popolari, che in quel
momento lì, in quella fase storica, cominciano a non reggere più; e fra voi si diffonde, in vari modi, una sensibilità: mi par di capire più in termini marxisti e classisti in
Rossella e più con un approccio di sensibilità umana in Andrea e Renzo. Tra l’altro è
curioso questo ruolo dei mentori che voi avete incontrato, la vicinanza con don Mazzi,
don Milani, tant’è che Rossella ci racconta più un passaggio di rottura, mentre voi ci
avete raccontato un passaggio di continuità, in maniera molto naturale che attraverso
vari percorsi arriva all’impegno.
Ecco, io volevo chiedere a Renzo e Andrea una cosa velocissima tanto per capire
quanto poi certi sviluppi politici hanno a che fare o non hanno a che fare con questa
esperienza. A Pistoia c’è un’esperienza un po’ particolare che è quella tra 1967 e ‘69
della Repubblica conciliare7, una sorta di accordo, di fatto molto precoce tra la DC e il
PCI, per la tenuta della maggioranza in Provincia. Questa esperienza di dialogo tra il
PCI e la DC, tra comunisti e democristiani, voi la sentiste con qualche riflesso o fu una
cosa aliena alla vostra esperienza, nella vostra scelta? Influisce o è qualcosa di lontano
da voi?
Innocenti
No, lontano no assolutamente perché un’esperienza politica come quella ha fatto la storia, aveva delle caratteristiche dirompenti rispetto a uno status quo di immobilismo nei rapporti politici. Poi, ovviamente ci possono essere state valutazioni diverse
a seconda un po’ del tuo osservatorio. Posso raccontare come noi all’interno di un
gruppo, all’epoca di formazione molto eterogenea – studenti, lavoratori, nella gioventù delle ACLI –, maturavamo una priorità di impegno a livello sociale e rivendicavamo
un’autonomia, che non era tanto un’autonomia dalla Democrazia cristiana. Non era
questo il fatto principale: era un’autonomia in termini di elaborazione politica, di impegno dei cristiani all’interno della società. Per questo c’erano delle forti analogie con
un processo che si stava avviando in modo differenziato ma molto interessante all’interno del mondo sindacale in quegli anni. Anche all’interno del mondo sindacale si
7 Ex distretto e Vietnam: Comune, ma cosa fai?, «il ventiquattro», a. 2, 5, (1966).
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vive questo tipo di riflessione. Il collateralismo non c’era solo nei confronti delle ACLI,
della CISL con la Democrazia cristiana. Ma c’era anche da parte della CGIL nei confronti del Partito comunista. Era una cosa di blocchi contrapposti. I quadrilateri non
erano solo bianchi. Però anche all’interno del mondo sindacale si viveva la necessità
di uscire da questa cosa e di rivendicare un’autonomia, che per molti aspetti era simile
alla riflessione che veniva fatta all’interno delle ACLI per avere un proprio modo di
costruire e di elaborare politiche.
Quanto poi questo fosse importante per la vita di ciascuno di noi è diverso: c’è
chi ci ha trovato motivo di impegno, per altri invece è stato motivo di rottura con le
ACLI e ne uscì. Noi abbiamo vissuto a Pistoia una scissione forte. Quella manifestazione del ‘71 era un modo attraverso il quale noi cercavamo di lanciare un messaggio di
rottura di questi schieramenti contrapposti. Volevamo un confronto in campo aperto:
sapevamo di rischiare una rottura interna al Movimento, vedevamo gli aspetti positivi
di tale azione ma erano ben presenti anche quelli negativi. Tuttavia andammo avanti
perché in quegli anni si stava profilando un percorso diverso per il Paese. Guarda, il
’70 segna un punto importante, una grandissima conquista del mondo del lavoro: l’approvazione da parte del Parlamento dello Statuto dei diritti dei lavoratori, che è una
legge pubblicata nel maggio del ’70 ma se ne vede traccia fin dagli interventi di Di Vittorio negli anni ’50. Perché è importante? Perché segna una fase di svolta rispetto alla
natura del diritto del lavoro nella nostra giurisprudenza. Si esce da una configurazione
di diritto commerciale e si entra in una dimensione invece di un diritto che ha un suo
corpo, che è forte e nasce da un principio: il lavoratore è la parte contrattualmente più
debole e va maggiormente tutelato. Ma è un derivato delle scelte della Carta costituzionale: non è che nelle aule parlamentari si inizia a discutere di questa cosa e poi c’è
qualcuno più intelligente degli altri che viene col “progettino”. Non funzionava mica
così. O meglio: c’è anche chi la vuol fare funzionare così. Ma non è condivisibile.
Lo Statuto dei diritti dei lavoratori segna una fase importante anche per un’altra
questione: il modo con cui un Parlamento deve legiferare sulle materie riguardanti le
condizioni dei lavoratori e la negoziazione nei luoghi di lavoro. L’intento deve essere
quello di “raccogliere” le pratiche più virtuose e fornire un quadro di sostegno alla libera
espressione della contrattazione sindacale, salvaguardando il principio importantissimo
dell’autonomia delle parti negoziali. Altrimenti si corre il rischio di uno svuotamento e
conseguente impoverimento dell’azione e del ruolo del sindacato stesso. La salvaguardia dell’autonomia negoziale, il libero svolgersi della contrattazione tra le parti è un
principio fondamentale per una efficace democrazia economica. La contrattazione non
è un rivendicazionismo spicciolo. Non è una rivendicazione di corporazioni. Non è una
serie di richieste che nascono dal fatto di avere determinate comuni condizioni che ti
portano a chiedere in quel momento specifico di raggiungere un obiettivo. È qualcosa
di diverso: se noi andiamo a vedere la seconda parte degli anni Sessanta, si acquisiva-
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no risultati importanti sul piano della contrattazione, sia aziendale che nazionale, sulla
questione dei diritti d’informazione, sui problemi del diritto allo studio, sulle questioni
legate ai meccanismi di solidarietà tra categorie di lavoratori, su riconoscimenti professionali; non eravamo ancora entrati in una logica perfida di “appiattimento” che era
quella del “professionalmente siamo tutti uguali”. Perché non è così.
A quell’epoca a Pistoia si facevano le assemblee, molto partecipate e ricche di interventi, si occupavano gli istituti superiori. Io ero fra quelli all’interno del movimento
studentesco che facevano queste cose qui, si contestava l’autoritarismo presente anche
nelle istituzioni scolastiche, si rivendicava il diritto all’assemblea. Cioè avere la possibilità di riunirsi almeno una volta ogni tre mesi per poter discutere tra noi studenti:
questa era la parola d’ordine dell’anno ’68 nelle superiori. Successivamente negli anni
Settanta si assisterà ad un ulteriore sviluppo: gli studenti, gli operai uniti nella lotta per
l’occupazione – è un portato di quella fase.
Bartolini
Gli anni Settanta come esito, fase alta del periodo precedente per quanto riguarda la contrattazione. Andrea ti aggiungerei una cosa, ti vorrei chiedere del percorso
che ti ha portato a Lotta continua. Una delle cose che i vostri gruppi fanno formando la
sinistra extraparlamentare è rompere fortemente a sinistra questi monolitismi: qui c’è
più che una rivendicazione di autonomia come ci ha detto Renzo. Impensabile negli
anni Cinquanta un’organizzazione che fa concorrenza al PCI. Perché non scegliere i
partiti e i sindacati tradizionali?
Ottanelli
Ti rispondo prima rispetto alla questione della Repubblica conciliare, direi che
non ci interessava e non ne parlavamo. Le cose, diciamo così, della politica strettamente locale non erano nel nostro interesse. Noi guardavamo il mondo come con una
macchina fotografica con un grand’angolo, che però illustrava panorami lontani. Puoi
fotografare, vedere e capire i monti stando in città ma l’attenzione era concentrata sui
grandi argomenti o, a livello locale, sulle lotte degli studenti o in fabbrica. Inoltre, bisogna tener conto che i più vecchi di noi avevano 22, 24 anni al massimo; la caratteristica
dominante era la gioventù.
Non avevamo radici o esperienze nella lotta politica locale; non eravamo passati
dalla FGCI, alcuni, come me, venivano dal mondo cattolico ma non avevamo esperienza di dibattiti e confronti sui temi dell’amministrazione cittadina Inizialmente l’unico
aggancio, come ho detto, con la politica locale era costituito dai problemi della casa e
dell’emarginazione scolastica.
