Nómadas. Revista Crítica de Ciencias Sociales y Jurídicas | 14 (2006.2)
SUL RACCONTO IN SOCIOLOGIA
LETTERATURA, SENSO COMUNE, NARRAZIONE SOCIOLOGICA
Mario Longo
Università degli Studi di Leche
mlongo@economia.unile.it
I Premessa
Di quale materiale è fatta la società? Che cosa la rende un oggetto di studio così particolare, onnipresente e
insieme evanescente, intorno a noi (forse anche dentro di noi, come voleva Durkheim e molti dei sociologi
del passato e del presente) eppure così difficile da definire? Si tratta di domande banali e insieme
complesse. La banalità dipende dal fatto che a noi tutti sembra possibile, intuitivamente, definire il concetto
di società, tant’è che utilizziamo correntemente il termine, ad esempio nel linguaggio quotidiano,
giornalistico, politico. La complessità deriva invece dal fatto che non c’è accordo, neppure tra gli specialisti,
sulla sua definizione. Il dibattito sociologico sul rapporto tra individuo e società, processo e struttura, micro e
macro, e la conseguente nascita di tradizioni teoriche tra loro fortemente conflittuali, deriva prioritariamente
dalla difficoltà di definire con accuratezza l’oggetto. Il problema ontologico è stato spesso avvertito dai
sociologi come il segno dell’incompiutezza scientifica della loro disciplina. Memori delle critiche loro rivolte da
Kuhn, che sottolineava l’assenza, nelle scienze sociali e nella sociologia in particolare, di un paradigma
unitario, i sociologi hanno avvertito come deminutio la preparadigmaticità del loro sapere (Corbetta, 1999,
pp. 17-20).1
Per rispondere a queste critiche, si sono rafforzate due linee di sviluppo della disciplina, presenti già nelle
diverse posizioni della sociologia francese (Durkheim) e tedesca (Simmel, Weber) tra Otto e Novecento: da
un lato, si è cercato di individuare metodi e tecniche scientificamente rigorose, capaci di estrarre dai fatti dati
empirici insieme validi e attendibili; dall’altro, si è sottolineata la sostanziale incommensurabilità della realtà
sociale con qualunque altro oggetto di studio, e si è dunque rivendicata una forte specificità metodologica
della disciplina (Statera, 1997, pp. 228-229). Confrontandosi con la coerenza (almeno apparente) di altri
ambiti disciplinari, il dibattito sociologico ha tentato a livello teorico e insieme metodologico, di proporre
approcci unitari, in cui far convergere la complessità del sociale, la sua capacità di abbracciare tutto, dal dato
infinitamente piccolo delle micro relazioni (ad esempio l’indifferenza civile tra estranei di cui parla Goffmann)
all’infinitamente grande delle interdipendenze tipiche della società globalizzata. Basterebbe citare autori
come Giddens (1990), Collins (1992), Habermas (1986), basterebbe ripensare in maniera né polemica né
celebrativa a sociologi del calibro di Elias (1990) e di Luhmann (1990), per evidenziare come la sociologia
contemporanea si fondi, soprattutto a livello teorico, sullo sforzo se non di costruire una scienza unitaria, di
proporre almeno modelli integrati in cui perdono di significato le differenze poste a spartiacque tra tradizioni
teoriche e di ricerca differenti.
L’incompiutezza di questi sforzi è probabilmente costitutiva della sociologia come approccio disciplinare e
rimanda ad una consapevolezza, in gran parte già acquisita all’interno delle scienze sociali, della sociologia
in particolare: l’oggetto società può difficilmente essere ridotto ad un’unica dimensione. Si tratta di un
oggetto multi-dimensionale, definito da un termine passpartout (società, per l’appunto), in grado di includere
il micro delle relazioni (un incontro a due, un convegno), il meso delle istituzioni (ad esempio
un’organizzazione complessa), il macro di ambiti specifici e differenziati (i sistemi sociali), ma anche il macro
diacronico di processi difficili da definire e delimitare, eppure in grado di condizionare al contempo la
dimensione micro, meso e macro della società (si pensi ad esempio al cambiamento della struttura sociale,
al mutamento culturale, ai fenomeni legati alla globalizzazione in atto, ecc.). Sarebbe d’altronde semplicistico
ridurre l’interconnessione delle dimensioni sociali a questioni puramente teoriche e metodologiche, nel senso
che macro, meso e micro sono comunque in grado di attivare forti condizionamenti sugli attori sociali: a
prescindere dal problema teorico della collocazione dell’attore sociale (all’interno o all’esterno della società?)
è innegabile che il soggetto sperimenti nella sua biografia il potere dei legami, dei vincoli e dei processi
sociali. La società si presenta all’esperienza soggettiva con caratteri spesso coercitivi, nel senso che essa
sembra in grado di permeare le nostre azioni e i nostri pensieri, definendo possibili percorsi biografici,
condizionando i nostri comportamenti, probabilmente anche il nostro modo di sentire e provare emozioni,
sicuramente le interazioni tra individui e macrostrutture. E ciò è evidente nella società contemporanea forse
più che in passato: i processi sociali in atto (globalizzazione, flessibilizzazione, polverizzazione della
modernità) evidenziano la capacità della società di condizionare le scelte di vita non solo del soggetto, ma di
intere comunità, determinando percorsi biografici individuali e collettivi, delimitando così le possibilità di autorealizzazione (Baumann, 2001; Sennet, 2001).
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L’accenno alla complessità dell’oggetto società giustifica a mio avviso la molteplicità degli approcci che i
sociologi hanno utilizzato per analizzare la realtà sociale. La complessità multiforme del sociale legittima la
compresenza di una pluralità di metodi e di tecniche di cui il sociologo si dota, di volta in volta, per spiegare
e comprendere aspetti specifici della realtà da indagare. Si tratta di metodi e tecniche codificati che hanno
però tutti il carattere della provvisorietà, nel senso che vanno calibrati e modulati in relazione al problema
specifico oggetto di analisi. La conoscenza empirica si struttura per frammenti, per selezioni parziali della
realtà sociale presa ad oggetto di analisi, fornendo approssimazioni significative dell’oggetto (sia esso micro,
meso oppure macro) senza peraltro aggredirne mai la complessità. E ciò a prescindere dal fatto che il
ricercatore faccia uso di sofisticate tecniche di tipo statistico-quantitativo, magari allo scopo di validare
ipotesi in riferimento a specifici approcci teorici, oppure si proponga di descrivere la realtà utilizzando
tecniche più flessibili, utili per analizzare qualitativamente specifici contesti sociali.
Che il sapere sociologico sia provvisorio e instabile non è né un difetto né un limite della sociologia come
scienza. Kuhn e Popper, per citare solo due nomi tra i più noti, hanno messo in evidenza la provvisorietà del
sapere scientifico, il quale si fonda per il primo sulla sua coerenza rispetto a un paradigma (peraltro sempre
modificabile), per il secondo sulla costante possibilità della sua falsificazione. Vero/falso è il codice binario
sul quale si costruisce, secondo Luhmann, il sistema sociale della scienza, in cui il binomio ha senso solo se
si presuppone che la verità sia provvisoria, legata al contesto e alle conoscenze attuali e possa dunque,
sempre e comunque, dimostrarsi la falsità del vero. Sempre secondo Luhmann, la scienza è l’ambito della
società in cui si è istituzionalizzata la disponibilità costante all’apprendimento, nel senso che le aspettative
che al suo interno si strutturano sono aspettative cognitive, cioè provvisorie, dunque sempre sottoponibili a
revisione (Luhmann, 1992).
La consapevolezza dell’instabilità del vero sembra aver scardinato la granitica convinzione, tipica del
positivismo, nella capacità del sapere scientifico di riflettere oggettivamente la realtà. Ciò vale anche per le
cosiddette hard sciences, quelle discipline cui la sociologia ai suoi esordi si volgeva fiduciosa allo scopo di
acquisire metodologie certe e attendibili per conoscere la società, individuare le cause dei fenomeni,
prevederne gli sviluppi futuri, proporre ricette adeguate per la risoluzione dei problemi sociali. La caduta del
mito positivistico dell’oggettività della scienza, se da un lato ha reso meno drammatica (forse addirittura
irrilevante) la classica distinzione tra Naturwissenshaften e Geistwissenschaften, dall’altro ha rappresentato
uno stimolo per la sociologia alla riflessione sulla specificità del proprio sapere, anche in relazione a
questioni epistemologiche più generali, emerse all’interno di altri ambiti disciplinari. La crisi del primo
positivismo e della connessa convinzione che la scienza sia in grado di cogliere per riflesso le caratteristiche
essenziali della realtà nonché la persuasione, che da quella crisi emerge, secondo cui il sapere è sempre
parziale, limitato, legato alle rilevanze dell’osservatore e al punto di vista dell’osservazione, consentono al
sociologo di acquisire come risorsa la provvisorietà del proprio sapere e come ricchezza la
multidimensionalità del sociale (Corbetta, 1999, pp. 27-32).
