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Archeologia e beni comuni di Emanuele Brienza 1. Premessa Se la conoscenza è un “bene comune”1 allora anche i resti archeologici fanno parte di questa categoria. Difatti è noto che il sapere dell’età moderna è legato al recupero della conoscenza, della letteratura e delle varie arti e tecnologie del passato, processo che la distingue dall’era precedente. Questa riconquista non si è rivolta solo alle fonti antiche ma anche all’analisi ed al riconoscimento dei manufatti antichi. Si può quindi dire che il progresso dell’uomo occidentale nasca proprio dal recupero dell’antichità, non solo per quanto riguarda la tecnologia e la scienza ma anche e soprattutto per gli aspetti politici, sociali, filosofici e morali. Dal Rinascimento in poi, durante l’età barocca, l’Illuminismo, il neo Romanticismo, l’ideologia ottocentesca e le varie età industriali e postindustriali i principali attori e artefici dello sviluppo del pensiero occidentale, in tutti i suoi campi, hanno rivolto uno sguardo verso il mondo antico. Per questo ancora oggi chi vuol capire il presente scruta il passato: si tratta di un processo cognitivo automatico della nostra civiltà. I beni archeologici però non sono solo conoscenza, sono soprattutto materia tangibile: oggi è finalmente assodato che per essere compresi e vissuti appieno vanno analizzati all’interno del paesaggio al quale appartengono e che hanno contribuito a modellare, nel loro contesto e nell’ambito di dinamiche e interrelazioni che li legano fra 1 Cfr. Hess, Ostrom (2009). 495 loro sia in termini spaziali che temporali: i vari resti archeologici immobili, sparsi nel territorio, creano un sistema di caratterizzazione paesaggistica al quale partecipano anche gli oggetti mobili conservati nei musei e magazzini, ed anche i frammenti di materiali antichi che affiorano sparsi nei campi in seguito alle arature moderne. La possibilità di riconoscere questi contesti, anche se fortemente mutati dai vari fenomeni industriali e degradati da un’edilizia selvaggia, può creare per chi vi abita un’opportunità di riappropriazione di identità, un senso di comprensione dello spazio e delle sue vicissitudini, altrimenti anonimi2; da qui può nascere un sentimento di piacere, di rigenerazione, allo stesso modo in cui si può godere di una spiaggia; ma anche un senso di rivalsa e di partecipazione alla salvaguardia del proprio contesto di vita: in questo senso l’archeologia può diventare «generatrice di un sistema basato sulla felicità dell’uomo»3. Si tratta quindi non solo di conoscenza ma anche di condizioni di vita; sotto questo aspetto i resti archeologici, grazie alla loro materialità e alla diffusione nel paesaggio, possono essere considerati ancor di più beni comuni. Appare però altrettanto chiaro che la loro valenza è direttamente proporzionale alla loro comprensione e conoscenza: è lapalissiano che quattro muri in reticolato insieme a frammenti di anfore sparsi qui e là restano tali se non si riesce a riconnetterli all’antica villa signorile a cui appartenevano e al contesto storico. Questa conoscenza e la sua diffusione spetta agli archeologi, coloro che indagano l’antico, che hanno il dovere di trasmetterla sia in termini scientifici sia in modalità accessibili ai più, aiutati in questo dai vantaggi digitali della ICT (Information and Communication Technology), senza svilire la realtà di quanto interpretato e senza indulgere in sensazionalismi di forte impatto mediatico. Ma come si sviluppa oggi il sapere archeologico in Italia? Quanto è noto, assodato e certo nella conoscenza dei resti antichi? Esiste una base comune del sapere in cui differenti e contrastanti tesi interpretative siano comunque prese in considerazione da tutti come ipotesi scientifiche? Insomma è possibile che la comunità archeologica in Italia sia capace di riassu- 2 Cfr. Settis (2010), pp. 65-69. Definizione rubata a P. Farnesi, direttore della Biennale di Arte Contemporanea di New York e firmatario della Costituente della Cultura, iniziativa che in questi giorni viene portata avanti dal quotidiano Il Sole 24 Ore; si veda la lettera inviata al giornale da Farnesi ed edita il 7 marzo 2012, p. 12. 3 496 mere il proprio sapere in forme semplici e aggiornate, tenendo conto degli apporti di tutti i soggetti che “fanno” archeologia? Prima di definire un modo con cui diffondere la conoscenza dei resti archeologici ai cittadini, al fine di valorizzare al massimo tali beni comuni, è necessario verificare se esista una conoscenza base aggiornata o, addirittura, la volontà di crearne una. 2. La produzione del sapere archeologico tra università, soprintendenza e privati: quale conoscenza? In Italia i processi e i metodi cognitivi in archeologia dagli anni sessanta in poi hanno fatto notevoli passi in avanti, dotandosi di strumenti avanzati e di un approccio alla materia sempre più sofisticato. Dall’antiquaria settecentesca di stampo illuminista si è passati a un’analisi filologica dei testi e dei materiali sempre più puntuale, caratterizzata da un severo approccio storico e storiografico4. Di qui la nascita della scienza della storia dell’arte antica e subito dopo della topografia antica5. Infine, mutuati dai “cugini” inglesi, l’introduzione del metodo stratigrafico e dell’archeologia urbana6. Grazie a questo processo, qui riassunto rapidamente, chi studia l’antico in Italia ha acquisito metodi nuovi, legati alla scienza e alla tecnologia, non solo ai dettami umanistici. In questa maniera oggi gli archeologi si sono specializzati nella documentazione e nell’analisi di evidenze che appartengono a processi cronologici estremamente complessi. Per poter arrivare a comprendere le differenti e intricate trame del passato hanno imparato a compiere operazioni che prima spettavano ad altre professioni: ad esempio il rilievo e l’analisi tecnica dei monumenti, una volta demandati agli architetti, sono oggi eseguiti dagli archeologi, i quali realizzano una documentazione grafica e scientifica delle murature antiche e delle loro fasi storiche così come cercano di comprenderne i vari aspetti ricostruttivi connessi con le tecnologie e le logistiche degli antichi cantieri7. 4 Cfr. Schnapp (1994). Cfr. Carandini (2008), pp. 40-49. 6 Sull’archeologia urbana si veda: Biddle, Hudson (1973); Hudson (1981); Carver (1987) e da ultimo Carver (2003). 7 Un apporto importante è stato svolto dalla cattedra di Rilievo ed Analisi Tecnica 5 497 Allo stesso tempo è stato introdotto lo scavo stratigrafico, che prevede l’individuazione e lo smontaggio da parte dell’archeologo di ogni singola azione riscontrabile oggettivamente su un deposito di terre, e quindi l’evidenziazione di una sequenza fisica e cronologica, che porta a ricostruzioni diacroniche sempre più puntuali e precise, grazie all’analisi minuziosa delle “immondizie” e dei manufatti rinvenuti all’interno di ciascuna azione individuata8. Se si pensa che questa operazione un tempo era eseguita da operai non specializzati che rimuovevano terra in maniera arbitraria al solo fine di scoprire gli antichi monumenti si comprende che tipo di scarto qualitativo sia stato compiuto. Esiste infine un’archeologia dei paesaggi in cui operazioni di cartografia, di analisi e campionamento territoriale vengono effettuate utilizzando tecnologie avanzate e sofisticate come il DGPS9, le foto satellitari e aeree10, il laser-scanner terrestre e aereo, e strumenti di indagine geofisica come il georadar11. Questo modo di agire sul campo ha comportato l’utilizzo di schedature e terminologie standard12, e ha fatto sì che alcuni tra gli archeologi siano divenuti dei Monumenti Antichi presso l’Università di Roma “La Sapienza”, del prof. F.C. Giuliani: cfr. Giuliani (1983), e Giuliani (1990); di poi Medri (2003). 8 Il metodo stratigrafico nell’ambito dell’archeologia italiana, anche se adottato precocemente da G. Boni, è stato introdotto da N. Lamboglia per gli scavi di Ventimiglia e da L. Bernabò Brea nelle ricerche alle Arene Candide. Il suo uso diffuso e standardizzato in Italia si deve però ad A. Carandini, grazie anche al suo insuperato manuale di scavo: cfr. Carandini (1981). 9 DGPS sta per Differential Global Positioning System; si tratta in buona sostanza di un GPS che grazie all’uso di due antenne riesce ad avere una precisione centimetrica. Un ruolo pionieristico in questo campo è stato svolto in Italia dall’Istituto di Topografia Antica dell’Università di Roma “La Sapienza”. Cfr. Sommella, Azzena, Tascio (1990), Sommella (2009). 10 Sull’uso delle immagini satellitari in archeologia si veda in proposito Campana (2009). Sulla fotografia aerea per l’archeologia si veda Piccareta, Ceraudo (2000), Ceraudo (2011). 11 Sulle nuove tecniche di raccolta elettronica del dato archeologico in Italia si vedano i vari contributi in Campana, Francovich (2006) e Giorgi (2009), pp. 17-125. 12 In Italia si usano formati schedografici predisposti dall’ICCD (Istituto Centrale per il Catalogo e per la Documentazione - http://iccd.beniculturali.it) così come vengono utilizzati vocabolari, tassonomie e thesauri; si veda in proposito D’Andrea (2006), pp. 101-118 e appendice 1. A livello internazionale l’ICOMOS (International Council of Monuments and Sites) ed il CIDOC (International Documentation Commitee), impegnati nella descrizione standard dei dati digitali, hanno realizzato il Conceptual Reference Model; si tratta di un sistema gerarchico descrittivo dei dati per la catalogazione standard del patrimonio culturale: http://cidoc.ics.forth.gr/. 