E l’altro incubatore che ha portato alla costituzione della sinistra extraparlamentare è stato il movimento studentesco, come ricordava Renzo: un movimento che
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esplose improvvisamente con l’occupazione delle università e degli istituti superiori.
A Firenze in quel periodo erano occupate tutte le facoltà con una divisione in commissioni che trattavano vari argomenti e in cui si discuteva di come rinnovare la scuola:
l’obiettivo era quello del superamento della scuola di classe che era fatta di selezione
ed esami: io ho fatto tutto il mio percorso scolastico con esami frequenti: ho cominciato
in seconda elementare, poi in quinta elementare e l’esame di ammissione alla scuola
media e l’esame di stato non riformato; una continua e costante selezione.
E a proposito della scuola di classe mi ricordo che ho capito che io non appartenevo ai poveri quando sono venuti in classe – una cosa scellerata – a dare i quaderni
gratis del Patronato scolastico ad alcuni di noi, e a me non li dettero. Capii in quel
momento, come diceva Rossella, che la classe era divisa in due: chi aveva i quaderni
e i libri del Patronato e chi non li aveva, e io appartenevo al secondo gruppo; quindi
una scuola che ancora a distanza di anni continuava a essere di classe e selettiva, una
scuola contro cui noi ci ribellavamo.
Però l’altro obiettivo era quello di riunirsi ad altre realtà, non rimanere chiusi
nella scuola, ma unirsi al mondo e a quale mondo in quel momento? A un mondo
che era già in subbuglio, il mondo operaio: e allora io mi ricordo che da questo punto
di vista queste mie scelte, questo mio procedere in una certa direzione, la mia famiglia non l’ha mai ostacolato. Ricordo la stagione degli scioperi per l’abolizione delle
gabbie salariali, che era una cosa ignobile e che divideva i lavoratori in due categorie a livello regionale e nazionale e che furono abolite nel 1969-1972. Il movimento
studentesco partecipava a quelle lotte con la parola d’ordine «studenti e operai uniti
nella lotta» e così entravamo in un mondo che cresceva in maniera molto rapida,
forse troppo rapida, e noi con esso e questo l’abbiamo anche pagato con certe scelte successive. Ed era un mondo che ci proiettava immediatamente nell’alterità: noi
eravamo altri. Il Partito comunista con il suo monolitismo, la sua struttura, ci interessava solo nel momento in cui ci incontravamo con gli iscritti del Partito oppure
in momenti topici come quando il PCI pistoiese sostenne le lotte studentesche e gli
operai della Breda intervennero durante l’occupazione del Pacini solidarizzando con
gli studenti.
Non c’era nessun altro momento di contatto, percorrevamo altre strade. Pensavamo appunto a una classe operaia che potesse aspirare, indipendentemente dall’organizzazione politica e sindacale, ad essere parte della classe dirigente e al cui interno
cominciavano a emergere nuove figure sociali e nuovi comportamenti. All’interno delle fabbriche nascevano organismi politici diversi da quelli tradizionali. Per il rapporto
con il sindacato devo dire però che personalmente ho aderito da subito alla CGIL e
tuttora sono iscritto. Perché sapevo che all’interno del luogo del lavoro era importante
essere nel sindacato e perché in quel sindacato trovavo dei valori generali in cui mi
riconoscevo. Gli altri motivi erano motivi d’incontro, di dialogo se era possibile con il
118
PCI. Generalmente eravamo visti meglio come nuova sinistra, intendo tutto quell’arcipelago di sigle che stava a sinistra del PCI e di cui Lotta continua era sicuramente la
componente principale, dai socialisti. Ci guardavano con maggiore interesse; non so se
per una certa vena libertaria condivisa o in funzione di un ruolo di concorrenza con il
Partito comunista. E c’erano anche esponenti della Democrazia cristiana che ci osservavano con, almeno, curiosità e con cui, dopo molti anni, ho dialogato a lungo come
Vittorio Magni, Gianfranco Biagini, Giovanni Burchietti o Giancarlo Niccolai.
E poi gli ideali di fondo: il passaggio da quell’impegno del doposcuola che era
ancora all’interno di una logica solidaristica ben precisa, alla politica per me, passò
attraverso due momenti fondamentali. Uno, l’impegno internazionalista, e quindi la
manifestazione spontanea contro il film “Berretti verdi” davanti al cinema Lux8 che è
stata la prima manifestazione politica cui ho assistito. E l’altro motivo è l’antifascismo.
Perché per me era un percorso personale, di studio, di attenzione, di scelta di campo
anche fatto retrospettivamente: spesso in quegli anni ci domandavamo cosa avremmo
fatto se avessimo avuto 20 anni nel 1943; ci interrogavamo su quegli anni difficili e
dopo averne parlato sapevamo e dicevamo tutti che avremmo fatto una scelta ben
precisa, cioè quella dell’antifascismo. Questi due capisaldi, l’internazionalismo e l’antifascismo, sono due linee che ci hanno guidato.
Anche a livello internazionale seguivamo percorsi diversi rispetto alle forze tradizionali della sinistra: non pensavamo assolutamente che il blocco dei paesi del cosiddetto socialismo reale potesse essere per noi un punto di riferimento; ci riconoscevamo
nella Primavera di Praga e nelle posizioni di Dubcek e condannavamo senza esitazioni
l’occupazione della Cecoslovacchia. Egualmente con la Cina di Mao: nascevano allora
filoni di pensiero e poi gruppi che si identificavano in quel tipo di comunismo realizzato, ma noi lo guardavamo da lontano, studiandolo ma senza un’identificazione
totale. C’erano invece molte simpatie per la Cuba di Castro, la figura di Che Guevara
e il mondo sudamericano in cui fra l’altro erano protagonisti molti esponenti della
“Chiesa dei poveri” e anche la lotta del popolo palestinese I nostri obiettivi e le figure
di riferimento erano all’interno di un percorso generale di emancipazione delle classi
sociali deboli e emarginate insieme alla classe operaia e ai contadini, poi il discorso si
allargò per cerchi concentrici ad altre tematiche per giungere all’obiettivo di una modifica radicale della società.
Bartolini
Ecco, Rossella: tu ti sei fermata dicendo che avevi cominciato ad accorgerti che
stavi appunto in una struttura che divideva per classe e questo mi par di capire che è
8 Cfr: F. Perugi, Una Repubblica conciliare. Il governo di Pistoia fra il 1967 e il 1969, all’URL: http://www.toscananovecento.it/custom_type/una-repubblica-conciliare/ (visitato in data 30 dicembre 2019).
119
un po’ l’innesco della tua attivazione politica. A te la domanda opposta. Perché in quegli anni scegli la FGCI, il Partito comunista, quando magari ci sarebbe stato più appeal
nella sinistra extraparlamentare?
Dini
Intanto vorrei fare un riferimento molto preciso, derivato dalla mia biografia
personale ma anche di altri, giusto per richiamare alle origini di certe pulsioni e orientamenti. Io faccio parte di quel gruppo, di quella classe che al liceo Forteguerri impose
il “sei politico”, contrastando ogni forma di autoritarismo, questo era uno degli elementi portanti del discorso: e questo autoritarismo per noi era generalizzato, era la
famiglia, era la scuola, erano le istituzioni in genere. Un’altra scuola possibile, un altro
modo di studiare, un altro modo di rapportarsi. Per tutto l’anno riuscimmo a ottenere
il “sei politico” per tutta la classe, anche facendo rinunce – io avevo la media dell’otto,
quindi per me era una rimessa, per qualcun altro era un guadagno ; riuscimmo a imporre questa soluzione agli insegnanti e al preside, con l’accordo sostanziale di tutta la
classe. Non l’unanimità, ma l’accordo sostanziale sì. E questo non sempre aiutati ma
spesso boicottati dagli insegnanti. Lavorammo organizzandoci in gruppi di studio che
produssero tutta una serie di lavori finali e che contestavano in definitiva il modo e anche i contenuti di quello che ci veniva regolarmente sciorinato in un rapporto col corpo
docenti di tipo piuttosto autoritario, ma soprattutto caratterizzato dal “pensiero unico”. L’unica grande eccezione che ricordo e che poi ha orientato anche una serie delle
mie scelte politiche è stato un grande insegnante che purtroppo ho avuto solo per un
anno, il professor Salvatore Tassinari, fiorentino. Insegnava storia e filosofia, e ricordo
nel primo anno di liceo di aver sentito per la prima volta in quel liceo una conferenza,
fatta per tutte le classi con l’altoparlante, di Tassinari sulle origini del fascismo. Ecco
questa fu, per me e non solo, una delle cose illuminanti a livello non solo di metodo ma
anche di contenuti. Però un’iniziativa del tutto isolata.