Di fronte alla pluralità delle definizione del sociale, quanto è plausibile professare unità metodologica? O non
è preferibile adottare una molteplicità di metodi e tecniche che in certa misura riescano a dar conto, nelle
singole esperienze empiriche, degli aspetti specifici di volta in volta presi in considerazione? Che cosa rende
unitario il sapere sociologico, al di là delle differenze di metodi e di approcci, al di là delle differenze di stili
attraverso i quali si interroga il sociale? Si tratta di domande di grande rilevanza a cui non posso che
accennare nello spazio limitato di questo mio intervento. C’è però un elemento che, più di altri, tiene uniti i
diversi modi di indagare il sociale: in gran parte, i metodi di ricerca empirica si fondano sulla narrazione, su
un soggetto che racconta se stesso, che presenta aspetti della sua biografia al ricercatore il quale può, a
seconda dei casi, rivolgersi al racconto come fonte di dati da generalizzare (si pensi alla ricerca
campionaria), oppure considerare il racconto del sé nella sua unicità, nel tentativo di individuare i legami che
connettono dimensione biografica e dimensione sociale (è il caso, ad esempio, della storia di vita). La
sociologia presuppone un homo loquens, un soggetto disponibile alla narrazione di aspetti del suo sé e della
sua personale esperienza biografica. Nel caso in cui il soggetto rimane muto (si pensi allo studio di
documenti, alla comunicazione attraverso mass media, alla lettura di dati statistici, alle ricerche etnografiche,
le quali ultime, più che sul racconto, si fondano sull’osservazione) è il sociologo che si sostituisce alla
narrazione dell’attore sociale, collega i frammenti di realtà a sua disposizione, trasforma la sua spiegazione
causale in interpretazione possibile dei dati. Il sociologo dunque o racconta racconti, collegandoli alla teoria
attraverso tecniche sempre più sofisticate di tipo quantitativo o qualitativo, oppure racconta frammenti di
realtà che, a seconda dei casi, prendono le mosse da dati etnografici, documenti, forme della
comunicazione, dati statistici. In riferimento a questa molteplicità di dati, il racconto del sociologo trova
coerenza in particolari stili cognitivi, stili che fanno ricorso alla conoscenza disciplinare per manipolare il dato
in riferimento a teorie, impostazioni, concetti che specificano i caratteri della sociologia come scienza. La
coerenza è inoltre rafforzata da forme specifiche dell’argomentazione sociologica: si sta da qualche anno
infatti sviluppando il convincimento che la sociologia è anche uno specifico genere di scrittura, al cui interno
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l’argomentazione ha il compito di rendere coerente il discorso sociologico rispetto a convenzioni di natura
non solo teorica e metodologica, ma anche linguistica e culturale, le quali ultime, rafforzando l’impressione di
obiettività della narrazione, rappresentano il presupposto per la legittimazione di ciò che viene argomentato
(Dal Lago, 1994, p. 180 e sgg.; Colombo, 1998; Tota, 1998).
Questo sforzo di dar senso alla frammentarietà del dato non produce metanarrazioni alla Lyotard, che
semmai si presentano in sociologia nella forma delle grandi teorizzazioni, sintesi nelle quali il sociologo
cerca di dar conto in maniera selettiva della multidimensionalità del suo oggetto di studio (si pensi
all’esempio classico di Parsons). Ci troviamo piuttosto di fronte a narrazioni di “medio raggio”, in cui al
sociologo è imposto di dar voce ai dati, secondo modalità che, a partire da questi ultimi, si sviluppano
all’interno di una logica in certa misura imposta dai riferimenti teorici e dall’approccio metodologico adottato.
In queste narrazioni di “medio raggio” va rintracciata la capacità della sociologia di spiegare/comprendere
frammenti di realtà: una capacità che si fonda su presupposti teorici e metodologici tipicamente sociologici,
che rendono specifico il sapere della sociologia, differenziandolo da altre forme di approssimazione al reale.
II Tra sociologia e letteratura
L’interesse per la sociologia come genere di scrittura e per le forme stilistiche dell’argomentazione
sociologica consente di pensare al rapporto tra sociologia e letteratura, intese come forme differenziate di
conoscenza della realtà, non più allo scopo di sottolineare nette cesure, ma nel tentativo di individuare
omologie e differenze. Una prima omologia riguarda la rilevanza della narrazione e del racconto per la
conoscenza sociologica, sintetizzabile nell’immagine del soggetto come homo loquens. Se, infatti, il
sociologo racconta racconti, o ridescrive dati, proponendo, in entrambi i casi, una narrazione di tipo
specificamente sociologico, è davvero possibile differenziare in maniera netta la sociologia dalla letteratura,
il sociologo dal narratore? Quando non ha attivato indifferenza per la questione, il sociologo ha, a seconda
dei casi, o concepito se stesso come in grado di cogliere, più del narratore, i caratteri oggettivi della realtà
sociale, oppure ha invocato nella letteratura una chiave di lettura di aspetti del reale che i metodi sociologici
non possono che trascurare o rimuovere.
Il problema è complesso e ha in sé una molteplicità di implicazioni, legate comunque all’influenza che
sociologia e narrativa hanno esercitato l’una nei confronti dell’altra. Wolf Lepenies ha dimostrato come la
storia del pensiero sociologico sia, almeno in parte, la storia del processo di differenziazione della sociologia
dalla letteratura (Lepenies, 1987). Lungo tutto l’Ottocento e nei primi anni dello scorso secolo, sapere
sociologico e conoscenza letteraria si contendono la capacità di fornire rappresentazioni efficaci, realistiche
e eticamente orientate della realtà contemporanea. La sociologia si presenta con l’aggressività di una
disciplina in fieri e si propone come sapere scientifico in grado non solo di descrivere il mondo sociale, ma
anche di spiegare le cause dei fenomeni, proporre diagnosi sui problemi emergenti, prevedere sviluppi futuri.
Basterà che la sociologia faccia proprio il metodo delle scienze fisico naturali e, per i primi sociologi non vi è
dubbio, essa sarà in grado di comprendere i fenomeni nella loro essenza, rintracciare le leggi che guidano i
soggetti e determinano i caratteri delle strutture sociali. La conoscenza oggettiva della realtà sociale sarà
inoltre il fondamento per individuare soluzioni per i problemi emergenti dal processo di modernizzazione.2 La
scientificità (presunta o effettiva, poco importa) della nascente sociologia legittima la disciplina come
strumento efficace per comprendere in maniera esaustiva la realtà sociale: in relazione alla sua capacità di
individuare in modo oggettivo le cause dei fenomeni sociali, la sociologia sembra capace di distinguersi
nettamente da altre forme più impressionistiche di conoscenza della realtà, dalla letteratura in particolare.
Lepenies ricostruisce gli incontri e gli scontri tra sociologia al suo nascere e tradizione letteraria, mostrando
come, nonostante la proclamata netta distinzione tra scienza della società e rappresentazione letteraria del
sociale, nell’Ottocento fossero all’opera importanti processi osmotici, di mutua influenza e di reciproca
implicazione. E così che si scoprono nei letterati qualità implicitamente sociologiche, mentre i sociologi,
spesso a causa di vicende personali (è il caso ad esempio di Auguste Comte) riabilitano, dopo averne
negato ogni funzione, la forza evocativa della letteratura, il suo valore etico, la sua capacità di fungere da
collante sociale. In un periodo di esaltazione generalizzata per la scienza e per il progresso, il romanziere
può accorgersi del valore esplicativo dei concetti sociologici e proporsi di rappresentare nel romanzo la
realtà così come appare, anche nei suoi aspetti meno edificanti e più degradati. Può addirittura assumere
l’atteggiamento oggettivo dell’osservatore distaccato, scomparire dalla narrazione per dar voce
(positivisticamente) ai fatti. Il naturalismo in Francia, in forma meno rigida il verismo italiano, la tradizione dei
sociological novels in Inghilterra, sono altrettanti esempi di questo travaso (improprio?) dell’atteggiamento
oggettivo dello scienziato nella narrazione.
Al di là delle influenze reciproche, narrativa letteraria e conoscenza sociologica rimangono forme
sostanzialmente distinte di descrizione della realtà. Ciò dipende prioritariamente dall’esigenza, avvertita fin
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dai primi sociologi, di differenziare il proprio sapere, specificandone i caratteri. Nei classici, il percorso lungo
il quale si costruisce l’identità disciplinare si fonda o sull’analogia con le scienze fisico-naturali (Durkheim),
oppure sul tentativo di individuare forme specificamente sociologiche di conoscenza scientifica –dunque non
letteraria- della realtà sociale (Weber). Ciò ha prodotto una forma di conoscenza del reale che, per quanto
non unitaria, ha individuato comunque procedure e modalità proprie di descrizione dei fenomeni. Anche
quando la sociologia osserva e descrive il dettaglio, lo fa infatti non perché il dettaglio interessi in sé, ma
perché consente, ricorrendo alla forza esplicativa dei concetti sociologici, di argomentare sulle cause dei
fenomeni sociale, di individuare la loro funzione, di descrivere forme e maccanismi dell’interazione sociale.
