Da: Nuèter 69, pp. 33-38, versione dell’agosto 2014
Le guarzette, Torri, il Frignano e Porretta
di Daniele Vitali
Gentilissima redazione,
nel numero 68 della Rivista, Lorenzo Filipponio ha pubblicato un contributo sul dialetto di
Torri, intitolato La guarzetta vien dalla montagna, in cui si dice in disaccordo con Andrea Signorini e
il
suo
sito
http://kenoms3.altervista.org/altorenotoscano3/altorenotoscano/storia/torri_modenese.pdf
circa l’origine del torrigiano. Secondo Filipponio, il vernacolo toscano parlato oggi a Torri
sarebbe infatti di antica origine, mentre per Signorini esso avrebbe sostituito da relativamente
poco tempo un precedente dialetto arrivato per emigrazione dalla montagna modenese nel XV
secolo. Signorini ha risposto alle critiche di Filipponio pubblicando un nuovo intervento su
http://kenoms3.altervista.org/altorenotoscano3/filipponiotorri.pdf. Poiché in entrambi i lavori
viene citato il mio nome, sento la necessità di fare alcune precisazioni.
Filipponio ha ragione quando dice che il termine guarzetta non si trova solo a Pievepelago, ma
anche in un’area più vasta della montagna modenese. Io aggiungerei che si trova anche in quella
reggiana, cfr. Malagoli 1943, p. 125. Quando, a suo tempo, discussi del termine con Signorini, feci
riferimento al pievarolo in quanto era a Pievepelago che lo avevo sentito personalmente, e che mi
era sembrato particolarmente vivo. Negli altri casi, nel prosieguo della discussione, ci siamo tutti
rifatti solo ad attestazioni scritte, per quanto di prima mano, come i dizionari Piacentini 1998 e
Ricchi 2002. So anche che a Fiumalbo non si usa, sia perché Minghelli 1995, p. 150 segnala
espressamente l’assenza del termine guarzetta in fiumalbino, sia perché ho da tempo verificato tale
assenza sul campo. A mio parere, parlando di origine pievarolo-fiumalbina dell’antico torrigiano,
Signorini intende indicare un’area d’origine dell’immigrazione, e non fare un elenco dei luoghi in
cui si usa quel singolo vocabolo. Ma, certo, è giusto essere precisi: guarzetta è attestato in un’area
che comprende Pievepelago e, escludendo Fiumalbo, si estende per un bel pezzetto di montagna
modenese e reggiana.
Si noti che tale pezzetto di montagna modenese e reggiana, in cui si parla una serie di dialetti
diversi ma strettamente imparentati che Biondelli 1853 chiamava riassuntivamente “dialetto
frignanese”, è accomunato da moltissimi altri tratti linguistici mancanti ai vernacoli
toscani. Nel caso specifico di guarzetta, ho cercato di verificare la presenza di questo vocabolo in
Toscana, ma finora non l’ho trovato da nessuna parte (non è usato dai parlanti di San Mommè
interpellati da Signorini, non figura nel Vocabolario pistoiese di Gori e Lucarelli 1984 né in quello
lucchese di Nieri 1902, la parola è ignota al mio anziano informatore di Lucca, non si trova
nell’ALT, la carta 45 dell’AIS dà gwαrtsœttα per la frignanese Sestola in una nota sul margine
sinistro ma non segnala nulla del genere nei punti toscani, ecc.). In attesa di altri elementi,
dunque, ne concluderei che siamo davanti a una parola “frignanese” presente a Torri e mancante
nella zona toscana circostante.
Se, come fa Filipponio, ipotizzassimo che guarzetta si dicesse in un’area molto più vasta di
quella odierna, dovremmo postulare una ventata assimilatrice da sud che avrebbe cancellato la
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parola da tutto il resto della montagna pistoiese, lasciandola solo a Torri (e a Monachino, dove
sembra essere arrivata da Torri). Non mi pare un’ipotesi verosimile, sia a livello intuitivo sia per
due ragioni prontamente argomentabili: 1) il fatto che a Lama Mocogno si sia smesso da poco di
usare guarzetta adottando al suo posto un termine della montagna media e della pianura modenese
sembra indicare proprio il contrario di ciò che sostiene Filipponio: a Lama Mocogno siamo infatti
in presenza di una sostituzione di parole avvenuta per progressivo “contagio” fra zone
territorialmente contigue, senza inspiegabili salti geografici 2) il torrigiano, quale l’ho sentito da
Paolo Gioffredi (lo stesso informatore di Filipponio) in una registrazione dell’amico Piero
Balletti, non mi pare di stampo poi così antico e isolato: al mio ascolto, che non si era limitato alla
produzione odierna di Gioffredi ma abbracciava anche materiale registrato di un altro parlante
molto più anziano e ormai scomparso (Giustino Biolchi, del 1901), il torrigiano era risultato anzi
un dialetto abbastanza allineato sulle odierne tendenze del “toscano comune” (etichetta che si dà
al risultato del livellamento regionale sul modello toscano centrale italianizzato di cui parla
Giannelli 1976, pp. 10-13).
