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Università degli Studî di Genova Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Medioevo Provincia di Genova Da Genova a Baalbek Studî in ricordo di Graziella Conti a cura di COLETTE BOZZO DUFOUR, DANIELE CALCAGNO, MARINA CAVANA, ROSANNA MURATORE Genova 2004 –1– Università degli Studî di Genova Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Medioevo Provincia di Genova Da Genova a Baalbek Studî in ricordo di Graziella Conti a cura di COLETTE BOZZO DUFOUR, DANIELE CALCAGNO, MARINA CAVANA, ROSANNA MURATORE Genova 2004 –1– I curatori desiderano ringraziare: Gabriella Airaldi (Genova), Giovanni Antonelli (Spoleto), Edi Baccheschi (Genova), Antonella Ballardini (Roma), Susanna Canepa (Santa Margherita Ligure), Silvana Casartelli Novelli (Roma), Gabriele Cavana (Albisola Superiore), Ornella Cuneo (Genova), Paolo De Vingo (Serra Riccò), Joséphine Figaroli Nadotti (Genova), Marco Gasparini (Genova), Paola Martini (Genova), Letizia Pani Ermini (Roma), Laura Emilia Parodi (Genova), Giancarlo Pinto (Genova), Marco Raffa (San Salvatore di Cogorno), Augusto Roletti (Genova), Sandra Rutelli (Genova), Segreteria del Dipartimento amministrativo di supporto alla formazione e all’orientamento – Servizio formazione – Set-tore III, Università degli Studî di Genova. I curatori, tuttavia, sentono la necessità di un particolare ringraziamento a Grazia Daccà (Genova), per averli aiutati e affiancati con pazienza e sincera amicizia nel coordinamento di questo volume. Un ringraziamento sincero anche a Gianna Bregliano (Genova), che per prima ha creduto in questo progetto contribuendo significativamente alla sua realizzazione. Allo stesso modo, un grazie doveroso e sincero ad Angelo Podestà (Chiavari), per aver fatto, come sempre, il “miracolo”. Daniele Calcagno e Marina Cavana hanno coordinato il lavoro di redazione e di realizzazione del presente volume, che dedicano alla memoria della cara amica e professoressa. Gianna Bregliano dedica i suoi sforzi per la pubblicazione di questa miscellanea alla memoria della cara amica Graziella Conti. Finito di stampare nel mese di dicembre 2004 presso la Grafica Piemme s.n.c. Via Parma 356 – 16043 Chiavari, tel. 0185-380.257 –2– La pubblicazione di questa “Miscellanea” in onore e ricordo della professoressa Graziella Conti, docente universitario di Archeologia delle Province Romane e di Archeologia Umanistica presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studî di Genova, costituisce, per diverse ragioni, un significativo risultato. Innanzitutto per il suo carattere di omaggio nei confronti di una Studiosa il cui valore e la cui umanità sono tuttora unanimemente apprezzati e ricordati. Ma, accanto a questo aspetto che sarebbe sufficiente, da solo, a legittimare questa pubblicazione, va rilevato il vasto e articolato apporto di colleghi, studiosi, allievi e collaboratori di Graziella Conti che, attraverso una serie di saggî inediti, ne proseguono l’impegno, assicurando la continuità della ricerca. Personalmente credo che proprio in questo rapporto fra passato e presente risieda uno dei caratteri più apprezzabili e significativi di questa opera, assicurandole un respiro che supera il, pur doveroso, omaggio accademico e tende a configurarsi come un vero e proprio “passaggio di testimone” fra la Docente e chi ne prosegue oggi, negli ambiti più diversi, gli studî e l’impegno culturale. Per queste ragioni sono lieta che l’Amministrazione Provinciale abbia potuto collaborare a questa iniziativa, confermando così il più che ottimo rapporto istituzionale esistente fra la Provincia di Genova e l’Ateneo genovese. Un ringraziamento particolare va alla professoressa Gabriella Airaldi che, in qualità di Assessore Provinciale alla Cultura, ha assicurato la collaborazione della Provincia all’iniziativa. A lei e a tutti coloro che, a diverso titolo, hanno prestato la loro collaborazione va il saluto più cordiale della Provincia di Genova e mio personale. MARIA CRISTINA CASTELLANI Assessore alla Cultura della Provincia di Genova –3– Accolgo con soddisfazione questa “Miscellanea”, che continua nel tempo il magistero di una nostra Docente al di là della Sua prematura scomparsa e – contemporaneamente – offre l’opportunità ai Suoi collaboratori – già allievi – e ai Suoi amici di testimoniare la validità del Suo insegnamento e il loro affetto. Come rappresentante dell’Università di Genova, inoltre, mi piace sottolineare che anche questa “Miscellanea” rappresenta un ulteriore attestato della cooperazione internazionale avviata con il Libano e con l’Università di Beirut nell’ambito di quel gemellaggio da noi fortemente voluto e realizzato anche attraverso la generosa dedizione allo studio di Graziella Conti. MICHELE MARSONET Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia Università degli Studî di Genova –4– Le circostanze che hanno portato l’archivio fotografico e di studio della professoressa Graziella Conti presso la Biblioteca Universitaria di Genova sono legate a un fervido tessuto di relazioni personali che si sono progressivamente instaurate tra i colleghi della Biblioteca e le allieve della Professoressa. La collaborazione che Alberta Bedocchi ha trovato nella Biblioteca in occasione della pubblicazione del 2000, Cultura antiquaria e memoria nei volumi della Biblioteca Universitaria di Genova. Secoli XVI-XVIII (Genova, AIB-Sezione Liguria), ha dato occasione alla professoressa Conti di frequentare, nuovamente dopo svariati anni, il salone di lettura della Biblioteca Universitaria di Genova e di trasmettere anche ad alcuni bibliotecarî una parte di quell’energia “del fare” che Le era propria. Purtroppo la rinnovata frequentazione non è durata a lungo, interrotta dalla prematura scomparsa. Pur avendo espresso più volte a Emilia Vassallo, Alberta Bedocchi e a Oriana Cartaregia, l’intenzione di depositare presso la Biblioteca il Suo archivio fotografico, Graziella Conti non fece in tempo a inserire questo Suo desiderio nel testamento. Il fratello di Graziella Conti, Ezio, che qui voglio ringraziare vivamente, dimostrando una grande sensibilità, ha donato alla Biblioteca, nel giugno del 2001, quanto ereditato dell’archivio fotografico e di studio. In attesa di un preciso finanziamento che ne permetta la catalogazione e la valorizzazione, anche tramite scansione digitale, l’archivio è adeguatamente conservato presso la sala Atrio Rari del nostro Istituto. L’inventariazione del materiale, disposto in appositi contenitori, approntata in maniera tempestiva e accurata da Oriana Cartaregia, ha certamente contribuito a far sì che i curatori della presente miscellanea si orientassero con maggior sicurezza fra le carte e i lavori, alcuni inediti fino a oggi, di Graziella Conti. Tutta l’operazione resta una ennesima testimonianza di quanto la collaborazione tra studiosi e bibliotecarî sia un’assicurazione contro la dispersione di preziosi contributi culturali che, forse proprio perché contemporanei, come nel caso dell’Archivio Conti, rischiano ancora di più di andare perduti o di essere mal sfruttati a dispetto dei loro autori. ERNESTO BELLEZZA Direttore reggente della Biblioteca Universitaria di Genova –5– La biblioteca di Graziella Conti è pervenuta alla Biblioteca Berio per lascito testamentario. Il legame di Graziella Conti con la Berio era in primo luogo quello di una Studiosa con la principale biblioteca civica di Genova, alla quale appartengono, oltre a repertorî e monografie di Storia dell’Arte e Archeologia, rare e raffinate edizioni del Cinque-Seicento, che potevano offrire elementi utili per l’approfondimento dei temi a Lei cari, relativi al recupero dell’antichità classica in epoca rinascimentale. Un’altra ragione meno nota e privata legava Graziella Conti alla Berio. Nell’archivio di Orlando Grosso (1882-1968), già direttore dell’Ufficio Belle Arti del Comune di Genova, critico d’arte e artista lui stesso, conservato alla Berio, si trovano circa centotrenta tra cartoline, lettere e altri manoscritti dello scultore Eugenio Baroni (1880-1935), noto a Genova soprattutto come autore del Monumento ai Mille sullo scoglio di Quarto. Come erede di Eugenio Baroni, Graziella Conti aveva dato la sua autorizzazione alla pubblicazione di alcune lettere dell’artista sulla rivista «La Berio», il periodico semestrale della biblioteca, in appendice a un articolo a lui dedicato.1 A questo proposito si ricorda che un bronzetto dell’artista, di sua proprietà, per lascito testamentario, è entrato a far parte delle collezioni del Civico Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce. Successivamente, ancora sulla rivista «La Berio», su proposta della stessa Studiosa, fu pubblicato l’articolo di un’allieva, Rosanna Muratore, Medusa: recupero di un tema storico-mitologico nella città di Genova.2 Era un argomento caro alla Docente, da ricondurre alla più ampia trattazione da Lei affrontata nell’opera Panoplie e trofei a Genova: un motivo antico per una lingua nuova (Genova 1995). Forse, proprio per questi motivi Graziella Conti prese la decisione, espressa nel testamento, di lasciare la Sua biblioteca alla Berio, per la quale essa rappresenta, per numero e qualità delle opere, un’occasione importante d’arricchimento del patrimonio librario. Se si esamina più da vicino il materiale pervenuto, tutto di tipo tradizionale – vale a dire cartaceo e non multimediale –, monografie, annate e numeri sparsi di periodici, articoli estratti da riviste, annali di associazioni e di accademie, atti di convegni e congressi, se ne coglie immediatamente il carattere specialistico. A parte le non molte opere più generali, prevalentemente di Letteratura e in ogni modo d’argomento umanistico, le materie prevalenti sono la Storia dell’Arte, soprattutto antica, ma anche paleocristiana, medievale e rinascimentale e l’Archeologia. Si trovano pure opere di Storia, importanti per l’approfondimento della classicità e per la comprensione della sua influenza sulle epoche successive, e opere di Geografia, utili in particolare per lo studio del mondo romano anche nelle propaggini più remote. Non mancano guide a singole località, monumenti, istituzioni, soprattutto musei, in parte collegate ai numerosi viaggî effettuati nei luoghi più interessanti per le Sue ricerche. Dall’esame della biblioteca emerge con evidenza l’attenzione per il mondo mediterraneo nella sua totalità, dalle coste europee a quelle africane e asiatiche, poi sfociato negli articoli pubblicati. L’interesse di Graziella Conti era rivolto anche, e in modo molto accentuato, alla nostra città, alla quale aveva dedicato una parte delle Sue ricerche sul recupero del mondo classico, spingendosi fino all’epoca contemporanea e ritrovando collegamenti e relazioni con altre località. Nella biblioteca è presente, infatti, un certo numero di opere di argomento locale, soprattutto strumenti fondamentali per lo studio storicoartistico in ambito genovese. Il contatto diretto con la biblioteca di uno studioso è sempre affascinante. Si entra senza mediazioni in rapporto con il mondo di informazioni nel quale la sua opera trova fondamento e sul quale essa si è svilup- 1 2 Cfr. BADINO 1997, pp. 3-39. Cfr. MURATORE 1998, pp. 71-95. –6– pata. È così documentata la ricerca bibliografica, almeno per quella parte più amata e vissuta tanto da non essere limitata alle indagini condotte in biblioteca, poi completate e arricchite dalla ricerca sul campo. Siamo di fronte a una biblioteca letta, consultata, utilizzata, ma per nulla sciupata dall’uso: volumi con note marginali, con sottolineature, con biglietti a guisa di segnalibro, volumi vissuti, con dediche che denotano legami e interessi comuni e comuni passioni, con note di possesso – Di Graziella Conti –, con appunti di vita quotidiana, che testimoniano un modo di vivere in cui i libri erano molto presenti e la continuità e l’assiduità di questo legame. Volumi perfetti nel loro aspetto esteriore, come se l’uso, pur frequente, non avesse lasciato traccia oltre a quelle intenzionali di Colei che ne fruiva; edizioni rilegate, qualche volta in cofanetto, con le sovraccoperte originali, vere rarità bibliografiche che nelle biblioteche aperte al pubblico (ma anche in quelle private) spesso sono messe da parte o che comunque, estremamente deteriorabili, perdono con l’uso la loro integrità e alla fine sono eliminate; edizioni in brossura in ottimo stato nonostante la fragilità e la precarietà; fascicoli di riviste perfettamente conservati. Soltanto alcuni volumi degli anni Quaranta e Cinquanta, acquistati in tempi successivi, come risulta in qualche caso dalla data d’acquisto annotata sul volume e posteriore di molti anni a quella di pubblicazione, presentano segni di un degrado intrinseco al materiale impiegato, alla carta soprattutto, che nemmeno l’uso più accurato può impedire. È la biblioteca non di un bibliofilo ma di una studiosa, che nel tempo ha scelto le opere soltanto in base al contenuto, alla validità per l’aggiornamento scientifico, non secondo valutazioni legate alla rarità bibliografica dell’edizione. Sono presenti numerose opere donate dagli autori stessi, accomunati spesso da interessi e temi di ricerca. Sono state avviate, con il coordinamento di Orietta Leone, funzionario della Sezione di Conservazione e Raccolta Locale della Berio, le operazioni necessarie per mettere la biblioteca a disposizione del pubblico. Considerando che è una biblioteca molto specializzata e in ottimo stato di conservazione, si è ritenuto opportuno mantenerne l’unità, senza disperderla nell’organizzazione classificata per materia che nelle biblioteche di pubblica lettura come la Berio è applicata ai volumi collocati in libero accesso. Inoltre, la possibilità per l’utente di scegliere il libro direttamente a scaffale senza la mediazione del catalogo o il filtro del personale della biblioteca, propria della collocazione a scaffali aperti, rende difficile garantire la conservazione dei volumi in modo adeguato, perché l’uso da parte dell’utente non può essere oggetto di un controllo che ne limiti oppure ostacoli la libera consultazione. Si è proceduto finora al riordino e all’inventariazione della biblioteca, operazioni condotte con la collaborazione di Giampiero Orselli e Romilda Perfumo della Cooperativa Solidarietà e Lavoro. Per facilitare e conservare nel tempo l’identificazione dei volumi della biblioteca di Graziella Conti, oltre ai consueti elementi contraddistintivi della Berio (timbri di appartenenza, numero di registrazione etc.) su ognuno di essi è stato applicato un cartellino ex libris che ne indica la provenienza dal lascito testamentario. La descrizione catalografica delle edizioni e i dati relativi ai singoli esemplari saranno inseriti nel catalogo generale informatizzato della Biblioteca Berio, che utilizza il programma di catalogazione in rete Aleph 500. Secondo il progetto di cooperazione tra i servizî bibliotecarî presenti sul territorio genovese, avviato all’inizio del 2000 con l’accordo fra il Comune e l’Università degli Studî di Genova per la collaborazione e la consulenza in campo scientifico e formativo, la base catalografica della Berio fa parte del catalogo unificato in cui confluiscono i cataloghi delle biblioteche appartenenti alle due istituzioni, che insieme formano il Sistema Bibliotecario Integrato. Il catalogo unificato è a disposizione degli utenti su tutti i numerosi terminali dislocati nelle biblioteche del Sistema Bibliotecario Integrato; visibile in rete, rappresenta, peraltro, un vasto e importante universo informativo di riferimento, facilmente raggiungibile anche da parte dell’utenza remota, che, ovunque si trovi, magari da casa propria, può accedere a esso tramite una semplice connessione a Internet. Grazie alla versatilità della catalogazione informatizzata, l’informazione sulle opere possedute potrà essere ottenuta non solo utilizzando chiavi di ricerca di tipo tradizionale (nome dell’autore, titolo), ma anche tramite chiavi più complesse, come la voce che identifica l’argomento o soggetto (sia nella sua formulazione tradizionale sia attraverso parole singole del soggetto), ampliando così notevolmente le possibilità –7– dell’utente di trovare le pubblicazioni di proprio interesse o di imbattersi casualmente in opere di argomento affine. Nel catalogo, inoltre, sarà precisata l’appartenenza degli esemplari descritti alla biblioteca di Graziella Conti. L’acquisizione della biblioteca specializzata di Graziella Conti da parte di una struttura come la Berio, sicuro punto di riferimento culturale, che considera l’accessibilità per l’utenza un obiettivo prioritario, metterà a disposizione degli studiosi e soprattutto degli studenti, che difficilmente possono usufruirne se non consultandoli in biblioteca, strumenti bibliografici – libri, riviste, estratti, atti di convegni – indispensabili per la ricerca. La catalogazione è il primo fondamentale passo per diffondere la conoscenza e conseguentemente la fruizione della biblioteca di Graziella Conti. Allo strumento informativo del catalogo potranno aggiungersi iniziative culturali sui temi studiati da Graziella Conti, da realizzarsi in collaborazione tra l’Università, la Biblioteca Universitaria e la Biblioteca Berio, che troveranno spunti e suggerimenti nella biblioteca donata alla Berio e nell’archivio documentario donato alla Biblioteca Universitaria. LAURA MALFATTO Direttore della Sezione Conservazione della Civica Biblioteca Berio di Genova –8– Graziella Conti può essere ricordata a buon titolo come una vera e propria creatura dell’Università di Genova, dove ha studiato e dove ha insegnato. Negli avanzati anni ‘50, infatti, si laureò con Paolino Mingazzini discutendo una tesi in Archeologia sul Palazzo di Domiziano a Roma e dopo un decennio circa – durante il quale insegnò nelle scuole medie – si perfezionò con Antonio Giuliano con un lavoro sulla decorazione scultorea della Piazza d’oro di Villa Adriana a Tivoli che venne poi pubblicato in un volume edito dall’Erma di Bretschneider. Fu in quell’occasione che si addentrò in un campo di studio, allora per lo più trascurato e alle soglie di una vicenda critica che avrebbe goduto, invece, di un’eminente revival: l’Archeologia Umanistica. I Suoi articoli sui disegni dall’antico di Pirro Ligorio, per il rigore dell’indagine, si collocano alla base di questo nuovo percorso, rappresentando un contributo da cui gli studiosi del settore non possono prescindere. Seguono elaborati di sistematizzazione teorica alla ricerca di uno statuto critico per la disciplina di giovane estrazione universitaria, lavori messi a punto anche con l’esito dell’esercizio didattico inerente al Suo primo incarico accademico relativo, appunto, all’Archeologia Umanistica. Nell’ambito del quale, le tesi di laurea realizzate sotto la Sua direzione attestano l’impegno del magistero e la competenza scientifica di una maestra che ancora oggi, a distanza di anni, è apprezzata dai Suoi studenti, essendo considerata esemplare anche per equilibrio e umanità. Il frutto più maturo della Sua frequentazione nell’area di una Archeologia Classica che rivisiti la cultura del Rinascimento, comunque, si ha nella sua monografia dal suggestivo titolo: Panoplie e trofei a Genova: un motivo antico per una lingua nuova (Genova 1995). Dopo una serie di articoli propedeutici, nel volume è individuato un aspetto assolutamente inedito di quella stagione figurativa che investe la Genova cinquecentesca all’insegna di una “romanità” di cui i rilievi con panoplie e trofei rappresentano un tratto peculiare per la cultura umanistica del capoluogo ligure nel primo secolo XVI e oltre. Conseguita nel 1984 l’associazione in Archeologia, dopo l’incarico omonimo passò alla cattedra di Archeologia delle Province Romane, un insegnamento – ricoperto fino alle soglie della pensione – del quale seppe sfruttare tutte le potenzialità didattiche e di ricerca, organizzando con laureati e laureandi gruppi di lavoro su progetti di studio relativi a manufatti e insediamenti del mondo romano, segnatamente in Spagna e in Nord Africa. In particolare, inoltre, da menzionare il Suo contributo, coordinato con allievi e collaboratori, nel quadro del gemellaggio concordato fra le Università di Genova e Beirut. Lo attesta la Sua partecipazione attiva ai Convegni di Genova e Byblos, rispettivamente del 1996 e 1999, nel corso dei quali presentò e discusse saggî preliminari all’imponente ricerca, tuttora in fieri, relativa all’inventario della scultura architettonica del più prestigioso santuario di Età Romana nel Libano: Baalbek. Una indagine, purtroppo, non condotta a termine, ma che già dai primi esiti si configura come un apporto di alto profilo scientifico per la novità dell’impostazione di una schedatura attenta ai dettagli più indicativi dei reperti. Graziella Conti era una di quelle persone che attraversano l’esistenza in silenzio, ma che, quando scompaiono, lasciano un vuoto profondo. Perché viene a mancare la testimonianza di un modello di comportamento improntato a civiltà, rispetto dell’altro e forza d’animo: un esempio di cultura che diventa qualità di vita. COLETTE BOZZO DUFOUR* Testo letto letto il 13 dicembre 2000 presso il Consiglio di Facoltà di Lettere e Filosofia in occasione della commemorazione di Graziella Conti e parzialmente edito in: «Genuense Athenæum», n. 46 (gennaio-febbraio 2001). * –9– Graziella Conti (1934-2000) – 10 – INDICE COLETTE BOZZO DUFOUR, Prefazione p. 13 Bibliografia di Graziella Conti p. 17 ORIANA CARTAREGIA, L’archivio di Graziella Conti: un elenco provvisorio p. 27 ADELMO TADDEI, Il fondo Graziella Conti: elenco preliminare p. 43 Iniziative in ricordo di Graziella Conti p. 55 Evolution et developpment des planimetries thermales p. 59 La mosaïque romaine géometrique: problème et orientation de recherche p. 67 Il tempio rotondo cosiddetto di Venere a Baalbek p. 73 p. 79 La culture classique recuperee. Appareillage des murs au Liban du Moyen-Age p. 83 Recupero a Genova: portali con eroti p. 93 Graziella Conti: studî inediti MONICA GUIDDO, Schede di alcune modanature e resti di decorazione architettonica nel tempio rotondo cosiddetto di Venere Studî in onore di Graziella Conti ROSANNA MURATORE, Spazio civile a Baalbek: la cosiddetta basilica p. 107 PAOLA MORTARI VERGARA CAFFARELLI, Alcune rappresentazioni del leone e del drago nelle decorazioni architettoniche asiatiche (secc. I-VII d.C.) p. 113 ALESSANDRA FRONDONI, Restauri di marmi tardoantichi e altomedioevali a Genova p. 125 MARINA CAVANA, San Damiano a Genova: una fondazione di Età Longobarda? p. 133 FABRIZIO GELTRUDINI, PIERA MELLI, ELEONORA TORRE, EMILIA VASSALLO, L’abbazia cistercense di Tiglieto: notizie sugli ultimi scavi p. 139 – 11 – MARINA FIRPO, Una scultura genovese del Trecento: la Madonna della Misericordia, nell’edicola votiva di piazza dello Scalo. Appunti preliminari DANIELE CALCAGNO, Andalò da Savignone, mercante e diplomatico genovese alla corte del Gran Khān p. 147 p. 153 ANTONETTA DE ROBERTIS, L’immagine di San Gerolamo nella scultura genovese del Quattrocento e del primo Cinquecento: aggiornamenti e revisioni critiche p. 161 ALBERTA BEDOCCHI, Fulvio Orsini, Gian Vincenzo Pinelli e alcuni portali genovesi. Proposte per uno studio p. 169 ENRICO BRUSAIOLI, San Nicolò di Capodimonte: i restauri p. 183 Apparati Bibliografia p. 191 Tabula gratulatoria p. 207 – 12 – Dopo alterne vicende, vede la stampa una miscellanea di studî volta sia ad attestare l’articolato interesse dei contributi di Graziella Conti sia a certificare il portato del Suo insegnamento universitario, che trova convalida nelle prove di collaboratori – già allievi –, apparse in questa pubblicazione. Non solo. Se si considera che i lavori della Studiosa, confluiti nel volume e finora inediti, sono stati in parte conclusi negli ultimi mesi di malattia, allo stesso modo di altri rimasti allo stadio di traccia, il valore di testimonianza dei Suoi scritti si arricchisce di un contenuto che supera l’esito esplicito della ricerca: diventa segno di una scelta culturale che è indirizzo e qualità di vita. Sicché è sembrato opportuno congedare il libro segnalandone, in apertura, alcuni spunti recuperati dal materiale che Lella Conti stava sistemando per realizzare un saggio tra i più impegnativi del suo curriculum: una sorta di summa delle indagini svolte nell’ambito dei corsi di Archeologia Umanistica e, assieme, un compendio e un aggiornamento delle lezioni universitarie che avrebbero confermato la serietà dell’impegno didattico oltreché scientifico. Conviene allora presentare qui di seguito alcune riflessioni enucleate dal corposo faldone di appunti relativi a questa ricerca in fieri che verte sulla fenomenologia del recupero ed è impostata con impianto innovativo perché normativo, avvalendosi nel contempo, di quella doverosa cautela che connota una analisi di alto profilo e generalmente di questo tipo. Il recupero in questione (cito dalle Sue carte) è quello dall’antico ben diverso dalla rinascita o ripresa di uno stile; è un fenomeno molto complesso, che non consente la sicurezza assoluta dei giudizî, delle valutazioni e delle distinzioni. Ciononostante, è utile approfondire l’argomento, mettendo in evidenza che i modi di recupero sono tanti e diversificati e di natura differente. Calcolando, inoltre, che lo stesso termine recupero è a volte generico, l’Autrice intende dimostrare la propria tesi sulla base di un’analisi mirata di monumenti scelti per indicare situazioni articolate da definire con una rosa di terminologie che, pur restando ovviamente a livello convenzionale, risultino utili a puntualizzare la fenomenologia del recupero, classificandone particolari aspetti onde evitare confusioni o interscambî di contenuti, situazioni, processi figurativi. Una distinzione di natura linguistica e terminologica non assoluta, dunque, e utilizzata soltanto per rendere più chiaro il campo di studio. Come punto di partenza per l’approccio al problema era stato scelto l’Arco di Costantino a Roma perché il monumento rappresenta la forma più vistosa e programmata di recupero, quasi una sintesi per presentare un processo organico e altamente razionale ove il recupero stesso assuma varî aspetti e situazioni veramente esemplificativi di notevole rilevanza nel portato epistemologico dell’arte romana dalla fine del secolo III al IV d. C. Note peculiari riguardano, quindi, i più autorevoli e specifici lavori sul tema (Deichmann, Dacos, Haskell-Penny, Pensabene, etc.), un excursus di testi e leggi ricavati dalle fonti tardoantiche (Codici Teodosiano e Giustinianeo, etc.) nonché un’ampia esemplificazione di monumenti che si sviluppa su di un dilatato orizzonte geografico comprensivo di quell’area mediterranea e mediorientale, conosciuta de visu dalla Studiosa nel corso dei suoi numerosi sopralluoghi. Sul presupposto, dunque, di una analisi a campione di edificî, spazî, manufatti in generale (sarcofagi, epigrafi, modanature architettoniche, etc.) è avanzata una proposta di distinzione tra quanto da Conti è definito con i vocaboli utilizzo – considerato di segno multiforme –, riutilizzo – anch’esso di differente genere –, impiego e reimpiego. In sostanza: con il primo termine (o i primi: utilizzo e/o riutilizzo) la Studiosa vuole indicare la rimessa in opera di un elemento antico in un diverso quadro in cui l’elemento stesso conservi la funzione per il quale era – 13 – nato; mentre con il secondo (o i secondi: impiego e/o reimpiego) vuole definire la condizione di pezzi antichi inseriti in un nuovo contesto monumentale, senza rispettarne l’uso primario. Annotazioni precipue, infine, sono da Lei applicate a delineare con i sostantivi riuso o riutilizzo alcune situazioni peculiari. Tali sono ritenute, nella fattispecie, quelle pertinenti il riuso delle colonne antiche che è tanto più esemplare per la specificità dei varî contesti in cui è documentato, tra i quali è posto in evidenza il caso in cui esse siano inserite trasversalmente in murature, per lo più di cortine fortificate, uno status che i Francesi definiscono “en bouttisse”. Nel passare ai lavori già definitivi e in attesa di pubblicazione per i quali si rispetta l’ordine cronologico di argomento, seguono due conferenze in francese tenute in Libano negli ultimi anni ‘90 che si è ritenuto utile dare alle stampe, considerando non tanto la novità dell’informazione – peraltro sempre più che aggiornata – quanto la lucidità dell’impianto, specialmente efficace sotto il profilo della didattica. La prima riguarda L’evolution et developpement des planimetries thermales ed è corredata da una straordinaria e ricca documentazione iconografica confluita nell’Archivio Conti presso la Biblioteca Universitaria di Genova (cfr. oltre), di cui è stato possibile fornire qui solo alcune immagini; la seconda si occupa de La mosaïque romaine geometrique: problème et orientation de recherche. Quest’ultima si configura contributo di rilievo per originalità e apertura verso aree tematiche poco frequentate – come quella interessata al mosaico geometrico prospettico – oltreché apporto prezioso sul piano della docenza per la chiarezza delle definizioni delle tecniche del signinum, scutulatum et de sectilla. Ai già ricordati soggiorni in Medioriente della Studiosa, si deve ancora una sua conferenza su Il tempio rotondo cosiddetto di Venere a Baalbek, un testo che si avvale anche della Sua esperienza nel campo dell’Archeologia delle Province Romane. La stesura – poco più che una serie di appunti in sequenza logica – serba integra l’originalità di una ipotesi di lavoro sulla destinazione d’uso dell’organismo, la cui funzione cultuale potrebbe essere rapportata alla prossimità con il grandioso e prospiciente santuario di Baalbek. Su quest’ultimo, inoltre, è pervenuta una messe di Sue annotazioni sparse, con osservazioni spesso sagaci, ma in pagine che restano tuttora da riordinare, mentre mantiene cospicua rilevanza l’imponente materiale fotografico realizzato in situ e ora conservato nella Biblioteca Universitaria (cfr. qui oltre) propedeutico a un saggio sul monumentale insediamento, a lungo meditato e mai realizzato. Corredano le pagine sul tempio rotondo libanese brevi schede descrittive, poste in Appendice, inerenti l’apparato decorativo appartenente alla fabbrica: queste si devono a Monica GUIDDO che le compilò a suo tempo sotto la direzione di Conti e che, oggi, vogliono rappresentare il doveroso omaggio di un’allieva per una Maestra. Si ritorna al tema del riuso e del recupero in due contributi che ne evidenziano e ne articolano le accezioni secondo il pensiero della Studiosa. Il primo in francese, riguarda il riutilizzo delle colonne antiche entro murature per lo più fortificate, con specifico riferimento a siti del Libano come Byblos (oggi Jbeil), indagando un fenomeno che qui è considerato circoscritto all’area mediorientale più prossima al Mediterraneo e con rinvio all’epoca crociata. Il secondo analizza i Portali con Eroti ed è attento al significato tanto dell’iconografia del tema, quanto del suo recupero figurativo nell’accezione con cui questo avviene a Genova, quando il motivo si risemantizza e si laicizza pur in una fragilissima aureola religiosa mai assente del tutto nel capoluogo ligure, in età protorinascimentale e oltre. La seconda parte del volume ospita saggî di amici di Graziella Conti e di Suoi collaboratori – già allievi –, ordinati essi pure in successione cronologica per argomento. Apre così la serie uno studio di Rosanna MURATORE sulla cosiddetta basilica in Baalbek, nel quale si considera la possibilità che i ruderi in situ possano riferirsi piuttosto a una via monumentale, in base al confronto con situazioni simili e frequenti in altre città del Medioriente e dopo aver rilevato quella planimetria dell’impianto che mancava ancora all’appello. – 14 – Il successivo lavoro di Paola MORTARI VERGARA CAFFARELLI è la realizzazione parziale di un progetto che era stato messo a punto a quattro mani con Lella Conti circa una ricerca sull’iconografia del drago e del leone con il suo iter in Eurasia durante l’epoca classica. Oggi queste pagine significano riannodare una collaborazione interrotta per consegnarla a un futuro di approfondimenti a venire. Si cambia registro con l’elaborato che segue, a cura di Alessandra FRONDONI, con il quale è illustrato il recente restauro, da lei stessa diretto, di due sculture da assegnare a un periodo fra Tardoantico e primo Medioevo: un sarcofago probabilmente tardoromano e forse riutilizzato in epoca paleocristiana, conservato nell’abbazia del Boschetto, e i frammenti marmorei da poco ritrovati e appartenenti alla nota lastra con pavoni, attribuita al secolo X, e provenienti dalla basilica di San Siro in Genova. Ancora all’Altomedioevo si ricollega il contributo di Marina CAVANA sulla chiesa di San Damiano, ubicata sempre nel capoluogo ligure, il cui titolo originario può probabilmente essere accreditato non già ai Santi Cosma e Damiano ma – cosa del tutto nuova – al vescovo di Pavia vissuto fra i secoli VII e VIII, tenendo conto, inoltre, che gli edificî sacri dedicati al Santo – individuati finora dalla Studiosa nell’area considerata – sorgono tutti in quello che nel secolo VIII è il Regno Longobardo, mentre sembrano del tutto assenti nei territorî estranei alla loro dominazione. Il pieno Medioevo è in causa, viceversa, per le novità emerse dalle indagini e dagli scavi più recenti, realizzati nell’area dell’abbazia di Tiglieto, dei quali sono pubblicati qui i primi esiti: questi sono illustrati con una relazione a più voci a cura di Piera MELLI – direttrice scientifica dei lavori guidati dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria –, Fabrizio GELTRUDINI, Eleonora TORRE ed Emilia VASSALLO. Nel corso dell’esposizione, dopo una panoramica storico-artistica del sito, che si deve a Vassallo, sono comunicate da Melli, Geltrudini e Torre le conclusioni cui si è giunti, avendo analizzato i risultati delle ultime campagne archeologiche, fino all’anno 2002. Si passa quindi al Basso Medioevo con il lavoro di Marina FIRPO, la quale dedica alla cara Amica di famiglia il proprio rinvenimento di un reperto tuttora sconosciuto – e purtroppo ormai perduto – di cui propone un’ipotesi circa l’originaria collocazione del pezzo assieme con una suggestiva supposizione di un possibile quanto prestigioso autore, o per lo meno della sua scuola. Daniele CALCAGNO, sempre in riferimento al Trecento, introduce alla corte del Gran Khān con un originale saggio in cui la figura di Andalò da Savignone riceve una collocazione storica più puntuale nell’ambito della propria famiglia, i cui rapporti con il clan fliscano costituiscono un trampolino di lancio per la sua attività diplomatica e commerciale presso lo stesso Gran Khān, la corona inglese e il Papato. Si supera ampiamente il Medioevo, invece, con le pagine di Antonetta DE ROBERTIS, in cui sono proposti Aggiornamenti e revisioni critiche sull’iconografia di San Gerolamo con riferimenti alla scultura genovese del Quattro e primo Cinquecento. Il lavoro, già avviato sotto la direzione di Graziella Conti, intende indagare un soggetto solo in apparenza di facile comprensione perché ha alle spalle un vasto programma ideologico e iconografico che si sviluppa e si incrocia fra le alte gerarchie ecclesiastiche, gli ordini monastici di antica e recente formazione e il pubblico laico. Subito dopo, è Alberta BEDOCCHI a transitare il lettore in pieno clima umanistico con il suo studio su Fulvio Orsini, Gian Vincenzo Pinelli e alcuni portali genovesi. L’Autrice – cui si deve un’importante monografia apparsa nel 2000 sulla cultura antiquaria realizzata con il consiglio e la supervisione di Conti stessa – analizza il motivo iconografico delle teste all’antica, cosiddette di imperatore, che compaiono negli stipiti di alcuni portali rinascimentali in Genova, individuando per uno di essi – quello impiegato nel probabile palazzo di Castellino – 15 – Pinelli in via San Siro 2 – corrispondenze con l’immagine di Catone il Censore, la medesima che compare in un cammeo della collezione di Fulvio Orsini, uno degli amici più cari di Gian Vincenzo Pinelli. È pura coincidenza? A Enrico BRUSAIOLI, infine, spetta il compito di concludere gli studî in onore di Graziella Conti: la sua relazione, infatti, si riferisce ai restauri e ripristini dell’Ottocento e Novecento che hanno interessato la Chiesa di San Nicolò di Capodimonte, dei quali l’Autore ha ritrovato una documentazione pressoché inedita. *** Giunti all’epilogo di questa miscellanea, ma prima di licenziarla alle stampe, mi piace ancora segnalare alcune premesse che si è ritenuto opportuno pubblicare in apertura di volume. Con esse, infatti, si è inteso registrare una serie di iniziative realizzate in ricordo della Studiosa, vanno dalla commemorazione della Sua figura di docente universitaria – con un testo letto il 13 dicembre 2000 presso il Consiglio di Facoltà di Lettere e Filosofia – al commosso ricordo di Adelmo TADDEI, suo allievo e a titolo dei numerosi altri; dalle Giornate di Studio in Suo onore del 5 dicembre 2001 e 14 dello stesso mese e anno – con il concorso e patrocinio della Provincia e dell’Università di Genova e con la collaborazione di Valore Liguria – alla borsa di studio bandita nel 2001 a Suo nome dallo stesso Ateneo. Si è reputato utile, inoltre, far tracciare un sintetico profilo della Sua bibliografia e informare sui contenuti del Suo cospicuo patrimonio di libri, carte e raccolte fotografiche che, per testamento, sono stati donati alle Biblioteche Universitaria e Berio e di cui, rispettivamente, Oriana CARTAREGIA e Adelmo TADDEI offrono un puntuale e ordinato resoconto. E oggi, a quattro anni esatti dalla sua scomparsa, con l’apparire di questo volume Graziella Conti è ancora con noi, mentre la testimonianza dei Suoi ultimi scritti, accanto a quelli dei Suoi amici, allievi e collaboratori, intende lasciare memoria di una vita dedicata, in silenzio, allo studio. Genova, 10 dicembre 2004 COLETTE BOZZO DUFOUR – 16 – Bibliografia di Graziella Conti Gli studî e le ricerche di Graziella Conti sono stati indirizzati, per la maggior parte, ad argomenti di carattere archeologico. Le Sue indagini investono dapprima la scultura architettonica di epoca romana e sono avviate con la ragguardevole monografia sulla Piazza d’Oro di Villa Adriana a Tivoli. Il volume è ricco di spunti relativi ad aree critiche che, in seguito, saranno frequentate dalla Studiosa come – ad esempio – la decorazione architettonica di Età Romana, estesa pure alle regioni mediorientali dell’impero. La ritrattistica, il collezionismo, l’esplorazione antiquaria e il recupero dell’antico sono soggetti che trovano nella Sua produzione una peculiare e inedita angolazione di ricerca, la quale rappresenta un valore aggiunto alle Sue diverse esegesi. Al suo interno, il motivo del recupero dall’antico è tra i più presenti fino all’autorevole monografia Panoplie e trofei a Genova: un motivo antico per una lingua nuova. Accanto e agli inizî, sono trattati anche temi inerenti alla ornamentazione dei vasi etruschi, con particolare riferimento alla Patera Cospiana; mentre, in tempi più recenti, è visitato il settore dei mosaici, con peculiare rinvio a Nord Africa, Liguria e Dalmazia. In contemporanea, la Sua attenzione si rivolge anche alla topografia antica, specialmente del Ponente e del Levante ligure, del cui territorio sono rintracciati e ridisegnati percorsi di epoca romana. Le ultime pubblicazioni vertono su argomenti di iconografia, una disciplina che l’aveva interessata anche nell’ambito dei già ricordati contributi sui mosaici e che vede nel rilevante articolo sul trofeo-croce uno dei momenti più felici e originali della Sua produzione. Questa è rimasta interrotta, dopo le ricerche propedeutiche, a un previsto atlante sulla scultura architettonica in Baalbek, un repertorio che avrebbe messo a frutto la Sua conoscenza capillare delle regioni mediorientali e nordafricane, esito dei numerosi viaggî di studio nelle singole località. Allo stesso modo, si è arrestata la Sua pluriennale analisi sul significato e la fenomenologia del recupero dei reperti antichi, che pur si intravede in molta Sua bibliografia, spesso attinente ad alcune iconografie e al loro percorso dall’antichità all’epoca moderna e che, purtroppo, è pervenuta allo stadio di appunti sparsi, oggi conservati nelle biblioteche genovesi, alle quali è stato donato l’intero Suo materiale di studio. – 17 – La decorazione della “Piazza d’Oro” a Villa Adriana a Tivoli, Studia Archeologica, n. 13, Roma 1970, tavv. I-XX. La scultura architettonica fornisce indizî importanti alla conoscenza di una stagione culturale: motivi iconografici, repertorî noti e applicati dalle maestranze, tecniche scultoree utilizzate, sono tutti indicatori di rilievo per ricostruire uno scenario artistico. La monografia sulla Piazza d’Oro di Villa Adriana a Tivoli è un ottimo esempio di illustrazione e confronto di sculture architettoniche per poter far luce sul gusto del peculiare periodo adrianeo. Due vasi protocorinzî inediti, «Archeologia Classica», XLIX. XXIII (1971), 2, pp. 201-210, tavv. XLVI- Sono due pezzi delle collezioni dei Civici Musei di Reggio Emilia: un aryballos e un alabastron. Il primo, denominato aryballos Pesciotti, è andato perduto, ma la sua esistenza è documentata da due albi e un catalogo conservati presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale. Dall’analisi dei singoli elementi decorativi – motivi geometrici sulla spalla e fregio con animali sul fondo – è possibile assegnare il manufatto al Pittore di Corneto e ascriverlo al secolo VII a.C. L’alabastron presenta una decorazione suddivisa in tre zone: un motivo ornamentale sul collo, un fregio maggiore con leoni e toro nel registro centrale e un fregio minore con cani che rincorrono una lepre. In base a precisi confronti si ritiene il reperto ascrivibile al 640-630 a.C. e attribuibile al Pittore di Ton. Un bustino inedito del Museo di Pesaro, «Rivista Italiana di Archeologia e Storia dell’Arte», XVIII (1971), pp. 91-99, figg. 1-8. Si tratta di un ritratto maschile conservato nel Museo di Pesaro, che, sulla base di precisi confronti iconografici (pettinatura, resa dei tratti fisionomici) e stilistici, è identificato con il personaggio Lusius Quietus, generale di Traiano. Un taccuino di disegni dall’antico agli Uffizî, «Rivista Italiana di Archeologia e Storia dell’Arte», (1974-1975), pp. 141-168, figg. 1-28. XXI-XXII Il corposo articolo preannuncia un lavoro successivo – pubblicato nel 1982 sulla medesima rivista – relativo a una ricerca in corso: lo studio di un taccuino di disegni dall’antico conservato presso il Gabinetto Disegni e Stampe della Galleria degli Uffizî. Un ritratto romano inedito da Spoleto, «Spoletium», XVII (1975), pp. 6-14, figg. 1-9. È preso in considerazione un busto inedito femminile di Livia, appartenente a una collezione privata. L’analisi della scultura consente di ampliare le conoscenze su questo tipo di iconografia femminile, che molta fortuna ebbe in epoca romana imperiale. La “Patera Cospiana”, «Archeologia Classica», XXVIII (1976), pp. 49-68, tavv. XVI-XXI. – 18 – Da un disegno conservato presso il Gabinetto Disegni e Stampe della Galleria degli Uffizî (foglio XIII, 6984 – n. 19) prende l’avvio uno studio su una patera che nel corso dei secoli ha conosciuto diverse vicissitudini e cambi di proprietà: dal marchese Cospi all’Istituto Marsiliano, da Parigi nel 1796 a Bologna nel Museo Civico dal 1818. Il pezzo fu oggetto di analisi e riproduzioni a disegno dal 1644 – data del suo rinvenimento – e interessò gran parte degli studî antiquarî dal secolo XVII al XIX. Ne fece cenno anche Cassiano dal Pozzo nel suo memoriale. La Patera è qui minuziosamente descritta e analizzata con precisi confronti stilistici e iconografici concernenti i particolari della scena mitologica, relativa alla nascita di Atena dal capo di Zeus. Sulla base di tali raffronti il reperto è stato ascritto a officine attive nel territorio etrusco dal secolo IV al III a.C. Marmi antichi di Genova: la decorazione architettonica, «Rivista di Archeologia», 31-45, figg. 1-37. IV (1980), pp. Il reimpiego di marmi antichi inizia nel capoluogo ligure nel Medioevo e interessa in modo particolare chiese romaniche, porticati medievali e rinascimentali. Sono esaminati pezzi romani – architravi, colonne, mensole, capitelli – di cui non è nota la provenienza, ma di cui, sulla base di precisi confronti stilistici, si propone una probabile derivazione sia dall’area di Roma e dintorni sia dai centri liguri, sedi di città importanti in Età Romana, come Luni o Libarna. È ipotizzabile che presso San Giovanni di Paverano e nella zona circostante, come evidenziato da alcuni scavi condotti in loco, tutti questi marmi trovassero una delle loro sedi genovesi di deposito. Segue un dettagliato catalogo dei frammenti romani riutilizzati cui sono annessi altri – sempre di Età Romana – conservati nei Musei Civici; la maggior parte del materiale reimpiegato è ascrivibile a una importazione avvenuta nel corso del Medioevo, giacché è plausibile ritenere che Genova in Età Romana fosse un centro di non grande rilievo. Disegni dall’antico agli Uffizî: Architettura 6975-7135, «Rivista Italiana di Archeologia e Storia dell’Arte», s. III, V (1982), pp. 7-262, figg. 1-81, tavv. I-CXXII. È l’analisi di un taccuino di disegni dall’antico conservato al Gabinetto Disegni e Stampe della Galleria degli Uffizî. È puntualizzata la relazione con il Museum Carthaceum di Cassiano Dal Pozzo, la vasta raccolta di disegni di reperti antichi che fu testimonianza e componente non trascurabile della cultura archeologica e antiquaria del Seicento e del relativo collezionismo. In questo studio si sottolineano anche, in modo inedito, gli stretti rapporti intercorrenti fra il cosiddetto e già ricordato Museo di Carta di Cassiano e l’altro grande monumento cartaceo, summa della cultura archeologica del secolo precedente: le Antiquitates di Pirro Ligorio. È così restituito un completo e pregnante quadro dell’ambiente culturale e artistico dell’epoca cui il taccuino degli Uffizî afferisce, essendo stata richiamata l’attenzione, in specifico, sulle figure di Giovanni Bellori e Pietro Sante Bartoli e sul loro ruolo nella formazione del gusto collezionistico del tempo e dell’indirizzo degli studî antichistici. La nicchia di Cattaneo Pinello a Tursi: prospettive per una ricerca, «Bollettino dei Musei Civici Genovesi», V (1983), n. 15, pp. 53-62, figg. 1-3. – 19 – Si tratta di un articolo iniziale e funzionale alle ricerche in seguito intraprese sul motivo a trofei e panoplie rinvenute nel centro storico di Genova. L’interesse è volto in modo particolare alle metope del frontoncino della nicchia marmorea – sita nell’atrio del palazzo Tursi – sulla quale compaiono motivi di armi all’antica. Sono affrontati, inoltre, alcuni problemi, discussi poi in seguito, sia sulla provenienza delle iconografie sia sulla presenza a Genova di artisti giunti da altre città, ove il motivo di armi all’antica è frequentemente in uso ed è una caratteristica peculiare della decorazione architettonica nei varî centri. Una testina inedita in Santa Maria di Castello, «Liguria. Rivista mensile di attualità e cultura», 51 (1984), n. 1-2 (gennaio-febbraio), pp. 25-26, figg. 1-2. Una testina femminile, forse parte di un sarcofago, conservata nella Biblioteca della chiesa di Santa Maria di Castello è l’oggetto di questo studio che prende in considerazione i principali percorsi della ritrattistica di Età Romana in Liguria. Note per lo studio di alcuni sepolcri sulla via Tiburtina, «Rivista di Archeologia», X (1986), pp. 5258, figg. 1-13. Il saggio prende in esame alcuni disegni di Pirro Ligorio, conservati all’Archivio di Stato di Torino, relativi a monumenti funerari della via Tiburtina in Roma. Il Mausoleo dei Plauzi, vicino a Ponte Lucano, è l’unico dei quattro edificî esaminati ancora in situ. Grazie all’analisi dei disegni in questione è stato possibile ricostruire le altre fabbriche smembrate e rilevate nei disegni in oggetto. Varazze: sulle tracce di antichi percorsi, «Rivista Ingauna e Intemelia», figg. 1-12. XLI (1986), pp. 55-64, La ricerca su tratti viarî rimasti in uso od obliterati da nuove direttrici stradali è rivolta ad alcuni temi che maggiormente sono stati frequentati dagli studî di Graziella Conti. In questo caso, come in altri, indagini precise e mirate si avvalgono di riscontri in loco, escussione di documenti e dati raccolti anche dai gruppi di studenti da Lei diretti e impegnati in sopralluoghi nelle zone comprese tra Varazze, Cogoleto e Sassello. Questo elaborato illustra le fasi preliminari di un lavoro previsto, di più ampio respiro. L’antefatto: l’Età Romana, in La scultura a Genova e in Liguria. Dalle origini al Cinquecento, Genova 1987, vol. I, pp. 9-17, figg. 1-5. Dopo un breve cenno alle vicende storiche relative alla Regio IX in Età Romana, sono considerate le principali testimonianze di scultura coeva conservate nel capoluogo ligure e nelle zone vicine. Segue un elenco dei pezzi più significativi custoditi nei diversi Musei Civici della città. Collezione Garea: un itinerario culturale, «Rivista Ingauna e Intemelia», figg. 1-8. – 20 – XLV (1990), pp. 67-81, È illustrata la figura del collezionista Mario Garea del Forno, nato e vissuto a Varazze e che a tale cittadina ha donato la sua collezione di reperti archeologici, fossili e libri, conservati oggi nella Biblioteca Civica locale. Segue un catalogo dei materiali archeologici di cui non è nota la provenienza (alcuni giunti da commercî antiquarî del Nord Italia o dalla Magna Grecia, altri forse dagli scavi di Sant’Ambrogio a Varazze) suddivisi in base al materiale. I Doria e l’“antico”, «Storia dell’Arte», 1991, n. 73, pp. 297-331, figg. 1-31. Partendo dall’analisi dei marmi antichi impiegati in edificî e monumenti dei Doria e di altri elementi decorativi ispirati a questi esemplari antichi, si perviene a una interpretazione del complesso di piazza San Matteo in Genova: un testo a diversi strati di significanza, un macrotesto artistico composto da microtesti – i singoli elementi architettonici – tra loro interrelati, teso a realizzare un insieme in cui il reimpiego dei pezzi antichi, con le loro molteplici valenze, assume un ruolo fondamentale di forte pregnanza semantica. Dunque, i marmi antichi dei Doria non sono spoglie raccogliticce di un collezionismo povero, ma, al contrario, sono: ricerca dell’antico come connotazione ricorrente, norma ideale, vecchio modello linguistico per una lingua nuova. Un esempio di recupero a Genova: “mito” e “miti”, «Storia dell’Arte», 1993, n. 77, pp. 5-33, figg. 1-21. Lo studio analizza la decorazione a stucco di una sala del palazzo di Tomaso Pallavicino in piazza della Nunziata a Genova. Sono in particolare modo analizzate le scene mitologiche presenti nelle lunette delle cuffie dei soffitti. Si tratta di miti comuni nelle raffigurazioni pittoriche delle ville genovesi e, in questo caso, di una riproduzione a stucco con dettagli che sono in genere meno diffusi nelle scene mitologiche di repertorio. Il fatto sta a indicare una buona conoscenza da parte del decoratore non solo della fonte iconografica, ma anche di quelle letterarie antiche, relative ai miti rappresentati. Panoplie e trofei a Genova: un motivo antico per una lingua nuova, Genova 1995, pp. 11-112, figg. 1-153, tavv. I-III. Vasto lavoro d’insieme, preceduto da numerosi articoli sullo stesso tema (cfr. ante), inerente al motivo decorativo delle armi sui portali e su altre strutture architettoniche dei palazzi genovesi. Un tema iconografico, quello delle panoplie e dei trofei, tanto diffuso e persistente nella decorazione architettonica della città quanto trascurato dalla critica storico-artistica del passato, sempre poco attenta agli aspetti decorativi e alle relative polisemie. Mettendo in relazione le diverse tipologie del motivo delle armi e dei trofei con gli archetipi antichi, da una parte, e la loro presenza in alcune realtà cittadine coeve, dall’altra (Mantova, Venezia, Urbino, Parigi, Vienna e Malta), è realizzata una analisi esaustiva, filologica, storica e iconografica di questo tema per pervenire, infine, a una rilettura di molti edificî storici genovesi e dell’immagine urbana di Genova, colta nel suo sviluppo nel tempo. – 21 – Tecniche e rapporti dei mosaici liguri con l’Africa e il Mediterraneo, Atti dell’XI Convegno di Studio (Cartagine, 15-18 dicembre 1994), a cura di M. Khanaussi, P. Ruggeri, C. Vismara, «Africa Romana» XI (1996), pp. 1136-1149, tavv. I-VIII. In questo contributo, presentato all’XI Convegno di Studio di «Africa Romana» (Cartagine, 15-18 dicembre 1994), sono presi i considerazione i rapporti intercorrenti tra Liguria, area mediterranea e Nord Africa in Età Romana. Sono dapprima esaminati i mosaici liguri (descritti in un catalogo suddiviso su base geografica) e, in modo particolare, le tecniche musive usate come l’opus signinum, i sectilia e l’opus tessellatum. Successivamente, sono analizzati i motivi geometrici e/o figurati presenti nei mosaici in questione e di cui sono forniti precisi confronti tipologici con altri esemplari rinvenuti in area mediterranea e specialmente in Nord Africa. Su questa base, è ipotizzata una presenza di maestranze in terra ligure che diffondevano modelli e tipologie iconografiche di ascendenza africana, mediata da Roma. Viabilità romana della Liguria di Levante, in Medioevo a Rapallo, Atti del Convegno di Studio (Rapallo, 19 novembre 1994), a cura di L. Kaiser, A. Rotta, Rapallo 1996, pp. 11-13, fig. 1. Lo studio, presentato al Convegno Medioevo a Rapallo, traccia un quadro generale della viabilità nel Levante ligure in Età Romana. Partendo dagli studî precedenti e dagli scarsi dati di scavo a disposizione, sono impostate le principali linee della ricerca da Lei diretta con la collaborazione di un gruppo di studenti del Suo corso di Topografia antica ricoperto presso l’Università degli Studî di Genova. Oggetto dell’indagine sono alcuni tratti della via Æmila Scauri e i tracciati che congiungevano quel percorso al mare. L’interesse è poi focalizzato sui dati di scavo inerenti la viabilità di Rapallo in Età Romana: il sito probabilmente era un insediamento vicano di scarsa importanza, gravitante sull’area genuate, come documentato da un tratto di via, presumibilmente medievale, che si inseriva su un precedente tracciato romano. I mosaici, in Museo Archeologico di Savona al Priamar, a cura di R. Lavagna, Genova 1996, pp. 2628, figg. 29-30. Breve guida ai mosaici romani, per la maggior parte geometrici, conservati nel Museo del Priamàr a Savona. L’“Antico”: volontà o citazione?, in Villa