Se di narrazione sociologica si può parlare, ha senso farlo solo a patto che si sia consapevoli che il racconto
sociologico è un racconto funzionale che il sociologo offre a un parassita necessario: la
spiegazione/comprensione della realtà.3 La realtà osservata e descritta serve infatti per dire altro rispetto
all’osservazione e alla descrizione: serve a individuare nessi causali, interpretazioni teoricamente fondate,
possibili generalizzazioni empiricamente motivate dei risultati. E ciò non solo nel caso delle survey e delle
ricerche effettuate utilizzando metodologie quantitative, ma anche nel caso delle indagini qualitative, basate
su lunghe interviste o sull’osservazione degli attori nel loro ambiente naturale. In questo secondo caso, se il
sociologo non si preoccupa della generalizzabilità dei risultati, si interroga comunque sulla loro trasferibilità,
cioè sulla loro potenzialità esplicativa per analizzare contesti analoghi. Pur narrando la realtà (si pensi a
sociologi del calibro di Goffman), il sociologo lo fa per spiegare/comprendere il mondo (Sparti, 1995; Fornari,
2002): la sua narrazione è dunque sempre funzionalizzata. L’interesse sociologico per la realtà è mediato
dal riferimento a concetti teorici e/o a procedure di ricerca che condizionano l’osservazione, impedendo al
sociologo di leggere il dato nella sua unicità, bensì come strumento per giungere a generalizzazioni
sociologicamente efficaci.4
La finalità del racconto letterario è, al contrario, il racconto medesimo, nel senso che solo a posteriori è
possibile rintracciare senso etico o insegnamento didascalico. Facendo riferimento a Lukács, si può
sostenere che le arti, e tra di esse la letteratura, costruiscono una conoscenza fondata sul particolare,
laddove le scienze, e tra di esse la sociologia, mirano alla generalizzazione, al passaggio induttivo dal
dettaglio all’universale. Sempre per Lukács, la letteratura si colloca a livello intermedio tra la conoscenza
frammentata e dispersa delle tipizzazioni quotidiane e il quadro sofisticato ma astratto della generalizzazione
scientifica: essa trascende infatti il dettaglio insignificante della vita quotidiana per proporre tipizzazioni
significative, in cui convivono l’unicità dei personaggi e il loro essere rappresentazione non solo metaforica
della realtà sociale, politica, economica (Luckács, 1971).
La scientificità del sapere sociologico, il suo riferirsi a concetti teorici e a procedure metodologiche più o
meno standardizzate, ha come conseguenza necessaria, oltre alla relativa indifferenza per il dettaglio, forme
specifiche dell’argomentazione, uno stile specifico, un’altrettanto specifica retorica, il che rende evidente, a
livello formale e sostanziale insieme, la distinzione tra sociologia e letteratura. L’analogia tra narrazione
letteraria e conoscenza sociologica, tra immaginazione del letterato e rappresentazione del sociologo
(analogia che deriva dalla rilevanza che in entrambe assume il racconto) si diluisce nel momento in cui si
tengono nel debito conto i differenti procedimenti cognitivi di approssimazione alla realtà. Nell’introduzione al
testo di Lepenies sopra citato, Alessandro Dal Lago sintetizza efficacemente questa differenza, collegandola
ai meccanismi – ovviamente dissimili – attraverso i quali sociologia e letteratura pretendono di fornire
rappresentazioni vere del reale. Ecco quanto sostiene Dal Lago:
“[P]erché un ramo del sapere divenga scienza, è necessario che si doti di una retorica … Nelle scienze
sociali, costituzione di una retorica significa soprattutto individuazione di un campo di argomenti specifici, di
uno stile espositivo particolare, di confini rispetto ad altre modalità dell’argomentazione. In sociologia, questi
obiettivi sono realizzati mediante un’epistemologia appropriata, cioè mediante un discorso sulla verità
sociologica”(Dal Lago, 1987, p. 12).
È nella necessità di definire la specificità del sapere sociologico, cui vanno connesse una epistemologia e
una metodologia capaci di legittimare le procedure empirico-conoscitive della disciplina, che va collocata la
difficoltà manifestata dai primi sociologi di comprendere la rilevanza delle rappresentazioni narrative della
realtà. Se, infatti, la sociologia degli esordi oppone la sua capacità esplicativa del reale alle possibilità
implicite nella rappresentazione letteraria, lo fa soprattutto allo scopo di legittimare la scientificità della
propria conoscenza e comprensione del mondo. È per questo che:
“[I]l conflitto in questione non riguarda due modi di descrivere il mondo, ma due modi di dire la verità sul
mondo, di stabilire valori e fini della società. Il conflitto tra sociologia e letteratura appare insomma come lo
scontro tra due pretese di autorità culturale” (ivi, p. 14).
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Il conflitto trova una sua soluzione sociologica, nel momento in cui ci si rivolge alla letteratura come specifico
campo di indagine. In questo caso, il sociologo si rivolge alla letteratura come oggetto delle proprie analisi,
riducendo nei termini dello stile cognitivo della sua disciplina la molteplicità delle implicazioni del discorso
letterario, ad esempio nel tentativo, come voleva Lucien Goldmann (1981) qualche anno fa, di individuare le
omologie tra il romanzo, nelle sue numerose manifestazioni, e la sottostante struttura socio-economica. Ma il
conflitto può anche diluirsi, perdendo completamente di significato sulla base della consapevolezza che la
letteratura fornisce una visione costitutivamente altra della realtà rispetto a quella proposta dalla sociologia:
una rappresentazione fittizia che, purtuttavia, offre al lettore, all’interno dei molti stili e generi letterari,
immagini della realtà più attente al dettaglio, forse più accurate, comunque diverse da quelle sociologiche.
Questa consapevolezza stempera le ragioni della opposizione tra sociologia e letteratura, modificando i
termini del dibattito, che da un iniziale lotta per la supremazia conoscitiva, tende ad assumere i caratteri di
un ragionamento sulle reciproche specificità.
III Il sociologo e i racconti
Homo loquens è il soggetto cui rivolge prioritariamente la sua attenzione il sociologo empirico: è un soggetto
da ascoltare, interrogare, a cui rivolgere, a seconda dell’approccio metodologico scelto, domande
circostanziate, strutturate sulla base di opzioni predefinite, oppure suggerimenti su temi di discussione più
ampi. Il linguaggio rappresenta comunque la base di partenza per l’analisi empirica della realtà sociale,
anche perché il linguaggio è uno dei materiali principali di cui è costituita la società. In questo senso lato, che
prescinde dalla stretta correlazione tra narrazione e letteratura, il sociologo ha per lo più a che fare con fonti
narrative, con racconti, resoconti, rappresentazioni del reale fornite dai soggetti.
Anche l’etnografo, che pure sostituisce al dialogo tra intervistatore e intervistato l’osservazione diretta sul
campo, ha bisogno di accedere al linguaggio in uso nel contesto sociale cui rivolge la propria attenzione, un
linguaggio che spesso assume caratteri gergali in ragione della natura subculturale del gruppo che viene
osservato. Lo stesso etnografo traduce le sue osservazioni in note narrative, in cui la descrizione del
contesto e la narrazione degli eventi è preludio per ulteriori elaborazioni, orientate dai concetti della
disciplina di riferimento (antropologie, sociologia, psicologia sociale) (Gobo, 2001).
Perfino laddove si voglia sottolineare la sempre minore rilevanza delle narrazioni prodotte localmente da
soggetti nell’interazione, e si voglia individuare come tratto tipico della modernità la rilevanza del sapere
veicolato attraverso narrazioni mediali, per comprendere sociologicamente la comunicazione
contemporanea, i media e i loro molteplici messaggi, abbiamo comunque bisogno di far riferimento alle
narrazioni che essi veicolano, approntando ad esempio metodologie sofisticate di analisi del contenuto,
tradizionalmente di tipo quantitativo (Berleson, 1952), orientate di recente anche in senso qualitativo
(Altheide, 2000).
A ben guardare, lo stesso questionario rappresenta un peculiare tipo di fonte narrativa: il ricercatore
prefigura già prima della somministrazione una serie di unità tematiche, legate, ad esempio, a
comportamenti, preferenze, opinioni, atteggiamenti, ipoteticamente presenti nell’universo di riferimento. È
anche vero che l’interesse del ricercatore non si concentra sull’unicità della singola narrazione, bensì sul
rapporto combinatorio tra variabili: l’unicità del soggetto viene, per così dire, infranta, dal momento che il
racconto dell’intervistato è (statisticamente) significativo solo in ragione della traduzione delle sue risposte in
simboli numerici, che danno conto non del suo atteggiamento, delle sue opinioni, delle sue preferenze, bensì
delle loro significatività statistica in relazione agli atteggiamenti, alle opinioni, alle preferenze del campione
individuato e, per inferenza, dell’universo.5 I limiti del questionario come fonte narrativa (gli stessi limiti che
rappresentano peraltro i motivi di successo dell’analisi campionaria nella ricerca sociologica empirica) sono
sostanzialmente due:
1.
anzitutto, il racconto che il questionario rende possibile è un racconto prefigurato dal sociologo, in
cui risulta limitata la libertà di scelta del soggetto tra percorsi alternativi. Il percorso tematico è già predefinito
e dunque ogni soggetto narra la stessa storia, proponendo variazioni sul tema che, sebbene
sociologicamente significative, sono narrativamente irrilevanti;
2.
in secondo luogo, l’unicità della singola narrazione perde rilievo dal momento che essa va,
necessariamente e coerentemente con la strategia metodologica di tipo quantitativo, tradotta in quello che
Lazarsfeld ha efficacemente definito linguaggio delle variabili.