Quando noi ci rivolgemmo alla politica – perché capivamo ovviamente che la
politica aveva un senso, bisognava pur uscire in qualche modo da tutte le proteste e
proposte del movimento studentesco - perché la scelta della FGCI? Devo essere sincera: in quel periodo si era costituito a Montecatini il circolo “Mondo nuovo”, PSIUP.
E Salvatore Tassinari, che appunto era stato un grande riferimento per me nel mondo
scolastico, spesso capitava: perché era del PSIUP e teneva lì delle riunioni e conferenze.
E quindi il mio sentire era molto vicino a questa esperienza. Contemporaneamente
però avevamo avuto come movimento studentesco una grande accoglienza da parte della Federazione comunista. Non ero in quel periodo iscritta né alla FGCI né al
Partito, ero fuori, ero solo una del Movimento studentesco. Si andava a ciclostilare i
materiali, i volantini e non solo quello, ma anche i materiali per i gruppi di studio alla
Federazione del Partito comunista che ci dava i mezzi e non ci chiedeva se eravamo
120
iscritti o non eravamo iscritti. Devo dire, ho avuto un rapporto di grande libertà. Altro
grande rapporto di libertà e di apertura che ho avvertito, e che poi in parte ha orientato
anche le mie scelte successive, fu con la Camera del lavoro. In particolare con l’apertura mentale e la disponibilità di una figura importante, a mio avviso, per lo meno per
noi in quel periodo, che era il segretario della Camera del lavoro, Giuliano Lucarelli.
Una delle persone più aperte nella nostra direzione che io abbia incontrato in quel
periodo. Tra l’altro per noi giovani diciottenni il poter interloquire direttamente senza
mediazioni, dopo aver sperimentato un rapporto gerarchico e autoritario nella scuola
o nella famiglia, o in altre situazioni, il poter interloquire direttamente con il segretario provinciale della Federazione del Partito comunista o col segretario della Camera
del lavoro, per noi ragazzotti diciottenni – spesso anche arroganti come capita a tutti
i diciottenni, che hanno in mente di cambiare il mondo e che in questo mettono forse
più passione che raziocinio – era importante avere come interlocutori diretti queste
persone. Erano il vertice delle gerarchie delle più grandi organizzazioni del movimento operaio e noi parlavamo direttamente con loro. Non c’erano più mediazioni che
filtravano questo tipo di rapporto; e ricordo che noi avevamo accoglienza in queste
sedi: questo in gran parte ha orientato, credo, le scelte in riferimento a organizzazioni
effettivamente rappresentative, grosse, presenti nella società e sul territorio.
Con ciò c’è da fare un discorso a parte per il rapporto coi giovani in generale. Io
feci una prima esperienza per mettere su a Montecatini l’organizzazione della Federazione giovanile comunista che non c’era più da moltissimi anni. Ricordo l’avversione
che si trovava in questi giovani che cercavo di raccogliere nei confronti di un partito
che avvertivano come unicamente interessato al Comune. Si discuteva solo degli assessori o dei consiglieri da eleggere, dell’amministrazione comunale; era come non
avere respiro. Mi riallaccio a quello che diceva prima Andrea: avevamo bisogno di respiro, di un respiro più ampio, che non erano soltanto le questioni amministrative del
Comune di Montecatini che praticamente occupavano ogni discussione della sezione
“Centro” del partito. E ricordo una parte di questi non più giovani ex-FGCI, ma che
oramai avevano 30-35 anni, quindi adulti ormai, che mentre rifiutavano l’iscrizione al
Partito si iscrivevano alla FGCI. Cioè avvertivano la FGCI come un possibile interlocutore e una possibile organizzazione mentre non accettavano la stessa cosa dal Partito.
Parlo di quel gruppo con cui io avevo contatti per la ricostruzione del movimento
giovanile. Comunque teniamo presenti alcune cifre per individuare i grandi motivi di
distacco tra il Partito e i giovani, nonostante tutte le aperture che trovammo come movimento studentesco sia nella Camera del lavoro sia nel Partito. Che ci fosse uno iato
tra giovani e Partito era indiscutibile. Per darvi solo due cifre di riferimento: nel 1968
gli iscritti alla FGCI erano 1.905. Nel 1950, parlo della provincia di Pistoia, erano 4.500.
Ovverosia in 18 anni, non solo il partito – perché anche il partito aveva perso molti
iscritti – ma anche la Federazione giovanile era passata da 4.500 giovani che aderivano
121
a 1.905. Cos’era successo? Evidente che c’era un distacco e che non c’era più questa capacità di attrazione: il fatto che io trovassi questi giovani trentacinquenni che però non
si volevano iscrivere al partito, ma invece vedevano nella FGCI un elemento forse più
rivoluzionario e meno amministrativista, probabilmente qualcosa significava. C’era
il sintomo di un distacco, di una incapacità di catturare, di avere dalla propria parte,
capendone i motivi, una generazione nuova che nasceva con nuovi bisogni, con nuovi
riferimenti, con nuove idealità anche. È giusto quello che diceva Andrea col riferimento a Che Guevara: a noi piaceva Che Guevara, ci interessava il Vietnam, ci interessava
Malcom X e le Pantere nere che negli Stati Uniti protestavano e manifestavano contro
il sistema razziale americano. Erano queste insomma le aperture sul mondo che in
definitiva desideravamo. Perché c’erano dietro tutta una serie di ideali, di liberazione,
anche di rivoluzione vera e propria: ecco il perché dell’accostamento.
Bartolini
Renzo, in qualche modo sia l’intervento di Rossella che di Andrea mi suggeriscono che il rapporto dei giovani con il sindacato è un po’ diverso in quel momento.
Cioè, da quello che diceva anche Andrea sembra che non ci fosse una netta divisione:
da Lotta continua mi iscrivevo poi alla CGIL. Che comunque sia il sindacato, dalla particolarità della sua funzione, rompesse questo schema con i circoli extraparlamentari e
riuscisse ad aprire di più il rapporto.
Innocenti
Ero giovane e ho ricordi molto precisi sul rapporto esistente. Prima citavo la
questione dell’occupazione: Andrea faceva riferimento all’intervento degli operai
dell’allora Breda che era anche vicina al Pacinotti. Ma noi del movimento studentesco,
lo ricordava anche Rossella, avevamo un rapporto con il sindacato molto forte e non
solo in termini di servizio. Io mi ricordo di essere venuto insieme ad altri del movimento studentesco, nel 1968 all’inizio dell’anno scolastico – ultimo anno delle superiori –
alla Camera del lavoro: si faceva le scalette ed entravi in questa stanza dove avvertivi
forte la presenza di Giuliano Lucarelli, segretario della Camera del lavoro, insieme a
un altro personaggio che voglio qui ricordare, Rolando Susini, perché se lo merita, una
persona molto aperta, e Silvano Cotti.