Durazzo in Santa Margherita ligure. Una villa alla genovese, a cura di C. Dufour Bozzo, Genova 1996, pp. 63-67, figg. 17-21. Sono considerati alcuni motivi tratti da un repertorio dall’antico presenti negli arredi della Villa, temi per lo più noti e desunti da fonti icongrafiche e/o letterarie. Percorsi e varianti di un testo musivo antico: schema a cuscini da sud a nord, Atti del IV Colloquio AISCOM (Palermo, 9-13 dicembre 1996), a cura di F. Guidobaldi, Ravenna 1997, pp. 721732, figg. 1-10. – 22 – Lo schema musivo esaminato è costituito da quadrati a lati inflessi con angoli arrotondati e cerchi ellissi adiacenti che determinano un fiore quadrilobo con ottagono al centro e cerchio inscritto in un ottagono. Tale schema, reso noto in occasione del IV Colloquio dell’AISCOM (Palermo, 9-15 dicembre 1996), si trova in aree occidentali e orientali dell’Europa e dell’Africa Settentrionale dal secolo III al IV d.C. L’analisi è condotta partendo da un mosaico di Siracusa (proveniente da corso Matteotti e oggi conservato nei depositi del Nuovo Museo Archeologico di Siracusa, inv. 50700) ascritto alla tipologia A. Nel confronto con esempî simili rinvenuti in area mediterranea sono individuate quattro tipologie, con varianti maggiori o minori dal modello base, suddivisibili in altre sottotipologie. Le varianti presentano due direttrici: una strutturale-morfologica, inerente le dimensioni degli oggetti, e una iconografica che prevede l’inserimento di figure umane o animali all’interno della struttura geometrica. Un’ultima considerazione riguarda le scelte cromatiche che indicano un passaggio da mosaici policromi in Sicilia e in Africa a esempî bicromi in Spagna e in Liguria. Tale scelta è dettata sia da esigenze di gusto e di moda sia dalla necessità dell’uso di materiali lapidei locali. Da albero-trofeo a trofeo-croce, «Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia», LXXI (1998-1999), pp. 273-326, figg. 1-49. I rilievi nella base della colonna di Arcadio a Istanbul rappresentano uno dei momenti più avanzati in cui si possa intravedere la ripresa di simboli, scenografie e personificazioni tratti dal mondo pagano e trasposti in un orizzonte cristiano. Compaiono le seguenti raffigurazioni: vittorie, personificazioni di sole e luna, cortei, trofei, etc. Questi schemi iconografici sono trasmessi dal mondo pagano greco/romano a un ambito giudeo-cristiano con continuità nelle rappresentazioni. Numerose iconografie rimangono immutate e di queste alcune sono chiaramente riprese nei trofei, simbolo di vittoria, tanto in un mondo pagano quanto, in una loro rivisitazione, in quello cristiano. A tale proposito, un evidente caso di riutilizzo – sia di un pezzo antico sia della sua funzione come simbolo funerario – è fornito dal coperchio del sarcofago di Magonza, cui furono incisi successivi segni di croce per meglio connotarlo come sepoltura cristiana. Baalbek: scultura architettonica – un progetto, in Storia, Arte, Archeologia del Libano, Atti del Colloquio interdisciplinare (Genova, 22-24 gennaio 1996), a cura di G. Airaldi, P. Mortari Vergara Caffarelli, Genova 1999, pp. 51-60, figg. 1-11. Presentato al Colloquio Storia, Arte, Archeologia del Libano, l’articolo illustra le ricerche intraprese sulla scultura architettonica dei monumenti romani di Baalbek: una città che è un crocevia di motivi tramandati dall’Oriente mesopotamico, influenzati da elementi egizî e greci, rivisitati e reinterpretati nell’arte romana. Testimonianza architettonica di un mosaico dei Laberii da Oudna, in Gli imperatori Severi, Atti del I Convegno di Studî Severiani (Albano Laziale, 21-22 maggio 1996), a cura di E. Dal Covolo, G. Rinaldi, Roma 1999, pp. 157-167, figg. 1-6. – 23 – Presentato al primo Congresso di Studî Severiani (Albano Laziale, 31 maggio-1° giugno 1996), illustra un mosaico con episodî di vita quotidiana proveniente dall’atrio della casa dei Laberii a Oudna. Si tratta di una scena campestre, con le varie attività agricole e pastorali connesse e con una casa sullo sfondo. Si possono individuare tre livelli di lettura: tematico, architettonico, compositivo-formale. Le raffigurazioni nei diversi registri del mosaico trovano corrispondenza in coeve rappresentazioni scultoree. S. CASARTELLI NOVELLI, G. CONTI, Figure cosmogoniche e segni cristologici: nuovi documenti raccolti a Efeso, Didima e Afrodisia., in Arte d’Occidente. Temi e metodi, Studî in onore di Angiola Maria Romanini, a cura di A. Cadei et Alii, Roma 1999, vol. I, pp. 279-286, figg. 1-7. Sono esaminati tre ritratti di Età Romana conservati nel Museo di Efeso: due busti di Augusto e una testa di Livia, probabilmente appartenenti al tempio del Divo Giulio. I ritratti maschili presentano sulla fronte una croce incisa in un tempo successivo, forse aggiunta in occasione della cristianizzazione della città. Influssi architettonici dalla Tunisia alla Dalmazia, Atti del XIII Convegno di Studio (Djerba, 1013 dicembre 1998), a cura di M. Khanaussi, P. Ruggeri, C. Vismara, «Africa Romana», XIII (2000). Dalle illustrazioni musive, presenti in area nordafricana, è possibile conoscere la struttura di una villa romana in quella stessa regione mediterranea e la sua consistenza architettonica. Sono esaminati di questi impianti, in modo specifico, i loggiati – raffigurati nei mosaici in questione e, in alzato, presenti ad esempio nel palazzo di Diocleziano a Spalato – per giungere a postulare per tale tipo di archeggiatura una probabile derivazione dalle ville siriache tardoantiche. Eroti a Genova: la lezione dei sarcofagi, in Romana Pictura e Christiana Signa: due mostre a confronto. Arte figurativa in Liguria fra età imperiale e altomedioevo, Atti delle Giornate di Studio (Genova, 12-13 dicembre 1998), a cura di A. Frondoni, Genova 2003, pp. 97-99, figg. 1-3. Questo studio – pubblicato postumo – è stato presentato alle Giornate di Studio, tenutesi a Genova il 12-13 dicembre 1998, e costituisce la sintesi di una ricerca più articolata e approfondita che compare in questa miscellanea. Dopo aver constatato che il tema dei due eroti che reggono un cartiglio è abbastanza frequente sui portali genovesi dal Cinquecento in poi, sono presi in considerazione i probabili modelli antichi di tale schema iconografico al fine di tracciare un percorso di questo motivo e, specialmente, della sua fortuna nel capoluogo ligure. L’appareillage des murs au Liban à l’époque médiévale: la culture classique récupérée, in De Gênes à Jbeil: les Embriaci, XIème-XIIIème siécle, Atti del Colloquio Internazionale (Jbeil, 7-8 maggio 1999), a cura di E. Kallab-Bissat, P. Mortari Vergara Caffarelli, c.d.s. – 24 – In occasione del Colloquio tenutosi in Libano nel 1999, la Studiosa affronta, approfondendolo rispetto alla Conferenza tenuta sempre in Libano nel 1998 (cfr. qui oltre), il tema del recupero di pezzi classici, soprattutto utilizzandoli come elementi costruttivi. Ne sono un chiaro esempio l’uso di recuperare fusti di colonne di Età Romana – frutto dello spoglio di siti ormai abbandonati – per collocarle trasversalmente rispetto ai fronti dei muri in costruzione, in modo da immorsare più saldamente gli stessi. Persistenze e modificazioni in territorio ligure, un esempio della Riviera di Ponente: Varazze-VaragineAd Navalia, in VI Congresso sull’Archeologia Tardoantica e Medievale (Cuglieri, giugno 1989), c.d.s. Il presente contributo – di cui esiste la versione manoscritta a Genova, Biblioteca Universitaria, Archivio Conti – partendo dall’analisi geomorfologica della Valle del Teiro, per passare poi a quella toponomastica, con particolare riferimento all’evoluzione del toponimo Varazze, approda alla lettura di alcuni manufatti monumentali – Sant’Ambrogio Vecchio e il castrum di San Donato – con l’intento di verificare se sia possibile, in mancanza di fonti certe, addivenire all’individuazione di un modello che veda nel binomio chiesa-castrum una caratteristica di alcuni contesti abitativi liguri. – 25 – – 26 – L’ARCHIVIO DI GRAZIELLA CONTI: UN ELENCO PROVVISORIO Oriana Cartaregia* I primi contatti di Graziella Conti con la Biblioteca Universitaria di Genova risalgono al periodo degli studî universitarî, come Lei stessa ha raccontato nel marzo del 2000 alla presentazione di un lavoro di una Sua ex allieva sui nostri fondi di antiquaria. Il libro che Alberta Bedocchi si accingeva a pubblicare era nato da un’idea della stessa Conti assai interessata a sondare, dati bibliografici alla mano, l’incidenza della cultura antiquaria e del gusto dell’antico a Genova.1 Già nel 1997 aveva chiesto e ottenuto un finanziamento del CNR2 e finalmente, dopo un lungo e faticoso lavoro, si era giunti, il 30 marzo, alla sua presentazione. L’atmosfera e gli amichevoli rapporti intercorsi in quella occasione, che vide anche l’allestimento di una piccola esposizione bibliografica nel salone di lettura,3 furono molto probabilmente i fattori che fecero maturare in Graziella Conti la decisione di lasciare alla Biblioteca Universitaria il Suo archivio fotografico. Per giungere in tempi veloci alla realizzazione di questo progetto e per valutare la disponibilità della Biblioteca a rendere fruibile a studenti e studiosi il Suo patrimonio di immagini, accumulate in anni di viaggî, Graziella Conti chiese e fece, nell’ottobre del 2000, un colloquio con Roberto Di Carlo, direttore della Biblioteca. Ottenuta rassicurazione circa l’accoglienza dell’archivio, continuò più alacremente il lavoro di riordino di foto e diapositive. L’ordinamento, portato avanti con l’aiuto dell’allieva Emilia Vassallo, seguiva un criterio geografico, al quale si avvicendava anche un criterio per tema tecnico-iconografico. Purtroppo, prima della fine dello stesso anno, la malattia, crudele e velocissima, ha interrotto la vita di Graziella Conti. Nonostante il chiaro presentimento di morte, che aveva probabilmente ispirato la fretta nell’occuparsi del Suo archivio quando era ancora in buona salute, Graziella Conti nel testamento non accennava nulla sul destino dello stesso, mentre con chiarezza legava la Sua biblioteca personale, della quale aveva anche redatto un piccolo catalogo d’uso, alla Biblioteca Civica Berio.4 Anche in assenza di una specifica clausola testamentaria, gli eredi di Graziella Conti hanno risposto con sensibilità alla Sua volontà decidendo di donare comunque l’archivio di studio alla Biblioteca Universitaria che lo ha accolto, presso i suoi locali di via Balbi 3, il 23 giugno del 2001. Definire archivio la documentazione di Graziella Conti, soprattutto quella fotografica, ove l’intenzionalità della raccolta per la trasmissione agli altri appare molto evidente, poBiblioteca Universitaria di Genova. Cfr. BEDOCCHI 2000. 2 Cfr. Archivio Conti, 3/59. 3 L’esposizione, curata da Alberta e Carla Bedocchi e dalla scrivente, si intitolava, anche in omaggio all’anno giubilare allora in corso: Antiche guide topografiche di Roma per pellegrini e visitatori (secoli XVI-XVIII), (Genova, 30 marzo-30 aprile 2000). 4 Sulla biblioteca di Graziella Conti cfr. qui il contributo di TADDEI. Per il catalogo della stessa cfr. Archivio Conti, 3/72(4). * 1 – 27 – trebbe sembrare piuttosto azzardato. La tradizione archivistica recita infatti che una delle caratteristiche peculiari di un archivio debba essere proprio la mancanza di intenzionalità nella sua sedimentazione e costituzione. Convinti però che ciò non vale per gli archivî delle donne (come per gli archivî contemporanei, di partiti, sindacati etc.), in cui la volontà politica della memoria è un elemento strutturale e condizionante, sia al momento dell’assemblaggio del materiale, sia nel momento del riordino delle carte, sia nella metodologia di archiviazione e conservazione,5 insistiamo a definire archivio il materiale oggi custodito presso la sala Atrio Rari della Biblioteca Universitaria di Genova. Poiché la documentazione è giunta nell’estate del 2001 non è stato possibile formulare in tempi veloci alcuna richiesta di finanziamento per il riordino e la valorizzazione del contenuto dell’archivio e della figura della Produttrice. È comunque intenzione della Biblioteca inserire nelle richieste di finanziamento per l’anno 2003 un progetto che, nel rispetto degli standard di catalogazione dei diversi materiali, colleghi, tramite un software adatto, l’archivio di studio alle immagini, prevedendo quindi per queste ultime la digitalizzazione completa. Del resto gli esempi di schedatura di archivî e di carteggî contemporanei e antichi, visibili anche on line, che contemplino la commistione dei diversi materiali, dando la possibilità di collegare documenti sia scritti sia iconografici e anche audiovisivi, stanno aumentano. Siamo certi che non tarderà a realizzarsi il sogno di poter collegare facilmente basi dati diverse, contenenti differenti tipologie di beni culturali tra di loro.6 I problemi, che un progetto riguardante un archivio del ‘900, deve affrontare sono molteplici e non sono circoscritti alla necessaria visibilità e fruibilità, garantite sicuramente dalle affascinanti possibilità delle tecnologie elettroniche. Infatti, se la moltiplicazione crescente, durante l’ultimo mezzo secolo, delle registrazioni e delle riproduzioni di testi, parole, suoni e immagini (oggi combinate nelle forme più varie di prodotti multimediali) è venuta, con la massa stessa dei documenti da conservare, a impostare in termini radicalmente nuovi il problema degli archivî al problema, prima, della sistemazione scientifica dei diversi materiali, della loro raccolta, spesso sottovalutata, si aggiungono un problema di conservazione, dopo, aggravato dalla fragilità dei materiali (fotografie, pellicole, registrazioni sonore, ecc) e un problema di statuto, anche, legato all’incertezza della frontiera tra pubblico e privato, e alla consapevolezza della necessità di proteggere un nuovo tipo di segreto, che non è più quello dello stato, ma quello dell’individuo come persona, e della sua vita privata.7 All’obbiettivo di una buona fruizione in tempi brevi dell’archivio, si dovrà quindi affiancare la richiesta di fondi per la sua corretta sistemazione fisica in contenitori che ne garantiscano la buona conservazione nel tempo. Per quanto concerne l’ultimo aspetto problematico, tipico degli archivî contemporanei di persona, riguardante il necessario rispetto per la salvaguardia delle carte private, bisogna rilevare che nell’archivio di Graziella Conti, come in quasi tutti gli archivî femminili contemporanei, assai poche sono le tracce intime.8 Infatti, possiamo dire che in Cfr. LILARCA 1998, pagina Archivî delle donne; dallo stesso sito Web si consiglia la Bibliografia <http://www. women.it/lilith/sito/firmamen/archibib.htm.>, ove si rintracciano utili strumenti bibliografici sugli archivî contemporanei, sugli archivî femminili, sugli standard di catalogazione e sulle problematiche storiche legate agli archivî. 6 Lungi dall’essere soltanto un sogno, anche in Italia, singoli ufficî regionali e lo stesso Ministero per i Beni e le Attività Culturali stanno tentando di collegare con cataloghi visibili on line i varî progetti di schedatura dei diversi beni culturali. Come esempio consigliamo la visione dell’interessante esperimento che, all’interno del Servizio Bibliotecario Nazionale e tramite un Catalogo in conformità allo standard Z39. 50, si sta facendo per collegare documenti di archivî, biblioteche e musei: <http://sbnonline.sbn.it/zgw/catalogit.html>. Per saperne di più sul Servizio Nazionale Bibliotecario cfr. <http://opac.sbn.it:2020/zgw/infoit.html>. 7 Cfr. AYMARD 1997, pp. 6-7. 8 Solo in Archivio Conti, 2/55; 3/5 3 3/21 si trovano documenti personali che verranno esclusi dalla consultazione. 5 – 28 – molti archivî femminili contemporanei la scarsità di materiali biografici si presta ad alcune considerazioni, tra cui il bisogno di proteggere la propria e l’altrui privacy, il perdurare di un’idea di inesprimibilità dei percorsi di trasformazione più intimi per il loro profondo coinvolgimento affettivo ed emotivo… infine il permanere di una mentalità che privilegia la conservazione dei documenti a carattere pubblico».9 Anche il prodotto intellettuale di una persona, nonostante questa abbia dimostrato in vita, – come Graziella Conti –, di essere molto consapevole del proprio valore tanto da pensare, con grande generosità, che altri ne potessero usufruire, necessita di una qualche forma di protezione. Paradossalmente ciò che nell’archivio Conti risulta più privato, cioè alcuni studî ultimati, ma rimasti inediti, possono avere garantita la maternità intellettuale solo dando loro il massimo della pubblicità, così come viene fatto nella presente miscellanea. Esattamente questo è anche lo scopo della pubblicazione dell’elenco dei documenti contenuti nell’archivio, anche se lo stato di ricognizione degli stessi è ancora a un livello minimo. Quando si è proceduto all’apertura dei dieci cartoni che contenevano l’archivio10 è risultato evidente che, a parte qualche cartellina e foglio sparso, la documentazione aveva un ordine abbastanza preciso. Le immagini poi, cioè la parte più consistente dell’archivio, opera fotografica in linea di massima della stessa Conti, avevano goduto di una particolare cura nella sistemazione. Lo spirito d’uso corrente dell’archivio, quale supporto allo studio proprio e altrui, è risultato ben evidente dal fatto che alcune Sue allieve avevano ricevuto in più di una occasione foto e diapositive in prestito da Graziella Conti, tanto che tre unità dell’archivio sono state consegnate alla Biblioteca in data recentissima.11 Nonostante l’assoluta incompetenza riguardo alle materie di studio delle quali si è occupata e appassionata Graziella Conti, è parso subito chiaro il valore che questo archivio poteva avere non solo, e in primo luogo, per la ricostruzione della figura della Studiosa, ma anche quale formidabile strumento per gli studî archeologici e artistici sul Tardoantico. In particolare sembra importante segnalare la presenza di immagini di luoghi, monumenti e scavi archeologici nordafricani e mediorientali oggi non più visibili perché in zone investite da sanguinose guerre civili o purtroppo andati irrimediabilmente distrutti. Prima di passare ad alcune brevi note esplicative riguardanti l’elenco dell’Archivio Conti, sembra interessante per comprendere in pieno il valore aggiunto degli archivî che, come in questo caso, custodiscono e tramandano ai posteri le proprie carte, riportare alcune parole molto chiare di Linda Giuva rispetto agli archivi femminili: È vero che un archivio nasce per fini pratici ma l’atto della conservazione, che comporta l’impegno a proteggere le carte da distruzioni, traslochi, drammatiche divisioni familiari, mancanza di spazio, rivela il desiderio di ricordarsi e di ricordare se stesso agli altri. Spesso questo desiderio è unito a una profonda autostima o, semplicemente, – ma non è poco – a un affetto nei propri confronti. Custodire le carte per una vita intera, curarne la consegna a parenti o amici è un modo molto significativo per lasciare una traccia del proprio passaggio. L’esistenza di un archivio è in sé una testimonianza importante per la costruzione di una biografia. Pertanto l’esiguo numero di archivî femminili è segno di una difficoltà di genere di accettare sé stesse come soggetto produttore di storia.12 Cfr. Lilith… 1996, p. 8. L’apertura dei cartoni e l’ordinamento in tre serie è stato effettuato con la collaborazione della collega Donatella Benazzi. 11 Cfr. Archivio Conti, 2/64, 2/65 e 3/73 consegnate in data 21.01.2002 da Alberta Bedocchi e Rosanna Muratore. 12 L’intervento di Giuva, funzionaria dell’Archivio Centrale dello Stato, (Cfr. L. GIUVA, Archivî neutri e archivî di genere. Problemi di metodo e di ricerca negli universi documentari), fu fatto per un corso di formazione per documentariste di “genere”, promosso dal Centro Documentazione e Informazione della Donna di Bolzano nel 1995-1996, è pubblicato in Lilith… 1996, pp. 13-42. La citazione ripresa è tratta da p. 33. 9 10 – 29 – L’elenco che qui si presenta non ha nessuna pretesa scientifica né per quanto concerne una auspicabile ordinamento archivistico né per un’indicizzazione biblioteconomica, necessaria per le parti bibliografiche. Si è rispettata, ove presente, la titolazione dei contenitori fornita da Graziella Conti, aggiungendo fra parentesi quadre, ove necessario, una nota sul contenuto che, in alcuni casi, contraddice la dicitura originale. Il senso di questo breve lavoro è esclusivamente di prima informazione e di tutela, come si è detto, del contenuto inedito presente nell’archivio, che in buona parte è comunque pubblicato nella presente miscellanea. Tuttavia l’elenco, al quale si è aggiunto un Indice dei nomi e termini contenuti riferiti alla collocazione provvisoria della serie seguita dal numero progressivo, prende le mosse anche dal desiderio, espresso in più occasioni da Graziella Conti, di mettere a disposizione al più presto il materiale iconografico e di studio accumulato negli anni della Sua vita di studiosa. In realtà allo stato attuale la situazione del fondo non permette la costruzione di un attendibile strumento di ricerca e sarà quindi perdonata l’incompletezza dei dati forniti, soprattutto nell’indice sopracitato. Nato forse più per placare ansie da indicizzazione proprie dei bibliotecarî, più che dai giusti e necessarî approfondimenti dettati da vincoli e correlazioni archivistici, lo si è comunque voluto pubblicare nell’intento di rendere immediatamente fruibile il materiale. Poiché in alcuni casi risulta più che evidente la corrispondenza della bibliografia di Graziella Conti con il contenuto dell’archivio, si è cercato di fornire all’interno dell’elenco un riferimento alla stessa, ivi pubblicata, con il prezioso aiuto di Alberta Bedocchi, Rosanna Muratore ed Emilia Vassallo che ringrazio per la disponibilità dimostrata. – 30 – Consistenza totale dell’archivio:1 n. 10 cartoni (182 unità). Sono state individuate 3 serie di materiale: Serie n. 1, denominata Conti 1, composta da libri, numeri di riviste e tesi di specializzazione (n. 44 unità). Serie n. 2, denominata Conti 2, composta da porta diapositive e foto (n. 65 unità) che contengono nel complesso 9.529 immagini (7.229 dia/color; 1,568 foto a colori; 484 foto b/n; 101 cartoline postali; 77 fotocopie a colori e illustrazioni da libri) e 1.097 negativi di foto. Serie n. 3, denominata Conti 3, composta da contenitori (n. 73 unità) nei quali sono conservate carte, appunti, foto, fotocopie e altro materiale di studio. Arco cronologico: 1909-2000 Elenco del materiale dell’Archivio Conti (1933-2000) Serie Libri, riviste e tesi – Conti 1/1-44 1. C. Saletti, Considerazioni critiche su alcuni ritratti di Età Greca e Romana nel Museo Liviano di Padova, [estratto da «Arte antica e moderna», 1963, n. 24] 2. J.M. Lotman, Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, a cura di S. Salvestroni, Bari 1980, [fotocopie] 3. S. Casartelli Novelli, Committenza e produzione scultorea “bassa”, [estratto da: Committenti e produzione artistico-letteraria nell’Alto Medioevo occidentale, Settimane di Studio del Centro Italiano di Studî sull’Alto Medioevo, XXXIX (Spoleto 410 aprile 1991), Spoleto 1992, tomo II, pp. 531-562, tavv. I-LVI] 4. «Dossier de l’Archéologie», 1978, n. 31, [Comprende, oltre al numero della rivista, anche le fotocopie dello stesso] 5. F. Chiocci, La scena di Orfeo tra le fiere nelle testimonianze pittoriche e musive: aspetti iconografici e iconologici, Genova, a.a. 1994-1995 – Tesi di specializzazione dell’Università degli Studî di Genova-Scuola di specializzazione in Archeologia Classica; [Relatore: prof. Graziella Conti] 6. R. Muratore, Materiali tardoantichi tortonesi conservati nel Civico Museo di Archeologia Ligure, Genova. a.a. 1998-1999 – Tesi di specializzazione dell’Università degli Studî di Genova-Scuola di specializzazione in Archeologia Classica; [Relatore: prof. Carlo Varaldo] 7. G. Curatola, Draghi: la tradizione artistica orientale e i disegni del tesoro del Topkapï, Mestre, c. 1989, [fotocopie rilegate] 8. C. Varaldo, La terza campagna di scavo della chiesa medioevale di San Domenico al Priamar (1976-1977),[estratto da: «Rivista di Studî Liguri», XLVII (1981), n. 1-4] 9. C. Varaldo, Insediamenti e centri urbani medioevali nella Liguria di Ponente: contributo per un esame tipologico, Bordighera, 1985, [estratto da: «Rivista di Studî Liguri», L (1984), n. 1-4] 10. F. Zevi, Considerazioni sull’elogio di Scipione Barbato, 1968-1969, [estratto da: «Studî miscellanei. Seminario di Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana della Università di Roma», XV (1968-1969)] 11. A.I. Vošcinina, Frühantike Glasgefässe in der Ermitage (Gruppe der Salbgehässe in der Sanakern-Techinik, [estratto da: «Wissenschaftliche Zeitschrift der Universität Rostock», XVI (1967)] 12. P. Ward-Jackson, Some main streams and tributaries in European Ornament from 1500 to 1750, [estratto da: «Victoria and Albert Museum Bulletin Reprints», vol. 3°, n. 2-4, 1967] 13. G. Wilpert, Restauro di sculture cristiane antiche e antichità moderne, [estratto da: «Rivista di Archeologia Cristiana», 1927] 14(1-19). G. Conti, L’antefatto: l’Età Romana, [estratto da: La scultura a Genova e in Liguria, Genova, 1987-1989; 3 voll. (n. 19 copie)] 15. G. Conti, Marmi antichi di Genova: decorazione architettonica, [estratto da: «Rivista di Archeologia», IV (1980)] 16(1-15). G. Conti, Varazze: sulle tracce di antichi percorsi, [estratto da: «Rivista Ingauna e Intemelia», n.s., XLI (1986), n. 1-4; (n. 15 copie)] 17. G. Conti, Una testina inedita di S. Maria di Castello, [estratto da: «Liguria. Rivista mensile di attualità e cultura», 51 (1984), n. 1-2 (gennaio-febbraio)] 18. G. Conti, Note per lo studio di alcuni sepolcri della Via Tiburtina, [estratto da: «Rivista di Archeologia», X (1986)] 19. M.G. Molina, Le Muse: evoluzioni di un motivo iconografico nella tradizione letteraria e figurativa sino al XVI secolo, Tesina di 1° anno Corso di perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna dell’Università degli Studî di Genova, a.a. 1982-1983; [Relatore: prof. E. Gavazza] 20. C.M. Serafino, Esercitazione: «Scuole di mosaico africano in Tunisia nel II e III sec. d.C.», Tesi della Scuola di specializzazione in Archeologia Classica e delle Province Romane, Università degli Studî di Genova, a.a. 1994-1995 21(1-12). G. Conti, Collezione Garea: un itinerario culturale, Bordighera, s.a. , [estratto da: «Rivista Ingauna e Intemelia»; XLV (1990), (n. 12 copie)] I conteggî delle immagini contenute nella Serie 2 sono stati fatti con la collaborazione delle colleghe Rosanna Calzona, Amalia Napoletano e Antonella Pace. Rimangono da contare tutte le immagini della serie 3, facenti parte dei “lavori in corso” di Graziella Conti. 1 – 31 – 22. 1. N. Figelli, Guida di Aquileia, Trieste, 1996, [Posto in contenitore verde] 22. 2. M.C. Calvi, I vetri romani / M.C. Calvi; fotografie di Antonello Perissinotto – [Aquileia], 1969 (in testa al frontespizio.: Museo di Aquileia), [Posto in contenitore azzurro] 22. 3. J.Y. Empereur, A short guide to the Graeco-Roman Museum Alexandria, Alessandria 1995, [Posto in contenitore verde] 22. 4. M. Khatchadourian, Ancient Alexandria. History and monuments, Alessandria 1995, [Posto in contenitore azzurro; dattiloscritto] 22. 5. L. Marcuzzi, Aquileia, Aquileia, c. 1993, [Posto in contenitore verde] 22. 6. G. Brumat Dellasorte, Aquileia antica, Venezia, c. 1993, [Posto in contenitore verde] 22. 7. Aujourd’hui l’Egypte, Il Cairo, 1996, n. 37, [Posto in contenitore verde] 23. M. Di Pietro, Tradizione classica a Genova: tipologia dei portali con decorazioni d’armi (secoli XVI-XVIII), [estratto da: «Bollettino dei Musei Civici genovesi», IX (1987), n. 26-27] 24. T.C. Gouder, The mosaic pavements in the Museum of Roman Antiquities at Rabat, Malta, Malta 1983 25. P. Velay, De Lutece a Paris: l’île et les deux rives, Parigi 1992 26. «Passport. Provincia di Genova», III (1997), n. 44-45 27. E. Planson-C. Pommeret, Les Bolards. Le site gallo-romain et le musée de Nuits-Saint Georges (Côte-d’or), Parigi 1986 28. Palazzo Doria Spinola sede della Provincia di Genova. Guida/Guide. Testi di Liliana Ughetto, Genova 1992 29. M. Cagiano De Azevedo, Il gusto nel restauro delle opere antiche, Roma 1948, [Fotocopie rilegate] 30. M. Haag, Alexandria, Il Cairo 1993 31. C. Cecchelli, La decorazione paleocristiana e dell’Alto Medioevo nelle chiese d’Italia, [estratto da: Atti del IV Convegno di Archeologia cristiana, Città del Vaticano 1947] 32. Roma arcaica e le recenti scoperte archeologiche, Giornate di studio in onore di U. Coli (Firenze, 29-30 maggio 1979), Milano 1980 33. Roma: continuità dell’antico. I Fori Imperiali nel progetto della città, Milano 1981 34. Genova. Provincia. Guida ai servizî, Genova 1997 35. J. Le Gall, Alésia: le siège de la forteresse gauloise par César, la ville gallo-romaine, le culte de sainte Reine, Parigi 1985 36. R. Lauxerois-P. André-G. Jourdan, Alba: de la cité gallo-romaine au village (département de l’Ardèche), Parigi 1985 37. B. Cellini, Vita di Benvenuto Cellini scritta da lui medesimo. Nuova edizione scolastica con note e illustrazioni per cura del dott. Francesco Zublena, Torino 1928 38. Algerie, Parigi 1986, (Le Guides Bleus) 39. M. Cristofani, Introduzione allo studio dell’etrusco, Firenze 1973 40. Cornelio Nepote, Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium. Con note italiane del prof. Ernesto Crespi, Roma 1909 41A. 1-22. «Forma Urbis. Itinerarî nascosti di Roma antica. Mensile tecnico scientifico», I (1996), nn. 1-11, II (1997), nn. 1-11; [Il n. 3 del 1996 è doppio; quasi tutti i nn. hanno il relativo supplemento] 41B. 1-8. «Forma Urbis. Itinerarî nascosti di Roma antica. Mensile tecnico scientifico», III (1998), nn. 1-9; [quasi tutti i nn. hanno il relativo supplemento] 42. 1-2. I maestri del colore, Milano1965, [dispense: n. 63: Guercino; n. 103: Pietro da Cortona (inserite in contenitore editoriale)] 43. Affreschi del castello di Issogne, a cura di Andreina Griseri, s.l. s.d. [197?] 44. Eusebio di Cesarea, Sulla vita di Costantino / introduzione, traduzione e note a cura di Luigi Tartaglia, Napoli c. 1984, [Fotocopie rilegate] Serie Immagini, Conti 2/1-65 1. Porta diapositive ad anelli, Liguria-Strade-Pisa-Pavia-Torino-Roma [per lavoro su viabilità romana]: 265 diapositive 2. Cartellina con porta diapositive, [San Lorenzo-Genova, San Lorenzo in Verano, Santa Prassede]: 186 diapositive 3. Porta diapositive ad anelli, Algeria 1: 338 diapositive 4. Porta diapositive ad anelli, Algeria 1. 1: 477 diapositive 5. Porta diapositive ad anelli, Libano Baalbek: 337 diapositive 6. Porta diapositive ad anelli, Libano Baalbek, Sidone, etc. Palmira: città e modanature: 480 diapositive 7. Porta diapositive ad anelli, Libano 3: 271 diapositive 8. Porta diapositive ad anelli, Palmira (Museo)-Damasco (Museo): 317 diapositive 9. Porta diapositive ad anelli, Tunisia 1: 578 diapositive 10. Porta diapositive ad anelli, Tunisia 2: 432 diapositive 11. Porta diapositive ad anelli, Tunisia 3-Spagna 2: 482 diapositive 12. Porta diapositive ad anelli, Portogallo-Ungheria: 207 diapositive 13. Porta diapositive ad anelli, Terme-Germania-Gran Bretagna-Bretagna [per intervento al Convegno in Libano ivi pubblicato: Evolution et développement des planimetries thermales)]: 205 diapositive 14. Porta diapositive ad anelli, Mosaici [per interventi convegni su mosaici fra i quali due pubblicati in CONTI 1994 e CONTI 1997]: 313 diapositive – 32 – 15. Porta diapositive ad anelli, Gallia-Egitto, Cairo e Alessandria, Sabrata, Leptis: 213 diapositive 16. Porta diapositive ad anelli; Turchia 1-Malta: 476 diapositive 17. Porta diapositive ad anelli, Architettura Italia, tecnica di scavo, teatri, architettura greca, scultura romana, monete, Spalato: 150 diapositive 18. Porta diapositive ad anelli, Siria 2: 278 diapositive 19. Porta diapositive ad anelli, Siria 4: 104 diapositive 20. Porta diapositive ad anelli, Recupero e Roma: 170 diapositive 21. Porta diapositive ad anelli, Pompei-Napoli-Cerveteri-Grecia-Oristano: 260 diapositive 22. Libro con diapositive, Principado de Asturias. Museo Arqueologico-Oviedo, Romanizacion, Oviedo 1987: 73 diapositive 23. Porta diapositive a scatola, Egitto: 27 diapositive 24. Porta diapositive a scatola, Beiruth-Biblos-Tripoli-Sidone-Tiro: 41 diapositive 25. Porta diapositive a scatola, Baalbek turistiche: 24 diapositive 26. Porta diapositive a scatola, Baalbek T[empio]. Bacco: 21 diapositive 27. Porta diapositive a scatola, Vernante (CN): 46 diapositive 28. Porta diapositive a scatola, Baalbek-Rot. (Tempio Rotondo)-Città Basilica [per articolo ivi pubblicato (Il tempio rotondo cosiddetto di Venere a Baalbek); Cfr. anche Archivio Conti 3/35]: 18 diapositive 29. Porta diapositive a scatola, Baalbek esagonale cortile: 44 diapositive 30. Porta diapositive a scatola, Recupero e Roma: 9 diapositive 31. Striscia di diapositive in telai di carta, [Per articolo G. CONTI, Persistenze e modificazioni del territorio nella Liguria di Ponente… (in corso di stampa)]: 18 diapositive 32A. 60 buste, [Ceramica]: 60 foto e illustrazioni 32B. 38 buste, [Busti, teste, statue, modanature, sarcofagi, archi, acquedotti (per studio su scultura in Liguria; murature medievali)]: 38 foto e illustrazioni 33. Busta, Mosca: 29 foto b/n 34. Busta, Francia: 48 foto a colori 35. Busta, Gran Bretagna 1971: 16 foto b/n 36. Busta, [Private]: 11 foto a colori 37. Busta, Sardegna: 8 foto b/n 38. Porta foto in plastica, Bogliasco: 5 foto a colori con negativi 39. Busta, Libano: 25 foto a colori + 2 negativi 40. Busta grande; Foto x esame [Eroti, vittorie alate e trofei di Arles e Roma; architetture Tunisia-Libano-Egitto (particolari): 14 foto a colori in varî formati 41. Busta grande, Foto Silvana (Casartelli Novelli) [iconografia croce-albero, Gran Bretagna per articolo CONTI 1998-1999]: 70 immagini stampate a colori da PC inserite in buste di plastica 42. Busta intestata Università di Genova, Ritratti con Silvana (Casartelli Novelli) [per articolo CASARTELLI NOVELLI-CONTI 1999: 6 immagini stampate a colori e b/n da PC 43. Album portanegativi, Album porta negativi 24x36: 1.089 negativi 44. Scatola in cartone, Genova-Roma-Napoli-Londra: 35 foto b/n + 3 cartoline illustrate 45. Scatola in cartone “Oxford”, Vienna, Ungheria, Luni e altro [murature di Spagna e Algeria, Milano, Torino e per studio viabilità Liguria di Levante; cfr.: CONTI 1994]: 110 foto a colori; 71 foto b/n; 20 cartoline illustrate 46. Scatola in cartone a fiori, Algeria foto: 250 foto a colori; 8 foto b/n; 4 cartoline illustrate 47. Busta grande, [Panoplie e affreschi – Genova – e confronti con Roma e Villa Adriana per CONTI 1995]: 26 foto b/n di varî formati 48. Cartellina in cartone, Fotografie, [Armi e trofei; modanature, busti per studio tecnica scultorea romana, copie da tavole di G.B. Piranesi, vasi greci e mosaici; cfr.: CONTI 1971, CONTI 1976, CONTI 1987]: 201 foto b/n di varî formati 49. Album portafoto ad anelli, Palmira, Anjar-Side-Eshmun-Recupero Baalbek, etc.: 286 foto a colori; 3 foto b/n; 54 cartoline illustrate; 1 diapositiva 50. Album portafoto ad anelli, Libano-Baalbek-Cairo-Recupero-Alessandria: 173 foto a colori 51. Album portafoto ad anelli, Aquileia-Grado: 102 foto a colori; 3 diapositive 52. Album portafoto ad anelli, Libia-Merida: 181 foto a colori 53. Cartellina in plastica trasparente, [Genova-Roma-Londra]: 48 foto b/n; 1 foto a colori 54. Cartellina in plastica trasparente, [Il Cairo, Tripoli, Baalbek, Tabessa, Alessandria, Châmât (Mâr Tacla), Byblos, Sidone (murature, reimpiego, vittorie alate e trofei)]: 40 foto a colori; 10 cartoline illustrate; 1 diapositiva; 1 negativo e una ricevuta di pagamento 55. Busta, [Foto personali fra le quali un ritratto di G. Conti]: 2 foto b/n; 1 foto a colori 56. Busta, Uffizî Firenze [Per CONTI 1974-1975]: 26 foto b/n; 1 foto a colori 57. Busta, [Sousse-Tuburbo-Major-Sbeitla]: 48 foto a colori; 11 foto b/n 58. Busta, [Olmeda mosaico]: 31 foto a colori 59. Busta, Damasco museo: 24 foto a colori in varî formati – 33 – 60. Busta, [Mosaici Tunisia, murature e modanature Baalbek]: 21 foto a colori 61. Busta, [Tebessa-Cartagine-Merida (S. Eufemia/Maktaar, etc.)]: 53 foto a colori 62. Busta, [Keuchela-Haidra-Maret el Noman, etc.]: 38 foto a colori 63. Busta, [Opere dal Museo Nazionale di Antichità di Algeri, più varie]: 9 cartoline illustrate 64. Cartellina porta diapositive in plastica rossa, Spagna: Madrid, Toledo, Cordova, Granada, Merida, Malaga, Italica, Siviglia; Italia-Toscana: Pisa e Lucca [materiale utilizzato anche per il corso sui mosaici tenuto da Conti nel 19992000 all’Università delle Tre Età (ONLUS aderente alla Associazione Nazionale Università della Terza Età di Torino)]: 382 diapositive a colori 65. Busta intestata “Università di Genova. Istituto di Storia del Medioevo e dell’Espansione europea”, [Materiale su murature Libano (Anjar, Baalbek – cortile e Tempio di Bacco –, Byblos, Sidone e Tiro) utilizzato anche per il Convegno Storia, Arte, Archeologia del Libano (Genova, 22-24 gennaio 1996), a cura di G. Airaldi, P. Mortari Vergara Caffarelli (Atti pubblicati a Genova nel 1999) e per il Convegno De Gênes à Jbeil: les Embriaci, XIème-XIIIème siécle (Jbeil, 7-8 maggio 1999), a cura di E. Kallab-Bissat, P. Mortari Vergara Caffarelli (Atti in c.d.s.)]: 52 diapositive, 7 foto a colori, 1 cartolina illustrata, 1 illustrazione da libro Serie Archivio di studio Conti 3/1-73 1. Cartellina gialla in cartone, G. Charles Picard, Les Trophées romains. Contribution à l’histoire de la religion et de l’Art triomphal de Rome, Parigi 1957, [fotocopie] 2. Cartellina azzurra in cartone, Mosaici, [fotocopie e schede bibliografiche] 3. Cartellina rossa in cartone, Weiss [R. Weiss, The Renaissance discoveries of Classical Antiquities, Oxford 1969], [fotocopie] 4. Cartellina grigia in cartoncino, Drago [1a stesura articolo CASARTELLI NOVELLI-CONTI 1999 e articolo MORTARI VERGARA CAFFARELLI ivi pubblicato (Rappresentazioni del drago e del leone in Eurasia durante l’epoca classica: una collaborazione interrotta)], [bozze, appunti mss., fotocopie e lettere] 5. Cartellina grigia in cartoncino, Appunti Lella [documenti personali esclusi dalla consultazione], [appunti mss. e fotocopie] 6. Cartellina grigia in cartoncino, Mosaici gemme, [appunti mss., foto e fotocopie] 7. Cartellina verde in cartone, Libano [Baalbek], [fotocopie e appunti mss.] 8. Cartellina in plastica trasparente, P. Collart,P. Coupel, L’autel monumental de Baalbek, Parigi 1951, [fotocopie] 9. Cartellina gialla in cartone, Tunisi e mosaici [con pubblicazioni di M. Ennaifer], [appunti mss., fotocopie, opuscoli a stampa, foto e lettere, schede] 10. Cartellina grigia in cartoncino, Omar Calabrese [O. Calabrese, L’intertestualità in pittura. Una lettura degli “Ambasciatori” di Holbein, «Documenti di lavoro e pre-pubblicazioni», Centro Internazionale di Semiotica e LinguisticaUniversità degli Studî di Urbino, n. 130-131 (1984)], [appunti mss. e fotocopie] 11. Cartellina rossa in cartone, Mosaici (mosaici Liguri)-Pav. Signina (M.L. Morricone)-Schemi (F. Guidobaldi) [Stesura in italiano per articolo su mosaici ivi pubblicato in francese e fotocopie da F. Guidobaldi], [fotocopie, appunti manoscritti e pagine a stampa] 12. Cartellina grigia in cartoncino, Varie e Libano [Heliopolis (Baalbek)], [appunti manoscritti, fotocopie, lettere dattiloscritte e opera a stampa: G. Lankester Harding, Baalbek. A new guide, Beirut 1963] 13. Cartellina grigia in cartoncino, [Baalbek, lavoro di T. Wiegand, Sopravvivenza dell’Antico], [fotocopie] 14. Cartellina grigia in cartoncino, Baalbek progetto, [appunti manoscritti] 15. Cartellina gialla, Libano [su modanature e progetti di spesa; convenzione tra l’Università degli Studî di Genova e quella libanese nell’ambito dell’accordo di cooperazione culturale Italia-Libano; progetto Elissa], [bozze, schede bibliografiche, appunti manoscritti, lettere dattiloscritte, fotocopie, foto a colori] 16. Contenitore in plastica rossa, Varazze [Per CONTI 1986 e CONTI c.d.s.], [schede, appunti manoscritti, carte topografiche, fotocopie, foto b/n] 17. Cartellina gialla in cartone, Tardoantico, [appunti manoscritti, fotocopie, cartoline illustrate, foto e opera a stampa: N. Lamboglia, Prime conclusioni sugli scavi della vecchia Genova, estratto da «Genova», 1955, n. 1 (gennaio)] 18. Cartellina grigia in cartoncino, Semiotica, [appunti manoscritti, dattiloscritti e fotocopie] 19. Cartellina rossa in cartone, Semiotica 2 [con articoli di S. Casartelli Novelli, J. M. Lotman e D. Ferrari Bravo], [appunti e schede manoscritte, fotocopie] 20. Cartellina rossa in cartone, Modanature, [fotocopie] 21. Cartellina marrone in cartone, Carta da lettere [con Strutture archivoltate nell’architettura romana, appunti per un corso universitario; documenti personali], [Block notes bianco, blocco di foglî bianchi, carta da lettere, fotocopie, appunti manoscritti e dattiloscritti] 22. Cartellina rossa in cartone, Archeologia Province romane [P. Romanelli, Le Province romane e la loro amministrazione, estratto da Guida allo studio della civiltà romana antica, vol. I, Napoli s.d.], [fotocopie] 23. Cartellina grigia in cartoncino, [Baalbek e lavoro di M. Milella; P. Collart-P. Coupel, Le petit autel monumentel a Baalbek, Parigi 1977], [schede manoscritte, depliant turistico, appunti manoscritte, dattiloscritti e opera a stampa] – 34 – 24. Cartellina grigia in cartoncino, Recupero scalette e parti scritte [varie stesure di articoli e appunti bibliografici], [appunti manoscritti, fotocopie] 25. Quaderno rosso ad anelli, Codici, [appunti manoscritti] 26. Cartellina color mattone in cartone, [Modanature e recupero per articolo su Lucca di MURATORE c.d.s.], [fotocopie, foto, appunti manoscritti] 27. Cartellina rossa in cartone, Savoia, [appunti manoscritti] 28. Cartellina grigio scuro in cartone, Africa Biblio(grafia), [fotocopie, schede e appunti manoscritti, opuscolo a stampa: A. Berthier, Tiddis antique Castellum Tidditanorum, s.n.t.] 29. Cartellina marrone in cartone, [Baalbek articoli di P. Romanelli e G. Mariacher; Curriculum vitæ G. Conti], [appunti e schede mss., fotocopie, foto, disegni su lucido e su carta] 30. Cartellina ocra in cartone, Greche e murature [Reimpiego], [appunti e schede manoscritte, fotocopie] 31. Cartellina grigia in cartoncino, Eroti recupero [Per articolo mosaici CONTI 1994], [foto, fotocopie, dattiloscritti, appunti manoscritti, disegno su carta] 32. Porta foto in plastica marrone, Centro storico [Sarcofagi-Genova], [foto, fotocopie, cartoline illustrate, appunti manoscritti] 33. Cartellina color mattone in cartone, Varie e Biblio(grafia) [Tardoantico: appunti sul ritratto, III (1994) e VI (1997) di «Antiquité tardive»], [schede manoscritte e dattiloscritte, cartoline illustrate, fotocopie e dattiloscritti] 34. Cartellina blu in cartoncino, Murature recupero [Per articolo ivi pubblicato e CONTI c.d.s.; cfr. anche Archivio 3/55; R. Fontana, Il recupero dei sarcofagi strigilati; J. Balty, Le mosaïque en Syrie], [foto, fotocopie, dattiloscritti] 35. Cartellina verde in cartone, Sardegna [Panegirici Baalbek, per CONTI 1998-1999 (trofeo-croce) e Tempio rotondo per articolo ivi pubblicato], [fotocopie, appunti manoscritti] 36. Cartellina grigia in cartone, Unitre [Per corso Università delle Tre Età (ONLUS aderente alla Associazione Nazionale Università della Terza Età di Torino) sui mosaici tenuto da Conti nel 1999-2000; G. Wilpert, La decorazione costantiniana della basilica lateranense, estratto da «Rivista di Archeologia Cristiana», s.d], [dattiloscritto e opuscolo] 37. Cartellina azzurra in cartone, [Tardoantico], [fotocopie] 38. Cartellina azzurra in cartone, [Tardoantico], [fotocopie, dattiloscritti, appunti e lettera manoscritta] 39. Cartellina grigia in cartoncino, [Tardoantico], [fotocopie, dattiloscritti, tesine dattiloscritte, cartoline illustrate, s. II, II (1988), n. 2 di «Arte Medievale»] 40. Cartellina rossa in cartone, Mosaici, [fotocopie, schede e appunti manoscritti, catalogo della casa editrice Brepols] 41. Cartellina fucsia in cartone, Ovadiah. Israele [mosaici in Palestina con articoli di R. e A. Ovadiah], [fotocopie, dattiloscritti, 1 carta topografica] 42. Cartellina verde in cartone, Mosaici [mosaici in Liguria, con parti di articoli di M. Donderer, P. Porta, D. Dhamo e A.M. Ardovino], [fotocopie, dattiloscritti, appunti manoscritti, foto] 43. Cartellina turchese in cartone, Mosaici-Varî autori [J. Balty, Mosaïques antiques du Proche-Orient: chronologie, iconographie, interprétation, Parigi 1995; e fotocopie da articoli di G. Camphell, M. Blanchard, J. Lancha e J. M. Alvarez Martines], [fotocopie, foto e appunti manoscritti] 44. Cartellina bordeaux in cartone, [Marmi antichi: problemi di impiego, di restauro e d’identificazione, a cura di P. Pensabene, «Studî miscellanei», 26 (1981-1983)], [fotocopie] 45. Cartellina turchese in cartone, Conti e liste di libri. Antiquité tardive, [ricevute e cedole di c/c postali, dattiloscritti, appunti manoscritti e V (1996) di «Antiquité Tardive: Revue internationale d’Histoire et d’Archéologie (IVe-VIIIe s.)»] 46. Cartellina bianca in cartone, Blake Maar 1930 [M.E. Blake, Pavements of roman Building, «Maar», VII-VIII (1930)], [fotocopie, appunti manoscritti] 47. Cartellina fucsia in cartone, M. Blake. Mos. In Maar XIII, 1936 [M.E. Blake, Roman Mosaics of the second century in Italy, «Maar», XIII (1936)], [fotocopie] 48. Busta gialla intestata a dott. Anna Maria Parlati, Sarcofagi cristiani (cristiano tardoantico) [Per corso monografico Università degli Studî di Genova a.a. 1975-1976], [dattiloscritto e fotocopie] 49. Cartellina rosa in cartone con disegno di Schulz, Terme, [materiale per relazione a Termalismo antiguo. I Congreso Peninsular. Arnedillo (La Rioja), 3-5 de octubre de 1996; opuscolo di M.A. García Guinea], [bozze, fotocopie, dattiloscritti, programma congressuale a stampa, 2 opuscoli, appunti manoscritti] 50. Cartellina gialla in cartone, Severi [documenti e corrispondenza per I Convegno Internazionale di Studî Severiani (Albano Laziale, 31 maggio-1° giugno 1996); relazione: Testimonianza architettonica di un mosaico dei “Laberii” di Oudna, poi in CONTI 1999b], [dattiloscritto, appunti manoscritti] 51. Quaderno ad anelli con disegni a rombi, Sarcofagi ed Eroti [Anche raffigurazioni di trofei e ville; per I Convegno Internazionale di Studî Severiani (Albano Laziale, 31 maggio-1° giugno 1996)], [appunti manoscritti] 52. Quaderno ad anelli con quadri, Mosaici, [appunti manoscritti] 53. Quaderno ad anelli grande, [Recupero e tardoantico], [appunti manoscritti] 54. Cartellina grigia in cartoncino, Africa romana [articolo: Influssi architettonici dalla Tunisia alla Dalmazia, in CONTI 2000], [bozze di stampa] 55. Cartellina grigia in cartoncino, Convegni pronti da definire [Eroti e murature Libano; articolo sul recupero, CONTI 2003], [appunti manoscritti, stampate da PC] – 35 – 56. Cartellina color argento in cartone, Arco… Croce [grottesche e armi antiche con parti di articoli di P. Boccardo, G. Garbsch e da «Antike Welt», X (1979)], [appunti e schede manoscritti, fotocopie] 57. Cartellina ad anelli in plastica verdone, [Baalbek e 1a stesura del maggio 2000 dell’articolo sul recupero], [fotocopie, appunti manoscritti, stampate da PC] 58. Cartellina azzurra in cartone, [Modanature varie], [fotocopie e foto] 59. Cartellina azzurra ad anelli, [Africa, Tardoantico e ritrattistica, con articoli di P. Zanker, G. von Velenis, C.C. Vermeule, M.C. Waits, A.J.B. Wace, S. Walker, T. Wiegand], [dattiloscritti, fotocopie, schede e appunti manoscritti] 60. Cartellina azzurra ad anelli, [E. Weigand, Baalbek und Rom, die römische Reichskunst in ihrer entwickelung und differenzierung, Berlino 1914], [fotocopie formato A3] 61. Cartellina blu in cartone, Tesi di laurea Mosaici geometrici e misti della Spagna: gli ateliers di Siviglia e Cordova, a.a. 19951996. Candidata: Manuela Condor; relatore: prof. G. Conti; correlatore: prof. C. Bozzo Dufour, [Materiale preparatorio e articolo J.M. Blazquez, M.A. Mezquirie, Mosaics de España, fasc. VII, Madrid 1985], [appunti manoscritti e dattiloscritti, stampate da PC, fotocopie] 62. Cartellina verde in cartone, Blake. Mosaici. Maar XVII, 1940 [copia di articolo su Baalbek di M.E. Blake], [fotocopie] 63. Cartellina verde in cartone, [G. De Luca, I monumenti antichi di palazzo Corsini in Roma, Roma 1976], [bozze] 64. Cartellina bordeaux in cartone, Università non certificati [corrispondenza amministrativa con Università di Genova], [dattiloscritti] 65. Cartellina azzurra in cartoncino, [Répertoire dolichénien, copia di articolo non identificato], [fotocopie] 66. Cartellina in cartone con disegni fantasia, Modanature, [copie da articoli di L.T. Shoe, M. Wegner, M.P. Rossignani, J. Dentzer-Feydy, H. Brandenburg e da voce Croce di S. Casartelli Novelli nel volume V dell’Enciclopedia dell’Arte Medievale, Roma 1994], [fotocopie] 67. Cartellina azzurra in cartone, Modanature [Baalbek scavi; copia di T. Wiegand, Baalbek; Ergebnisse der Ausgrabungen und Untersuchungen in den Jahren 1898 bis 1905, Berlin-Lepzig, 1921-1925], [fotocopie] 68. Busta bianca, [Progetti Libano; per lavoro CONTI 1998-1999, copia di articolo di G. De Francovich], [stampate da PC, appunti manoscritti, dattiloscritti, fotocopie rilegate, 1 opuscolo, 1 cartina topografica] 69. Cartellina azzurra in cartoncino, [Lavoro per CONTI 1998-1999 su albero-trofeo e trofeo-croce], [appunti manoscritti, cartoline illustrate, foto, fotocopie] 70. Busta gialla, N. 2 manifesti Zonta Club Genova 1, [2 cartelloni ripiegati con foto applicate e scritte a mano] 71. Tubo porta disegni, [Zona Varazze-Arenzano], [carte topografiche, carta disegnata su lucido] 72(1-5). Cinque scatole porta schede, [Bibliografia personale], [schede bibliografiche manoscritte e dattiloscritte] 73. Cartellina verde in cartoncino, Pigna-Vaticano [Materiale preparatorio per Una possibile terminologia per il recupero: una proposta, bozze di CONTI 1998-1999 su albero-trofeo e trofeo-croce; bibliografia di G. Conti e prospetto per libro su Libano], [stampate da PC, focopie, foto, diapositive e negativi]. – 36 – Indice dei nomi e termini contenuti nell’elenco1 Acquedotti Affreschi Africa romana Airaldi, G. Alba, città gallo-romana Albero, iconografia Alésia, città gallo-romana Alessandria d’Egitto Algeri Algeria Alvarez Martines, J.M. Ambasciatori di Holbein André, P. Anjar Antike Welt, rivista Antiquité Tardive, rivista internazionale di storia e archeologia Aquileia Archeologia Province Romane Architettura, architetture Arco, archi Ardèche, dipartimento Ardovino, A.M. Arenzano Arles Armi Arte Medievale, rivista Associazione Nazionale Università della terza età <Torino> Asturias Aujourd’hui l’Egypte, rivista Baalbek Balty, J. Barbato, Scipione Basilica <Baalbek> Basilica Lateranense Beiruth Berthier, A. Bibliografia Biblos/Byblos Blake, M.E. Blanchard, M. Blazquez, J.M. Boccardo, P. Bogliasco Bozzo Dufour, C. Brandenburg, H. Brepols, casa editrice Bretagna 2/32B 1/43, 2/47 (Genova), 3/28, 3/54, 3/59 2/65 1/36 2/41, 3/68, 3/69, 3/73, 1/35 1/22. 3, 1/22. 4, 1/30, 2/15, 2/50, 2/54 2/63 1/38, 2/3, 2/4, 2/45, 2/46 3/43 3/10 1/36 2/49, 2/65 3/56 3/33, 3/45 1/22. 1, 1/22. 5, 1/22. 6, 2/51 3/22 1/41A-B (Roma), 2/17 (greca e Italia), 2/40 (Tunisia, Libano, Egitto), 3/21 (romane) 2/32B, 3/56 1/36 3/42 3/71 2/40 1/23, 2/48, 3/56 3/39 2/64; 3/36 2/22 1/22. 7 2/5, 2/6, 2/25, 2/26, 2/28, 2/29, 2/49, 2/50, 2/54, 2/60, 2/65, 3/7, 3/8, 3/12, 3/13, 3/14, 3/23, 3/29, 3/35, 3/57, 3/60, 3/62, 3/67 3/34, 3/43 1/10 2/28 3/36 2/24 3/28 3/28, 3/33, 3/72(1-5) 2/24, 2/54, 2/65 3/46, 3/47, 3/62 3/43 3/61 3/56 2/38 3/61 3/66 3/40 2/13 I termini in corsivo si riferiscono a temi e contenuti, gli altri ad autori di contributi e riviste presenti in originale o in copia. Per quanto concerne Graziella Conti si è ritenuto di segnalarne il nome solo per le opere pubblicate, quando compare come relatrice di tesi e nei casi di particolare rilievo per la sua biografia. 1 – 37 – Brumat Dellasorte, G. Busti Caesar, Caius Iulius Cagiano De Azevedo, M. Calabrese, O. Calvi, M.C. Camphell, G. Cartagine Casartelli Novelli, S. Cecchelli, C. Cellini, B. Ceramica Cerveteri Châmât, (chiesa di Mâr Tacla) Charles-Picard, G. Chiese <Italia> Chiocci, F. Città del Vaticano Codici Coli, U. Collart, P. Condor, M. Congreso Peninsular. 1.: 3-5 ottobre 1996 <Arnedillo (La Rioja)> Conti, G. 1/22. 6 2/32B, 2/48 1/35 1/29 3/10 1/22. 2 3/43 2/61 1/3, 2/41, 2/42, 3/4, 3/19, 3/66 1/31 1/37 2/32A 2/21 2/54 3/1 1/31 1/5 3/73 3/25 1/32 3/8, 3/23 3/61 3/49 1/5, 1/6, 1/14(1-19), 1/15, 1/16(1-15), 1/17, 1/18, 1/21(1-12), 2/55 (ritratto), 3/29 (curriculum vitae), 3/61, 3/73 (bibliografia) Convegno Internazionale di Studî Severiani. 1.: 31 maggio-1 giugno 1996 3/50, 3/51 <Albano Laziale> Cordova 2/64, 3/61 Cornelius Nepos 1/40 Corsini, palazzo <Roma> 3/63 Cortile esagonale <Baalbek> 2/29, 2/65 Costantino 1/44 Coupel, P. 3/8, 3/23 Crespi, E. 1/40 Cristofani, M. 1/39 Croce, iconografia 2/41, 3/35, 3/56, 3/66, 3/68, 3/69, 3/73 Curatola, G. 1/7 Dalmazia 3/54 Damasco 2/8, 2/59 De Francovich, G. 3/68 De Luca, G. 3/63 Decorazione architettonica 1/15 Decorazione costantiniana 3/36 Decorazione paleocristiana 1/31 Dentzer-Feydy, J. 3/66 Dhamo, D. 3/42 Di Pietro, M. 1/23 Donderer, M. 3/42 Doria Spinola, palazzo <Genova> 1/28 Dossier d’archéologie, rivista 1/4 Drago, iconografia 1/7, 3/4 Egitto 1/22. 7, 2/15, 2/23, 2/40 Elissa, progetto 3/15 Empereur, J.Y. 1/22. 3 Ennaifer, M. 3/9 Eroti 2/40, 3/31, 3/51, 3/55 Eshmun 2/49 – 38 – Etrusco, lingua Eusebio di Cesarea Ferrari Bravo, D. Figelli, N. Firenze Fontana, R. Fori Imperiali Forma Urbis, rivista Francia Gallia Garbsch, G. García Guinea, M.A. Garea, collezione Gavazza, E. Gemme Genova 1/39 1/44 3/19 1/22. 1 2/56 3/34 1/33 1/41A. 1-8 2/34 2/15 3/56 3/49 1/21(1-12) 1/19 3/6 1/15 (marmi), 1/23 (tradizione classica), 1/28 (Provincia), 1/34 (servizî Provincia), 2/2 (S. Lorenzo), 2/44, 2/47 (affreschi e panoplie), 2/53, 2/65 (convegno Libano), 3/17 (scavi), 3/32 (sarcofagi), 3/55 (eroti e sarcofagi) 2/13 1/24 2/51 2/13, 2/35, 2/41 2/64 3/30 2/21 1/43 3/56 1/42. 1 3/11 1/30 2/62 Germania Gouder, T.C. Grado Gran Bretagna Granada Greche Grecia Griseri, A. Grottesche Guercino <Giovanni Francesco Barbieri detto il> Guidobaldi, F. Haag, M. Haidra Heliopolis vedi: Baalbek Il Cairo Israele Issogne, castello Italica Jourdan, G. Keuchela Khatchadourian, M. Laberii Lamboglia, N. Lancha, J. Lankester Harding, G. Lauxerois, R. Le Gall, J. Leone, iconografia Leptis Libano 2/15, 2/50, 2/54 3/41 1/43 2/64 1/36 2/62 1/22. 