Il sociologo in ultimo interpreta i dati numerici, le correlazioni statisticamente rilevanti, e propone un nuovo
racconto che a volte poco (o nulla) ha a che fare con l’autorappresentazione dei soggetti. Si tratta,
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parafrasando Geertz (1987, p. 25), di una thin narration, un racconto esile, sottile, basato su frammenti di
soggettività prima tradotti in dati numerici, successivamente ritradotti in narrazioni sociologiche grazie alla
capacità teorico-immaginativa del sociologo. Dei diversi caratteri della narrazione sintetizzati alla fine del
paragrafo, questa thin narration conserva in particolare l’ultimo, vale a dire la capacità del racconto di
costruire relazioni tra eventi, anche nella forma di nessi causali. Specifiche variabili (sesso, età, classe
sociale, ad esempio) vengono così individuate dal ricercatore come determinanti atteggiamenti,
comportamenti, adesioni a valori. Il tutto, ovviamente, all’interno dei confini cognitivi dell’approccio teorico
individuato e delle ipotesi di ricerca precedentemente formulate. Stili cognitivi e narrativi diversi (quello del
sociologo e quelli dei soggetti) si incontrano, senza necessariamente integrarsi, tanto che viene meno la
raccomandazione di Alfred Schütz quando, in una passaggio significativo e arduo dei suoi Collected Papers,
ricordava che i concetti nelle scienze sociali sono sempre concetti di secondo grado, concetti di concetti
dunque, dal momento che si basano sulla preintepretazione di senso comune dell’attore ordinario. Da
questa considerazione di natura ontologica, Schütz giungeva al postulato metodologico secondo cui il
sociologo deve rendere in linea di principio le sue tipizzazioni scientifiche adeguate alle tipizzazioni di senso
comune, vale a dire le tipizzazione degli attori nella loro esperienza aproblematica della realtà quotidiana
(Schütz, 1967, p. 44).
Sono ad ogni modo le metodologie qualitative che hanno fatto del racconto del soggetto il nucleo attorno al
quale si è definita la loro specificità rispetto alle più consolidate e strutturate metodologie quantitative. Il
racconto qualitativo ha natura diversa rispetto ai frammenti narrativi rinvenibili nel questionario: addensa
infatti in sé i caratteri del racconto quotidiano, propone eventi, sentimenti, aspirazioni e li connette all’interno
di una logica che è più vincolata a strategie narrative dell’intervistato di quanto non lo sia alle ragioni teoriche
e metodologiche del ricercatore. Il sociologo qualitativo opera facendo riferimento a dati derivanti da
narrazioni dense (thick), il che gli consente di proporre descrizioni sociologiche altrettanto dense (Geertz,
1987). Ciò può risultare in un eccesso di fiducia del sociologo nella sua capacità di fornire resoconti naturali
del soggetto e del suo mondo sociale, quasi che il racconto libero dell’intervistato rappresenti di per sé una
garanzia dall’astrattezza teorica e/o tecnica delle argomentazioni sociologiche.
Con un accento
probabilmente eccessivo posto sulle ragioni del soggetto e sulla rilevanza del suo narrarsi, i sociologi
qualitativi tendono a mettere in rilievo come il loro approccio metodologico più di altri sia in grado di dar voce
e evidenza ai meccanismi di costituzione del senso soggettivo della realtà sociale (Schwartz, Jacobson,
1987). Facendo perno, tra l’altro, sull’affermazione weberiana secondo cui la sociologia è scienza
dell’interpretazione del senso che gli attori attribuiscono al loro agire, i sociologi qualitativi hanno fatto ricorso
a una serie di resoconti, orali e scritti (interviste non strutturate, storie di vita, lettere, diari, brani di
conversazione ecc.) nella convinzione che attraverso questi materiali l’unità del soggetto nonché la sua
particolare visione del mondo, vengano meglio preservate nella loro traduzione sociologica.6 C’è però da dire
che almeno alcune delle tendenze della ricerca qualitativa, nel momento stesso in cui pongono il racconto
dell’attore sociale al centro del proprio interesse, costruiscono un’immagine esemplificata della narrazione.
Si attiva un atteggiamento metodologico in cui il racconto del soggetto viene concepito come resoconto
oggettivo di aspetti particolari del sociale: nei dati qualitativi sarebbe quindi racchiusa una verità più vera di
quella contenuta in altri dati sociologici, dal momento che è l’attore sociale che, raccontando se stesso,
fornisce un accesso diretto alla sua realtà (Silverman, 2002, pp. 182-186). La mistica del soggetto si traduce
in una visione irrealistica del rapporto tra soggetto, racconto del sé, realtà sociale rappresentata nel
racconto: si perde infatti di vista il fatto che ogni racconto è un resoconto parziale del reale, una traduzione
nei termini specifici dell’esperienza biografica del soggetto di aspetti limitati e circoscritti della realtà
indagata.7 I dati qualitativi, spesso strutturati come dati del resoconto narrativo di sé, riflettono la realtà non
solo da un particolare punto di vista, ma anche secondo strategie e retoriche della narrazione che hanno a
che vedere con processi di giustificazione e razionalizzazione ad hoc della esperienza soggettiva.8 Né
sarebbe possibile altrimenti, pena la trasformazione del soggetto coinvolto nel racconto in un osservatore
distaccato, capace di spiegare in maniera chiara e neutrale il complesso delle motivazioni che lo hanno
indotto all’azione, le proprie opinioni, i propri atteggiamenti, il contesto sociale in cui si situa l’azione.
Acquisire la consapevolezza della frammentarietà della narrazione del sé implica allontanarsi sempre più dal
modello realistico (secondo cui il racconto del soggetto è rappresentazione aderente alla sua soggettiva
percezione del reale), per giungere ad una tipo di analisi qualitativa che, memore della lezione di Garfinkel
(1967) e dell’etnometodologia, si fonda sull’individuazione delle caratteristiche strutturali del resoconto, sui
modi dell’argomentazione, sulle strategie ad hoc di costruzione di senso. All’interno di un’impostazione
metodologica del tipo proposto dall’etnometodologia, il racconto di sé appare come un resoconto che non
spiega l’azione, semmai ne fornisce giustificazioni ex post, collocando all’interno di una cornice
apparentemente coerente l’agire del soggetto e il contesto in cui esso ha luogo
.
Volendo schematizzare, i resoconti narrativi di tipo qualitativo sono stati utilizzati in sociologia in tre modi
sostanzialmente distinti, in certa misura tra loro incompatibili:
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1.
Al resoconto si fa riferimento per validare una particolare spiegazione teorica di specifici contesti o
processi sociali. È questo il caso di Sutherland (1937) che in The Professional Thief utilizza un lungo
resoconto autobiografico allo scopo di confermare la teoria della devianza come associazione differenziata.
Ci si potrebbe anche rifare ad altri classici, come ad esempio il Contadino polacco in Europa e in America in
cui l’intento dichiarato di Thomas e Znaniecki è quello di rintracciare nelle narrazioni biografiche
manifestazioni di singole personalità individuali le quali rappresentano punti di incontro tra soggetto e
società, e dunque forniscono al sociologo il presupposto per la spiegazione causale dei fenomeni, nonché
l’individuazione delle leggi sociali ad essi sottostanti9.
2.
L’analisi dei dati narrativi viene condotta sulla base dell’assunto secondo cui essi rappresentino
resoconti veritieri della realtà. In questo caso, il sociologo qualitativo cercherà di rintracciare unità tematiche,
questioni, atteggiamenti, in maniera non dissimile dal sociologo quantitativo, con l’obiettivo però non di
rinvenire significatività statistiche, ma rilevanze soggettive. È questa l’impostazione di fondo
dell’interazionismo simbolico, almeno a partire dalle sua sistematizzazione ad opera di Blumer (1969) 10.
3.
Il sociologo cerca di individuare le narrative, cioè i meccanismi retorici di articolazione del discorso
del soggetto, con lo scopo di rintracciare le forme attraverso le quali quest’ultimo costruisce la presentazione
del sé e della sua esperienza biografica. In questo caso, i dati qualitativi vengono considerati “come un
accesso a diverse storie o narrative, attraverso le quali le persone descrivono il loro mondo […] Questo
approccio sostiene che, abbandonando il tentativo di trattare le storie dei rispondenti come quadri veri della
realtà, ci si debba aprire all’analisi delle tecniche (culturalmente ricche) attraverso cui intervistatori e
intervistati, insieme, generano racconti plausibili del mondo” (Silverman, 2002, pp. 183).
Mutano, in queste tre diverse modalità dell’utilizzo del dato narrativo, i pressupposti di verità del racconto
soggettivo. Mutano anche gli stili teorici, cognitivi, in ultimo gli stili dell’argomentazione e della narrazione
sociologica. Non muta però la problematicità dell’applicazione, anche in questo caso, di quel principio di
adeguatezza cui sopra accennavo, che secondo Alfred Schütz dovrebbe rendere l’analisi sociologica
coerente con il senso che il soggetto attribuisce al suo agire e al mondo. Delle tre modalità, la seconda
sembrerebbe prendere sul serio la raccomandazione schütziana, dal momento che essa si propone di dare
rilievo al soggetto e alla sua rappresentazione del reale. Non è però necessario che una buona analisi
sociologica all’interno di quest’approccio rimanga ancorata al livello delle autorappresentazioni del soggetto.