498 esperti di informatica, per poter integrare l’uso degli strumenti elettronici suddetti con la pratica quotidiana ed emanciparsi dagli informatici13. Dal punto di vista dell’approccio teorico, inoltre, sono stati fatti passi in avanti notevoli, confrontandosi con la New Archaeology americana14 e con i successivi approcci post-processualista e dell’archeologia contestuale15 e introducendo metodi di analisi mutuati dalle scienze etnologiche e antropologiche. Questo tipo di avanzamento ha definito in maniera specifica la figura professionale dell’archeologo e le varie specializzazioni che può avere16; inoltre ha fatto sì che le indagini di questi ultimi trent’anni portassero novità assolute ed importantissime nella conoscenza delle età antiche. Allo stesso tempo però tra i vari attori della conoscenza, topografi, archeologi e storici dell’arte antica si è creata spesso una forte divaricazione piena di conflittualità, che ha portato a confronti esacerbati, a disprezzare o addirittura a ignorare la ricerca altrui. Questo è accaduto nell’ambito di cattedre e dipartimenti della stessa università, di differenti università, tra università e soprintendenze ed anche fra differenti soprintendenze. Un recente commento di D. Manacorda dà l’idea ben precisa della situazione attuale: «Sarebbe anzi utile cominciare a riflettere anche sulla nostra storia più recente per valutare, ad esempio, quanto la fine di un’esperienza di alto livello, come fu quella della rivista Dialoghi di archeologia (fondata da Bianchi Bandinelli nel 1967 e chiusa nel 1992), possa aver impedito l’incontro di punti di vista culturali, di 13 L’organo, a livello internazionale, di diffusione e discussione sulle applicazioni informatiche in archeologia è il CAA (Computer Applications in Archaeology), un’organizzazione internazionale che riunisce archeologi, matematici ed informatici e che dal 1973 organizza conferenze annuali in tutto il mondo e ne pubblica gli atti. In Italia la rivista annuale Archeologia e Calcolatori svolge dal 1990 un ruolo di primo piano nella divulgazione dei progetti e degli indirizzi informatici nel campo dell’archeologia. Si vedano inoltre gli atti delle Conferenze Internazionali del VAST (Virtual Reality, Archaeology and Intelligent Cultural Heritage) edite dal 2000 ad oggi. Come monografie generali in italiano si vedano Forte (2002), Gabucci (2005) e D’Andrea (2006). Per una storia dell’informatica in archeologia si vedano gli atti del Convegno Internazionale La Nascita dell’Informatica dell’Archeologia, editi in Moscati (2009). 14 Renfrew, Bahn (1995), pp. 28-32; Trigger (1996), pp. 317-342. 15 Cfr. Hodder (1992). 16 Per un punto della situazione odierna sui metodi, le tecniche e le tematiche dell’archeologia si veda Manacorda (2008). 499 impostazioni metodologiche e di sensibilità diverse, che sarebbe stato assai più fecondo del reciproco ignorarsi»17. Tali dinamiche, chiaramente, vanno a detrimento di un sapere comune e dell’immagine che la comunità archeologica dà di sé. Un esempio calzante è quello di Roma. Qui le indagini degli ultimi trent’anni hanno mutato profondamente quanto si sapeva della città antica e delle sue fasi storiche. Ebbene, di tali novità, sebbene molte di queste ricerche siano state pubblicate singolarmente e presentate in varie mostre, non esiste un riassunto, una summa che dia notizia ai più di ciascuna scoperta e che metta in luce i quesiti e le differenti interpretazioni proposte dai vari studiosi. Purtroppo, dalle divergenze interpretative si è passati a un clima di scontro personale, con tanto di pubblici apprezzamenti poco cavallereschi. L’inasprimento è arrivato al punto che opere monografiche di carattere generale o su complessi di rilevante importanza, redatte da specifiche correnti di studio o da funzionari della Soprintendenza, ignorino totalmente il lavoro di illustri archeologi. Di risposta i professori di chiara fama che studiano gli stessi luoghi, rivisitano le ricostruzioni dei recenti scavi editi dalla Soprintendenza e le reinterpretano totalmente, bollandole come errate e facendo fare la figura dei parvenus ai propri colleghi. Tale antagonismo estremo ha anche visto la pubblicazione di materiali pregiati inediti, rinvenuti da altri, per contraddire l’interpretazione “rivale”18. Allo stesso tempo è diventato sempre più difficile visionare la documentazione degli scavi conclusi da altri. Questo spoglio e revisione, in un contesto di conoscenza comune, non sono solo legittimi ma anche necessari: la documentazione dello scavo stratigrafico è difatti così accurata e si sforza di essere al massimo oggettiva proprio perché lo scavo è un’opera di distruzione perpetua e irrecuperabile del bacino stratigrafico e ne rimangono solo i dati che si raccolgono, che sono alla base del processo interpretativo; questo dovrebbe poter essere valutato dai colleghi esaminando la suddetta documentazione. Va aggiunto che nel caso della Soprintendenza i dati sono coperti dai diritti di pubblicazione19, mentre in passato la 17 Cfr. Manacorda (2008), p. 229. Si veda il caso della villa dell’Auditorium a Roma e della tegola a forma di Acheloo, cfr. Carandini (2008), p. 21, nota 41 e bibliografia indicata. 19 Si veda Carandini (2008), pp. 144-145. 18 500 documentazione è stata talvolta nascosta per motivi di sicurezza, per prevenire e non agevolare l’intervento dei famigerati tombaroli. Oggi, anche se tutti gli archeologi concordano sul fatto che la conoscenza è alla base della tutela e valorizzazione delle evidenze antiche, l’intento di un sapere comune manca. Alcuni settori dell’ambiente accademico rimproverano le Soprintendenze di far eseguire gli scavi dai propri vassalli, che siano privati o cooperative, senza avere poi la capacità di interpretare, ricostruire, pubblicare gli eventi antichi20, mentre le Soprintendenze a loro volta ignorano alcuni professori, considerandoli non solo presuntuosi e dispotici ma anche visionari e poco scientifici. Tali atteggiamenti risultano entrambi ingenerosi. Da un lato, non si possono guardare dall’alto i funzionari delle Soprintendenze e i loro collaboratori accusandoli di mancanza di capacità interpretativa: le difficoltà quotidiane in cui essi operano, la scarsità di fondi e risorse, le condizioni di fretta e necessità che lo stato di emergenza impone alla maggior parte degli scavi rendono difficilissimo quel momento di riflessione post-scavo necessario alla pubblicazione21; dall’altro, non è possibile ignorare o dare dei visionari a coloro che tanto hanno fatto per lo sviluppo della scienza archeologica in Italia, che hanno numerose pubblicazioni e che si sono impegnati nella diffusione di massa di temi e conoscenze che rafforzano il senso civico22. La collaborazione istituzionale, che pure formalmente esiste, non può funzionare se si continua a farsi una guerra reciproca. Nel frattempo le aree archeologiche e i monumenti antichi di Roma attendono ancora una guida generale aggiornata e apparati didascalici che ne illustrino la storia e i vari aspetti assunti nel tempo: questo accade proprio quando dal punto di vista tecnologico è oramai facilissimo proporre ricostruzioni digitali differenziate per fasi, in cui 20 Ivi, pp. 15-17 e ancora p. 163. Prendersela con i soci delle Cooperative e/o con chi lavora per loro è crudele; difatti costoro raccolgono dati che poi vengono spesso pubblicati da personaggi più illustri, sia delle Soprintendenze che delle Università; in tal modo l’archeologo da campo non ha l’occasione di studiare in maniera approfondita ciò che ha scavato. Si tratta di processi di produzione della conoscenza molto ingiusti che generano una profonda differenza di status sociale; si veda in tal proposito Levine (2009), p. 286. 22 Si pensi alle lezioni all’Auditorium sulla storia di Roma tenute da Carandini nel 2006, cfr. Carandini (2007a), o alla pubblicazione sintetica, accessibile ai più ma dal forte carattere scientifico, che riassume le ricerche del suddetto studioso presso il Palatino, cfr. Carandini (2007b). 21 501 ciascun elemento ricostruttivo sia distinto per livello di probabilità e sia riagganciato alla documentazione alla base di esso, ovvero a più ipotesi ricostruttive dovute alle differenti opinioni scientifiche23. Una soluzione a questa lacuna che riguarda Roma è stata proposta da A. Carandini e P. Carafa: si tratta del sistema informativo archeologico chiamato, e brevettato, Imago Urbis, corredato da un atlante generale archeologico di tutti i monumenti di Roma e dai dati archeologici pertinenti24. Opera fuor di dubbio encomiabile e necessaria; difatti riprende i concetti della oramai defunta Nuova Forma Urbis25, sistema informativo per la città di Roma ideato negli anni ottanta dalla comunità archeologica che voleva aggiornare in tecnologia e contenuti l’unico strumento allora disponibile per gli studiosi della città antica che era la Forma Urbis di Lanciani, pianta generale dei resti archeologici del centro della città, redatta in formato cartaceo tra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento. Quello che si potrebbe obbiettare è che, nel clima attuale, l’opera rischia di essere incentrata e condizionata dalle interpretazioni e ricostruzioni di cui lo staff universitario è convinto, trascurando le opinioni contrarie. In secondo luogo, il voler brevettare uno strumento cognitivo entra in contrasto con un nuovo ramo della ricerca archeologica che si rivolge invece al Free and Open Source Software, agli Open Archives e alle licenze libere, e che reca con sé un forte spirito innovatore nella conoscenza archeologica anche dal punto di vista ideologico, senza dubbio più legato al concetto di bene comune. 3. La diffusione del dato e degli strumenti archeologici digitali; ArcheoFOSS, Open Access e Web Sites Gli archeologi fautori del Free and Open Source Software, ribattezzato ArcheoFOSS, stanno rivoluzionando il mondo degli strumenti elet23 Per una introduzione alle varie applicazioni di realtà virtuale in archeologia cfr. Barceló, Forte, Sanders (2000); Haselberger, Humphrey (2006); Scagliarini Corlàita, Coralini (2007). Sull’uso dei gradienti di probabilità si veda Viscogliosi, Borghini, Carlani (2006). Oggi esiste un consorzio, chiamato London Charter, intenzionato a stabilire linee guida per le ricostruzioni 3D dedicate al Cultural Heritage (http://www. londoncharter.org), si veda in proposito D’Andrea (2006), appendice 5, pp. 223-227. 24 Si veda Carandini (2008), pp. 132-141. 25 Castagnoli (1985). 