4 3/50 3/17 3/43 3/12 1/36 1/35 3/4 2/15 2/5, 2/6, 2/7, 2/14, 2/39, 2/40, 2/50, 2/65, 3/7, 3/12, 3/15, 3/55, 3/68, 3/73 2/52 1/14, 2/1, 2/31, 2/32B, 2/45, 3/11, 3/42 2/44, 2/53 1/2, 3/19 2/64, 3/26 2/45 1/25 Libia Liguria Londra Lotman, J.M. Lucca Luni Lutetia – 39 – Madrid Major Maktaar Malaga Malta Marcuzzi, L. Maret el Noman Mariacher, G. Marmi Merida Mezquirie, M.A. Milano Milella, M. Modanature 2/64 2/57 2/61 2/64 2/16 1/22. 5 2/62 3/29 1/15 (Genova), 3/44 2/52, 2/61, 2/64 3/61 2/45 3/23 2/6, 2/32B, 2/48, 2/60, 3/15, 3/20, 3/26, 3/58, 3/66, 3/67 1/19 2/17 1/22. 4, 3/63 3/11 1/20, 1/24, 2/14, 2/48, 2/58, 2/60, 2/64, 3/2, 3/6, 3/9, 3/11, 3/31, 3/34, 3/36, 3/40, 3/41, 3/42, 3/43, 3/46, 3/47, 3/50, 3/52, 3/61, 3/62 2/33 1/6 2/32B, 2/45, 2/54, 2/60, 2/65, 3/30, 3/34, 3/55 1/19 2/22 1/6 1/11 2/56 1/22. 3 1/24 1/22. 1 2/8, 2/59 1/27 2/8 1/22. 3 1/1 2/63 2/21, 2/44 2/58 1/5 2/21 3/50 3/41 3/41 2/22 3/41 2/6, 2/8, 2/49 3/35 2/47 (Genova) 1/25 1/26 2/1 1/24, 1/11, 3/11, 3/46 3/44 Molina, M.G. Monete Monumenti antichi Morricone, M.L. Mosaico, mosaici Mosca Muratore, R. Murature Muse, motivo iconografico Museo archeologico del Principato delle Asturias <Oviedo> Museo Civico di archeologia ligure <Genova> Museo de l’Ermitage Museo degli Uffizî <Firenze> Museo di Alessandria Museo di Antichità classiche <Rabat-Malta> Museo di Aquileia Museo di Damasco Museo di Nuits Saint-Georges Museo di Palmira Museo Greco-Romano <Alessandria d’Egitto> Museo Liviano <Padova> Museo Nazionale di Antichità <Algeri> Napoli Olmeda Orfeo tra le fiere, scena Oristano Oudna Ovadiah, A. Ovadiah, R. Oviedo Palestina Palmira Panegirici Panoplie Parigi Passport. Provincia di Genova, rivista Pavia Pavimenti a mosaico Pensabene, P. – 40 – Perissinotto, A. Pietro da Cortona Pigna Piranesi, G.B. Pisa Pittura Planson, E. Pommeret, C. Pompei Porta, P. Portali Portogallo Recupero 1/22. 2 1/42. 2 3/73 2/48 2/1, 2/64 3/10 1/27 1/27 2/21 3/42 1/23 2/12 2/20, 2/30, 2/49, 2/50, 3/24, 3/26, 3/31, 3/34, 3/53, 3/55, 3/57, 3/73 Regina (Reine), santa <martire di Alésia> 1/35 Reimpiego 2/54, 3/30 Répertoire dolichénien 3/65 Restauro 1/29 Ritratto, ritratti 1/1, 3/33, 3/59 Roma 1/18, 1/32, 1/33; 1/41A-B, 2/1, 2/20, 2/30, 2/40, 2/44, 2/47, 2/53, 3/1, 3/60, 3/63 Romanelli, P. 3/22, 3/29 Rossignani, M.P. 3/66 Sabrata 2/15 Saletti, C. 1/1 Salvestroni, S. 1/2 San Domenico al Priamár, chiesa <Savona> 1/8 San Lorenzo in Varano, chiesa <Roma> 2/2 San Lorenzo, chiesa <Genova> 2/2 San Prassede, chiesa <Roma> 2/2 Santa Eufemia, chiesa 2/61 Santa Maria di Castello, chiesa <Genova> 1/17 Sarcofagi 2/32B, 3/32, 3/34, 3/48, 3/51, 3/55 Sardegna 2/37, 3/35 Savoia 3/27 Sbeitla 2/57 Scultura, sculture 1/3, 1/13, 1/14(1-19), 2/17, 2/32B Semiotica 1/2, 3/10, 3/18, 3/19 Sepolcri 1/18 Serafino, C.M. 1/20 Shoe, L.T. 3/66 Side 2/49 Sidone 2/6, 2/24, 2/54, 2/65 Signina 3/11 Siria 2/18, 2/19, 3/34 Sito gallo-romano 1/27, 1/35 Siviglia 2/64, 3/61 Sousse 2/57 Spagna 2/11, 2/45, 2/64, 3/61 Spalato 2/17 Statue 2/32B Storia, Arte, Archeologia del Libano, Convegno <Genova, 22-24 gen- 2/65 naio 1996> Strutture archivoltate 3/21 Tardoantico 3/17, 3/33, 3/37, 3/38, 3/39, 3/48, 3/53, 3/59 Tartaglia, L. 1/44 Teatri 2/17 – 41 – Tebessa Tecnica di scavo Tecnica scultorea Tempio di Bacco <Baalbek> Tempio Rotondo (o Tempio di Venere) <Baalbek> Terme Teste Tiburtina, via Tiddis (Castellum Tidditanorum) Tiro Toledo Topkapï Torino Toscana Tripoli Trofei, trofeo 2/54, 2/61 2/17 2/48 2/26, 2/65 2/28, 3/35 2/13, 3/49 1/17, 2/32B 1/18 3/28 2/24, 2/65 2/64 1/7 2/1, 2/45 2/64 2/24, 2/54 2/40, 2/48, 2/54, 3/1, 3/35, 3/51, 3/68, 3/69, 3/73 2/57 3/9 1/20, 2/9, 2/10, 2/11, 2/40, 2/60, 3/54 2/16 1/28 2/12, 2/45 1/5, 1/6, 1/19, 1/20, 3/15, 3/48, 3/64 1/10 3/10 2/64, 3/36 1/6, 1/8, 1/9 1/16(1-15), 3/16, 3/71 2/48 1/25 3/59 2/65, 3/4 3/59 2/27 1/22. 2 2/1, 2/45 2/45 2/47 3/51 2/40, 2/54 1/11 3/59 3/59 3/59 1/12 3/66 3/3 3/13, 3/59, 3/60, 3/67 1/13, 3/36 3/59 1/10 3/70 1/37 Tuburbo Tunisi Tunisia Turchia Ughetto, L. Ungheria Università degli Studî <Genova> Università degli Studî <Roma> Università degli Studî <Urbino> Università delle Tre Età <Genova> Varaldo, C. Varazze Vasi greci Velay, P. Velenis, G. von Vergara Caffarelli, P. Vermeule, C.C. Vernante (CN) Vetri romani Viabilità romana Vienna Villa Adriana Ville romane Vittorie alate Vošcinina, A.I. Wace, A.J.B. Waits, M.C. Walker, S. Ward-Jackson, P. Wegner, M. Weiss, R Wiegand, T. Wilpert, G. Zanker, P. Zevi, F. Zonta Club <Genova> Zublena, F. – 42 – IL FONDO GRAZIELLA CONTI: ELENCO PRELIMINARE Adelmo Taddei Maneggiare i volumi della biblioteca della professoressa Graziella Conti significa necessariamente entrare nel mondo di un brillante Studioso ma anche nella Sua vita affettiva. Infatti, tra le pagine non solo si trovano gli appunti di studio, i marcapagina e ogni altro sistema noto per tenere in vista un punto ritenuto importante di un’opera (tranne le sempre deprecabili orecchie). Tra i suoi libri si trovano annotazioni e tracce di vita: biglietti del treno, dediche di questo o quel parente che dona un volume (a Lella), schizzi di piantine di appartamenti – arredati o non – e varî appunti di vita sul risvolto del retro di copertina di qualche Suo peraltro ottimamente conservato volume (e comunque sempre utilizzando la matita e mai la penna). Questo intromettermi nella vita privata di una Persona con la quale ho lavorato e che ho molto stimato da un lato mi ha imbarazzato, ma d’altro canto mi ha concesso un altro, come al solito interessante e divertente, dialogo con la professoressa Conti. Lavorare sui testi che hanno costituito la biblioteca di una persona significa anche realizzare una specie di scavo stratigrafico nella sua vita, toccare con mano i testi relativi alla formazione giovanile, alle prime esperienze di ricerca, a gusti e preferenze in età più matura, quando ormai il timone della ricerca è saldo nelle mani dell’individuo. Inoltre, ai volumi di studio e lavoro, si aggiungono i libri di narrativa, quelli donati o pervenuti da altri amici e parenti (e conservati con scrupolo), quelli capitati fra gli scaffali chissà perché (ne abbiamo tutti) o quelli conservati nonostante (idem). Certamente, in questa sede, è importante rilevare soprattutto il fatto che con il lascito Conti la Civica Biblioteca Berio viene ad acquisire una collezione di volumi che non mancherà di suscitare l’interesse di chi studia non solo Archeologia Classica, ma anche il Tardantico, l’Altomedioevo e la tradizione del classico nel corso dei secoli. Inoltre, la passione per lo studio della tecnica e della cultura del mosaico (poiché Graziella Conti non fermava mai la propria attenzione al mero dato materiale della cose) permette di acquisire un fondo di notevolissima rilevanza su questo tipo di manufatti in tutto l’arco del Mediterraneo, dalla Spagna al Medioriente, ivi inclusi numeri importanti di riviste specializzate al momento non ricomprese nell’elenco che qui si pubblica: Recueil des mosaïques de la Gaule, Mosaiques de Tunisie, Bulletin de l’AIEMA. Rimarchevole, inoltre, l’attenzione che la Studiosa dedicò sempre all’Archeologia del Medioriente, con particolare riguardo al Libano, ai suoi scavi e ai suoi musei, nonché all’area siriana, Palmira innanzi tutto, e all’Asia Minore. Da questo punto di vista sarà possibile consultare volumi di alto interesse, sia scientifico sia documentario (come le guide e i cataloghi dei musei di Damasco). Come ben rileva Laura Malfatto in questa stessa sede, in generale, l’attenzione di Graziella Conti trova il proprio baricentro nell’area mediterranea, non nell’ottica del Mare nostrum, ma nella attenzione nei confronti dell’ampia area geografica nella quale si sono sviluppate le basi di gran parte della nostra attuale cultura e nella quale sembrano stemperarsi stimoli e suggestioni provenienti da ogni parte dell’Eurasia. È forse proprio questa ricerca continua degli intreccî e degli influssi reciproci che interessò di più Graziella Conti e per – 43 – questo ad esempio la Sua attenzione per lo studio dei motivi della decorazione architettonica non costituì mai un limitato orizzonte materico ma la solida e ben conosciuta base per spaziare nel più ampio campo della Storia della cultura umana, per approdare a un approccio di più ampio respiro. Per questo si trovano, tra i suoi libri, volumi di Semiologia, come quelli dedicati alla ricerca semiologica nel campo della Letteratura nella Russia degli anni ‘70 (Lotman, Uspenskij, etc.). Per questo, certamente, l’attenzione alle ricerche similari per impostazione delle amiche Colette Bozzo Dufour (un titolo tra tutti: la densa, fondamentale opera su Porta Soprana di Genova e in generale sulla porta urbana) e Silvana Casartelli Novelli. Posso inoltre segnalare, in ordine sparso, Filosofiana, opera in tre volumi sulla villa tardoimperiale di Piazza Armerina, i volumi sugli scavi del Laterano, quelli dedicati agli scavi di Cornus e alla Archeologia Classica e Medievale della Sardegna, i cinque volumi di storia degli scavi di Roma. Lascio peraltro ai lettori il piacere di scoprire, titolo dopo titolo, i grandi tesori che Graziella Conti ha ritenuto di porre a disposizione dei cittadini genovesi e che certamente otterranno il giusto risalto nell’ambito delle raccolte della Berio. Occorre infine che ponga delle avvertenze per chi consulterà questo mio lavoro: questo che segue non è in nessun modo un catalogo del fondo Conti, intendendo per catalogo una restituzione ragionata e sistematica di un dato insieme di informazioni. Quello che io ho realizzato è un elenco dei volumi scientificamente e documentaristicamente più interessanti tra quelli del lascito della Professoressa. Tale elenco viene stampato in maniera assolutamente non sistematica, a causa del tempo ridottissimo che chi scrive ha potuto dedicare a questo lavoro, peraltro grato perché destinato a perpetuare la memoria di una Persona cara. Si tenga solo presente che ho fatto ricorso, spesso, alla descrizione del sottotitolo dei volumi elencati quando questo permette di specificare meglio la materia trattata. Ringrazio il collega Massimo Ruggero per l’aiuto fondamentale in questa impresa realizzata in pochi giorni e in ritagli di tempo rubati a questa o quella emergenza lavorativa. – 44 – A concise guide to the National Museum of Damascus, s.l. s.d. Accumulare denari. In un tesoro da Paestum due secoli di storia, Roma 1999 Adriano. Architettura e progetto, Milano 2000 Alessandro Magno. Storia e mito, Verona 1995 Alla ricerca di Fidia, Padova 1987 Ampsicora e il territorio di Cornus, Taranto 1988 Anthemon. Scritti di Archeologia e Antichità classiche in onore di Carlo Anti, Firenze 1955 Antiche stanze. Un quartiere di Roma imperiale nella zona di Termini, Milano 1996 Aquileia repubblicana e imperiale, Udine 1989 Archeologia del Medioevo a Roma, Taranto 1988 Archeologia e restauro dei monumenti, Firenze 1988 Archeologia in Valle d’Aosta, Aosta 1985 Argenti “colombiani” nella Galleria Nazionale di Palazzo Spinola, Genova 1988 Arte e civiltà romana nell’Italia settentrionale dalla repubblica alla tetrarchia. Catalogo. II, Bologna 1965 Arte e Storia di Paestum. Gli scavi e il museo archeologico, Firenze 1998 Aspetti dell’arte a Roma prima e dopo Raffaello, Roma 1984 Atti del primo colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico, Ravenna 1994 Atti del secondo colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico, Bordighera 1995 Atti del terzo colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico, Bordighera 1996 Atti del quarto colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico, Ravenna 1997 Baalbek, paradiso degli Dei, Baalbek s.d. Bergamo dalle origini all’Alto Medioevo. Documenti per una archeologia urbana, Modena 1986 Beyrouth. Fouilles archéologiques dans la region des souks, Beirut 1995 Brescia romana, Brescia 1979 Bronzetti a figura umana dalle collezioni dei Civici Musei di Storia e Arte di Trieste, Venezia 1978 Capolavori dei musei di Pergamo e Bode, Mainz am Rhein 1993 Carte e cartografi in Liguria, Genova 1986 Castelli e fortezze della Valle di Susa, Torino 1983 Castelli. Storia e Archeologia, Torino 1984 Catalogo de las salas de arte romanico y gotico del Museo Arqueologico Oviedo, Oviedo 1976 Catalogo del Museo Arqueologico de Sevilla. II. Salas de arqueologia romana y medieval, s.l. 1980 Catalogo della mostra archeologica nelle Terme di Diocleziano, Bergamo 1911 Catalogue des mosaïques romaines et paléochretiennes du Musée du Louvre, Parigi 1978 Civiltà del Lazio primitivo, Roma 1976 Colloquio sul reimpiego dei sarcofagi romani nel Medioevo, Marburg/Lahn 1984 Cultura e arte dell’Etruria, San Pietroburgo 1972 Damaso e i martiri di Roma, Città del Vaticano 1985 Del dipingere e scolpire in pietra, Genova 1985 Diana Trionfatrice. Arte di corte nel Piemonte del Seicento, Torino 1989 Die Roemer in Nordrhein-Westfalen, Stoccarda 1987 Egypte Romaine, Marsiglia 1997 El camino de Santiago, Leon 1985 El Jem. Thysdrus ville millenaire, Tunisi s.d. Enciclopedia dell’Arte antica, 7 voll., Roma 1958-1966 Enciclopedia Feltrinelli Fisher. Archeologia, Milano 1964 Erodoto e Tucidide, Firenze 1967 Estudios de iconografia I. 1. La Pàtera de Santisteban del Puerto (Jaén) 2. La Sìtula tardorromana de Buena (Teruel), Madrid 1982 Eugenio Baroni 1880-1935, Genova 1990 Federigo Alizeri (Genova 1817-1882) un “conoscitore” in Liguria, Genova 1985 Felix temporis reparatio, Milano 1992 Genova, il Novecento, Genova 1986 Genua Picta. Proposte per la scoperta e il recupero delle facciate dipinte, Genova 1982 Géographie Historique du Monde Méditerranéen, Parigi 1988 Giovanni Pisano a Genova, Genova 1987 Glass of the Caesars, Milano 1987 Gli imperatori Severi, Roma 1999 Gli Ori di Taranto, Genova 1975 Guia-catalogo del Museo Arqueologico Provincial, Oviedo 1983 Guida del pellegrino di Santiago. Libro V del Codex Calixtinus, secolo XII, Milano 1989 I Celti, Milano 1991 – 45 – I Cristiani e l’Impero nel IV secolo. Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antico, Macerata 1988 I Daci, Milano 1997 I dipinti murali e l’edicola marmorea del tempietto sul Clitunno, Todi 1985 I Longobardi, Milano 1990 I mosaici romani di Tunisia, Milano 1995 I Registri della Catena del Comune di Savona, Genova 1986 I simboli nelle grandi religioni, Milano 1997 Ichnussa, Milano 1985 Il “Paleocristiano”. Problemi, aggiornamento critico e ipotesi di lavoro in prospettiva, Genova 1985 Il Campidoglio all’epoca di Raffaello, Milano 1984 Il conflitto tra paganesimo e Cristianesimo nel secolo IV, Torino 1971 Il giardino di Flora. Natura e simbolo nell’immagine dei fiori, Genova 1986 Il lavoro nel Medioevo, Firenze 1973 Il marmo nella civiltà romana, Lucca 1989 Il Marocco e Roma. I grandi bronzi dal Museo di Rabat, Roma 1991 Il Museo Poldi Pezzoli a Milano, Firenze s.d. Il potere e lo spazio. La scena del principe, Firenze 1980 Il primato del disegno, Firenze 1980 Il Rinascimento. Interpretazioni e problemi, Roma-Bari 1983 Il sistema portuale della Repubblica di Genova, Genova 1988 Il viver quotidiano in Roma arcaica, Roma 1989 Iscrizioni pompeiane. La vita pubblica, Firenze 1957 L’Africa romana. Atti del X convegno di studio, Sassari 1994 L’Africa romana. Atti dell’XI convegno di studio, Sassari 1996 L’Africa romana. Atti del XII convegno di studio, Sassari 1998 L’Afrique dans l’Occident romain (I siècle av. J.C.-IV siècle ap. J.C.), Rome 1990 L’altra faccia di Colombo. La civiltà in Liguria dalle origini al Quattrocento, Torino 1992 L’Archeologia in Roma capitale tra sterro e scavo, Vicenza 1983 L’Archeologia romana e altomedievale nell’oristanese, Taranto 1986 L’immagine dell’antico fra Settecento e Ottocento. Libri di Archeologia nella Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Casalecchio di Reno 1983 L’incisione europea dal XV al XX secolo, Torino 1968 La Basilica di Aquileia. Guida tascabile, Monfalcone s.d. La basilica di San Gregorio Maggiore in Spoleto, Spoleto 1979 La basilica di San Lorenzo in Milano, Milano 1985 La Bibbia di Gerusalemme, Bologna 1998 La Colonna traiana, Torino 1988 La comunicazione non verbale nell’uomo, Roma-Bari 1977 La corte il mare i mercanti. La rinascita delle Scienza. Editoria e società. Astrologia, magia e alchimia, Firenze 1980 La Galleria di Palazzo Reale a Genova, Genova 1991 La mosaique gréco-romaine, Parigi 1994 La scultura a Genova e in Liguria dalle origini al Cinquecento, Genova 1987 La terra degli etruschi dalla Preistoria all’Alto Medioevo, Firenze 1985 Le décor géométrique de la mosaïque romaine, Parigi 1985 Le sepolture in Sardegna dal IV al VII secolo, Oristano 1990 Le tranquille dimore degli dei. La residenza imperiale degli horti Lamiani, Venezia 1986 Le trasformazioni della cultura nella Tarda Antichità, Roma 1985 Les cryptoportiques dans l’architecture romaine, Roma 1973 Les frères Sablet. Dipinti, disegni, incisioni (1775-1815), Roma s.d. 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Per ricordare la figura e l’opera di Graziella Conti in ambito accademico è stata letta una memoria dalla Sua collega e amica Colette Dufour Bozzo pubblicata poi parzialmente in «Genuense Athenæum» (n. 46, gennaio-febbraio 2001) e integralmente in questa sede. Nel primo anniversario della Sua scomparsa sono state organizzate dalla Provincia di Genova, Assessorato alla Cultura, con il patrocinio dell’Università degli Studî di Genova e con la collaborazione di Valore Liguria, due Giornate di Studio in Suo ricordo (di queste è apparsa notizia su quotidiani locali come «Il Secolo XIX» (13 dicembre 2001). L’iniziativa dal titolo Mediterraneo tra Oriente e Occidente è stata suddivisa in due giornate. La prima si è svolta il 5 dicembre 2001 presso la Società Ligure di Storia Patria e affrontava il tema Oltre il Mediterraneo: i Mongoli e la città invisibile; nell’occasione sono stati presentati i primi risultati delle campagne di scavo in Mongolia condotte dall’Università degli Studî di Genova. Nella seconda giornata, il 14 dicembre 2001, sono stati discussi argomenti inerenti a itinerarî che si sviluppano Su e giù per il Mediterraneo e ha avuto luogo nella Sala del Consiglio Provinciale a Palazzo Doria Spinola. Sono stati trattati diversi temi spesso frequentati da Graziella Conti: dallo scavo a Cornus, illustrato da Letizia Pani Ermini, alle collaborazioni successive con la stessa studiosa, a quella, prematuramente interrotta, con Paola Mortari Vergara Caffarelli relativa alle rappresentazioni del drago e del leone (cfr. oltre). È stato inoltre tracciato il Suo profilo di studiosa da Gabriella Airaldi, annunciata questa pubblicazione da Colette Dufour Bozzo assieme con Oriana Cartaregia, che ha presentato l’Archivio Conti, e a Emilia Vassallo, che ha ricordato la Sua figura di maestra. Per mantenere vivo il ricordo del Suo impegno scientifico-didattico sono state bandite nel 2002 due borse di studio per testi pubblicati, elaborati da Suoi collaboratori e svolti sotto la Sua direzione. La commissione scientifica presieduta da Gabriella Airaldi e composta da Colette Dufour Bozzo e Paola Mortari Vergara Caffarelli, docenti dell’Università degli Studî di Genova, ha giudicato vincitrice per la disciplina Archeologia Umanistica Alberta Bedocchi con la pubblicazione: Cultura antiquaria e memoria nei volumi della Biblioteca universitaria di Genova secoli XVI-XVIII esprimendo il seguente giudizio: L’opera della dottoressa Alberta Bedocchi rientra perfettamente nell’ambito dell’Archeologia Umanistica secondo quanto previsto dal bando di concorso. All’interno di un lavoro “di scavo” condotto nell’ambito della Biblioteca Universitaria di Genova, la candidata è riuscita a individuare il profilo della cultura antiquaria dei secoli XVI-XVIII rilevando per la prima volta in modo esaustivo e puntuale i caratteri di questo “gusto per l’antico”. Per la disciplina Archeologia delle Province Romane è risultata vincitrice Rosanna Muratore per il lavoro: Una tipologia dei mosaici di Cipro. Una probabile officina, con il seguente giudizio: L’opera della dottoressa Rosanna Muratore rientra perfettamente nell’ambito dell’Archeologia delle Province Romane secondo quanto previsto dal bando di concorso. Attraverso l’analisi della tecnica dei mosaici di – 55 – epoca Severiana la candidata individua per la prima volta un’officina che ha operato anche in altre isole greche e che rivela una formazione nord-africana. Nel 2004, infine, anno in cui Genova è capitale europea della cultura, un gruppo di amici e collaboratori ha voluto affidare la testimonianza del Suo magistero alle pagine che qui seguono. – 56 – A Lella da Colette, Edi, Gabriella, Gianna Luigina, Paola, Silvana GRAZIELLA CONTI STUDÎ INEDITI – 57 – – 58 – EVOLUTION ET DEVELOPPEMENT DES PLANIMETRIES THERMALES* Lors d’une récente Table Ronde organisée par l’Ecole Française de Rome en 1991,1 certains problèmes souvent négligés bien que d’importance fondamentale pour l’étude des thermes romains ont été soulevés. Le problème des terminologies des différentes parties de l’édifice thermal, le problème du système hydrique, le problème de la circulation et de la jouissance des thermes mêmes ainsi que des thermes comme éventuel lieu de culte sont des problèmes fondamentaux qui demandent2 beaucoup de temps pour être traités; ici il est suffisant les avoir nommés. Il vaut mieux prendre en considération un certain nombre de planimétries thermales pour établir un cadre des changements et modifications à l’intérieur des typologies soit en sens évolutif que de mise en projet. Nous distinguons les thermes publics et privés. Les premiers sont distingués en républicains et en impériaux. Les thermes privés ont un aspect particulier et sont rarement d’une importance architecturale que l’ont peut voir de façon nette. Les thermes publics d’époque républicaine se trouvent facilement lisibles à Pompéi et à Ostia. Les thermes de Pompéi enregistrent l’exemple le plus ancien qui remonte à la première installation au II e siècle avant J.C. dans les Thermes Stabiane (fig. 1) avec un grand espace réservé au gymnase. Sur un côté se trouvent les salles thermales avec frigidarium, tepidarium et calidarium en disposition contiguë, de dimensions modestes et en nombre limité, avec la salle du calidarium en forme d’abside. C’est un plan très simple qui est répété dans les Thermes du Forum qui réduisent un peu le gymnase. Datés de 80 avant J.C., ils ne présentent pas de régularité des côtés. Les constructeurs ont dû adapter le projet à des situations urbanistiques préexistantes. Ces deux plans démontrent dans leur essentiel intérieur un projet initial, étant bien entendu que la contiguïté des salles thermales reste, tandis que d’autres salles varient et s’adaptent. Telle planimétrie restera en outre, pour de nombreux siècles, seulement avec de légères variations. Ce genre d’édifice thermal peut se définir comme plan aligné: une surface ouverte d’un côté et sur l’autre, les salles thermales proprement dites sont alignées le long d’un côté qui n’a pas d’orientation précise. Le plan n’est pas toujours régulier; dans certains cas les salles thermales froides et chaudes occupent deux côtés, mais on peut les considérer alignées car elles sont toujours contiguës, comme les Bains Républicains de Pompéi. On a une situation analogue dans les Thermes Centraux (fig. 2); le calidarium plus grand que les précédents semble être plus ample et fourni de niches avec une conception analogue dans les Thermes Suburbains de Porte Marine; le gymnase est situé de façon irrégulière à cause de la route. Dans les Thermes Suburbains d’Herculanum le plan situe à l’est toute la zone thermale où l’alignement du frigidarium, tepidarium et calidarium est assuré, mais le gymnase à l’Ouest semble être ajouté, grand et régulier; il constitue une partie plutôt autonome. Questo è il testo di una lezione tenuta da Graziella Conti in Libano nell’ambito del progetto Elissa nel 1998. Il manoscritto originale è conservato a Genova, Biblioteca Universitaria, Archivio Conti, corredato di numerose foto e diapositive. Il saggio mantiene la versione originale, eventuali correzioni e note sono state introdotte dai curatori sulla base dei manoscritti dell’Autrice. La traduzione in francese si deve a Joséphine Figaroli Nadotti, che si ringrazia. 1 Thermes… 1991. 2 Cfr. NIELSEN 1990; Terme… 1987. * – 59 – Sur le sillage des thermes précédents se situent également les Thermes de Porta Marina à Ostia (fig. 3).3 Ils démontrent que le plan, né en époque républicaine, continue également dans les siècles successifs, simultanément à ceux dits symétriques. Dans ce cas le plan devient plus complexe: les salles thermales sont déplacées plus vers le centre; à gauche se trouvent les autres salles de service et le passage entre le gymnase et les thermes semble chercher une axialité qui donne une vision plus scénographique de l’édifice. En même temps, certains thermes non grands et avec une disposition non organique, se situent dans une époque imprécise. Ils semblent être le fruit d’une construction occasionnelle, sans projet bien défini: les Thermes des Six Colonnes4 et ceux de l’Invidiosus (l’envieux),5 dont les éléments constitutifs n’observent pas une disposition rationnelle et semblent des thermes presque privés, appartenaient à de petits propriétaires qui trouvaient en eux la propre source de gain pour un public de prétentions modestes. Les Thermes de Neptune, plus organiques, dans le modèle des précédents d’époque d’Adrien et Antonin le Pieux, sont toujours du type aligné, mais avec un ordre rigoureux de salles, avec le calidarium à bassins rectangulaires. Très similaires aux Thermes Centraux, se trouvent à Ostie les Thermes du Philosophe6 dont le calidarium est à nouveau en abside et le gymnase réduit à l’essentiel. Les Thermes du Forum7 (fig. 4) sont du type à salles thermales alignées, donnant sur le gymnase, mais de forme et position tout à fait particulière: les salles spécifiques sont situées en position dégressive, afin que chaque salle puisse peut-être profiter de la position sud-est. Leur forme en outre, est carrée avec trois bassins sur trois côtés pour le calidarium, simplement carrée pour le tepidarium et en abside pour le successif. Celui-ci communique avec une salle ovale dont on peut sortir soit dans l’une des pièces au Nord soit dans une deuxième salle octogonale avec de très grandes fenêtres, peut-être un solarium ou une véranda. Le plan aligné, mais apparemment sur un seul axe avec le calidarium et l’abside à fer à cheval réapparaît également en Britannia à Channum (Halton). Il respecte un plan très simple comme celui d’Olympia ou celui de Saalburg où le calidarium est composé de trois bassins, un rectangulaire et deux situés dans les deux absides latérales. Le schéma sert dans plusieurs villes allemandes comme Mainz et Hockstadt; il s’agit de thermes plus petits dans lesquels la salle en abside prend la forme en forceps, qui est un détail de l’époque de l’antiquité tardive. Dans les Thermes d’Avenches, au contraire, les structures curvilignes manquent, mais d’autre part il y a l’alignement des salles thermales au centre de l’édifice, dans une probable recherche d’axialité dans les thermes plus petits de l’époque empire finissant. Les plans, alignés sur un côté de l’édifice, tendent à diminuer, et les planimétries moins organiques prennent leur place; elles sont plus complexes dans la recherche d’une planimétrie optimale qui satisfasse les exigences. Elle tend à unir toutes les salles dans une composition compacte des salles thermales; elle permet la construction en espaces limités et cherche toujours plus clairement une orientation constante de la partie vraiment réservée aux bains au Sud et à l’Ouest, système utilisé en particulier pour les thermes privés. Les Grands Bains de Madaura en sont un exemple; dans ces thermes le gymnase est réduit à un long espace étroit, de plan presque basilical. Voici d’autres exemples à Bulla Regia et dans Cfr. PAVOLINI 1989, pp. 172-175. Cfr. PAVOLINI 1989, p. 183. 5 Cfr. PAVOLINI 1989, pp. 210-211. 6 Cfr. PAVOLINI 1989, p. 206. 7 Cfr. PAVOLINI 1989, pp. 105-108. 3 4 – 60 – les thermes au Sud de Lambesis. Toujours à Lambesis, dans les Thermes du Chasseur, il faut observer comment, à un plan très simple, soit ajouté un calidarium avec deux absides opposées dans un mélange de formes qui semblent indiquer un changement d’avis ou une adjonction qui n’avait pas été prévue au départ du projet, comme il arrive, bien que de façon différente dans les Thermes de Capitolium à Timgad. A Timgad les petits Thermes Orientaux sont étroitement reliés au centre de l’appareil thermal. Ce dernier revient dans les grands Thermes Orientaux de Timgad où le calidarium absidal est introduit dans une structure rectangulaire. La recherche d’une planimétrie qui associe la multiplicité d’utilisation des thermes avec la simplicité et la complexité mûrit à Rome. Ici, après l’exemple des Thermes d’Agrippa du Ier siècle avant J.C., qui semble vouloir faire d’un frigidarium circulaire assez anomal, le centre générateur d’un édifice, on arrive à un schéma presque parfait. Les Thermes de Néron recueillent les suggestions des différentes expériences et trouvent dans la composition axiale orthogonale symétrique le point ferme de ce genre de thermes appelé Impérial. Le plan néronien est tiré de Palladium; il est convaincant et c’est le premier à se représenter comme une succession axiale des édifices thermaux autour desquels se disposent de façon symétrique et orthogonale d’autres espaces: en particulier deux gymnases avec absides et aux côtés, peut-être deux bibliothèques. Le schéma est repris dans les Thermes de Tito (fig. 5) où s’ajoute un périmètre qui les contient, et on a utilisé le côté nord comme côté nord des thermes mêmes. Sur la même voie mais en renversant le rapport, se trouvent celles de Traiano, l’ensemble thermal proprement dit à la partie périmétrale nord où il y a l’entrée et dans l’axe du frigidarium, calidarium autour desquels étaient distribués avec une parfaite symétrie, le tepidarium, des salles variées, laconica et deux gymnases donnant sur le frigidarium; tout l’espace était libre pour les sports et dans les murs périmétraux existaient une série de petites salles et absides pour les activités les plus variées. L’édifice thermal a trouvé une consistance paradigmatique et le schéma restera presque constant pendant plusieurs années, même si, naturellement chaque nouvel édifice aura des nuances différentes. Les Thermes de Caracalla (fig. 6) reproduisent étroitement les Thermes de Traiano, mais éloigneront les sources thermales des parois de l’entrée. Encore plus loin, presque au centre, est installé le corps thermal des Thermes de Dioclétien (fig. 7). Nous voyons que la présence des bibliothèques est devenue une habitude attitrée. Dans les Thermes de Constantine, le schéma maintient le calidarium circulaire comme celle de Caracalla, mais tout est contracté; les structures architectoniques se compriment et l’espace occupé en résulte plus long que large, selon un cours typique du IVe siècle. A partir de ce moment le plan axial et symétrique est utilisé également pour petits et grands thermes soit en Orient qu’en Occident et en Afrique en commençant par les petits Thermes de Madaura, les grands Thermes de Lambesis et dans la même ville, les Thermes des Légionnaires. On peut citer d’autres exemples tous de Moyen et Finissant Impérial, des Grands Thermes Nord de Timgad à ceux monumentaux de Leptis Magna, en passant par ceux de Cherchel et de Mactar ainsi que ceux d’Afrodisiade en Asie Mineure où le gymnase conserve une grande place et de façon similaire à Ephèse. Dans les thermes de l’Asie Mineure cet espace se maintient probablement de la même taille pour conserver une ancienne tradition de sport et compétition. En Afrique les Thermes de Carthage, de l’époque d’Antonin, longent la côte marine avec une disposition axiale, mais où les salles thermales se disposent symétriquement à éventail; ceux de Djemila, étant donnée la position orographique de la ville, s’étendent autour d’un axe allongé. Toujours en Afrique à Thaene on propose un exemple de thermes qui, comme ceux d’Agrippa, tournent autour du frigidarium à plan central. En Syrie nous – 61 – retrouvons un schéma très simple à Gerasa, tandis que revient le schéma impérial à Treviri dans les Thermes de Sainte Barbara et dans ceux Impériaux très tardifs. En Afrique les Thermes du Chasseur et ceux de Philippopolis insèrent dans une planimétrie simple deux salles à plan central qui indiquent une grande fantaisie, mais de modestes projets, comme on vérifie aussi à Athènes où le plan est articulé sur plusieurs corps qui ne suivent aucun schéma. Dans les thermes privés, nous indiquons des schémas très libres dus au fait d’être privés, c’est à dire de ne pas être liés par des modèles officiels, et souvent, de ne pas avoir à disposition de grands espaces comme les petits thermes de l’époque d’Adrien, dans la Villa à Tivoli où nous trouvons aussi les Grands Thermes. Nous rappelons encore, comme exemple significatif ce qui concerne également la variété typologique des thermes privés, ceux du Latran à Rome, très simples, ceux plus anciens du fundus de Julia Felix à Pompéi, ceux tout particuliers d’Hérodien, ceux de la Magliana près de Rome qui ont nécessité d’une adjonction hors de symétrie, probablement par erreur, jusqu’aux thermes très particuliers de la Villa Philosophiana de Piazza Armerina (fig. 8) qui a utilisé et restructuré un édifice préexistant. Sur les éventuels thermes nés d’une source sacrée et donc engagés par une valence culturelle, nous pouvons citer les Thermes de Bath en Angleterre où l’eau venait d’une source sacrée. Les problèmes sont nombreux et souvent complexes et ces mots que j’ai prononcés peuvent seulement constituer un moment de réflexion. – 62 – Fig. 1 – Pompei, Terme Stabiane, planimetria (da: NIELSEN 1990, p. 98, fig. 75) Fig. 2 – Pompei, Terme Centrali, planimetria (da: GROS 1996, p. 399, fig. 451) – 63 – Fig. 3 – Ostia, Terme di Porta Marina, planimetria (da: NIELSEN 1990, p. 94, fig. 67) Fig. 4 – Ostia, Terme del Foro, planimetria (da: NIELSEN 1990, p. 95, fig. 69) – 64 – Fig. 5 – Roma, Terme di Tito, planimetria (da: NIELSEN 1990, p. 84, fig. 52) Fig. 6 – Roma, Terme di Caracalla, planimetria (da: SERLORENZI, LAURENTI 2002, p. 76, fig. 111) – 65 – Fig. 7 – Roma, Terme di Diocleziano, planimetria (da: SERLORENZI, LAURENTI 2002, p. 59, fig. 71) Fig. 8 – Piazza Armerina, Terme di Villa Filosofiana, planimetria (da Sicilia… 1968, p. 661) – 66 – LA MOSAÏQUE ROMAINE GEOMETRIQUE: PROBLEME ET ORIENTATION DE RECHERCHE* La mosaïque géométrique présente plusieurs problèmes que la critique la plus recherchée est en train d’étudier avec une rigueur scientifique et avec de nouvelles optiques. Aujourd’hui, si on distingue les techniques utilisées bien que de nature différente, on est enclin à considérer similaires dans le domaine de la mosaïque proprement dite, le tessellatum ainsi que les exemplaires obtenus avec l’utilisation de plaquettes et fragments de pierre noyés dans une base de ciment ou avec des plaquettes de marbre colorées et coupées en formes géométriques et assemblées; on entend parler de «signinum», «scutulatum» et de «sectilia». La technique en signinum est constituée de petites pierres éparses sans ordre comme la mosaïque de Gênes, comme la mosaïque qui semble naître en Afrique là où les pavimenta punica documentés à Kerkouan et publiés par M. Fantar1 ont certainement influencé sur le signinum dans le milieu Méditerranéen: Italie, Sardaigne, Gaule, Espagne et la ville de Luni in Ligurie etc. Ils sont aussi documentés à Utique où les écailles sont un peu plus grandes et espacées. Elles s’approchent du pavement appelé scutulatum. Un autre exemple de signinum est celui à plaquettes blanches disposées en files régulières et parallèles comme dans la Villa de Varignano à La Spezia2 (fig. 1) en Italie, où apparaît aussi celui à petites croix de quatre tesselles blanches autour d’une sombre. Ces pavements étaient considérés plus archaïques et tout au plus en période républicaine-finissant puis impériale, réservés aux pièces et salles de service. Dans une maison de Rimini, près de l’Arc d’Auguste, l’assortiment d’une partie en signinum et une partie en tesselles de mosaïques est présente: le tessellatum, en démontrant que les deux techniques pouvaient être simultanées comme il a été démontré lors des dernières études discutées par le premier Colloque de l’AISCOM et par celui de l’AIEMA.3 De même, nous avons des pavements avec la technique à plaques de pierre et de marbre polychrome. Ce sont les pavements appelés en opus sectile de formes géométriques composées de petits carrés dans d’autres carrés et triangles comme à Luni dans la maison des fresques, datés de la fin du IIIe siècle avant J.C. au Ier siècle après J.C. et considérés jusqu’à quelques années, de nature primaire par rapport au tessellatum. Nous savons aujourd’hui qu’ils sont pratiquement contemporains. Un autre motif est celui dit à natte bordée: ce sont des plaques rectangulaires tressées et bordées d’ un mince profil de couleurs différentes, toujours de Luni, mais fréquent à Pompéi. Il est intéressant de voir les deux motifs unis à Utique, dans la Maison de la Cascade datée du II e au Ier siècle avant J.C. Le problème de la priorité du sectile sur l’opus de mosaïque est très discuté mais, les spécialistes retiennent de les considérer contemporaines. En effet l’exemple du sectile plus ancien, * Testo di una lezione tenuta da Graziella Conti in Libano nel 1998 nell’ambito del progetto Elissa. Il manoscritto originale, corredato da numerose fotografie, è conservato a Genova, Biblioteca Universitaria, Archivio Conti. Le note sono state aggiunte dai curatori sulla base dei manoscritti dell’Autrice. La traduzione in francese si deve a Joséphine Figaroli Nadotti, che si ringrazia. 1 Cfr. FANTAR 1987. 2 Cfr. CONTI 1994, p. 1144, n. 17. 3 Cfr. Ravenna… 1993. – 67 – celui à cubes perspectifs que l’on trouve partout dans la Méditerranée, a le parallèle avec celui à cubes perspectifs en tessellatum. Le tessellatum dure longtemps comme l’on peut voir en vue axonométrique dans un sol de Thuburbus Majus, dans l’Edifice de Trois Bassins. Le motif des cubes perspectifs se relie à un autre problème: celui du sol avec des décorations géométriques linéaires vu en plan et en perspective. Il n’est pas possible de dresser la liste de toutes les mosaïques géométriques; certaines d’entre elles sont particulièrement significatives à mettre en chantier ou à présenter une problématique digne d’approfondissement: les mosaïques géométriques qui présentent un dessin géométrique organisé dans un dessin, par exemple un module de fleurs à quatre pétales obtenu à l’aide du compas et répété à l’infini. Leur rédaction en blanc et noir permet également la formation d’interprétations géométriques différentes. Si l’on fixe attentivement le dessin, il est possible de repérer un cercle blanc qui entoure un carré noir aux côtés concaves; le noir encore est prédominant et nous voyons une série de carrés aux côtés noirs concaves. Les parties blanches perdent de netteté; les effets optiques sont obtenus grâce à l’alternance de deux couleurs opposées qui rappellent l’affinité avec la sculpture en négatif du IIIe siècle. Une vaste catégorie de schémas géométriques est celle à rédaction d’étoiles et de losanges, disposées à l’intérieur d’un carré qui est décoré au centre par un emblème qui peut être aussi figuré. Tel schéma, en plus d’être indiqué à une répétition modulaire qui trouve des changements valables, crée une vue perspective. Elle crée le sens de la profondeur. Telle typologie s’étend à plusieurs autres motifs de différentes typologies en schémas simples ou, comme à Utica dans la salle funéraire du columbarium, avec l’introduction de carrés qui représentent les saisons. Ce motif, arrive jusqu’à l’Antiquité Tardive (voir un exemple de Vintimille, fig. 2)4 ou un autre de Vienne qui introduit des fleurs et des sarments géométrisés, dans une remarquable capacité d’abstraction; tout comme il se structure dans la planimétrie du triclium, avec des inserts à chevrons où apparaissent des poissons et dauphins en haut, et au centre le cantharos, vase dionysiaque par excellence et donc utilisé dans les mosaïques dionysiaques classiques comme en celles d’époque chrétienne. Cette catégorie de mosaïques géométriques, comme celles effectuées au compas, ont l’explication et justification dans l’idée de projeter en plan le motif des plafonds à caisson. Certaines sont la seule projection du dessin; d’autres, comme celles à peine vues, veulent imiter la consistance architectonique, qui est un problème évident de l’observation d’un plafond romain de Frascati, près de Rome, de la Villa de Galba et que nous trouvons, en dessin, dans la Maison d’Auguste à Rome, avec une rationalité géométrique absolue. Le système technique nous donne une image en ce sens utile, pour obtenir ces plafonds à caisson. Le schéma au compas, parallèle et contemporain à cette catégorie, est très fréquent. Il propose à nouveau en plan, le plafond à pendentifs et voûtes avec au centre un cercle figuré ainsi que des décorations les plus variées, comme dans les mosaïques suivantes de Lyon. Les tesselles présentent encore des observations intéressantes pour la technique et la mise en oeuvre des plaques; un sol de Rimini d’époque impériale moyenne, en blanc et noir offre une décoration à vagues courantes, et l’utilisation des plaques n’est pas particulièrement correcte; on peut voir à gauche une partie moins compacte que les autres, qui peut localiser, à gauche, une partie restaurée, tandis que, toujours de la même Maison, un schéma absolument géométrique permet peut-être une technique plus soignée qui suit la règle de base de la mosaïque. Une des deux couleurs s’oppose à l’autre à travers le système d’une ou de deux files de plaques rangées le long du côté; une rangée de plaques coupées 4 Cfr. CONTI 1994, p. 1148, n. 30. – 68 – en diagonale donne la possibilité d’une version très diligente et singulière, tandis qu’ une autre ondulée, avec beaucoup de ciment entre une pièce et l’autre, est documentée par plusieurs fragments de Carthage de l’ainsi dite Maison de Magon. Les sols d’époque tardive au contraire, sont à motifs variés mais étendus, avec une capacité considérable de changement et de fantaisie surtout dans la création d’une page riche d’éléments géométriques qui emprunte la propre composition de l’art textile, des tapis en particulier, dont sont exemples une mosaïque de Lyon et une de Tuburbus Majius en Edifice de Trois Bassins avec l’introduction dans chaque carré, d’un nœud de Salomon. Le motif est d’indication tardive et trouve une comparaison avec une mosaïque de Bett el Din et une toujours de Tuburbus, de la même Maison, polychrome, recouvre le sol d’une abside avec le motif à tapis en arc-en-ciel, ou une de Bulla Regia, maison n. 10, où les écailles ne sont pas adaptées à la parfaite introduction périmétrale comme il arrive à Bett el Din, beaucoup de temps après, mais qui ne s’adapte même pas à une superficie rectangulaire. Les autres motifs sont ceux dénommés à tau, de la Basilique de Desenzano del Garda in Italie ou celui avec l’introduction de grosses fleurs stylisées en figures géométriques ou bien encore avec des octogones représentant les saisons et des hexagones avec des animaux et des inflorescences liés par des croix. Au centre, une Tête de Méduse est représentée. Chaque figure est reliée à l’autre par une tresse formée de deux fils. Le problème de la transmission de certaines typologies en partie très lointaines de l’Empire romain, comme celle de la mosaïque de Loano (fig. 3) en Ligurie, conservée à la Mairie, avec de grosses fleurs à pétales ovales délimitant des carrés avec des motifs de genre varié tels que fleurs, armes, paniers, figures géométriques qui sont de particulière attention pour la recherche. Ce motif, chaque fois simplifié ou enrichi, se trouve en Afrique, en version polychrome de la mosaïque d’Utica, au Musée du Bardo et dans celui de la Maison des Animaux à Thuburbus Majus. La reproduction en plan aussi, de moulures architectoniques placées comme listel périmétral ou central d’un espace de mosaïque, est utile et intéressante afin de démontrer le rapport étroit entre les mosaïques géométriques et l’architecture. Ces reproductions son très abstraites dans la mosaïque de Vienne. Dans celle-ci le bord périmétral noir n’est qu’un kyma ionique à ovules et pointes de lance tandis que le bord d’un emblème de Vienne est intéressant et simplifié au maximum, avec un kyma composé de feuilles, d’ascendance d’Auguste, mais raréfié. Plus complexe est le bord d’un sol d’abside qui reproduit en version avancée et picturale l’Anthemion de la Sima, la décoration à fleurs de lotus et petites palmes inversées, reliées par des volutes; les éléments végétaux sont devenus des fleurs à clochettes à trois pointes et les volutes un ruban ondulé. Toujours liée à une représentation à trompe-l’œil, la mosaïque de la décoration du Char de Venus, dans la Maison de Caton à Utica, est d’intérêt particulier. Celui-ci présente auprès d’un motif géométrique simple, un bord autour de la figuration reproduisant en épaisseur, le motif du méandre. Ici l’élément géométrique est seulement délimitant, réservant l’espace à la représentation mythologique comme il arrive à Romuliana à Gamizgrad. Une mosaïque de Ostia, très ancienne. avec des éléments géométriques où est indiqué le petit mur avec grille, reproduit, comme dans un développement en plan, la division entre l’entrée et l’atrium. En cela se renforce l’utilité de la mosaïque à reconstruire ou suggérer des reconstructions architectoniques, qui, en période avancée deviennent à ce point, une façon de représentation de la ville avec fonction architectonique et topographique. La ville de Crète se place autour du labyrinthe où au centre, Teseo tua le Minotaure. Un des problèmes les plus fascinants offerts par certaines mosaïques d’époque avancée, est la récupération et la reprise de motifs très anciens avec le but d’une espèce de renaissance d’époque désormais passée et vue peut-être comme mythique: un sol de Spalato – 69 – à haches reprend un motif très répandu à l’époque de la république-finissant, celui à doubles haches utilisé à Nora en Sardaigne. Par exemple comme dans la Maison de Bett el Din, le motif à fleurs de quatre pétales revient en version polychrome. Le plus intéressant est un motif à ruban plissé, déjà observé dans la basilique de Luni et attribué au VIe-VIIe siècle après J.C. (fig. 4). Bien que n’étant pas des mosaïques géométriques, les thèmes représentés aident à résoudre le problème de leur présence, dans le monde romain et en Afrique, en particulier dans les grandes villes fortifiées5 avec la ferme et les granges, ainsi que dans un sol de Tabarka à plan trilobé qui nous restitue une image complète et détaillée d’un certain type de vie et de monde. On peut placer à la fin du IVe siècle après J.C. en faisant de parallèle la représentation d’une villa fortifiée de Oudna (fig. 5) avec des scènes de chasse qui documentent une richesse de végétation qui n’est plus appréciable aujourd’hui. La représentation à Gafsa du Cirque, peut-être placée sur le modèle du Cirque Massimo de Rome, conclut mon exposition. Sur la base de cette image, d’exécution et de surfaces géographiques différentes et lointaines, la difficulté de parler d’artistes, de mosaïstes et d’ouvriers en général est évidente; c’est un problème tout à découvrir. Seulement grâce à des recherches sectorielles et minutieuses il est possible, et c’est aujourd’hui un but privilégié, de retrouver les ateliers. La recherche des ateliers est un problème important car leur détermination nous donnerait l’estime et la clarté de la grande organisation qui présidait une production de proportions gigantesques. 5 Cfr. CONTI 1999b, pp. 157-163, fig. 1-6. – 70 – Fig. 1 – La Spezia, Villa del Varignano, opus signinum (foto: G. CONTI) Fig. 2 – Ventimiglia, Terme, mosaico cosiddetto di “Arione”, disegno (foto: G. CONTI) – 71 – Fig. 3 – Loano, Palazzo Doria, mosaico da via Ricciardi, disegno (foto: G. CONTI) Fig. 4 – Luni, basilica di Santa Maria, mosaico della navata destra, disegno (da Luni… 1998, p. 129, fig. 227) Fig. 5 – Oudna, Villa dei Laberii, atrio (foto: G. CONTI) – 72 – IL TEMPIO ROTONDO COSIDDETTO DI VENERE A BAALBEK* Dal momento che mi è stato chiesto di parlare di un monumento romano in Libano, ho pensato di occuparmi del cosiddetto tempio di Venere a Baalbek. La scelta è stata motivata da due ragioni di fondo, specialmente considerando che il mio uditorio è formato da architetti: la prima riguarda la particolarità della sua planimetria che appare un unicum, tanto più singolare se si rapporta l’edificio alla grandiosità del complesso architettonico del santuario a cui è assai vicino; la seconda è inerente al fatto che mi sto occupando da alcuni anni della scultura architettonica del Libano. In questa sede il mio interesse è rivolto principalmente all’immagine planimetrica del tempio e alle considerazioni cui può dare luogo l’esame delle sue strutture. In specifico, valuterò la pianta nelle interrelazioni storico-figurative con i restanti monumenti di Baalbek sulla base della mia esperienza di archeologa e storica dell’arte antica. In apertura, ritengo opportuna una descrizione dettagliata del monumento, utile a comprendere, se non a risolvere, i problemi e a decifrare le informazioni che esso può fornire. La costruzione è a pianta centrale, formata da un cerchio inscritto in un podio di base circolare di diametro maggiore (fig. 1). Proprio dal podio, orientato Nord-Sud, si rileva l’anomalia planimetrica del tempio in quanto la parte curva, a due terzi, sulla fronte, invece di concludersi circolarmente – come avviene in altri edificî romani a pianta centrale – è prolungata ai lati a creare una forma quasi ellittica, stretta e allungata, cui si accede da una breve gradinata (fig. 2).1 Sul podio circolare è inscritto anche uno zoccolo a cinque lati inflessi i cui spigoli smussati sono tangenti il podio stesso. Su questi spigoli, posti intorno alla cella, si trovano basi attiche e colonne che formano una peristasi. Le colonne, con i loro capitelli corinzî, sostengono il cornicione terminale che riprende anch’esso l’andamento della pianta a lati inflessi. Lo zoccolo dell’intero impianto è lavorato a listelli liscî con un bordo superiore a sezione leggermente inclinata. Questo tipo di coronamento ritorna costantemente in tutti gli altri edificî di Baalbek. Oltre la peristasi si erige la cella templare a forma circolare che sulla fronte presenta un ingresso, con due brevissime ante laterali, al quale si accede da un pronao dotato di scalinata. La cella cilindrica resta per tutta la sua altezza inscritta in un poligono a lati inflessi. Sulla superficie della cella, in muratura isodoma, nello spazio corrispondente all’intercolumnio si aprono nicchie circolari con semi pilastrini laterali e capitelli a foglie lisce, Questa è la trascrizione della conferenza tenuta dalla Studiosa in francese (la cui traduzione manca) a Tripoli (Libano) nel 1997 nell’ambito del progetto Elissa. Le note sono state aggiunte dai curatori sulla base dei manoscritti dell’Autrice. Lo studio sulle modanature architettoniche del monumento in questione è stato condotto in collaborazione con Monica Guiddo che si è occupata della schedatura di alcuni elementi scultoreo-architettonici del manufatto, schedatura confluita in un elaborato scritto per il Corso di Archeologia delle Province Romane presso l’Università degli Studî di Roma e parzialmente riproposta qui in Appendice. 