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FABIO CODEN (a cura di) MINIMA MEDIEVALIA ABSTRACT - The analysis contained in this series of short contributions covers topics seldom studied in the past, furthermore it addresses statements that need to be reconsidered through the most recent Italian and European researches. The echoes of antiquity in the Carolingian culture is investigated in the slab with cross in the abbey of S. Bonifacio (Vr) and in the very fine capital of S. Felice in Vicenza; the same attitude in the Romanesque period is found in a frieze rediscovered in the Cathedral of Verona, in a small capital with animal busts in S. Bonifacio and in two corbels survived from the demolition of the porch, originally in the facade of the Ss. Apostoli in Verona. The solutions provided in the crypt of San Felice in Vicenza and the adoption of the alternating system (columns, pilasters: ABAB, ABBA), observable in a homogeneous group of churches of the eleventh and twelfth century between the Verona territory and the Garda Lake, confirm that the Veneto region played a central role in the reception and retransmission of the influences coming from the lagoon area and from the German regions, which made their way through the main communication routes between east, west and north Europe. KEY WORDS - Medieval architecture, Medieval sculpture, Carolingian art, Romanesque, Veneto, Verona, Vicenza, Cathedral (Verona), S. Zeno (Verona), S. Fermo (Verona), S. Lorenzo (Verona), S. Pietro in Castello (Verona), S. Giovanni in Fonte (Verona), S. Giovanni in Valle (Verona), S. Zeno (Castelletto di Brenzone), S. Floriano (S. Floriano di Valpolicella), Abbazia di Villanova (S. Bonifacio), S. Lorenzo (Pescantina), S. Michele (Belfiore), Ss. Felice e Fortunato (Vicenza), Alternating system, Columns, Capitals, Slabs, Corbels, Prothyrum. RIASSUNTO - Gli approfondimenti offerti in questa serie di agili contributi riguardano tematiche che hanno incontrato solo una marginale fortuna in ambito critico o valutazioni che necessitano di un riesame alla luce delle più recenti ed accreditate indagini di ambito italiano ed europeo. Il richiamo all’antico nella cultura carolingia è valutato attraverso due manufatti superstiti, il pluteo nella cripta dell’abbazia di Villanova di San Bonifacio (Vr) e un pregevole capitello dei Santi Felice e Fortunato di Vicenza, mentre la ricerca di rimandi alti in piena epoca romanica è sottolineata in un inedito frammento di fregio dagli insediamenti canonicali della Cattedrale di Verona, in un piccolo capitello a protomi animali di San Bonifacio e nelle due mensole del demolito protiro dei Santi Apostoli di Verona, invero di scultori assai poco accurati. Le soluzioni previste nella cripta di San Felice a Vicenza e l’adozione del sistema dei sostegni alternati (colonne, pilastri), nelle navate di un gruppo omogeneo di chiese ascrivibili all’XI e 168 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 263 (2013), ser. IX, vol. III, A al XII secolo, confermano come l’area veneta abbia assunto un ruolo centrale nella ricezione e nella ritrasmissione degli influssi lagunari e oltremontani, penetrati attraverso le principali vie di comunicazione. PAROLE CHIAVE - Architettura medievale, Scultura medievale, Romanico, Arte carolingia, Verona, Vicenza, Veneto, Cattedrale (Verona), S. Zeno (Verona), S. Fermo (Verona), S. Lorenzo (Verona), S. Pietro in Castello (Verona), S. Giovanni in Fonte (Verona), S. Giovanni in Valle (Verona), S. Zeno (Castelletto di Brenzone), S. Floriano (S. Floriano di Valpolicella), Abbazia di Villanova (S. Bonifacio), S. Lorenzo (Pescantina), S. Michele (Belfiore), Ss. Felice e Fortunato (Vicenza), Sistema alternato, Colonne, Capitelli, Plutei, Mensole, Protiro. Le ricerche inerenti ad aspetti circoscritti, ma non per questo motivo marginali, della cultura materiale offrono talvolta nuove prospettive di lettura riguardo a una specifica opera, sia essa scultorea, pittorica o