Salgo insieme ad altri tre o quattro, si discute con loro e la prima domanda che
ci fanno non è tanto di cosa avete bisogno, ecc. «Condividiamo le vostre rivendicazioni sui diritti come studenti»: strumentale, non strumentale o meno, sentivamo una
voce importante all’interno del sindacato su questo tema. Una specie di passepartout
per entrare in sintonia con il mondo giovanile. Guardate che questo non era dato per
scontato, rappresentava un punto di dibattito interno alla sinistra, e non riguardava solo la questione del rapporto con il movimento studentesco, perché si potrebbe
122
parlare delle forme di democrazia all’interno del sindacato e della stessa rappresentanza del sindacato all’interno delle fabbriche. Era il momento in cui si discuteva di
costituire i consigli di fabbrica; fino a poco tempo prima c’erano le rappresentanze
sindacali aziendali, cosa diversa. Nei luoghi di lavoro erano presenti le commissioni
interne e c’erano anche le RSA. Poi il movimento unitario cominciò a prevalere e con
la categoria dei metalmeccanici fu fondata la Federazione lavoratori metalmeccanici
(FLM), rompendo gli schemi; credo sia stata la prima. Successivamente ci furono i lavoratori tessili, poi a ruota i chimici: furono le prime tre categorie che dettero origine
a federazioni con forte tasso di autonomia, staccate dalle organizzazioni confederali
(avevano un loro tesseramento). Cominciavano a funzionare come organismi unitari
a sé stanti, e i riferimenti politici ed organizzativi erano quelli relativi alle attività
dei consigli di fabbrica eletti direttamente da tutti i lavoratori all’interno dei luoghi
di lavoro, iscritti e non iscritti. Oggi dopo tantissimi anni si dà per scontato tutto,
ma non fu mica un processo scontato questo del rapporto tra Consigli di fabbrica,
Federazioni unitarie di categoria e Confederazioni. E se andavamo a vedere la maggior parte dei componenti erano giovani, o perlomeno io lo ricordo così all’interno
delle fabbriche: giovani che chiedevano con forza questo rinnovamento all’interno
del sindacato.
Bartolini
Secondo te questi giovani all’interno delle fabbriche, che si impegnavano nel
sindacato avevano più o meno in testa le stesse idee che ci hanno raccontato Andrea
e Rossella o erano più sull’immediato, sul risultato, sulla contrattazione, sulle loro
condizioni di vita?
Innocenti
Erano condizioni di vita molto diverse. Il primo interesse era quello di riuscire a
rendere un po’ più libero il lavoro che stavano facendo all’interno della fabbrica. Era la
possibilità di avere un salario che gli consentisse di sostenere una rincorsa con i prezzi
del periodo. In quegli anni uscivamo dagli effetti del boom economico, cominciavamo
ad avere i primi grossi problemi dal punto di vista occupazionale. A Pistoia vorrei
ricordare le crisi dell’Arco, dell’Italbed, della cartiera Cini della Lima, i grossi licenziamenti di Limestre alla SMI, poi dopo a Campotizzoro. Uscivamo da un periodo in cui
c’era una condizione economica, e i suoi riflessi sociali, che aveva rappresentato un
processo di espansione, e cominciavamo ad affrontare l’inizio di grandi operazioni di
riorganizzazione del tessuto industriale. Ne cito una per tutti: la crisi della siderurgia
con la riduzione delle quote di produzione che venivano decise a livello europeo che
portò alla rinuncia di Gioia Tauro quale quinto centro siderurgico. Qualcuno la definì
“cattedrale del deserto”, dite quello che volete ma insomma all’epoca rappresentava
123
una grande possibilità occupazionale per il Sud. Poi la riduzione di Taranto, di Piombino, di Sestri Levante.
La metallurgia non ferrosa: io mi ricordo, seguivo il settore, avevamo il coordinamento nazionale della SMI. La SMI era una multinazionale già all’epoca, quindi
era un gruppo che se la faceva con i maggiori potentati e cominciavano le riorganizzazioni. Si espandeva all’estero e chiudeva stabilimenti in Italia. Le prime contraddizioni derivanti dagli albori di una globalizzazione inconsapevole. Allora si cominciò
a parlare anche all’interno dei metalmeccanici della necessità di uscire da una logica
di rivendicazione del posto di lavoro, per iniziare a parlare di strategie industriali
in grado di poter reggere sul piano della competizione internazionale. Quindi i primi coordinamenti europei con i sindacati francesi, spagnoli, con i tedeschi da parte
dei Consigli di fabbrica e della FLM. In questo si intravedeva anche la volontà di
tradurre in concreto un respiro politico ampio che andava oltre al semplice scambio
di informazioni. Poi c’erano le forti motivazioni che portavano a essere presente il
movimento sindacale nelle grandi battaglie per la pace nel mondo: la questione del
Vietnam. Il sindacato su questi temi ha avuto, in modo particolare, presenze non
solo a sfondo organizzativo, ma anche ruoli importanti. All’interno delle fabbriche
si discuteva anche di queste cose e i giovani c’erano sicuramente. Poi se vuoi un
giudizio mio, del tutto personale, ti dico che la prevalenza dei giovani nei luoghi di
lavoro era sicuramente per cercare di mantenere al proprio interno una dimensione
di lavoro che fosse dignitosa, che riuscisse a dare respiro per il futuro, che creasse
elementi anche di solidarietà e opportunità di crescita. All’epoca una delle cose più
importanti raggiunte dalla contrattazione nazionale delle categorie fu il “diritto allo
studio”. Qualcuno lo potrebbe banalizzare ad andarlo a vedere oggi, ma io vi pregherei di ragionare con la testa di quelli che sono usciti dai percorsi formativi alla
fine del 1960 e non sono andati avanti nella “scuola di classe”, come veniva vissuta.
Uno dei punti più importanti su cui si impegnò il sindacato per utilizzare le 150 ore
fu per fare raggiungere la terza media ai lavoratori: uno strumento che gli poteva
consentire di accedere alle scuole medie superiori. Furono organizzati appositi corsi
di scuola serali per utilizzare la possibilità di usufruire del monte ore previsto nei
contratti e arrivare così a diplomarsi. Questa era una spinta che veniva dai giovani
lavoratori. Poi qui ognuno ci può mettere quello che vuole, ma io trovo questo di
grande respiro.
Ma, è bene ribadirlo, prima c’è stato questo grande impegno nei contratti aziendali e di categoria. Successivamente, fu discussa e approvata la legge che cercò di dare
sostegno a questo elemento importante. Su questo vedo, appunto, una grande forza
dei giovani nati nel periodo postbellico, che arrivando nei luoghi di lavoro, nei luoghi
d’impegno quotidiano, portavano un po’ di rinnovamento e di scossone a un establishment un po’ troppo conservativo.
124
Bartolini
Questa cosa è interessante: da una parte grande idealità e dall’altra obiettivi
molto concreti. Un momento ascendente in cui si prepara il terreno, un’esplosione di
vitalità, di protesta, di rivendicazione, nel ’68, ’69, ’70. Poi cominciano i problemi, gli
elitarismi, la lotta armata, poi magari anche divergenze di obiettivi, di motivazioni.
E qui entriamo un po’ nell’altra metà del decennio. Un decennio di grandi conquiste, l’ultima grande stagione di rivendicazioni collettive, non perché dopo non ve
ne siano state. Ce ne sono a tutt’oggi. Se io però calcolo cos’è l’Italia nel ’60 e nell’80 e
vedo di mezzo cosa ci passa: diritto allo studio, divorzio, l’aborto, riforma del codice
di famiglia che non si menziona quasi mai ma insomma è una roba veramente pesante.
Noi oggi parliamo tanto della condizione della donna nel mondo islamico e ci dimentichiamo che la condizione della donna nel nostro mondo prima della riforma del codice
del diritto di famiglia forse non era tanto diversa rispetto a quella che c’è ora in Arabia
Saudita: l’accesso alle professioni, la parità salariale, anche quelle sono cose di quegli
anni, l’elenco è infinito. Quello che ne esce fuori è un Paese totalmente cambiato, dal
punto di vista sociale, economico, ma anche legislativo. E poi c’è l’arrivo della lotta armata. Cioè di chi non si accontenta, non si accontenta o intravede possibilità maggiori:
come impatta, come la vivevate voi questa fase?
Ottanelli
Lo spartiacque tra il ‘68 come momento di entusiasmo e spontaneismo e l’inizio
di una fase in cui non c’era più posto per questi atteggiamenti è costituito dalle bombe
di piazza Fontana. Fecero precipitare l’Italia e la nostra generazione in un gioco molto pericoloso e, forse, anche molto più grande di noi. Ma devo ricordare che fummo
molto chiari, fin dall’inizio nel negare assolutamente il coinvolgimento degli anarchici
in quel fatto. La posizione del PCI all’inizio fu più tiepida rispetto a dopo, quando si
schierò contro l’ipotesi delle bombe anarchiche. All’inizio fu abbastanza guardinga. Io
mi ricordo che mi telefonò Piero Bargellini la sera a casa, alle nove, mi disse: «Andrea
lo sai che è successo?» «c’è stata un’esplosione in una banca in piazza Fontana a Milano, ci sono morti e feriti …».