1 Cfr. R AGETTE 1980, p. 56. * – 73 – timpano curvilineo con conchiglia all’interno (fig. 3). Superiormente attorno alla cella corre un fregio a ghirlande sostenute da Amori (eroti o putti).2 Le colonne reggono il grande cornicione a lati inflessi, formato da una trabeazione con epistilio a fasce aggettanti, decorate con cavetti e tre listelli a sezione rotonda, seguiti da un quarto liscio e piano. Seguono un listello a ovuli e punte di freccia (kyma ionico), uno a foglie, uno sottile liscio e un fregio a girali con fiori. Un altro kyma ionico e un listello a dentelli, rettangolari e ravvicinati, sono posti proprio sotto la corona che ha dimensioni molto ridotte. Il soffitto che aggetta su di essa è a piccoli cassettoni con rosetta al centro. Concludono il complesso di modanature un listello baccellato, un secondo a perle e astragali e, infine, un fregio a gola rovescia con palmette e foglie d’acanto. Come si è visto, le nicchie contengono una conchiglia che ha la caratteristica di essere posta con le scanaluture radiali rivolte in basso: una soluzione diversa da quella adottata dai monumenti romani di altre aree, ma coerente e uguale a tutto il complesso di Baalbek. All’interno della cella si trovano dei frontoncini con semplici modanature lineari che si possono confrontare con quelli del grande cortile del tempio di Giove, sito nel santuario (fig. 4). Circa a metà dell’altezza della cella corre una modanatura a semplici listelli. Il cornicione superiore corrisponde a quello esterno, scolpito in grandi massi lavorati con profonda gola incavata, breve epistilio, listello a dentelli e, quindi, cassettone con rosette. Su questo si impostava la parte superiore del tamburo con frontoncini triangolari e curvilinei sul quale si appoggiava la copertura di cui ignoriamo l’aspetto. Una simile fusione fra forme circolari e rettilinee, fra andamenti concavi e convessi fa del tempio un edificio di carattere peculiare, con un forma praticamente unica nel mondo romano, almeno per quanto è a mia conoscenza. Il solo monumento a pianta centrale con atrio rettangolare che possa essere portato a confronto è il Pantheon di Roma. In questo caso, però, si tratta di una struttura circolare a cortina laterizia sulla quale è immorsato un atrio rettangolare, la cui pianta non offre alcuna scansione interna che, viceversa, ritorna nell’edificio libanese. Il Pantheon sviluppa la sua articolazione all’interno, in una insuperabile configurazione dell’invaso, laddove il tempio libanese si esplica all’esterno: il paragone, dunque, non può essere sostenuto, se non su di un piano generico. A proposito del tempio di Baalbek, la sua planimetria è tanto singolare da suggerire l’esistenza di un progetto che intenda abbinare un andamento curvilineo – di per sé privo di fronte – a uno rettilineo dotato, di suo, di prospetto frontale. La realizzazione di una struttura di questo tipo porta a una fusione originale e organica dei volumi, consolidando la posizione assiale dell’edificio e, quindi, privilegiando la sua visione frontale. Un progetto di tale complessità è funzionale a una qualche esigenza liturgica? Oppure, è stata la sua ubicazione a condizionarne lo sviluppo planimetrico? Mentre alla prima domanda non si è in grado di rispondere, in merito alla seconda sono possibili alcune considerazioni. Va anzitutto notato che la collocazione dell’edificio sembrerebbe esterna al grande santuario: la cautela, però, è d’obbligo giacché le fabbriche limitrofe non consentono una loro lettura corretta perché non si è a conoscenza degli interventi di recupero subiti, offrendo esse informazioni scarse a livello topografico.3 Tuttavia, i resti di basi di colonne, ancora in situ a Nord/Nord-Est, sembrano denunciare l’esistenza di una via porticata o 2 3 Cfr. WEIGAND 1934, pp. 99-101. Cfr. CHAMPDOR 1959, p. 8. – 74 – colonnata o, addirittura, di un portico di recinzione, ossia di un themenos. Se effettivamente è esistita una simile struttura, la necessità di un ingresso al tempio cosiddetto di Venere, situato in posizione assiale, diverrebbe giustificata, assieme con la planimetria dell’edificio, articolata come sopra si è visto. Da notare, ancora, l’esistenza dei resti di un organismo – d’ignoto uso (tempio delle ninfe?) – ubicato ad angolo retto rispetto al tempio. Nel caso che tali ruderi corrispondessero effettivamente a un impianto cultuale, si potrebbe ipotizzare l’esistenza di un ulteriore polo religioso in dialettica con il santuario vero e proprio. Nell’area di scavo attorno al tempio, inoltre, è possibile individuare un settore ove si trova – entro una roggia che anticamente era spostata più a Sud – un corso d’acqua, forse incanalato sotto il selciato di una strada. È lecito presumere, quindi, l’esistenza di un acquedotto con un ampio sviluppo nei dintorni non lontani dalla cosiddetta basilica, dove sono ancora perfettamente leggibili i resti di grandi cisterne. Quest’acqua alimentava la zona e, di conseguenza, la superficie del santuario fin dall’epoca più remota, quando l’area di culto poteva limitarsi alla presenza dei soli tre elementi che da sempre connotano i luoghi sacri di tutto il bacino del Mediterraneo: l’acqua, la pietra, l’albero. Secondo queste linee guida sarebbe interessante studiare, a più livelli, il rapporto del tempio di Venere e dello spazio attorno con gli edificî e la regione del santuario, tenendo conto che gli ambienti dell’impianto religioso sono orientati rigorosamente a Est-Ovest, mentre il tempio rotondo lo è a Nord-Sud, con uno spostamento quasi di novanta gradi. Un ulteriore problema di cui è necessario tenere conto è l’impiego per il tempio rotondo di una scultura architettonica che presenta un’economia figurativa distribuita a occupare totalmente gli spazî ed è molto affine a quella del grande cortile e della sala esagonale situati nel santuario. A seguito di un attento esame di tale decoro, la sua analogia con i manufatti citati è confermata, inducendo a proporre una collocazione cronologica del cosiddetto tempio di Venere fra la fine del secolo II e la prima parte del III d.C. Affermazione possibile, poiché la scultura architettonica nasce assieme con il progetto del monumento e permette, quindi, la datazione del monumento stesso. – 75 – Fig. 1 – Baalbek, il cosiddetto Tempio di Venere (foto: G. CONTI) Fig. 2 – Baalbek, il cosiddetto Tempio di Venere, planimetria e assonometria (rielaborazione da: AWAD 1977-1978, p. 67) – 76 – Fig. 3 – Baalbek, il cosiddetto Tempio di Venere, particolare (foto: G. CONTI) Fig. 4 – Baalbek, Tempio di Giove, particolare delle modanature (foto: G. CONTI) – 77 – – 78 – Appendice SCHEDE DI ALCUNE MODANATURE E RESTI DI DECORAZIONE ARCHITETTONICA DEL TEMPIO ROTONDO COSIDDETTO DI VENERE Monica Guiddo Il presente contributo è parte di uno studio più articolato su alcuni elementi – i più significativi – scultoreo-architettonici del tempo rotondo cosiddetto di Venere a Baalbek (fig. 1). 1. Fusto e base di colonna Fusto di colonna monolitica levigata con modanature di coronamento a toro e ad astragalo liscî; la modanatura inferiore è costituita da un listello aggettante senza decoro. La base attica è semplice, con due tori separati da due listelli liscî fra i quali è una scozia; mentre il toro superiore appare poco sporgente, quello inferiore presenta, invece, una convessità piuttosto accentuata. Il dado appare suddiviso in due blocchi a forma di parallelepipedo. Il pezzo si può confrontare con le basi del Serapeo di Alessandria, dei Serapei del Mons Porphyrites e del Mons Claudianus.1 Bibliografia: inedito. 2. Capitello di colonna (fig. 2) Ordine: corinzio Intorno al kalathos le foglie di acanto spinoso si avvolgono disposte su due corone. I lobi delle foglie si toccano tramite le estremità delle foglioline, che sono contigue tra loro e determinano zone d’ombra a forma di triangolo o di goccia. I lobi laterali sono uniti direttamente alla costolatura centrale tramite la loro nervatura, che prosegue creando due solchi sottili ai lati della stessa costolatura centrale. Quest’ultima si presenta rilevata, dritta e liscia. Le foglie della prima corona appaiono piuttosto aderenti al kalathos, ma con le cime ripiegate verso l’esterno. Le foglie della seconda corona si levano slanciate e, come le precedenti, hanno la cima ripiegata ma più sporgente verso l’esterno rispetto alle foglie della prima corona; le foglie della seconda corona hanno origine nel punto d’incontro tra i lobi mediani della prima corona. I calici risultano bipartiti, le loro foglie si presentano piuttosto strette e risultano sviluppate in altezza; sono rivolte verso l’esterno e hanno lobi articolati in fogliette appuntite simili a quelle delle sottostanti corone. Le elici, poco aggettanti, formano spirali che convergono al di sopra del caulicolo centrale, il quale ha la funzione di stelo 1 Cfr. WEIGAND 1921-1925, p. 94; PENSABENE 1993, p. 185. – 79 – per il fiore d’abaco. Le volute sono molto aggettanti verso l’esterno, così da ottenere un notevole effetto chiaroscurale.2 L’abaco consiste in un quadrato a lati inflessi con lo spessore decorato a kyma ionico, con ovuli piuttosto tondeggianti, seguito da baccellatura. Bibliografia: inedito. 3. Capitello di pilastrino (di nicchia) (fig. 3) Ordine: corinzieggiante Capitello di pilastrino angolare addossato, decorato su due lati. Dal collarino di base, ad angolo retto, si levano cinque foglie piene, poco discoste tra loro. Le tre foglie angolari si prolungano fino agli spigoli dell’abaco, mentre le due foglie mediane, ben staccate dalle laterali, si fermano a circa due terzi del kalathos. Tali foglie presentano incavo centrale e punta ripiegata in avanti.3 Il capitello appartiene a una tipologia databile fra i secoli III e IV d.C. Bibliografia: inedito. 4. Decorazione di nicchia (fig. 4) La nicchia, ricavata nella parete esterna, presenta un piccolo fregio curvilineo e una copertura a semicupola con cornice curvilinea. La cornice che definisce il profilo esterno della semicupola è a modanature lisce; queste consistono in un listello, una gola diritta, un astragalo, un altro listello. La stessa cornice poggia su piccole mensole lisce, a forma di “s”; i lacunari sono occupati da rosette a sei petali. Segue un listello e un piccolo fregio a dentelli molto ravvicinati e poco profondi, scanditi da brevi spazî di risulta. Le sottostanti modanature sono formate da una gola diritta e da un listello. L’architrave curvilineo ma orizzontale, che definisce il profilo concavo della nicchia, consiste in un listello aggettante e tre fasce lisce che sporgono l’una sull’altra. La cornice sovrastante la nicchia poggia su capitelli di lesena angolare (quarto di pilastro addossato), decorati a foglie lisce. Il centro di ciascuna semicupola si trova allo stesso livello dello spigolo inferiore dell’architrave. L’interno della semicupola che costituisce la copertura della nicchia è decorato con una valva di conchiglia. La stessa decorazione a conchiglia, più stilizzata, si trova in una delle esedre o nicchie nel cortile del tempio di Giove e nella camera sotterranea dello stesso tempio.4 L’incorniciatura della nicchia risulta scheggiata alle estremità e in diversi punti intermedi. Bibliografia: inedito. Cfr. WEIGAND 1914, pp. 44-45; WEIGAND 1921-1925, p. 73. Cfr. SCRINARI 1952, pp. 40-41, nn. 41 e 43 (capitelli conservati nel Museo di Aquileia, databili al secolo IV) con cui è possibile istituire un confronto tipologico. 4 Cfr. COLLART, COUPEL 1950, p. 64, tav. LXXII; WEIGAND 1921-1925, tav. 42. 2 3 – 80 – Fig. 1 – Baalbek, il cosiddetto Tempio di Venere, ricostruzione (da: WIEGAND 1921-1925, vol. II, p. 90, fig. 126) – 81 – Fig. 2 – Baalbek, il cosiddetto Tempio di Venere, capitello (particolare da: WIEGAND 1921-1925, vol. II, p. 90, fig. 126) Fig. 3 – Baalbek, cosiddetto Tempio di Venere, capitello di pilastrino (particolare da: WIEGAND 1921-1925, vol. II, p. 90, fig. 126) Fig. 4 – Baalbek, cosiddetto tempio di Venere, particolare della nicchia (foto: G. CONTI) – 82 – LA CULTURE CLASSIQUE RECUPEREE. APPAREILLAGE DES MURS AU LIBAN DU MOYEN-AGE* Dans l’espace mythique de cette bande de terre qui fut la Phénicie, terre de commerçants navigateurs, où se rencontrèrent les Egyptiens, les Persans, les Grecs et les Romains appelée aujourd’hui Liban, au temps fabuleux d’une terre ouverte à toutes les influences, la ville de Byblos, actuellement Jbeil, s’encastre le long de la côte comme l’un des lieux les plus convoités par les Croisés. Ici, aux environs de l’année 1101/1102 abordèrent les Génois des Embriaci en fondant une dynastie qui vécut pendant de longues années enracinée toujours plus à une terre où le féodalisme européen avait transféré en partie ses propres systèmes et sa propre mentalité, en se greffant et en s’adaptant à l’établissement islamique qui à son tour reposait sur une forte installation romaine.1 Dans l’agglomération qui, au temps des Croisades devait être plus limitée que la ville phénicienne, mais aussi que celle romaine, les Génois trouvèrent une très grande quantité de restes romains en ruines, coupés et éparpillés, mais avec certaines parties qui avaient été respectées car probablement elles avaient été réutilisées. Jbeil à l’époque des Croisés fit partie du comté de Tripoli et les Embriaci ayant aidé Raymond de Saint-Gilles en 1102 dans la prise de Tortosa, obtinrent grâce à l’aide donnée, le territoire de Jbeil en fief, le 23 avril 1104, territoire qui appartenait à la famille arabe des Banu-Ammar.2 La ville, qui s’était déplacée vers le Nord-Ouest pendant son installation arabe en laissant peut-être le Forum romain dont il reste quelques colonnes au centre de la ville, fut habitée par les Croisés dessinant une zone quadrilatère entourée de remparts avec des tours rectangulaires en voussoirs. Les côtés est-nord et ouest ont des remparts qui entourent l’agglomération et abritent le port courbé et protégé par deux rochers qui se penchent vers le large, à l’extrémité desquels il y avait deux tours de défense du passage et dont il reste celle de l’extrême ouest où arrive une demi-lune qui sert de long et petit quai. Les Croisés dans la zone réparée du terrain, environ au Sud-Est, construisent le château (fig. 1) sur les structures des phéniciens et romains préexistantes et appartient à une typologie de fortification romane: un puissant donjon entouré par une enceinte et un fossé.3 La date d’une première construction sur une fortification préexistante semble être sûre. La grande tour, avec ses m 4 d’épaisseur, est l’une des plus belles structures construite par les croisés au début de leur occupation. Si, comme il semble, il fut érigé en 1104, il résulte être l’un des plus anciens arrivés jusqu’à nous.4 Les murages sont en grands blocs à bossage qui répètent également dans la courtine extérieure des remparts. Ne pouvant ici tenir compte de * Testo della Conferenza tenuta a Jbeil nel 1997 nell’ambito del progetto Elissa. Il saggio e le note sono conformi al dattiloscritto conservato a Genova, Biblioteca Universitaria, Archivio Conti 3/31, con le foto in 3/34 e 2/49. La traduzione in francese si deve a Joséphine Figaroli Nadotti, che qui si ringrazia. 1 Cfr. ENLART 1925-1928, vol. I, pp. 116-124; PRAWER 1972, passim; SALAME SARKIS 1983, pp. 129-142; DUNAND 1973, vol. V, passim; LAWRENCE 1988, passim. 2 Cfr. DESCHAMPS 1991 (ma 1964), pp. 174-176. 3 Pour le château Cfr. DESCHAMPS 1991 (ma 1964), pp. 174-175. 4 Plus ou moins contemporain à celui de Tripoli. – 83 – tous les sites où la pratique de la récupération s’est vérifiée, je considère suffisant prendre en examen la zone de Byblos avec de petites références à Tripoli. L’analyse et l’examen des structures ainsi que des caractéristiques architecturales de la forteresse sont négligés ici, car ils ne sont pas de notre pertinence ni étroitement inhérents au problème que nous voulons proposer, problème de grand intérêt sous deux aspects tous les deux non soulignés comme ils méritent dans la littérature relative: le premier rentre dans un tableau plus vaste et général où se vérifient, et nous en donnerons quelques exemples, des récupérations de types différents; un second qui, à l’intérieur d’une opération de récupération et dans le panorama constructif des systèmes de la maçonnerie représente pour les occidentaux une innovation. Au-delà des tremblements de terre, des occupations et abandons qui s’alternent rapidement en détruisant et abîmant une grande partie de la ville y compris les remparts, les murages de la forteresse restent fondamentalement en bonnes conditions. Habitués à une architecture rigoureusement constituée de pierres locales ou de briques là où ils pouvaient réutiliser les murages romains encore intacts, les Croisés doivent faire les comptes avec une édification où les matériaux sont différents et la main d’œuvre, naturellement locale, est habituée à des techniques différentes: ceci en définitif ne fut pas un mal.5 Auprès des colonnes romaines remises debout sur l’acropole centre sacré de toutes les cultures libanaises, un sarcophage phénicien, souvenir d’une plus ancienne histoire architecturale témoin d’une construction, peut-être un temple romain, Jbeil offre la possibilité et la chance d’observer soit la maçonnerie à Est qu’à Ouest du château, soit celle de la tour résiduelle sur le quai. Les Croisés ont utilisé du matériel provenant des édifices plus anciens et une technique qui remonte à une ancienne utilisation de zone orientale, d’après nos recherches spécifiques. Dans la maçonnerie à bossage sont insérés transversalement, dans l’épaisseur des murs, à intervalles réguliers et calculés, des fûts de colonne (fig. 2) . Le système se répète dans la tour du quai où, en plus d’autres parties insérées, sarcophages et plaques de marbre (fig. 3) reviennent les colonnes comme disent les français en boutisse (fig. 4).6 Dans la tour côté mer (fig. 5), I’occasion d’observer la façon dont étaient utilisées les colonnes est de grand intérêt: aux fondations, au fil de l’eau elles étaient insérées peu écartées l’une de l’autre pour opposer au mouvement ondulatoire une base robuste, mais beaucoup plus élastique. Au fur et à mesure que nous passons aux registres supérieurs, les colonnes se rangent régulièrement de façon désaxée (fig. 6) Le même système est visible dans les remparts extérieurs au Nord. Tel procédé n’appartient pas à l’architecture croisée; elle l’assimile et l’utilise l’ayant trouvé en zone orientale, Syrie et Asie Mineure.7 Dans la zone, la quantité de colonnes est très élevée, les ouvriers locaux connaissent telle technique de façon exemplaire et il ne reste aux Francs qu’à les apprécier car ils se rendent compte de la fonction multiple de telle technique.8 Afin d’évaluer dans la juste importance tel système, il faut observer comment sont insérées les colonnes: normalement elles sont introduites au centre de quatre voussoirs ou claveaux unis qui auront ainsi les relatives arêtes arquées (fig. 7). Le concept de base est que la structure circulaire de la co- 5 Cfr. PRAWER 1972, passim, et traduction de Franco Cardini en 1982: Prawer souligne aussi une autre caractéristique de la situation architectonique lorsque à p. 348 il dit: Essi [i Crociati] entrarono in contatto diretto con la scienza delle fortificazioni arabe, ch’erano spesso originariamente bizantine, recuperate. 6 Cfr. MARINO 1987, pp. 259-ss.; MARINO 1991, passim. 7 Nous trouvons des exemples excellents à Bosra et en Asie Mineure, d’époque peut-être, plus tardive à Side et Ankara. 8 Cfr. ici note 6. – 84 – lonne prendra la fonction d’un arc sur lequel les voussoirs déchargent leur propre poids dans un jeu de renvoi de poussées et de butées de grand statisme. Statisme produit par des corps de forme et consistance particulièrement adaptés à rendre la partie élastique, garantie antisismique dans une terre exposée aux tremblements de terre destructifs. En même temps ces procédés, comme nous pouvons observer à Tripoli dans la Tour des Lions et à Bosra dans la Forteresse, obtiennent souvent un résultat esthétique qui effleure la perfection. Dans la réfection de la partie intérieure du mur qui entoure le port de Jbeil on a observé le même procédé: restaurées en temps brefs, les colonnes ont été remises pour uniformité, mais on n’a pas atteint certainement le même soin. Jbeil n’est pas le seul lieu libanais à connaître la récupération des plus anciennes pièces, une récupération de pure utilisation, au niveau de signe d’antiquité peut se trouver dans tout le Liban; nous nous arrêtons seulement sur certains sites. En fonction portante, donc, en conservant sa nature, nous rencontrons une colonne à l’intérieur de la mosquée de Taynâl à Tripoli (fig. 8), suivie dans la même fonction par les colonnes avec chapiteau réemployées dans la Mosquée de Baalbek, tandis qu’un chapiteau corinthien est accidentellement abandonné sur la saille d’un toit sans aucun signalement de n’importe quelle volonté de fonction ou d’art. En revenant au système de la maçonnerie à blocs bossés et à colonnes en boutisse, on ne peut pas ignorer le bijou qu’est la Tour des Lions de Tripolis (fig. 9).9 En position aussi élevée, aérée et dominant le Château de Tripoli10 conserve certaines parties avec des colonnes insérées où, parmi de nombreux événements de destructions et de reconstructions, la paroi extérieure d’entrée, en bas peut remonter aux flancs, mais peut sûrement avoir été reprise par les Mameluks (Xe-XIVe siècle) confirmant la genèse orientale de telle pratique (fig. 10). Genèse certainement pas facile à reconstruire. Deux villes de la Syrie viennent à notre rencontre; I’utilisation provoquée peut-être, par un cumulus de colonnes utilisé à Palmira pour tamponner une ouverture ou une colonnade, pratique que les Arabes ont souvent utilisé, s’organise et règle de façon méditée, calculé dans le mur périmétral, sur les côtés sud et ouest du temenos du temple de Bel. L’aménagement des parties du mur détruites, à miroiteries remplies de colonnes posées les unes sur les autres en position régulière, mais alternée, démontrent que justement les Arabes comprirent l’utilité de ces colonnes qui ne leur disaient rien entre autre.11 A partir, de cet exemple tenu à niveau simple et exclusivement fonctionnel, on passe à la grande maçonnerie interrompue de la Forteresse de Bosra, visible extérieurement; la ville de pierre sombre, presque noire que les Arabes protégèrent et s’approprièrent en fortifiant le Théâtre avec de puissants et complexes murs et contreforts, conservant à l’intérieur l’un des plus beaux théâtres de la Syrie romaine et protégeant la ville, de particulière importance sur la route des caravanes. La maçonnerie est parfaite dans l’installation des colonnes, mais elle va outre; ces dernières sont insérées toutes les deux en trois rangées de blocs en bossage. Dans les arêtes des murs remarquablement articulés, un segment de colonne alternativement plus et moins long, recoupé dans le sens de Pour Tripoli confronter MARINO 1992, p. 102. Cfr. SALAMÉ SARKIS 1983, pp. 129-142 11 Cfr. SEYRIG, AMY, WILL 1975, pp. 22-60, 155-ss. A la page 69 de la guide du T.C.I. on souligne justement que le sanctuaire dédié à la Triade Palmyrène occupe la partie de l’acropole réutilisée dans l’VIIIe et XIIe siècle par les Arabes qui réutilisèrent l’enceinte périmétrale. La paroi ouest reste originale. Cfr. MICHALOWSKI 1960, pp. 70-71, p. 111, fig. 121 on voit bien le mur avec colonnes accumulées. Voir aussi BROWNING 1979, passim, fig. 3; sur les défenses arabes de Palmira voir aussi GAWLIWOSKI 1974, p. 231. 9 10 – 85 – la longueur, spécialement, marque l’arête et entre l’un et l’autre est posée transversalement une colonne de diamètre supérieur aux autres, suivie par un bref voussoir courbé.12 Le résultat arabe, influence forte au Liban et en Syrie en général et à Jbeil en l’occurrence, dans l’architecture franque, les châteaux et les fortifications chrétiennes dominent jusqu’à intéresser aussi les petites, proviennent du site même car elles se dressent souvent sur de petits temples romains, parmi lesquels l’église de Mâr Taqla à Châmât est l’exemple remarquable qui montre aussi devant l’édifice un chapiteau ionien (fig. 11).13 Le cadre proposé est circonscrit à un centre particulier du Liban, apte à démontrer comment dans une zone où la disponibilité de matériel de construction est locale, de nature calcaire, facile à l’érosion, les constructeurs aient utilisé par nécessité, mais aussi par convenance, des matériaux anciens provenant à l’origine, d’autres zones. La disponibilité de matériaux sur le lieu, dans ce cas les colonnes, facilite aussi le transport de matériaux qui devient, de cette façon, nul; tacitement suggérant au même moment dans quelle mesure, dans une zone pauvre de marbres, devaient être difficiles les transports de matériaux lourds. Cfr. Bosra… 1975, pp. 42-ss. Traiano la colonie érigée en l’an 106 après J.C. Citadelle érigée par les Arabes entre le Xe et XIIIe siècle, autour du théâtre romain, avant par les Fatimides, après par les Ayyubides, Cfr. DE VOGUE 1865-1877, vol. I, p. 40, t. 5; ABEL 1956, pp. 95-98; GUALANDI 1975, pp. 187-239; FARIOLI CAMPANATI 1989, pp. 45-215; FARIOLI CAMPANATI 1992, pp. 665-667; CUNEO 1986, pp. 668-ss. D’autres livres et publications peuvent être indiqués, parmi lesquels cf. FREZOUL 1952, pp. 46-70. 13 Les petites églises ont été étudiées par Marina Cavana (cfr. CAVANA 2002, pp. 455-462). 12 – 86 – Fig. 1 – Jbeil, castello crociato detto degli Embriaci (foto: M. CAVANA) Fig. 2 – Sidone, castello a mare (foto: G. CONTI) – 87 – Fig. 3 – Jbeil, mura della città, particolare (foto: M. CAVANA) – 88 – Fig. 4 – Sidone, castello a mare (foto: M. CAVANA) Fig. 5 – Jbeil, torre crociata a difesa del porto (foto: M. CAVANA) – 89 – Fig. 6 – Jbeil, castello crociato detto degli Embriaci, particolare (foto: M. CAVANA) Fig. 7 – Jbeil, mura del porto, particolare (foto: M. CAVANA) – 90 – Fig. 8 – Tripoli di Siria, moschea di Taynâl, particolare (foto: M. CAVANA) Fig. 9 – Tripoli di Siria, Torre dei Leoni, particolare (foto: G. CONTI) – 91 – Fig. 10 – Tripoli di Siria, la Cittadella, particolare (foto: G. CONTI) Fig. 11 – Châmât, chiesa di Mâr Taqla, particolare (foto: G. CONTI) – 92 – RECUPERO A GENOVA: PORTALI CON EROTI* Ai portali dei palazzi di Genova viene affidato il compito di veicolare un messaggio che, fondamentalmente simile, si aureola di sfumature diverse e molteplici. Il veicolo risiede nel motivo scolpito sull’architrave dal secolo XV in poi.1 Se i tondi con teste imperiali e no sull’architrave e sugli stipiti hanno trovato il modello nelle monete e nelle medaglie antiche che circolavano in Genova, in un panorama antiquario quattro-cinquecentesco,2 alcuni portali di cronologia non pienamente precisabile, ma certamente distribuiti nella prima metà del secolo XVI , presentano una iconografia a tutta prima inusuale in Genova, stante anche gli elementi del motivo e la natura dell’immagine non narrativa, né episodica, né allusiva, abituali invece in quelli con l’Annunciazione, con San Giorgio e il drago, con il Trionfo e quelli con le Panoplie.3 I primi sono numericamente limitati e tipologicamente riservati a una iconografia rara nel panorama italiano. Essi si trovano in vico dietro il Coro delle Vigne4 (fig. 1), via della Maddalena5 (fig. 2), vico di Porta Nuova6 (fig. 3) e, unico in marmo, quello in via delle Grazie7 (fig. 4). L’iconografia rappresenta due Putti affrontati, sospesi in volo orizzontale e reggenti una tabella inscritta o uno stemma gentilizio o religioso. All’estremità possono o no trovare posto due panoplie di minute dimensioni.8 In prima istanza ci si chiede se si tratti di un motivo originale o proveniente da preesistenti iconografie. Ne deriva il domandarsi anche, quale che sia la sua genesi, il livello semantico e la sua forza significativa: quale tema nasce o è celato dietro di esso. Non motivo originale; il pensiero corre a un recupero fiorentino ove Donatello copiava e studiava i sarcofagi romani, conscio dell’importanza e della varietà delle iconografie rappresentate. Non conosco in Firenze e comunque in terra toscana un recupero di questa iconografia se non in artefatti minori. È noto però in Milano, conservato nel Museo di Arte Antica del Castello Sforzesco, un portale in marmo, ricco di ornamentazioni, che mostra sull’architrave il motivo degli Eroti in volo (fig. 5). Il manufatto – ingresso monumentale del Banco Mediceo in Milano, retto da Pigello Portinari (il nome è trasparente) – fu commissionato da Cosimo de’ Medici, nel 1462 a Michelozzo di Bartolomeo Michelozzi, secondo Il presente contributo è pubblicato dopo la scomparsa dell’Autrice. La revisione del testo è stata effettuata in sede di bozze di stampa da alcuni collaboratori che presentano l’edizione ampliata da Graziella Conti della relazione presentata alle Giornate di Studio, Romana Pictura e Christiana Signa. Due mostre a confronto. Arte figurativa in Liguria fra età imperiale e altomedioevo, Genova, 12-13 dicembre 1998 (cfr. Romana… 2003). 1 Il quadro degli studî sui portali è ricco e la bibliografia in merito nutrita, per questo si rimanda al lavoro della scrivente cfr. CONTI 1995. 2 Cfr. BEDOCCHI MELUCCI 1988, p. 63; DI PIETRO 1987, pp. 11-38. 3 Cfr. CONTI 1995. 4 Civ. n. 43 r. Iscrizione sulla tabella «INTROSPICI [?] ET IUDICA». 5 Civ. n. 39 r. Iscrizione sulla tabella «OLIVAR(UM) NOVELLA». 6 Civ. n. 3. Cartiglio con il Monogramma Mariano applicato in un secondo tempo. 7 Civ. n. 19. Stemma con arma araldica (?) inscritto in cartiglio mistilineo. 8 Cfr. CONTI 1995, p. 71, note 28-29. * – 93 – quanto è attribuito da Giorgio Vasari nella redazione del 1568 delle sue Vite.9 Facile pensare a un modello utilizzato in Toscana, ma innestato in terra lombarda. Non si può quindi escludere un influsso lombardo su Genova, influsso tante e tante volte presente; l’esistenza di uno schema rinascimentale è assodata, ma il motivo è di ben altra antichità. Si trova molto frequentemente, oserei dire esclusivamente su una categoria di sarcofagi antichi con Eroti clipeofori, dalla fine del secolo II d.C. al III e oltre.10 La sua collocazione non è costante; si trova tanto sulle casse dei sarcofagi – e sono i più numerosi – quanto sui coperchî. All’interno della categoria descritta si individuano alcune varianti: in una gli eroti hanno il volto girato all’indietro, in una seconda sono rivolti verso il clipeo o la tabella, proponendosi in questa posizione in numero limitato. In area narbonense lo schema geometrico standardizzato manca, sostituito dalla variante in cui la gamba a vista è abbassata rispetto a quella dietro, in una iconografia tipica e particolare di quest’area; un sarcofago è conservato ad Arles, al Museo Archeologico (fig. 6) e uno, con coperchio non pertinente, nella chiesa di Sant Honoré al Musée des Alyscamps.11 Conferma la vitalità e persistenza di questo schema la presenza di due coperchi di sarcofago provenienti da Narbonne e conservati nel Musée Lapidaire della stessa città (inv. 1625-1626). Essi reggono, come fossero posti con una torsione di 90°, una vera e propria imago clipeata, segno ormai sicuro di elevazione all’immortalità e al cielo. Parallela a questa tipologia riscontriamo quella, sotto molti aspetti analoga, in cui gli Eroti sono sostituiti da Vittorie, figure femminili alate, che conducono a un discorso forse simile, ma da indagare nella sua specificità.12 Il motivo degli Eroti in volo che reggono il clipeo, ora con Medusa (fig. 7), più spesso con l’immagine del defunto, evoca il concetto dell’apoteosi, del trasporto in un mondo ultraterreno che si circonda di molteplici altri personaggî, personificazioni e simboli, ognuno legato a concezioni temporali, cosmiche e religiose, le quali determinano sfumature e dettagli particolari di grande incidenza. Tale iconografia, così presentata, attraversa nello schema base molti secoli, fino a giungere ai periodi cristiani e, successivamente ai secoli Oggi, però, la critica è propensa ad attribuire il manufatto a Filarete (n.d.c.). Cfr. BRANDENBURG 1967, p. 196. Per il sarcofago di villa La Pietra, Firenze cfr. BRANDENBURG 1967, pp. 225-226, nota 92, fig. 11. Per questi cfr. KRANZ 1984, sch. 96, tav. 60; cfr. ancora KRANZ 1984, p. 226, fig. 12 (Roma, Museo Nazionale), p. 227, fig. 13 (Roma, Museo di San Sebastiano), tutti datati al secolo III d.C.; sempre in KRANZ 1984, sch. 102, tav. 63 (presso il Colosseo), sch. 107, tav. 60 (palazzo Sacchetti), sch. 104, tav. 62 (palazzo dei Conservatori), sch. 105, tav. 62 (palazzo della Cancelleria), sch. 112, tav. 62 (viale Regina Margherita), sch. 106, tav. 63 (palazzo Merolli), sch. 100, tav. 63 (catacombe di Prestato), sch. 110, tav. 63 (Santi Quattro Coronati), sch. 111, tav. 63 (via Canova), sch. 114, tav. 63 (Città del Vaticano, camposanto Teutonico), sch. 113, tav. 61 (villa Doria Pamphilj). Cfr. anche KOCK, SICHTERMANN 1982. Si ricorda quello murato nel duomo di Pisa, lato transetto a sinistra in alto per cui cfr. Camposanto… 1977 e uno proveniente da Perge conservato al Museo di Antalya (fig. 7), cfr. KOCK, SICHTERMANN 1982, n. 483, pp. 500-ss., fig. 483. Molti sarcofagi sono conservati a Parigi presso il Museo del Louvre e pubblicati da BARATTE, METZGER 1985, n. 124, Ma. 30 1, n. 213, MR. 877; n. 125, Ma. 388, 214 (datato fra 220 e 230 d.C.) con bibliografia; n. 126, Ma. 1628, 217 (secondo quarto del secolo III d.C.); se ne cita uno a Cagliari per cui cfr. NAITZA 1985, pp. 173-192; tavv. I, II-III, IV-V. Se ne annovera uno anche ad Algeri: cfr. KOCK, SICHTERMANN 1982, n. 340, pp. 312-ss., fig. 340. Con schema analogo, reso con tecnica ad abbozzo formale, ma con superfici levigate e contorni sfumati uno a Tunisi, Museo dei Bardo, Ia sala a sinistra entrando, per cui cfr. FOURNET PHILIPENKO 1961, p. 77. 11 Cfr. KOCK, SICHTERMANN 1982, n. 320, Arles, Museo Archeologico; cfr. ESPERANDIEU 1949-1955, vol. II, pp. 5, 1296; cfr. anche «Gallia», I-XVI (1907-1981), di cui è stato fatto un rapido spoglio. 12 Con Vittorie, tanto per citarne una: Roma, Museo Nazionale Romano, sarcofago di Neottolemo (coperchio), cat. 95, cfr. KOCK, SICHTERMANN 1982, n. 286. 9 10 – 94 – posteriori, ove tra le variazioni di stile che popoli e vicende impongono, acquisiscono anche diversi significati e riutilizzazioni di una scenografia in differenti contesti, come ad esempio, la lastra marmorea costantiniana al Museo Archeologico di Istanbul (fig. 8).13 L’intertestualità del tema è alta e basta un rapido excursus per rendersene conto. Da quello pagano – prendiamo ad esempio uno dei più significativi, un sarcofago del Museo Nazionale a Roma –,14 che svolge il tema dell’Apoteosi, di elevare agli onori dell’Olimpo il defunto per meriti particolari, solitamente militari, lo schema passa in secoli successivi, ove il soggetto diventa ovviamente cristiano. Si assiste fra i secoli IV e VI d.C. a una compresenza dei due ambiti, pagano e cristiano, portatori di diverso significato, pur in schemi simili. Per riferimento si vedano due bassorilievi del secolo V d.C. da Sohag: uno con la Nascita di Afrodite, l’altro con genii apteri stanti che reggono un Clipeo di lauro con al centro la Croce, quasi presentazione di una divinità ormai lontana a confronto con la concreta realtà del secondo rilievo. Le parole di André Grabar sottolineano e suffragano questa strada parallela dove Sculture analoghe scoperte in diversi punti dell’Egitto, attestano che l’arte… si sviluppò dalla metà del IV secolo fino alla conquista degli Arabi (640), tanto al servizio del paganesimo declinante, quanto a quello del Cristianesimo in piena forza.15 È necessario altresì puntualizzare in tale asserzione l’esistenza binaria di due iconografie che sembrano essere uguali, ma in cui la differenza, a tutta prima trascurabile, comporta una ricerca del significato ben diverso, anche in ambito omologo. Il secondo rilievo citato vede due figure maschili, aptere (nel caso è possibile pensare a genî o putti, presenti sempre sui sarcofagi e in bassorilievi classici come eroti), non in volo, stanti, con il viso rivolto in posizione frontale e reggenti il clipeo o meglio la corona con croce, che fa pensare all’imposizione concreta e forte di una immanenza divina piuttosto che a una ascensione carica di molteplici significanze.16 L’iconografia proposta, nel passaggio al Tardoantico e al Medioevo, mantiene il proprio ruolo, ma lo perde progressivamente nell’Alto Medioevo in cui assistiamo a una mutazione del significato e in certi casi alla giustapposizione di iconografie, tutte situazioni che modificano sostanzialmente il significato in quanto la mutazione determina un cambiamento di codice artistico-figurativo, incentrato su una diversa consistenza oggettuale: ci si riferisce ad esempio alla lastra di Quintanilla de las Viñas a Burgos (fig. 9), secolo VII d.C., ove gli Eroti non sono più eroti, ma non sono ancora propriamente angeli, e, meglio, all’altare di Ratchis a San Martino di Cividale del Friuli, col Cristo in Maestà.17 In parallelo si allinea a questa iconografia quella in cui le Vittorie sostituiscono gli Eroti; figure femminili alate, con veste discinta e svolazzante, diverse, o comunque non uguali, e solo apparentemente imparentate alle Vittorie pagane vere e proprie presenti su monumenti greci e romani di natura privata e soprattutto pubblica.18 Differenza d’aspetto, ma anche Cfr. VOLBACH, HIRMER 1958, p. 25, fig. 75. Cfr. KOCK, SICHTERMANN 1982, n. 282, pp. 238-ss., fig. 282. 15 Cfr. GRABAR 1966, p. 245; per i rilievi cfr. EFFENBERGER 1975, figg. 24-25; GRABAR 1966, p. 242, figg. 274275 (da Sohag, oggi a Il Cairo, Museo Copto), p. 244, fig. 277 (un capitello da Ahmas el-Medineh, oggi a Il Cairo, Museo Copto), p. 245, fig. 279 (da località ignota un frontone con Dioniso che guida un cocchio, attualmente conservato a Washington, collezione Dumbarton Oaks), p. 244, fig. 278 (proveniente da Bawit, architrave con ‘Angeli’ che reggono Cristo in Maestà, oggi a Il Cairo, Museo Copto). 16 Rinvio a un mio contributo in corso di studio [Purtroppo lo studio non è stato completato, né ha visto la luce (n.d.c.)]. 17 Cfr. HUBERT, PORCHER, VOLBACK 1986, pp. 86-87, fig. 102; per l’altare di Ratchis (734-737) a Cividale del Friuli cfr. GIOSEFFI 1977, fig. 16, sul lato del Cristo in mandorla retta da angeli, l’ascensione nella mandorla discende dalle fonti scritturali dell’Apocalisse. Per Cristo in Maestà portato da angeli cfr. anche nota 12 e un’ampolla di Terra Santa con l’Ascensione; conservata a Monza, Museo del Duomo (fig. 10), cfr. MERATI 1963, p. 15, fig. 11. 18 Vedi le Vittorie sui sarcofagi, sugli archi onorarî, nella Colonna di Traiano a Roma o quelle tarde nella base della 13 14 – 95 – differenza semantica della figura. Restando in ambito pagano possiamo definire genericamente tali rappresentazioni come Vittorie, ma se passiamo a monumenti o periodi cristiani, la determinazione di Vittorie non è sempre chiara e appropriata, tanto che opportunamente si usa come comoda scappatoia il termine genio o genio alato.19 Un esemplare di Istanbul, sarcofago con Eroti-Angeli reggenti il Chrismon, di epoca costantiniana, comporta la presenza del motivo in oggetto, disegnato in forme di recuperata e realizzata classicità sorrette dal ‘credo’ cristiano che si focalizza nel tondo con il Segno costantiniano del Cristo.20 Già dal secolo V le figure femminili, Vittorie o genî, assumono, soprattutto nel linguaggio di parte greca, la definizione di angeli, anche se alla radice della figurazione è piuttosto trasparente la matrice pagana; uno degli esempî, che ritengo, più convincenti si trova nell’arte copta. In un tessuto copto della fine del secolo V d.C. , due Vittorie reggono una Corona di fiori e foglie con Croce gemmata al centro (fig. 12).21 L’iconografia è tipica delle vittorie clipeofore dei secoli III-IV d.C., di ambito siriaco, uguali a quelle di un sarcofago in pietra scura del Museo di Damasco; ma l’abito più raccolto e soprattutto il diadema gemmato conducono alla figura angelica, non più eroti o vittorie, non ancora pienamente angeli, ma sempre più vicini a questi ultimi così definiti a pieno titolo dalla fine del secolo VI in poi. Come già nel lontano 1928 Louis Brèhier confermava.22 I portali genovesi fregiati da tale iconografia, nello scarso numero, assumono una connotazione certo singolare e ci si chiede quale sia stata la fonte dell’immagine e in quale luogo questa sia stata vista e utilizzata dai committenti in situ. Il tessuto antico locale non permette molti stimoli e ispirazioni, ma alcuni manufatti reimpiegati in edificî nel Medioevo offrono il modello indiscutibile da seguire e imitare. In Genova, nel portale di destra di Santo Stefano, una fronte di sarcofago con Eroti è stata inserita nella lunetta gotica rendendo necessario lo stondamento della lastra. I due eroti del tipo più comune, con le gambe divaricate a forbice in uno schema quasi geometrico, reggono un drappo su cui campisce una Figura femminile velata e stante.23 Un secondo analogo compare nell’abbazia di Sant’Andrea a Genova Sestri ove però la figura è a mezzo busto e maschile. Gli eroti sono somiglianti, ma la gamba sinistra è leggermente flessa con un risultato meno rigido.24 Sempre a Genova un terzo, murato nella lesena del campanile di San Lorenzo sul lato del portale sud di San Gottardo, pur discostandosi leggermente, è dello stesso tipo (fig. 14).25 Colonna di Arcadio sul lato est con Vittorie che reggono una Tabella con Croce (cfr. DELBRUECK 1929, p. 15, fig. 8); si può osservare anche il lato ovest con Vittorie-Angeli che reggono una Corona laureata con Croce (cfr. DELBRUECK 1929, p. 14, fig. 7) e il lato sud con Corona laureata con Chrismon alfa e omega (cfr. DELBRUECK 1929, p. 13, fig. 6). 19 Per esempio la parte superiore del dittico di Saint-Lupicin, Parigi, Biblioteca Nazionale, assegnato al secolo VI ove l’aspetto femminile o maschile è incerto, cfr. GRABAR 1966, p. 294, fig. 338. Ugualmente si può indicare il fregio di un notissimo dittico costantinopolitano oggi a Parigi, Museo del Louvre, detto Avorio Barberini (fig. 11), cfr. GRABAR 1966, p. 279, fig. 319; BRÉHIER 1973, pp. 70-71, tav. XXIV. Qui le figure fisicamente femminili hanno volti imprecisabili, comunque, ben diversi dalla Vittoria con Palma che si trova a lato in alto dell’ imperatore. 20 Già più definiti gli Angeli di una fronte di sarcofago conservato presso il Museo Archeologico di Istambul, della metà del secolo IV d.C. (fig. 8), per cui cfr. VOLBACK, HIRMER 1958, p. 25, fig. 75; GRABAR 1966, p. 228, fig. 255. 21 Londra, Victoria and Albert Museum, su cui cfr. BRÉHIER 1928, pp. 86 e 87, fig. J2.; vedi anche una tappezzeria con Geni Volanti, ma in realtà ‘angeli’ a New York, Metropolitan Museum (fig.13), cfr. GRABAR 1966, p. 328, fig. 385. 22 Cfr. BRÉHIER 1928. 23 Cfr. DUFOUR BOZZO 1967, sch. 29, pp. 53-54, tav. 16, n. 29. La figura centrale desta molte perplessitá, ma non è possibile un’analisi più approfondita. Considerando la tipologia dell’abito e l’interezza della figura si potrebbe trattare anche di un intervento secondario. 24 Cfr. DUFOUR BOZZO 1967, sch. 31, pp. 55-56, tav. 20, n. 31. Il volto molto eroso del defunto impedisce una lettura assolutamente sicura. 25 Cfr. DUFOUR BOZZO 1967, sch. 13, pp. 38-39, tav. 7, n. 13, lato sud, lesena del campanile, tredicesima fascia – 96 – Qui gli Eroti sono del tipo di Sestri, ma accompagnati in volo parallelo da due Vittorie che sembrano rivolgere con la mano, verso di sé, i volti degli eroti, come per baciarli. L’acconciatura delle Vittorie a melone allungata, con crocchia alla sommità, può datare il sarcofago alla fine secolo III-IV. L’aggiunta delle vittorie sottolinea e arricchisce il significato: i genî sollevano in volo il defunto in una apoteosi in cui il gruppo di Eros e Psiche – ai lati – non dimentica la concretezza del defunto, uomo formato di anima e corpo, dove i Genî baciati da Vittorie sollevano la scenografia a livello pressoché trionfale in una immagine allusiva alla grandezza militare del personaggio. Se nel Medioevo il recupero e reimpiego dei sarcofagi interessa edificî religiosi, di cui uno è la chiesa metropolitana, assistiamo a un reimpiego di accettazione religioso-cattolica, ove l’anima del defunto viene elevata in cielo, perdendo in parte o in tutto, il significato funebre-celebrativo della loro origine. Si ricorda in proposito anche il significato, forse secondario, ma non meno importante, di utilizzare l`antico come elemento nobilitante e tesaurizzatore. A distanza di qualche secolo, mediato certo dal Medioevo che diventa matrice, il motivo viene riproposto sui portali cinquecenteschi dei palazzi gentilizî, si risemantizza e, tramandato dal Medioevo che lo ha conservato, si laicizza pur in una fragilissima aureola religiosa mai assente del tutto nel capoluogo ligure. Dalle chiese passa ai palazzi, ove il tema resta omologo all’antico e ne conserva sostanzialmente la valenza, riconducendosi all’elevazione, alla fama e alla gloria del committente: questo spiegherebbe la presenza in alcuni (via della Maddalena e vico dietro il Coro delle Vigne) di piccole panoplie, memoria discreta di vittorie vere o presunte. Nella ricerca di una notazione iconografica da esibire sul portale del proprio palazzo, committenti e maestranze hanno preso lo spunto dalle chiese protoromaniche genovesi, dove vivevano questi antichi inserti e che certo essi conoscevano sia in Genova sia probabilmente in altri centri italiani ricchi di sarcofagi interi e come tali conservati ed esposti.26 È doveroso ripetere che, in parallelo a un modello in loco, abbia influito anche un recupero quattrocentesco presente in altre aree italiane di maggiore e precoce sensibilità all’antico;27 da un codice medievale a connotazione nobile e religiosa a un codice cinquecentesco, nobile e laico, che si muove tra immagini antiche e pur sempre ambigue. dopo lo zoccolo inferiore. 26 Cfr. Camposanto… 1977. 27 Oltre al portale del Banco Mediceo citato, si puó osservare in termini di minore evidenza e senza alcun intento di esaustività la Tomba di Leonardo Bruni di Bernardo Rossellino e la nicchia dell’Incredulitá di San Tommaso de il Verrocchio in Orsanmichele a Firenze. – 97 – Fig. 1 – Genova, vico dietro il Coro delle Vigne 43 r, architrave (foto: D. CALCAGNO) Fig. 2 – Genova, via della Maddalena 39 r, architrave (foto: MORELLI) Fig. 3 – Genova, vico di Porta Nuova 3, architrave (foto: MORELLI) Fig. 4 – Genova, via delle Grazie 19, architrave (foto: MORELLI) – 98 – Fig. 5 – Milano, Museo di Arte Antica del Castello Sforzesco, portale del Banco Mediceo (foto: M. CAVANA) Fig. 6 – Arles, Museo Archeologico, sarcofago (disegno: S. CANEPA) – 99 – Fig. 7 – Antalya, Museo Archeologico, sarcofago (da: KOCK, SICHTERMANN 1982, fig. 483) Fig. 8 – Istanbul, Museo Archeologico, sarcofago (da: VOLBACH, HIRMER 1958, fig. 75) – 100 – Fig. 9 –Quintanilla de las Viñas, chiesa di Santa Maria, fregio (da: HUBERT, PORCHER, VOLBACH 1968, p. 87, fig. 102) Fig. 10 – Monza, Museo del Duomo, ampolla (da: MERATI 1963, p. 15. fig. 11) – 101 – Fig. 11 – Parigi, Museo del Louvre, pentadittico detto “Avorio Barberini” (da: BRÉHIER 1973, tav. 24) – 102 – Fig. 12 – Londra, Victoria and Albert Museum, tessuto copto (da: BRÉHIER 1928, fig. J2) Fig. 13 – New York, Metropolitan Museum, tappezzeria (da: GRABAR 1966, p. 328, fig. 385) – 103 – Fig. 14 – Genova, cattedrale di San Lorenzo, sarcofago (foto: D. CALCAGNO) – 104 – STUDÎ IN ONORE DI GRAZIELLA CONTI – 105 – – 106 – SPAZIO CIVILE A BAALBEK: LA COSIDDETTA BASILICA Rosanna Muratore La cosiddetta basilica di Baalbek1 si trova nella zona di Bostan el Khan a Sud-Ovest dei grandi santuarî, nei pressi di una possente colonna onorifica che sostiene una statua.2 L’edificio sorge in una zona prossima alla strada della Bequaa e nelle vicinanze di un fiumiciattolo che convogliava l’acqua dai pressi del cosiddetto tempio di Venere alle cisterne poste a Ovest della cosiddetta basilica,3 come si evince dall’ipotesi ricostruttiva qui avanzata (figg. 1-2). Sul terreno restano un gran numero di frammenti di basi, colonne, cornici architettoniche e architravi:4 molti sono pertinenti alla fabbrica in esame mentre altri sono relativi a monumenti diversi. Nella zona a Nord si individuano tracce di alcuni edificî connessi alla cosiddetta basilica. Esiste, inoltre, un’area lastricata in pietre scalpellate delimitata da muri in pietra: al suo centro è una zona rialzata con quattro colonne, a fusto liscio e rastremato, su base costituita da semplici blocchi cilindrici appena sbozzati, la pavimentazione è in cocciopesto. Restano anche tracce di un ambiente circolare con quattro nicchie concave e quattro vaschette: molto probabilmente si tratta dei resti di un piccolo vano termale o laconicum. A Sud-Ovest , invece, sono visibili le tracce di un piccolo teatro, forse buleoterion, di cui restano alcune parti della cavea. Gli scavi della cosiddetta basilica non hanno restituito il complesso in maniera chiaramente leggibile; nella zona sono presenti numerosi resti architettonici, alcuni dei quali sono stati recuperati/restaurati in modo puramente casuale.5 Non esiste una pianta della basilica di Baalbek, né ci si può attenere a studî che descrivano minuziosamente la zona in questione. Dai resti in situ è possibile ricavare le tracce più evidenti che caratterizzano l’edificio.6 In primo luogo attrae l’attenzione un grande arco di Questo studio è stato pensato e iniziato grazie ai preziosi consigli e alle indicazioni puntuali di Graziella Conti. Quanto si presenta in questa sede sono solo le prime considerazioni e i risultati preliminari di una ricerca. Alcune diapositive relative alla cosiddetta basilica di Baalbek sono conservate a Genova, Biblioteca Universitaria, Archivio Conti, 2/6, 2/49. Numerose informazioni sul monumento in questione mi sono state fornite da Marina Cavana. 2 Cfr. REY-COQUAIS 1976, p. 382. La città è situata a m 1170 s.l.m. tra le montagne del Libano a Ovest e quelle dell’Antilibano a Est, nella pianura della Bequaa, tra i due fiumi Oronte a Nord e il Leontes a Sud (cfr. CASTAGNOLI 1956, p. 1137; DUSSAUD 1942-1943, p. 48; CRUIKSHANK DODD 1991, pp. 819-820). 3 Cfr. CONTI in questo volume. 4 La zona fu interessata anche da diversi fenomeni sismici (cfr. HITTI 1957, p. 332). 5 Sul monumento in questione non esiste una bibliografia specifica perché tale zona non fu scavata dalla scuola tedesca, come per il resto di Baalbek, ma dall’allora direttore alle Antichità libanesi, Kalajan, che non ne fece oggetto di studio, ma solo di sterro e di restauro. Cfr. KEMPINSKI, AVI YONAH 1977, pp. 131-133, 136-138, 152157; CHAMPDOR 1959. 6 Dall’esame di alcune foto storiche della cosiddetta basilica è possibile evidenziare alcuni elementi di fondamentale importanza: la zona si presenta come un indistinto ammasso di rovine, in alzato restano le sole dodici colon- 1 – 107 – ingresso al complesso monumentale (fig. 3). L’arco poggia su un capitello corinzio che a sua volta è situato su di una colonna.7 Seguono due grandi pilastri a lesene angolari8 che rappresentano l’inizio di una grande via colonnata.9 Le basi si presentano di due tipi: il primo a base composita è costituito da una sola scozia fra due tori liscî, il secondo è formato da una scozia e da un toro liscio. Entrambe le basi sono utilizzate nel grande colonnato est-ovest senza una precisa scansione e supportano sia colonne sia pilastri.10 Le colonne sono in calcare marmoreo11 e si presentano costituite sia a fusto intero sia composte da più rocchi sovrapposti. I fusti e i rocchi sono liscî, hanno un tondino all’imoscapo e uno al sommoscapo. I capitelli sono corinzî.12 Della prima parte del colonnato restano dodici colonne. Nell’intercolumnio centrale compare un grande arco siriaco e a latere sono due muri che terminano con pilastri in cui trovano posto nicchie con una decorazione scolpita. Una seconda porzione di colonnato è presente a Sud interrotta da una parte in muratura con una porta ornata da una cornice e da due marcapiani ai lati. La fabbrica, lungo il lato est, era divisa in ambienti: di questi si può avere un’idea sia dalle tracce pavimentali sia dalla trabeazione i cui resti sono, purtroppo, esigui. La trabeazione doveva collegare le colonne tra loro e con pilastri. Si notano fori di alloggiamenti per supporti lignei o metallici sia sui pilastri sia sugli architravi. Restano numerose tracce di mosaici pavimentali che forniscono gli indizî e le dimensioni degli spazî delimitati da pareti o da colonne. Tre pavimenti a mosaico sono in buone condizioni di leggibilità. Il primo (esterno al colonnato est) è pertinente a un ambiente absidato: è costituito da tessere in bianco, nero, bruno scuro; la parte centrale è campita da un motivo di quadrati in diagonale nero su fondo bianco. Il bordo è decorato, in nero/bruno scuro, da un motivo a foglie d’acqua (fig. 5). Il secondo (esterno al colonnato est) presenta la stessa bordura del precedente: decorato da foglie d’acqua nere su fondo bianco con l’emblema centrale, scarsamente leggibile a causa della vegetazione cresciuta sopra, era costituito da una iscrizione, purtroppo illeggibile, in caratteri greci su tessitura bianca. Il terzo, sempre lungo il colonnato est esterno, presenta il motivo dei quadrati in diagonale rosso bruno su fondo bianco con quadrato dentato al centro. Queste tipologie di mosaici sono ascrivibili alla fine del secolo II d.C. inizio del III.13 ne corinzie con arco siriaco al centro. Molto probabilmente il complesso è stato oggetto di restauri e ricostruzioni dalla metà del Novecento. 7 Presenta le seguenti modanature: cinque fasce in aggetto, la prima, la terza e la quinta lisce, la seconda e la quarta decorate a perle e astragali, una banda a ovuli, un kyma lesbio, un fregio vegetale, ovuli e punte di freccia, kyma, cassettoni a metope e rosette, fregio vegetale. 8 I capitelli delle lesene sono corinzî, trabeazione ed epistilio sono liscî, cornicione a modanature lisce, listello a dentelli, corona con mensole a Sud e rosette nei cassettoni, fronte della corona liscio, sima non lavorata. 9 Le basi sorgono, per la maggior parte, su un basamento. Questi si presentano di tre tipi: uno è costituito da un modulo alto composto da una fascia centrale liscia compresa fra due listelli sporgenti. Una variante di questo presenta una specchiatura non lavorata nella fascia centrale (su almeno tre facce). Entrambi i tipi sono piuttosto diffusi e utilizzati per il lungo colonnato sia a Est sia a Ovest. 10 Alcuni pilastri presentano il solo basamento. 11 Cfr. VOLNEY 1787, p. 224. 12 Sul primo e secondo capitello a Est si nota la presenza di una testina al posto del fiore. 13 Cfr. BALMELLE, BLANCHARD LEMEE 1985, pp. 188-189; CHEHAB 1965; MURATORE 1999, p. 173. – 108 – Oltre che dal resto musivo, un indicatore importante per la ricostruzione e l’interpretazione del complesso è fornito dalla scultura architettonica. Questa si presenta con le stesse caratteristiche di ricchezza e varietà decorativa, come per il resto dei monumenti di Baalbek.14 Dalla base alla sima il progetto scultoreo è parte costitutiva di un preciso programma figurativo, molto compromesso, nelle sue varie parti, a causa delle condizioni in cui si trova la cosiddetta basilica. Da alcuni elementi decorativi è possibile cogliere la varietà e la ricchezza di tale progetto figurativo; come possono certificare i frammenti di architrave e fregio (fig. 4) attualmente non più nella posizione originaria, ma collocati all’ingresso sud dell’edificio. L’epistilio è composto da tre fasce aggettanti, negli interspazî delle quali è un listello a perle e fusarole. Le perle si presentano affusolate e gli astragali sono a sezione romboidale abbastanza tondeggiante. Il fregio è a motivi vegetali ed è preceduto da un kyma ionico con ovoli in guscio ben scostato, divisi da una punta di freccia. Segue un listello ad anthemion e palmette e fiori di acanto. Le palmette hanno le foglie esterne con un riccio girato all’esterno e uno più alto girato all’interno, verso lo stelo. Segue un listello liscio e poi un fregio a girali. Questi sono a foglie e gambi legati fra loro e hanno racemi molto frastagliati. Tali motivi decorativi si presentano simili a quelli del santuario e del tempio cosiddetto di Bacco: è pertanto possibile ascrivere i pezzi in questione alla fine del secolo II d.C. inizî del III. Un elemento importante è rappresentato dal fatto che una parte dell’architrave appariva non finita già in antico. Le notizie sul monumento sono, come già più volte evidenziato, molto scarse. La cosiddetta basilica, in effetti, non è stata oggetto né di scavi sistematici né di studî specifici. Nella maggior parte dei testi e delle guide non si accenna alla sua consistenza o addirittura esistenza. Nei resoconti di viaggio degli eruditi del Settecento15 e dell’Ottocento si notano alcune brevi notazioni sulla zona in generale, ma non si fa cenno al monumento, probabilmente allora interrato. Nelle tavole a corredo del testo è fornita una possibile consistenza nel panorama delle rovine da cui risulta difficile estrapolare i dati relativi. Dall’analisi degli elementi architettonici esaminati (file di colonne e pilastri), dai pochi resti della pavimentazione musiva (fig. 5), sulla base delle evidenze architettoniche rimaste in situ (resti di ambienti e/o monumenti) è probabile ritenere il monumento privo di una copertura. Una conferma può, inoltre, essere fornita dalla stessa scultura architettonica molto più consona a un tipo di struttura fruibile da ambo le parti. Si tratta, in effetti, di una monumentale via colonnata o una grande piazza ai cui lati trovavano posto diverse strutture di ambito civile. Una situazione simile trova riscontro con altre grandi città orientali dell’Impero Romano (Palmira,16 Gerasa, Apamea). Lungo un’area della città si snoda un grande colonnato fiancheggiato da ambienti accessori17 in grado di mettere in comunicazione tra di loro i varî quartieri urbani. Probabilmente a Baalbek tale via colonnata18 si trovava nel centro commerciale della città romana e collegava alcuni monumenti importanti quali le terme, il bouleaterion; forse, con un andamento leggermente modificato, la via colonnata avrebbe congiunto gli spazî civili con il centro religioso (templi, grande santuario). Cfr. CONTI 1999a, p. 52. Cfr. VOLNEY 1787, pp. 215-ss.; YANOWSKI-DAVIS 1848. 