Questa mia opinione può facilmente essere esemplificata da un confronto con Frassignoni,
altra località toscanofona del comune di Sambuca: in particolare, in frassignonese è totalmente
assente la gorgia, che invece, in modo non sistematico ma con frequenza, si ritrova a Torri per
/k/: buhare, le haśtaggne, lui hréde “bucare, le castagne, lui crede”. Sottolineo di averla sentita anche
nella registrazione del parlante del 1901, messa a disposizione da P. Gioffredi. Per quanto
riguarda un tratto torrigiano che Filipponio 20071 definisce “tipico del contado lucchese […] e
frequentissimo nei testi antichi pistoiesi”, vale a dire lo scempiamento di rr in parole come fèro, va
sottolineato che esso non ha nulla di arcaico ed esotico, in quanto caratterizza ancora oggi tutta
l’area, da Frassignoni a vari dialetti montani alti di tipo bolognese (Badi, Castiglione dei Pepoli,
Pavana, Castello di Sambuca ecc.). Quanto a elementi come lo scalpello con r (scarpèllo) e il
rastrello senza (rastèllo), non si tratta dell’effetto di fenomeni sistematici, ma di singoli casi
lessicalizzati di dissimilazione dalla diffusione vastissima e quindi, a mio parere, privi di valore ai
fini di un giudizio classificatorio, sincronico e diacronico: basti dire che in bolognese ci sono
proprio scarpèl, rastèl, e le forme torrigiane si ritrovano identiche ancor oggi a Pistoia.
Certo anche il torrigiano, come il frassignonese, presenta tratti da “pistoiese di montagna”,
certo anche il torrigiano è più conservativo del pistoiese cittadino ormai molto annacquato che
risulta dal citato Vocabolario pistoiese, ma non mi pare ci sia bisogno di parlare di una “cronologia
piuttosto alta” connessa con l’originaria parentela stretta tra pistoiese e lucchese: i tratti che
distinguono il torrigiano dal “toscano comune”, più verosimilmente, sono semplici tratti del
vecchio pistoiese (vecchio, non antico) conguagliati da poco in città.
Mi sembra dunque molto più credibile la seconda ipotesi formulata da Filipponio per spiegare
la presenza a Torri di un termine “frignanese”: l’immigrazione effettivamente ci fu, e portò in
dotazione la parola, rimasta come prestito.
D’altronde, l’immigrazione è riportata dalle cronache locali citate da Signorini, il quale ricorda
anche la grande frequenza a Torri delle maschere di pietra e del cognome Gioffredi, che secondo
certe fonti sarebbe di origine modenese. Questi due elementi vengono inseriti
nell’argomentazione di Signorini in un quadro più generale e ridimensionati in quanto
extralinguistici, però a me sembra che l’elemento etnografico dato dalle maschere di pietra,
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presenti in vari luoghi ma concentrate in Frignano, a Lizzano in Belvedere (che col Frignano
storico confina direttamente) e a Torri, sia di grande interesse.
Per quanto riguarda il cognome Gioffredi siamo invece tutti d’accordo, i cognomi non
risultano utili per dimostrare nessuna delle isole ed ex isole linguistiche fra Emilia e Toscana: non
a Torri, poiché la massima concentrazione di Gioffredi si ritrova proprio in provincia di Pistoia,
non a Treppio, dove nessuno dei cognomi dati da Bonzi 1973, p. 275 ha massima concentrazione
in provincia di Lucca come ci si potrebbe aspettare sapendo che il treppiese è probabilmente un
dialetto garfagnino, non a Gombitelli, dove il frequentissimo Cerù è di origine piemontese (cfr.