502 tronici e dell’informazione in archeologia. Il FOSS è un tipo di software gratuito che permette di utilizzare il “sorgente” della programmazione in maniera tale che, oltre al vantaggio economico, sia possibile effettuare modifiche e collaborare attivamente all’innovazione e al potenziamento dello strumento stesso. I sostenitori dell’ArcheoFOSS formano una comunità scientifica che si muove al di fuori dei prodotti commerciali normalmente in uso, che comunica al suo interno in maniera molto attiva e si autosostiene per rendersi indipendente dal mercato; gli archeologi-informatici che la costituiscono, oltre ad autoprodurre sia software che hardware, cercano anche di diffondere, grazie all’uso della rete, dati e pubblicazioni scientifiche in formato open26. In Italia il movimento è molto attivo: sin dal 2000 si svolge annualmente il Meeting degli utenti Italiani di GRASS e GIS Freeware Open Source Software, giunto oramai alla sua dodicesima edizione, mentre è alla sua sesta edizione il Workshop Italiano Open Source, Free Software e Open Format nei processi di ricerca archeologica27; presso l’Istituto di studi liguri, infine, è stato creato l’osservatorio Internet ed Open Source in Archaeology (IOSA) per promuovere l’uso di programmi open source e i suoi standard28 . Il software che viene prodotto è dedicato nella maggior parte dei casi alle banche dati di carattere archeologico, locali ma soprattutto on line; normalmente vengono realizzate interfacce utente per l’accesso facilitato mediante una programmazione specifica, utilizzando vari tipi di linguaggi di programmazione insieme a numerose libraries (collezioni, servizi ed esempi). Le banche dati web-oriented oggi hanno soppiantato quelle locali: difatti se la scelta di prodotti web risulta più onerosa in fase di costruzione, reca però enormi vantaggi facilitando l’accesso ai dati. 26 Questo spirito è uguale a quello di altri settori della ricerca mondiale, tutti accomunati nel considerare la conoscenza un bene comune. Si veda in proposito Aime, Cossetta (2010). 27 Gli atti della terza edizione sono scaricabili presso l’URL http://www.perseo.lettere. unipd.it/workshop08; quelli della quarta edizione sono pubblicati in Cignoni, Palombini, Pescarini (2009), un volume di Archeologia e Calcolatori edito dal CNR e scaricabile in formato pdf presso l’URL http://soi.cnr.it/~archcalc/supplements.htm, si veda infra nota 48; gli atti della quinta edizione sono invece pubblicati in De Felice, Sibilano (2011). 28 http://www.iosa.it/. 503 Uno dei rami più produttivi è quello dei GIS (Geographical Information Systems): si tratta di strumenti sofisticati utilizzati per qualsiasi tipo di gestione territoriale, che riescono a riprodurre cartograficamente (anche tridimensionalmente) porzioni di un territorio, più o meno vasto, analizzato in maniera multiscalare e multidisciplinare; i dati non sono solo di carattere spaziale, ma anche qualitativi: agli oggetti grafici sono associate banche dati alfanumeriche così come informazioni testuali e multimediali. La possibilità di riprodurre virtualmente il contesto geografico e territoriale dei siti antichi ha fatto sì che tali strumenti fossero prediletti dalla ricerca archeologica, riscuotendo un enorme ed entusiastico successo29. Negli ultimi anni si è verificato un rapido incremento di applicazioni dette web-gis30: si tratta propriamente di web mapping, cioè di visualizzazione e condivisione di dati geografici ove la modifica on line dei dati spaziali è difficoltosa. Esistono però risorse mondiali quali l’Open Geospatial Consortium31, che fornisce standard, modelli di riferi29 Un primo manuale di GIS in archeologia fu pubblicato nel 1990 da K.M.S. Allen, S.W. Green, ed E.B.W. Zubrow: con la sua serie di esempi applicativi contribuì notevolmente alla diffusione di questo tipo di sistemi; cfr. Allen, Green, Zubrow (1990). Un altro è quello edito da M. Gillings e A. Wise, nell’ambito dell’Archeological Data Service, servizio nazionale di informatizzazione del dato archeologico, attivo in Inghilterra, cfr. Gillings, Wise (1999). Altri manuali pubblicati nel terzo millennio sono Wheatley, Gillings (2002) e da ultimo Connolly, Lake (2006). Un vero e proprio manuale di GIS archeologico è stato edito in Italia nel 2002 da M. Forte, cfr. Forte (2002). 30 Fra i web-gis italiani indichiamo: ArchaeoGEW, dedicato al parco Spina Verde di Como ed elaborato dal Laboratorio di Geomatica del Politecnico di Milano (http:// webgis2.como.polimi.it/agew/); Fasti-on-line prodotto dall’Associazione Internazionale di Archeologia Classica (http://www.fastionline.org/); l’Appia Antica Project del Virtual Heritage Lab presso il CNR-ITABC (http://www.appia.itabc.cnr.it/); il progetto LandLab dell’Università di Lecce, che si dedica agli insediamenti antichi nel Salento (http://gis.lia.unile.it/insediamenti/) e agli scavi in corso nella medesima zona (http:// gis.lia.unile.it/wodos/), entrambi accessibili solo mediante autenticazione richiedibile via mail; il progetto Po-Basyn per lo studio del popolamento dell’età del Bronzo (2250 ca.- 900 ca. a.C.) nella Pianura Padana, messo in atto da varie università italiane (http://www.archeoserver.it/pobasyn/home/index.php); il Sistema Informativo Territoriale per i Beni Culturali della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia (http:// www.sitbec-fvg.org/index.asp); il progetto APSAT-Alpinet realizzato dalle università di Trento e di Padova per i siti protostorici delle Alpi (http://alpinet.mpasol.it/webgis/); il Progetto Materie Prime dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria dell’Università di Pisa (http://materieprime.humnet.unipi.it/index.asp); il sito ufficiale del Laboratorio di Sperimentazione Grafica e Cartografica della cattedra di Topografia dell’Italia Antica della Università di Roma “la Sapienza” (http://www.formitaliae.it/index.html). 31 http://www.opengeospatial.org/. 504 mento e documenti di best practices o il portale della Open Source Geospatial Foundation, che diffonde il miglior software open source per la geomatica a utenti e sviluppatori32. La piattaforma più utilizzata è MapServer33, applicazione sviluppata dalla Minnesota University, normalmente associata a prodotti più specifici, già dotati di un’interfaccia utente per le operazioni basilari (Chameleon34, Quantum GIS35 o P.Mapper36) che possono essere riprogrammati, con la possibilità di utilizzare diversi linguaggi e utilizzando varie API (Application Programming Interface); esistono infine prodotti per la visualizzazione in rete di ambienti tridimensionali interattivi, come ad esempio OSG4W 37. Questi strumenti ormai, date le opportunità di sviluppo e condivisione della ricerca e dati gli aspetti economici, vengono utilizzati in Italia non solo presso vari istituti di ricerca (Università, CNR, scuole straniere) ma anche dalle pubbliche amministrazioni: il caso più evidente è il SITAR (Sistema Informativo Territoriale Archeologico di Roma), strumento on line per la gestione del patrimonio archeologico, progettato e messo in opera dalla Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Roma utilizzando software di base open source38. Per la ricerca archeologica sono state prodotte anche soluzioni integrate quali ArcheOS (Archeological Operating System), programma che integra vari programmi open source per CAD, GIS, database, grafica, 3D, fotogrammetria, laserscan, statistica, web-publishing, sviluppato dall’Arc-Team s.n.c sotto General Public License (GPL)39 assieme al progetto e-Learning Digital Archaeological Documentation che prevede la creazione di una serie di tutorial riguardanti l’utilizzo di free and open software in archeologia40.. 32 http://www.osgeo.org/. http://mapserver.org/. 34 http://chameleon.maptools.org/. 35 http://www.qgis.org/. 36 http://www.pmapper.net/. 37 http://3d.cineca.it/storage/demo_vrome_ajax/osg4web.html. 38 Cfr. Serlorenzi (2011). Il 9 novembre 2011 a Roma, presso Palazzo Massimo si è avuto un incontro, che ha sancito la messa in funzione del sistema dal titolo SITAR Sistema Informativo Territoriale Archeologico di Roma. Potenziale archeologico, pianificazione territoriale e rappresentazione pubblica dei dati. Il sistema è utilizzabile presso l’URL http:// www.commissario-archeologiaroma.it/opencms/export/CommissarioAR/sito-commissario AR/Strumenti/Cartografia/index.html. 39 Sulle licenze libere dell’open-source cfr. Schweik (2009). 40 http://www.archeos.eu/. 33 505 Oltre alla mera produzione di software “libero” si è introdotto anche un concetto generale di Open Archaeology, dando risalto al ruolo fondamentale della documentazione libera e facilmente disponibile41. Questa può essere fornita sia utilizzando strumenti largamente in uso quali WikiPedia42 oppure offrendo altre opportunità, come fa ad esempio ArcheoCommons, portale in cui è possibile pubblicare le proprie ricerche rilasciandole secondo una delle licenze Creative Commons43. Per la condivisione dei dati spaziali sul web si possono utilizzare soluzioni semplici come la codifica in KML (Keyhole Markup Language) per la relativa visualizzazione in Google Earth; mediante questo procedimento è possibile visualizzare sia i files spaziali, compresi i vari tematismi sviluppati, sia la documentazione associata. Oltre ad avere a disposizione fotografie satellitari aggiornate e, in alcuni posti del mondo, ad alta definizione, in Google Earth è anche possibile visualizzare ricostruzioni tridimensionali utilizzando Google SketchUP44. Alla base del concetto di necessità di dati archeologici open e disponibili su Internet sta la considerazione del valore della documentazione archeologica, la quale, anche se spesso rimane inedita (poiché la maggior parte dell’attività archeologica non è legata alla ricerca universitaria), viene comunque raccolta in archivi digitali privati che risultano fragili: un recipiente unico, invece, gestito da una comunità scientifica è più sicuro e anche più funzionale per la pianificazione territoriale. In questo fermento le riviste italiane open a carattere archeologico si vanno moltiplicando: oggi oltre al Web Journal on Cultural Patrimony45, vanno elencati i Fasti FOLD&R446 che pubblicano relazioni di scavo, Gradus, rivista dedicata all’archeologia navale e al restauro47, 41 Sull’Open Access in generale si veda Suber (2009). Si veda ad esempio l’applicazione sui metodi statistici ed analisi spaziale http:// www.wiki.iosa.it/. 