16 Cfr. CHAMPDOR 1959, pp. 44-ss. 17 Cfr. MARTIN 1974, pp. 253-286; GIULIANO 1978, pp. 159-162, 166-170; GROS, TORELLI 1988, pp. 339-355, 410-416; DODGE 1990, pp. 108-120. 18 Cfr. BONACASA 1966, p. 508. 14 15 – 109 – Fig. 1 – Baalbek, la cosiddetta basilica, ricostruzione planimetrica (R. MURATORE) – 110 – Fig. 2 – Baalbek, la cosiddetta basilica (foto: M. CAVANA) Fig. 3 – Baalbek, la cosiddetta basilica, particolare dell’arco (foto: G. CONTI) – 111 – Fig. 4 – Baalbek, la cosiddetta basilica, frammento architettonico (foto: G. CONTI) Fig. 5 – Baalbek, la cosiddetta basilica, mosaico (foto: G. CONTI) – 112 – ALCUNE RAPPRESENTAZIONI DEL LEONE E DEL DRAGO NELLE DECORAZIONI ARCHITETTONICHE ASIATICHE (SECOLI I-VII D.C.) Paola Mortari Vergara Caffarelli È durante le missioni in Libano realizzate dall’Università di Genova a partire dall’inizio degli anni ‘90 e da me coordinate1 che ho avuto modo di meglio conoscere e apprezzare il valore umano e scientifico della collega Graziella Conti. Ella univa a una straordinaria conoscenza delle testimonianze storico-artistiche del mondo classico nel Mediterraneo, una sensibilità, una finezza del tratto, una estrema gentilezza e tolleranza che rendevano il lavoro scientifico in comune piacevole e fruttuoso. Durante i sopralluoghi compiuti insieme nel complesso monumentale di Baalbek in Libano è nata l’idea di questo studio che Graziella Conti avrebbe dovuto completare, esaminando gli ulteriori esiti dei motivi del leone e del drago nell’architettura dell’Italia e di altre Province Romane, e che è stato così bruscamente e dolorosamente interrotto. Purtroppo posso qui ormai solo segnalare il cammino compiuto da questi due soggetti delle decorazioni architettoniche dell’Eurasia di epoca classica, esclusivamente in alcuni esempî del loro rispettivo percorso nel territorio asiatico, da Occidente verso Oriente per il leone e da Oriente verso Occidente per il drago. Queste presenze figurative, cariche di valori simbolico-religiosi, dimostrano una volta di più come già più di duemila anni fa i rapporti fra il Mediterraneo e l’Estremo Oriente fossero attivi e continui. Essi si svolgevano via mare e via terra soprattutto lungo le famose vie della seta. Non dimentichiamo che già Cleopatra nel 48 a.C. indossava seriche vesti e che al tempo di Augusto il prezioso tessuto proveniente dalla Cina era il preferito dalle ricche matrone romane.2 Insieme ai conquistatori, ai mercanti, ai viaggiatori, ai manufatti si spostavano anche le ideazioni, i simboli, le scoperte delle civiltà di appartenenza, che ciascuno di essi poteva veicolare. Il passaggio di uomini e merci era certamente molto più fitto delle scarne notizie dateci dalle fonti storiche sia occidentali sia orientali. Claudio Tolomeo riferisce che Maes Tiziano, forse il liberto M. Tizio, governatore della Siria al tempo di Augusto, inviò alcuni suoi agenti a Oriente, in quelle che venivano chiamate le regioni dei Seres. Come ben segnala Paolo Daffinà, essi seguirono un itinerario che consente di ricostruire il tratto occidentale delle vie della seta e di giungere fino al Pamir. Ma è nell’anonimo Periplo del mare Eritreo, datato al 50-80 d.C., che per la prima volta viene nominato il paese di Thina, che Graziella Conti ha partecipato attivamente, sin dalle fasi preparatorie, all’accordo di cooperazione culturale fra l’Università di Genova e l’Université Libanaise siglato nel 1995, finanziato dall’Università di Genova e dalla Direzione Generale per la Promozione Culturale del Mae che ha portato fino a oggi a scambî di docenti e studenti, a tre convegni internazionali, una mostra e a prospezioni archeologiche e di siti monumentali. 2 Cfr. FLORIANI SQUARCIAPINO 1994, fonti e bibliografia ivi citate. 1 – 113 – corrisponde molto bene al termine cinese Qin (nome della dinastia che unificò tutto il territorio nel 221 a.C.) e al nostro Cina. Nel Periplo è descritto il percorso via mare ed è detto: Recarsi fino a Thina non è facile e difatti raramente alcuni, non molti, giungono di là.3 Nella storia dinastica cinese degli Han anteriori (206 a.C.-8 d.C.) è riportato il viaggio di Zhang Qian che fu inviato dall’imperatore Wudi in Occidente per cercare alleanze contro i nomadi Xiongnu. Giunto nel 130 a.C. in Bactriana vide con stupore che erano in vendita tessuti provenienti dalle regioni dello Yunnan e del Sichuan. Intorno al 59 a.C. le armate cinesi conquistarono l’Asia Centrale fino al Pamir, estendendo il loro protettorato su tutti gli itinerarî orientali della via della seta, che occuparono con molte soluzioni di continuità fino al secolo III dopo Cristo. Nella storia della dinastia degli Han posteriori (25 d.C.-220 d.C.) è narrato il viaggio in Occidente di un alto ufficiale Gan Ying, inviato dal generale Ban Chao (32-102 d.C.) – il restauratore della supremazia sinica in Asia Centrale – per cercare di entrare in contatto con Da Qin (Grande Cina), come veniva allora dai Cinesi chiamato l’Impero Romano. Egli arrivò fino al Golfo Persico, dove però fu scoraggiato a proseguire dai mercanti parti, che non volevano si costituisse un rapporto diretto fra Roma e la Cina, che avrebbe loro tolto la lucrosa funzione di intermediarî. È poi segnalato, sempre dalla stessa fonte, l’arrivo nel 166-167 d.C. di una ambasceria del re Andun di Da Qin, che può ben essere Marco Aurelio Antonino (161-180 d.C ). Molto probabilmente si trattava di una compagnia di mercanti provenienti dalle regioni orientali dell’Impero, come testimonia la descrizione dei doni da essi portati.4 E certamente le Province Romane orientali erano quelle che più direttamente, per la loro stessa collocazione territoriale, entrarono in contatto con la cultura, l’arte, i manufatti provenienti dall’area cinese e più facilmente importarono stilemi locali e del mondo classico nell’Estremo Oriente. Il santuario romano di Baalbek5 per la sua posizione geografica era stazione di passaggio delle vie della seta verso il Mediterraneo. Per tale sua caratteristica, nonché per l’epoca della sua fondazione, datata intorno agli inizî della nostra era sotto Augusto (27 a.C.-14 d.C.), e del suo completamento, che giunge fino all’imperatore Filippo l’Arabo (244-249), può essere considerato uno dei complessi monumentali classici che nella sua decorazione architettonica ha potuto meglio recepire elementi provenienti dall’impero cinese, esportando contemporaneamente stilemi proprî verso Oriente. Come osserva Graziella Conti: nel progetto architettonico, pur utilizzando e seguendo motivi tradizionali e repertoriali noti, vengono inserite anche unità scultoree di nuova ideazione e di nuove provenienze… che fanno del santuario di Baalbek un crocevia privilegiato di percorrenze plurivettoriali di motivi.6 È il caso del fregio dell’epistilio del Tempio di Giove, costituito da una serie alternata di protomi di leoni e di tori (figg. 1-2), con gocciolatoî a testa leonina sul cornicione. In questa decorazione architettonica, come rileva giustamente Graziella Conti, confluiscono motivi greci mutuati e fatti proprî da Roma 7 come le protomi e le teste di leone. Cfr. DAFFINÀ 1994, pp. 19-20, fonti e bibliografia ivi citate. Cfr. LESLIE, GARDINER 1982; LESLIE, GARDINER 1996; DAFFINÀ 1994, pp. 20-21, fonti e bibliografia ivi citate; LIN MEICUN 1998; BALL 2000. 5 Cfr. fra gli altri COLLART, COUPEL 1951; COLLART, COUPEL 1977 e bibliografia ivi citata; CONTI 1999 e bibliografia ivi citata. 6 Cfr. CONTI 1999, p. 53. 7 Cfr. CONTI, 1999, p. 57. 3 4 – 114 – Ma l’effigie di tale animale è presente con funzione sacrale e di protezione già da millenni nei complessi architettonici mesopotamici e siriaci, che hanno costituito un punto di riferimento anche per il mondo greco. Inoltre, il toro e il leone sono i due animali sacri a Baal-Shamas (Haddad), divinità solare e signore delle tempeste, che insieme ad Anat (Astarte) e Aliyan costituiva la triade divina, già adorata nel sito di Baalbek in epoca fenicia. Tali divinità saranno assimilate dai Romani a Giove, Venere e Mercurio, la cosiddetta triade Heliopolitana, a cui il complesso di Baalbek (Heliopolis) è dedicato.8 Si tratta, come nota giustamente Graziella Conti, di un processo sincretistico di molta importanza e la raffigurazione non è casuale,9 anzi ribadita dalla presenza dello stesso motivo nel contiguo e più tardo tempio cosiddetto di Bacco (ma forse più probabilmente dedicato a Mercurio,10 membro insieme a Venere della triade heliopolitana), edificato nella seconda metà del secolo II dopo Cristo. Tale particolare tipo di fregio – e probabilmente altri analoghi, appartenenti a templi oggi scomparsi siti nell’area – può avere, a nostro avviso, costituito il modello per decorazioni architettoniche simili presenti nel Pakistan e nell’Afghanistan, sotto il dominio dei Kushâna dal secolo I al V dopo Cristo. Quest’arte, definita greco-romano-buddhista, chiamata del Gandhāra dal nome della regione in cui sono più fitte le sue testimonianze,11 recepisce il motivo del fregio romano-siriaco, caricandolo però di nuove valenze. Il leone, infatti, assume nell’iconografia buddhista un valore fondamentale. Si tratta di una delle precedenti reincarnazioni del Buddha ed egli stesso è chiamato il leone della stirpe dei Shâkya. Si dice, inoltre, che alla sua nascita il principe Siddharta abbia ruggito come un leone e spesso il suo trono è raffigurato con supporti leonini. Il leone è, inoltre, considerato la principale figura animale apotropaica, mantenendo così uno dei significati già assunti nel Vicino Oriente e nel mondo classico. Le sue raffigurazioni all’esterno o all’ingresso dei complessi religiosi servono, infatti, a proteggerli dalle forze malvagie e a segnalare il passaggio da uno spazio profano a uno spazio sacro. Simbolizza anche la vittoria sulle passioni umane sotto l’influenza della dottrina buddhista.12 Una fila di protomi leonine sono poste a protezione della costruzione alla base dello stûpa n. 5 di Ali Masjid sul passo di Khyber fra l’Afghanistan e il Pakistan (fig. 3) datato al secolo II-III dopo Cristo.13 In questo tipico monumento buddhista – simbolo mandâlico del cosmo e della sua genesi, del corpo del Buddha e del percorso, che la psiche umana deve compiere dal molteplice all’uno per raggiungere il nirvâna, – la serie di figure di leoni presenta la stessa iconografia e la stessa collocazione di quelle di Baalbek. Sono, infatti, siti nella parte più bassa della costruzione, che corrisponde nella simbologia del mandâla alle cinte più esterne, paragonabili all’epistilio classico. Essi rivestono tutti i significati precedentemente citati, mentre le bocche, aperte in un ringhio, ricordano la leggenda della torma di cani che accompagnavano il Buddha e che al momento del pericolo si trasformavano in leoni. Cfr. DUSSAUD 1942-1943. Cfr. CONTI 1999, p. 57. 10 Per Graziella Conti la presenza del caduceo, simbolo di Mercurio, nel lacunare della grande porta del tempio detto di Bacco poteva forse indicare una differente dedica del santuario (cfr. CONTI 1999, p. 59). 11 Cfr. tra gli altri BUSSAGLI 1984; TISSOT 1985. 12 Cfr. tra gli altri ELIADE 1952; ROWLAND 1967, pp. 67-69, 86; RAWSON 1984, pp. 110-114; TOURNIER 1991, pp. 154-156. 13 Cfr. ROWLAND 1967, pp 140-141, fig. 81; RAWSON 1984, p. 51, fig. 26. 8 9 – 115 – Nei basamenti degli stûpa gandhārici queste protomi leonine sono frequentemente associate a figure umane di atlanti in posizione accucciata: gli Yaksha. Si tratta di antichi spiriti dravidici maschili e femminili della natura e degli alberi, simboli di fertilità14 e che rappresentano probabilmente le divinità locali sottomesse alla dottrina del Buddha. Nella base di uno stûpa del Monastero di Jaulian presso Taxila15 gli Yaksha, alternati a protomi leonine, sono posti in differenti posizioni e presentano varie acconciature, mostrando i visi contratti dallo sforzo, con uno straordinario verismo ritrattistico. La fila di leoni atlanti non è il solo elemento desunto dall’architettura della provincia romana della Siria che ritroviamo nella decorazione architettonica gandhārica. Rowland segnala ad esempio la straordinaria somiglianza della decorazione a cassettoni della caverna XI di Bâmiyân (circa 200-300 d.C.) con il soffitto del tempio detto di Bacco a Baalbek16 e Mario Bussagli indica tutta una serie di strutture e decorazioni architettoniche d’ispirazione classica, alcune provenienti dall’area siriana, presenti nell’arte del Gandhāra.17 Non bisogna, però, dimenticare che nel subcontinente indiano la figura del leone, d’ispirazione iranica, era già presente nella decorazione architettonica fin dall’epoca Maurya (322-185 a.C.), soprattutto collegata al Buddhismo.18 Tale consuetudine ha senza dubbio facilitato l’assunzione della tipologia di fregio presente a Baalbek. Nel periodo Gupta (320600 d.C.) file di immagini leonine, in cui confluiscono anche suggestioni del kîrttimukha – la tradizionale maschera demoniaca indiana –,19 sole o alternate a Yaksha, si trovano anche frequentemente sotto forma di una decorazione di teste scolpite alla sommità delle mostre delle porte – a protezione dell’accesso – anche di santuarî induisti, come nel tempio di Vishnu a Deogarh20 e nel tempio di Vamana a Marhia, a Nord-Est di Sanci (530-540 d.C.).21 Il motivo qui perde tutto il suo rilievo plastico e il leone e lo Yaksha sono ridotti a un semplice mascherone. Protomi o statue di leoni saranno presenti poi nell’architettura monumentale del subcontinente indiano in tutto il suo successivo sviluppo.22 Ma è nel Tibet, a Lhasa nei secoli VII-VIII, che ritroviamo nel Tsuglagkhang (Tsug. lag. khang) – il santuario più importante del Buddhismo lamaistico,23 il tempio in cui ogni tibetano aspira a recarsi almeno una volta nella vita – una serie di mensole a protomi leonine sorprendentemente vicine al modello di Baalbek. Esse, secondo la tradizione, furono erette nel secolo VII dal re Songtsen Gampo (Srong. btsan sGam. po), che introdusse il Buddhismo nel Paese delle nevi. Il grande Tempio di Lhasa, ampliato e rimaneggiato in epoche successive, conserva infatti nel Jokhang – la sala centrale – una parte delle strutture lignee decorate, realizzate nei secoli VII-VIII su modelli indiani. Nel corridoio predisposto per il rito della deambulazione (pradakshinâ), tutto intorno alla sala centrale, si vedono ancora comparire una fila continua di protomi leonine nella Cfr. tra gli altri ROWLAND 1967, pp. 14, 50, 471; BUSSAGLI 1984, p. 274. Cfr. BUSSAGLI 1984, pp. 242-243 e bibliografia ivi citata. 16 Cfr. RWLAND 1967, p. 174. 17 Cfr. BUSSAGLI 1984, pp. 14, 162, 166, 171-172 e bibliografia ivi citata. 18 Cfr. tra gli altri ROWLAND 1967, pp. 67-69, 86; GROVER 1980; HARLE 1987. 19 Sul kîrttimukha cfr. tra gli altri ROWLAND 1967, pp. 316, 420, 446; HARLE 1987, pp. 134, 255-256; TADGELL 1990, p. 103. 20 Cfr. GOTTFRIED WILLIAMS 1982, pp. 122-123, 138, pl. 118. 21 Cfr. GOTTFRIED WILLIAMS 1982, pp. 122-123, 138, pl. 118. 22 Cfr. ad esempio GROVER 1980, figg. 147,149, 176, 215; HARLE 1987, fig. 93; TADGELL 1990, fig. 144b. 23 Cfr. RICHARDSON 1977, pp. 180-183, fig. 9; MORTARI VERGARA CAFFARELLI 1987, pp. 237-238, fig. 128 e bibliografia ivi citata. 14 15 – 116 – stessa posizione di supporto a un architrave e di difesa intorno al santuario (fig. 4), espresse in modo fortemente plastico come quelle di Baalbek. Nelle loro teste, invece, confluiscono suggestioni dei coevi modelli di leoni indiani. In mezzo a loro compare una figura femminile dal corpo leonino, forse una Yakshi. È quindi possibile ipotizzare che in India alcune costruzioni lignee della stessa epoca, e forse anche in mattoni e pietra, oggi completamente scomparse, presentassero fregî molto più prossimi agli antichi modelli siriaci e alle loro repliche gandhāriche. Ma le protomi leonine non sono il solo elemento di origine classica che si trova nel Jokhang di Lhasa: un capitello ligneo con volute vegetali è ispirato ai capitelli pseudo-corinzî gandhārici di chiara matrice ellenistico-romana, come quello del Museo di Peshâwar. Anche le mostre delle porte a fasce concentriche della sala centrale del Grande Tempio di Lhasa, decorate a motivi vegetali, sono anch’esse mutuate da prototipi classici, di cui troviamo numerosi esempî a Baalbek, passati, poi, attraverso l’architettura del Gandâra, nel mondo indiano.24 La figura del leone permarrà nella decorazione architettonica del Tibet fino ai nostri giorni. La ritroviamo effigiata sui cornicioni, sull’architrave delle porte, agli angoli esterni della sommità delle costruzioni sacre, mantenendo intatto il suo significato apotropaico.25 Un altro soggetto di decorazione architettonica dell’Eurasia, quello del drago, sembra invece aver percorso in senso inverso le vie della seta partendo dalla Cina. Il drago (long) appartiene alla mitologia e alla decorazione architettonica sinica fin dalle origini, come attesta la figura formata da conchiglie che ornava una tomba di Xishuipo nello Honan, datata dagli archeologi cinesi al V millennio avanti Cristo.26 Nulla è rimasto delle costruzioni, in massima parte lignee, delle prime dinastie, però la presenza continua di figure draghiformi, soprattutto della tipolgia detta kui (con una gamba) nelle giade e nei bronzi dell’epoca27 fa pensare che potessero anche far parte delle decorazioni architettoniche. È nel periodo della dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.), contemporanea all’apogeo dell’Impero Romano e alle costruzioni di Baalbek, che il drago assume tutte le sue caratteristiche precipue sia iconografiche sia iconologiche.28 Secondo le definizioni più comuni esso doveva avere testa di cammello, denti di carnivoro, corna di daino, occhî di coniglio, collo di serpente, ventre di rana e artiglî di avvoltoio che escono dalle zampe di una tigre. È coperto di scaglie come le carpe e ha orecchie di vacca, barba e baffi da caprone e può anche avere delle ali. Viene considerato un vero e proprio dragone se ha un corpo massiccio e drago-serpente se assume un aspetto nastriforme. Emblema dell’Est, è legato alla primavera, al principio maschile (yang) crescente, è presagio fasto, simbolo di ricchezza e fertilità, animale acquatico, terrestre e celeste, cavalcatura di divinità, guardiano di tesori; se alato, trasporta gli immortali Taoisti e le anime dei defunti. All’epoca della dinastia Han si consolida definitivamente come simbolo dell’imperatore.29 Cfr. MORTARI VERGARA CAFFARELLI 1990. Cfr. MEYER 1987, figg. 211, 212, 213; MORTARI VERGARA CAFFARELLI 1987, p. 272, fig. 128. In molti casi la dislocazione e talvolta l’iconografia e lo stile di tali raffigurazioni viene curiosamente a coincidere con analoghi esempî islamici e dell’Occidente medievale. 26 Cfr. FENG SHI 1994; MORTARI VERGARA CAFFARELLI 1999, fig. 11. 27 Cfr. ALLAN 1991, pp. 29, 64-67, 157-164, 174, figg. 50-51. 28 Cfr. WU HUNG 1995, p. 152. 29 Cfr. EBERHARD 1986, pp. 83-86; WILSON 1990; TOURNIER 1991, pp. 109-134. 24 25 – 117 – Nell’architettura, oltre che emblema imperiale, è soprattutto simbolo di vigilanza e protezione; è posto alla sommità dei tetti e sui ponti come baluardo contro gli incendî e le inondazioni. Ed è presente in molte altre strutture architettoniche monumentali: sugli architravi, intorno alle colonne, sulle mostre delle porte e soprattutto nelle tombe, data anche la sua valenza di animale ctonio e cosmico, che fonde nel suo corpo la natura terrestre, quella celeste e quella acquatica.30 Una bella esemplificazione di draghi han è quella dipinta sullo stendardo in seta posto sul sarcofago della tomba della marchesa di Dai a Mawangdui (Honan, 150 a.C.) (fig. 5). Essi con i loro corpi sinuosi, che presentano le principali caratteristiche summenzionate, legano e circondano una tipica composizione cosmologica che mostra la defunta rappresentata nella parte alta nel cielo, al centro sulla terra e in basso negli inferi.31 Una mattonella proveniente dalla tomba (Maoling) dell’imperatore Wudi (secolo I a.C.), ora al British Museum, è decorata con il tipico corpo a esse di un dragone alato, con il muso rivolto all’indietro, reso con la vivace linea “calligrafica” degli Han.32 Nelle tombe del Sichuan dell’epoca degli Han posteriori (206-220 d.C.) figure scolpite o incise di draghi sono presenti sulle pareti, sui soffitti, sugli ingressi delle camere funerarie, come nel portale d’accesso di una tomba rupestre del complesso di Changning, con due draghi dai corpi serpentiformi intrecciati sull’architrave.33 A Baalbek, nelle specchiature esterne dei bacini della Grande Corte (100-200 d.C.) e in alcuni portali ad arco del tempio chiamato di Bacco, iniziato da Antonio il Pio alla metà del secolo II e inaugurato da Settimio Severo (193-211), troviamo alcuni animali compositi con caratteristiche molto vicine al drago cinese. Le raffigurazioni di esseri marini, che compaiono nei bacini, sono senza dubbio da collegare all’acqua in essi raccolta. Si tratta in massima parte di figure mitologiche composite, spesso con la coda di pesce, tipicamente classiche. Ma alcune delle specchiature presentano un serpente marino, cavalcato da un amorino, con testa molto vicina a quella del drago cinese (fig. 6). Si possono distinguere il muso di cammello, i denti di carnivoro, gli occhî di coniglio, le orecchie di mucca e le corna. Ma ancora più sorprendente è apparsa a Graziella Conti e a me la figura del piccolo drago sull’estradosso di un portale ad arco dal tempio detto di Bacco (fig. 7). Anche se la sua testa non è perfettamente distinguibile, soprattutto il corpo sinuosamente mosso e la sua collocazione sembrano molto vicine ai modelli cinesi di epoca Han. E ancor più ricordano i prototipi cinesi, i draghi serpentiformi nell’intradosso di un altro portale ad arco dello stesso tempio (fig. 8). Pur avendo su queste raffigurazioni romano-siriache influito anche le iconografie dei persici dracones, menzionati fra l’altro tra i trofei di guerra dell’imperatore Aureliano34 (il drago di lontana origine mesopotamica e iranica era costituito da un animale composito, uccello-cane-pesce, connesso con la fertilità e la fortuna ed era animale sacro di alcune divinità, come il dio Marduk, patrono della città di Babele), va però evidenziato che agli esseri draghiformi di Baalbek mancano la testa di cane, le zampe sottolineate da cerchî e soprattutto il corpo di mammifero, che contraddistinguono le plurimillenarie e statiche raffigura- Cfr. RAWSON 1984, pp. 93-99. Cfr. RAWSON 1996, p. 268 e bibliografia ivi citata. 32 Cfr. RAWSON 1984, p. 95, fig. 73. 33 Cfr. Sichuan Daxue Kaogu 1985, tavv. 1-3; MORTARI VERGARA CAFFARELLI 1999, fig. 12; MENGONI 2001 e biliografia ivi citata. 34 Cfr. TREVER 1964, p. 168. 30 31 – 118 – zioni assiro-babilonesi e iraniche.35 Quali possono essere stati i tramiti per il passaggio fino a Baalbek di una iconografia sinica così particolare come quella del drago? Senza dubbio le decorazioni che comparivano sui tessuti in seta provenienti dalla Cina. Infatti, nel Museo di Damasco, in cui sono conservate alcune delle sete trovate nelle tombe di Palmira (secoli I-III d.C.), è esposto un frammento di epoca Han con delle splendide raffigurazioni di draghi.36 Il fenomeno non è insolito, se si pensa ad alcuni esemplari di steli buddhiste gandhāriche che raffigurano decorazioni di portali d’accesso a edificî sacri, come quello fotografato nel mercato antiquario di Karachi e pubblicato da Arcangela Santoro.37 In questa stele le figure apotropaiche serpentiformi, che decorano l’estradosso dell’arco – senza dubbio ricollegabili alle divinità serpenti (Naga) o ai makara (esseri compositi simili al coccodrillo), appartenenti alla mitologia indiana – assumono fattezze molto simili a quelle del drago cinese. La presenza di figure sinizzanti nella scultura gandhārica non è nuova. Ad esempio Francine Tissot, a proposito di un animale facente parte dell’acconciatura della statua di un Bodhisattva del Museo di Peshâwar, osserva che: il fait à nouveau penser aux animaux de l’art chinois.38 Ancora più sorprendente è un frammento di fregio gandhārico in scisto proveniente da Lorîyân-tangai, ora al Museo di Calcutta39 (fig. 9), su cui sono rappresentati mostri serpentiformi affrontati, cavalcati da putti, con la testa propria del drago cinese e che tengono tra le fauci un gioiello, caratteristica anche questa tipicamente sinica. I richiami alle decorazioni dei bacini del tempio della grande corte del tempio di Baalbek sono evidenti. Concluderò con le parole di Graziella Conti a Baalbek siamo al cospetto di uno scambio continuo tra Oriente e Occidente, che dà vita a scenografie ripetitive che proprio da tali iterazioni prendono forza di stilemi, non fine a se stessi, bensì risultato di un sincretismo religioso-sacrale coinvolgente tutta la struttura architettonica.40 Cfr. TURNER 1980; TITTLEY 1981; CURATOLA 1989 e bibliografia ivi citata. Cfr. PFEISTER 1941. 37 Cfr. SANTORO 2002, fig. 7. 38 Cfr. TISSOT 1985, pp. 214-215. 39 Cfr. TISSOT 1985, pl. XVI, 4. 40 Cfr. CONTI 1999, p. 59. 35 36 – 119 – Fig. 1 – Baalbek, tempio di Giove, epistilio con fregio di protomi di leoni e tori (foto: M. CAVANA) Fig. 2 – Baalbek, tempio di Giove, fregio dell’epistilio, particolare, disegno (da: DUSSAUD 1942-1943) – 120 – Fig. 3 – Passo di Khyber, stûpa n. 5 di Ali Masjid (da: RAWSON 1984, fig. 26) Fig. 4 – Lhasa, mensolatura lignea a protomi leonine (da: RICHARDSON 1977, fig. 9) – 121 – Fig. 5 – Mawangdui, tomba della marchesa di Dai, stendardo in seta, disegno (da: RAWSON 1996, fig. 3) Fig. 6 – Baalbek, bacino della Grande Corte, specchiatura esterna con raffigurazioni di drago (foto: P. MORTARI VERGARA CAFFARELLI) – 122 – Fig. 7 – Baalbek, tempio detto di Bacco, portale ad arco, particolare con figura di drago (foto: M. CAVANA) Fig. 8 – Baalbek, tempio detto di Bacco, portale ad arco, particolare dell’intradosso con draghi serpentiformi (foto: M. CAVANA) – 123 – Fig. 9 – Calcutta, Indian Museum, fregio in scisto da Lorîyân-tangai, disegno (da: TISSOT 1985, tav. XVI, 4) – 124 – RESTAURI DI MARMI TARDOANTICHI E ALTOMEDIEVALI A GENOVA Alessandra Frondoni Nel settembre 1998 si svolse in Liguria l’VIII Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana, con inaugurazione a Genova nella sede di Palazzo Tursi.1 Tra le varie manifestazioni organizzate nell’ambito di tale Congresso, è da ricordare la mostra Christiana Signa – Testimonianze figurative a Genova fra IV e XI secolo, allestita presso il Museo genovese di Sant’Agostino sino al febbraio 1999, secondo un programma elaborato congiuntamente dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria, la Regione Liguria, la Provincia e il Comune di Genova, con la preziosa collaborazione della Curia Arcivescovile genovese e di numerosi altri Enti e Associazioni culturali cittadine.2 La mostra ripropose all’attenzione di un più vasto pubblico le problematiche relative alla produzione scultorea tardoantica e altomedievale, sino alle soglie del Mille, conservata nei luoghi di culto di Genova e del suo territorio; per la prima volta si trovarono riuniti, nel suggestivo chiostro triangolare di Sant’Agostino, importanti reperti archeologici e documenti figurativi, a partire dai sarcofagi tardoromani, con iconografia attribuibile all’influenza della religione cristiana, sino ai rilievi e ai capitelli altomedievali e protoromanici, unica testimonianza figurativa di questo periodo storico nella nostra città.3 Con l’occasione della mostra, si pose mano alla pulitura e al restauro di numerose opere – per lo più eseguite in marmo – grazie all’apposito finanziamento erogato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e al generoso intervento di altri Enti.4 Nel presente contributo si intende, appunto, dar conto di alcuni di questi restauri, rimandando per l’esame stilistico e per l’approfondimento critico dei manufatti artistici a quanto già edito in altra sede o a ricerche di prossima pubblicazione.5 Il Congresso, organizzato dall’Istituto Internazionale di Studî Liguri, con la collaborazione della Soprintendenza, della Regione Liguria e delle Curie Vescovili, ha avuto carattere itinerante, interessando, dopo Genova, i centri di Luni, Sarzana, Brugnato, Albenga, Savona, Noli, Finale Ligure, Riva Ligure, Ventimiglia e Bordighera. Sono stati da poco editi gli Atti relativi, per cui cfr. L’edificio battesimale in Italia. Aspetti e problemi, Atti dell’VIII Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (Genova, Luni, Brugnato, Sarzana, Finale Ligure, Albenga, Ventimiglia, 21-26 settembre 1998), a cura di D. Gandolfi, 2 voll., Bordighera 2001. 2 Al buon esito della mostra, curata da chi scrive, hanno collaborato, in particolare, l’Azienda di Promozione Turistica di Genova, il Civico Liceo Artistico N. Barabino, il FAI-Abbazia di San Fruttuoso, il Museo Civico di Archeologia Ligure di Genova Pegli e l’Università degli Studî di Genova (DARFICLET e DISAM). Per ulteriori notizie e per un breve catalogo delle opere esposte si rimanda alla Guida della mostra , per cui cfr. Christiana… 1998. 3 Come è noto, non è pervenuta – per il territorio genovese – alcuna documentazione pittorica e musiva, così come non sono conservate opere di oreficeria o di altre arti minori per l’Età Paleocristiana e Altomedievale. 4 In particolare, la Curia Arcivescovile di Genova finanziò il restauro delle epigrafi marmoree e il calco del cosiddetto sarcofago di Santa Marta; la Provincia di Genova il restauro del pluteo di Cogoleto e il calco del pluteo di Sestri Levante; il Museo Civico di Archeologia Ligure il restauro delle sculture provenienti dalla collezione di Villa Grüber a Genova. Le restanti opere furono restaurate con i fondi della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria (cfr. Christiana… 1998). 5 A corredo di questa breve relazione di restauro, si indicheranno, quindi, solo le note bibliografiche essenziali, rinviando alla sopra citata Guida della mostra e a testi più recenti per una bibliografia più completa. 1 – 125 – Uno dei principali interventi di restauro ha riguardato i sarcofagi tardoromani del Buon Pastore (Museo Civico di Archeologia Ligure) e quello conservato all’abbazia del Boschetto.6 Il noto sarcofago del Buon Pastore rinvenuto, secondo la testimonianza di Santo Varni, nei lavori di abbassamento di [piazza] San Lorenzo – che misero in luce, nella prima metà dell’Ottocento, una necropoli romana – è costituito da una vasca ovale (lenos) in marmo bianco, decorata a strigilature con – al centro – la raffigurazione di un pastore crioforo, inserito in un contesto bucolico. Il manufatto, pervenuto in stato frammentario (mancano parte della vasca e la testa del pastore) era conservato nei depositi del Museo Civico Archeologico e presentava ampie fessurazioni e vistose tracce di muffa, dovute alla passata permanenza in ambiente umido; il restauro è quindi stato indirizzato al consolidamento e al risanamento del sarcofago, in vista anche della sua futura esposizione museale.7 L’intervento è iniziato con una spolveratura e con lavaggî eseguiti con acqua distillata addizionata con carbonato di ammonio, ma le condizioni alquanto delicate di quest’opera hanno imposto di eseguire questa fase dell’intervento con molte precauzioni, visto che la superficie tendeva a sfarinare al contatto con i micro spazzolini. In un secondo momento si è proceduto a staccare le parti che erano state grossolanamente incollate in passato con una miscela di gesso e cemento: le stesse sono state successivamente rincollate adoperando resina epossidica bicomponente. L’alto livello di degrado non ha consentito di approfondire la pulitura, dato che qualsiasi intervento avrebbe implicato la perdita della “pelle” e di conseguenza della patina originale; si è pertanto deciso di raggiungere un livello il più possibile omogeneo che permettesse una corretta lettura dell’opera. Il restauro si è concluso con l’applicazione di una mano di RC 70 (silicato di etile – consolidante) e successivamente di RC 80 (protettivo idrorepellente) della ditta Rhone Poulenc. È attualmente in fase di elaborazione una ricerca specifica sul pluteo di Cogoleto, a cura di Marina Cavana. Sono stati, inoltre, appena pubblicati gli Atti relativi alla Giornata di Studio Romana Pictura e Christiana Signa: due mostre a confronto, per cui cfr. Romana… 2003; mentre sono in corso di stampa gli Atti relativi all’Incontro di Studio Gli stucchi altomedievali di San Fruttuoso di Capodimonte (Genova, 19 febbraio 1999), a entrambi si rimanda per ulteriori notizie sulle opere esposte nella Mostra di Sant’Agostino e per l’aggiornamento bibliografico. 6 Il restauro è stato eseguito da Axel Nielsen, che ringrazio per la collaborazione, presso il laboratorio del Museo di Sant’Agostino, per cortesia di Clario Di Fabio, direttore del museo. 7 Sugli scavi della necropoli di San Lorenzo, cfr. MELLI 1998b, pp. 28-37 con bibliografia precedente. Per la testimonianza di Santo Varni, cfr. CAVELLI TRAVERSO 1989, pp. 55-75; CAVELLI TRAVERSO 1998, p. 14. Sul sarcofago del Buon Pastore cfr. DUFOUR BOZZO 1967, p. 43, n. 21, tav. 10; QUARTINO 1983, pp. 19-22, che ne conferma la provenienza genovese, datandolo alla seconda metà del secolo III dopo Cristo. Il sarcofago, che un’analisi eseguita da Tiziano Mannoni ha confermato essere di marmo proconneso, non presenta caratteristiche tali da certificarne la cristianità; l’iconografia rimanda, infatti, a una generica allegoria di vita ideale di origine pagana, pur collegabile alla simbologia soterica del primo cristianesimo (cfr. QUARTINO 1998a, sch. 66, pp. 167-168; QUARTINO 1998b, p. 16). Come è noto, gran parte dei sarcofagi romani conservati a Genova (nelle chiese, nei musei, nei palazzi e nelle ville) o reimpiegati nelle murature degli edificî religiosi (ad esempio nella cattedrale di San Lorenzo e a San Matteo) non sono di produzione locale e sono spesso riconducibili a un’importazione in Età Medievale e Postmedievale, con l’intento di nobilitare le origini della città, così come avviene anche per altri manufatti marmorei (capitelli e rilievi) di Età Romana. Su tale problematica, con particolare riguardo a Genova, cfr. DUFOUR BOZZO 1967; DUFOUR BOZZO 1979, pp. 17-58; CONTI 1980, pp. 31-45; FAEDO 1984, pp. 133-153. Più in generale, tra la vasta bibliografia sull’argomento del reimpiego, cfr. DE LACHENAL 1995. I recenti esiti dell’archeologia urbana a Genova hanno indotto a riconsiderare, come è ormai noto, la consistenza della città romana (cfr. MELLI 1996, pp. 38-44) sia per l’edilizia monumentale sia per i manufatti artistici, dovuti in parte anche a produzione locale. A tale proposito (e, in specifico, per i sarcofagi di San Lorenzo) cfr. DAGNINO 1998, pp. 92-95; MELLI 1998a, p. 15; MELLI 1998b, pp. 28-37. – 126 – Il cosiddetto sarcofago del Boschetto è conservato nell’omonima abbazia vicino a Cornigliano. Ne abbiamo notizia da Federico Alizeri (1839)8 che lo ricorda già collocato nella chiesa; nell’area circostante non sono mai stati trovati indizî della presenza di una necropoli antica, anche se la zona è attraversata da una viabilità di origine romana. Il sarcofago, strigilato, in marmo proconneso, scolpito solo sulla fronte e privo di coperchio, presenta – al centro – i busti di una coppia di defunti entro clipeo: l’uomo, con barba, indossa la toga contabulata e reca nella mano sinistra un rotulo; la donna è caratterizzata da una pettinatura assai semplice (sul modello di Iulia Domna), ma è arduo valutarne con esattezza l’iconografia, giacché il rilievo è assai consunto. Del resto il sarcofago denota segni di abrasione pure in altre zone, mentre resta anche il dubbio di una sua non finitura, che parrebbe avvalorato dalla presenza di una strigilatura non conclusa, sulla destra del clipeo. Alle due estremità del manufatto è raffigurato il Buon Pastore, tema notoriamente già diffuso in Età Pagana e acquisito dalla simbologia cristiana dal secolo III in poi.9 A destra del clipeo, in alto, nello spazio fra la riquadratura centrale e la prima strigilatura (non finita) è incisa una piccola croce, visibile con chiarezza solo con l’ausilio della luce radente. La croce, ben delineata con gli apici a coda di rondine, è stata giustamente ritenuta intenzionale e lascia aperta l’ipotesi che il sarcofago, dapprima sbozzato e sommariamente lavorato in area greca – fra la fine del secolo III e gli inizî del IV – sia stato in un secondo momento rilavorato in loco, per un committente che aveva aderito alla fede cristiana.10 È da notare che il rilievo piuttosto rozzo che connota le figure del Buon Pastore (come si riscontra in area provinciale) lo accomuna a un frammento di sarcofago di Villa Doria Pamphilj a Roma, datato al primo quarto del secolo IV.11 Notevoli analogie si riscontrano anche con un frammento di uguale età proveniente dalla collezione di Villa Grüber, da poco edito, conservato al Museo Civico di Archeologia Ligure di Genova.12 Restano ancora da approfondire i temi di un’eventuale rilavorazione del manufatto in epoca medievale13 e dell’epoca di provenienza a Genova, nel noto dibattito sul reimpiego dei sarcofagi e dei rilievi classici nella nostra città nel Medioevo e nel Rinascimento.14 Tale problematica è tornata recentemente all’attenzione degli studiosi anche sulla base di nuovi ritrovamenti archeologici, che hanno consentito di inquadrare in una nuova prospettiva, sia pure con cautela, la facies della Genova di Età Romana, Paleocristiana e Bizantina.15 Per quanto riguarda il restauro del sarcofago del Boschetto, la prima fase dell’operazione è consistita in una spolveratura generale del manufatto eseguita con un sistema di aspirazione forzata e pennelli di setola, allo scopo di avere un quadro più chiaro delle effettive condizioni di degrado. Si è potuta così constatare la presenza di macchie di diversa entità e di grossolane stuccature. In seguito si sono eseguiti diversi lavaggî, adoperando acqua deionizzata addizionata con carbonato di ammonio, miscela che si è rivelata particolarmente idonea per rimuovere lo strato di sporco grasso-polveroso. L’operazione è stata eseguita Cfr. ALIZERI 1939. Cfr. BISCONTI 1996, pp. 71-93. 10 Cfr. CAVANA 1998, pp. 16-17. 11 Si ringrazia, per la segnalazione, l’amica Carla Carletti dei Musei Capitolini di Roma. Cfr. Antichità… 1977, tav. CLXX, fig. 321; CAVANA 1998, pp. 16-17. 12 Cfr. QUARTINO 1998a, scheda 84, p. 179. 13 Cfr. CAVANA 1998, pp. 16-17. 14 Cfr. DUFOUR BOZZO 1967, pp. 87-134; DUFOUR BOZZO 1979, pp. 17-58; MELLI 1998a, p. 15. 15 Cfr. DUFOUR BOZZO 1967, pp. 87-134; RUSSO 1974, pp. 25-142; DUFOUR BOZZO 1979, pp. 17-58; RUSSO 1984, pp. 7-48; MELLI 1996, pp. 38-44; FRONDONI 1996, pp. 50-55. 8 9 – 127 – mediante spruzzino e micro spazzolini a setole morbide. La rimozione delle vecchie stuccature è stata realizzata con micro scalpelli e vibroincisori e, a lavoro finito, è stato possibile constatare che il sarcofago era stato adoperato per diversi scopi nel corso dei secoli: vasca di distribuzione d’acqua, lavatoio, fioriera, etc. Si è riscontrata una serie di aperture: tre fori piccoli sul davanti, con resti di tubatura di piombo; un foro circolare sul lato sinistro, probabilmente per l’ingresso dell’acqua; due aperture sul piano di fondo: una rettangolare ben squadrata al centro e una più piccola sulla destra e, infine, sul lato destro una grossa apertura circolare a livello della base, con tutta probabilità eseguita in origine per permettere il deflusso dei liquami organici. Sul bordo si osserva una serie di piccoli fori, ancora con resti di perni in ferro fissati con piombo che forse erano serviti per sigillare il coperchio. Il lavoro di pulitura si è concluso con la rimozione delle piccole incrostazioni e macchie, mediante l’uso di microfrese e impacchi localizzati di acqua ossigenata. Al termine è stato applicato uno strato di RC 80, protettivo idrorepellente della Rhone Poulenc. Tra i più importanti materiali scultorei genovesi, che segnano il passaggio dall’Età Tardoantica – memore del linguaggio della classicità – al nuovo repertorio figurativo dell’Età Bizantina e Altomedievale, spicca il sarcofago di Santa Marta, così denominato perché a lungo collocato all’esterno dell’omonima chiesa, nello spiazzo antistante l’ex sede della Biblioteca Franzoniana, presso piazza Corvetto a Genova. Attualmente, dopo il necessario intervento conservativo, il manufatto è custodito all’interno della Biblioteca, in via del Seminario, e appartiene alle Collezioni d’Arte della Congregazione Operaî Evangelici Franzoniani. Il sarcofago, a forma di cassa, fu rinvenuto nel 1951, murato all’interno della chiesa di Santa Marta nell’altare dedicato a San Giuseppe. Il reperto è giunto mutilo e il rilievo risulta leggermente abraso, ma la sua lettura non ne è compromessa; è decorato sulla fronte da un intreccio di vimini che formano, alternativamente, cerchî e rettangoli. Entro ciascun rettangolo sono campite croci ansate: una astile a braccî liscî, che ricorda per fattura materiali di oreficeria, l’altra con bordi sottolineati da un’incisione. Sul retro è scolpita una grande croce con il braccio lungo parallelo alla base della cassa. Lo stile del rilievo e la tipologia delle croci trovano riscontro con sarcofagi di produzione ravennate e greco-orientale. I tipici motivi a intreccio sono estranei all’iconografia paleocristiana, mentre sono notoriamente diffusi in Età Longobardo-Carolingia. La tecnica di esecuzione e lo stile del rilievo rimandano alla fine del secolo VI-inizî VII. Non si conosce l’ubicazione originaria del pezzo; sicuramente fu reimpiegato come vasca da giardino, secondo quanto denotano i fori all’interno. Si ignora anche il periodo in cui fu importato a Genova, visto che non è possibile una sua esecuzione locale, per quanto è a tutt’oggi dato a sapere relativamente alle produzioni genovesi di Età Bizantina. Il sarcofago di Santa Marta risulta in sostanza un unicum nel panorama cittadino, probabilmente ascrivibile a un centro di cultura egemone (forse appunto Ravenna o Costantinopoli)16 che, nel trapasso fra due epoche, riesce a fondere armoniosamente i caratteri di entrambe. Il manufatto si presentava assai annerito a causa dell’inquinamento ambientale, per la lunga permanenza all’aperto. È stata quindi eseguita un’accurata pulitura a mano con acqua demineralizzata e Neodesogen, con l’ausilio di spazzolini morbidi e bisturi (per le incrostaPer l’inquadramento e confronti cfr. ROSSI 1960, pp. 117-123; RUSSO 1974, pp. 25-142; FARIOLI 1983, pp. 205-253; RUSSO 1984, pp. 7-48; CAVALLI 1987, pp. 19-33; GUIDOBALDI, BARSANTI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1992, passim; CAVANA, FRONDONI 1998, p. 19. 16 – 128 – zioni più resistenti). L’intervento si è concluso con la stesura di un velo di cera microcristallina in White Spirit.17 Come esempio di recente restauro di un notevolissimo manufatto altomedievale, si presenta la lastra con pavoni, proveniente dalla chiesa di San Siro a Genova. La lastra marmorea, pertinente a una iconostasi, fu rinvenuta, già frammentaria, in occasione dei restauri seguiti all’ultima guerra mondiale, reimpiegata nel timpano della facciata. Vi sono raffigurati un pavone intento a beccare un grappolo d’uva e un secondo pavone (del quale rimaneva solo la testa) che pare dissetarsi a una fonte, scaturente da un motivo vegetale a pigna di derivazione orientale. Il rilievo, di alta pregnanza simbolica, con riferimento a un messaggio di salvezza – già approfonditamente esaminato da Colette Dufour Bozzo –, denuncia chiaramente nel tipo di iconografia e di resa stilistica un accentuato legame con la plastica bizantina di Età Macedone ed è stato concordemente ascritto alla seconda metà del secolo X. La forma degli animali riporta a noti modelli di ambito orientale (costantinopolitani). Ad esempio citiamo due pavoni del Museo di Istanbul e, per il tipico trattamento delle ali a incisioni parallele (con rimandi alla tecnica in stucco) alcuni frammenti riferibili a un pavone, provenienti da Fener Isa Camii (secolo X). Il rilievo, nitido, luminoso e ieratico, certo afferente a un’officina aulica, risalente alla capitale, assume anche un forte valore storico e simbolico strettamente connesso con i modi del suo reimpiego. La sua presenza in San Siro, infatti, rimanda a una precisa volontà vescovile per ridare prestigio alla prima cattedrale, forse su committenza della casa imperiale.18 Il rilievo, andato disperso negli anni Settanta del secolo scorso, è stato di recente rinvenuto in numerosi frammenti nel corso di una ristrutturazione dei depositi di Palazzo Reale.19 Una lunga e minuziosa opera di pulitura, studio e ricomposizione delle parti ha consentito di recuperare uno dei manufatti di maggior pregio conservati della Genova altomedievale. L’intervento è consistito nella pulitura dalla polvere e dalle incrostazioni mediante tamponatura con batuffoli di cotone imbevuti di acqua distillata e una miscela di carbonato di ammonio ed E.D.T.A. Si è effettuata, inoltre, un’accurata spazzolatura adoperando microspazzolini morbidi di setola naturale, seguita da lavaggî finali con acqua distillata e asciugatura con batuffoli di cotone. Per valorizzare al meglio la lastra, dopo l’asportazione delle integrazioni in cemento dovute ai vecchî restauri e la chiusura di piccole lacune con Polifylla caricata con pigmenti naturali (terre), i frammenti sono stati ricongiunti mediante l’inserimento di microperni – a scomparsa – in acciaio inox 304, fissati con resina epossidica bicomponente, caricata con polvere di marmo e pigmenti naturali. Si è scelto, in via sperimentale, di esporre il manufatto su di un supporto in plexiglass, che meglio ne valorizzasse rilievo e particolari stilistici. Dopo il restauro, la lastra di San Siro è stata consegnata al Museo Diocesano di Genova, dove recentemente è stata riportata all’attenzione degli studiosi in occasione di una mostra sulla Liguria cristiana.20 Dopo un primo intervento di pulitura e l’esecuzione del calco in occasione della già ricordata mostra Christiana Signa, testimonianze figurative a Genova fra IV e XI secolo (Genova, 1998-1999), il sarcofago è stato restaurato da Valentina Brodasca, in accordo e in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria, per l’esposizione alla mostra Roma e la Liguria Maritima: secoli IV-X. La capitale cristiana e una regione di confine (Genova, 15 febbraio-31 agosto 2003). Si ringrazia don Claudio Paolocci per il prestito dell’opera e la collaborazione. 18 Nel 999 è documentata, infatti, una donazione alla chiesa di San Siro da parte dell’imperatrice Adelaide di Borgogna, coeva all’analogo intervento per San Fruttuoso di Capodimonte; cfr. FRONDONI 1998, p. 26. 19 Si ringrazia Luca Leoncini, direttore del Museo di Palazzo Reale, nonché Matteo Caropreso e Simone Frangioni per la fattiva collaborazione nella ricerca e ricomposizione della lastra. 20 Cfr. Roma… 2003. 17 – 129 – Fig. 1 – Genova, Museo Civico di Archeologia Ligure, sarcofago del Buon Pastore, particolare (foto: Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria) Fig. 2 – Genova, abbazia di San Nicolò del Boschetto, sarcofago tardoromano (foto: Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria) – 130 – Fig. 3 – Genova, Collezioni d’Arte degli Operaî Evangelici Franzoniani, sarcofago di Santa Marta (foto: Soprintendenza Archeologica per la Liguria) Fig. 4 – Genova, Museo Diocesano, lastra con pavoni (foto: Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria) – 131 – Fig. 5 – Genova, Museo Diocesano, Lastra con Pavoni, particolare (foto: Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria) – 132 – SAN DAMIANO A GENOVA: UNA FONDAZIONE DI ETÀ LONGOBARDA? Marina Cavana La chiesa dei Santi Cosma e Damiano1 sorge in quella che a tutti gli effetti può essere considerata la parte più antica della città di Genova. Questa occupava la collina di Castello/Sarzano, le sue zone limitrofe e quelle attorno all’approdo del Mandraccio. In epoca bizantino-longobarda sembra essere questo il nucleo cittadino vero e proprio, mentre la collina di Serravalle appare periferica rispetto alla compattezza di quest’area che si articola lungo le direttrici principali e l’antico foro – oggi piazza San Giorgio –, per poi proseguire su verso il valico di Sant’Andrea.2 Questa dualità – centro e periferia – è evidenziata anche dalla presenza di antichi fitonimi e dai risultati degli scavi archeologici che individuano ampie zone verdi nella regione di Serravalle.3 Lo stesso assetto stradale non fa che confermare la centralità dell’area, dove sorge la chiesa dei Santi Cosma e Damiano. Le antiche vie si organizzano, infatti, attorno alla collina di Sarzano, verso il Prione – valico di Sant’Andrea – e, in parte, lungo le pendici che portano all’area del castello. La chiesa viene a trovarsi così in un punto strategico dell’intero sistema di viabilità, punto di cerniera fra le strade commerciali di fondovalle rettilinee e quelle di difesa più tortuose, che salgono verso il castrum. L’edificio è, inoltre, chiuso fra due vie pubbliche di grande importanza; mentre alle spalle giunge il vicolo che porta alla chiesa di Santa Maria di Castello, prosecuzione del vico drictus de Castro che tagliava trasversalmente l’area fortificata.4 San Damiano è circondata dagli stanziamenti delle famiglie aristocratiche considerate di più antico lignaggio, potenti sia dal punto di vista politico sia finanziario: Vento, Volta, Mallone, Embriaci, Castro, Zaccaria, attestati con le loro abitazioni, ma anche con torri.5 Questa presenza intorno all’edificio sacro non fa che ribadire l’importanza dell’area e la non casualità della scelta del sito di fondazione. Oggi, la chiesa si presenta in forme tardoromaniche e soltanto uno scavo archeologico potrebbe fornire dei dati concreti sull’edificio originario, almeno a livello planimetrico, anche Il presente contributo fa riferimento a un ulteriore intervento più articolato e approfondito in corso di stampa. Cfr. CAVANA c.d.s. 2 Sulla viabilità cittadina e sulla continuità abitativa fra Tardoantico e Altomedioevo si hanno notizie sia dalle fonti scritte sia dagli scavi archeologici; cfr. GROSSI B IANCHI, P OLEGGI 1987, passim; MELLI 1987 (ma 1990), pp. 299-315; Genova… 1992; Città… 1996; in particolare TORRE 1996, pp. 45-49; FRONDONI 1996, pp. 50-55; DUFOUR B OZZO 2001, pp. 293-312; CAVANA c.d.s. (ma 2000). 3 Queste ampie zone verdi oltre a essere identificabili con i fitonini, sono state individuate attraverso le indagini archeologiche, che hanno evidenziato la presenza di orti, giardini, discariche, necropoli e attività artigianali. Cfr. OSSIAN D E N EGRI 1960-1961, pp. 58-98; FRONDONI 1982, pp. 351-364; MELLI, G ARDINI 1987 (ma 1990), pp. 316-320; VARALDO GROTTIN 1992, pp. 22-24. 4 Cfr. O SSIAN D E N EGRI 1960-1961, pp. 73-98; M ANNONI , P OLEGGI 1974, p. 173; G ROSSI B IANCHI , POLEGGI 1987, pp. 46-47, 52-54, 86-90; MELLI 2001b, pp. 103-111. 5 Cfr. G ROSSI B IANCHI , P OLEGGI 1987, passim; P AVONI 1986, pp. 241-253; P AVONI 1988, pp. 345-367; CAGNANA, GIORDANO c.d.s. 1 – 133 – se alcune ipotesi sull’aspetto possono essere comunque lecite: una struttura di non grandi dimensioni, ad aula con unica abside, che potrebbe insistere sull’attuale maggiore.6 Nelle fonti scritte più antiche la chiesa è identificata con il solo titolo di San Damiano.7 A seguito di una ricerca condotta da parte di chi scrive, il santo è stato identificato con Damiano, vescovo della città di Pavia fra i secoli VII e VIII.8 Il presule – secondo quanto è stato possibile accertare dagli studî9 – avrebbe fatto parte di un gruppo di monaci orientali fuggiti dall’Impero Bizantino perché in disaccordo con la posizione del basileus sulla questione monotelita. I religiosi avrebbero trovato rifugio a Roma, ben accolti dal papa, che li avrebbe destinati nelle diverse sedi episcopali. A un’attenta analisi emerge quanto questi uomini siano apprezzati proprio per le doti di alta cultura che possiedono e mettono al servizio della Chiesa. Nutriti e formati dalla cultura orientale, ne ripropongono molti aspetti negli incarichi svolti nelle nuove destinazioni, talvolta in misura tale da marcare in maniera quasi inequivocabile la loro presenza e patrocinio. Damiano – approdato anch’egli a Roma in fuga dalle terre imperiali – è assegnato in un primo momento alla Diocesi di Milano – una delle più importanti del Nord Italia –. Delle sue alte conoscenze e carisma riconosciuti ne sono testimonianza alcuni episodî, che ben chiariscono la fama del monaco, soprattutto dopo la morte, giustificandone la devozione. Durante la permanenza milanese avrà l’incarico di stendere la lettera sinodale in lingua greca inviata a Roma e quindi a Costantinopoli, nella quale si condanna da parte dei vescovi del Regno Longobardo l’eresia monotelita (679 o 680). Giunto a Roma con l’importante documento e in attesa che papa Agatone, letta la missiva, dia il consenso per la sua trasmissione all’imperatore a Costantinopoli, il pontefice muore. Sembra che in questa occasione sia proposto a Damiano di salire al soglio pontificio, ma rifiutato un così alto incarico, accetta, invece, di occupare la sede della Diocesi di Pavia – capitale del Regno Longobardo – resa vacante dalla morte di Anastasio. Altro episodio indicativo: la sede episcopale pavese è assegnata – per la prima volta – direttamente dal nuovo papa, mentre per prassi la nomina avrebbe dovuto provenire dall’arcivescovo di Milano, di cui Pavia era suffraganea; il motivo: la città, come capitale del Regno Longobardo, è considerata sede missionaria per eccellenza e quindi investita direttamente dal pontefice. Durante il suo mandato, il vescovo ticinese riesce a riportare in seno alla Chiesa di Roma gli scismatici dei Tre Capitoli, si adopera per far affermare in tutto il regno la fede cattolica, convertendo 6 Cfr. V ENTURINI 1984, pp. 105-114; B UGLI , C ASAPIETRA , D E C UPIS 1993, pp. 87-92; CAVANA 1994-1995; CAVANA 1999-2000. 