Pieri 1892, pp. 309-310) pur essendo il gombitellese certamente originario dell’alta montagna
emiliana (cfr. Salvioni 1892, pp. 311-312) e somigliando fra i dialetti odierni soprattutto a quelli di
Pievepelago e Fiumalbo (le diffusioni attuali dei vari cognomi vengono dal sito
www.gens.labo.net).
Passiamo ora a ciò che più c’interessa, cioè i tratti linguistici: certo il torrigiano, che sia arcaico
come sostiene Filipponio o relativamente moderno come invece pare a me, è oggi
indiscutibilmente toscano.
Dopo l’ascolto dei materiali registrati da Piero Balletti, però, ho preso contatto col suo
informatore P. Gioffredi per sapere se a sua memoria a Torri si sia sempre parlato il vernacolo
testimoniato da lui e da G. Biolchi: la risposta è stata affermativa, ma con un distinguo
interessantissimo. Gioffredi è in grado di citare una signora più che ottuagenaria di Torri che
ricorda di aver udito pronunciare dal padre, nato sempre a Torri intorno agli anni ’80 dell’800, la
frase tóggo la funa e vò a tór le léggna “prendo la fune e vado a prendere la legna”, nonché una sua zia
della borgata detta La Torraccia che, nata nel 1894, citava, come esempio del vecchio dialetto: in
quanti sémma? mi, ti, lu e lu-là “in quanti siamo? io, tu, lui e quell’altro”.
Questi spezzoni che, lo ripeto, erano nella memoria delle due donne ma non nel loro eloquio
quotidiano, mostrano a mio parere un dialetto emiliano di tipo montano alto, per varie ragioni
(per la distinzione tra “montani medi” e “alti”, cfr. Vitali 2007). Anzitutto, -o finale si trova in
provincia di Bologna nei dialetti montani alti, ad es. lizzanese tóggo “prendo”, e in provincia di
Modena a Pievepelago e Fiumalbo, dove si dice tójjo; non si trova invece nella montagna media
bolognese (es. tŏgg a Rocca Pitigliana: ŏ indica o aperta breve, cfr. Vitali-Piacentini 2005), né nel
resto della montagna modenese (es. frassinorese tögg, cfr. Piacentini 1998, p. 415), né in quella
reggiana (cfr. Malagoli 1943).
Poi, i pronomi mi, ti, lu si usano ad es. a Lizzano e Pavana, nonché a Pievepelago e
Fiumalbo, mentre la montagna media bolognese ha mé, té, ló come in pianura (lû a Gaggio, cfr.
Vitali 20082) e quella reggiana mę, tę (cfr. di nuovo Malagoli 1943, 14), inoltre troviamo mé, té, lü a
Palagano (cfr. Ricchi 2002, 17) e mi, ti, lü a Frassinoro (cfr. Piacentini 1998, 327); osservo anche
che il frassinorese, come il palaganese e la montagna reggiana (Malagoli 1943, 11), ha i suoni ö, ü,
che non risultano dagli spezzoni di antico torrigiano sopra citati, e che mancano anche nella
montagna bolognese, nonché a Pievepelago e Fiumalbo.
Infine, la desinenza -émma per la I pers. plur. si ritrova a Pievepelago e Fiumalbo, mentre la
forma dei dialetti montani alti di tipo bolognese è -ẽ, es. lizzanese e sẽ “siamo” (a Palagano -émma
ha dato oggi -am(a), mentre a Frassinoro c’è -ọmma, che anticipa il reggiano -ŏmm).
Mi sembrano elementi sufficienti per concludere:
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1. che il torrigiano antico era probabilmente un dialetto di tipo alto-frignanese, come
quelli di Pievepelago e Fiumalbo;
2. che, alla fine dell’800, la toscanizzazione di Torri non era ancora compiuta.
Certo, con tutto quel che resta da fare per descrivere adeguatamente i dialetti viventi della
montagna posta tra Emilia-Romagna e Toscana, può sembrare quasi colpevole attardarsi a
discutere su un dialetto attestato solo in pochi ricordi, che per di più non sarebbero mai stati
indagati se non fossero intervenute delle cronache, cioè degli elementi extralinguistici, a far
drizzare le antenne dei dialettologi. Eppure, non si tratta di un problema così ozioso: visto che le
colonie linguistiche tra Emilia e Toscana non sono poi tanto rare (ci sono anche le frignanesi
Gombitelli e Colognora in provincia di Lucca, e la garfagnina Treppio nella montagna pistoiese
ma sul versante adriatico), trovarne un’altra, per quanto estinta, serve a completare il quadro,
dandoci la portata dei fenomeni di scambio che ebbero luogo fra i due lati del Crinale
appenninico nel corso della nostra storia.