Ecco quella sera cambiò tutto in Italia e dall’opposizione alla pista anarchica
nacque un forte movimento spontaneo e un volume che dette il via alla stagione della
controinformazione: La strage di Stato: controinchiesta, uscito nel 1971.
Che fossero stati gli anarchici a mettere la bomba neppure Montanelli ci credette,
e lo disse subito. Cominciammo così questa battaglia, che era tra l’altro un momento di
controinformazione di tipo nuovo di cui faceva parte il periodico Processo Valpreda che
venne ribattezzato “il valpredone”, perché era un foglio molto grande, quasi un giornale murale che veniva distribuito nelle fabbriche, nelle scuole, nelle manifestazioni e
125
nelle assemblee. Le assemblee sulla “Strage di Stato” erano molto frequentate ed erano
il luogo privilegiato della presenza pubblica della sinistra in generale, ed extraparlamentare in particolare, a Pistoia.
Quello fu il momento discriminante per la storia d’Italia. Quando fu lampante
l’incapacità, se non la collusione, dello Stato di gestire la ricerca dei veri responsabili
e fu chiara la consapevolezza che si entrava in una fase politica estremamente complessa e pericolosa. Perché c’era chi con tutti i metodi del terrorismo di destra voleva
stroncare questa marcia molto forte in cui studenti e operai ma anche intellettuali,
docenti, artisti e giornalisti volevano cambiare i rapporti di forza all’interno della nazione. Volevano diventare protagonisti, rivendicando spazi nelle istituzioni ma anche
nella società in genere: e pur di bloccare questo percorso si fece ricorso a tutti i metodi,
compreso l’uso delle bombe.
E questo percorso passò attraverso l’arresto di Valpreda e un altro momento
fondamentale, dirimente, straziante, con la morte di Giuseppe Pinelli.
Quel fatto contribuì in modo determinate a condannare quel tipo di Stato. Un
uomo innocente che entra in Questura e ne esce morto, e ne esce in quella maniera: cioè
con un volo dall’ultimo piano in base a quello che verrà definito un “malore attivo”
con la Questura e i giudici che all’inizio annaspavano su questa indagine e in cui non
si è mai saputo con chiarezza come sono andate le cose, e che deve ancora trovare un
vero responsabile. Dopo iniziò un periodo terribile con un continuo stillicidio di violenze e bombe piazzate sui treni o nelle piazze, come a Brescia, e nelle stazioni, come a
Bologna nel 1980 e tentativi di colpi di stato.
Ci trovavamo a fare i conti con una cosa che fino ad allora non avevamo previsto, l’uso della violenza fisica generalizzata a fine politico e l’Italia fu attraversata dalla
pratica di un vocabolario della violenza diffusa e di un confronto aspro e continuo.
Confronto che, ad esempio, a Pistoia si concretizzò negli scontri per i comizi del Movimento sociale in piazza del Duomo9.
Nello stesso clima si pose la contestazione generalizzata per la morte di Giuseppe Pinelli. E il momento più acuto fu quello di individuare il responsabile e il soggetto
principale di quella vicenda nella figura del commissario Luigi Calabresi.
Contro di lui fu impostata una campagna che poi è stata pubblicamente criticata
e ricusata nel 199710 ma che portò nel 1972 al suo assassinio.
Penso che quello doveva essere un momento di profonda riflessione, e invece
non lo fu, in quel caso ci fu un atteggiamento, per dirlo con Luciana Castellina, di
9 Il riferimento è al cinema Lux nel centro cittadino. A Pistoia, come nel resto del Paese, la proiezione del film di
John Wayne, Berretti verdi, uscito nel 1968 e che celebrava l’impegno militare americano in Vietnam provocò
proteste e picchettaggi davanti ai cinema.
10 Si riferisce a degli scontri svoltisi alla metà degli anni ’70.
126
“militanza acritica” con cui qualcuno pretese di sostituirsi allo Stato per giudicare innocenti e colpevoli.
L’omicidio di Calabresi ci proiettava in una situazione di deterioramento estremo della politica in cui non c’era più posto per il confronto alla luce del sole, a faccia
aperta, di fronte a tutti con un’assunzione personale di responsabilità, davanti alla
storia e davanti ai nostri ideali.
Ecco, in quel momento, con quell’atto si pretendeva quasi che in qualche maniera, si fosse rimediato alla violenza su Pinelli.
Io credo che quello fosse il momento per capire che era ora di cambiare atteggiamento e denunciare una deriva pericolosa. Perché dopo, come avviene sempre una
volta finito un periodo di impegno politico, c’è il momento della riflessione. Credo che
non si possa pensare di rimediare a un torto subito, l’uccisione di Pinelli, con un torto
uguale e contrario. Non sta nelle cose, nella logica, nella politica e nel vivere civile; non
sta in uno Stato che, con tutti i limiti, con tutti i difetti che aveva, con tutti i problemi,
era comunque uno Stato contro cui si potevano usare altre critiche e altre parole. In
definitiva con quell’atto si fece solo un’altra vedova e altri orfani e in più e si bloccò un
processo in corso che poteva aiutare a capire la vicenda Pinelli.
Credo che la migliore risposta, sia stato l’incontro tra Licia Pinelli e Gemma Calabresi avvenuto nel 2009 con cui si intese sanare ferite ancora aperte. Sono momenti e
fatti di una storia d’Italia fatta per molti anni di violenze e dolori.
Bartolini
Andrea, ti posso chiedere in aggiunta che impatto ebbe la gambizzazione di Niccolai qui a Pistoia?
Ottanelli
Dunque, siamo nel ’77 se non sbaglio. Io credo sia stata una cosa del tutto stupida e inutile, che ha causato solo grande dolore a lui e ai suoi familiari. Mi sono ritrovato, decenni dopo, ad amministrare con Giancarlo Niccolai un importante istituto
pistoiese, gli Istituti Raggruppati. E lì c’è stato un processo di riflessione, che magari
era già cominciato quando avevo conosciuto Vittorio Magni, altre persone anche della
Democrazia cristiana per cui è apparso evidente che nella società non esistono sempre
e per forza solo il bianco e il nero, esistono anche zone di grigio in cui ci sono persone
per bene, a qualunque schieramento appartengono, ci sono persone che hanno ideali
che pur se vissuti in schieramenti diversi possono portare a un percorso collettivo.
Con Giancarlo mi sono confrontato, ho discusso e litigato ma, mantenendo le nostre
posizioni, abbiamo cercato di lavorare per il bene comune.
Quell’attentato fu vissuto come un fatto, tutto sommato, chiaramente deciso ed
elaborato fuori Pistoia. Io di Giancarlo sapevo poche cose: era un dipendente della
127
Breda, esponente della Democrazia cristiana, che sul posto di lavoro era molto attivo
e aveva anche una ben precisa linea politica, quella della creazione dei Gip, i Gruppi
d’impegno politico, che volevano essere il contraltare democristiano alle organizzazioni in fabbrica del Partito comunista e del Partito socialista. Ma non mi sembra che
fosse un personaggio di assoluto rilievo. A Pistoia i democristiani di assoluto rilievo
erano altri.
L’attentato a Giancarlo Niccolai fu vissuto da me come una scelta di retroguardia, un colpo di coda nella realtà locale, un atto che iniziava e che finiva lì, che non
ebbe nessuna conseguenza, escluso il fatto che aprì a Giancarlo una carriera politica
in Consiglio regionale. Ma un atto che io non esito a dire inutile, che non modificava i
rapporti di forza all’interno della politica locale, che non faceva fare un salto alla politica pistoiese. Era una violenza senza senso.
Bartolini
Rossella, tu fai una repentina ascesa nel PCI e un altrettanto repentina uscita dal
PCI. Tu hai questo precoce ritorno al privato.
Dini
Potrebbe essere lunga la storia ma la faccio molto breve: hai ragione, repentina
ascesa e altrettanto repentina discesa.
Nel senso che diventai, o meglio mi detti l’etichetta di dirigente – non lo ero poi
nella realtà, né per la giovane età, né per le competenze, né per la storia vissuta: passare dal movimento studentesco a dirigente di un’organizzazione di massa e importante
come il Partito comunista non era uno scherzo. Conclusione: io fui tra i “premiati” del
movimento, nel senso che andai a fare la funzionaria di partito. Fu un breve periodo,
qui non sto a ricordare le vicende, nonostante tutto sono troppe e troppo complicate.