architettonica. In tale direzione, le segnalazioni che seguono presentano un’originale chiave d’interpretazione di alcune manifestazioni artistiche di epoca medievale della parte nord-orientale della penisola italiana, con l’intento di dipanare, in un agile resoconto, questioni critiche ancora aperte. NOTE SUL SISTEMA ALTERNATO NELLE CHIESE VERONESI DI EPOCA ROMANICA (Antonella Cantele) Tra la fine dell’XI e la prima metà del XII secolo Verona visse un momento di grande sviluppo economico e politico che trovò piena espressione anche in un notevole fervore costruttivo (1), che contribuì alla definizione di un linguaggio artistico maturo, con un lessico definito e ben riconoscibile (2). Tra le varie soluzioni architettoniche adottate, ve ne fu una di significativa portata che riguardò un gruppo di edifici relativamente consistente (undici): l’alternanza semplice tra pilastro e colonna nei sostegni tra le navate. In città è documentata a San Fermo (1065), a San Lorenzo (ante 1110), a San Pietro in Castello (fine XI, inizio XII sec.), a San Giovanni in Fonte (circa 1120), a San Giovanni in Valle (secondo o terzo decennio del XII sec.) e a San Zeno (entro la metà del XII sec.); nella diocesi a San Zeno di Castelletto di Brenzone (XII sec.), (1) VALENZANO 2008, pp. 10-11. (2) FLORES D’ARCAIS 1980, p. 353. F. CODEN (a cura di): Minima Medievalia 169 a San Floriano in Valpolicella (post 1120), a San Lorenzo a Pescantina (inizio del XII sec.), a San Pietro di Villanova (inizio XII sec.) e a San Michele a Belfiore (1143). Nonostante la critica abbia mostrato un limitato interesse al sistema alternato, inteso come precisa scelta estetica, la sua presenza davvero significativa tanto in edifici protoromanici e romanici d’oltralpe, quanto nelle chiese dell’Italia settentrionale, costituisce una motivazione sufficiente per attribuirgli maggiore attenzione. Le premesse vanno cercate in ambito tedesco, dove questo espediente incontrò la massima applicazione. Nella Bassa Sassonia si possono ammirare ancor oggi alcuni degli episodi più significativi che adottarono questa soluzione, come San Ciriaco a Gernrode (960-965), il primo esempio di basilica renana a sistema alternato, in cui ad un pilastro segue una colonna, secondo lo schema ABAB. San Michele ad Hildesheim (1010) è invece fra le più antiche testimonianze a sistema sassone, dove ad un pilastro seguono due colonne, secondo il ritmo ABBA (3). Quedlinburg (1070), Bursfelde (1100) e Fischbeck (inizio del XII sec.) sono tutti centri della Bassa Sassonia in cui è riscontrabile la variante ABBA, come pure l’abbaziale di Drübeck (Mille circa) e quella benedettina di Hecklingen (post 1150) (4). Se nel Palatinato, sede delle grandi cattedrali di Spira, Worms e Mainz, il sistema alternato si presentò come una soluzione non peculiare per il prevalere del Gebundenessystem o sistema obbligato, nella regione compresa tra il Reno e la Mosa l’alternanza semplice divenne un elemento peculiare delle chiese di epoca romanica. Le basiliche di Süsteren (1060), San Lucio a Werden (1063), Echternach (prima metà del XII secolo), Paffrath ed Eberbach sono esempi di edifici che si contraddistinguono per la successione semplice dei sostegni (5). Probabilmente essa era presente anche nel duomo di Münster, in quello di Essen e nella Adalbertskirche di Aachen. In Baviera il modello ABAB venne applicato raramente, tuttavia è documentato nelle chiese di Petersburg (consacrata nel 1107), Kastl (1103-1108) e Perschen (1122), caso quest’ultimo particolare per la presenza dello schema AABAA (6) A Verona e in provincia, come in Renania, si riscontra l’applicazione dell’alternanza semplice dei supporti ABAB, ad eccezione della chiesa (3) GRODECKI 1958, pp. 195-198; WULF 1996, pp. 13, 279-280. (4) WULF 1996, pp. 77, 109-110, 103, 121, 363. (5) KUBACH 1972, pp. 338, 356; GRODECKI 1974, pp. 26-27. (6) WEIS 1995, pp. 184-185, 253, 357-358. 