***
Colgo l’occasione per una postilla anche sulla questione di Porretta. Sul numero 65 di Nuèter
(2007, pp. 52-58) ho scritto che “la situazione d’incertezza che caratterizza l’odierno porrettano è
sì dovuta all’importanza e alla posizione geografica del paese, ma non è spiegabile con una
semplice sovrapposizione di un modello sull’altro, bensì con un complesso gioco d’influenze in
cui tutti hanno dato un contributo: non solo il bolognese cittadino, ma anche i dialetti montani
medi e quelli montani alti”.
Sul numero 66 della rivista, Filipponio obietta che “Su un piano sociolinguistico, innanzitutto,
non bisogna dimenticare che, in una eventuale ibridazione tra dialetti nel contesto
altoappenninico, Porretta avrebbe rappresentato la variante di prestigio [...]. È poi difficile negare
che Porretta, a sua volta, avesse Bologna come riferimento, visti gli interessi bolognesi sull’area”.
Ebbene, devo ribadire quant’ho scritto: il porrettano deve sicuramente la propria
configurazione attuale all’influenza del bolognese cittadino, ma non è questo il punto
interessante, poiché ciò vale per tutti i dialetti montani medi.
Io sono convinto che il bolognese cittadino di fase antica dovesse somigliare molto
all’odierno lizzanese e agli altri dialetti montani alti (cfr. il citato Vitali 2007, nonché Vitali 20081),
dopodiché secoli d’innovazioni, normali per una città importante e posta in pianura, lo hanno
trasformato in quel ch’è oggi, vale a dire un dialetto dal sistema fonetico piuttosto evoluto
rispetto all’originale configurazione del latino volgare, configurazione conservatasi molto meglio
in Toscana e nei dialetti montani alti. La montagna media, più conservativa della pianura ma più
innovativa della montagna alta (com’è ovvio, dato che si trova a una quota intermedia fra le due),
ha accettato tantissime innovazioni bolognesi, ma ha conservato altre caratteristiche più antiche
(cfr. Vitali 20082 sul gaggese). Ciò è successo anche a Porretta, dove però il sistema è molto più
fluido e incerto che, ad es., a Gaggio Montano.
Il fatto che Porretta, pur essendo a una quota che farebbe sospettare un dialetto montano
alto, abbia invece un dialetto montano medio, depone certo a favore di una bolognesizzazione
relativamente recente del porrettano, ma tutte le sue oscillazioni, insieme al fenomeno
“bolognese” (e quindi “moderno” per la montagna media) dato da e aperta lunga anziché e
intermedia come risultato di a latina di sillaba aperta, mostrano come ciò sia avvenuto secondo
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modalità proprie: proprio perché Porretta era un centro importante, il suo dialetto si dev’essere
bolognesizzato in modo originale, distinto da quello del resto della montagna media, con apporti
bolognesi diretti, penetrazione di elementi montani medi e loro limitazione per via del permanere
o rinvigorirsi dei primitivi elementi montani alti.
Se questo è vero, non possiamo collocare esattamente nel tempo questa bolognesizzazione:
sarebbe bello che si reperissero dei documenti scritti 150 anni fa, oppure che qualche parlante
ricordasse il dialetto dei nonni (io ho chiesto se il porrettano di un tempo fosse diverso, ma ai
miei informatori non risulta: il caso opposto di Torri, dunque) ma, se non si presenteranno questi
o altri elementi nuovi ad attestare il momento e le modalità del cambiamento di segno del
porrettano da montano alto a montano medio, gli indizi storici del legame particolare con
Bologna e l’impressione divulgata da Guccini per cui “Anche il dialetto porrettano di una volta
era molto vicino a quello di Lizzano o di Castiglione. Col passare del tempo però Bologna ha
esercitato un’influenza sempre maggiore, così a Porretta il modo di parlare è un po’ mutato”
resteranno interessanti in quanto confermano la situazione particolare del porrettano, che
rappresenta (ed è questo il punto vero) un dialetto di confine tra montani medi e montani alti, ma
non saranno sufficienti da soli a stabilire una cronologia.
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