Le tipizzazioni di secondo grado possono legittimamente fondarsi su linee interpretative in certa misura
incoerenti con la rappresentazione che il soggetto ha (o dà) di se stesso e del mondo. Nella prima modalità,
l’esperienza soggettiva è funzionalizzata alla validazione di un’ipotesi teorica, all’interno di un approccio che
ha chiari intenti nomotetici: il racconto di sé viene decontestualizzato, perde di rilievo il senso che ad esso
attribuisce l’attore e assume rilevanza il richiamo ai presupposti teorici, il che implica l’adozione di una logica
e di forme dell’argomentazione diverse rispetto a quelle di senso comune. Nella terza e ultima modalità, il
racconto del sé viene smembrato non tanto allo scopo di individuare il senso veicolato dal soggetto (scopo
semmai della seconda modalità), bensì alla ricerca degli accounts, cioè delle specifiche forme retoriche
quotidiane della rappresentazione di sé, della propria azione, del contesto in cui si verifica. L’individuazione
dei metodi quotidiani attraverso cui l’attore dà senso alla realtà o, in subordine, delle retoriche attraverso cui
egli dà ordine al proprio discorso, producono anche in questo caso costrutti di secondo grado nei quali è
improbabile che l’attore si riconosca.
Al di là delle differenze fra tradizioni teoriche e metodologiche spesso contrapposte, ciò che accomuna le
diverse modalità di analisi del sociale è il riferimento al senso, al modo in cui esso emerge nel racconto di un
attore al quale lo scienziato sociale rivolge la propria attenzione. Che sia un senso costruito nell’interazione
tra ricercatore e intervistato, o emergente da una serie predefinita di domande già strutturate, è l’homo
loquens che fornisce allo studioso, in ultima istanza, immagini della reale attraverso forme molteplici (più o
meno dense, più o meno libere, più o meno strutturate) della narrazione e del racconto. C’è a questo punto
da chiedersi: cosa significa narrare? Che cosa implica strutturare un racconto, e perché il racconto è
sociologicamente significativo? Se si prescinde dalle differenze tra le definizioni di narrazione presenti sul
mercato delle idee, narrare è anzitutto una forma di gestione della temporalità: la narrazione implica infatti
rappresentazioni linguistiche (scritte o orali poco importa) in cui si mettono in relazione eventi, oggetti, attori,
stati d’animo ecc., lungo una sequenza temporale che implica la distinzione di un prima da un dopo (Poggi,
2004, pp. 27-29). Narrare comporta selezionare, dall’infinità priva di senso del reale, aspetti cha appaiono
significativi e rilevanti. Implica inoltre la messa in relazione di quegli aspetti, attraverso l’individuazione di
nessi dotati di senso (ivi, p. 28). Selezionando e mettendo in relazione, il narratore fornisce senso alla realtà
e, contemporaneamente, le conferisce ordine: narrando, diamo significato all’esperienza, la ordiniamo
strutturando sequenze significative di eventi, riconducendo quegli eventi a una struttura logicamente
coerente, in linea con ciò che della realtà ci è già noto. È infatti la narrazione che rende possibile attivare
processi che ci consentono di comprendere ciò che ci appare poco ovvio, attraverso un processo
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sistematico di riduzione del diverso al medesimo (ivi, p. 33; Schütz, Luckmann, 1979, p. 235 e sgg.; Longo,
2001, pp. 14-16). In ultimo, l’articolazione cronologica del racconto consente al narratore di strutturare una
molteplicità di relazioni, tra le quali anche nessi di causa ed effetto: in questo modo, al narratore non
compete più solo la capacità di dar senso e ordine al reale, ma anche quella di fornire spiegazioni plausibili
di ciò che si verifica, nei termini di possibili percorsi di causazione.
Se ci si accontenta di accennare soltanto alle rilevanti differenze tra senso comune e sapere scientifico, ci si
rende conto che il rapporto tra narrazione e temporalità, tra racconto e connessione relazionale di aspetti del
reale, nonché la funzione ordinatrice della realtà attribuibile al processo narrativo appartengono sia all’attore
sociale, sia all’osservatore scientifico. Anche lo scienziato sociale seleziona dall’infinità priva di senso del
reale, mette in relazione eventi, li ordina in sequenze significative, individua eventualmente nessi di causa ed
effetto. Se il sociologo racconta, lo fa però in riferimento a presupposti teorici, stili cognitivi, forme
dell’argomentazione, strategie e obiettivi conoscitivi diversi rispetto a quelli dell’attore ordinario nella sua
esperienza quotidiana. È in questa serie di specificità che si iscrive la differenza tra narrazione sociologica e
racconto quotidiano.
IV A proposito del postulato di adeguatezza
Nelle pagine precedenti, ho fatto più volte riferimento ad Alfred Schütz e alla preoccupazione
fenomenologica di ancorare i processi conoscitivi delle scienze sociali alle preinterpretazioni dell’attore
ordinario. È bene soffermarsi, pur brevemente, sulla questione, anche allo scopo di individuare se e in che
modo le argomentazioni di Schütz abbiano senso in relazione alla distinzione tra sociologia, narrazione
quotidiana e letteratura, sapere sociologico, senso comune e conoscenza letteraria della realtà.
Compito che Schütz si attribuisce è quello di riformulare filosoficamente la sociologia comprendente
weberiana. Mentre Weber concepiva il significato soggettivo come una realtà comprensibile in maniera tutto
sommato aproblematica, Schütz si propone di tematizzare il problema del significato soggettivo, in
particolare in relazione ai processi della sua costituzione. Ne La fenomenologia del mondo sociale (Schütz,
1974), egli insiste sul fatto che il processo di attribuzione di senso ha luogo nella coscienza dell’attore, il
quale riferisce la sua azione a vissuti esperiti in precedenza. Per comprendere l’agire altrui, bisogna invece
inserire tale agire in contesti di motivazioni tipiche, che tendono ad anonimizzarne il contenuto. Weber aveva
individuato nel tipo ideale un modello euristico di comprensione/spiegazione della realtà sociale. Schütz,
facendo riferimento al concetto fenomenologico di Lebenswelt, sottolinea come esso trovi la sua
giustificazione già nei meccanismi di tipizzazione messi in atto dagli attori sociali nella loro quotidiana
esperienza della realtà. Ciò spinge Schütz ad affermare che la capacità umana di tipizzare è all’origine delle
tipizzazioni scientifiche.11 Sul piano metodologico, Schütz si preoccupa, dunque, di definire meccanismi
d’analisi della realtà sociale in grado di includere i processi di senso comune, riproponendoli su un piano
formale, dunque scientifico. In tal modo, egli cerca di ancorare l’analisi formale del senso al mondo della vita.
Da cosa dipende questa preoccupazione? Ancora una volta, dalla richiamata questione della specificità
dell’oggetto società. Il problema fondamentale per il sociologo, afferma Schütz, è che egli opera su una
realtà pre-interpretata. Le sue concettualizzazioni non si basano, come per lo scienziato della natura, su
fattualità colmabili di senso, ma su azioni già significative per i soggetti agenti. Piuttosto che negare questa
specificità, lo scienziato sociale deve farsene carico, individuando percorsi metodologici che gli consentano
di formulare le generalizzazioni e i costrutti logico-formali propri di ogni analisi scientifica, senza però
dimenticare che egli studia una realtà preinterpretata dagli attori nel loro concreto agire sociale: “Gli oggetti
del pensiero costruiti dagli scienziati sociali – direbbe Schütz – si riferiscono e si fondano sugli oggetti di
pensiero costruiti dal pensiero di senso comune dell’uomo che vive la sua esperienza quotidiana tra altri
uomini”(Schütz, 1967, p. 6). Da qui la necessità di percorsi di integrazione, che si basano anche sulla
considerazione secondo cui “… i costrutti usati dallo scienziato sociale sono, per così dire, costrutti di
secondo grado, vale a dire costrutti dei costrutti definiti dagli attori sulla scena sociale, il cui comportamento
il sociologo osserva e tenta di spiegare in accordo con le regole procedurali della sua scienza” (ivi, p.6).
Alfred Schütz propone tre postulati metodologici, ai quali lo scienziato sociale dovrebbe attenersi, allo scopo
di innestare le sue concettualizzazioni sulle tipizzazioni di primo grado proprie dell’attore sociale. Anzitutto, il
postulato di coerenza logica, secondo il quale i costrutti del sociologo devono rispettare le norme della logica
formale. In secondo luogo, il postulato dell’interpretazione soggettiva che, in accordo con la sociologia
weberiana, fa del senso che gli attori attribiscono al loro agire il centro dell’indagine sociologica. La
connessione tra scienza e vita quotidiana, tra concettualizzazioni astratte e tipizzazioni dell’uomo comune, è
garantita dall’ultimo e più importante postulato metodologico, quello dell’adeguadezza. Lascio a Schütz
l’onere di spiegare questo delicato passaggio:
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“Ogni termine di un modello scientifico dell’azione umana deve essere costruito in modo tale che un’azione
umana messa in atto all’interno del mondo della vita da un attore individuale nel modo indicato dal costrutto
tipico dovrebbe essere comprensibile per l’attore stesso e per gli altri attori sociali, nei termini
dell’interpretazione di senso comune della vita quotidiana. Il rispetto di questo postulato garantisce la
coerenza dei costrutti dello scienziato sociale con i costrutti dell’esperienza di senso comune della realtà
sociale “ (ivi, p. 44).