Però io feci un’esperienza di funzionaria: prima come responsabile della commissione
femminile, poi come responsabile della stampa e propaganda. Entrambe esperienze
molto brevi. Che cosa poi determinò la mia uscita? Credo essenzialmente due motivi:
uno di carattere strettamente personale e familiare che non interessa a nessuno; l’altro,
credo, sintomatico del sentire di una generazione o di una parte di quella generazione. Il problema era che cominciai ad avvertire una cappa di piombo anche lì, come
l’avevo avvertita nella cattolicità: il rischio era che tutta la mia vita fosse finalizzata e
assorbita interamente dalla politica. Questo mi pareva alla fine inaccettabile, perché io
avevo già un po’ maturata anche se non ben definita una visione laica in senso ampio,
una visione laica del partito. Il partito è lo strumento, non è un fine. Ergo, come tale
va trattato. Il fatto di vivere, in un certo senso anche come destino esistenziale, la vita
professionale della politica era contro una serie di libertà che ovviamente volevo avere. Questa mia esperienza personale poi in realtà maturò, molto più tardi, anche più
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in generale. Ricordo alla fine degli anni ’70 i dibattiti sull’Unità: molte compagne – si
trattava soprattutto delle donne – dicevano appunto che il totale assorbimento nella
politica loro personale o di mariti, o di fratelli, era quello che aveva tolto grandissima
parte alla loro vita. E non se la sentivano più di accettare questa specie di panpoliticismo. Questo fenomeno era spiegabile per anni precedenti, il vivere cioè in una chiesa:
nel partito e non solo nel partito ma nelle organizzazioni intorno al partito. Negli anni
Cinquanta, guerra fredda e rapporti politici interni al Paese di discriminazione oggettiva comportavano una serie di strumenti di difesa a livello anche di possibilità di
socializzazione che una parte della comunità doveva pur avere. E quindi il Partito era
anche un elemento di socializzazione, come lo era la casa del popolo, come lo era una
serie di circoli, come lo era anche il sindacato. Cioè il costruire quella che è stata, credo
giustamente, definita “l’altra chiesa”, aveva una sua giustificazione storica. Bisognava
pure che il movimento operaio creasse tutti gli strumenti della propria difesa a livello
perfino di tempo libero, di intrattenimento. Spesso anche nelle case del popolo non si
facevano mica cose molto diverse da quelle che si facevano negli oratori, magari alcuni contenuti cambiavano ma si facevano proiezioni, si facevano le gare della Stellina
dell’Unità, spettacoli di questo genere. Perché bisognava creare anche un ambiente di
intrattenimento che legasse insieme la comunità o il popolo, chiamiamolo così, della
sinistra. L’appartenenza era necessaria in un momento di assoluta discriminazione e
guerra fredda. Cessato tutto questo, veniva meno quest’esigenza e maturavano esigenze diverse. Come non si poteva più vivere chiusi nella Chiesa di Pio XII, non si poteva
neppure rimanere chiusi nella chiesa del Partito comunista. C’erano altri mondi, altre
finestre da aprire anche nella vita privata. Il famoso discorso che cominciò a venire
fuori nella seconda metà degli anni Settanta, soprattutto: il privato. E il dibattito sul
privato che diventa politico e il politico privato ha riguardato credo una generazione
intera, soprattutto di donne, ma non soltanto.
Un appunto vorrei fare, perché questo è interessante. Ne hai accennato prima tu
Stefano: 1974, il referendum sul divorzio. Fu vinto anche se con un bel combattimento,
durato un bel po’ di tempo, perché il dibattito era cominciato assai prima. Una campagna esaltante per alcuni versi: io ricordo che facevo i comizi col pancione perché ero incinta di sei mesi. Mentre questa battaglia fu capita, ricordo, anche alla base del partito,
c’era un’altra faccia del problema, di grande importanza, che era la riforma del diritto
di famiglia, che invece non solo rimaneva talvolta in second’ordine, ma incontrava in
alcune zone anche difficoltà ad essere compresa dalla base del partito. Io in quel periodo facevo conferenze, dibattiti su questa materia e, a seconda delle sezioni e delle zone,
trovavo atteggiamenti differenziati, non c’era univocità. Mentre sul divorzio resistenze
non ce n’erano, sulla riforma del diritto di famiglia si manifestavano. C’erano resistenze ad accettare quello che in fondo era già in gran parte nei fatti ma sarebbe poi esploso
successivamente, e costituiva un cambiamento antropologico. La riforma del diritto di
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famiglia, che fu poi approvata nel ’75, in parte prendeva atto, ma in parte autorizzava,
adeguando finalmente le norme ai principi costituzionali, la parità uomo donna, che
poi non era affatto irrilevante ai fini economici o ai fini successori, e così via. Solo un
aspetto, che forse è sfuggito a molti ma non è sfuggito a me perché l’ho vissuto personalmente, vorrei ricordare: io ho avuto un figlio nel 1974, cioè un anno prima della
riforma del diritto di famiglia. Mio figlio era illegittimo, perché nato fuori dal matrimonio. E’ diventato uguale agli altri soltanto due anni fa, all’età di quarant’anni. Infatti
soltanto due anni fa, alla fine del 2013 e con vigenza dal 2014, si è finalmente avuta
la parificazione totale tra figlio naturale e figlio illegittimo. Questo per dire quante e
quali possono essere state le resistenze su questo terreno che abbiamo incontrato in un
Paese come il nostro, che ha chiaramente vissuto arretratezze incredibili, per motivi
storici naturalmente. Soltanto due anni fa si è potuto compiere quel processo iniziato
nel 1975, a quarant’anni di distanza.
Bartolini
Ci avviamo a concludere. Renzo, tu incarni in qualche modo l’essenza di quella stagione sindacale. Il percorso delle ACLI è, come dire, preparatorio alla stagione
dell’unità sindacale. Percorso importantissimo che poi come s’è detto fino a ora ebbe
tantissime rivendicazioni, tantissime conquiste, anche piccole: i contratti, insomma nei
contratti si guadagnano tantissime cose in quegli anni, impossibile ricordarle tutte. E
poi si arriva in fondo agli anni ’70, lo accennavi prima: erano già in moto processi, non
sono più gli anni del boom e quant’altro e si arriva alla politica dell’EUR.
Innocenti
Ma guarda meriterebbe sicuramente una serata a parte, sotto il titolo “La strategia dell’EUR, la strategia delle riforme”. Un passaggio che ha cambiato sicuramente
molto, nell’impegno concreto dei rapporti tra il sindacato e la società. L’ufficializzazione di una linea che cercava di tenere insieme il miglioramento delle condizioni materiali
di vita nel lavoro con la necessità di ammodernamento del Paese nelle varie strutture
con cui questo si organizzava. Dalla difesa della salute, per intendersi, alla questione
della pensione, ai problemi del fisco, dell’uguaglianza. In questo qualcuno ha visto un
ripiegamento, cioè il sindacato non riusciva più a rappresentare sul piano della contrattazione le istanze nuove, se le sentiva sfuggire. Cercava di riaccreditare il proprio ruolo
nel Paese con un rapporto diretto con i partiti politici, o con le istituzioni addirittura, o
la logica anche che qualcuno definiva di pansindacalismo. Quindi un ruolo che va oltre
rispetto a quello normale e naturale del sindacato per cercare di avere un ruolo di potere all’interno del Paese. Io ritengo che sinceramente, per come ho vissuto quel periodo
lì dall’interno, vi fu un grande salto di qualità. Perché si usciva da uno schema tutto
interno e si vedeva la possibilità di un lavoratore a dimensione globale: un protagonista
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del cambiamento. Non era solamente il sindacato che cercava di difendere determinati
diritti all’interno del luogo di lavoro, ma insomma passare dal diritto allo studio e le 150
ore nei contratti ad avere una scuola che aprisse le porte e desse le opportunità a tutti
fu sicuramente una fase importante. Passare dal contrattare un livello di protezione sociale attraverso le Casse mutue aziendali o di categoria, dove tu potevi contrattare una
miriade di cose con trattamenti più svariati, per l’amor del cielo… passare a dire «no, si
tronca tutto e si rivendica un sistema sanitario universalistico in cui si chiudono queste
cose» io l’ho trovata una grande scelta, una grande intuizione del gruppo dirigente del
sindacato. In primis, il gruppo dirigente guidato da Luciano Lama – lo voglio ricordare
perché ci si ricorda solamente delle persone quando vengono fatte oggetto di lancio di
pietre, quando parla all’università perché secondo alcuni non aveva capito la sensibilità
dei giovani. Ma è stato un personaggio diverso da come qualcuno lo vorrebbe dipingere. Poi in questo c’era sicuramente un atteggiamento che voleva affermare un ruolo importante nel sindacato, nella società negli anni futuri. È stato sicuramente un passaggio,
per conto mio, di crescita qualitativa all’interno del sindacato.