170 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 263 (2013), ser. IX, vol. III, A di San Zeno dove, nel settore più prossimo alla controfacciata, questa si fonde con il modello sassone ABBA, dando vita a un ibrido che potrebbe essere stato richiesto da necessità contingenti. È da notare che, se la copertura delle basiliche tedesche fu prevalentemente piana, quella delle chiese veronesi si presentava a capriate lignee; in entrambi i casi, comunque, la scelta dell’alternanza dei sostegni lungo la navata centrale non dipese da motivi di ordine statico, ma ebbe chiaramente una valenza di carattere estetico. Come sostiene Porter, nel XII secolo esistevano numerosi edifici religiosi in cui compariva la successione tra pilastro e colonna, senza una particolare motivazione strutturale (7). Questo concetto viene fortemente ribadito anche da Humann, secondo il quale ciò non deriverebbe da esigenze statiche ma, pur servendo a conferire maggiore stabilità alla costruzione, troverebbe giustificazione nella precisa volontà di dare all’insieme un effetto esteticamente ricercato (8). A tale riguardo Kubach opera una distinzione di tipo terminologico, facendo riferimento allo Stüzenwechsel solamente in relazione alle basiliche coperte a cassettoni e legando invece il Gebundenessystem alla copertura con volta a crociera. Secondo lo studioso sarebbe proprio con la realizzazione dalle volte che avrebbe pieno compimento il cosiddetto Quadratischer Schematismus, il principio dell’addizione, che è alla base del Gebundenessystem (9). Il pilastro ha, in questo caso, una funzione strutturale, poiché serve a sorreggere gli archi traversi che separano le campate; tale necessità viene meno se la copertura della navata non è voltata e l’alternanza, sia essa renana o sassone, in assenza del sistema obbligato risulta essere una mera scelta estetica. Questo concetto si ripropone in tutte le chiese veronesi e, se si esclude San Fermo, emerge tra l’altro una non trascurabile coincidenza temporale. Inoltre, solo San Lorenzo e San Zeno possono essere considerate soluzioni miste, ovvero basiliche in cui la valenza estetica si fonde con le necessità statiche del Gebundenessystem (10). In questi due casi le campate risultano chiaramente scandite da semicolonne addossate ai sostegni forti; esse si svolgono lungo la parete fin dove si innestano – o si sviluppavano – gli archi traversi (11). (7) PORTER 1917, I, p. 97. (8) HUMANN 1925, p. 5. (9) KUBACH 1978, pp. 39-42, 79. (10) ROMANINI 1964, p. 620, annota l’importanza del sistema alternato in riferimento proprio a San Lorenzo. (11) KUBACH 1978, p. 79. La novità degli archi trasversi è ben rimarcata da PORTER 1917, I, pp. 97-98. F. CODEN (a cura di): Minima Medievalia 171 Fig. 1 - Castelletto di Brenzone (Vr), San Zeno, interno. Si può inoltre notare che gli edifici veronesi caratterizzati dal sistema alternato coincidono prevalentemente con lo schema della basilica triabsidata, priva di transetto, coperta con capriate lignee, ad eccezione di San Pietro in Castello, che prevedeva un corpo trasversale emergente e una conclusione absidale a cappelle rettilinee (12), nonché di Castelletto di Brenzone (Fig. 1), che adottò una variante a due navate (13). Stabilire una relazione diretta tra il sistema alternato presente nelle chiese d’oltralpe e quello degli edifici di culto di Verona e della sua provincia potrebbe essere azzardato. Nonostante ciò, considerando la posizione della città (14), situata all’incrocio di due tra le strade principali per i collegamenti est-ovest e nord-sud, non sorprende che, proprio nei territori atesini sia attestato un così elevato numero di chiese alle quali venne applicato, tra i vari paradigmi architettonici, anche quello del sistema alternato. (12) BALDO 2008, p. 10. (13) ARSLAN 1939, p. 55; SALVARANI 2004, p. 176. (14) ROMANINI 1964, p. 585: “Per la sua posizione geografica Verona è destinata ad essere punto d’incontro tra le visioni artistiche d’oltralpe, di Lombardia e del litorale veneto”. 