È qui evidente la lezione di Husserl, il cui richiamo a concepire il mondo della vita come base della scienza
viene assunto da Schütz a presupposto per una sociologia consapevole dei processi di costituzione di senso
dell’esperienza quotidiana (il che equivale a dire consapevole della specificità del suo oggetto). Grazie al
postulato di adeguatezza, i costrutti scientifici dovrebbero essere “continuamente e consapevolmente
mantenuti in contatto con l’esperienza della tipicità e l’uso delle tipizzazioni nel mondo della vita dato per
scontato”. (Zijderveld, 1972, p. 185). In questo modo, Schütz tenta di ancorare le concettualizzazioni
sociologiche all’esperienza intersoggettiva e al senso che ad essa gli attori sociali attribuiscono.12
Il problema di fondo dell’impostazione di Schütz riguarda il vincolo stretto, insieme ingenuo e affascinante,
tra riflessione sociologica ed esperienza della società. Tale vincolo comporta una serie di conseguenza in
certa misura paradossali, sulle quali da tempo hanno appuntato la loro attenzione i lettori critici del lavoro di
Schütz. In primo luogo, come sottolineava qualche anno fa Giddens, la stessa formulazione del postulato di
adeguatezza lo rende, a seconda della sua interpretazione, o banale o inopportuno. È banale se lo si
interpreta nel senso che i costrutti sociologici debbano comunque far riferimento ad azioni concrete messe in
atto dagli attori sociali. Se invece lo si intende nel senso che i costrutti dello scienziato sociale debbono
poter, sempre e comunque, essere tradotti nel vernacolo quotidiano, tanto da essere comprensibili per gli
attori sociali, appare evidente la sua inopportunità (Giddens, 1979, p. 40). Preso seriamente, il postulato di
adeguatezza vincola il sociologo non tanto alla congruenza tra le sue argomentazioni e l’oggetto dell’analisi
(il che è ovviamente legittimo e doveroso), quanto piuttosto ad una costante traducibilità delle sue
argomentazioni nell’idioma quotidiano dell’attore sociale. Ciò priverebbe la riflessione sociologica di un suo
tratto essenziale: la capacità di proporre spiegazioni contro-intuitive dei fenomeni sociale, le quali, proprio
perché contro-intuitive, difficilmente possono apparire insieme legittime e plausibili all’attore sociale che in
quei fenomeni è in prima persona coinvolto.13 Altra questione legata al postulato di adeguatezza va
rintracciata nell’impianto complessivo della teoria sociale di Alfred Schütz, ed in particolare nella sua
concezione delle provincie finite di significato. Scienza e quotidianità sono due modalità sostanzialmente
differenti di esperienza soggettiva del reale: la quotidianità, intesa come paramount reality, è mondo
intersoggettivo e aproblematico, in cui le tipizzazioni nascono sì dall’esperienza, ma solo per assumere il
carattere del dato per scontato. La ovvietà della realtà della vita quotidiana dipende dai suoi caratteri
costitutivi: è un mondo che l’attore condivide con altri attori sociali che si presuppone abbiano, al di là di ogni
differenza individuale, una percezione del reale analoga alla nostra (Schütz, 1967, pp. 10-14; Schütz, 1967a,
p. 218 e sgg.). È inoltre il luogo del movente pragmatico, il che consente all’attore di definire obiettivi e
operare concretamente per il loro perseguimento. Come provincia finita di significato, la scienza è invece il
luogo dell’acquisizione di conoscenze sul mondo. L’attore non vi persegue obiettivi pratici, ma opera
esclusivamente con finalità conoscitive. Sono all’opera, nelle due province di significato, due modalità di
approssimazione al reale che, in quanto determinate da finalità differenti, necessariamente producono esiti
anche essi differenti. L’idea schutziana di provincia finita di significato, infatti, fa riferimento ad un particolare
stile cognitivo che racchiude l’esperienza soggettiva, gli dà coerenza e configura come reale l‘oggetto (o
meglio gli oggetti) cui il soggetto rivolge la sua attenzione (De Blasi, 2000). È proprio il riferimento alla
scienza come provincia di significato che rende l’impostazione schütziana carente dal punto di vista della
coerenza interna prima ancora che in relazione alla sua effettiva applicabilità empirica: se infatti sono diversi
i moventi, le rilevanze, gli stili cognitivi che guidano l’azione dell’attore e la riflessione dello scienziato, ciò
che sembra mancare alla riflessione di Schütz intorno al postulato di adeguatezza è proprio l’individuazione,
teorica e insieme operativa, dei processi di traducibilità dei costrutti tipici sviluppati dallo scienziato sociale
nei termini dei costrutti tipici elaborati dall’attore (e viceversa): l’integrazione tra le due province di significato
è solo postulata, senza ulteriori precisazioni. Il quadro si complica ancora di più se si tiene conto di
un’ulteriore preoccupazione di Schütz, che coincide con la necessità di qualificare la sociologia
comprendente come analisi scientifica della realtà sociale: nel loro complesso, i postulati metodologici
schutziani mirano ad inquadrare il problema dell’interpretazione soggettiva all’interno di procedure
scientifiche in grado di garantire non solo compatibilità tra costrutti di primo e di secondo grado, ma anche di
articolare in maniera logicamente coerente i costrutti dello scienziato, garantendo oggettività alle sue
formulazioni (Protti, 1995, p. 109 e sgg.)
.
Rispetto alla serie di critiche rivolte al postulato di adeguatezza, Luigi Muzzetto (1997, p. 167 e sgg.) ha
sostenuto che esse tendono a ridurre la ricchezza teorico-metodologica dell’impostazione schütziana, il che,
data la complessità delle argomentazioni del teorico austriaco, sarebbe probabilmente ingeneroso. Se va
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infatti ammessa una relativa incompiutezza della formulazione del postulato, l’impalcatura complessiva del
lavoro di Schütz impone non una rapida ed ironica liquidazione del problema, bensì un supplemento di
cautela. Probabilmente, ha ragione Ilja Srubar (1988, pp. 198-199) quando asserisce la natura teorica più
che metodologica del postulato: in questo senso, il postulato rappresenterebbe il fondamento di una
concezione teorica del sociale fondata sul soggetto, sulle tipizzazioni quotidiane, sull’azione sociale
all’interno della Lebenswelt.
La complessità del problema e la profondità delle sue implicazioni teoriche mi spingono a rimanere ad un
livello poco articolato nella lettura del postulato: se lo si considera come indicazione di natura metodologica,
esso appare infatti coerente con la preoccupazione esplicita o implicita di tanta ricerca qualitativa per le
ragioni del soggetto, per le sue motivazioni, per il mantenimento del suo particolare punto di vista nei risultati
della ricerca. In quest’ottica limitata, ci si può chiedere se il postulato di adeguatezza non adempia ad una
funzione tutto sommato consolatoria per il sociologo di orientamento fenomenologico, nel senso che ad esso
va assegnato il compito di ricucire tra stili cognitivi che pure appaiono difficilmente integrabili. L’idioma del
sociologo è costitutivamente altro rispetto al gergo quotidiano: diverso è il suo lessico, diversi i suoi fini
conoscitivi, diversi i suoi presupposti e le sue rilevanze. E ciò, come ho sopra cercato brevemente di
evidenziare, vale per i qualitativi come per i quantitativi. In questa diversità, la sociologia ritrova
compattezza: il riferimento ai fatti sociali, ai dati che da essi possono ricavarsi, non hanno significato in
relazione al contesto della loro produzione, ma in rapporto alle narrazioni del sociologo. Buone o cattive
queste narrazioni sono in relazione al fatto che si presentino in certa misura come inadeguate rispetto alle
narrazioni di senso comune da cui pure prendono spesso le mosse. Il sociologo ridescrive il mondo, e così
facendo si allontana necessariamente dalle logiche degli attori sociali: la sua riscrittura, anche quando
pretende di essere adeguata al contesto di analisi, non può che presentare quel contesto a partire da
specifici concetti teorici e altrettanto specifiche modalità della ricerca empirica, ma anche in relazione a
specifici stili, insieme cognitivi e narrativi. L’acquisizione di questa consapevolezza comporta l’abbattimento
definitivo di ogni pretesa oggettività positivistica del resoconto sociologico e insieme il superamento della
mistica, spesso invocata dai qualitativi, di un recupero del punto di vista del soggetto, del suo mondo di vita,
della sua originale interpretazione della realtà.
Alessandro Dal Lago, nel saggio citato sul rapporto tra sociologia e letteratura, riporta un brano da un testo
di Dick Hebdige sulle subculture. La citazione mi pare particolarmente adatta allo scopo di sottolineare
quella che potrei definire l’inadeguatezza costitutiva del racconto sociologico, vale a dire la sua incapacità,
nonostante le sollecitazioni schütziane, di proporre tipizzazioni di secondo grado “comprensibile per l’attore
stesso e per gli altri attori sociali, nei termini dell’interpretazione di senso comune della vita quotidiana”.
Leggiamo la citazione:
“È molto improbabile […] che gli appartenenti ad una delle sottoculture descritte in questo libro vi si
riconoscano riflessi. È ancora meno probabile che essi accolgano benevolmente gli sforzi fatti da parte
nostra per capirli. Dopotutto, noi sociologi e “normali” interessati minacciamo di uccidere con la nostra
benevolenza le forme che cerchiamo di spiegare […] Sotto questo aspetto, cogliere nel segno è, in certo
modo, mancare il bersaglio” (Hebdige, 1990, p. 154).