Aggancio proprio su questo il telegramma finale: in quell’epoca io mi ricordo le
riunioni nel saloncino con le categorie in cui si discuteva il merito delle proposte. In cui si
discuteva anche in modo tecnico, cioè la questione del come si articolava una proposta,
ecc... Erano riunioni che facevamo una volta finito il lavoro durante il giorno, perché non
ti provare a fare una riunione verso le sei, le sette, quando veniva la gente che usciva da
lavoro e doveva controllare la busta paga, doveva fare questo e quello. Queste cose le
facevi dopo, o le facevi il sabato pomeriggio, la domenica, andavi in giro a parlarne. E
ti formavi una conoscenza, una tua opinione, la discutevi. Non è stato facile con alcune
categorie andarli a convincerle che si finiva con le casse mutue e le casse pensioni.
Ottanelli
Il Partito comunista della San Giorgio fece una battaglia di retroguardia, come fu
riconosciuto successivamente, perché voleva mantenere la Cassa mutua.
Innocenti
Furono cose e contraddizioni cocenti. Non era proprio un monolite, ci si dicevano e ci si mandavano a dire tranquillamente ma si discuteva, c’era un ordine e una gerarchia di valori, prima di tutto, che consigliava tutti ad ascoltare e a decidere. Questo è
importante. Io vedo l’impegno all’interno del sindacato come uno dei canali attraverso
il quale questo Paese ha fatto grandi passi in avanti. Forse un impoverimento che possiamo vedere oggi, scusate se faccio questa battutaccia, dal punto di vista delle linee
politiche espresse in giro, forse dipende anche dal fatto che alcuni canali che erano tradizionalmente non preposti da nessuno, ma scelti dalle persone per mettersi insieme e
cambiare le cose che li circondavano si sono un po’ interrotti. Non sono più quei canali
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utili a formare e quindi si rompe il rapporto tra l’impegno politico e la conoscenza, la
cultura, e questo ne va sicuramente a decremento della qualità politica e dell’azione
generale in questo Paese oggi.
Ottanelli
Anzitutto una precisazione: quello che ho detto io è ricostruito su filo della
memoria. Altre persone che hanno vissuto come me quei momenti possono dare descrizioni di quei fatti in maniera diversa e, ovviamente, valutazioni diverse. È molto
difficile ricostruire quel periodo per noi, perché non ci sono archivi, non c’è niente di
scritto, ci sono poche testimonianze. C’è la letteratura “grigia”, i volantini, quelli parlano tanto di noi oppure ci sono i periodici e le riviste prestigiose come i Quaderni piacentini e molto è conservato, per nostra fortuna, nel Centro di Documentazione presso
la Biblioteca San Giorgio.
Per concludere: un’esperienza di vita che è finita nel 1976 quando è terminato il
mio impegno politico diretto perché era un’esperienza che si era conclusa, si era esaurita.
È chiaro che quando ti dai un obiettivo escatologico, un obiettivo molto alto che
è quello della riforma radicale della società che era passata attraverso l’attività in settori fino ad allora mai sperimentati dalla politica: il lavoro politico con i militari, con i
carcerati, con i senzacasa, il rapporto con il femminismo, ecc. è chiaro che ti esaurisci
rapidamente se non hai una struttura interna che pensa anche ad autoriformarsi, a
darsi continuità. E non c’era niente di tutto ciò.
E da allora ti rendi conto, e non fu solo un’esperienza mia ma di tutto un gruppo e di una parte consistente di una generazione, che devi affrontare la vita senza
paracadute. Non sei più sorretto dall’ideologia, non hai più un senso di appartenenza
fortissimo come quello che c’era in queste strutture molto coinvolgenti, come anche
nel caso del Partito comunista o di altri partiti, immagino. Ma devi affrontare la vita
con il tuo bagaglio personale, con la tua cultura politica che ti deriva da quegli ideali
e da quelle idealità ma che devi rinnovare e adattare a una vita quotidiana che ormai
appartiene solo a te, alle persone che ami e con cui hai rapporti solidi. Questo è stato
importante, riprendersi la vita che fino a quel momento era circoscritta e conclusa in
un’esperienza politica.
Io ho alcune soddisfazioni generazionali. Almeno a Pistoia nessuno di noi, che
sappia io ovviamente, ha cambiato atteggiamenti e modi di vita e orientamenti politici
in maniera radicale. Siamo rimasti tutti nell’alveo della sinistra, coniugando, vivendo
e declinando il nostro impegno in maniera diversa: chi nel sindacato, come me, chi
sul luogo di lavoro. Con coerenza e con impegno, cercando di fare del nostro meglio e
cercando di rappresentare i colleghi di lavoro nelle rappresentanze sindacali unitarie,
o negli organismi dirigenti.
Oppure anche nel mondo della ricerca e dello studio e nel mondo del volonta-
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riato culturale. E quindi credo di aver percorso un pezzo della mia vita con una certa
coerenza che mi ha fatto rispondere, tempo fa, a un famoso ex sindaco di Pistoia che
mi diceva: «Vedi Andrea, io ho smesso di dividere le persone tra persone di sinistra e
persone di destra. Esistono solo persone per bene e persone non per bene. Te ti metto
tra le persone per bene». Gli risposi: «Ti ringrazio Renzo, però io preferisco essere una
persona per bene di sinistra, quindi se tu mi devi mettere da qualche parte, mettimi tra
le persone per bene, ma di sinistra».
Quindi credo che sia questo un po’ il tirare le somme di una vita. Per la mia professione legata alla ricerca storica ho cominciato abbastanza presto a farlo, cioè intorno ai
sessant’anni e quindi ho ancora molto da fare. E anche l’occasione che mi è stata offerta
con questa intervista è stata un momento importante di questo lavoro sulla memoria.
Dini
Il bilancio è molto difficile. Io mi sento grata e veramente riconoscente per tutto
quello che è successo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, perché una stagione così intensa a livello di dibattito, riflessione, esperienza, credo di non averla mai
più vissuta. E’ stato effettivamente un periodo estremamente formativo, nel bene e
nel male, nel senso che si possono riconoscere anche i propri errori, maturando nell’esperienza, nella competenza, nella conoscenza. Io a differenza dei miei “colleghi” ho
avuto anche un periodo di rigetto della politica, tant’è che per me la professione, con
annessi elementi di studio e di ricerca, è diventata veramente una droga, nel senso che
mi ci sono rifugiata. E ho scelto consapevolmente un percorso anche professionale, di
ricerca e di studio, estremamente lontano nel suo tecnicismo dalla politica. Cioè pur
lavorando sempre nell’amministrazione pubblica ho cercato e mi sono costruita, consapevolmente, un percorso che mi tenesse il più lontano possibile e il più autonoma
possibile dal livello politico. Vi faccio un esempio così capite subito, specialmente chi
di voi ha visto quel divertentissimo film, che è Hotel Plaza, con quell’incredibile comico
che è Walter Matthau. Ho scelto di fare la bibliotecaria dirigendo tutti i miei studi verso
problemi tecnici di catalogazione, ovverosia di mediazione dell’informazione. Questo
mi teneva lontana dai livelli politici, perché non c’erano decisioni politiche da prendere; è lo stesso rapporto che ci può essere tra il lavoro del medico e il livello politico:
nessuno può dire a un medico come si usa il bisturi, questo lo deve sapere lui. Ecco
io ho cercato questa strada, devo dire molto sinceramente, e ne ho tratto anche grandi
soddisfazioni, perché sono arrivata a un grado di specializzazione piuttosto elevato.