43 Milella, Vigliarolo (2009). 44 Si tratta in entrambi i casi di prodotti di cui esistono versioni gratuite. 45 http://www.webjournal.unior.it/. 46 http://www.fastionline.org/folder.php?view=home. I Fasti FOLD&R, basati sul sistema del peer-review, sono pubblicati a partire dal 2004 dall’Associazione Internazionale di Archeologia Classica in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. 47 http://www.cantierenavipisa.it/Pubblicazioni_Gradus.html. 42 506 Archeologia e Calcolatori 48 rivista pubblicata anche in formato cartaceo, patrocinata da un’istituzione di ricerca quale è il CNR, Aedon, Rivista di Arti e Diritto on-line49 e infine il Bollettino di Archeologia on line inaugurato dalla Direzione generale per le antichità del MIBAC50; a queste risorse si aggiunge BibAr, biblioteca on line di archeologia medievale presso il Portale di Archeologia Medievale del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena in cui è possibile visionare articoli e anche monografie51. Tale fermento ha ingigantito la diffusione di dati e informazioni archeologiche sul web, spazio che offre notevoli opportunità ma che può essere estremamente dispersivo. Inizialmente l’accesso ai progetti pubblicati in Internet è stata una questione non dibattuta a sufficienza: se da una parte il web veniva percepito come un beneficio scientifico, dall’altra ha sollevato problemi su come gestire e organizzare tali accessi. Anche se i primi portali in Internet aiutavano a esplorare la moltitudine di progetti archeologici sparsi nella rete, l’utente medio spesso si perdeva in ricerche infruttuose giacché i riferimenti da un progetto a un altro potevano mancare, così come i percorsi di collegamento fra un sito e un altro. Poteva anche succedere che i siti non venissero aggiornati entrando in obsolescenza o decadendo. Inoltre, la maggior parte di essi appariva di carattere didascalico o denotava una certa spettacolarizzazione dei dati e dei risultati. Tale fenomeno, purtroppo, è ancora oggi abbastanza diffuso; sovente risulta difficile avere informazioni dettagliate sulla struttura dei progetti, sullo stato dei lavori, così come mancano momenti di riflessione e di informazione reciproca sulla validità delle applicazioni e degli esperimenti in corso. Alcuni siti risultano molto approfonditi e danno la possibilità di analizzare una documentazione archeologica abbastanza completa; in altri casi si assiste a progetti iniziati e mai conclusi, ove i dati sono scarsi e di basso livello scientifico. In questi ultimi anni la comunità scientifica ha cercato comunque di adeguarsi alle nuove potenzialità e necessità che la rete fornisce, e 48 http://soi.cnr.it/~archcalc/index.htm, che aderisce all’Open Archives Initiative; cfr. supra nota 27. 49 http://www.aedon.mulino.it/. 50 http://151.12.58.75/archeologia/. 51 http://www.bibar.unisi.it/. 507 alcuni dei problemi sono stati risolti: ad esempio, il progetto europeo Minerva ha prodotto un Handbook for quality in cultural Web sites52, di cui esiste anche un’edizione italiana53, per la definizione di principi generali, strategie e proposte operative nella creazione di applicazioni web dedicate ai beni culturali e alla conservazione dei contenuti. Un notevole passo in avanti si è poi avuto con il semantic web che, grazie all’utilizzo di ontologie precostituite e condivise, indirizza l’utente in maniera più puntuale. Resta un dato di fatto che oggi alcuni servizi offerti da progetti specifici in rete, quali la cartografia on line54, notizie su repertori di materiali55 o sulle fonti epigrafiche56 sono estremamente utili per la ricerca e per la condivisione della conoscenza. Il movimento dell’ArcheoFoss aderisce completamente al concetto di conoscenza come bene comune, sia dal punto di vista meramente scientifico che per quanto riguarda la gestione del patrimonio archeologico. Uno sforzo ulteriore andrebbe fatto per codificare un sapere comune che, nascendo dall’interpretazione scientifica dei dati, sia rivolto a tutti i cittadini, in maniera capillare, al fine di infondere una coscienza approfondita e aggiornata del patrimonio archeologico, per dare un’opportunità al coinvolgimento civico della cittadinanza nella valorizzazione e nel godimento di tale bene comune57. Questa 52 Si veda l’indirizzo http://www.minervaeurope.org/publications/qualitycriteria.htm. http://www.minervaeurope.org/publications/qualitycriteria-i/qualitycriteria-i0402.pdf. 54 I cosiddetti geo-portali (http://www.geoportal.org/) o servizi di cartografia on.line (http://openlayers.org/). 55 Si vedano ad esempio siti quali The Amphoras Project (http://www.chass. utoronto.ca/amphoras/project.html); The Beazley Archive of Classical Research Centre (http:// www.beazley.ox.ac.uk/index.htm); Roman Ceramics (http://www.rgzm.de/anadecom/new home.htm); l’International Fabric Reference Collection for Ceramic (http://www.fltr. ucl.ac.be/FLTR/ARKE/CRAN/IFRC/Home_Page/Home_Page.html); il portale PostSherd per la ricerca di siti web sulla ceramica romana (http://www.potsherd.uklinux.net/index. php); il Roman Amphoras in Britain (http://intarch.ac.uk/journal/issue1/tyers_index. html); il sito della Société Française d’Étude de la Céramique Antique en Gaule (http:// sfecag.free.fr/index.htm). 56 Si veda ad esempio l’Epigraphic Database Roma (EDR, http://www.edr-edr.it/) che fa parte della Federazione internazionale di banche dati epigrafiche denominata Electronic Archive of Greek and Latin Epigraphy (EAGLE). La banca dati può essere consultata singolarmente o assieme ad altre banche federate attraverso il portale di EAGLE (www.eagle-eagle.it). 57 Sull’importanza dell’accesso alla rete e alla conoscenza anche di soggetti non esperti cfr. Boyle (2009). 53 508 diffusione della conoscenza, così come la creazione di forme organizzative per la partecipazione attiva da parte dei cittadini alla vita dei beni archeologici, spetta agli organi statali e presuppone un coordinamento continuo e un investimento di risorse: soprattutto umane, visto che mezzi cognitivi e informatici (anche gratuiti) non mancano. 4. Gestione e tutela dei beni archeologici e del paesaggio antico: strumenti giuridici, archeologia preventiva e prassi quotidiana In Italia i beni culturali e paesaggistici sono diffusi in maniera capillare su tutto il territorio, formando un sistema organico che ne illustra il palinsesto storico. La percezione di tale «ambiente culturale», che un tempo non lontano era quasi naturale per gli italiani58, ha fatto sì che ci si dotasse di strumenti giuridici di tutela e valorizzazione tra i più avanzati. Il nostro paese infatti, oltre a distinguersi per «l’armoniosa integrazione città-campagna, patrimonio culturale-paesaggio, natura-cultura, per la diffusione capillare del patrimonio culturale» e per un «modello di conservazione contestuale» in cui «il totale è maggiore della somma delle sue parti»59, è anche forte di una secolare tradizione di tutela della sua storia e della sua cultura. Ad esempio, a Roma, già dall’età rinascimentale, decreti, bolle ed editti papali si sono succeduti fino all’Unità d’Italia per proteggere i monumenti antichi dalla distruzione da parte dei privati, anche se l’amministrazione papale poteva utilizzarli come cave per le grandi opere di rinnovamento della città. Allo stesso tempo, leggi per arginare il mercato clandestino delle antichità furono promulgate in età barocca e si moltiplicarono nel Settecento quando, con la nascita del Grand Tour, il fenomeno raggiunse picchi mai visti. Assieme a tale legiferazione si sono susseguite opere di restauro, di messa in luce e di pulizia dei monumenti. Leggi di tutela e cura dei monumenti sono state adottate anche presso gli altri Stati italiani preunitari60; tali legiferazioni erano mol58 Settis (2002), pp. 10-11 e ancora p. 29. Settis (2010), pp. 84-85. 60 Una raccolta dei provvedimenti legislativi in materia presi dagli Stati italiani tra il 1571 ed il 1860 è in Emiliani (1978). 59 509 to simili tra loro, non per via di accordi interstatali o per emulazione, ma per un comune valore e significato che si attribuiva al patrimonio culturale. Lo spirito che ha permeato queste iniziative è stato quello di considerare le magnificenze e le ricchezze della città, così come gli spazi urbani e la loro salubrità, di interesse pubblico, al di sopra di qualsiasi interesse privato, concezione che si ricollega direttamente al diritto romano, come Salvatore Settis ha giustamente sottolineato61. Dopo l’Unità d’Italia, a causa dello spirito “privatistico” dello Statuto Albertino62, il processo di riorganizzazione del sistema di tutela dei beni culturali fu faticoso e si concluse nel 1907 con la creazione delle Soprintendenze e soprattutto nel 1909 con la legge Rava-Rosadi (l. 364), che istituì la preminenza dell’interesse pubblico su quello privato nel campo dei beni storici, artistici e archeologici, cercando inoltre di assicurare una corretta conoscenza scientifica del patrimonio culturale63. Dopo l’istituzione nel 1919 di un Sottosegretariato alle antichità e belle arti all’interno del Ministero dell’Istruzione, e successivamente alla prima legge di tutela del paesaggio (l. 778), varata nel 1922 da Benedetto Croce, che stabiliva un nesso stringente fra emergenze monumentali e bellezze naturali rappresentanti l’identità nazionale, si arrivò, nel 1939, alle leggi di Bottai per il patrimonio culturale (l. 1089) e per il paesaggio (l. 1497). Le norme contenute in esse, elaborate da commissioni apposite e discusse in convegni cui partecipavano le personalità più colte e sensibili dell’epoca, cercarono di risolvere i conflitti tra pubblico e privato, introducendo un concetto di tutela contestuale e non statica, affiancata allo sviluppo della nazione. Le due leggi nacquero assieme non a caso, ma per ribadire il concetto del legame inscindibile che esiste fra beni culturali e paesaggio. Con la legge 1089 fu accresciuto il ruolo delle Soprintendenze in materia di conservazione, tutela e sorveglianza dei beni storici, artistici e archeologici; fu inoltre regolata la disciplina dei rinvenimenti archeologici, definiti necessariamente pubblici. Con la legge 61 Cfr. Settis (2010), pp. 97-110. Gli Stati pre-unitari dell’Italia settentrionale erano maggiormente condizionati da una impostazione liberistica di matrice asburgica, incentrata nella tutela del diritto di proprietà: cfr. Manacorda (2007), pp. 66-67. 