Non mi sembra di interpretare in maniera forzata la citazione asserendo che essa rende esplicita una
posizione inversa rispetto a quella di Schütz: mentre quest’ultimo esprime la preoccupazione per una
scienza sociale capace di rispettare tipizzazioni e stili cognitivi dei soggetti, Hebdige sottolinea la sostanziale
incommensurabilità tra descrizione sociologica ed esperienza diretta che l’attore ha di se stesso e del
mondo. Hebdige pone questa sua riflessione alla fine di un percorso di ricerca empirico, guidato da
riferimenti teorici, ma anche letterari (Genet, Sartre, Barthes) sulla cui base cerca di dar conto del rapporto
tra stile, corporeità, identità e subculture. La percezione dell’inadeguatezza del resoconto sociologico
(inadeguatezza nel senso limitato della sua mancata rispondenza alle preinterpretazioni del soggetto) deriva
direttamente dal lavoro di ricerca empirica. Laddove Schütz postula l’adeguatezza come snodo cruciale di
una riflessione teorica orientata metodologicamente, nel caso di Hebdige, l’incompatibilità tra narrazione
sociologica e narrazione quotidiana emerge come sottoprodotto dell’esperienza empirica, evidenziando nella
pratica la difficoltà di applicazione del postulato schütziano. Schütz non appare nell’orizzonte intellettuale di
Hebdige (i cui riferimenti, oltre a quelli citati, ruotano attorno alla tradizione anglosassone dei cultural
studies): la sua non è, infatti, una critica empiricamente fondata dell’impostazione di Alfred Schütz, bensì
l’affermazione consapevole dei limiti e delle possibilità della ricerca in ambito sociologico.
È a partire dalla consapevolezza dell’incommensurabilità tra esperienza quotidiana e analisi sociologica che
la distinzione tra sociologia e letteratura può essere riformulata. La costitutiva inadeguatezza del sociologo
dipende dalla logica del suo discorso, dai riferimenti teorici e metodologici, dallo stile proprio della sua
argomentazione che in certa misura gli impongono di dire altro rispetto al discorso e all’esperienza
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quotidiana. Si tratta di vincoli che ovviamente non assillano il narratore letterario, a cui è concessa una
rappresentazione congruente della realtà, nella quale l’attore ordinario può senza sforzo riconoscere se
stesso e i suoi Mitmenschen.
V Conclusione
La narrazione appare sociologicamente rilevante per una serie di motivi, tre dei quali mi paiono
particolarmente importanti:
1.
La dimensione cognitiva: è la narrazione che dà significato alla realtà (anche a quella sociale), la
rende comprensibile, ritagliandone porzioni significative la cui significatività risiede nell’atto stesso della
selezione. Paolo Jedlowski (2000, p. 30), riferendosi a Goethe, così sintetizza: “in se stessa, la vita è
“indifferente”, cioè priva di senso: la dimensione del senso le è apportata dalla lingua degli uomini e dai loro
racconti”.
2.
La dimensione relazionale: la narrazione è, sempre secondo Jedlowski, uno degli strumenti
attraverso cui si strutturano relazioni sociali: narrare è parte costitutiva della vita quotidiana, dal momento
che il racconto consente scambi di esperienze, di nozioni, il consolidamento di identità individuali e collettive
(ivi, p. 63 e sgg.).
3.
Il rapporto tra narrazione e ricerca empirica: la narrazione fornisce dati empiricamente rilevanti,
rappresentando la forma di accesso alla soggettività dell’attore (narrante). L’attore, in quanto homo loquens,
è infatti il presupposto della ricerca empirica, sia che esso assuma il carattere altamente individualizzato che
le attribuisce certa ricerca qualitativa, sia che esso appaia come parte anonima di un campione di survey.
Asserire che la narrazione è sociologicamente rilevante è però solo una prima acquisizione. È necessario
precisare, in seconda istanza, i caratteri specifici dell’argomentazione sociologica, ciò che consente di
connetterla alla narrazione e ciò che la distingue da essa. Solo operando una forzatura rispetto alla
molteplicità degli stili argomentativi del discorso scientifico si può legittimamente parlare di narrazione
sociologica. È d’altronde vero che la sociologia ha costitutivamente a che fare con il tempo, col mutamento,
con le trasformazioni sociali (ivi, p. 199). Il sociologo seleziona aspetti della realtà, dà loro significato
sociologico, li interpreta e/o li spiega in relazione al bagaglio teorico-metodologico della sua disciplina. Il
discorso sociologico appare omologo alla narrazione, nel senso che, come quest’ultima, consente di istituire
relazioni tra oggetti, eventi, attori, individuando possibili rapporti di causa ed effetto, attribuendo così un
ordine limitato e parziale a partire dal caos infinito che è il reale. Il legame con la narrazione ha consentito ai
sociologi, ormai da qualche anno, di acquisire consapevolezza del fatto che la sociologia è “oltre che una
strategia di ricerca, una forma di discorso” (ivi, p. 201). Il riconoscimento del carattere artificiale del discorso
scientifico non implica la sua negazione, piuttosto l’acquisizione della consapevolezza che non si può
sfuggire da regole e artifici retorici. La riflessione sulle retoriche del testo sociologico tende infatti ad
evidenziare come le forme dell’argomentazione definiscano non solo lo stile della narrazione, ma anche la
sua plausibilità, il riconoscimento all’interno di una specifica comunità accademica, in ultimo la scientificità
dei risultati della ricerca che il testo comunica (Tota, 1998).
Acquisire consapevolezza della componente narrativa non significa rigettare i caratteri specifici della
comunicazione sociologica. Più semplicemente, significa riconoscere il carattere costruito di forme specifiche
di rappresentazione della realtà, la cui validità scientifica non riposa in una qualche presupposta congruenza
rispetto al reale, bensì nell’utilizzo consapevole non solo di teorie di riferimento e metodi della ricerca, ma
anche di specifiche retoriche e forme dell’argomentazione (Dal Lago, 1994). Ciò equivale a prendere atto
delle potenzialità e delle debolezze della sociologia come scienza, potenzialità e debolezze che coincidono
con la molteplicità delle anime del sociologo (attento al contesto locale del micro o alle possibili
generalizzazioni del macro?) e che hanno in ultimo a che fare con la multidimensionalità dell’oggetto società.
In una situazione ormai consolidata di confusione degli stili argomentativi nelle scienze sociali, di cui parla
Geertz (1988) e a cui fanno riferimento tanti di coloro che della scrittura sociologica si sono occupati, la
sociologia (e con essa le scienze sociali) appare meno rigorosa di quanto non si pensasse in passato e,
contemporaneamente, più efficace: meno rigorosa nel senso che non può che accettare come dato
ineliminabile il deficit conoscitivo che deriva dallo iato tra complessità della realtà sociale e relativa
scarsa complessità della rappresentazione sociologica della realtà; più efficace perché, accettando come
scientificamente plausibili forme diverse di rappresentazione della realtà, legittima una molteplicità di
approcci in grado di dar conto delle molte dimensioni del sociale (per sintetizzare, quelle che ho sopra
definito dimensioni macro, meso e micro). Si può così giungere alla consapevolezza di un’unitarietà debole
delle diverse forme sociologiche di rappresentazione della realtà sociale: debole è quest’unitarietà nel senso
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che non ambisce alla definizione di un metodo unitario, ma accetta come risorsa la molteplicità delle
narrazioni sociologiche, in cui il legame forse più consistente è il riferimento a fonti narrative (all’homo
loquens, per utilizzare una parziale metafora di sintesi).
Cosa resta del soggetto e del suo mondo nell’analisi sociologica? Cosa resta delle fonti narrative che il
sociologo utilizza? Molto, o nulla, a seconda della prospettiva d’analisi. I dati, numerici o qualitativi che siano,
offrono il pretesto metodologico per raccontare il mondo con l’occhio del sociologo. Quel mondo è uno dei
mondi possibili, un’interpretazione della realtà che si fonda sul gergo disciplinare: ruolo, status, solidarietà,
conflitto, subcultura, account, soggetto, ecc. Anche quando la narrazione soggettiva viene presa sul serio,
nel tentativo di individuare unità tematiche e motivazioni soggettive (si pensi all’interazionismo) oppure di
scoprire la logica della costruzione soggettiva di senso (si pensi all’etnometodologia), il significato del
racconto sociologico trova la sua coerenza nel rispetto procedurale dei riferimenti teorici e metodologici,
nonché nel rispetto linguistico di forme specifiche della narrazione, piuttosto che in una qualche rintracciabile
adeguatezza col senso soggettivo dell’azione. L’azione (e con essa l’esperienza soggettiva) viene tradotta
nei termini specifici del gergo disciplinare, acquista rilievo e validità solo a patto che essa venga spiegatainterpretata in termini sociologici. Il sociologo, quando svolge consapevolmente il proprio lavoro, giunge a
una conoscenza che è valida non perché si assume il compito di rassicurare i soggetti (e nemmeno di
scardinarne le certezze), quanto piuttosto perché utilizza la concettualità della propria disciplina per
osservare il mondo da un punto di vista eccentrico. Le fonti narrative, nell’accezione ampia e imprecisa che
a questa espressione do nel mio intervento, vanno anche esse utilizzate non nel rispetto presupposto della
rappresentazione che l’attore dà della realtà, ma alla ricerca di interpretazioni sociologicamente coerenti del
dato.