In conclusione: grandissimo ricordo e grandissima gratitudine per quella stagione, perché ha consentito una grande maturazione, individuale e collettiva. Contemporaneamente io ho preso un’altra strada, ripeto, con una certa consapevolezza, proprio
per reazione ad alcuni aspetti che mi sembravano eccessivi e opprimenti per una vita
che io intendevo vivere non in termini unidirezionali ma a tutto tondo.
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Recensioni
Monica Galfrè, La scuola è il nostro Vietnam. Il ’68 e l’istruzione secondaria italiana,
Roma, Viella, 2019, 222 pp., € 25,00
Asceso alla ribalta nel corso del recente cinquantenario, il ’68 continua a mostrarsi all’analisi storica come un periodo socialmente e culturalmente fecondo, che,
nonostante la ricca messe di pubblicazioni uscite in questi ultimi mesi, ancora ha molto da offrire a chi vi si approcci. Testimone ne è La scuola è il nostro Vietnam. Il ’68 e
l’istruzione secondaria italiana, studio che Monica Galfrè ha dedicato alle proteste degli
studenti superiori tra 1966 (anno dell’affaire della rivista studentesca «La Zanzara») e
1969 (segnato dalla strage di Piazza Fontana).
I numerosi archivi consultati e i tanti, tantissimi riferimenti alle vicende dei singoli licei e istituti restituiscono l’immagine di un movimento posteriore rispetto a quello universitario, ma non succube; policentrico e polimorfo, che traeva forza sia dagli
echi delle contemporanee tensioni internazionali (dalla guerra in Vietnam alla Cuba
di Castro) sia dalle inquietudini di una società e di un’economia in crescente affanno,
senza dimenticare quanto le proteste contro i disagi dei doppi turni e degli edifici fatiscenti abbiano innescato nelle giovani generazioni formae mentis e modus vivendi inediti
e radicali. Un movimento protagonista nelle piazze e nella pubblicistica, con un rilievo
significativamente più ampio rispetto a quello conquistato dai medi negli altri paesi
europei – due su tutti, la Francia e la Repubblica Federale Tedesca. La forza del legame tra protesta e società è testimoniata soprattutto dalle vicende delle scuole medie
superiori più vicine al mondo del lavoro: gli istituti tecnici e gli istituti professionali.
La “congiuntura” e i suoi effetti sull’occupazione giovanile non sono fenomeni estranei alla contestazione, e soprattutto non lo sono laddove è più acuta la percezione di
un mercato del lavoro in sofferenza: e questa contestualizzazione è tanto più cogente
quanto ci soffermiamo sugli istituti, attori troppo spesso negletti dalla ricerca storica
ma non di meno attraversati da vigorose inquietudini sul destino lavorativo dei futuri
diplomati. L’attenzione sugli istituti, d’altronde, apre nuove prospettive di ricerca sul
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rapporto tra mondo della scuola e mondo del lavoro in quel delicato tornante che furono gli anni Sessanta.
Altrettanto innovativa è la scelta di focalizzare l’attenzione su due categorie di
comprimari che la storiografia solitamente trascura, e su cui sorvola: i presidi, che nel
corso della contestazione seppero dimostrarsi più inclini al dialogo e al confronto di
quanto non si creda; le famiglie, il cui coinvolgimento trovò sanzione con i Decreti
Delegati del 1974; e i professori, protagonisti in quegli anni di un ricambio generazionale massivo e denso di conseguenze. La rapidissima crescita della scolarizzazione
secondaria e l’assoluta incapacità di pianificare le immissioni in ruolo scalfì una classe docente cresciuta negli anni del Fascismo a favore di giovani neolaureati che del
regime non conservavano ricordi personali – la prima generazione cresciuta sotto la
Repubblica, e che al suo svolgersi legava intera la propria memoria storica. Una trasformazione destinata a mutare nel profondo la classe docente italiana, sulla via della
sindacalizzazione e di un rapporto ambiguo e complesso con i propri studenti.
Chiara Martinelli
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Francesca Socrate, Sessantotto. Due generazioni, Roma-Bari, Laterza, 2018, 261 pp.,
€ 22,00
Perseverando nel vizio di bambina, che a tutt’oggi mi rimane, inizio a scorrere
il libro di Francesca Socrate dal fondo, dall’ultima pagina. Indice e appendice dicono già molto di questo fortunato lavoro. Un’analisi di un anno, il Sessantotto, con
i suoi precedenti e il suo effetto sul lungo tempo, fatta attraverso la storia orale e
arricchita da strumenti di lettura delle fonti, forniti dalla linguistica computazionale,
grazie ad un software di analisi automatica dei testi, un settore ancora poco frequentato dalla storiografia. La raccolta delle interviste sul Sessantotto a due generazioni,
separate da pochi anni, a cavallo degli anni quaranta, ci restituisce la memoria, e
l’auto-rappresentazione, dei protagonisti mettendo in evidenza linguaggi specifici e
occorrenze.
Due generazioni del periodo postbellico che vivono il miracolo economico e lo
cavalcano incorporando le nuove influenze, le tradizioni dei partiti politici, i codici
etici in modo diverso. La prima, nata prima della conclusione del conflitto mondiale
è quella dei giovani che nel ’68 erano già universitari o lavoratori, cresciuti e formati
nei gruppi giovanili politici dei partiti della repubblica: dal PCI alla Democrazia
cristiana, dal MSI, a quell’esperienza peculiare, che fu Gioventù Studentesca, (poi
Comunione e Liberazione, già lontana dal sistema dei partiti e dalle organizzazioni
cattoliche legate ad essi). La seconda generazione, quella dei giovanissimi, nasce già
antisistemica; impreparata si butta nelle assemblee, nelle letture dei documenti e dei
testi fondanti del movimento studentesco spesso (confessano gli intervistati) senza
capirci niente; in modo inaudito invade la piazza, così inaspettatamente e con violenza; “rivoluzionari e estremisti”, come li definisce “Quaderni piacentini”, liberi dalle
briglie dei partiti, i giovani guardano al mondo intero, a Ho Chi Minh, il Che e Mao.
Ebbene, alla luce delle interviste, da un lavoro analitico nel conteggio e nella
comparazione delle parole usate dai protagonisti (l’uso dei verbi, della prima o della
terza persona, le negazioni e gli avverbi) emergono le differenze tra le due generazioni: età, genere, ceto sociale sono variabili importanti per descrivere la concezione
dell’individuo e del collettivo, della storia e la memoria, l’attaccamento e la presa di
distanza dai fatti vissuti. Due generazioni composite, fatte di leader e rivoluzionari
incoscienti, intellettuali di famiglie alto borghesi e studenti e studentesse che prima
di tutto scompigliano lo status quo familiare, più che quello politico (per De Luna
è l’anno della “rottura delle le regole”). I fatti rimangono sullo sfondo. Certo ci sono
Valle Giulia, le occupazioni di Palazzo Campana a Torino, delle università di Roma,
Firenze, Napoli, Piazza Fontana (fatto dirompente per le autobiografie di chi aderì
successivamente alla lotta armata) ma ciò che prevale è la dimensione individuale, il
ricordo del periodo più bello, che coincide con quello della giovinezza, soprattutto
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nella seconda generazione, e del “noi” della sperimentazione del potere del collettivo, per la prima generazione.
A più di trent’anni da Autoritratto di gruppo di Luisa Passerini, testo di riferimento per la storia orale del movimento del ’68, la ricerca sul periodo sta prendendo
nuove forme, acquisendo dati quantitativi oltre che qualitativi, perdendo quel vizio
di forma autoreferenziale di chi scrive e ha vissuto quel periodo (e la lista sarebbe
lunga).
Da una, idealizzata e enfatizzata, o al contrario demitizzata, siamo passati a
due generazioni, le letture si fanno più sfumate, i criteri e le domande sono mutati.
Il lavoro di Francesca Socrate si inserisce a pieno titolo in un nuovo filone di studio,
un riferimento imprescindibile per le future ricerche.
Alice Vannucchi
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Stampato nel mese di maggio 2020, in 500 copie
Tipografia GF PRESS snc - Masotti - Serravalle Pistoiese - PT
0573 518036 - www.gfpress.it - editoria@gfpress.it