63 Cfr. Manacorda (2007), p. 72; Settis (2010), pp. 110-122. 62 510 1497 si stabiliva che i beni di Notevole Interesse Pubblico fossero identificati da Commissioni provinciali assieme ai soprintendenti e rappresentanti comunali; furono inoltre concepiti come strumenti di pianificazione i Piani Regolatori Urbani e i Piani Territoriali Paesistici e questi ultimi avrebbero dovuto gestire i vincoli su aree vaste considerandoli non perpetui ma modificabili, in armonia con piani preventivi di intervento64. Il momento più alto nella considerazione dei beni storici, artistici e paesaggistici si è raggiunto nel nostro paese al momento della nascita della Costituzione italiana; in tale occasione, dopo un lungo ed elaborato dibattito, si decise che la tutela dei beni culturali appartenesse ai principi fondamentali dello Stato italiano, caso unico in tutto il mondo: i principi dell’art. 9 enunciano lo stretto nesso tra tutela, valorizzazione e promozione della conoscenza e della ricerca del patrimonio culturale e del paesaggio, mettendo al centro di questa attività la Repubblica65. Nel 1974 venne creato il Ministero per i Beni culturali e ambientali al fine di destinare maggiori strumenti e risorse per la gestione del patrimonio storico, artistico e paesaggistico, al quale si assegnava sia un significato ideologico di identità nazionale, di bene comune, sia uno specifico «valore monetario»66. Secondo l’opinione di molti proprio tale evento, nonostante le buone intenzioni, mise in crisi il sistema di gestione dei beni storico-artistici, per due motivi fondamentali: da un lato si verificava una frattura con l’attività cognitiva e di ricerca intrapresa dagli organi statali afferenti al Ministero dell’Istruzione, dall’altro si creava un ministero isolato, spesso vassallo di altri dicasteri67. Negli anni a seguire la coscienza della salvaguardia e della valorizzazione dei beni archeologici, al fine della loro integrazione nel mondo moderno come valore aggiunto e come motore di progresso della civiltà nazionale e globale, si è accresciuta grazie all’avanzamento scientifico dell’archeologia, ma anche a causa delle sempre più frequenti distruzioni imposte dalle grandi opere strutturali e infrastrutturali legate alla modernizzazione del paese. 64 Cfr. Settis (2010), pp. 122-127 e, per la genesi della legge 1497, pp. 167-178. Cfr. Settis (2002), pp. 30-31 e Settis (2010), pp. 179-187. 66 Cfr. Settis (2002), p. 35. 67 Cfr. Settis (2002), pp. 59-66; Manacorda (2007), p. 89; Carandini (2008), p. 14. 65 511 Cresceva nel frattempo, in un’ottica strumentale e capitalistica, anche il senso del valore monetario e della possibilità di sfruttamento economico dei beni culturali; basti ricordare l’operazione Giacimenti Culturali promossa dall’allora ministro del Lavoro Gianni De Michelis, in cui i beni storici, artistici e archeologici venivano considerati il petrolio dell’Italia e se ne prevedeva una catalogazione utilizzando le nuove tecnologie informatiche; di fronte a tale innovazione tecnologica si pensò, invece di formare e coinvolgere gli archeologi, di avvalersi dell’apporto esterno di società private che non solo non avevano una sensibilità umanistica ma, detentori della nuova tecnologia, erano anche incontrollabili nella validità del lavoro svolto68. Questo è accaduto proprio mentre negli altri paesi occidentali, e anche da parte di una sparuta minoranza nostrana, si assisteva alla nascita della cosiddetta Computing Archaeology. Non di meno i governi hanno destinato sempre minori finanziamenti e risorse agli organi del MIBAC, e al contempo si è verificata una frammentazione delle competenze, legata alla maggiore autonomia degli enti locali (Regioni, Province e Comuni) soprattutto nel campo urbanistico; questo ha comportato contrasti sia nella gestione del patrimonio paesaggistico sia per quanto concerne la valorizzazione dei beni culturali69. In concomitanza con questi eventi è stata necessaria una rielaborazione delle leggi di tutela dei beni culturali e dell’ambiente: nel 1999 fu emanato il Testo unico dei beni culturali e ambientali (d.lgs. 490, ottobre 1999) per unificare e coordinare le varie norme in vigore che erano state emanate fino ad allora in maniera eterogenea, e per rendere più attuale le legislazione preesistente, anche se non fu ritenuto necessario abrogare o sostituire le leggi del 1939. Nel 2004 il Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici (d.lgs. 42, gennaio 2004) è an- 68 Questa esperienza tecnologica diremmo della sveglia al collo ha generato a lungo una grossa diffidenza in una parte della comunità archeologica nei confronti dei computer e presso un’altra una ingenua e superficiale adesione che, purtroppo, perdura in taluni ambienti. Ancora oggi infatti ci si affida ciecamente alle nuove tecnologie come se fossero una panacea, una soluzione unica di garanzia scientifica, senza valutarne a fondo i limiti oggettivi; eppure tra gli archeologi esiste chi è in grado di analizzare criticamente il supporto dell’HiTech: le manifestazioni di cieco entusiasmo per strumenti quali il laser scanner o il disegno in CAD continuano a far pendere la sveglia al collo dell’archeologo. 69 Cfr. Settis (2010), pp. 187-221. 512 dato a sostituire le norme del Testo Unico del 1999, mentre ulteriori modifiche al Codice sono state apportate nel 2006 (d.lgs. 24 marzo 2006, n. 156 e d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157) e nel 2008 con il cosiddetto Codice Rutelli (d.lgs. 26 marzo 2008, n. 62 e d.lgs. 26 marzo 2008, n. 63)70. In tempi di crisi economica e con i governi più attenti alle risorse legate alle vicende finanziarie che a quelle della cultura, la tutela e valorizzazione dei monumenti antichi ha subìto un infelice destino. Se da un lato abbiamo assistito ai crolli ripetuti di edifici a Pompei, di parti della Domus Aurea e addirittura del Colosseo, tanto per citare i casi più eclatanti, le risorse economiche messe a disposizione del Ministero per i Beni e le attività culturali sono state enormemente ridotte. La cattiva sorte dei beni archeologici in Italia, a giudizio unanime, dipende principalmente dal taglio drammatico dei fondi, niente affatto controbilanciato dall’istituzione di nuove Soprintendenze speciali o dal commissariamento di zone come Roma o Pompei o anche dall’introduzione di manager presi in prestito dal mondo imprenditoriale. Oltre alla scarsezza cronica di fondi gli archeologi mettono in rilievo anche una cattiva organizzazione generale. C’è chi ritiene che proprio la dispersione delle competenze fra i vari organi statali e gli enti locali crei un’interessata sovrapposizione di interferenze; soprattutto la divisione delle competenze fra conoscenza, tutela e valorizzazione sarebbe alla base della cattiva gestione dei beni culturali71. Altri individuano la causa nell’apparato burocratico e chiuso delle Soprintendenze e nel fallimento degli organi ministeriali riguardo ad una conoscenza dei beni finalizzata alla gestione territoriale: secondo questa tesi, quello che è soprattutto venuto a mancare nel sistema di tutela, oltre a una collaborazione tra Stato e Regioni, è un intervento più attivo del mondo universitario72. Altri ancora pensano che i problemi gestionali siano legati alla mancanza di una Soprintendenza unica per i beni culturali e ambientali: alla base della disorganizzazione sarebbe proprio l’esistenza di differenti Soprintendenze attive sia in specifici campi (archeologico, artistico, dei beni architettonici e ambientali) sia in specifici ambiti geografici che 70 Cfr. Cammelli (2007); Tamiozzo (2009). Settis (2010), pp. 187-221. 72 Carandini (2008), pp. 11-17 e pp. 186-189. 71 513 ricalcano un assetto vetusto, simile alla divisione dell’Italia ai tempi di Augusto73. Nell’acceso dibattito su una possibile riforma della gestione dei beni culturali74 c’è chi ipotizza un sistema di governance in cui, sotto il controllo degli enti statali centrali, si sviluppi un processo di tutela attiva a cui possano concorrere non solo gli enti locali ma anche le università e gli istituti di ricerca, così come le associazioni culturali e i privati75; altri invece, data la china intrapresa negli ultimi anni dai governi italiani, vista la poca attenzione e i pochi investimenti riservati sia alla cultura che alla ricerca e considerate le profonde divisioni all’interno della comunità archeologica, preferiscono, forse in maniera più pragmatica, ridare un ruolo centrale agli organi statali preposti, assieme alla partecipazione attiva dei cittadini76; c’è infine chi non intravede una netta contrapposizione dei due approcci, grazie al sistema di controlli incrociati e al regime di pianificazioni concordate fra Stato e Regioni, previsti dalla riforma del codice varata nel 2008 dall’allora ministro Rutelli77. Fortunatamente negli ultimi anni si è verificata una importante evoluzione nella gestione delle ricchezze archeologiche e del paesaggio contestuale: ci si riferisce alle norme concernenti la cosiddetta Archeologia Preventiva. Le esperienze legate alla realizzazione di un’opera a vasto impatto come la TAV, che ha comportato il rinvenimento e la distruzione di molte e importanti evidenze archeologiche, hanno rinnovato il dibattito sulla salvaguardia e sulla valutazione dei depositi stratigrafici archeologici sotterranei78, su quello che un tempo veniva definito rischio archeologico79. Il dibattito ha determinato la nascita di una specifica normativa (l. n. 109, 25 giugno 2005), poi confluita nel nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163, 12 aprile 2006): da queste norme viene 73 Manacorda (2007), pp. 72-73. Il dibattito è molto attivo: si veda in proposito, oltre ai rimandi bibliografici già proposti, Roma (1999); Francovich (2004); Borioni, Untolini (2006). 75 Montella (2003), pp. 386-387; Manacorda (2007), pp. 86-92; Manacorda (2008), pp. 246-247. 76 Settis (2002); Settis (2005); Settis (2010). 