È in questo che è forse ravvisabile la differenza più netta tra sociologia e letterature: il racconto letterario è,
infatti, meno vincolato a presupposti di natura teorica e metodologica (lo è, semmai, a ragioni stilistiche o di
genere) ed è probabilmente per questo che esso appare, nonostante la sua natura fittiva, insieme più
coerente e adeguato rispetto alla realtà rappresentata. La categoria del particolare, nel senso che ad essa
attribuisce Lukács, rimanda al dettaglio, al minuto della quotidianità e, pur trascendendolo in forma tipica,
appare comunque immediatamente comprensibile al lettore che può attivare processi di identificazione con i
personaggi, di comprensione delle loro motivazioni e del contesto sociale in cui si svolgono le loro vicende.
Ciò vale (ed è solo apparentemente un paradosso) anche nel caso in cui la narrazione letteraria esca dai
canoni del realismo, ed assuma i caratteri del fantastico, dell’avanguardia, del pulp ecc. I motivi, le paure le
ritrosie del protagonista della Metamorfosi di Kafka si aprono alla comprensione/compassione del lettore,
nonostante lo strano caso narrato nel racconto. Allo stesso modo, e nonostante la difficoltà della lettura, con
Leopold Bloom Joyce traccia nell’Ulisse un percorso narrativo in cui la tecnica del flusso di coscienza ha
come obiettivo quello di consentire una rappresentazione anche dei recessi più nascosti della
consapevolezza individuale. Ancora una volta, in Bloom il lettore può immedesimarsi, o attivare processi di
differenziazione, perché un artificio retorico gli consente l’accesso alla coscienza del protagonista, accesso
negato ad ogni rappresentazione sociologicamente coerente del reale, che si fonda sul dato costitutivo
dell’inaccessibilità della coscienza soggettiva.
In maniera provvisoria e senza pretese teoriche eccessive, si può dunque sostenere che la
rappresentazione letteraria è costitutivamente adeguata (nel senso limitato che al concetto di adeguatezza
attribuisce Schütz), al contrario di quanto non accada alla rappresentazione sociologica. L’adeguatezza della
narrazione spiega in parte perché i sociologi si rivolgono alle pagine dei romanzi come altrettanti frammenti
empirici da spiegare utilizzando il proprio vocabolario e la concettualità della loro disciplina. Il romanzo
appare così non come una visione alternativa della realtà, in competizione con la rappresentazione
sociologica (né potrebbe essere altrimenti dato che, a differenza di quanto accadde ai sociologi degli esordi,
la disciplina ha ormai assunto una propria specifica identità), bensì come un campo di applicazione empirica
che consente di analizzare (solo per fare pochi esempi esplicativi, non tutti recenti) processi sociali
complessi quali il rapporto individuo-società nella contemporaneità – si veda Peter Berger (1992), che legge
Musil dell’Uomo senza qualità per rintracciare i caratteri più tipici del moderno individualismo; la pervasività
del potere e le forme del mutamento sociale - mi riferisco a Marcello Strazzeri (2004), che ha recentemente
riletto Tomasi di Lampedusa, Verga, De Roberto, Sciascia, utilizzando il riferimento teorico delle figurazioni
di Norbert Elias; meccanismi della conversazione – qui il riferimento è a Erving Goffmann (2004) che cita, tra
i tanti materiali, anche narrativi, la Jane Austen Orgoglio e pregiudizio. La narrativa diviene in questo modo
fonte di conoscenza sociologica, dato testuale sul quale il sociologo, ammettendo la forte valenza
conoscitiva della letteratura, può esercitare la propria immaginazione sociologica, approdando ad una
narrazione tanto più adeguata sul piano sociologico quanto più è inadeguata dal punto di vista letterario.
Publicación Electrónica de la Universidad Complutense | ISSN 1578-6730
Nómadas. Revista Crítica de Ciencias Sociales y Jurídicas | 14 (2006.2)
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1
Su Kuhn e la sua ricezione tra i sociologi italiani, cfr. anche Sociologia e ricerca sociale, a. XVIII, nn. 53-54, 1997, numero monografico
dal titolo “T.S. Kuhn: come mutano le idee nella scienza”.
2
Si leggano in particolare i capitoli I e II dedicati da Lepenies (1987), a Comte, a Durkheim e alla Nouvelle Sorbonne.
3
“Il descrivere della sociologia, in fondo, rimanda quasi sempre a categorie già costruite o da costruire, e in questo sforzo di
incasellamento perde di vista i mille modi in cui il reale si dispone” (Turnaturi, 2003, p. 29).
4
“[La] descrizione sociologica è sì fedele alla realtà, ma […] in modo subordinato a concetti teoricamente sensibili. Ciò significa
innanzitutto che la sociologia non descrive per amore o ricerca del dettaglio, ma solo per ricavarne tipizzazioni e concetti, e, così
facendo, il suo sapere e conoscere scientifico si sottrae all’attualità grezza, all’hic et nunc, alla pura classificazione” (ivi, pp. 25-26).
5
Sulla costruzione di una survey e la traducibilità delle domande in codici trattabili mediante strumenti e tecniche matematici cfr., tra gli
altri, Corbetta (1999) capitolo V, passim.
6
Facendo riferimento, oltre che alla comprensione, anche alla spiegazione causale, Max Weber, nella sua notissima definizione di
sociologia sottolinea la necessità che il sapere sociologico, non si fondi solo sul processo di Verstehen, ma debba anche porsi l’obiettivo
di spiegare adeguatamente le connessioni causali implicite nell’agire sociale: “La sociologia (nel senso qui inteso di questo termine,
impiegato in maniera così equivoca) deve designare una scienza la quale si propone di intendere in virtù di un processo interpretativo
l’agire sociale, e quindi di spiegarlo causalmente nel suo corso e nei suoi effetti” (Weber, 1999, p. 4).
7
Si legga a questo proposito un brano tratto da uno scritto di G. Gusdorf, dove l’autore, parlando di autobiograpia come genere
letterario, fa affermazioni utili anche nell’ambito di altre forme – più limitate e frammentate – del racconto di sé: “La ricapitolazione del
vissuto, che pretende di avere lo stesso valore del vissuto, ne manifesta un’immagine simbolica, già lontana e certamente incompleta,
oltretutto snaturata dal fatto che l’uomo che ricorda il proprio passato non è più quel bambino o quell’adolescente che ha vissuto quello
stesso passato. Il passaggio dall’esperienza immediata alla coscienza, nel ricordo, provoca una specie di ripresa di tale esperienza che
ne muta il significato” (Gusdorf, 1996, p. 10).
8
Un esempio può trarsi dai racconti di aree della condotta sulle quali l’attore riferisce soprattutto per costruire giustificazioni ad hoc. Nel
caso di ricerche qualitative sul comportamento deviante, il ricercatore può plausibilmente supporre di poter giungere alla
rappresentazione soggettiva delle circostanze che hanno indotto il soggetto a deviare, o non deve piuttosto cercare di individuare la
logica che presiede all’articolazione degli accounts soggettivi, spesso indirizzati a giustificare ex post il comportamente? (Scott,
Lymann, 1971, pp. 88-119).
9
Una citazione serve a chiarire la posizione di Thomas e Znaniecki: “[…] una scienza sociale nomotetica è possibile soltanto se ogni
divenire sociale viene considerato come prodotto di una continua inter-azione tra coscienza individuale e realtà oggettiva […] Se
consideriamo la personalità umana come un fattore dell’evoluzione sociale, essa può costituire una base per la spiegazione causale
degli avvenimenti sociali […] lo studio delle personalità umane […] serve […] alla determinazione di leggi sociali” (Thomas, Znaniecki,
1968, vol II, p. 531).
10
Su questo approccio al dato qualitativo si legga Silverman: “l’approccio più utilizzato [nell’analisi delle interviste narrative] è quello di
trattare le risposte degli intervistati come se descrivessero una realtà esterna (per esempio fatti, eventi) o un’esperienza interna (per
esempio sentimenti, significati). In questo approccio […] si raccolgono confessioni che vengono presentate al lettore in quanto fatti
nuovi riguardanti la personalità”(Silverman, 2002, pp. 182-3) .
11
Una citazione da A. C. Zijderveld serve a chiarire il passaggio: “… i tipi scientifici si fondano sui tipi di senso comune della realtà della
vita quotidiana, l’unica differenza essenziale ammissibile essendo che i primi sono astratti dal punto di vista strettamente logico e
razionale, laddove i secondi non sono in nessun senso scientifici e sono guidati da interessi personali” (Zijderveld, 1972, p. 182).
12
Per una ricognizione articolata delle diverse posizioni assunte dagli studiosi in relazione al postulato di adeguatezza cfr. Mazzetto
(1997, p. 144 e sgg.).
13
Affermazioni simili sono in R. Bernsteins (1976), in particolare a p. 164 dove, in una prospettiva diversa, legata alla teoria critica, al
processo di reificazione e alla falsa coscienza, l’autore sottolinea come esistano meccanismi complessi di difesa, resistenza e di
autoinganno che possono rendere incomprensibile per i soggetti descrizioni sociologicamente accurate della loro azione.
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