7 Il primo documento nel quale è nominata la chiesa è del 1049 – infra civitate Ianua prope ecclesia Sacti Damiani –; cfr. VIGNA 1864, pp. 465-467, n. 1 (1049, aprile 7 – Genova). Non è accettabile, invece, fare riferimento al documento del 1007 (VENTURINI 1984, pp. 105, 109), poiché il preposito di San Damiano Bonifacio da Portofino è testimone soltanto alla trascrizione e autentica dell’atto del 1007 compiuta il 23 marzo 1332 dal notaio Bonvicino de Regio su ordine dell’abate di San Siro, cfr. BASILI POZZA 1974, pp. 1417, n. 9 (1007, febbraio – <Genova>). Documenti riguardanti la chiesa si ritrovano un po’ ovunque: a puro titolo esemplificativo si scorrano gli indici di V IGNA 1864; Oberto… 1939; Guglielmo… 1938; Giovanni… 1939-1940; BASILI P OZZA 1974. Esiste anche una tradizione orale che vuole la fondazione di un oratorio nei secoli VII-VIII; cfr. P ORTIGLIOTTI 1923, p. 522; DE S IMONI 1948, vol. II, p. 167. 8 Sulla figura di San Damiano cfr. C ICERI 1910; M AIOCCHI , M OIRAGHI 1910; S AVIO 1932, parte II , vol. II , pp. 366-369; AMORE 1964, col. 445. 9 Cfr. B OGNETTI 1966 (ma 1939), vol. I , pp. 143-217; B OGNETTI 1966 (ma 1948), vol. II , pp. 411-436, 460-553; BOGNETTI 1954, vol. II, pp. 190-196, 224-234; BOGNETTI 1968 (ma 1958), pp. 198-203; B OGNETTI 1976 (ma 1952), pp. 129-139; ARSLAN 1954, vol. II, pp. 532-534; GASPARRI 1987, vol. II, p. 47. Per inquadrare meglio le vicende e la figura stessa del presule nel Regno Longobardo cfr. Longobardi… 1990; Futuro… 2000a; Futuro… 2000b, tutti con bibliografia relativa. – 134 – ariani, pagani e scismatici. Tutta la sua opera si svolge in stretto accordo con il re Cuniberto, speranzoso, in questo modo, di consolidare il proprio regno. Per ottenere questi risultati il vescovo si serve di gruppi missionarî che invia in tutto il territorio con il compito di fondare nuove chiese con valore esaugurale e convertire le devianze. Nel modus operandi di Damiano e di conseguenza dei suoi coadiutori sono evidenti i ricordi della cultura orientale di origine, ma anche quanto appreso durante il soggiorno presso la diocesi milanese.10 Alla sua morte – avvenuta intorno al 710 –, secondo quanto può dedursi dalla lettura dell’epitaffio sepolcrale, è già considerato santo.11 Ora, visto quanto aveva rappresentato, non solo per il Regno Longobardo, ma anche per la Chiesa, è lecito ipotizzare che anche il suo nome entri a far parte di quel gruppo di santi ai quali sono consacrati nuovi edificî di culto con valore esaugurale, in questo caso forse anche con intenti molto simili a quelli che avevano caratterizzato secoli prima le dedicazioni a Sant’Ambrogio.12 Le chiese intitolate a San Damiano individuate finora sorgono tutte in quello che nel secolo VIII è il Regno Longobardo; mentre sembrano del tutto assenti nei territorî estranei alla loro dominazione, fatto che ne avvalorerebbe l’attribuzione al santo vescovo pavese.13 Nel caso specifico esse si dispongono, in particolare, – oltre che in un’area di diretta influenza dell’episcopato ticinese14 – lungo la direttrice che da Pavia si dirige verso il litorale ligure e Genova.15 Sempre in ambito ligure, un altro gruppo è attestato nel Ponente, nella zona dell’attuale Diocesi di Albenga; in questo caso in concomitanza con dedicazioni ai Santi Cosma e Damiano, che accrediterebbero la specificità della consacrazione al solo Damiano.16 Le fondazioni individuate sembrano possedere alcuni punti in comune, che in un certo qual modo le inserirebbero nel medesimo milieu storico-culturale che le ha generate. È riscontrabile, infatti, una serie di dati che ben si accorderebbero con una presunta esistenza in Età Longobarda; tali luoghi, poi, sembrerebbero occupare una posizione strategica, che 10 Cfr. M AIOCCHI , M OIRAGHI 1910; S AVIO 1932, vol. II , parte 2, pp. 366-369; B OGNETTI ; 1966 (ma 1948), vol. II, pp. 415-416, 423-424, 467-468; BOGNETTI 1976 (ma 1952), pp. 123, 127; BOGNETTI 1954, vol. II, pp. 225, 230-231, 233. 11 Per la trascrizione dell’epitaffio cfr. M.G.H., vol. IV , pp. 719-ss.; D E R OSSI , 1888, p. 170, n. 26; S AVIO 1932, vol. II, parte 2, p. 24; BOGNETTI 1954, vol. II, p. 190 nota 3. 12 I punti di contatto con il presule milanese sono diversi a partire dalla devozione verso i Santi Nazario e Celso; interessante nelle narrazioni dedicate ai due vescovi il porre l’accento sull’opportunità per entrambi di essere eletti papa e il repentino rifiuto, caratterizzato addirittura dalla fuga; cfr. BOGNETTI 1954, vol. II, pp. 192, 225; BOGNETTI 1966 (ma 1948), vol. II, pp. 410-416; BOGNETTI 1976 (ma 1952), p. 127. 13 Qui di seguito sono elencate le chiese – nella regione ligure e aree limitrofe – che in origine sembrerebbero dedicate al vescovo ticinese, senza alcun riferimento bibliografico, per il quale si rimanda a C AVANA c.d.s.: Genova, Struppa (Genova), Arezzo (Alessandria), Monterotondo – presso Gavi – (Alessandria), Montaldeo? (Alessandria), tra le carte della Chiesa di Acqui (Alessandria) esiste una brayda di San Damiano, Castelnuovo Scrivia (Alessandria), Montesegàle in Val Stàffora (Pavia), San Damiano Piacentino (Piacenza), San Damiano al Colle (Pavia), Motta San Damiano (Pavia), San Damiano d’Asti (Asti) – nucleo fondato nel pieno Medioevo, ma frutto dell’unione di agglomerati più antichi –, San Damiano Macra (Cuneo); nell’attuale Diocesi di Albenga (Savona) si hanno a Stellanello e Loano. 14 In provincia di Pavia e Piacenza si trovano San Damiano Piacentino, San Damiano al Colle e San Damiano Motta. Si segnala, tuttavia, che l’elenco non intende essere completo. 15 Lungo le direttrici che da Pavia portano a Genova sono da segnalare le località di Castelnuovo Scrivia, Monterotondo, Arezzo (Val Vobbia), Montaldeo. 16 Gli edificî sacri dedicati a San Damiano sono a Stellanello, in località San Damiano, e presso Loano; mentre quelli ai due santi medici sono a Magliolo, in frazione Santi, in Valle Arroscia: Borghetto d’Arroscia e Gavenola – con anche il passo di San Cosimo –, Erli, Andora, Torre Paponi. Cfr. G RILLO 1959, pp. 154, 156, 160; MERIANA 1987, vol. I, pp. 33, 34, 80; MERIANA 1991, p. 76; PAZZINI P AGLIERI, PAGLIERI 1990, p. 52. – 135 – va a insistere soprattutto su siti ubicati lungo le vie di comunicazione con la capitale del regno omonimo. Queste le premesse necessarie per meglio definire il caso della chiesa genovese. L’edificio sacro, che – secondo quanto riportato – può ipotizzarsi fondato ab antiquo, è collocato in una posizione che può essere considerata non casuale, ma sembra seguire uno schema preciso. A sostegno della tesi iniziale, due aspetti meritano di essere presi in considerazione, pur se con le cautele del caso. L’abside maggiore dell’attuale fabbrica – che ricalca probabilmente quella originaria17 – è tangente all’antica strada che corre a monte; nella stessa situazione si trovavano le chiese di San Giorgio e quella dei Santi Nazario e Celso – oggi cripta del santuario di Nostra Signora delle Grazie –. Questo fatto non appare casuale, ma sembrerebbe legare – almeno visivamente – le tre chiese, fondate in epoche differenti,18 ma che pur nelle diverse intitolazioni sembrano richiamare la figura di Damiano.19 Le dedicazioni riferibili, inoltre, – secondo gli ultimi studî – a fondazioni di epoca longobarda in città – San Donato, Santi Nazario e Celso, San Damiano – vengono a disporsi attorno alla collina di Castello, dove sorge la chiesa consacrata alla Vergine – anch’essa forse della medesima epoca –, delimitando quello che può considerarsi il nucleo della città altomedievale.20 L’intitolazione della chiesa genovese a San Damiano si inquadrerebbe, perciò, in una committenza, che non sembra locale, ma parrebbe giunta da fuori, forse addirittura voluta dall’alto. Potrebbe inserirsi, infatti, all’interno di una rinnovata attenzione da parte della monarchia longobarda per il capoluogo ligure, attenzione che potrebbe farsi risalire al secolo VIII, periodo di un nuovo interesse verso Genova, culminato con l’arrivo, per volere di Liutprando, delle reliquie di Sant’Agostino, tratte in salvo dalla Sardegna e riposte a Pavia, secondo quanto riportato da Paolo Diacono.21 In base a una serie di confronti – sia sugli edificî genovesi sia su quelli del Regno Longobardo – si può supporre che l’eventuale chiesa, possa essere stata ad aula unica, monoabsidata, con la terminazione che dovrebbe coincidere con l’attuale abside maggiore, poiché questo spazio – che è anche quello più sacro – sembra essere un punto fermo dell’intera costruzione, condizionato anche dalla posizione. Sulla tipologia planimetrica delle chiese di Età Longobarda cfr. PAVAN 1990, pp. 236-238, con schede pp. 239-289; SERRA 1995, pp. 194-200, entrambi con bibliografia relativa. 18 Sulla chiesa di San Giorgio, per la quale è stata avanzata una fondazione di epoca bizantina, cfr. B OGGERO 1978, p. 2. Sulla chiesa dei Santi Nazario e Celso, forse fondata dai missionarî inviati da Damiano, cfr. S ERRA 1995, pp. 194-200; FRONDONI 1996, pp. 53-54. 19 Il vescovo, devoto ai martiri milanesi Nazario e Celso, ne fa restaurare la chiesa a Pavia e vi si fa sepellire; mentre sembra che dietro la dedicazione a San Giorgio del monastero fondato da re Cuniberto dopo la vittoria di Coronate, ci sia Damiano. Sulla devozione ai Santi Nazario e Celso cfr. M AIOCCHI, M OIRAGHI 1910, pp. 28-30; BOGNETTI 1954, vol. II, pp. 224-227, 233; B OGNETTI 1966 (ma 1948), vol. II, pp. 415416, 530-531; BOGNETTI 1976 (ma 1952), pp. 136-137; sulla dedicazione del monastero di Coronate cfr. BOGNETTI 1966 (ma 1939), vol. I, pp. 205-206; BOGNETTI 1966 (ma 1948), vol. II, pp. 460-463; B OGNETTI 1976 (ma 1952), pp. 128-129; GASPARRI 1987, p. 47. 20 Tipiche del periodo longobardo sono, infatti, le dediche a San Michele – santo nazionale –, a San Donato – vescovo di Arezzo nel secolo IV e assunto come protettore dalle truppe arimanne aretine –, ai Santi Nazario e Celso – santi ambrosiani, ma riproposti dai missionarî coadiuvati da Damiano e, ancora, quelle alla Vergine – patrocinata dai missionarî orientali e utilizzata soprattutto per le alture. In generale cfr. BOGNETTI 1976 (ma 1952), pp. 105-143, in particolare pp. 128-129, 132-134, 136-137, 140-141. Sulle dedicazioni genovesi cfr. CAVALLI 1984, pp. 365-404; TRAVERSONE 1995, pp. 186-193; SERRA 1995, pp. 194-200; FRONDONI, M ELLI 1998, scheda 21/1-2; FRONDONI 1998a, p. 21; CAVANA, FRONDONI 1998b, p. 27; CAVANA c.d.s. 21 Figura chiave è quella di Liutprando (712-744), cfr. B OGNETTI 1966 (ma 1948), vol. II , p. 563; G ASPARRI 1987, vol. II , pp. 51-58; MENIS 1990, pp. 342-343; GASPARRI 2000, pp. 94-96. Sull’arrivo delle reliquie 17 – 136 – Con il passare del tempo l’originaria intitolazione – non alimentata da una devozione locale – sembra essere dimenticata, sostituita da quella ai Santi Cosma e Damiano, santi popolari e sicuramente più noti e venerati. La certezza di questo cambiamento si ha dalla seconda metà del secolo XIII, quando da Costantinopoli giungono le reliquie dei due santi medici, ma molto probabilmente già da tempo la devozione era rivolta ai due fratelli orientali.22 Il ricordo della precedente dedicazione resta ancora a lungo negli atti scritti, dove si continua a individuare l’edificio ecclesiastico con il solo titolo di San Damiano. Questa traccia è quella che ha permesso di indirizzare la ricerca verso i primi secoli del Medioevo per arrivare a formulare l’ipotesi di una fondazione altomedievale, dotata di connotati del tutto particolari e tali da identificarla come una delle chiese più antiche e carismatiche della città, sorta in un periodo di cui si sa ancora molto poco, ma che pur lentamente potrebbe iniziare ad assumere contorni meglio definiti. A questo proposito vale la pena gettare un altro sasso nello stagno delle ipotesi e considerazioni: una seconda chiesa consacrata a San Damiano sorge molto prossima alla città, in Val Bisagno a Struppa, luogo in cui la tradizione vuole sia nato San Siro, protovescovo genovese. L’edificio sacro è attestato con il solo titolo di San Damiano dal 985.23 Interessante sarebbe indagare gli eventuali legami e le motivazioni che portano in uno spazio relativamente ristretto alla fondazione di ben due chiese consacrate al vescovo ticinese. di Sant’Agostino – approdate a Genova e portate a Pavia – cfr. DIACONUS, VI, 48; DI F ABIO 1978, pp. 3961; D I F ABIO 1980, pp. 123-133, in particolare pp. 123-126; POLONIO 1999, pp. 83-84. 22 Sui Santi Cosma e Damiano cfr. C ARAFFA , C ASANOVA 1964, coll. 223-237; M ANNS 1987, vol. II , pp. 127-130; CATTABIANI 1993, pp. 292-295. Sulle reliquie giunte a Genova nella seconda metà del secolo XIII, portate da Enrico Mallone e Nicolò Spinola da Costantinopoli cfr. DE S IMONI 1948, p. 172; MARCENARO , R EPETTO 1974, vol. II , p. 222. Altro indizio che potrebbe far pensare ad un cambiamento avvenuto già antecedentemente è la presenza delle absidi immissæ, almeno dai secoli XII-XIII, una tipologia che guarda espressamente all’Oriente come è stato recentemente proposto da chi scrive, cfr. C AVANA 1999, pp. 179-182; CAVANA 2002, pp. 455-462; CAVANA 2004, pp. 291-293; CAVANA c.d.s. (ma 1999). 23 Il documento, uno dei più antichi nel Registro della curia arcivescovile di Genova, si riferisce a un atto di locazione, nel quale Marco e Benedetto rivendicano una proprietà che dicono essere stata già dei loro avi – famuli di San Damiano –, cioè circa cinquant’anni prima, intorno al 935. La chiesa, quindi, a quella data esisteva e aveva proprietà e uomini legati al suo servizio. Cfr. BELGRANO 1862, vol. II, pp. 178-180. Sulla chiesa cfr. REMONDINI 1882-1897, vol. IV, pp. 176-183; MARCENARO, REPETTO 1974, vol. II, pp. 227-230. – 137 – Fig. 1 – La chiesa dei Santi Cosma e Damiano in un disegno degli inizî del Novecento Fig. 2 – San Cosimo di Struppa (Genova), la chiesa dei Santi Cosma e Damiano (foto: M. CAVANA) – 138 – L’ABBAZIA CISTERCENSE DI TIGLIETO: NOTIZIE SUGLI ULTIMI SCAVI Fabrizio Geltrudini-Piera Melli-Eleonora Torre-Emilia Vassallo L’abbazia cistercense di Santa Maria di Tiglieto, denominata dagli abitanti della zona Badia, è ubicata nel comune di Tiglieto, provincia di Genova, a poca distanza da Sassello. Il complesso abbaziale fu eretto quasi a ridosso delle prime propaggini montuose retrostanti la pianura alluvionale, ricca di boschi, detta Selva dell’Orba, nel versante nord dell’altopiano del Beigua. Il vasto massiccio forestale del Beigua, nell’Alto Medioevo, risulta sostanzialmente ancora intatto e costituisce proprietà imperiale, utilizzata per lo più come riserva di caccia.1 Civitacula2 è il toponimo primitivo di Tiglieto3 e – già a partire dalla seconda metà del secolo XII – tende a scomparire a favore di quest’ultimo.4 L’area è collocata in una posizione favorevole rispetto ai principali passi appenninici e agli itinerarî verso l’Oltregiogo.5 Da un atto di donazione del 4 gennaio 1127 risulta la presenza di una comunità religiosa posta sotto la guida di un abate: si può indicare l’anno 1120, come più volte segnalato dalle fonti cistercensi e dalla tradizione erudita ligure, per la fondazione dell’abbazia; tuttavia la dipendenza di Tiglieto dall’ordine di Cîteaux è indicata esplicitamente solo in un privilegio del luglio 1132.6 Il complesso monastico di Tiglieto attualmente è costituito da tre soli corpi di fabbrica – disposti a Sud della chiesa intorno a un nucleo centrale quadrato – lungo i tre assi ortogonali Est, Nord,7 Sud; l’edificio occidentale è invece totalmente moderno. Nonostante le sostanziali trasformazioni subite dai singoli ambienti monastici è stato possibile, grazie a un’analisi dei resti delle fondazioni, rintracciare parte dei vani che un tempo costituivano il monastero: in particolare al pianterreno dell’ala est – a partire dal transetto sud della chiesa – rimangono tracce dell’antica sacrestia cui seguono l’armarium e la sala capitolare a cui si accedeva dal chiostro.8 Cfr. MORENO 1971, pp. 327-330. Paolo Diacono cita per ben tre volte la selva, definendola riserva di caccia: cfr. DIACONUS, V, 37-39; VI, 58. 2 Secondo un’ipotesi datata Civitacula era un castello bizantino: cfr. BIORCI 1879, pp. 13-34; altri pensano piuttosto che si trattasse di una piccolo nucleo con probabile dimora di caccia dei re longobardi. Cfr. CASALIS 1850, p. 949; ROVERETO 1930, p. 52. 3 Il collettivo in eto deriva dal fitonimo tilia, ossia tiglio: cfr. PETRACCO SICARDI, CAPRINI 1981; CALVINI 1984. 4 I documenti medievali fino alla metà del secolo XII riportano spesso la doppia denominazione Civitacula seu Tilietum; in seguito Civitacula diviene solo un toponimo colto. Cfr. Carte… 1912-1923. 5 Cfr. POLONIO 1998; TORRE, GELTRUDINI 2001; VASSALLO 2001. 6 Per una rassegna bibliografia sull’argomento cfr. VASSALLO 2001, pp. 153-154, nota 19. Per l’edizione dei documenti citati cfr. Carte… 1912-1923, p. 229, doc. I (1127, gennaio 4 – Tiglieto), pp. 230-232, doc. III (1132, luglio 26 – Brescia). 7 L’ala nord del chiostro corrisponde al prospetto della navata destra della chiesa. 8 Per una dettagliata analisi architettonica del complesso e una notizia preliminare sugli scavi del 1999 cfr. VASSALLO 1998b, pp. 18-31; Badia… 2001. 1 – 139 – Armarium e sala capitolare L’armarium corrisponde a un vano di circa m 5 per lato, lungo le cui pareti si aprono tuttora delle nicchie (gli armaria) nelle quali si conservavano i manoscritti e i documenti abbaziali. La sala capitolare è un ambiente di circa m 9 di lato, a nove campate uguali: il locale è scandito da quattro colonne in pietra su cui poggiano capitelli a cubo scantonato con una semplice decorazione a foglie lisce; analoga decorazione viene ripresa dalle mensole di imposta delle volte e dai piedritti delle trifore.9 Ogni campata è voltata a crociera e ciascuna vela è delimitata da costoloni torici, definiti da Bartolomeo Campora10 a dorso di anguilla. In origine, presumibilmente, le pareti della sala erano parzialmente prive di intonaco: il cotto fu inserito nelle pareti, nelle trifore e nei costoloni, la pietra nelle chiavi di volta e nelle mensole, nelle colonne e in alcune parti delle trifore e, infine, il marmo nelle ghiere degli archi delle finestre. Chiostro Dell’antico chiostro abbaziale attualmente si conserva solo uno spazio quadrangolare di circa m 30 per lato,11 che probabilmente in origine era coperto da un tetto ligneo a falda unica. Dai resti dei capitelli e di alcune pietre si ritiene che gli archetti del peristilio fossero realizzati con centinatura a pieno centro.12 Gli scavi 1999 In occasione dei lavori di restauro del complesso abbaziale sono stati realizzati i primi tre interventi di indagine archeologica: un sondaggio d’emergenza nel chiostro e lo scavo in estensione della sala capitolare e dell’armarium. Le preesistenze Una prima fase di frequentazione, precedente alla costruzione dell’abbazia, è leggibile in alcuni interventi su una superficie creata artificialmente alla sommità di strati alluvionali sterili. All’epoca il sito si presentava come una collina in leggera salita verso Sud, che in seguito venne destinata a cimitero da una comunità non meglio delineabile. Nello scavo si sono rinvenute undici tombe in nuda terra con orientamento obliquo rispetto a quello poi In merito all’analisi delle membrature architettoniche e della scultura dell’abbazia di Tiglieto: cfr. VASSALLO 1998a; VASSALLO 2001, passim. 10 Gli appunti di Bartolomeo Campora, mai pubblicati, furono divulgati da Gaetano Rovereto: cfr. ROVERETO 1930. 11 Nel 1961, durante una campagna di lavori di restauro all’abbazia a opera dell’allora Soprintendenza ai Monumenti della Liguria, furono messe in luce parti delle fondazioni del muro di delimitazione interna del deambulacro e alcune sepolture: in particolare nell’angolo nord-est dell’antico chiostro cistercense emerse un sarcofago che, in seguito a un’accurata analisi, risultò corrispondere alla sepoltura del marchese Isnardo Malaspina; per un cenno sulle sepolture: cfr. IGHINA, MAZZINO 1961. 12 Per ulteriori dettagli: cfr. VASSALLO 2001, pp. 109-111. 9 – 140 – adottato per l’abbazia. Alcune di queste sepolture sono caratterizzate dalla presenza di lenti nerastre a contatto con i corpi, forse originate da carbonizzazione spontanea di elementi organici (cortecce o assi lignee?); parte di esse presentano dimensioni superiori e una maggiore profondità e hanno, in media a cm 70 dalla quota di partenza della fossa, due riseghe sui lati lunghi, al di sotto delle quali il taglio si restringe ulteriormente. In via preliminare, in attesa della datazione fornita dal C14, per l’assenza di reperti riferibile a facies romana e tardoantica, le tombe possono essere datate al Medioevo. Il loro orientamento – come si è visto, diverso rispetto a quello abbaziale – consente di non escludere l’esistenza, nel momento della sepoltura, di vincoli architettonici di cui non conosciamo la posizione. La costruzione del complesso: l’ala est Lo studio delle fondazioni dell’armarium e della sala capitolare ha stabilito che la definizione planimetrica dell’ala est avvenne in modo graduale dopo uno spianamento dell’area. Un troncone di muro in ciottoli e malta, che si connette perpendicolarmente alla fondazione della facciata ovest, sembra con quest’ultima precedere il piano architettonico definitivo. Parimenti il perimetrale nord dell’armarium rifascia una fondazione a sacco apparentemente più antica. Le prime pavimentazioni dei locali erano in cocciopesto, come si è dimostrato nel locale armarium, dove, in questa stessa prima fase edilizia, sono realizzate quattro nicchie nei muri. Nella sala capitolare sono state individuate minori tracce di cocciopesto, che consentono comunque di ipotizzare che anche qui vi fosse una pavimentazione analoga a quella dell’adiacente armarium. Ristrutturazioni successive Dopo una fase di abbandono si assiste a una intensa attività edilizia che prevede il rialzamento dei livelli nei due locali che sono pavimentati a mattoni. In seguito il locale armarium subisce un rimaneggiamento con la posa di un piano in grandi ciottoli di fiume e mattoni, legato presumibilmente all’utilizzo del locale per scopi militari.13 Nella sala capitolare si assiste, oltre che a un successivo rialzamento della quota di calpestio, alla realizzazione di un altare appoggiato al perimetrale sud. Ulteriori modifiche riguardano ancora il locale armarium, dove è steso un altro pavimento in mattoni. Nel perimetrale sud è realizzata un’apertura che consente l’accesso alla sala del capitolo. Lo spazio interno al vano armarium subì una successiva e più recente parcellizzazione con la costruzione di due tramezzi, tramite cui si ottennero due locali laterali e un corridoio, che dava accesso alla sala capitolare; qui la risistemazione definitiva del locale portò alla realizzazione di un altare che inglobò la struttura precedente di identica funzione.14 Alla medesima fase si assegna il parziale tamponamento di una nicchia di cui fu ridotta la luce per realizzarvi un’apertura a feritoia: non si esclude un riferimento all’assalto di Badia avvenuto la notte del 12 Luglio 1583: cfr. Genova, Archivio di Stato: Archivio Segreto; 360 C, Confinium, doc. 20 (1583, luglio 12). 14 Non è possibile stabilire se la realizzazione di questo altare sia contestuale alla trasformazione d’uso, che il vano 13 – 141 – La limitata indagine nel chiostro15 ha consentito di individuare quattro sepolture di forma rettangolare, a due a due sovrapposte in posizione privilegiata e in appoggio alla fondazione del muro della sala capitolare; esse sono posizionate in corrispondenza dello stipite settentrionale del portale di accesso al vano. È stato possibile documentare le numerose riaperture che le tombe subirono con la serie dei riempimenti delle rideposizioni successive. L’ultima fossa, che insiste su una sepoltura, non presenta tracce di rattoppo del pavimento del deambulacro: non si esclude che ciò possa essere legato alla avvenuta dismissione della zona di transito del chiostro.16 All’interno, nel riempimento di asportazione delle sepolture più antiche, sono state rinvenute quattro fibbie circolari con ardiglione mobile in bronzo di cui una conserva un sottile residuo di cuoio. Sono questi gli unici elementi di datazione per le tombe che si collocano tra i secoli XIII e XIV.17 Acquisizioni recenti: le indagini nella chiesa La ripresa dei lavori di restauro nella chiesa ha fornito l’opportunità, fra l’autunno del 2001 e l’inizio del 2002, di intraprendere sondaggî nei settori archeologicamente più promettenti al di sotto dei piani pavimentali. È noto che l’edificio liturgico subì nel tempo varie modifiche e in particolare l’inversione di orientamento, recentemente datata a epoca immediatamente anteriore all’acquisizione del complesso da parte della famiglia Raggî, avvenuta nel 1652.18 Tra i principali risultati dello scavo, che qui si anticipano, vi è la conferma che, nell’assetto originale, la chiesa comprendeva solo quattro campate, per una lunghezza totale di m 20,77. In precedenza l’ipotesi di un allungamento della chiesa era stata avanzata sulla base dell’analisi delle murature e della mensiocronologia. In questa occasione si è verificato sul terreno che la primitiva facciata fu rasata intorno al 1150, come dimostrano i reperti archeologici in fase. In epoca immediatamente successiva, sulla distruzione del muro fu impostata una sepoltura in nuda terra che si distingueva da tutte le altre, rinvenute all’interno della chiesa, per l’orientamento divergente rispetto agli assi dell’edificio, confrontabile con quello delle tombe nell’armarium. Del nuovo assetto della chiesa sono state documentate le successive pavimentazioni: la prima era in cocciopesto su vespaio in ciottoli.19 Un secondo pavimento di questo tipo, in subisce quando diviene oratorio della confraternita dei Disciplinati, nominato sotto il titolo di San Bernardo in una visita pastorale del 1650, cfr. Acqui Terme, Archivio Vescovile: Libro delle visite pastorali di monsignor Ambrogio Bicuti vescovo di Acqui dal 19 maggio 1644 al 10 marzo 1675, vol. I, c. 114 v., (1650, ottobre 28). 15 Il saggio, legato alla realizzazione di una trincea lungo il fianco est del muro della sala capitolare, ha riaperto in parte l’area delle indagini degli anni Sessanta per cui cfr. qui nota 11. 16 Eugenio IV in data 20 ottobre 1442 – a causa dell’inarrestabile declino dell’istituto – eresse l’abbazia in commenda e soppresse il monastero di Tiglieto (cfr. MUZIO 1722, c. 34 r.). La lettura, a voce alta, della lettera di soppressione avvenne sia nel chiostro sia nella sala capitolare sia in chiesa. È certo, quindi, che nel 1442 a Tiglieto il chiostro era ancora esistente, anche se non si conosce la data della sua scomparsa. 17 Per un recente aggiornamento bibliografico su questo tipo di fibbia nell’ambito dell’Italia settentrionale e specificatamente per la Liguria centro-orientale cfr. DE VINGO 2000; FRONDONI, GELTRUDINI, DE VINGO 2002, pp. 324-335. 18 Cfr. VASSALLO 2001, p. 77. – 142 – parte sovrapposto al precedente, fu gettato presumibilmente in occasione di rifacimenti e risanamenti, a seguito di episodî di distruzione violenta per incendio, testimoniati da strati carboniosi associati a interessanti vetri da finestra e macerie. Nell’area presbiteriale est si sono trovate tracce di mattonelle quadrate di qualità scadente, ben presto sostituite da un piano pavimentale in mattoni a lisca di pesce con fascia ortogonale di mattoni in aderenza al perimetrale ovest. Contestualmente l’indagine archeologica ha messo in luce più fasi di utilizzo cimiteriale, che scandiscono le vicende dell’abbazia nei secoli. Le sepolture più antiche, di adulti e bambini, erano scavate nella nuda terra e paiono anteriori alla trasformazione dell’abbazia in commenda. La tipologia della tomba individuale, costruita in muratura con copertura voltata in mattoni, fu adottata per varî secoli coesistendo con le cripte ossario costruite nella navata centrale e in quella settentrionale, a partire dal secolo XVII. Non si è mancato di documentare con lo scavo le ultime trasformazioni della chiesa: dai lavori di ristrutturazione Sei-Settecenteschi,20 all’accorciamento delle navate laterali per ricavare nuovi ambienti a Ovest, all’impianto delle tombe monumentali della famiglia Salvago Raggi fra Ottocento e Novecento.21 Un brano di cocciopesto era già stato individuato nel corso dei restauri degli anni Cinquanta ed erroneamente messo in fase con l’impianto di canalizzazione e drenaggio, che i recenti scavi hanno invece dimostrato risalire ai secoli XVII-XVIII, cfr. PACINI, MAZZINO 1955, pp. 35-36. 20 Nei riempimenti maceriosi per la sopraelevazione dell’area ovest sono stati recuperati varî elementi architettonici provenienti dalla distruzione di manufatti medievali. 21 Dal 2002 a oggi, di pari passo con la ristrutturazione del complesso, si sono raccolti nuovi dati archeologici, che formeranno oggetto di future comunicazioni. 19 – 143 – Fig. 1 – Tiglieto, abbazia cistercense di Santa Maria, sala capitolare (foto: Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria) – 144 – Fig. 2 – Tiglieto, abbazia cistercense di Santa Maria, planimetria della sala capitolare e dell’armarium Fig. 3 – Tiglieto, abbazia cistercense di Santa Maria, sezioni di scavo della sala capitolare e dell’armarium – 145 – Fig. 4 – Tiglieto, abbazia cistercense di Santa Maria, planimetria della sala capitolare e dell’armarium con la collocazione delle tombe bassomedievali Fig. 5 – Tiglieto, abbazia cistercense di Santa Maria, fibbie da cintura dalle sepolture del secolo XIII-XIV (foto: Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria) – 146 – UNA SCULTURA GENOVESE DEL TRECENTO: LA MADONNA DELLA MISERICORDIA, NELL’EDICOLA VOTIVA DI PIAZZA DELLO SCALO. APPUNTI PRELIMINARI Marina Firpo Collocazione e stato di conservazione L’occasione di questo volume dedicato alla memoria di una Amica ma soprattutto di una Maestra, che con la sua passione e la sua amorevole pazienza ha saputo indirizzare gli studî, fornendo di volta in volta preziosi consiglî ai suoi allievi, si presenta come un’opportunità da parte di chi scrive per rendere noti i primi risultati di uno studio che fu tema di conversazione con lei fin dalle fasi preliminari. L’argomento è l’identificazione di una statua della Madonna della Misercordia, databile alla prima metà del secolo XIV, un tempo collocata in un’edicola votiva sita in un palazzo all’incrocio fra piazza dello Scalo e vico Secondo dello Scalo.1 La statua era già stata rilevata e fotografata dalla scrivente nel gennaio 1994. Il manufatto è stato oggetto di esame attento e di ricerche prolungate fino agli inizî del 2003, quando una bozza preliminare di questo articolo è stata sottoposta ad alcuni eminenti studiosi italiani e non. Purtroppo, nel marzo 2003 l’opera è stata rubata, furto non denunciato al momento da un testimone oculare, ma solo successivamente, casualmente rilevato da chi scrive e reso noto in data 29 aprile 2003 con un esposto-denuncia al Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri di Genova, i quali hanno prontamente avviato le indagini per il recupero, sulla base della documentazione fotografica messa a loro disposizione. L’edicola, collocata in posizione d’angolo, presenta una struttura architettonico-decorativa in materiale laterizio piuttosto complessa. Realizzata a circa m 4 d’altezza, si innesta nella muratura del palazzo con una sorta di peduccio terminante con due volute floreali, un cornicione liscio aggettante, sopra al quale posa la base per una mensola in ardesia mistilinea. In posizione centrale si apre una nicchia alquanto profonda terminante con un arco centinato, un tempo colorata internamente d’azzurro; lateralmente, partendo dalla base, due volute a ricciolo riprendono il motivo del peduccio. A circa metà dell’altezza, su ciascun lato, da ali protese verso l’esterno si distaccano due testine d’angioletti dai riccioli finemente lavorati. Sopra l’arco della nicchia è una conchiglia e, sopra questa, un tettuccio sempre in stucco a protezione dell’opera che si conclude con un pinnacolo. Lo stato di conservazione dell’edicola è fortemente precario: lo stucco ha ceduto in più punti e l’inquinamento atmosferico si è depositato in molte parti, formando in alcune zone una robusta crosta nerastra; anche il basamento in ardesia presenta segni di sfaldamento. 1 Per una ricostruzione urbanistica dell’area dello Scalo cfr. PODESTÀ 1913, pp. 243-286; GROSSI BIANCHI, PO1987, pp. 103-170; 1128-2000… 1971, pp. 22-66. LEGGI – 147 – Alcune notizie sulla costruzione dell’edificio Un documento datato 3 agosto 1707 attesta la richiesta da parte di Marcello e Gerolamo Durazzo e di Costantino Balbi ai Padri del Comune di collegare le loro case di Strada Balbi con il quartiere di Prè attraverso una strada nuova assai bella; la loro richiesta, soprattutto, verte a trasportare altrove l’immondezza degli animali spettanti all’abbazia di Sant’Antonio, che poco si conviene a un posto così nobile della città in un sito più consono in piazza dello Scalo. A seguito di questa rogatoria i Padri del Comune vendono ai suddetti gentiluomini tre magazzini di proprietà di detta magistratura posti di fronte ai macelli della Darsena, con facoltà di costruire il fondaco che resta sull’angolo di detta piazza e qualche stanza sopra ai fondamenti di detto magazzino di larghezza che non ecceda i fondamenti di esso e l’altezza fino al tetto che non ecceda palmi 23; il secondo un muro perimetrale alto palmi 11. Entro un anno i detti signori dovranno costruire anche la strada di collegamento. Il prezzo stabilito è di L. 1.100.2 Al documento è allegato anche un prospetto e una planimetria dell’edificio da costruire che ripropone in maniera evidente l’attuale prospetto del palazzo:3 una sorta di facciata a L, che ha per base i tre magazzini già di proprietà dei Padri del Comune e sul lato di ponente – a sinistra per chi guarda – una sopraelevazione di due piani, destinati all’alloggio degli stallieri. Proprio in questo spigolo era stata inserita un’edicola votiva con una statua marmorea che rappresenta la Madonna della Misericordia. Riguardo a questa fino a oggi non è stata rintracciata una documentazione coeva relativa a una sua messa in opera, ma per ragioni stilistiche è ragionevole supporre una sua apertura al momento della costruzione dell’edificio. Quali siano state le vicende successive dell’immobile, allo stato attuale degli studî non è stata trovata traccia nelle fonti scritte, anche perché questo di per sé non presenta alcun pregio di carattere architettonico. Tuttavia, sappiamo che nel 1865 il palazzo, probabilmente a seguito dell’apertura della via Carlo Alberto, era stato oggetto di risistemazione e anche l’edicola aveva giovato di un restauro.4 Tipologia e datazione A premessa di quanto si dirà successivamente circa la descrizione, le misure e una possibile datazione oltre che provenienza, è opportuno sottolineare che l’altezza dell’opera e, quindi, la sua inacessibilità a un esame più attento non hanno consentito a chi scrive una visione dettagliata. Il suo furto, inoltre, ha compromesso forse definitivamente un’analisi maggiormente approfondita. La statua – che misurava approssimativamente cm 77 in altezza e cm 45 in larghezza – rappresentava la Madonna con in testa una corona gigliata finemente lavorata, un mantello, con cappuccio, ampiamente panneggiato fino ai piedi e tenuto aperto dalle braccia dischiuse lungo i fianchi; il mantello era serrato al centro del petto da un fermaglio circolare. Genova, Archivio Storico del Comune, Padri del Comune, 232, Pratiche pubbliche, doc. 50 (1707, agosto 3). I progetti allegati alla richiesta evidenziano solo il palazzo e non accennano alla strada, progetto evidentemente abbandonato poiché non se ne trova traccia nella documentazione successiva. 4 Cfr. REMONDINI 1865, p. 264, n. 37: Questa casa fu testè tutta ristorata e anche la nicchia della Madonna ebbe ristoro, lode a chi va. Il testè fa ipotizzare un restauro avvenuto in epoca recente. 2 3 – 148 – Il vestito, semplicemente stretto in vita da una sottile cintura lavorata a intreccio,5 scendeva morbido lungo il corpo, con un panneggio mosso dal sopravanzamento della gamba sinistra, un espediente scultoreo che dava maggiore movimento all’impianto e consentiva una panneggiatura più ampia delle vesti. Un modo, inoltre, per accentuare quel movimento a S tanto caro alla scultura della fine del secolo XIII inizio del XIV tra Francia e Italia. Una menzione particolare meritavano le mani, grandi e ampie, quasi a voler amplificare il benevolo gesto di accoglienza dei fedeli. La mano destra, posta al termine di una manica ampiamente sbuffata, presentava il dito mignolo leggermermente distaccato rispetto alle altre dita tutte accostate tra loro; nel caso della mano sinistra, invece, erano avvicinati l’indice e il medio da una parte e l’anulare e il mignolo dall’altra. Come prima anticipato, la Madonna era già stata fotografata da chi scrive nel 1994 e il confronto fra l’attuale stato di conservazione e quanto si poteva notare nelle fotografie di allora non poteva che far alzare ulteriormente il grido di allarme. Il volto di Maria, così come l’interno del suo mantello, le braccia e le mani, erano fortemente anneriti a causa dell’esposizione agli agenti atmosferici e all’inquinamento ambientale. Ancor più precario era lo stato di conservazione della parte inferiore del corpo; in particolare, il marmo della zona della gamba sinistra sopravanzata presentava un preoccupante processo di sfaldamento e di decoesione, in alcuni punti forse irrecuperabile anche con un attento restauro. In più, la presenza di una luminaria alquanto grossolana rendeva la statua parzialmente occultata dai fili elettrici. Nonostante queste difficoltà è possibile avanzare alcune ipotesi. La statua, che per ragioni stilistiche appare databile alla prima metà del secolo XIV, – a mio avviso – sembra avvicinarsi per alcune sue caratteristiche a quanto resta delle sculture che componevano il monumento dell’imperatrice Margherita di Brabante, eseguito da Giovanni Pisano fra 1313 e 1315.6 La prima evidenza che si impone consiste nel forte movimento della figura: la Madonna è scolpita con la gamba sinistra sopravanzata rispetto al profilo del corpo, un particolare che restituisce maggiore forza dinamica. Se, inoltre, si mette a confronto questa statua con il Dolente, recentemente identificato da Di Fabio all’interno del Museo di Sant’Agostino, il confronto si fa stringente: identica è la realizzazione delle pieghe dell’abito, che si presentano morbide ma contemporaneamente, solide nell’impianto, con un andamento a canna, vale a dire maggiormente arrontondate nella parte inferiore e più sottili man mano che si giunge alla vita. Anche il modo di fermare l’abito alla cintura merita un confronto. La perdita del manufatto rende difficile – sulla base della sola documentazione fotografica residua – riuscire a capire che tipo di cintura stringa la vita di Maria, ma è evidente che si tratta di un cordolo molto sottile, che restituisce un piccolo sbuffo dell’abito: lo stesso tipo di soluzione che si ritrova nelle vesti degli accoliti che reggono il corpo dell’imperatrice nel gruppo marmoreo genovese. Identica, in entrambi i casi, è anche la soluzione della manica, che nel caso della Madonna scende morbida fino a stringersi leggermente intorno al polso, mentre nel caso degli accoliti la manica si conclude con un polsino più alto lungo l’avambraccio. Tuttavia la morbidezza delle pieghe è la stessa e identica appare la lavorazione del marmo attraverso superfici polite e arrotondate. Devo ribadire che, purtroppo, la lettura è molto difficoltosa a causa dello stato di conservazione del marmo e dell’altezza cui è collocata l’edicola. 6 La bibliografia su questa straordinaria opera di Giovanni Pisano è molto ampia. Cito, per brevità, Giovanni… 1987, passim; DI FABIO 1999; DI FABIO 2001 con bibliografia. 5 – 149 – Una menzione particolare merita, infine, il volto, che colpisce immediatamente per la straordinaria qualità della lavorazione: in modo particolare il mento, con la piccola bocca appena dischiusa, il naso che sale perfettamente fino a formare l’arcata sopracigliare ampia e profonda, con gli occhî intagliati nel marmo in maniera leggera e sottile e lo sguardo rivolto verso il basso. In base a questi elementi sarei tentata di pensare che la Madonna possa in qualche modo appartenere all’apparato scultoreo del demolito cenotafio dell’imperatrice Margherita di Brabante che si trovava nella chiesa di San Francesco di Castelletto.7 L’ipotesi – senza dubbio forte e soprattutto di difficile dibattito da parte di altri studiosi dal momento che l’oggetto non c’è più – dovrebbe essere inserita in un più vasto contesto di studio che investa la ricostruzione globale del monumento, ma la cautela in simili casi è d’obbligo. La prima obiezione consiste nella inconsueta presenza di una Madonna della Misericordia all’interno di un monumento funeraio trecentesco. Va, però, sottolineato, che la tomba di Margherita di Brabante rappresenta un unicum nella tipologia funeraria del periodo; quel poco che è pervenuto dai suoi smembramenti nel corso dei secoli la pongono lontano sia dai modelli coevi sia da quelli successivi e anche le recenti proposte di ricostruzione e di interpretazione incontrano delle difficoltà di lettura.8 Se poi è lecito ritenere affidabile il disegno di Taddeo Carlone, che nel 1602 risistemò una parte del monumento funebre smembrato in un grande arco di trionfo per la cappella dei duchi di Tursi, allora da quel disegno traspare con evidenza che lo scultore reimpiegò non solo la lastra con le cinque figure femminili e l’elevatio di Margherita di Brabante, ma anche, nelle nicchie laterali, sei statue che evidentemente facevano parte del corredo funerario del monumento imperiale.9 Inoltre, è noto che solo una parte dei marmi che componevano il monumento fu ricomposta da Taddeo Carlone nella cappella dedicata a San Francesco di proprietà dei Doria, mentre altre statue furono accantonate nella cappella di Santa Maria e dei Santi Giacomo e Filippo di proprietà degli eredi dei De Marini. Questa cappella – che risulta sotto il patronato della famiglia De Marini a partire dal 133910 – fu oggetto di una causa tra il convento di San Francesco, i Doria e gli eredi dei De Marini in quanto i Francescani avevano attribuito senza il consenso degli eredi dei De Marini il patronato della cappella a Carlo Doria figlio di Giovanni Andrea, che ne aveva fatto richiesta. La causa, portata in Senato, fu vinta nel 1635 da Agostino Allegro erede per linea femminile dei De Marini;11 tuttavia, nel 1646 i Doria, con il consenso dei conventuali, ripresero surrettiziamente il possesso della cappella. La causa si concluse solo nel 1701, quando Barbara e Chiara Maria Allegro, figlie di Agostino, con Antonio Maria e Agostino Pili, nipoti di Barbara, per sopraggiunte sventure economiche, accettarono l’offerta di Giovanni Andrea Doria di 800 lire per la cessione della cappella.12 Sulle vicende relative allo smembramento del deposito e a una sua ricostruzione parziale nella cappella di San Francesco da parte dei Doria di Tursi sempre nella chiesa di San Francesco di Castelletto cfr. DI FABIO 1999, passim. 8 Mi riferisco in modo particolare all’interpretazione delle cinque figure nella lastra del sarcofago. Cfr. D I FABIO 2001, pp. 5-7. 9 Purtroppo, come denuncia Di Fabio, anche in questo caso il disegno è stato rubato dall’Archivio di Stato. Tuttavia era stato precedentemente pubblicato. Cfr. D I F ABIO 2001, p. 9. 10 La cappella fu forse fatta costruire alla fine del secolo XIII da Filippo di Venerando da Noli, ma risulta sotto il patronato dei De Marini a partire dal 1339. Cfr. Genova, Archivio di Stato, Prefettura Sarda, 275, cart. 1, doc. 21, c. 1 r. Cfr. FIRPO 1992, vol. I, p. 41. 11 Genova, Archivio di Stato, Prefettura Sarda, 275, cart. 1, doc. 21, c. 1 v. 12 Nel 1600 Giovanni Andrea Doria, principe di Melfi, aveva fatto richiesta ai Francescani, nella persona del ministro generale frate Filippo Gesualdo, di poter costruire una tribuna nel muro della chiesa dalla parte confinante con il suo palazzo. Cfr. Genova, Archivio di Stato, Prefettura Sarda, 275, cart. 1, doc. 14. Il 7 – 150 – Conseguentemente, solo a partire dal 1701 la cappella entrò effettivamente sotto il patronato della famiglia Doria e fu ristrutturata. La coincidenza della data con le vicende relative alla messa in opera dell’edicola votiva induce a considerazioni assai stimolanti. I Durazzo erano arrivati in Strada Nuova nel 1665, quando Geronima Squarciafico Pallavicini aveva locato il suo palazzo a Giuseppe Maria Durazzo figlio di Giacomo Filippo.13 Giuseppe Maria era fratello di quel Marcello Durazzo, che in quello stesso anno aveva sposato Anna Maria Pallavicini figlia di Angelo.14 La richiesta ai Padri del Comune nel 1707 venne formulata proprio da Marcello, del ramo dei marchesi di Gabiano, e da Gerolamo Ignazio, erede del fedecommisso istituito dal padre Giovanni Agostino e dai suoi fratelli Giovanni Luca ed Eugenio, colui che fece ristrutturare l’attuale Palazzo Reale nelle forme odierne.15 Entrambi i cugini, Marcello e Gerolamo, furono fautori di una straordinaria politica di collezionismo e di accumulo di opere d’arte, che nel corso del Settecento non ebbe pari a Genova.16 Evidentemente, quando nel 1701 i Doria rilevarono il patronato della cappella di Santa Maria e dei Santi Giacomo e Filippo dagli eredi dei De Marini i frati si trovarono a smembrare la cappella dal deposito di marmi due e trecenteschi provenienti dalle cappelle che erano state ristrutturate fra Cinque e Seicento. I Durazzo, dal canto loro, avrebbero potuto sancire la proprietà di un immobile di poco pregio, ma commissionato da un’eminente famiglia, con il riuso di una statua che avrebbe potuto provenire da uno dei monumenti cittadini più prestigiosi, anche se ormai smembrato e, appunto in parte, sepolto dall’oblio. Un’ipotesi suggestiva che al momento non trova conforto nella documentazione, ma sulla quale sarà necessario lavorare per fare completamente luce sulla presenza di una trecentesca statua di Madonna della Misericordia di altissima qualità in un’edicola votiva di inizio Settecento. progetto prevedeva l’unione delle due cappelle della Creazione del Mondo, di proprietà della famiglia De Fornari, e di Santa Maria e dei Santi Giacomo e Filippo. I frati, non volendo creare attriti con i De Fornari, che, al contrario dei De Marini, usufruivano pienamente della cappella, proposero uno scambio: i De Fornari avrebbero ceduto la loro ai Doria e in cambio avrebbero potuto godere della cappella contigua dedicata a San Fracesco e sotto il patronato del principe di Melfi. Cfr. Genova, Archivio di Stato, Prefettura Sarda, 275, cart. 2, doc. 14 (1600, settembre 29). Nel 1622 i frati concessero al Doria di costruire un passaggio che collegava direttamente il suo palazzo di Strada Nuova con la chiesa, passando proprio attraverso la cappella De Marini, a patto che sopra al passaggio il Doria facesse costruire a sua spese una camera da dare in usufrutto ai frati. Cfr. Genova, Archivio di Stato, Prefettura Sarda, 275, cart. 2, doc. 16. Pochi anni dopo Carlo Doria chiese di poter costruire una nuova tribuna nello spessore della muraglia, probabilmente dalla parte del coro, poiché, in osservanza ai decreti del Concilio di Trento, l’altare maggiore era stato spostato, impedendo la visuale dalla vecchia tribuna. Cfr. Genova, Archivio di Stato, Prefettura Sarda, 275, cart. 2, c. 1 r. (il documento è senza data, ma è collocabile fra 1629 e 1635). Gli Allegro portarono la causa in Senato e vinsero. Tuttavia, nel 1646 Agostino, rientrato a Genova dopo un viaggio di lavoro, trovò lo stemma dei Doria sopra l’ingresso della cappella. Cfr. Genova, Archivio di Stato, Prefettura Sarda, 275, cart. 1, doc. 21. Nuovamente tornati in Senato nel 1648, la causa fu sospesa grazie alle influenze del duca di Tursi, fino a risolversi, nel 1701, con la vendita del patronato ai Doria. Cfr. Genova, Archivio di Stato, Prefettura Sarda, 275, cart. 1, doc. 17, c. 1 r. Su tutta la vicenda cfr. FIRPO 1992, vol. I, pp. 112-116; FIRPO 1996, pp. 109-119. 13 Cfr. Archivio… 1981, p. 42, doc. 63 (1665, aprile 14). 14 Cfr. Archivio… 1981, p. 42, doc. 66 (1665, giugno 22). 15 Cfr. A SSERETO 2004, pp. 25-39. 16 Su questo punto cfr. Manoscritti… 1979, passim; P UNCUH 1984, pp. 164-218; P UNCUH 1995, passim; L EONCINI 2004, pp. 41-74. – 151 – Fig. 1 – Genova, la Madonna della Misericordia collocata nella sua edicola prima del furto (1994) (foto: M. FIRPO) Fig. 2 – Genova, la Madonna della Misericordia collocata nella sua edicola prima del furto (1994) (foto: M. FIRPO) – 152 – ANDALÒ DA SAVIGNONE, MERCANTE E DIPLOMATICO GENOVESE ALLA CORTE DEL GRAN KHĀN Daniele Calcagno La figura di Andalò da Savignone resta, a oggi, sostanzialmente sfumata. Malgrado essa sia stata oggetto, di recente, anche di un romanzo a sfondo storico,1 la vicenda terrena di questa figura di mercante e diplomatico genovese non è ancora stata affrontata nella sua interezza, se si eccettuano alcuni, circostanziati, studî di Michel Balard e Roberto Sabatino Lopez.2 Quanto fin qui noto su Andalò ci informa di un suo primo viaggio in Cina, attorno al 1330, in compagnia del mercante di seta Leone Vegia. Nel corso di questo viaggio Andalò recupera i beni di un mercante chiavarese, Antonio Sarmore, morto a Pechino, del quale Andalò è esecutore testamentario al suo ritorno a Genova nel 1333.3 Nel 1334 Andalò parte nuovamente per la Cina ove, nel luglio 1336, riceve dal Gran Khān Toghan Timūr l’incarico di portare ad Avignone una lettera che raccomandava al papa [Benedetto XII] alcuni cristiani d’origine alana. Il Khān sollecitava [inoltre] l’invio di un missionario per rimpiazzare Giovanni di Montecorvino, morto lì otto anni prima.4 Andalò è certamente a Genova nel dicembe del 13375 e dopo una sosta a Venezia s’imbarca, a Genova, su una galea del convoglio di primavera che salpa per la Romània; a Napoli prende a bordo presso di sé Giovanni Marignolli, che il papa aveva nominato arcivescovo di Pechino e giunge a Caffa al più tardi nel giugno 1339.6 Michel Balard ritiene probabile che Andalò abbia accompagnato il nuovo arcivescovo fino a Pechino, perché il genovese doveva consegnare alcune lettere indirizzate dal pontefice a diversi sovrani mongoli.7 Sappiamo solo che in un periodo imprecisato Andalò torna a Genova, dove certamente si trova nel febbraio del 1345,8 mentre nel febbraio del successivo 1346 risulta iscritto al ceto mercantile.9 Queste le notizie principali fin qui raccolte su Andalò da Lopez e da Balard. Andalò discendeva da una famiglia di funzionarî pubblici legati al vescovo di Tortona – i Visconti di Savignone – che, come di consueto, nel tempo avevano trasformato la loro carica in signoria territoriale, basata principalmente sulle rendite derivanti dai traffici commerciali che attraversavano il distretto di Savignone. MERIANA 2001. LOPEZ 1975 (ma 1952), pp. 87-90; BALARD 1974, in particolare pp. 155-156, 161-164; LOPEZ 1975, pp. 171186. Un compendio biografico è pubblicato da BAROZZI 1996. Sempre utile, inoltre, SURDICH 1975. 3 Cfr. BALARD 1974, pp. 161-164 (1333, settembre 17 – Genova). 4 BALARD 1974, p. 155, che riassume LOPEZ 1975 (ma 1952), pp. 88-89 e note 13-14. 5 BALARD 1974, p. 155. 6 BALARD 1974, pp. 155-156. 7 BALARD 1974, p. 156. 8 Cfr. Appendice, doc. V. 9 BALARD 1974, p. 156 e nota 31. 1 2 – 153 – Adriano IV, nel 1157,10 aveva confermato al vescovo di Tortona Oberto i possessi e i beni pertinenti alla sua Chiesa tra i quali, in alta Valle Scrivia, il castellum Savinionem; nuove conferme si ebbero nel 116211 da Alessandro III allo stesso vescovo Oberto e nel 119812 da Innocenzo III al vescovo Oddo II. Nel frattempo (1176),13 l’imperatore Federico I Barbarossa restituiva alla città di Tortona le terre e i beni da lui fatti confiscare nel 1155, tra i quali anche Savegnono. Romeo Pavoni fa coincidere il dominio di Savignone, in gran parte, con la giurisdizione ecclesiastica del monastero benedettino di San Pietro di Savignone, che comprendeva le celle di San Giacomo del Ponte (di Savignone), San Bartolomeo di Vallecalda, la pieve di Santo Stefano di Redegabio (Casella), Santa Maria di Vaccarezza, San Giorgio di Sarissola, San Martino di Parissone (Croce/Fieschi), Sant’Andrea di Caserza e loro pertinenze. Il distretto confinava, quindi, a Nord con i beni del consortile dei signori di Mongiardino-Pietra, fino a Noceto (presso Vobbia); a Occidente comprendeva Sarissola (Busalla); a Oriente la Val Brevenna (oltre la quale iniziava la signoria di Montoggio), mentre a Sud si estendeva verosimilmente fino allo spartiacque appenninico.14 Il dominio vescovile di Tortona era esercitato in loco da diversi gruppi di famiglie signorili (presumibilmente, appunto, di comune ceppo viscontile) organizzati probabilmente in consortile, noto in seguito come signori (domini) di Savignone e quindi, semplicemente, come da Savignone. Non sappiamo quando Savignone passò dal controllo dei vescovi a quello del Comune di Tortona. È noto soltanto che i signori locali ne risultano investiti il 1° giugno 1207: Caputvitelli de Savegnono et Girardus atque Ogerius iuraverunt fidelitatem Communi Terdone pro illo feudo quod ipsi tenebant a Communi Terdone… salva fidelitate domini Opiçonis, terdonensis episcopo et comitis,15 giuramento che fu rinnovato il 12 agosto16 e il 1° settembre 1210.17 Per ragioni ignote, presumibilmente inerenti a vertenze di confine o relative al controllo sui percorsi e relativi pedaggî, i da Savignone si erano ribellati a Tortona; il 12 agosto 121018 Capovitello, Ogerio e Guglielmo da Savignone erano perciò sottoposti a giudizio, condannati a risarcire i Tortonesi contro i quali avevano commesso violenze e rapine e a rinnovare il giuramento di obbedienza che, il 1° settembre dello stesso anno,19 era sottoscritto anche da Gerardo e Corbello da Savignone. In precedenza (14 luglio 1185)20 i da Savignone avevano giurato la convenzione che Milano e Tortona avevano stipulato riguardo alle strade di Serravalle (Scrivia) – dove era stata stabilita l’esazione del pedaggio – e di Valle Scrivia; i due comuni si erano inoltre accordati per garantire la sicurezza a viandanti e commercianti che i signori di Savignone, successivamente, avrebbero compromesso. I signori di Savignone esercitavano, quindi, diritti non solo sul pedaggio di Gavi ma anche su quello di Tortona; dovevano inoltre controllare la non meno importante via della Crocetta d’Orero o – meglio – il tratto pertinente alla loro signoria. Questi e altri fattori Carte… 1905, pp. 75-77, doc. LIV (1157, aprile 13 – Roma). Carte… 1905, pp. 77-80, doc. LVI (1162, febbraio 23 – Genova). 12 Carte… 1905, pp. 195-197, doc. CLXII (1198, aprile 30 – Roma). 13 Chartarium… 1909, pp. 1-5, doc. I (1176, marzo – s.l.). 14 PAVONI 1984. 15 Chartarium… 1909, p. 63, doc. XLVIII (1207, giugno 1 – Tortona). 16 Chartarium… 1909, p. 47, doc. XXX (1210, agosto 12 – Garbagna). 