77 Carandini (2008), pp. 191-193. 78 Si vedano gli Atti della giornata di studi Archeologia: rischio o valore aggiunto?, Roma, 17 ottobre 2001, in Roma (2004). 79 Cfr. Guermandi (2001). 74 514 sancita la necessità di un’analisi preliminare del paesaggio e del contesto urbano o extraurbano in previsione di lavori pubblici, adottando le tecniche proprie dell’archeologia dei paesaggi e dell’archeologia urbana al fine di stabilire la potenzialità archeologica di un’area e la necessità o meno di operare uno scavo stratigrafico: sia per una più efficace tutela, sia per evitare costi aggiuntivi e tempi di dilatazione che questo comporta. La procedura prevede che, prima dell’esecuzione dei lavori, sia trasmessa al soprintendente una verifica preventiva dell’interesse archeologico in sede di progetto preliminare: si tratta di un rapporto che riassuma «gli esiti delle indagini geologiche e archeologiche preliminari secondo quanto disposto dal regolamento, con particolare attenzione ai dati di archivio e bibliografici reperibili, all’esito delle ricognizioni volte all’osservazione dei terreni, alla lettura della geomorfologia del territorio, nonché, per le opere a rete, alle fotointerpretazioni»80. In queste relazioni, che possono essere redatte dai dipartimenti archeologici universitari o anche da singoli archeologi in possesso di diploma di specializzazione o di dottorato di ricerca in archeologia (è prevista l’abilitazione all’interno di un apposito elenco ministeriale), va valutato l’impatto archeologico nell’area interessata e direttamente connesso all’opera stessa; possono essere aggiunti suggerimenti per l’approfondimento della diagnosi superficiale e cautele particolari per ridurre al massimo il rischio di danneggiamenti del patrimonio archeologico. La Soprintendenza, valutata la documentazione, può chiedere approfondimenti, oppure, entro novanta giorni, l’avvio della procedura di verifica preventiva81, che consiste nella realizzazione di ulteriori indagini, dirette dalla Soprintendenza stessa e con oneri a carico della stazione appaltante. Per questa operazione sono previste due fasi: la prima va a integrare la progettazione preliminare mediante carotaggi, prospezioni geofisiche e geochimiche e saggi archeologici a campionatura; la seconda, in fase di progettazione definitiva ed esecutiva, può comportare anche lo scavo archeologico in estensione dell’area interessata. Legata all’archeologia preventiva è stata l’istituzione di una Commissione ministeriale per la realizzazione del Sistema Informativo Archeologico delle città italiane e dei loro territori, da parte dell’allora ministro 80 81 Art. 95, c. 1. Art. 96. 515 Francesco Rutelli, su proposta di Riccardo Francovich; la commissione, costituita dopo la prematura scomparsa di Francovich nel marzo 2007, è stata coordinata da Andrea Carandini. Il risultato dei lavori è stata la progettazione di un sistema nazionale di gestione e pianificazione territoriale basato su tecnologia web-gis e integrato con tutte le operazioni, le tecniche e i dati prodotti dall’archeologia preventiva82. Uno dei primi esiti di questa pianificazione è stata la realizzazione da parte di diverse Soprintendenze di nuovi web-gis dedicati all’archeologia83 e l’avvio dell’integrazione, all’interno del sistema nazionale, degli innumerevoli progetti analoghi già esistenti in campo archeologico84. Le nuove norme hanno generato diverse perplessità. È apparsa sin dal primo momento insoddisfacente la limitazione della legge alla sola sfera dei lavori pubblici, dato il forte impatto territoriale e la grande estensione di molte opere private85. Alcuni sostengono inoltre che le linee guida proposte dalla Commissione ministeriale si siano limitate a una lettura tradizionale del paesaggio archeologico, mentre andrebbero meglio considerati i bacini insediativi nel loro insieme con il loro contesto geografico e paesaggistico al fine di una corretta integrazione nei piani paesistici86. L’Associazione Nazionale Archeologi, infine, reputa impari l’inserimento dei dipartimenti universitari negli elenchi di coloro che hanno diritto a svolgere le attività legate all’archeologia preventiva, poiché usufruiscono di risorse pubbliche e quindi costituirebbero un caso di concorrenza sleale nel mercato, così come reputa ingiusto l’inserimento delle imprese e delle cooperative, perché soggetti più forti87. 82 Cfr. Carandini (2008), appendice. Cfr. supra, p. 517, nota 30. 84 Una nuova commissione è stata ultimamente istituita per il Sistema Informativo Territoriale Archeologico Nazionale; si veda la comunicazione di G. Azzena, P. Carafa e S. Campana, SITAN - Sistema Informativo Territoriale Archeologico Nazionale. La standardizzazione dei dati, durante la giornata di studio dal titolo SITAR - Sistema Informativo Territoriale Archeologico di Roma. Potenziale archeologico, pianificazione territoriale e rappresentazione pubblica dei dati tenutasi il 9 novembre 2011 a Roma, di cui sono in pubblicazione gli atti; si veda inoltre Azzena (2009). 85 Cfr. De Caro (2009); si veda il caso degli innumerevoli impianti di produzione di energia alternativa realizzati in Campania da privati: cfr. Lagi, Scarano, Tomay (2011). 86 Cfr. Brogiolo (2009). 87 Barrano, Cevoli (2011), p. 19. 83 516 Un passo in avanti notevole è stato comunque fatto. Questo nuovo modo di procedere, che sta prendendo lentamente piede in Italia nella prassi quotidiana, dovrebbe permettere non solo di valutare meglio il patrimonio archeologico sepolto, ma anche di integrare queste ricchezze con la pianificazione territoriale, di progettare assieme alle opere di modernizzazione del Paese gli interventi archeologici, selezionando in maniera oculata dove sia il caso di costruire, dove sia il caso di operare uno scavo stratigrafico, in presenza di alto potenziale dei bacini stratigrafici, dove infine esistano le condizioni per valorizzare e conservare i resti messi in luce. Perché, se è vero che in Italia ogni luogo non sottoposto a interventi moderni di modifica del paesaggio e dei terreni è potenzialmente un “sito” archeologico che può serbare sorprese e nuove conoscenze, è altrettanto vero che, grazie all’uso preventivo dei metodi euristici dell’archeologia nella realizzazione di lavori pubblici, la scelta ove svolgere scavi stratigrafici sarà più oculata e sarà più facile munirsi di un «progetto culturale»88 interdisciplinare, consapevole dei riflessi pubblici di una archeologia aperta all’uso comune dei propri beni. Se questo modo nuovo di procedere fa intravedere per il futuro una dislocazione più razionale delle risorse, una migliore gestione della spesa pubblica, nuove opportunità di lavoro e la rivalutazione dell’archeologia come investimento piuttosto che come intralcio, gli organi ministeriali e locali, di fronte alla sempre più accentuata diminuzione di fondi pubblici, debbono forzatamente rivolgersi altrove per sopperire alle proprie necessità. 5. La conservazione e valorizzazione dei beni archeologici: sponsorizzazioni e donazioni Il Codice dei beni culturali e paesaggistici, ai fini della valorizzazione, prevede l’affidamento o la concessione di tali beni a istituzioni, fondazioni e società private; disciplina inoltre le sponsorizzazioni, che possono essere riassunte in tre tipi: la prima prevede una donazione modale, un atto di mecenatismo, la seconda si configura come un atto di liberalità in occasione di servizi resi, la terza ha le forme del contratto atipico a titolo oneroso ove si manifestano gli interessi 88 Manacorda (2007), pp. 82-83. 517 commerciali del privato (in questo caso la sponsorizzazione può consistere in un servizio svolto, prestazione tecnica, o nel versamento di una somma di denaro, prestazione pura); a queste si affianca poi la stipulazione di protocolli di intesa con fondazioni bancarie che, per statuto, perseguono scopi di utilità sociale89. Nel caso in cui lo sponsor sia mosso da interesse economico si stipula un contratto, che contempli sia gli interessi privati sia quelli della tutela: in questo modo le Soprintendenze, o gli enti preposti, si impegnano dietro compenso ad associare alla propria attività il nome o il marchio dello sponsor che, a sua volta, con tale operazione promuove la propria immagine. Le potenzialità di sponsorizzazione nel campo dei beni culturali sono state accresciute sia dal Codice dei contratti, che disciplina e semplifica la materia, sia dalle modifiche apportate nel 2008 al Codice dei beni culturali, che ampliano l’ambito applicativo (d.lgs. 62 del 2008)90. Per quanto attiene al regolamento dei contratti, infine, le norme hanno subito un’eccezionale deroga in seguito ai crolli di Pompei: per favorire l’apporto di sponsor privati è stata predisposta una procedura estremamente semplificata91. Con le sponsorizzazioni, i privati hanno l’opportunità di promuovere la propria immagine per tempi abbastanza lunghi, utilizzando materia di rinomanza mondiale e godendo di sgravi fiscali: si tratta di operazioni pubblicitarie a costo zero o quasi. Nonostante gli evidenti vantaggi, l’apporto degli imprenditori non solo appare ancora limitato, ma mostra una preoccupante flessione negli ultimi tre anni, fenomeno analizzato in recenti convegni92: causa principale è l’attuale crisi economica, che andrebbe affrontata offrendo agli investitori strumenti concreti per valutare il loro investimento e 89 Tamiozzo (2009); Piperata (2008). Fantin (2011). 91 La legge n. 75, del 26 maggio 2011, per l’assolvimento degli obblighi di trasparenza ed economicità prevede la pubblicazione di un avviso, per trenta giorni, nella Gazzetta Ufficiale, nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea e su due quotidiani a diffusione nazionale; nel caso di candidature assenti o insufficienti il soprintendente ha facoltà di cercare altri sponsor e sottoscrivere con essi un contratto mediante trattativa privata. 92 Si veda la giornata di studi Mecenatismo e sponsorizzazioni per il Patrimonio Culturale svoltasi a Firenze il 1° marzo 2012, organizzata dal Cesifin, l’Università di Firenze e l’Università di Parigi Sud, per confrontarsi anche con esperti europei su mecenatismo e sponsorizzazioni per il patrimonio culturale. 