17 Chartarium… 1909, p. 62, doc. XLVII (1210, settembre 1 – Tortona). 18 Chartarium… 1909, p. 47, doc. XXX (1210, agosto 12 – Garbagna). 19 Chartarium… 1909, p. 62, doc. XLVII (1210, settembre 1 – Tortona). 20 Chartarium… 1909, pp. 19-20, doc. XIV (1185, luglio 14 – Tortona). 10 11 – 154 – economici consentivano ai condomini di Savignone di mantenere strette relazioni sia con Genova che con Tortona. Nel corso del Duecento, per una serie complessa di fattori, i signori di Savignone avviarono – o furono costretti ad avviare – un processo di alienazione dei proprî beni e diritti signorili finché, dopo il 1253, l’intero feudum di Savignone non prevenne a Opizzo Fieschi, ai cui discendenti rimase fino alla soppressione dei feudi imperiali (1797).21 I da Savignone si stringono così sempre più vicino al clan fliscano, nella cui orbita cittadina graviteranno e dai quali mutueranno la dimensione mediterranea, seppure in forme e modi più modesti.22 Fin dal secolo XII,23 infatti, un Ubaldo da Savignone presenziava come testimone a un atto assieme a Manfredo, conte di Lavagna e canonico di San Lorenzo, futuro cardinale definito da Caffaro virum nobilem et sapietem.24 Di ben altra importanza la nomina, da parte di Innocenzo IV (1254), di Rogerio da Savignone, civis Ianue, a canonico della chiesa di Santa Croce di Acri, nomina fatta su richiesta di Giovanni Fieschi da Camezzana e di Tedisio Fieschi, conte di Lavagna, nipoti del pontefice.25 Sembrerebbe quasi che l’ascesa sociale dei da Savignone sia stata, in qualche modo, favorita dal passaggio dell’antico feudo di Valle Scrivia al clan fliscano e che proprio grazie al loro intervento se ne sia facilitato l’inurbamento a Genova e l’ascesa politica ed economica che, all’inizio del Trecento, è ormai consolidata.26 Proprio dagli inizî del secolo, infatti, è nota la contrada dei da Savignone, nella parrocchia di San Sisto di Pre’, nelle vicinanze di Porta dei Vacca e Santa Sabina.27 È nella già ricordata orbita mediterranea fliscana che Andalò, agli inizî dell’autunno del Medioevo, fa la sua comparsa. Non conosciamo la data della sua nascita, che deve comunque collocarsi nell’ultimo decennio del secolo XIII. Nel 1317 Andalò acquista, assieme al fratello Benedetto, parti di alcune case, già di proprietà di altri suoi congiunti, site a Genova in contrata Savignonorum, una delle quali – quella del fu Ruggero da Savignone del fu Guglielmo, zio di Andalò – è definita domum magnam.28 Ancora nello stesso anno è interessante notare che, nell’ambito della suddivisione dell’eredità di Cristoforo da Savignone, altro zio di Andalò, fra le proprietà del defunto risulti anche una terra magna cum magno palatio et cum alia domuncula a Promontorio, nel suburbio di Genova.29 Cfr. PAVONI 1989, pp. 293-302. Cfr., a puro titolo esemplificativo: Archivio di Stato, Genova, Notaî antichi, 191, cartulare intestato al notaio Guglielmo Osbergerius, c. 219r. (1311, marzo 3 – Genova), dove si cita una galea di Bernabò da Savignone in partenza da Genova e diretta in Romània; Notaî antichi, 219, cartulare intestato al notaio Raffaele da Manarola, cc. 223v.-224v. (1317, agosto 31 – Genova), dove sono invece citate delle galee di Savignone da Savignone di ritorno a Genova de partibus Gazarie. Cfr., inoltre, CALCAGNO 2004, p. 265, nota. 29. 23 Cartulare… 1935, vol. I, p. 74, doc. 142 (1156, ottobre 11 – Genova). 24 Sul cardinale Manfredo cfr. REMEDI 1997, pp. 285-321. 25 GUERELLO 1961, pp. 103-104, doc. 69 (1251, giugno 4 – Genova). 26 Sulla famiglia da Savignone cfr., oltre a CALCAGNO 2002, anche BERRUTI 1978, p. 502, che si basa esclusivamente sulla documentazione edita tortonese e vogherese. 27 Cfr. FEDERICI MS; CALCAGNO 2002. 28 Cfr. Appendice, docc. I-II. 29 Archivio di Stato, Genova, Notaî antichi, 219, cartulare intestato al notaio Raffaele da Manarola, cc. 181v.-182r. L’atto è incompleto: mancano le formule di rito, l’actum e l’elenco dei testes. È comunque databile al 1317, in un periodo compreso fra il 31 gennaio e il 27 febbraio. Vista l’omogeneità dell’argomento, è probabile che anche questo risalga al 31 gennaio, come i due precedenti (cfr. Appendice, docc. I-II). 21 22 – 155 – A partire dal 1343,30 invece, Visconte da Savignone, figlio di Benedetto, è spesso associato allo zio Andalò nei commercî di famiglia. Nel 1352 Andalò risulta ufficiale di Credenza,31 mentre l’anno successivo era eletto fra gli anziani del Comune.32 Un atto dello stesso anno ci informa del volume degli affari mercantili di Andalò, visto che Cristoforo Pallavicino rilasciava a suo nome una quitanza di 1.600 fiorini d’oro (2.000 lire genovesi) a Michelino da Pavia, agente di Pinpa de Fraguenasco di Cremona, per una certa somma presa a cambio a Bruges da Andalò.33 Nel 1354 Andalò era eletto maestro razionale per le esequie dell’arcivescovo di Milano34 e nello stesso anno riceveva in accomandita da Cristoforo Pallavicino, Agapito Squarciafico, Martino di Promontorio e loro socî 5.000 lire di Genova, forse da commerciare in Oriente.35 Nel 1360 risulta proprietario di una casa nei pressi della Porta dei Vacca,36 mentre nel 1364 il suo nome comparte fra i nobiles civitatis;37 nel 1369 veniva eletto consigliere del Comune38 ed è, infine, nominato nella Compera del 1374.39 Andalò morì fra il 1374 e il 139140 e la moglie Giuliana Usodimare, figlia di Giuliano, risulta in più atti tutrice dei nipoti Andalò e Giuliano, entrambi nati da suo figlio Andrea, morto in Sicilia in quegli anni.41 In quest’ultimo scorcio di secolo appare sulla scena genovese Arghun da Savignone, figlio del fu Giano, nipote di Andalò e che certamente deve il suo nome a quello dell’omonimo il-Khān di Persia, del quale Buscarello Ghisolfi era stato ambasciatore in Europa. Si ricordi, infatti, che un fratello di Andalò, Filippo, aveva sposato Nicoletta Ghisolfi, probabile congiunta di Buscarello.42 Arghun nel 1390 possedeva una casa a Porta dei Vacca (forse la stessa di Andalò?)43 e nel 1394 era inviato ambasciatore ai marchesi del Carretto a Finale (Ligure).44 Arghun muore attorno al 1433; aveva sposato Bianchina Pagano di Federico, che gli sopravvisse almeno fino al 1453.45 *** Cfr. Appendice, docc. III-IV. Cfr. FEDERICI MS; CALCAGNO 2002. 32 Cfr. FEDERICI MS; CALCAGNO 2002. 33 LIAGRE-DE STURLER 1969, pp. 359-360, doc. 280 (1352, luglio 23 – Genova). 34 Cfr. FEDERICI MS; CALCAGNO 2002. 35 Cfr. Appendice, doc. X. 36 Cfr. FEDERICI MS; CALCAGNO 2002. 37 Cfr. FEDERICI MS; CALCAGNO 2002. 38 Cfr. FEDERICI MS; CALCAGNO 2002. 39 Cfr. FEDERICI MS; CALCAGNO 2002. 40 Cfr. CALCAGNO 2004, p. 263. 41 Cfr. CALCAGNO 2002. Numerosi atti sono infatti reperibili fra le imbreviature del notaio Oberto Foglietta, conservate presso l’Archivio di Stato di Genova. 42 Cfr. CALCAGNO 2004, p. 263. 43 Cfr. CALCAGNO 2002. 44 Cfr. CALCAGNO 2002. 45 Cfr. CALCAGNO 2002. 30 31 – 156 – Nel tratteggiarne un profilo sintetico, Roberto Sabatino Lopez sottolineava come andalò di Savignone, se avesse voluto, avrebbe potuto lasciarci sulla dissoluzione della monarchia mongolica in Cina memorie altrettanto interessanti quanto quelle di Marco Polo sul suo apogeo. Ma era un genovese di poche parole, e per di più gli mancò l’occasione a meditare che il Veneziano trovò senza averla cercata nell’ozio forzato della prigionia in Genova.46 Di Andalò non sono infatti sopravvissute memorie, note o registri contabili aziendali. Certamente la sua figura, alla luce dei nuovi documenti, appare meglio definita, maggiormente collocata dal punto di vista sociale e politico. Ne traluce un uomo abbastanza longevo (70/80 anni), che ha lungamente viaggiato, dall’Oriente al Nord Europa, che ha alternato – e sovrapposto, come già lo stesso Marco Polo – l’attività mercatoria agli incarichi diplomatici di volta in volta affidatigli. E la sua contiguità con il clan fliscano, artefice indiscusso della politica della Chiesa in Liguria, e – forse – con diversi esponenti della famiglia Ghisolfi, può rafforzare l’ipotesi avanzata da Michel Balard che lo vedrebbe compagno di viaggio del nuovo arcivescovo di Pechino fino in Cina. Ma di Andalò abbiamo potuto anche apprezzare le doti affaristiche, che certamente gli valsero il riconoscimento di leader famigliare – se non addirittura lo status di capofamiglia – che i documenti lasciano intravvedere. Ancora Roberto Sabatino Lopez affermava che ricerche nei cartulari genovesi permetterebbero forse di apprendere qualche cosa di più sulla figura elusiva di Andalò di Savignone, benché non si possa sperare molto se egli spese la maggior parte della sua vita in Estremo Oriente. 47 Oggi sappiamo invece che Andalò fece ritorno a Genova prima della fine della pax mongolica e che una volta tornato in patria molto operò nell’amministrazione della Repubblica. Vorremmo tuttavia conoscere qualcosa sulla sua religiosità, sulle sue devozioni. Ci piacerebbe sapere se abbia mai posseduto dei libri, e se sì quali fossero i suoi interessi, ma purtroppo il suo testamento, se esistente, non è stato ancora ritrovato. Ma altri cartulari, altre filze riposano nei depositi dell’Archivio di Stato di Genova in attesa di essere letti. 46 47 LOPEZ 1975 (ma 1952), pp. 87-88. LOPEZ 1975 (ma 1952), p. 89 nota 17. – 157 – APPENDICE I. 1317, gennaio 31 – Genova: Marzochus da Savignone del fu dominus Guglielmo vende la sesta parte di una casa di sua proprietà, già del fu Lanfranco da Savignone, suo fratello, sita in Genova nella contrada dei da Savignone, ai suoi fratelli Luchetto e Bonifacio, che acquistano, rispettivamente, per una terza parte ciascuno, e a Benedetto da Savignone, suo nipote, che agisce per sé e per suo fratello Andalò, per la restante terza parte, per la somma di 250 lire di Genova. Testimonî: dominus Pietro de Hugucius, giudice; Oberto da San Martino, censuario; Francesco di Àlice di Gavi; Bernabò da Savignone del fu Ruggero (Archivio di Stato, Genova, Notaî antichi, 219, cartulare intestato al notaio Raffaele da Manarola, cc. 180r.-181v.). II. 1317, gennaio 31 – Genova: Preziosa, moglie del fu Ruggero da Savignone, figlio del fu Guglielmo e Luchetto e Bonifacio da Savignone, fratelli del detto Ruggero, eredi di una terza parte dei beni del loro fratello, vendono a Oliviero da Savignone, figlio emancipato del detto Luchetto, agente a nome di Filippino da Savignone, figlio emancipato del detto Bonifacio, altro erede di una terza parte dei beni del fu Ruggero, e ai fratelli Benedetto e Andalò da Savignone, altri eredi di una terza parte dei beni del fu Ruggero, una sesta parte di una casa del fu Lanfranco da Savignone, fratello dei predetti Luchetto e Bonifacio, sita in Genova nella contrada dei da Savignone, e una quinta parte di un’altra casa da loro posseduta nella contrada di Porta dei Vacca al prezzo, rispettivamente, di lire 250 di Genova e di lire 220 di Genova. Testimonî: dominus Pietro de Hugucius, giudice; Oberto da San Martino, censuario; Francesco di Àlice di Gavi; Bernabò da Savignone del fu Ruggero (Archivio di Stato, Genova, Notaî antichi, 219, cartulare intestato al notaio Raffaele da Manarola, cc. 179r.-180r.). III. 1343, marzo 8 – Genova: Visconte da Savignone, figlio emancipato di Benedetto da Savignone, costituisce suoi procuratori il padre Bernardino e lo zio Andalò da Savignone. Testimonî: Giovanni Mazzucco; Raffaele Burgarius (Archivio di Stato, Genova, Notaî antichi, 229, cartulare intestato al notaio Tommaso da Casanova, cc. 103r.-104r.). IV. 1343, aprile 2 – Genova: Visconte da Savignone, figlio emancipato di Benedetto da Savignone, dichiara a suo padre e ad Andalò da Savignone, suo zio, di aver ricevuto da loro in accomandita 270 lire di Genova. Testimonî: Filippo da Savignone; Oliviero da Savignone (Archivio di Stato, Genova, Notaî antichi, 229, cartulare intestato al notaio Tommaso da Casanova, c. 246r.). V. 1345, febbraio 4 – Genova: Andalò da Savignone, a suo nome e a quello di Bernabosa Senescariis, si dichiarano reciprocamente l’ammontare del provento dell’appalto sul dazio della carne e del formaggio per l’anno 1344 da loro acquistato dal Comune di Genova. Testimonî: Nicolò de Caneto, notaio; Raffo de Caprara, notaio (Archivio di Stato, Genova, Notaî antichi, 228, cartulare intestato al notaio Tommaso da Casanova, c. 17r.). VI. 1345, febbraio 9 – Genova: Andalò da Savignone, a suo nome e a quello di suo fratello Visconte, vende ad Aimone Cantelli tutti i diritti che competono loro contro Nicolò – 158 – de Goano fu Nicolò e Nicolò Squarciafico. Testimonî: Francesco Oltramarino; Ingo Gentile; Guglielmo Vallarius di Porta dei Vacca (Archivio di Stato, Genova, Notaî antichi, 228, cartulare intestato al notaio Tommaso da Casanova, cc. 22v.-23r.). VII. 1348, gennaio 9 – Genova: Meliano Spinola, figlio di Ferrando, di consenso con il padre, dichiara a Visconte da Savignone, cittadino genovese, di aver ricevuto da Andalò da Savignone, zio del detto Visconte, 372 lire e 10 soldi di Genova che il detto Visconte doveva loro. Testimonî: Pietro Usodimare fu Giovanni; Antonio Vacca, cittadino genovese, Franceschetto de Benedictis fu Giovanni (Archivio di Stato, Genova, Notaî antichi, 233, cartulare intestato al notaio Tommaso da Casanova, c. 17r.). VIII. 1354, settembre 9 – Genova: Giacomo Dentuto dichiara di dovere ancora 500 lire delle 1.000 lire genovesi dovute a Cristoforo Pallavicino da Andalò da Savignone per conto del detto Giacomo e Tommaso da Casanova. Testimonî: Antonio de Compagnono, notaio; Nicolò de Spig.no (?) fu Giacomo (Archivio di Stato, Genova, Notaî antichi, 239, cartulare intestato al notaio Tommaso da Casanova, c. 29v.). IX. 1354, settembre 9 – Genova: Leonello Maruffo dichiara di dovere ancora 100 delle 1.000 lire di Genova che Cristoforo Pallavicino deve, a sua voltà, ad Andalò da Savignone. Testimonî: Lodisio Vivaldi; Nicolò de Spig.no (?) fu Giacomo (Archivio di Stato, Genova, Notaî antichi, 239, cartulare intestato al notaio Tommaso da Casanova, c. 30r.). X. 1354, settembre 9 – Genova: Andalò da Savignone si dichiara informato di aver ricevuto in accomandita da Cristoforo Pallavicino e dai suoi socî Agapito Squarciafico e Martino de Prementorio 5.000 lire di Genova, come da atto del … 1351. Per questo motivo, Andalò dichiara di dovere ancora al detto Cristoforo 191 lire, 3 soldi e 10 denari di Genova computato quanto il detto Cristoforo doveva ad Andalò occasione cessionis sibi facte per Leonellum Maruffum de florenis auri ducentis. La moglie di Andalò da Savignone, Giuliana del fu Giuliano Usodimare, temendo che il marito possa morire, rinuncia a ogni diritto di rivalsa a richiesta del detto Cristoforo. Testimonî: Antonio de Compagnono, notaio; Nicolò de Spig.no (?) fu Giacomo (Archivio di Stato, Genova, Notaî antichi, 239, cartulare intestato al notaio Tommaso da Casanova, cc. 30v.-31r.). XI. 1354, settembre 9 – Genova: Andalò da Savignone vende a Tommaso di Casanova, notaio, procuratore di Leonello Maruffo, una certa pezza di terra prativa in Insula Begalis, loco ubi dicitur Incisa et Aquazola, acquistata il 20 marzo 1333 assieme al fratello Bernardino da Pagano de Varino de Casana Vara, da sua moglie Caterina e da loro figlio Manuele. La moglie di Andalò da Savignone, Giuliana del fu Giuliano Usodimare, ratifica la vendita. Testimonî: segue spazio bianco (Archivio di Stato, Genova, Notaî antichi, 239, cartulare intestato al notaio Tommaso da Casanova, cc. 31r.-32r.). XII. 1354, settembre 10 – Genova: Ingo Gentile si dichiara debitore di 150 lire di Genova del debito di 1.000 lire di Genova dovute ad Andalò da Savignone da Cristoforo Pallavicino. La moglie di Andalò da Savignone, Giuliana del fu Giuliano Usodimare, ratifica la vendita. Testimonî: Francesco Surdo; Nicolò Gentile fu Luchino (Archivio di Stato, Genova, Notaî antichi, 239, cartulare intestato al notaio Tommaso da Casanova, c. 32v.). – 159 – Fig. 1 – Albero genealogico dei da Savignone del ramo di Andalò – 160 – L’IMMAGINE DI SAN GEROLAMO NELLA SCULTURA GENOVESE DEL QUATTROCENTOE DEL PRIMO CINQUECENTO: AGGIORNAMENTI E REVISIONI CRITICHE Antonetta de Robertis Quella di San Gerolamo è un’iconografia generalmente diffusa e immediatamente riconoscibile: rientra infatti nel numero di quelle immagini che, nel secolo XV, sono codificate e ormai tradizionali. L’immediata riconoscibilità è sottesa da un programma ideologico e iconografico di vasta portata sviluppatosi da una rete di rapporti culturali fra le alte gerarchie ecclesiastiche, gli ordini monastici di antica e recente formazione e il pubblico laico. Per riassumere brevemente, le immagini di San Gerolamo possono essere divise sostanzialmente in tre gruppi, secondo il loro sviluppo cronologico.1 Nel primo gruppo, San Gerolamo, che è sempre raffigurato come una persona anziana ed è identificato dalle vesti cardinalizie e dal leone, è isolato o associato agli altri dottori della chiesa – e in pendant con i quattro Evangelisti – o ad altri santi quali San Benedetto, o San Giovanni. Il secondo gruppo è quello definito umanistico, che mostra San Gerolamo come cardinale e come sapiente: in tali raffigurazioni, ambientate in uno studio pieno di libri, compaiono il teschio, come simbolo di meditazione, il leone e, talvolta, la colomba ispiratrice.2 Il terzo gruppo è riferito al periodo di penitenza nel deserto: il Santo è anziano, magro, in atto di contrizione ha le vesti a brandelli, il paesaggio è spoglio e roccioso; gli attributi sono la pietra con la quale si percuote il petto, la disciplina, il teschio, il leone e le vesti cardinalizie abbandonate. Il fiorire dell’iconografia intorno alla figura di San Gerolamo prende avvio dalla rivisitazione della sua opera letteraria che, nel corso del secolo XIV, fu iniziata negli ambienti dell’Università di Bologna e della corte papale di Avignone ed ebbe protagonisti il giurista Giovanni d’Andrea e alcuni cardinali della curia.3 Tra questi Gerolamo diviene il protettore della dignità cardinalizia, della quale assume l’abito – pur non essendo mai stato cardinale – in forza di una volontà di identificazione di matrice culturale, prima che iconografica. Sull’onda della riscoperta devozionale San Gerolamo è scelto da ordini religiosi, da confraternite e dai movimenti riformisti legati all’osservanza religiosa che traggono ispirazione dalla sua vita e dalla sua opera letteraria. Gerolamo è considerato promotore della vita eremitica e ispiratore della Regola e delle pratiche di penitenza. Tra i tanti ordini che lo prendono a modello, quello dei Frati Predicatori adotta San Gerolamo in quanto campione dell’ortodossia e ne fa uno dei proprî riferimenti culturali e spirituali; in tale ambito largo successo incontra l’immagine del Cfr. RÉAU 1959, pp. 740-ss.; CASANOVA 1965, coll. 1109-1137; JOLLY 1968, pp. 238-252; GENTILI 1985, pp. 162-183; RUSSO 1987, passim; PUPPI 2003, passim. 2 I prototipi della variante del dotto nello studio debbono cercarsi nella scuola fiamminga come fanno pensare i quadri di Antonio da Fabriano e Antonello da Messina. Utile anche il confronto con l’affresco di Ghirlandaio nella chiesa di Ognissanti a Firenze (cfr. VENTURI 1924, pp. 9-10; CASTELFRANCHI VEGAS 1983, pp. 53, 123). 3 Il Hieronymianus di Giovanni d’Andrea che contiene gli scritti del Santo, la sua biografia e anche precise indicazioni circa la sua raffigurazione viene completato nel 1348. Cfr. RUSSO 1987, pp. 51, 64-ss. 1 – 161 – Santo.4 La congregazione Olivetana è altrettanto attenta a privilegiare lo studio degli scritti gerolimiani.5 Accanto agli ordini monastici già esistenti sono note almeno sei diverse congregazioni intitolate a San Gerolamo, istituite fra ‘300 e ‘400 in diverse zone d’Italia e d’Europa. Spesso queste comunità di nuova formazione si insediano negli immediati sobborghi urbani e scelgono, per i loro conventi, la protezione dello stesso Gerolamo, di un altro Santo eremita o della Vergine.6 A confermare quanto sopra sommariamente esposto, si può considerare se anche a Genova l’immagine di San Gerolamo è legata all’ambiente dei movimenti di riforma religiosa in piena fioritura nel Quattrocento.7 Se si eccettuano fondazioni di probabile origine romanica, come la chiesa di San Gerolamo situata nel luogo dove sorgerà quella di Santa Maria dei Servi e soggetta all’abazia di Santo Stefano, e quella di San Gerolamo di Castelletto,8 gli altri luoghi di culto gerolimiano sono fondazioni dei secoli XIV-XV. Il più antico sembra essere nato, nel 1351, dall’insediamento di un gruppo di monaci gerolamiti alla Costa de Sexto, dove fonderanno (1450) la chiesa dell’Annunziata della Costa con una cappella dedicata a San Gerolamo.9 Nel 1361, sul monte di Portofino, i Benedettini Cassinesi di Santo Stefano, fondano l’abazia di San Gerolamo della Cervara, che darà vita a una propria autonoma congregazione.10 Il monastero di San Gerolamo di Quarto nasce nel 1383 a opera di un gruppo di Gerolamini di Spagna ai quali subentrano, già nel 1387, i monaci benedettini Olivetani.11 Dal 1441 si ha notizia del monastero di monache eremitane di San Gerolamo del Roso.12 Cappelle e altari dedicati a San Gerolamo sono inoltre presenti nelle maggiori chiese genovesi: si dirà più avanti di quella in Santa Maria di Castello, mentre qui si segnalano la cappella in San Lorenzo (dal 1386), in Santo Stefano (1391), a San Nicolò del Boschetto (1426), in San Benigno (1448), in Sant’Agostino (1451), in San Domenico e al Carmine, dove si radunavano i maestri di scuola, la cui associazione Cfr. RÉAU 1959, pp. 740-ss.; RUSSO 1987, pp. 38-41. L’abate di Monte Oliveto Leonardo Mezzavacca, nel 1471, in una lettera a maestro Bartolomeo da Pistoia cita, fra gli autori da ripensare e meditare, San Gerolamo (cfr. CATTANA 1967, pp. 239-240). Per quanto attiene agli Olivetani in Liguria, nel 1584 il visitatore apostolico documenta, nella chiesa di Nostra Signora delle Grazie di Portovenere, che entra nella congregazione Olivetana nel 1432, la presenza di due cappelle, una delle quali dedicata a San Gerolamo, santo particolarmente caro agli Olivetani liguri. Attualmente sull’altare maggiore della chiesa sono reimpiegati i frammenti di un tabernacolo (?) di fine Quattrocento che vede accostati San Gerolamo e San Giovanni Battista (cfr. DONATI 1991, pp. 5-6, 9). Quando nel 1477 gli Olivetani si insediano nel monastero di Finalpia dedicano una cappella a San Gerolamo e su un portale del chiostro fanno eseguire le immagini della Vergine, San Gerolamo e San Benedetto. Più avanti si tratterà in modo più diffuso del caso del monastero olivetano di San Gerolamo di Quarto. 6 I Gerolamini di Spagna (Ordo Sancti Hieronimi) fondati da Pietro Fernandez Pecha intorno al 1370; i Gesuati (dal 1494 Chierici Apostolici di San Gerolamo), fondati da Giovanni Colombini intorno al 1355-1360. I Monaci di San Gerolamo, che assumono tale titolo fra 1404-1406, ma che sono nati verso il 1360 per opera di Carlo di Montegranelli; i Padri Eremiti di San Gerolamo, o Geronimiti, fondati da Pietro Gambacorta nel 1380 circa. Cfr. DE MADRID 1973; RUSSO 1987, pp. 130-135. 7 Cfr. MUSSO 1958, p. 161; POLONIO 1969, p. 323; MACCHIAVELLO 1999, pp. 242-260. 8 Cfr. GISCARDI MS., cc. 343, 503. 9 Non è ben certa l’origine del gruppo di monaci (forse la Spagna o la stessa Sestri), cfr. RAVECCA 1987, pp. 13, 35, 138; MACCHIAVELLO 1999, p. 256. 10 Cfr. GISCARDI MS., cc. 341-342; CAMBIASO 1917, p. 239; DI FABIO 1997, pp. 59-64; BASSO 1997, p. 115; MACCHIAVELLO 1999, pp. 251-253. La scelta della titolazione dell’abbazia sul monte di Portofino potrebbe derivare dalla volontà di sostituire la chiesa ceduta ai Padri Serviti intorno al 1327 (vedi supra). 11 Cfr. DA LANGASCO 1978; Nicolò… 1986, passim. 12 Cfr. CAMBIASO 1917, p. 239. 4 5 – 162 – era protetta dal Santo dottore.13 Anche la Confraternita del Divino Amore, che nasce nel 1497, era posta sotto la protezione di San Gerolamo.14 Dalla documentazione risulta come, pure fra le alte gerarchie ecclesiastiche, la figura di Gerolamo incontrasse largo favore.15 San Gerolamo esercitava inoltre una forte attrattiva non solo in ambito strettamente ecclesiastico e monastico ma anche tra i laici, soprattutto tra quelli impegnati nei movimenti di riforma che percorrono i secoli XIV-XV. È strettamente conseguente che dal diffondersi della devozione a San Gerolamo derivi un numero cospicuo di immagini del Santo. Benchè non sia sempre possibile attribuire con sicurezza i manufatti a una specifica istituzione, sono comunque noti un certo numero di rilievi, tavole e dipinti con San Gerolamo che, probabilmente, provengono da luoghi di culto a lui dedicati. I processi che hanno portato alla dispersione delle opere, rendono difficoltoso restituire ogni oggetto al proprio contesto, se non in pochi casi fortunati.16 I rilievi gerolimiani di seguito proposti, potrebbero essere riconducibili ad ambiti monastici, o ecclesiastici, ma anche a casi di committenza privata. Sembra comunque che il destino comune di buona parte dei manufatti qui considerati, sia quello della decontestualizzazione, dal che deriva un limite oggettivo alla ricerca giacché ogni proposta di analisi deve essere formulata solo in via parziale e ipotetica. Attualmente sono stati identificati 20 rilievi con l’immagine di San Gerolamo. Tra essi compaiono alcuni pezzi di indubbia tenuta qualitativa, mentre altri sono da assegnare a mani più corrive da attribuire agli aiuti di bottega.17 La più antica raffigurazioni a rilievo dei Quattro Dottori della Chiesa Occidentale, a Genova, sembra essere il gruppo di formelle provenienti da un portale del chiostro del complesso conventuale di Sant’Agostino e attualmente conservato nello stesso Museo.18 A prescindere dalla resa formale dei rilievi, è da porre invece in evidenza la scelta iconografica di rendere immediatamente riconoscibile, grazie alle vesti e al cappello cardinalizio, la sola figura di San Gerolamo, mentre Sant’Agostino, Sant’Ambrogio e San Gregorio Magno hanno generici paramenti vescovili, e neppure la figura del pontefice è meglio precisata. Le formelle sono un documento visivo piuttosto precoce e testimoniano un processo di elaborazione iconografica in atto; la Nel santuario del Boschetto le cappelle risultano essere in realtà due: una dedicata a San Gerolamo e voluta da Tedisio Doria, nota dal 1434, una più antica dedicata a San Gerolamo e San Benedetto, commissionata da Aimone Grimaldi e documentata dal 1426. Cfr. CAMBIASO 1917, p. 239; PIASTRA 1970, p. 28; MAGNANI 1980, p. 20; FERRARI 2000, pp. 40-41. Occorre, inoltre, ricordare che l’ordine dei Carmelitani aveva associato la figura di Gerolamo al proprio ideale di vita eremitica (Cfr. RUSSO 1987, p. 152). 14 Cfr. CAMBIASO 1917, p. 239. 15 L’arcivescovo Giacomo Imperiale (1439-1452) possiede il Hieronymianus di Giovanni d’Andrea e altre opere dello stesso autore. Un inventario della Biblioteca del Capitolo redatto fra 1469 e 1480 indica la presenza dello Hieronymianus (forse lo stesso appartenuto al vescovo Imperiale), di un volume delle Epistole di San Gerolamo, di una Cronaca di Eusebio, nella traduzione di San Gerolamo e di una Vita di quest’ultimo (cfr. PISTARINO 1961, pp. 10, 26, 79; POLONIO 1969, p. 323). Agostino Giustiniani e gli altri esegeti della Bibbia, scelgono San Gerolamo come loro patrono, pur volendo superare la Vulgata, per risalire alle fonti ebraiche del Vecchio Testamento (cfr. MUSSO 1958, p. 161). 16 Si cita solo, a titolo di esempio, il polittico della Cervara dipinto da Gérard David e commissionato nel 1506 da Vincenzo Sauli (uno dei figli del committente, non a caso Gerolamo, sarà nel 1550 arcivescovo di Genova). (cfr. ALGERI, DE FLORIANI 1992, p. 460; DI FABIO 1997, pp. 59-70). Le immagini pittoriche del culto gerolimiano sono attualmente in fase di studio da parte di chi scrive e formeranno l’oggetto di una prossima pubblicazione. 17 Una prima sommaria elencazione compare nell’articolo di chi scrive (cfr. DE ROBERTIS 1989, pp. 59-64). Non si vuole qui dare un catalogo esaustivo, ma solo fornire dati sui pezzi ritenuti di maggior interesse in vista di una possibile ricollocazione nel contesto culturale e fisico di provenienza. 18 Cfr. Genova, Museo di Sant’Agostino, inv. 1278; Museo… s.d. (ma 1984), pp. 87-89. Le formelle sono datate da Clario Di Fabio al secolo XIV. Vorrei qui ringraziare Clario Di Fabio per la cortese disponibilità e per le informazioni che ha voluto gentilmente fornirmi. 13 – 163 – provenienza da un edificio monastico indica che, nella formazione di un’iconografia stabilizzata, ebbero grande peso proprio le istituzioni che osservavano una regola di vita comunitaria. I Quattro Dottori della Chiesa compaiono anche su un tabernacolo, attualmente nel Santuario di Coronata ma proveniente dall’abbazia di San Nicolò del Boschetto,19 dove – come accennato – la personalità di San Gerolamo era oggetto di particolare venerazione ed associata al fondatore del monachesimo occidentale, San Benedetto, secondo una prassi non casuale che si riscontra anche sulla lastra sovrapporta attualmente sull’ingresso principale della chiesa di San Gerolamo di Quarto.20 Quest’ultima ha, al centro, l’emblema olivetano: il Monte degli Ulivi con gli alberi e la Croce, ai lati – avvolti da un motivo cordonato che racchiude anche l’emblema stesso – vi sono le figure a mezzo busto di San Benedetto, con la disciplina e la Regola e di San Gerolamo con accanto il leggio e il cappello cardinalizio. L’accostamento dei due Santi può essere letto come un compendio delle istanze religiose che sono all’origine della fondazione benedettina di Quarto ed è indice di un’atmosfera culturale tendente ad attribuire a San Gerolamo il ruolo di guida spirituale e morale degli eremiti spagnoli detti Gerolamini e, successivamente, riconosciuto dai monaci Olivetani. Ne deriva un preciso programma devozionale e iconografico che unisce le figure dei due protettori degli ordini, che si succedono nello stesso convento, e che viene ribadito, in modo ancora più evidente, nell’affresco del refettorio.21 Altro caso emblematico è la chiesa dell’Annunziata della Costa di Sestri Ponente dove sono ancora in sito un gruppo di rilievi (e altre immagini dipinte), con la figura di San Gerolamo. Vi sono due rosoni, uno con il Santo penitente e uno con il cardinale, una lastra murata nello strombo della finestra della cappella dell’Immacolata, che presenta ancora San Gerolamo penitente. Il manufatto meglio conservato è un tabernacolo del 1513 con San Gerolamo e San Giovanni Battista ai lati dello sportello e, nella cimasa, il Cristo risorto.22 I due Santi sono perfettamente riconoscibili dalle vesti e dagli attributi e sono accostati, come in altre opere quattrocentesche, per la comune esperienza di vita eremitica nel deserto fra digiuni e penitenze, al punto che anche a San Gerolamo si attribuì il titolo di ‘martire’ della fede per le mortificazioni che si impose.23 Anche a Santa Maria di Castello compare più volte, nell’arredo scultoreo, l’immagine di San Gerolamo. Gli stipiti di uno degli antichi portali del chiostro presentano l’associazione di San Gerolamo con altri Santi: San Giovanni Battista, San Giorgio e la Madonna con il Bambino.24 Un altro rilievo del convento è interessante soprattutto per l’ambiente fisico e 19 Il rilievo è stato pubblicato recentemente da Ferrari (cfr. FERRARI 2000, pp. 43-44), ma con una datazione troppo alta (prima metà del secolo XV) in quanto la forma della cuspide, rettangolare e non curvilinea, e l’ornamentazione fitomorfa inducono a una collocazione cronologica intorno alla fine del secolo XV o agli inizî del XVI. 20 Per la storia del convento di San Gerolamo di Quarto cfr. SCHIAPPACASSE 1904, p. 29; CAPPELLINI 1933, p. 46; DA LANGASCO 1978, pp. 2-3; Nicolò… 1986, pp. 57-59. 21 Dove San Gerolamo e San Benedetto consegnano la Regola; affresco di pittore ligure attivo intorno al 1430, (Nicolò… 1986, pp. 63-65; ALGERI, DE FLORIANI 1992, pp. 126-129). Nella scena San Benedetto, estensore della Regola benedettina, è associato a San Gerolamo al quale il convento è dedicato e che è comunque considerato come un riferimento per i suoi scritti sulla vita monastica. L’iterazione della figura di San Gerolamo nel convento di Quarto, e in altri conventi Olivetani, (cfr. qui note 5, 16) è quindi segno evidente che il Santo aveva un pregnante significato dottrinale e ideologico per detto Ordine. 22 Cfr. ROSSI 2000. Si evidenzia quindi come nei conventi che si ispirano alla dottrina e alla figura di San Gerolamo, l’immagine di quest’ultimo venisse iterata e riproposta in più varianti. Per la storia della chiesa e del cenobio cfr. qui nota 9. 23 Cfr. RUSSO 1987, p. 138. 24 Vigna lo cita nella cappella del Cristo (cfr. VIGNA 1864, p. 223). Attualmente gli stipiti sono stati ricomposti nel – 164 – ideologico nel quale era collocato: si tratta di un sovrapporta con San Gerolamo in cattedra situato sull’ingresso dell’antica biblioteca.25 La collocazione è di per se stessa illuminante e sottolinea il particolare significato che la venerazione nei confronti del Santo di Stridone assume nella cultura domenicana. Inoltre, all’interno di Santa Maria di Castello era stata dedicata a San Gerolamo una cappella.26 La figura del Santo ha ormai raggiunto vasta popolarità tra i movimenti di riforma del secolo XV, ma lo stesso si potrebbe affermare per quanto riguarda la committenza privata. La perduta cappella Lomellini, in San Teodoro, era arricchita da interventi decorativi di altissima qualità – si pensi alla pala d’altare di Filippino Lippi ora a palazzo Bianco –. Tra questi vi erano anche quattro grandi clipei con i Padri della Chiesa a rilievo su fondo dorato, eseguiti da Antonio Della Porta e probabilmente collocati sui pennacchî della volta. Per quanto riguarda i frammenti in musei e collezioni, da un contesto ecclesiastico potrebbe provenire il rilievo del castello Mackenzie (fig. 2) la cui origine è sconosciuta.27 La composizione è divisa in due settori distinti: a sinistra è la cattedra-nicchia, rappresentata con un tentativo di scorcio prospettico, nella quale è seduto San Gerolamo intento a scrivere; accucciato davanti al tavolo si riconosce il leone dalle dimensioni di un cagnolino. A destra si apre un paesaggio roccioso con grandi alberi e un piccolo animale, forse un sauro. Il paesaggio allude al periodo di vita eremitica e la lucertola (?) strisciante sarebbe un simbolo della lussuria vinta dal Santo.28 In un’unica immagine sono quindi evocati i diversi ruoli attribuiti a San Gerolamo: il cardinale, lo studioso e il penitente. Il rilievo, interessante per la scelta iconografica, è condotto con mano non troppo felice nella tecnica esecutiva ma, più ancora, nell’organizzazione della scena che appare poco coesa per le due parti semplicemente accostate e, pur considerando la relazione narrativa e ideologica fra San Gerolamo e l’ambiente desertico – in quanto evocazione del periodo di vita eremitica – il paesaggio, che dovrebbe essere lo sfondo, diventa una sorta di appendice laterale.29 Nel Museo di Sant’Agostino sono conservati rilievi di ignota provenienza, per i quali si può solo supporre un’originaria collocazione in contesti conventuali o edificî privati.30 vano sul retro dell’abside adibito a museo, sormontati da un fastigio forse non coerente. La scultura è collocabile cronologicamente agli anni della ristrutturazione domenicana di Santa Maria di Castello intrapresa dopo il 1441. 25 Cfr. BOCCARDO 1983, p. 48; DE ROBERTIS 1989, p. 59. Il Santo è seduto in cattedra in vesti cardinalizie, regge la penna e il libro e ai suoi piedi è accucciato il leone. La figura centrale è affiancata dagli stemmi della famiglia Grimaldi sovrastati da grifi alati e affiancati da foglie accartocciate. Armi analoghe compaiono su sovrapporta col tema di San Giorgio e sono caratteristici di questa fase della scultura di metà Quattrocento, legata allo stile gotico cortese. Gli elmi fogliati sono affiancati alla scena principale – in genere San Giorgio e il drago – e sono composti in realtà di tre elementi: lo stemma familiare nella parte inferiore, l’elmo con lussureggianti foglie d’acanto, ma più probabilmente piume, e la protome sovrastante che assume forme di animali (grifi, aquile, gatti) o di figure alate. Potrebbe trattarsi della riproduzione degli elmi da parata utilizzati in occasione di cortei trionfali, tornei etc. Si veda, a titolo di esempio, il portale del palazzo di Brancaleone Grillo ante 1457. 26 La cappella dedicata a San Gerolamo fu costruita nel 1449-1463 sovvenzionata da Giovanni Giustiniani de Campi, in seguito cambiò più volte dedicazione ed è attualmente nota come cappella di Ognissanti. (cfr. VIGNA 1864, p. 208; POLEGGI 1973, pp. 130-131). 27 Si potrebbe ipotizzare una possibile provenienza da uno dei conventi dedicati a San Gerolamo e ricordati più sopra. Ringrazio l’organizzazione The Novecento Corporation per avermi consentito di pubblicare il pezzo in questione e per l’uso della fotografia in loro possesso. In particolare, un grazie sentito a Gianni Franzone. 28 Cfr. GENTILI 1985, p. 164; GENTILI 2000, pp. 29-32. 29 Il pezzo presenta qualche affinità stilistica con la lastra di San Giovanni nel deserto murata nel palazzo di Brancaleone Grillo. In entrambi i casi le figure sono posizionate nella parte sinistra della composizione mentre almeno la metà del campo figurato è occupata da un paesaggio con alberi fronzuti e animali. 30 Alcuni sono ancora in situ come il rilievo in pietra nera murato nell’androne dello stabile di via Lomellini 17, e datato al secolo XV-XVI (cfr. DE ROBERTIS 1989, pp. 60-61). Nel palazzo di piazza Veneroso 4 è situata, inoltre, – 165 – Un peduccio di ignota origine raffigurante San Gerolamo nello studio, ora nei depositi del Museo era, verosimilmente, anch’esso ubicato in origine in un edificio legato al culto gerolimiano.31 Si può supporre che facesse parte di un insieme decorativo – forse in serie con gli altri Dottori della Chiesa – del quale non è possibile individuare l’esatta funzione. Per un altro rilievo del Museo di Sant’Agostino: un cielino con San Gerolamo nello studio affiancato da motivi a grottesca è possibile supporre sia la provenienza da una comunità religiosa sia, per alcune caratteristiche della figurazione, da un edificio privato.32 Un diverso orizzonte culturale sembrerebbe essere il riferimento di un’altra interessante immagine gerolimiana del Museo di Sant’Agostino. Si tratta di una lastra marmorea con San Gerolamo penitente proveniente dalla zona di via dei Servi.33 Il pezzo suscita l’attenzione sia per la buona qualità sia per la tecnica esecutiva, insolita in ambito genovese: si tratta di un rilievo a stiacciato trattato con molta morbidezza e con effetti di profondità di campo davvero notevoli, soprattutto nello sfondo dove un paesaggio urbano è reso quasi a graffito.34 La rappresentazione è perfettamente in linea con l’iconografia quattrocentesca di San Gerolamo penitente come è venuta consolidandosi nel corso della seconda metà del secolo. San Gerolamo in penitenza è presente su due altorilievi di pieno secolo XVI che confermano come la figura del dotto in mortificazione incontrasse ancora largo favore nei ceti agiati delle città. Le due sculture possono essere accomunate dall’attribuzione a una stessa bottega, quella dei Della Porta, ma a esecutori diversi. una lastra con l’Annunciazione e San Gerolamo penitente, assegnabile alla prima metà del ‘500. Sono entrambi attribuibili a una produzione di bottega e presentano qualche interesse solo se considerati testimonianza che la venerazione per il Santo di Stridone è ormai diffusa nei più diversi strati sociali e, in particolare, nella borghesia agiata e dotata di una certa cultura (cfr. BOCCARDO 1983, p. 53; DE ROBERTIS 1989, pp. 59-60. Circa la risistemazione di palazzo Veneroso cfr. CESCHI 1949, p. 215; PATRONE 1982, p. 175). 31 La forma insolita non chiarisce l’utilizzo del manufatto, per cui si usa il termine peduccio come il meglio assimilabile a tale conformazione. La generica attribuzione alla bottega dei Gagini per la corrispondenza del motivo a cordone riconosce correttamente l’ambito di provenienza e l’epoca – seconda metà del secolo XV –. La qualità esecutiva è piuttosto buona – si notino la trattazione del panneggio, il tavolo e le ginocchia viste di scorcio e il modellato del viso – e fa pensare a uno scultore di buon livello. Cfr. Genova, Museo di Sant’Agostino, inv. 239; Del dipingere… 1984, pp. 74-75; DE ROBERTIS 1989, p. 60. 32 Cfr. Genova, Museo di Sant’Agostino, inv. 372; DE ROBERTIS 1989, p. 60. San Gerolamo è inserito in una nicchia conchigliata posta al centro della lastra; la figura risulta monumentale, compressa tra gli elementi dell’arredo. Ai lati vi sono due figure femminili nude, vegetalizzate con estremità terminanti in cornucopie. Queste sono evidentemente attribuibili a mani diverse. Per quanto concerne la scelta delle raffigurazioni si può osservare che affiancare temi religiosi e profani non è insolito, si pensi ad esempio ai girali abitati da puttini nudi nella fronte della cappella di San Giovanni, dove prevalgono i soggetti sacri. La stessa prassi è riconoscibile in altri manufatti di destinazione laica o ecclesiastica (cfr. DE ROBERTIS 1999, pp. 71-73). Tale procedimento sembrerebbe indicare che le cornici a motivi vegetali, i tondi con teste imperiali, le grottesche e altri elementi del repertorio ornamentale, venissero utilizzati, almeno nella produzione corrente, come mere cifre decorative, con poca attenzione alle relazioni tra i soggetti. Riguardo ai motivi a grottesca, cfr. DACOS 1966, p. 45; CHASTEL 1988, pp. 133, 162, 407. 33 Cfr. Genova, Museo di Sant’Agostino, inv. 3206; DE ROBERTIS 1989, pp. 60-61. Come sopra ricordato, la storiografia locale attesta che, nel luogo in cui sorgeva la chiesa di Santa Maria dei Servi, fondata nel 1274 dai Padri Serviti, esistesse in precedenza un’antica chiesa dedicata a San Gerolamo dipendente dal monastero di Santo Stefano. Nella chiesa dei Servi sono documentate sculture in marmo dei secoli XV e XVI (cfr. ALIZERI 1846-1847, pp. 231-243; NOVELLA 1906, pp. 91-93). 34 Le caratteristiche esecutive fanno pensare a uno scultore che avesse recepito i caratteri delle realizzazioni dei maestri toscani. Un rilievo con lo stesso soggetto è attribuito a Desiderio da Settignano e presenta un’analoga, anche se più fine, lavorazione a stiacciato (cfr. POPE HENNESSY 1963, pp. 303-304, tav. 65). L’albero, che chiude a sinistra la scena nel rilievo di Sant’Agostino, ha, inoltre, qualche somiglianza con quelli del rilievo di Orfeo della cantoria di Santo Stefano sopra citata. – 166 – Sulla tomba di Giuliano Cybo in San Lorenzo, assegnato alla bottega dei Della Porta, sono alcune piccole scene che arricchiscono la complessa struttura. I sei rilievi narrativi (San Gerolamo penitente, il Sacrificio di Isacco, Mosè riceve le Tavole della legge, la Decapitazione di San Giovanni, la Liberazione di San Pietro dal carcere e la Conversione di San Paolo) sono opera di un aiuto di bottega, forse sempre la stessa persona.35 San Gerolamo in penitenza è rappresentato secondo lo schema già noto. La composizione si presenta analoga, anche se semplificata, a quella eseguita da Gian Giacomo Della Porta e ora a Praga.36 Si potrebbe considerare la possibilità dell’esistenza di un modello comune, ascrivibile alla bottega dei Della Porta. Il percorso qui tracciato attraversa un tema iconografico che, nel corso del tempo, assume una complessa stratificazione di significati. Dalle raffigurazioni più semplici quelle di San Gerolamo come cardinale e dottore della Chiesa, si passa a quelle in cui tale ruolo si complica di nuove attribuzioni semantiche: il traduttore dei testi biblici nel suo studio, il penitente in un paesaggio desertico. Talvolta i diversi ruoli si incrociano e si sovrappongono: nel sovrapporta di Santa Maria di Castello San Gerolamo è lo studioso seduto in cattedra ma è anche colui che ha dato un indirizzo alla vita eremitica ed è affiancato dagli stemmi dei ricchi committenti. Nel rilievo del castello Mackenzie il Santo è seduto allo scrittoio intento a scrivere, indossa le vesti sontuose del cardinale, ma l’appendice paesaggistica allude certamente al periodo di penitenza nel deserto. L’immagine del penitente diventa preminente e si presenta, con particolare ricchezza di ambientazione. Si riconoscono elementi realistici che assumono un significato simbolico come gli edificî sullo sfondo, che alludono all’abbandono della vita cittadina e alla scelta di distaccarsi dal mondo. Nel rilievo praghese si aggiunge il teschio quale evocazione della fine di tutte le cose. Si tratta di oggetti significanti che nei rilievi sono rappresentati in numero relativamente ridotto e comunque lontano dalle precise raffigurazioni pittoriche nelle quali i simboli e gli attributi si moltiplicano fino a disegnare una rete di relazioni e rimandi di significato e di senso. La tomba Cybo, situata nella navata nord della cattedrale di San Lorenzo, ha subito un rifacimento che probabilemte ne ha ridotto le dimensioni e ha provocato lo spostamento di alcune figure. Cfr. ALIZERI 1877, pp. 179184; POPE HENNESSY 1963, pp. 96, 97; PARMA ARMANI 1987, p. 384. 36 Si tratta di un rilievo, attualmente ubicato nel vano scala della Národní Galerie di Praga, datato al secondo quarto del secolo XVI che reca l’immagine di Gerolamo secondo uno schema che, con minime variazioni, sembra divenuto tradizionale nelle botteghe degli scultori lombardo-liguri. Il modellato è morbido e il marmo è portato a un grado di estrema finitezza, analogo a quanto si riscontra nel rilievo con Temperanza e Prudenza della tomba di Giuliano Cybo attribuito a Gian Giacomo della Porta. Il riconoscimento e l’attribuzione a Gian Giacomo della Porta è ipotesi di Elena Parma che lo riconduce al periodo milanese dello scultore; si ignora il percorso che ha condotto il rilievo fino alla capitale Boema Cfr. PARMA ARMANI 1987, p. 383; Staré… 1988, p. 84. Si confronti anche l’altare della famiglia Ayamonte in San Lorenzo di Compostella (Cfr. CERVETTO 1903, p. 126). 35 – 167 – Fig. 1 – Genova, cattedrale di San Lorenzo, cappella Cybo, rilievo con San Gerolamo (foto: A. DE ROBERTIS) Fig. 2 – Genova, Castello Mackenzie, rilievo con San Gerolamo (foto: A. DE ROBERTIS) – 168 – FULVIO ORSINI, GIAN VINCENZO PINELLI E ALCUNI PORTALI GENOVESI. PROPOSTE PER UNO STUDIO Alberta Bedocchi I portali genovesi quattro-cinquecenteschi con il motivo iconografico delle teste all’antica o ritratti di imperatori hanno sempre sollecitato l’interesse di antichisti e archeologi, oltre quello della storiografia artistica. Un primo approccio di studio iconografico tentato anni or sono portò a una sommaria identificazione dei personaggî rappresentati e alla verifica del loro rapporto con monete o intaglî glittici antichi.1 Non venivano affrontati in quella sede i complessi problemi relativi alla datazione dei singoli portali, che in mancanza di una specifica e probante documentazione d’archivio resta spesso affidata alla sola analisi stilistica. Le indagini più recenti sulla collezione di gemme di Fulvio Orsini (1529-1600) e sugli studî rinascimentali riguardanti le effigi dei viri illustres dell’antichità2 consentono oggi di prendere nuovamente in considerazione alcuni di questi ritratti scultorei e sulla base degli elementi iconografici. Lo spunto è offerto da un ritratto del portale del palazzo di Castellino Pinelli in via San Siro 2.3 Il portale, in pietra di Promontorio, appartiene a una tipologia architettonica di elaborazione classica, con arco inquadrato da una trabeazione a triplice fascia modanata, lesene con capitello di tipo corinzio e fregio con motivi fitomorfi, grifi e delfini affrontati (fig. 1).4 1 Cfr. BEDOCCHI MELUCCI 1988. Alcuni argomenti del presente contributo sono stati oggetto di una relazione al 54. Wolfenbütteler Symposium, per cui cfr. BEDOCCHI, Une relation probable entre les Illustrium imagines ex Fulvii Ursini Bibliotheca et un médaillon sculpté d’un portail de Gênes, in Europäische numismatische Literatur im 17. Jahrhundert, Atti del 54. Wolfenbütteler Symposium (Wolfenbüttel, 7-10 maggio 2003), c.d.s. Ringrazio vivamente, per i suggerimenti e le informazioni che mi hanno generosamente fornito, Alfonso Assini, Alba Bettini, Colette Bozzo Dufour, Tiziano Mannoni, Mossella Pera, Ennio Poleggi, Luigina Quartino, Rodolfo Savelli dell’Università degli Studî di Genova e Giovanni Gorini dell’Uiversità degli Studî di Padova. 2 La bibliografia su questi argomenti è oggi assai ampia. Si fa qui riferimento, in particolare, a GASPARRI 1994; KÄTZLMEIER-FRANK 1993; Pirro Ligorio… 1998. Si veda anche RIEBESELL 1989; PALMA VENETUCCI 2000, pp. 605-611. 3 Cfr. GROSSI BIANCHI, POLEGGI 1987, pp. 282-283 e ora anche POLEGGI 1998, p. 76. Il palazzo risulta inserito nei rolli (elenchi di palazzi gentilizî adibiti all’ospitalità di illustri personaggî di passaggio a Genova) del 1588 e 1599 come proprietà di Castellino Pinelli (cfr. POLEGGI 1998, ibidem). Il nome Castellino ricorre più volte nell’albero genealogico dei Pinelli olim Luciani (famiglia aggregata ai Pinelli nel secolo XV): per il secolo XVI sono ricordati Castellino quondam Franco, sposato a Cattetta Grimaldi Cebà, (testamento nel 1502), e due suoi nipoti, Castellino quondam Domenico e Castellino quondam Paris, sposato a Benedettina Spinola (testamento 1592). La proprietà dell’edificio attestata dai rolli è probabilmente da attribuirsi a Castellino quondam Franco, come si può dedurre dal testamento del 1502 con cui il palazzo nunc solitæ abitationis in Ianua dicti testatoris è trasmesso in fedecommisso ai discendenti di linea maschile, cfr. Genova, Archivio di Stato, Notaî antichi, 1006, notaio Lorenzo Costa, (1502, marzo 28). Per gli alberi genealogici dei Pinelli, cfr. Genova, Archivio di Stato, Manoscritti, 460 (Raccolta Lagomarsino), Albero della famiglia Pinelli olim Luciani; BUONARROTI 1750, p. 60. 4 Cfr. BEDOCCHI MELUCCI 1988, p. 76, nota 17. Si tratta di un portale di Tipo D, secondo la classificazione ivi proposta. Questa tipologia è abbastanza frequente a Genova: portali analoghi si trovano in vico Fasciuole 14, via delle Grazie 48 r, via San Donato 21, vico Carmagnola 17, vico Lepre 9, via delle Grazie 25. Per un refuso tipografico, alcuni di questi portali nelle schede relative dell’articolo citato sono attribuiti al Tipo C. Tutti i portali elencati, invece, appartengono alla tipologia D. – 169 – Nei clipei alla metà delle lesene e nei pennacchî sono scolpiti quattro ritratti maschili di profilo. Quello dello stipite di destra presenta una fisionomia atipica e ben individuata: un uomo anziano dai tratti marcati, imberbe e calvo, a eccezione di una leggera corona di ciocche appena segnata sulle tempie e sulla nuca. Il viso, il collo e la parte di spalla e petto che si intravedono – il busto è tagliato poco sotto l’omero – sono caratterizzati da asciutta magrezza e cadente muscolatura da vecchio. L’espressione dell’uomo è tesa e dura, accentuata dalle labbra sottili serrate: l’impressione di vigorosa vecchiezza, nonostante i numerosi strati di vernice e gli insulti del tempo che il portale mostra, richiama lo stile realistico della ritrattistica romana repubblicana. Nell’anatomia ben indicata risaltano in modo particolare le rughe che incidono il sottomento e la fascia muscolare che segna trasversalmente il collo dalla nuca alla gola. Un accenno di gibbosità caratterizza la parte visibile del dorso. Il taglio del busto è trilobato (fig. 2). Lo stesso tipo di ritratto, con qualche variante probabilmente dovuta all’esecuzione di mano diversa, compare in uno dei tondi di un altro portale in pietra in un palazzo in via del Campo (fig. 3).5 Questo ritratto così particolare ha un preciso riscontro in un’illustrazione che compare nella seconda e nella terza edizione, rispettivamente del 1598 e 1606, dell’opera Illustrium imagines ex antiquis marmoribus, nomismatibus et gemmis expressae (fig. 4).6 Il confronto è stringente: tranne per alcuni particolari poco significativi – la linea del cranio più arrotondata, le ciocche dei capelli un po’ più voluminose, l’evidenza delle rughe frontali –, il ritratto dell’incisione corrisponde in tutto a quello del portale, compresi il rilievo del muscolo sternocleidomastoideo, le rughe delle gote, le pieghe del sottomento e il taglio trilobato del busto. La didascalia apposta all’incisione precisa la fonte del disegno e l’identità del personaggio: è un ritratto inciso in un cammeo della collezione di Fulvio Orsini e identificato come Catone il Censore. Nel commento dell’edizione 1606 si legge infatti: Imago M. Porcii Catonis, cognomento Censorii, ex cameo desumpta est, gemma anulari et prorsus similis illi quæ in corniola apud Fulvium Ursinum etiam extat: utraque autem aetate Catonis quasi LXXXV aut XC annorum præ se fert, quos vixisse Cato legitur apud Plutarchum….7 Fulvio Orsini possedeva dunque anche un’altra gemma, una corniola, con la stessa immagine, come è confermato dall’Inventario stesso della collezione Orsini.8 Si tratta quasi sicuramente di due intaglî moderni. La corniola è probabilmente da identificare con una gemma della collezione Farnese oggi al Museo Nazionale di Napoli, giudicata di fattura rinascimentale.9 Non pare che la matrice di Via del Campo 13. Il portale, centinato e in pietra di promontorio, è inglobato con piacevole effetto cromatico in una trabeazione classicheggiante in marmo bianco, forse posteriore. La proprietà antica di questo palazzo non è accertabile. Nella localizzazione delle case nobili fatta da Ennio Poleggi sulla base del cartulario Possessionum del 1414 risulta che in quell’area erano situate, fra le altre, due abitazioni, rispettivamente di Antonius Cibo e Badassalis (Baldassare) Cibo, cognome che non contrasta con le iniziali “A.C.” incise sul portale (cfr. GROSSI BIANCHI, POLEGGI 1987, p. 210, nn. 65.11 e 65.12). 6 Cfr. Illustrium… 1598, tav. 116; Illustrium… 1606, tav. 116, p. 68. La prima edizione dell’opera di Fulvio Orsini, Imagines et elogia virorum illustrium et eruditorum ex antiquis lapidibus et nomismatibus expressa cum annotationibus ex Bibliotheca Fulvii Ursini, fu pubblicata a Roma nel 1570. Le due successive del 1598 e 1606, dal titolo Illustrium imagines ex antiquis marmoribus, nomismatibus et gemmis expressæ, quæ extant Romæ, maior pars apud Fulvium Ursinum, compaiono generalmente nei repertorî bibliografici sotto i nomi, rispettivamente, di Theodor Galle e Jean Fabre (anche Faber, Lefebvre, Le Fèvre). 7 Cfr. Illustrium…. 1606, p. 68. 8 Cfr. DE NOLHAC 1884, pp. 29-30. L’Inventario della collezione Orsini registra i nomi dei fornitori di queste gemme: il cammeo fu venduto a Fulvio Orsini da il Baviera e la corniola da Paolo Nasi. 9 Cfr. BEDOCCHI MELUCCI 1988, p. 87, nota 106. Per la gemma Farnese di Napoli (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 26169), cfr. GASPARRI 1994, p. 130, fig. 201. 