90 518 prevedendo una pianificazione in stretta collaborazione tra gli enti preposti e gli investitori e una valorizzazione del sistema culturale sul web per catturare l’attenzione di una audience mondiale. Anche le Regioni cercano di porre rimedio a questa tendenza e hanno organizzato gli Stati Generali della Cultura in sede di Conferenza delle Regioni: Mario Caligiuri, assessore alla Cultura della Regione Calabria e coordinatore della Commissione beni culturali della Conferenza delle Regioni, ha dichiarato all’Adn-kronos: «Abbiamo un patrimonio straordinario che non è né messo a reddito, né messo in rete»; e ancora che esiste il bisogno di «un’azione congiunta tra settore pubblico e privato per valorizzare il vero petrolio del nostro paese: i beni culturali»93. In questo dibattito si inseriscono le note vicende legate alla sponsorizzazione del restauro del Colosseo: la convenzione stipulata a Roma tra il Commissario delegato per la realizzazione degli interventi urgenti nelle aree archeologiche di Roma e Ostia Antica, la Soprintendenza speciale per i Beni archeologici di Roma e la Tod’s s.p.a. prevede che l’oggetto della sponsorizzazione consista in un contributo in denaro destinato al restauro. Con il contratto la Soprintendenza si impegna a: non concludere con terzi altri accordi di sponsorizzazione per i lavori di restauro dell’Anfiteatro Flavio, non concedere a terzi l’uso, a qualsiasi titolo, di marchi, nomi, immagini o altri segni distintivi relativi al Colosseo con riferimento ai lavori di restauro, non concedere a terzi il diritto di associare a fini pubblicitari la propria immagine al Colosseo e/o ai lavori di restauro, non concedere a terzi diritti in grado di ledere gli interessi dello sponsor perseguiti con il presente accordo. Lo sponsor infine, mediante la fondazione Amici del Colosseo, ha facoltà di promuovere l’iniziativa a livello internazionale e allo stesso tempo rendere più accessibile il monumento «alle categorie dei giovani, dei diversamente abili, dei pensionati e dei lavoratori»94 . Come è noto, da parte della Codacons e della UIL Bac sono state ravvisate irregolarità nell’iter procedurale e quindi è stata esposta 93 http://www.regioni.it/it/show-cultura_le_regioni_scommettono_sul_petroliodellitalia adnkronos_/news.php?id=245902. 94 Pagina web di presentazione sul sito del MIBACdellhttp://www.beniculturali.it/ mibac/export/MiBAC/sito-iBAC/Contenuti/MibacUnif/Comunicati/visualizza_asset.html_ 1717154490.html. 519 una denuncia agli organi competenti; dopo l’emissione dei pareri delle differenti autorità si è dovuto attendere il giudizio finale, positivo, del TAR95. Nel frattempo nel decreto sulle semplificazioni del Governo Monti è stata apportata una modifica al Codice dei contratti pubblici, nel quale è stato introdotto l’articolo 199-bis che riguarda le procedure di sponsorizzazione di beni culturali e che in parte legittima l’operato dei contraenti nel caso dei restauri del Colosseo. Questa vicenda assume un valore simbolico nell’ambito delle sponsorizzazioni culturali, una sorta di punto di non ritorno. Se da un lato evidenzia le difficoltà operative, legate a un intricato apparato legislativo, dall’altro mette in luce una cattiva abitudine invalsa in Italia: in nome di un pragmatismo di necessità, date le difficoltà drammatiche in cui versano sia i beni archeologici che l’amministrazione pubblica, è meglio utilizzare comunque le risorse economiche private, trascurando gli aspetti formali legislativi o emettendo leggi ad hoc che risolvano il problema. Un altro fattore che non va assolutamente tralasciato, dato il momento topico, è che concedere l’esclusiva dell’immagine di un monumento come l’Anfiteatro Flavio a un privato è preoccupante perché riporta a una concezione del bene archeologico come ricchezza monetaria, di cui ci si può appropriare, come si fa col petrolio per l’appunto. Utilizzare i monumenti per farsi pubblicità esclusiva comporta il rischio di mortificarne la 95 La stazione appaltante, e cioè il commissario e la Soprintendenza di Roma hanno inizialmente pubblicato un avviso per la ricerca di sponsor che si prendessero l’incarico del restauro del Colosseo; poiché le domande dei partecipanti sono risultate inappropriate alla scadenza del bando, si è deciso di procedere ad una procedura negoziata volta unicamente all’affidamento finanziario cui sono state invitate a partecipare Ryan Air, la Fimit Sgr e la Tods s.p.a. (l’unica che però ha indicato la scadenza della propria offerta). Il 21 gennaio 2011 si è raggiunto l’accordo con Della Valle. Tra il novembre e il marzo 2011 la Codacons e la UIL Bac hanno denunciato la convenzione agli organi competenti sia perché l’iter procedurale sembrava concordato, sia perché il tempo di concessione dei diritti di immagine è eccessivamente lungo. L’Antitrust, con una delibera del 14 dicembre, evidenziando scorrettezze nei modi e nei tempi della trattativa privata, ha bocciato l’accordo. Il 18 gennaio la UIL Bac, sentendosi al centro di un fuoco mediatico, ha ritirato l’esposto. Il 9 febbraio 2012 l’Autorità per la Vigilanza sugli Appalti Pubblici ha giudicato regolare la gara; nel marzo 2012, infine, l’Antitrust ha cambiato opinione: viste le osservazioni contrapposte da parte della Soprintendenza e gli sviluppi legislativi nel frattempo intercorsi, giudica regolare l’operazione. La decisione del TAR, dopo svariati rinvii, è stata emessa il 5 febbraio 2013 ed è stata a favore dei restauri. 520 conoscenza a causa del tipo di linguaggio proprio del mondo pubblicitario, di renderla superficiale e spettacolare e anche di assegnarle un significato ideologico partigiano, immerso nella simbologia capitalistica totalitaria e globalizzante. Eppure in Italia esistono altri casi di sponsorizzazione che possono essere considerati esemplari nella cura del patrimonio archeologico, primo fra tutti l’Herculaneum Conservation Project 96: tale iniziativa pubblico-privata fu avviata nel 2001 dall’allora Soprintendente P.G. Guzzo e da David W. Packard, figlio del cofondatore del colosso dell’informatica HP e presidente del Packard Humanities Institute, fondazione senza scopo di lucro con sede in California97; nel 2004 si aggiunse come terzo partner la British School at Rome stipulando un contratto di sponsorizzazione che ha permesso di fornire supporto operativo e di commissionare direttamente i lavori, evitando i ritardi dell’iter amministrativo. Con un investimento totale di circa 16 milioni di dollari, grazie all’ottimizzazione delle risorse finanziarie, si è provveduto in un decennio alla messa in sicurezza del sito, al miglioramento dell’accesso, al rifacimento delle coperture, al consolidamento delle strutture antiche; inoltre è stato reso attivo un sistema di documentazione che agevoli la gestione del sito per accrescerne la conoscenza archeologica, per avviare strategie conservative a lungo termine, per pubblicare e quindi promuovere una più ampia conoscenza. Il progetto, nonostante le poche attenzioni riservate dalla passata legislatura98, si è configurato non come una mera operazione pubblicitaria ma come un intervento di supporto, costante e a lungo termine, alla conservazione e alla valorizzazione di Ercolano: situazione abbastanza singolare se si pensa allo stato in cui versa Pompei, distante solo pochi chilometri. In contemporanea, è stato creato dall’Associazione Herculaneum, composta dal Comune di Ercolano, la Soprintendenza Archeologica di Pompei e la British School at Rome, il Centro Internazionale per gli Studi di Herculaneum che, tra le 96 http://www.herculaneum.org/hcp-home/. Alla direzione del progetto fu invitato l’archeologo A. Wallace-Hadrill, allora direttore della British School at Rome, che ha agito di concerto con una commissione scientifica internazionale. 98 Si veda l’articolo ad opera di F. Erbani sulla Repubblica del 14 luglio 2011, p. 21, dove si cita il rapporto di una Commissione UNESCO che valuta in maniera critica l’attività del ministero a Pompei, principalmente volta all’entertainment archaeology, e segnala come esemplare il caso di Ercolano. 97 521 altre iniziative, cerca di far partecipare la comunità locale a un programma di attività legate al sito, per stabilire una relazione più stretta fra la popolazione e il proprio patrimonio culturale. Ed è proprio sulla partecipazione della comunità civica ai beni culturali che si sono sviluppati gli studi più recenti sulle donazioni private99. A differenza di altri paesi europei, in Italia le imprese donano molto di più rispetto ai singoli, poiché possono dedurre totalmente dal reddito la somma versata, mentre le singole persone possono detrarre dall’imposta lorda solo il 19% della donazione100; si è osservato inoltre che il primo stimolo che induce i cittadini alla donazione a favore del patrimonio culturale è di carattere etico-sociale, sebbene esista una sfiducia generalizzata nella gestione pubblica della somma donata. Secondo un autorevole studio inoltre: «Nel campo della cultura si è spesso sottolineata la debolezza operativa di un sistema di incentivi fiscali, ma non si è mai analizzato a fondo il ruolo della cultura civica, che nei secoli è stata la sola e principale fonte delle donazioni per la cultura. Anzi, in molte occasioni il contributo dei privati per la cultura è stato associato tout court alla politica degli sgravi fiscali. Di fatto le ragioni reputazionali e quelle pro-sociali sono sottovalutate, né sono note specifiche politiche pubbliche per rafforzare le altre diverse motivazioni»101. Ciò che attrae maggiormente le persone sembra quindi non essere il tornaconto economico, ma la possibilità di contribuire al valore del patrimonio culturale inteso come valore intergenerazionale, come bene comune. Per favorire tale atteggiamento positivo è necessario garantire un maggiore livello di trasparenza, valorizzare la dimensione locale e promuovere la partecipazione attiva dei cittadini: perché pare che siano interessati più a questa occasione comunitaria che al petrolio. 