5 – 170 – questo ritratto sia antica. La complessa questione del ritratto di Catone, ripresa di recente,10 non consente al momento di stabilire un’iconografia certa di questo personaggio, che in Età Rinascimentale era anche confuso con il pronipote Catone Uticense. Le fonti rinascimentali attestano la presenza di svariati ritratti di Catone nella collezioni romane del tempo, facendo intuire l’esistenza di questa confusione fra i due personaggî.11 Nella rassegna di Ulisse Aldrovandi sono citati busti o statue di Catone nello studio Cesi,12 in casa di Bernardo Alberichi,13 nella casa di Antonio Gabriele (o Gabrielli), in quelle di Marco Metello Porcari, famiglia che tra l’altro vantava la discendenza dal Censore, di Antonio Ridolfi – testa con il busto assai bella e propria –.14 Claude Bellièvre – giurista e politico lionese con interessi antiquarî – aveva visto a Roma nel 1514-1515 nella collezione Cesarini una statua di Catone il Censore simile a quella posseduta dai Medici a Firenze.15 Va ricordato che verso il 1560 Giangiorgio Cesarini vendette ai Farnese molti dei marmi antichi della collezione di famiglia. Oltre a questi esemplari, Boissard segnala altre due teste di Catone nel palazzo Farnese e in casa di Lorenzo Rodolfo Carpi.16 Di queste statue o busti di Catone non compaiono immagini nei repertorî di Giovanbattista De Cavalieri, né in quello di Girolamo Franzini. Nei codici ligoriani esiste invece il disegno di un’erma ritratto con l’iscrizione M. Porcius M.F. Cato Censorius. Stando alla testimonianza di Pirro Ligorio, quest’erma fu rinvenuta sulla via Sacra e la testa, separata dal plinto, finì poi nelle collezioni del cardinale Jean Du Bellay, ma essa non pare più rintracciabile nei successivi passaggî di questa collezione ad altri proprietarî. Nel disegno di Ligorio il ritratto dell’erma presenta comunque fattezze diverse da quello della gemma Orsini.17 Ricordiamo, infine, che nei repertorî a stampa del Cinquecento compare una tipologia di ritratto monetale di Catone diversa da quella delle due gemme Orsini, con capelli lunghi e tratti giovanili (fig. 5). Questo ritratto è generalmente riferito all’Uticense, ma con qualche confusione con l’avo, e deriva evidentemente dai quinarî repubblicani di M. Cato con testa di Libero.18 Su quale base si sia fondata l’attribuzione del ritratto glittico in questione non è chiaro, ma si può ipotizzare che l’identificazione si nata nell’ambito degli studî iconografici di Fulvio Orsini, la cui autorità in tale campo era indiscussa. Questo tipo iconografico ebbe anche una certa fortuna fino al secolo XVIII: sempre con attribuzione al Censore la gemma Cfr. SALVATORE 1998, pp. 213-214. Cfr. anche PALMA VENETUCCI 1993, p. 57. 12 Il busto di Catone era posto nello Studio, accanto a una porta. L’identificazione non era sicura: chi dice che è Catone, chi Marco Bruto (cfr. ALDROVANDI 1562, p. 134). Un disegno di A. Chacon riproduce verosimilmente questo busto, attribuendolo all’Uticense (cfr. PALMA VENETUCCI 1993, pp. 56-57). 13 Nel cortiglio di questa casa si vede in una finestra murata, una testa col petto vestito di M. Catone, assai bella e naturale. Furono due famosi Catoni in Roma: il maggiore di molta autorità e severità di vita, e fu chiamato maggiore rispetto all’altro… che, poiché s’ammazzò in Utica, per non venire in potere del nemico, fu chiamato Uticense. Fu anche colui assai severo e gran Stoico (cfr. ALDROVANDI 1562, p. 159). 14 Cfr. ALDROVANDI 1562, pp. 191, 249, 293. 15 Cfr. LANCIANI 1902-1912, vol. I, p. 134. Aldrovandi non cita però questa statua tra quelle della collezione Cesarini. 16 Cfr. BOISSARD 1597-1602, vol. I, pp. 37, 80, 94, 107. 17 È stata rilevata la somiglianza fra questa testa ligoriana e il disegno di Chacon che riproduce il Catone della collezione Cesi, cfr. PALMA VENETUCCI 1993, ibidem. 18 Per la moneta cfr. CROWFORD 1974, tav. XLV, n. 343 2/b, p. 351. La prima riproduzione a stampa di questo ritratto monetale, con attribuzione all’Uticense, dovrebbe essere quella di Andrea Fulvio (cfr. FULVIO 1553, p. 157). Nell’indice dei Dialoghi di Antonio Agustin la moneta, riprodotta a p. 9, viene attribuita al Censore, ma è probabile che si tratti di un’interpolazione di Ottaviano Sada, curatore dell’edizione italiana: Agustin non confondeva i due ritratti, come si evince da una lettera inviata nel 1561 a Fulvio Orsini (cfr. AGUSTIN 1765-1774, tomo VII, p. 245). 10 11 – 171 – Orsini è riprodotta da Giovanni Bellori e da Gronovius, il quale per completezza di documentazione acclude anche il disegno dell’altra gemma Orsini con lo stesso ritratto, ripresa da Gevaerts.19 La medesima effigie compare anche in tre esemplari della raccolta di calchi glittici di Tommaso Cades del secolo XIX, sempre attribuito a Catone il Censore.20 L’elaborazione di questa iconografia, qualunque ne sia l’origine, sembrerebbe risalire al periodo che separa la prima dalla seconda edizione delle Imagines orsiniane. Nella prima edizione del 1570, infatti, non compare alcun ritratto di Catone, ma solo l’erma ligoriana acefala.21 La gemma con il presunto ritratto di Catone fa parte invece dei disegni eseguiti da Theodor Galle nel 1595-159622 per la nuova edizione delle Imagines, uscita poi ad Anversa nel 1598 (fig. 4) e seguita dall’edizione Faber del 1606. È stato osservato come fra la prima edizione delle Imagines del 1570, con pochi ritratti certi (o presunti tali) da erme, monete, rilievi, e le due edizioni successive sia intervenuto un mutamento in certa misura regressivo.23 La vicenda delle tre edizioni delle Imagines è sufficientemente nota. Vent’anni dopo la pubblicazione della sua innovativa opera prosopografica, Orsini aveva probabilmente accettato di curarne una nuova edizione ampliata, rispondente al vivissimo interesse per l’iconografia dei personaggî antichi diffuso ormai in tutta Europa. Fra 1595 e 1596 il disegnatore Theodor Galle – giunto a Roma da Anversa insieme al fratello Cornelis – ebbe il permesso di copiare monete, rilievi e gemme della collezione Orsini e di altre raccolte romane in vista di una nuova edizione delle Imagines, il cui commento doveva essere curato da Gaspar Schoppius sotto il controllo dello stesso Orsini.24 Dai disegni, che recavano in calce l’identificazione dei soggetti apposta da Orsini stesso, Galle trasse centocinquantuno incisioni che pubblicò ad Anversa nel 1598 in un volume di tavole senza commento, tranne brevi didascalie con i dati essenziali: nome del personaggio, tipo di reperto e collezione di provenienza.25 Disegni e incisioni tornarono poi a Roma perché Fulvio Orsini, non soddisfatto dei disegni, pensava probabilmente a una nuova edizione corretta e ampliata con il commento critico. Neppure la nuova edizione delle Illustrium imagines, però, ebbe la revisione di Fulvio Orsini, morto nel 1600: sarà Johannes Cfr. GRONOVIUS 1732-1737, vol. III, X; BELLORI 1739, tav. 75, p. 4. Due gemme Medici vicine a questo tipo iconografico erano attribuite a Catone ancora nel secolo XVIII (cfr. GIULIANO 1989, pp. 256-257, n. 192 e pp. 220-221, n. 139). Una simile tipologia di ritratto è attribuita invece a Catone Uticense in Les vies des hommes illustres de Plutarque, Amestricht 1778, tomo X, p. 85, su cui ha richiamato l’attenzione Maria Salvatore (cfr. SALVATORE 1998, p. 214, fig. 221). 20 Cfr. Roma, Istituto Archeologico Germanico, Catalogo… ms., vol. II, pp. 36a-36b, nn. 151-153. Le tre gemme riprodotte sono due corniole e una sardonica, quest’ultima appartenente al cardinale Albani, secondo l’informazione del manoscritto Cades (cfr. Catalogo… ms., pp. 167-168). 21 Insieme all’erma è riprodotta una moneta con figura di Vittoria, che Orsini mette in relazione con un’edicola dedicata da Catone alla Victoria Virgo (cfr. URSINUS 1570, p. 19) Anche Faber nel suo commento dell’edizione 1606 ricorda quest’erma: Eiudem hermes superest capite truncatus… hanc habet inscriptionem: M. Porcius M.F. Cato Censorius (cfr. Illustrium… 1606, p. 68). La stessa erma, oggi al Museo Nazionale di Napoli, è riprodotta da Boissard che ne attribuisce la proprietà al cardinale Alessandro Farnese, patrono di Orsini (cfr. SALVATORE 1998, p. 213). 22 Cfr. Biblioteca Apostolica Vaticana, Capponianus 228, c. 74 r. Nel disegno il profilo è volto a sinistra. 23 Cfr. GASPARRI 1994, p. 91. 24 Nella dedica dell’edizione del 1598, Theodor Galle informa di essere stato ammesso alla casa di Orsini su presentazione di André Schott e di aver avuto poi il permesso di studiare e riprodurre (tractare, delineare, effingere, ac meo arbitratu domi edere) i pezzi della collezione sotto il controllo di Orsini stesso (ipso inspectante). Cfr. Illustrium… 1598, dedica Principi Eberhardo episcopo Spirensi. 25 Schoppius non aveva, infatti, completato il testo descrittivo. I disegni di Galle (alcuni del fratello Cornelis I), contenuti nel codice vaticano Capponianus 228, sono in tutto duecentoquarantasei, corrispondenti a un numero poco inferiore di soggetti. La rilegatura del codice ha tagliato molte delle note identificative di Orsini, ma esse sono alla base delle identificazioni dei personaggî nelle incisioni di Galle. Cfr. anche CACCIOTTI 2000, p. 623, scheda 22. 19 – 172 – Faber, sulla base delle note lasciate da Schoppius e della sua conoscenza della collezione Orsini, a curare la terza e ultima edizione, pubblicata ad Anversa nel 1606 con le stesse incisioni di Galle e alcune aggiunte e un commento alle immagini. Le identificazioni che Orsini aveva apposto ai disegni di Galle e quelle che compaiono nell’inventario della sua collezione sembrano attestare – come si è visto – una sorta di processo involutivo nella determinazione delle iconografie antiche. Per alcune di queste – e il Catone sembra rientrare in questa categoria – un’erma-ritratto, una moneta o un altro reperto iconografico già attribuito a un dato personaggio generarono forse una copia moderna ed essa a sua volta fece nascere una tradizione iconografica.26 Appare comunque chiaro che rispetto alla prima edizione del 1570, basata su una documentazione vagliata da Fulvio Orsini con rigore filologico, il materiale iconografico dell’edizione 1598 è assai meno affidabile: le identificazioni sembrano quasi dettate dall’urgenza di assemblare una galleria di personaggî illustri dell’antichità con caratteristiche di novità rispetto alle molte opere prosopografiche in circolazione, dedicate per lo più ai ritratti degli imperatori. Non va neppure dimenticata la funzionalità di questo genere di pubblicazioni in relazione ai programmi decorativi delle grandi dimore nobiliari. Senza entrare nel merito dei problemi critici sollevati dalle diverse edizioni delle Illustrium imagines, importa qui sottolineare come la somiglianza fra i ritratti di via San Siro e via del Campo e il Catone della gemma Orsini disegnata da Theodor Galle possa costituire motivo di riflessione sulla data di esecuzione dei due portali. L’affinità tra i due ritratti e l’incisione di Galle sembra quasi suggerire che gli scultori genovesi abbiano avuto come modello un disegno tratto da quello del pittore fiammingo, se non l’incisione stessa. Accettando questo dato, l’esecuzione dei due portali andrebbe allora spostata all’ultimo quarto almeno del Cinquecento. Non si può d’altronde escludere che i lapicidi genovesi avessero invece a disposizione uno di quei calchi così diffusi fra i collezionisti e gli antiquari27 e che pertanto questo tipo glittico, moderno come si è detto, fosse già noto nell’ambiente del collezionismo cinquecentesco prima dell’identificazione iconografica di Fulvio Orsini. Va osservato che ogni elemento che può contribuire a stabilire la cronologia del portale di via San Siro è di particolare rilevanza perché potrebbe riguardare anche una serie di altri portali tipologicamente e stilisticamente affini (vico Fasciuole 14, via delle Grazie 48 r., via San Donato 21, vico Carmagnola 17, vico Lepre 9, via delle Grazie 25).28 Quanto al valore semantico di questa effigie di Catone nel contesto dei due portali genovesi, poco si può dire. I due tondi, come in tutti questi portali, non recano alcuna iscrizione identificativa, né aiutano la comprensione dell’insieme le altre teste dei due portali, non riconducibili a effigi note.29 La presenza di ritratti di Catone nelle collezioni rinascimentali sembra essere in relazione con il ruolo dei due personaggî tra gli exempla virtutis di Vale- Cfr. GASPARRI 1994, ibidem. Una conferma della diffusione di questi calchi si può trovare anche nelle corrispondenze tra gli antiquarî. In una lettera di Antonio Agustin a Onofrio Panvinio, inviata da Lerida l’11 aprile 1567, si può leggere: …perché se volete che vi mandi il disegno ovvero impronto in piombo, o in gesso di qualcuna medaglia, scrivete… (cfr. ANDRES 1804, pp. 249-ss., lettera LV e passim), mentre Fulvio Orsini in una lettera all’amico Vincenzo Pinelli, datata 20 novembre 1577, a proposito di una gemma in trattativa d’acquisto, scrive: Veda sua signoria di averne un impronto di cera o solfito, ma meglio sarà di piombo (cfr. Milano, Biblioteca Ambrosiana, Lettere di Fulvio Orsini a Gianvincenzo Pinelli, D 423 inf., c. 20). 28 Cfr. anche PESENTI 1987, pp. 353-354, che si esprime a favore di una datazione tardo cinquecentesca di questo gruppo di portali. Per il portale di via San Siro, in particolare, una datazione tardo quattrocentesca è invece proposta da Edoardo Mazzino (cfr. MAZZINO 1963). Ringrazio Ennio Poleggi per il suggerimento bibliografico. 29 Cfr. BEDOCCHI MELUCCI 1988, pp.76-77. 26 27 – 173 – rio Massimo: esempio di severità censoria e di studium et industria il Censore, di fortitudo, moderatio e continentia l’Uticense.30 Questo stesso ambito di cultura figurativa antiquaria, connessa agli studî iconografici di Orsini e ai disegni della sua collezione glittica, aiuta a identificare anche un altro ritratto su di un portale interno del palazzo di Antonio Sauli, in piazza Sauli 3, al primo piano. Sugli stipiti è visibile, tra i tondi con teste all’antica, un ritratto assai vicino a un’altra gemma della collezione Orsini, l’Eracle imberbe con clava, un’acquamarina passata poi alla collezione Strozzi e oggi al British Museum, citata nell’edizione 1606 delle Imagines, oltre che nell’Inventario della collezione Orsini (figg. 6-7).31 Il confronto fra le due immagini fa risaltare alcune differenze, come la mancanza nel tondo dell’attributo della clava e le proporzioni un po’ più sfilate della testa. Si osservano però anche palesi somiglianze, come il taglio a punta del collo e il rilievo dell’omero, evidenziato in modo significativo anche sul portale, sia pure un po’ maldestramente. Questo ritratto non compare tra i disegni di Galle e la sua prima riproduzione a stampa sembra assai tarda,32 ma di certo circolavano calchi di questa gemma, di cui esistono anche numerose repliche moderne.33 Per le sue caratteristiche tipologiche il portale Sauli non sembra potersi posticipare oltre la fine del secolo XV o gli inizî di quello successivo:34 ammettendo che alla base del ritratto di giovane imberbe vi sia la gemma poi passata nella collezione Orsini, o una sua replica, la sua presenza sul portale genovese potrebbe dimostrare che questo tipo glittico era già ben conosciuto nell’ambito delle botteghe artistiche locali. La mancanza dell’attributo della clava non permette tuttavia di asserire che lo scultore del portale intendesse rappresentare proprio Ercole, eroe mitologico per altro quasi ininterrottamente presente nella tradizione iconografica dall’antico al Rinascimento anche grazie alla risemantizzazione medievale come eroe di virtus personale e civica.35 I rapporti emergenti tra i ritratti dei portali genovesi qui in esame e la collezione (e gli studî iconografici) di Fulvio Orsini sembrano portare anche in un’altra direzione. Non sfugge, infatti, la coincidenza del cognome Pinelli che unisce il portale di via San Siro e uno dei più intimi amici dello stesso Orsini, quel Gian Vincenzo Pinelli a cui il bibliotecario romano inviò più di cinquecento lettere fra 1572 e 1593, compreso forse il dettagliato inventario della sua collezione.36 Di Gian Vincenzo Pinelli (1535-1601) esiste una biografia Cfr. Val. Max., II, 9,3; VIII, 7,1; III, 2,14; IV, 1,14; IV, 3,2. La personalità di Catone il Censore era ben nota all’erudizione rinascimentale anche attraverso il De senectute di Cicerone. 31 Cfr. Illustrium imagines…. 1606, p. 66; DE NOLHAC 1884, p. 153. 32 La prima riproduzione a stampa di questa gemma sembra essere quella che compare nel repertorio di Philipp von Stosch del 1724 (cfr. STOSCH 1734, pl. 23), seguita dal catalogo delle gemme medicee curato da Anton Francesco Gori nel 1732 (cfr. GORI 1732, vol. II, tav. VII, fig. 2). 33 Per la gemma Orsini, un’acquamarina di intaglio antico legata in oro, cfr. anche WALTERS 1926, n. 1892, p. 200, tav. XXIV; RICHTER 1971, vol. II, p. 140, n. 656, con una rassegna bibliografica su questo tipo glittico. Un elenco delle copie moderne di questa gemma si trova in ZWIERLEIN-DIEHL 1973, vol. I, tf. 93, p. 165, n. 543, a proposito di una replica del secolo XVIII conservata a Vienna. Si veda anche un cammeo in pasta vitrea al Museo Nazionale di Napoli: cfr. PANNUTI 1983, p. 94, n. 138. 34 L’edificazione del palazzo su preesistenti edificî medievali si deve al mercante e banchiere Antonio Sauli, nel 1491. Questa data è incisa anche sul cielino interno sopra la porta d’ingresso, accanto ad un altro ritratto all’antica entro tondo. Il palazzo, inserito nei rolli dal 1588, ebbe delle modifiche a opera dei fratelli Ottavio e Giovanni Antonio Sauli nel 1619 e successivamente, nel secolo XVIII, fu adattato ad appartamenti. (IVALDI 1993-1994; POLEGGI 1998, p.143). Il portale interno era forse in corrispondenza dell’accesso all’antico piano nobile (IVALDI 1993-1994). 35 H IMMELMANN 1985, pp. 223-233. 36 Cfr. DE NOLHAC 1884; DE NOLHAC 1887, p. 74-ss. L’Inventario è conservato presso la Biblioteca Ambrosiana 30 – 174 – scritta dall’amico Paolo Gualdi nel 1606: un testo celebrativo che tuttavia può far luce su alcuni aspetti della complessa personalità di questo erudito. Nato a Napoli ma di origini genovesi, Gian Vincenzo apparteneva al ramo più antico della famiglia, o meglio albergo Pinelli (fig. 8).37 Il padre Cosimo si era trasferito nella città partenopea per farvi magnam et copiosam mercaturam,38 accumulando ingenti ricchezze con il favore della monarchia spagnola, di cui il primogenito Galeazzo fu fedele uomo d’armi. Gian Vincenzo non seguì però le orme del padre, né quelle del fratello. Allievo del letterato Gian Paolo Varnaglione e del medico e botanico Bartolomeo Maranta, accumulò con il tempo una vasta erudizione in quasi tutti gli ambiti del sapere: dalle Lettere alla Matematica, al Diritto, alla Filosofia, alla Medicina e le Scienze naturali, alla Musica. Appassionato di piante, aveva creato a Napoli il primo giardino botanico, che affidò poi a Maranta quando, nel 1558, decise di trasferirsi a Padova per gli studî di Diritto. Dalla città euganea non si mosse più, divenendo un attivo animatore di cultura. La sua casa era una sorta di accademia aperta a studiosi e personaggî di rango di tutti i paesi.39 Furono suoi ospiti, fra gli altri, Clemente VIII, Justus Lipsius, Galileo, Torquato Tasso, Nicholas Claude Fabri de Peiresc. Tra i frequentatori abituali era l’archeologo Lorenzo Pignoria. Ricercatore instancabile di codici e anticaglie, Pinelli non si muoveva da Padova ma inviava emissarî in ogni città d’Italia a frugare anche nei laboratorî degli artigiani per cercare vecchie pergamene, salvando così dalla distruzione preziosi frammenti di codici.40 La sua fama però era legata soprattutto alla vasta e ordinatissima biblioteca, nota tra gli studiosi di tutta Europa, con i quali Pinelli intratteneva fitte relazioni epistolarî. Furono la vasta erudizione, la passione per i codici e, non ultima, quella per le piante, che negli anni della maturità lo unirono in uno stretto legame d’amicizia con Fulvio Orsini. Il primo incontro avvenne a Bologna nel 1565, ma la conoscenza reciproca si approfondì durante un breve soggiorno di Pinelli a Roma nel 1573. Nacque da quel momento un fitto carteggio fra i due che si prolungò fino al 1593 e che – in parte conservato – costituisce una preziosa fonte di notizie sulla personalità e la cultura di Fulvio Orsini, ma anche sugli ambienti dell’erudizione antiquaria del tempo.41 La corrispondenza riguarda per lo più il reciproco acquisto e invio di libri, monete e gemme, che Pinelli procurava all’amico dal mercato di Venezia e di Francoforte, e Orsini da Roma. Questi si fidava molto dell’intermediazione di Pinelli. Nelle lettere gli ordini sono spesso seguiti da indicazioni sul prezzo massimo da pagare, ma anche da attestazioni di fiducia sulla competenza dell’amico: Quanto alle medaglie, vorrei che vostra signoria vedessi di far contento l’Ugossi di tre scudi d’oro e di due il Calistano scrive a proposito del pagamento di alcune monete fatte acquistare presso questi due fornitori veneziani, ma anche circa il prezzo mi rimetto a quello che farà lei, che sa benissimo quello che si può pagare. Et in somma crederei che trenta scuti questi tre libri bastariano… Ma vostra signoria in questo caso non ponga mente di Milano (cfr. Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. H 2 inf.). 37 Cfr. FOGLIETTA 1579, pp. 107-108; GUALDI 1607; DE THOU 1630, p. 584. L’albero genealogico di questo ramo della famiglia Pinelli è visibile in un manoscritto presso l’Archivio di Stato di Genova, cfr. Genova, Archivio di Stato, Manoscritti, 430 (Raccolta Lagomarsino), Albero della famiglia dei veri antichi Pinelli. Cfr. anche SPRETI 1932, p. 373. 38 Cfr. GUALDI 1607, p. 5. 39 Sul carattere e l’impostazione metodologica degli studî di Pinelli, cfr. R AUGEI 2001, pp. XI -ss. 40 Cfr. RIVOLTA 1933, p. XXXIII. 41 Ciò che resta del vasto epistolario di Gian Vincenzo Pinelli è diviso tra la Biblioteca Ambrosiana di Milano, il British Museum, la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, la Biblioteca Nationale di Parigi e altre (cfr. KRISTELLER 1963-1997, sub voce). Le lettere del carteggio Orsini-Pinelli sono conservate nella Biblioteca Ambrosiana (cfr. Milano, Biblioteca Ambrosiana, D 422 inf., D 423 inf.). – 175 – a cinque scuti in più o in meno, et quello che prometterà rimborserò subito… scrive in un’altra lettera nel corso della lunga trattativa con Torquato Bembo per tre codici, tra cui quello noto virgiliano donato successivamente alla Biblioteca Apostolica Vaticana.42 Le lettere rivelano anche le modalità di un vero e proprio commercio di anticaglie tra eruditi: medaglie e teste di marmo erano spesso merce di scambio o dono di cortesia.43 Nella sua biografia Paolo Gualdi ricorda la grande erudizione di Pinelli, le frequentazioni internazionali della sua casa di Padova, il lungo sodalizio con il medico albenganese Paolo Aicardi, l’insofferenza quasi patologica per altri luoghi che non fossero la sua amata città d’adozione, e la cura assidua per la ricchissima biblioteca.44 Gian Vincenzo collezionava anche monete antiche, di cui doveva essere discreto conoscitore.45 Nel gennaio del 1578 aveva anche incaricato Orsini di cercargli a Roma uno studiolo in noce,46 probabilmente non dissimile da quelli presenti nelle case dei grandi collezionisti romani per le loro raccolte, e due anni dopo l’amico gli dava minuti ragguaglî su come doveva essere organizzata una buona serie di ritratti monetali imperiali, non necessariamente autentici: Quanto alli retratti dell’imperatori, io non saprei dare a vostra signoria il miglior consiglio, che farseli tragittare in piombo, overo in una mistura. Li getti verranno molto netti, et vostra signoria haverà piacere anco in vederli, et farei formar le medaglie d’oro et d’argento et di bronzo, dalle quali si hà notizia dell’effigie, sin da entrare in varietà di rovescî, cercando per li studî havere nel suo genere… Credo che con duecento medaglie, ella si farà questa serie, et che quà io potrò spedirgliene di molte, et così farei io, quando non mi trovassi haver l’antiche, almeno la maggior parte. Questa seria vorrei che fussi complita, et che ci entrassero le mogliere, padri et figlioli d’imperatori che se ne trovano di molti, et in somma andare più oltre che si può, et più complitamente che sia possibile le più confirmate; si che da molti studî si cavassi una serie complita di tutto quello che si trova…47 Cfr. Milano, Biblioteca Ambrosiana, D 422 inf., c. 28 r. (1573, novembre 22); D 423 inf., c. 87 r.-v. (1578, novembre 7); cfr. anche DE NOLHAC 1887, Appendice, pp. 412-413 (1578, novembre 7). 43 Se vostra signoria si ricordasse che altre volte io offerivo al Bembo quattro teste di marmo per li due libri delle maiuscole… Dal Bembo ebbi, oltre li tre libri del Petrarca… la medaglia d’argento… Io gli donato all’incontro una bellissima testa di marmo di Hadriano giovine, che assomiglia a quella sua medaglia d’oro… (cfr. DE NOLHAC 1887, Appendice, pp. 417-418 (1581, marzo 10)). In un’altra lettera (1574, gennaio 30), Orsini ricorda a Pinelli che il cardinale Grimani aveva un’iscrizione greca su marmo e L’ha hora donata al signor Flaminio Galgano col pigliarne ricompensa di due teste di marmo (cfr. Milano, Biblioteca Ambrosiana, D 422 inf., c. 35 v.). 44 Le descrizioni di Gualdi fanno pensare a una Wunderkammer, oltre che a una raccolta di libri: la biblioteca Pinelli comprendeva infatti strumenti matematici e astronomici, carte geografiche, fossili e pietre minerali, anticaglie, ritratti di uomini illustri, modellini architettonici (cfr. GUALDI 1607, p. 24). La sorte di questa biblioteca, che gli amici padovani speravano restasse patrimonio cittadino, fu invece singolarmente infelice, come Gualdi riferisce. Morto Pinelli senza aver fatto testamento nonostante le delicate sollecitazioni dei suoi amici più stretti negli ultimi mesi di vita, le casse con i libri e gli altri oggetti del suo museo furono caricate su tre navi e inviate al nipote Cosimo a Napoli. Durante il tragitto una delle navi fu intercettata da pirati turchi, che buttarono a mare trentatré casse di libri, strumenti matematici e iconicarum imagines. Diciotto casse approdarono fortunosamente sul lido di Fermo, donde Cosimo le poté recuperare e portare nella sua villa di Giuliano, dove aveva intenzione di allestire una biblioteca affidata allo scozzese Thomas Segeth (Segetus). Partito poco dopo con la famiglia alla volta di Genova, per visitare i parenti della moglie Nicoletta Grillo, Cosimo prolungò il viaggio fino a Padova per sistemare le ultime pendenze lasciate dallo zio ed erigergli la tomba. A Venezia, sulla via del ritorno, egli contrasse però una improvvisa malattia e dopo pochi giorni morì. I libri e il vasto epistolario dello zio Gian Vincenzo andarono così nuovamente dispersi, tranne una parte acquistata da Federico Borromeo e sistemata nella Biblioteca Ambrosiana. Cfr. ora anche RAUGEI 2001, pp. XXVII-XXX. 45 Cfr. anche RIVOLTA 1933, p. LXI. 46 Cfr. Milano, Biblioteca Ambrosiana, D 423 inf., c. 38 r. (1578, gennaio 31); c. 41 r. (1578, febbraio 14); c. 48 r. 81578, marzo 1). Sugli studioli cfr. anche RIEBESELL 1989, p. 137, nota 4. 47 Cfr. Milano, Biblioteca Ambrosiana, D 423 inf., c. 181 r.-v. (1580, gennaio 29). In una lettera successiva Orsini aggiunge informazioni sulle monete greche e su quelle di philosophi che è opportuno avere in una collezione, non42 – 176 – Gli interessi numismatici di Pinelli sembrano tuttavia essere connessi piuttosto alla curiosità per l’effigie degli uomini illustri. A questo proposito, è degna di nota una informazione di Paolo Gualdi: geloso dei suoi libri, Pinelli ne consentiva la visione ai soli studiosi, ritenendo che ai semplici visitatori fosse più che sufficiente la vista delle numerose imagines di uomini illustri sparse per la casa.48 La casa di Pinelli infatti qua parte se in conspectum interiorem dabat era adorna iconibus illustrium virorum.49 Gualdi non chiarisce se si trattasse di dipinti, incisioni o sculture, ma quest’ultima ipotesi sembra poco probabile. Sempre secondo Gualdi, molti di questi ritratti provenivano dal lascito ereditario di Nicolaus primus patricius epidaurius, un amico di Pinelli morto a Padova nel 1582. Essi ornavano l’atrio della casa, le stanze e la biblioteca. Insigni studiosi avevano preso inoltre a inviare a Pinelli il proprio ritratto perché fosse collocato nella sua biblioteca. Forse questo interesse per le effigi degli uomini illustri era stato indotto nell’erudito padovano dall’amicizia con Fulvio Orsini, oppure era semplicemente uno degli interessi che i due amici condividevano, consono alla cultura del tempo. Sommate queste informazioni, piacerebbe pensare che Gian Vincenzo Pinelli sia stato in qualche modo un tramite fra gli studî iconografici orsiniani e la decorazione del portale di Castellino Pinelli a Genova, se non addirittura il suggeritore di un eventuale programma decorativo del palazzo – programma decorativo di cui il portale potrebbe essere stato parte integrante –, ma l’ipotesi appare tanto suggestiva, quanto priva di supporti concreti. Un’accurata disamina del suo vasto epistolario potrebbe forse chiarire se questo umanista dal carattere schivo, che non si muoveva quasi mai dalla sua casa di Padova ma che era visitato da eruditi di tutta Europa, avesse mantenuto con i parenti genovesi un legame così stretto. Certo la sua amicizia con Fulvio Orsini – autore tra l’altro del programma decorativo della villa Farnese a Caprarola – non è priva di suggestione in questo senso. In una lettera all’amico del 26 ottobre 1577, Orsini accenna a un incontro che avrà il giorno successivo con monsignor Pinello vescovo di Fermo: si tratta evidentemente del vescovo Domenico Pinelli (1541-1611) figlio di Paris di Castellino, del ramo Luciani a cui apparteneva il palazzo di via San Siro. L’informazione di Fulvio Orsini fa presupporre dunque che Gian Vincenzo conoscesse l’illustre parente genovese o comunque ne avesse chiesto notizia.50 In un’altra lettera, Orsini informa l’amico che Questa mattina sono comparsi li dui gentilissimi Doria et Gentili, et io per servirli ho lasciato San Giovanni [Laterano] e premetto a vostra signoria io sentito [sic] gran piacere in haverli conosciuti… L’ho fatto vederle così m[edaglie?] questa mattina, et di mano in mano li farò veder quelle del cardinale [Farnese]. Il cognome suggerisce che si trattasse di due patrizî genovesi, inviati da Pinelli all’amico romano.51 ché sulla bibliografia numismatica più accreditata. Il testo di questa seconda lettera (cfr. Milano, Biblioteca Ambrosiana, D 423 inf., cc. 184-185 (1580, febbraio 12)) è riportato da RIEBESELL 1989, p. 187. 48 Imagines illustrium virorum, quarum decurias aliquot in domesticis conclavibus asservabat… (cfr. GUALDI 1607, pp. 29-30). Nel 1575 Pinelli abitava alla Crosara del Santo (cfr. RIVOLTA 1933, p. XXII). 49 Cfr. GUALDI 1607, p. 71. In una lettera al cardinale Federico Borromeo del 21 febbraio 1609 Paolo Gualdi precisa che due delle casse di materiali della biblioteca Pinelli disperse in mare erano di ritratti (cfr. RIVOLTA 1933, p. LXXI). 50 Cfr. Milano, Biblioteca Ambrosiana, D 423 inf., c. 17 r. (1577, ottobre (?) 26). Domenico Pinelli aveva studiato e insegnato Giurisprudenza a Padova: è dunque probabile che Gian Vincenzo, di poco più vecchio, lo avesse conosciuto lì (RIVOLTA 1933, p. XVII). 51 Cfr. Milano, Biblioteca Ambrosiana, D 423 inf., c. 102 r. (1579, gennaio 17). Ritengo che medaglie sia l’interpretazione più probabile dell’abbreviazione m. in questo punto della lettera. – 177 – Nella biografia di Gualdi si trovano anche altre osservazioni che possono costituire un buon punto di partenza per uno studio sui rapporti fra l’erudito di Padova e i suoi parenti genovesi. Il biografo ricorda infatti che Gian Vincenzo Pinelli – nato a Napoli e padovano di adozione – voleva tuttavia essere chiamato patricius ianuensis: riconosceva infatti come sua vera patria Genova, la città da cui traeva le antichissime e nobili radici e che gli appariva autentico baluardo di libertà e indipendenza politica.52 Gualdi tratteggia un Pinelli legatissimo al sentimento della sua genovesità e aggiunge che sebbene egli non avesse in realtà mai messo piede in questa città, si vantava di avervi una grande quantità di parenti e amici.53 Questo legame privilegiato con la città d’origine della sua famiglia trova per altro un riscontro nella presenza fra i codici pinelliani di molti manoscritti riguardanti cose di Genova,54 nonché in un gruppo di lettere conservate nell’Archivio di Stato della città ligure. Nel 1571 Pinelli accettava, infatti, di fare da intermediario fra la Repubblica di Genova e alcuni dottori del Collegio di Padova per pareri richiesti dalla Repubblica nella causa contro Scipione Fieschi.55 Le lettere intercorse in quell’occasione fra Pinelli e i Governatori di Genova rivelano un ruolo di fiduciario della Repubblica, svolto dall’erudito con cura e competenza.56 I legami con il capoluogo ligure erano stati mantenuti del resto anche dalla sua famiglia di Napoli, visto che il prediletto nipote Cosimo – figlio del fratello Galeazzo – aveva sposato Nicoletta Grillo, brillante e colta nobildonna genovese. …pulchrum ratus eius civitatis esse civem, quae propriis consiliis, non alienis nutibus, avitum imperium tutaretur, hanc patriam vocabat, huius se desiderio teneri asserebat… Cfr. GUALDI 1607, pp. 86-87. 53 Cfr. GUALDI 1607, pp. 86-87. 54 Cfr. RIVOLTA 1933. 55 Cfr. Genova, Archivio di Stato, Archivio Segreto, 1967, c. 72, lettera di Geronimo Doria (1571, novembre 9), c. 123, lettere di Gian Vincenzo Pinelli (1572, gennaio 25), c. 159 (1572, febbraio 28), c. 36 (1572, luglio 5; settembre 13). 56 L’incarico fu affidato a Pinelli da Geronimo Doria, in partenza da Padova nell’autunno del 1571. Fra gennaio e settembre 1572 Pinelli trattò, per i pareri richiesti, con i dottori del Collegio Tiberio Deciani, Giacomo Menochio e Giovanni Cefalo, provvedendo anche a pattuire e liquidare i compensi relativi mediante il denaro trasmessogli dai magnifici Giustiniano e Negrone a Venezia. I responsi di Menochio e Deciani furono pubblicati nello stesso anno a Genova, cfr. DECIANI 1572; MENOCHIO 1572. Si vedano anche, sulla stessa questione, due lettere conservate nell’epistolario pinelliano della Biblioteca Ambrosiana di Milano, inviate da Matteo Senarega, rispettivamente a Giovanni Cefalo e Tiberio Deciani per ringraziarli di aver assunto il patrocinio della Repubblica (Milano, Biblioteca Ambrosiana, S 107 sup., c. 47 (1571, novembre 21)), e a Pinelli per i compensi da elargire al Collegio e ai giureconsulti (Milano, Biblioteca Ambrosiana, S 107 sup., c. 49 (1572, febbraio 7)). 52 – 178 – Fig. 1 – Genova, via San Siro 2, portale (foto: A. BEDOCCHI) Fig. 2 – Genova, via San Siro 2, particolare del portale, ritratto virile “Catone” (foto: A. BEDOCCHI) – 179 – Fig. 3 – Genova, via del Campo 13, particolare del portale, ritratto virile “Catone” (foto: A. BEDOCCHI) Fig. 4 – M. Porcius Cato (da: FABER 1606, tav. 116) – 180 – Fig. 5 – Quinario di M. Cato (da: AUGUSTIN 1592, p. 9) Fig. 6 – Genova, palazzo di Antonio Sauli, piazza Sauli 3, particolare del portale interno, ritratto virile (Ercole?) (foto: A. BEDOCCHI) – 181 – Fig. 7 – Londra, The British Museum: Testa di Eracle imberbe, acquamarina del XVI secolo (foto: The British Museum) Fig. 8 – Ritratto di Giovanni Vincenzo Pinelli (da: GUALDI 1607) – 182 – SAN NICOLÒ DI CAPODIMONTE: I RESTAURI Enrico Brusaioli La chiesa di San Nicolò di Capodimonte La chiesa di San Nicolò di Capodimonte è, oggi, un edificio in stile romanico situato a mezzacosta sul versante nord-occidentale del Promontorio di Portofino, posta frontalmente al borgo marinaro di Camogli, fra le frazioni di San Rocco e di Punta Chiappa. Come luogo di culto San Nicolò ha una lunga storia che risale ai primi decennî del Millecento e che si è protratta fino all’inizio dell’Ottocento, quando il sito religioso fu chiuso e abbandonato.1 Sotto l’aspetto architettonico, è monumento nazionale dal 1910.2 Ma l’immagine medievale pervenutaci dell’edificio è, in parte, frutto dei continui restauri operati nel corso degli anni. Andrea Bozzo La rinascita della chiesa di San Nicolò è legata alla figura di Andrea Bozzo. Egli acquistò a un’asta pubblica l’intera villa di San Nicolò nel 1865 riaprendo al culto – cinque anni dopo, nel 1870 – l’omonimo tempio, già chiuso probabilmente dal 1822.3 Non è stata rintracciata documentazione che possa permettere di ricostruire e studiare i lavori fatti eseguire da Bozzo, se mai ci fu progettazione e resoconto di quell’intervento. Da alcune fonti, tuttavia, si può dedurre che quel restauro fu prevalentemente un rimettere in uso l’edificio, senza affrontare una ristrutturazione radicale. La testimonianza di Francesco Marini, databile alla fine dell’Ottocento, offre, infatti, un’importante descrizione della chiesa, così come essa doveva essere dopo il primo intervento. Dell’antico monastero di San Nicolò rimangono poche vestigia, mentre la parte esterna della chiesa… si conserva al suo primitivo stato: cioè metà della facciata, molta parte dei fianchi e tutto il coro. La costruzione della chiesa è in pietre scalpellate in stile gotico-lombardo. L’interno, a croce latina, con tre cappelle o absidi, si crede sia di pietre lavorate, quantunque al presente non se ne osservino che le basi delle colonne esistenti.4 Cfr. OLINTO 1903, p. 148; LAVARELLO 1926, p. 22. Per una storia dei Canonici Regolari di San Rufo a San Nicolò di Capodimonte, dalla fondazione a tutto il secolo XV, cfr. BRUSAIOLI 2004, pp. 138-163. 2 Cfr. Genova, Civica Biblioteca Berio, Elenco degli Edificî Monumentali, VI, Provincia di Genova, II, Comuni della Provincia, Roma 1924, p. 71. 3 Cfr. LAVARELLO 1926, pp. 22, 31-32. Prima dell’intervento di Andrea Bozzo, l’edificio era adibito a ripostiglio per attrezzi da pesca. 4 Cfr. MARINI, REPETTO s.d. (ma 1900), p. 41. 1 – 183 – Praticamente coeva alla descrizione di Marini è la prima fotografia esistente di San Nicolò.5 L’immagine documenta la facciata dell’edificio in avanzato stato di degrado. Si notano gli elementi romanici del protiro e gli arcosolî, mentre la parte superiore della fronte è caratterizzata da due piccole finestre praticate verticalmente, oltre che da una diversa tipologia di muratura. Così si presentava la chiesa dopo la rimessa in opera di Andrea Bozzo. È evidente che, se il tempio aveva riacquistato la sua antica dignità religiosa – con la riapertura al culto –, esso doveva ancora recuperare una propria immagine architettonica. Giacomo Bozzo I secondi restauri realizzati a San Nicolò furono eseguiti da don Giacomo Bozzo,6 figlio di quell’Andrea che aveva rivitalizzato il tempio di Capodimonte. Anche di questi ripristini non è rimasta traccia nella documentazione esistente e ufficiale, probabilmente perché in essi non fu coinvolta la Soprintendenza competente. Se sappiamo che fu l’ingegner Galliano a dirigere i lavori, ne ignoriamo i tempi, sebbene genericamente si possa affermare che essi siano databili fra 1903 e 1910; quanto ai restauri veri e proprî, possiamo solo constatare i risultati ottenuti. Già agli inizî del Novecento è forte l’esigenza di nuovi interventi sulla chiesa. Lo stesso Giacomo Bozzo scriveva nel 1903 che l’edificio abbisognava di forti ristori in quanto sono screpolati i muri e il tetto chiede di essere rifatto.7 Tuttavia il nuovo sacerdote non aveva perso tempo nel mettere mano al monumento, se già dopo il 1897 affermava di aver aperto due ali laterali della crociera che prima erano chiuse.8 I restauri di Giacomo Bozzo sono importanti perché sono i primi a conferire alla chiesa la sua attuale immagine architettonica. Bozzo e Galliano, infatti, operarono sull’edificio interventi radicali. In ciò essi furono favoriti dalla mancanza di controllo da parte degli ufficî competenti.9 Così l’interpretazione del restauro fu personale, anche se, probabilmente, non del tutto arbitraria. Tuttavia, i materiali impiegati, almeno quelli nella navata a monte – calce, mattoni, pietre –10 poco si adattavano all’originale tessuto murario. Gli interventi interessarono: il rifacimento del tetto, la ristrutturazione della facciata, la ricostruzione di buona parte della muratura nel fianco a monte del tempio. Nella fronte principale, ancor oggi è possibile notare come, al di sopra del portale, la tessitura muraria sia stata in gran parte rifatta, mettendo in evidenza la parte medievale dell’edificio – anche se probabilmente solo tre file di grossi concî situati all’altezza della lunetta centrale sono quasi certamente databili a quel periodo – da quella ricostruita in tale Cfr. Camogli, Civica Biblioteca, Raccolta fotografica; San Nicolò di Capodimonte; SBAPL (ex SBAAL), Archivio corrente, cartella GE/MON 2, Camogli, San Nicolò di Capodimonte. 6 Consacrato sacerdote, resse la chiesa dal 1895 al 1910. 7 Cfr. Camogli, Archivio Storico Parrocchiale, Santa Maria Assunta, c. 4, questionario anno 1903. 8 Camogli, Archivio Storico Parrocchiale, Santa Maria Assunta, c. 4. Da ciò potremmo dedurre che la copertura della chiesa non fosse a crociera; forse per un intervento riferibile al primo restauro o forse ascrivibile all’epoca della chiusura del tempio. 9 Ufficî Regionali per la Conservazione dei Monumenti, se il restauro fu fatto prima del 1907; Soprintendenza ai Monumenti, se i lavori furono seguiti dopo tale data. 10 Cfr. SBAPL (ex SBAAL), Archivio corrente, cartella GE/MON 2, Camogli, San Nicolò di Capodimonte, Boccardo a Soprintendenza (1938, novembre 4 –San Nicolò di Capodimonte). 5 – 184 – occasione.11 L’intervento più eclatante di quel restauro fu senza dubbio l’inserimento del rosone in facciata. Questo serviva per illuminare maggiormente l’interno dell’edificio e per ingentilire la costruzione, segnando però fortemente l’attuale facies della chiesa. I lavori, poi, riguardarono il fianco a monte del tempio. Qui la parte superiore del muro perimetrale fu praticamente ricostruita, così come gli archetti pensili e la decorazione a dente di sega; lì presenti anche in altre parti del monumento. In ultimo, il tetto fu rifatto in latterizio e ardesia e probabilmente rialzato. Nicolò Lavarello L’idea di un nuovo restauro relativo a San Nicolò di Capodimonte nacque durante una conversazione avvenuta nella primavera del 1924 – ai piedi della chiesa stessa – fra don Nicolò Lavarello (da pochi mesi rettore del tempio) e l’avvocato Nardi-Greco, amico dell’allora regio soprintendente Alberto Terenzio.12 Lo stesso Nardi-Greco, che definiva deplorevole lo stato della chiesa, ottenne dal potente amico la promessa di un sopralluogo13 in quel sito. Lavarello, da parte sua, sottolineava l’urgenza degli interventi soprattutto a causa dei buchi che si trovavano nelle pareti.14 Quelli del 1925-1926 sono i terzi restauri in ordine cronologico di cui si ha notizia, ma sono tuttavia i primi dei quali si abbia un’accettabile documentazione, sebbene più epistolare che tecnica. Anche per questi importanti interventi la Soprintendenza non potè/non volle indirizzare, dirigere e coordinare i lavori. Così, pure Lavarello, come i suoi predecessori, si trovò a gestire il restauro in prima persona, ancorchè coaduivato da due tecnici quali l’ingegnere Camuzzoni e Motta, quest’ultimo commissario delle Belle Arti di Genova. Il primo dovette assumersi la responsabilità degli interventi sul monumento, mentre il secondo si occupò, verosimilmente, dei lavori sugli elementi architettonici e sulle pitture. Il restauro patrocinato da Lavarello fu condotto su due fronti: uno propriamente detto; mentre l’altro comprese la ricostruzione ex novo di una parte dell’edificio. Non abbiamo disegni che documentino le fasi di questi secondi interventi ma, secondo la documentazione edita15 e non, possiamo affermare che i lavori di Lavarello furono pesanti. Nove quintali di cemento, tre di calce, quattro di sabbia16 furono impiegati per la ricostruzione del soffitto dell’intera navata, dell’arco mediano17 e, forse, della volta a crociera sovrastante l’altare maggiore. Fu rifatto, inoltre, il pavimento e la balaustra esterna dell’ingresso; furono anche Cfr. BRUSAIOLI 1994, p. 110. Cfr. SBAPL (ex SBAAL), Archivio corrente, cartella GE/MON 2, Camogli, San Nicolò di Capodimonte, NardiGreco a Terenzio (1924, giugno 10 –Genova). 13 Cfr. SBAPL (ex SBAAL), Archivio corrente, cartella GE/MON 2, Camogli, San Nicolò di Capodimonte, Terenzio a Nardi-Greco (1924, giugno 10 – Genova). 14 Cfr. SBAPL (ex SBAAL), Archivio corrente, cartella GE/MON 2, Camogli, San Nicolò di Capodimonte, Lavarello a Terenzio (1924, ottobre 20 –San Nicolò di Capodimonte). 15 Una pubblicazione di questi lavori è in LAVARELLO 1926, pp. 31-33. 16 Cfr. SBAPL (ex SBAAL), Archivio corrente, cartella GE/MON 2, Camogli, San Nicolò di Capodimonte, Lavarello a Soprintendenza (1926, giugno 19 –San Nicolò di Capodimonte). 17 Cfr. LAVARELLO 1926, p. 32. 11 12 – 185 – inserite le vetrate; fu posta la scala di ferro a chiocciola per accedere all’orchestra; due lampadarî furono sistemati nell’unica navata.18 Il restauro più propriamente detto interessò, invece, altri elementi dell’edificio, cercando di restituire al monumento la sua immagine originaria. Si procedette, allora, all’interno della chiesa, allo scrostamento dell’intonaco seicentesco dalle colonne, dall’arcata dell’altare maggiore e dalle tre absidi, riportando in vista la muratura medievale. Con tale filosofia furono anche condotti lavori di restauro e di reintegro di alcune parti architettoniche esterne, quali gli archetti, le cornici e le finestre delle absidi.19 Si procedette, poi, con interventi in ordine sparso: nella cappella lato monte fu praticata una porta con relativa scala di accesso al portale; in sacrestia si risistemò il pavimento e la sovrastante torre. In ultimo, si ridisegnò il piazzale antistante la chiesa. Un momento significativo di questo intervento riguardò il recupero di alcuni dipinti murarî, tra i quali quello raffigurante la Stella Maris. Qui l’opera di Domingo Motta dovette essere preziosa, anche se discutibile è l’inserimento che egli fece nelle due nicchie laterali della facciata di motti latini in grafia gotica. In Soprintendenza la pratica per i restauri a San Nicolò degli anni 1925-1926 si chiude con un rimborso di sole Lire 2.000 sulle 30.000 spese da Lavarello. Giovanni Boccardo A Lavarello succedette quale rettore della chiesa di San Nicolò don Giovanni Boccardo. Costui, nel 1938, propose alla Soprintendenza di Genova un nuovo intervento sull’edificio per riportare a vista, all’interno del monumento, l’antico paramento murario in pietra, demolendo il vecchio intonaco nelle pareti dell’unica navata.20 I lavori avrebbero anche interessato l’altare maggiore, liberandolo dagli elementi posticcî. Il restauro Boccardo si distingue da quelli precedenti per la fattiva collaborazione che si instaura con la Soprintendenza genovese. Il fatto che quei lavori siano stati seguiti da quell’Ufficio assicura certamente un livello esecutivo negli interventi di maggior pregio e migliore qualità. Oltre allo scrostamento dell’intonaco, Boccardo proponeva di riempire in cemento gli spazî della parte più alta della parete a monte, dove era già presente il restauro di Giacomo Bozzo.21 Fortunatamente, il soprintendente Nebbia, dopo il sopralluogo del disegnatore Raitano, impone a Boccardo un intervento più conservativo. Dopo aver tolto il vecchio intonaco dalle pareti – restituendo così a tutto il tempio la sua antica e austera immagine –, si procedette a tinteggiare con un colore grigio scuro la parete della seconda campata a monte. Poi si intervenne su una breccia malamente chiusa in precedenza con il cemento nella prima campata a Sud. Lì si operò il restauro mediante una rifinitura in pietra scalpellata, omogenea con l’intera tessitura muraria. In ultimo, l’altare fu liberato da ogni sovrastruttura che ne avesse occultato le linee generali. Dopo il restauro Boccardo, non fu eseguito alcun intervento di rilievo sul monumento. Cfr. LAVARELLO 1926, p. 33. Questi lavori furono effettuati in una seconda fase, dal 1° aprile al 26 maggio 1926. 20 Cfr. SBAPL (ex SBAAL), Archivio corrente, cartella GE/MON 2, Camogli, San Nicolò di Capodimonte, Soprintendenza a Boccardo (1938, ottobre 21 –Genova). 21 Cfr. SBAPL (ex SBAAL), Archivio corrente, cartella GE/MON 2, Camogli, San Nicolò di Capodimonte, Boccardo a Soprintendenza (1938, novembre 4 - San Nicolò di Capodimonte). 18 19 – 186 – Fig. 1 – Camogli, chiesa di San Nicolò di Capodimonte nel 1897 (foto: Camogli, Biblioteca Civica) – 187 – Fig. 2 – Camogli, chiesa di San Nicolò di Capodimonte in una immagine attuale (foto di repertorio) – 188 – APPARATI – 189 – – 190 – BIBLIOGRAFIA Opere manoscritte Buonarroti 1750 A.M. Buonarroti, Alberi genealogici di diverse famiglie nobili compilati et accresciuti con loro prove dal molto reverendo fra Antonio Maria Buonaroti sacerdote professo del Sagr’ Ordine Gerosolimitano in Genova distribuita in tre tomi…, ms. 1750, Genova, Civica Biblioteca Berio, Sezione Conservazione, m.r. VIII. 2. 28. Catalogo… ms. Catalogo Cades. Impronte gemmarie, ms. sec. XX, Roma, Istituto Archeologico Germanico Federici ms. F. 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Zwierlein-Dihel, Die antiken Gemmen des Kunsthistorischen Museums in Wien, Monaco 1973-1991 – 206 – Tabula gratulatoria Gabriella Airaldi, Genova * Maria Gabriella Angeli Bertinelli, Genova * Giovanni Antonelli, Spoleto * Ermanno Arslan, Milano Edi Baccheschi, Genova * Antonella Ballardini, Roma * Laura Balletto, Genova * Alberta Bedocchi, Genova * Ernesto Bellezza, Genova * Barbara Bernabò, Chiavari Alfredo Bertollo, Santa Margherita Ligure Bianca Costa, Genova Rosa Maria Bonacasa Carra, Palermo Colette Bozzo Dufour, Genova * Gianna Bregliano, Genova * Enrico Brusaioli, Genova * Nelida Caffarello, Genova * Daniele Calcagno, Genova * Anna Rosa Calderoni Masetti, Genova Lucia Canciano, Brescia Oriana Cartaregia, Genova * Silvana Casartelli Novelli, Roma * Maria Cristina Castellani, Genova * Luisa Cavallaro Carratino, Genova Rita Cavalli, Rapallo Gabriele Cavana, Albisola Superiore * Marina Cavana, Genova * Flavia Cellerino, Genova Gianni Coccoluto, Cuneo Grazia Daccà, Genova * Anna Dagnino, Genova Francesca De Cupis, Genova * Gioia De Luca, Genova * Antonetta De Robertis, Genova * Raffaella Farioli, Bologna Stefania Ferrari, Genova Josephine Figaroli Nadotti, Genova * Marina Firpo, Genova * Alessandra Frondoni, Genova * Costanza Fusconi, Savona Fabrizio Geltrudini, Cogoleto * Marta Giacchero, Genova Bianca Giannattasio, Genova Luigina Giordano, Genova † Anna Maria Giuntella, Roma Graziana Grosso Paglieri, Genova Monica Guiddo, Finale Ligure * Roberta Lanzano, Incisa Scapaccino * Laura Malfatto, Genova * Elena Manara, Genova Tiziano Mannoni, Genova * Paolo Marchi, Genova Monica Marini, Genova Michele Marsonet, Genova * Franco Martignone, Genova Paola Martino, Genova Piera Melli, Genova * Giovanni Mennella, Rapallo Fulvio Miglia, Genova * Valeria Moratti, Tortona Paola Mortari Vergara Caffarelli, Roma * Rosanna Muratore, Genova * Sandra Origone, Genova * Anna Maria Panarello, Imperia * Letizia Pani Ermini, Roma Elena Parma, Genova Romeo Pavoni, Genova * Patrizio Pensabene, Roma Rossella Pera, Genova * Giovanna Petti Balbi, Genova Gabriella Picchiò, Genova Liliana Pittarello, Genova * Angelo Podestà, Chiavari Valeria Polonio Felloni, Genova * Luigina Quartino, Genova Marco Raffa, Cogorno Marina Ravera Gennari, Milano * Alfredo Giuseppe Remedi, Genova Edoardo Riccardi, Vado Ligure Ausilia Roccatagliata, Genova Augusto Roletti, Genova * Sandra Rutelli, Genova * Luigia Scamardella, Genova * Gabriella Senis Dufour, Genova Augusta Silva, Genova Adelmo Taddei, Genova * Laura Tagliaferro, Genova * Santo Tinè, Genova Eleonora Torre, Genova * Università degli Studî di Genova, Scuola di Specializzazione in Archeologia – Archeologia Classica * – 207 – Carlo Varaldo, Savona Emilia Vassallo, Genova * Graziano Vergani, Milano Gisella Wataghin Cantino, Torino * L’asterisco contrassegna i sottoscrittori della miscellanea. – 208 – Ricordare la professoressa Conti in questa sede significa, per me, ritornare a molti anni addietro, a quando avevo più tempo per fare ricerca e interessarmi più approfonditamente di ciò che ancora oggi mi appassiona: Archeologia e Arte. Significa soprattutto ricordare la acuta puntigliosità divertita con la quale la professoressa Conti ascoltava i risultati delle mie ricerche, li esaminava criticamente, proponeva approfondimenti e vie d’uscita spesso impensate ma sempre brillanti. Graziella Conti era una di quelle persone che non vivono in un vicolo scientifico: partendo da una formazione essenzialmente archeologico-classica (il che per me, appassionato di Medioevo, ha sempre costituito in generale una specie di gap), ella invece spaziava dall’interesse per il recupero dell’antico in tutti i tempi (direi sino a oggi: mi ricordo l’idea di un lavoro warburghiano sull’utilizzo di stilemi classici nei portoni moderni), allo studio della metodologia (con lei, fra l’altro, conobbi e discussi l’opera di Riegl), alla Semiologia. Insomma, entrare nella sua quieta casa di Quarto (l’abitazione precedente, in via Trento, la conobbi appena) significava essere piacevolmente travolti da un turbine di idee e cognizioni che mi lasciava sempre piacevolmente stupefatto e ulteriormente motivato e accanito nel lavoro di ricerca. Ho lavorato con Graziella Conti (ma per me è sempre rimasta la professoressa Conti) per diversi anni, a più riprese, e, purtroppo, per argomenti che adesso quasi non ricordo più: per la scuola di perfezionamento in Storia dell’Arte, per ricerche su siti liguri (per esempio per la località Campo Marzio di Varazze), per approfondimenti di vario genere e natura su temi di Arte e Archeologia, quasi, direi, per dove ci portava il filo di un discorso sempre vivace. Mi ricordo bene, però, di una ricerca del 1985 sui manuali di Archeologia in circolazione che avrebbe dovuto essere pubblicata (previo un ulteriore approfondimento che, ahimé, non realizzai mai). Fu un lavoro che mi lasciò assolutamente soddisfatto: avevo ottenuto parole di elogio da parte sua, quindi da parte di chi certamente non poteva essere sospettato di assenza di spirito critico. Poi, dopo anni luce, sono venuto a sapere che la professoressa Conti non è più con noi, non c’è più il suo sorriso intelligente (quasi una espressione da ritratto etrusco), che, però, personalmente porto con me e mi stimola a studiare ancora, a essere critico e, per quanto possibile, mai banale. Come la professoressa Conti. Adelmo Taddei