99 Si vedano gli atti del convegno Donare si può? Gli Italiani ed il mecenatismo culturale diffuso, svoltosi a Roma il 3 dicembre 2009 con i risultati dell’indagine promossa dall’Associazione Civita, il Comitato Tecnico-scientifico per l’Economia della Cultura del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC) e l’Ufficio Studi dello stesso Ministero, http://www.civita.it/centro_studi_gianfranco_imperatori/pubblicazioni/i_ quaderni/donare_si_puo_gli_italiani_e_il_mecenatismo_culturale_diffuso. 100 Valentino (2009), p. 28. 101 Bertacchini, Santagata, Signorello (2009), p. 111. 522 6. I beni comuni dell’archeologia: «rivalità» materiale e intellettuale, nuovi modelli di sviluppo La Commissione Rodotà sui Beni Pubblici, durante l’attività svolta negli anni 2007-2008, per sottrarre il patrimonio archeologico a una logica di proprietà sia pubblica che privata lo ha inserito nella categoria dei beni comuni102. Se questo è teoricamente e ideologicamente molto corretto, oggi fa paura; anzitutto perché in un mondo in balia di interessi e guerre economiche che non hanno riguardo per gli esseri umani, in un mercato libero e selvaggio che non segue alcun tipo di regole, affidare il patrimonio archeologico a una teoria così progressista piuttosto che farlo proteggere da un’autorità statale, riconosciuta e consolidata, sembra un azzardo; meglio riaffermare il ruolo fondamentale degli istituti pubblici. In secondo luogo perché il patrimonio archeologico, se inteso come bene comune, si trova in una situazione poco invidiabile. La teoria difatti distingue i beni comuni in beni materiali, che possono essere dissipati dallo spirito non comunitario di chi li utilizza, detti «rivali», e beni immateriali riferibili alla conoscenza condivisa, immuni da tale pericolo e quindi detti «non rivali»103: i beni archeologici posseggono un duplice status di «rivalità», sia come beni materiali sia come beni della conoscenza. Nonostante le difficoltà di sviluppo di un sapere scientifico condiviso da parte di tutta la comunità archeologica, la conoscenza dei fenomeni antichi è oggi più approfondita, grazie ai progressi della disciplina: tende inoltre ad essere più aperta e diffusa per merito dei seguaci dell’ArcheoFOSS. Allo stesso tempo l’abitudine a considerare il patrimonio archeologico anzitutto come una ricchezza da far fruttare economicamente comporta un pericolo grave: per raggiungere il più ampio numero di visitatori e spettatori, per attrarre al massimo la “clientela”, per avere la maggiore risonanza mondiale, si rischia di spettacolarizzare in maniera eccessiva i resti archeologici104. Senza voler essere elitari, se si rivolge l’attenzione princi- 102 Cfr. Settis (2010), pp. 292-293, Zannino (2010). Hess, Ostrom (2009). 104 Se si tiene presente che i tagli ai fondi statali in Italia hanno coinvolto non solo il MIBAC ma anche il MIUR e che i professori per finanziare le loro campagne di ricerca devono attrarre eventuali sponsor, si intuisce quanto profondo sia questo rischio. 103 523 palmente agli introiti, in un ambiente fortemente condizionato dal linguaggio pubblicitario e in assenza di una forte alternativa di comunicazione, l’impoverimento culturale nella fruizione dei beni archeologici appare sempre più probabile: già si ravvisa una certa tendenza a una concezione spettacolare che mette in risalto solo gli aspetti magnifici e straordinari dell’antichità, riducendo a volte il racconto storico a un gossip televisivo e trascurando i temi fondamentali della condizione dell’uomo, delle sue conquiste e delle sue capacità di progresso civile. Questo tipo di cultura, simile a quella televisiva di ampio consumo e basso livello che ormai permea la nostra società, che ha contagiato il pensiero occidentale, tende a sostituirsi in maniera «rivale» a un sapere cosciente dei beni archeologici, soppiantandolo drammaticamente. A dispetto delle innovazioni tecnologiche, si rischia di tornare a un approccio ai monumenti antichi tipico dei Mirabilia, i racconti fantastici del Medio Evo. Per quanto riguarda il patrimonio archeologico inteso come bene comune materiale, la «rivalità», il rischio di tragedia distruttiva105, è nella natura stessa dei resti antichi e delle relazioni che questi hanno con il mondo contemporaneo. Che il rapporto sia conflittuale è assodato; gli scavi archeologici, i centri antichi delle città e buona parte del paesaggio italiano, luoghi pregni di storia e di memoria, generano un contrasto tra passato e presente che va ogni volta ricomposto faticosamente: conflittualità così alta da far dichiarare in maniera coraggiosa a Carandini che: «Non ci si può nascondere che, ove la Costituzione venisse applicata in modo rigido, nessuna opera potrebbe essere attuata in Italia, per la presenza diffusa e densa nel nostro territorio di civiltà sepolte»106. Se alla capillarità del patrimonio culturale e paesaggistico si aggiungono le poche risorse a disposizione degli enti di tutela, la speculazione edilizia e i piani casa, i condoni, l’uso improprio degli oneri di urbanizzazione da parte dei Comuni, fonte primaria d’introito che li rende permissivi nelle autorizzazioni a costruire107, così come numerose altre abnormità italiane, la forza degli agenti di105 Ci si riferisce qui alla nota teoria della tragedia dei beni comuni elaborata da G. Hardin, cfr. Hardin (1968). 106 Carandini (2008), p. 157. 107 Settis (2010), pp. 17-43. 524 struttivi diventa molto alta. Né lo scavo archeologico riesce ad attenuare tale pericolo, anzi lo moltiplica: «Non c’è manuale di scavo che non ci ricordi che ogni operazione di dissotterramento è per definizione un’operazione due volte distruttiva, perché distrugge ciò che indaga smontandolo e perché espone al degrado i resti che decide di non smontare»108. Meglio risotterrare le evidenze archeologiche portate alla luce piuttosto che lasciarle abbandonate a se stesse, distaccate dal contesto che le circonda e fatiscenti, pronte a divenire ricettacoli di immondizia che, specialmente nelle periferie, contribuiscono a rendere ancora più estraniante e triste il paesaggio suburbano109: solamente nei parchi archeologici oggi la relazione fra paesaggio, antichità, natura ed esigenze del mondo contemporaneo risulta ottimale, ma si tratta chiaramente di casi eccezionali. Vanno inoltre considerati gli effetti del turismo di massa, non diversificato nelle offerte e nei contenuti, che smuove eserciti di persone e li porta a visitare in tempi molto ristretti sempre gli stessi posti: eppure è la sola attività su cui si è investito molto negli ultimi anni in Italia, date le possibilità di introito; questa, oltre ad essere diventata quasi l’unica occasione di lavoro per i cosiddetti operatori culturali110, reca uno stress constante e distruttivo per i monumenti antichi, non controbilanciato da corrispettive misure di tutela. La ricetta per questo stato di fatto è ovvia: consiste nell’investire maggiormente nei beni archeologici e culturali in genere, di trovare nuovi modelli di sviluppo incentrati sul nostro patrimonio storicoartistico, così come evidenziato dalla Costituente della Cultura, iniziativa lanciata recentemente dal quotidiano Il Sole 24 Ore, e che ha registrato moltissime adesioni111. Occorre anzitutto ripotenziare gli enti di tutela e di ricerca dello Stato, con fondi e soprattutto con nuove, numerose assunzioni. Inoltre così come sono diffusi capillarmente i beni archeologici è necessario intervenire in maniera diffusa su tutto il territorio, utilizzando professionisti che collaborino con le associazioni culturali, gli enti locali e i privati nell’opera di ricognizione, tutela e valorizzazione dei beni culturali, che si confrontino con la popolazione locale per 108 Manacorda (2007), p. 82. Ricci (2006), p. 69. 110 Carandini (2012), p. 87. 111 Si veda l’edizione domenicale de Il Sole 24 Ore del 19 febbraio 2012. 109 525 far capire alle persone che i ruderi che li circondano, anche se sembrano muti, invadenti e inutili, possono essere invece parte di un modello di vita migliore, più cosciente, collaborativa e civile: «Siamo il risultato ultimo di generazioni, genealogie ed antenati, e nello sviluppo della vita in un certo luogo siamo esseri ora del passato, ora contemporanei e ora anche del futuro, se riusciamo a prefigurare un mondo che potrebbe diventare di tutti. L’idea dei giovani d’oggi che per vivere basti una presa diretta ed esclusiva con il presente è una illusione per semplici, segno di una estrema povertà mentale (gli animali non ricordano i loro morti)»112. Questo tipo di idee giovanili rendono le persone sole, alienate e aggressive. E tuttavia, malgrado questo atteggiamento che lega i giovani soprattutto al presente, si intravede anche un interesse diffuso per i beni culturali intesi come retaggio generazionale, come lustro della nazione. Su queste leve bisogna lavorare per rendere partecipi tutti i cittadini e coinvolgerli nell’attività di valorizzazione culturale e ambientale affinché arricchiscano la propria vita. Il miglioramento di tale status esistenziale non solo reca evidenti vantaggi economici, ma trasforma i cittadini stessi in risorse importanti su cui si può contare. Per realizzare tale attività di valorizzazione culturale e civile bisognerebbe investire anzitutto nel grande numero di archeologi, storici dell’arte e altre figure professionali che oggi operano nel campo dei beni culturali in Italia; contrariamente a quanto si dice, si tratta di professionisti con una forte preparazione scientifica e con una vasta esperienza sul campo, che possono essere il motore di un nuovo modello di sviluppo; è un serbatoio di persone che va dai 25 ai 50 anni, che svolge da anni un lavoro faticoso, poco remunerativo e precario113 ma che, nonostante tutto, ancora si appassiona e crede in quello che fa. 112 Carandini (2008), p. 130. Si veda il censimento sulla condizione degli archeologi italiani promosso dall’Associazione Nazionale Archeologi, in Barrano, Cevoli (2011), e il rapporto sullo stato della professione di archeologo, a cura della Confederazione Italiana Archeologi, in Leoni, Magliaro (2011). 113 526 Riferimenti bibliografici Aime M., Cossetta A. 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