172 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 263 (2013), ser. IX, vol. III, A CONSIDERAZIONI SUL CANTIERE MEDIEVALE DEI SANTI FELICE E FORTUNATO VICENZA (Fabio Coden) A A partire dalla metà del XII secolo, nell’arco di poco più di trent’anni, la chiesa dei Santi Felice e Fortunato fu oggetto di un’intensa campagna di lavori che portò alla radicale trasformazione del suo aspetto, aggiornandolo alle tendenze già da tempo presenti nell’area nord-orientale della penisola (15). Straordinaria è la quantità d’informazioni che si posseggono al riguardo – come l’identificazione delle opere eseguite, l’anno di realizzazione, il nome degli artefici e quello dei committenti – (16), rispetto alla quale si possono tuttavia proporre alcune riflessioni. Questa serie di iniziative, successive e conseguenti alla rifondazione della basilica fra la fine dell’XI e il principio del XII secolo, sembra esordire nel 1150, quando il minister Albertus fece predisporre la recinzione presbiteriale (17), terminata nel 1179 da Bricius e dal figlio, scultori di provenienza veronese (18): di questa monumentalizzazione della zona più sacra della basilica sopravvivono solamente alcuni frammenti delle epigrafi, ancora in gran parte leggibili a metà del XVIII secolo, conservati nel lapidario della cripta e nel museo della chiesa. Questi interventi, nonostante il lasso temporale che li separa, possono essere considerati di fatto lotti di avanzamento del medesimo cantiere, interrotto, ovvero dilatato nel tempo, per vicissitudini non più rintracciabili (19). Tuttavia, viene il sospetto che il materiale epigrafico in questione possa essere appartenuto tutto alla seconda fase dei lavori, viste le caratteristiche coincidenti delle modanature superstiti, sulla cui faccia anteriore si conservano le due memorie sopra citate: corrispondono il materiale impiegato, fine marmo venato, l’altezza (16 cm) e la profondità (26 cm) dei conci, l’altezza del campo scrittorio (8,5 cm), la dimensione delle lettere, lo sviluppo dei due sottili solchi che delimitano il rigo, nonché, inconfutabilmente, la tipologia delle lettere. (15) ZULIANI 1976, p. 34. (16) FACCIOLI 1803, pp. 68-69; PORTER 1917, III, pp. 553-554, 556-557, 562; ARSLAN 1956, p. 80. (17) † MCL † Hos iussit cancellos minister fieri Albertus ut memores sitis eius quicumque videtis atque iuvetis eum semper rogando Deum ut Deus in regno faciat gaudere superno. Il testo fu letto integro da BARBARANO DE’ MIRONI 1761, p. 358. Cfr. PORTER 1917, III, pp. 556, 562; MANTESE 1958, p. 184; DE RUBEIS 2011, pp. 108-109. (18) MCLXXVIIII Bricius hunc chorum fecit cum prole decoru(m) Verone natus lapides sculpendo [?---]. Cfr. BARBARANO DE’ MIRONI 1761, p. 358; FACCIOLI 1803, p. 69; RIGONI 1999, p. 13; DE RUBEIS 2011, pp. 113-114; DIETL 2009, pp. 1177-1178. È assai probabile, vista la particolare struttura compositiva, che manchi la parte finale dell’epigrafe. (19) Anche se CATTANEO 1888, p. 227, sembra teorizzare lavori non coordinati. F. CODEN (a cura di): Minima Medievalia 173 Nel frattempo, nel 1154, Petrus Venetus aveva messo in opera un sontuoso portale marmoreo che mostra inequivocabili rimandi all’area lagunare (20), mentre nel 1160 era stata conclusa la torre campanaria, come conferma un’iscrizione, riempita in origine con cocciopesto, che occupa i lati nord ed ovest della canna, superstite proprio nelle cifre della data (21). La successiva sistemazione dell’orologio nella faccia occidentale comportò l’oscuramento della parte terminale del testo, ma è necessario rilevare che l’alveolo della porzione di scritta appena oltre lo spigolo non fu mai scavato, ma solo predisposto nei contorni, a conferma di un’operazione mai conclusa. È assai difficile individuare la motivazione che indusse a lasciare incompleta un’informazione di tale importanza, ma non è escluso che la complessità di gestione di un cantiere che andava evolvendosi in uno stretto torno d’anni possa avere avuto in ciò qualche responsabilità. È comunque possibile oggi integrare l’epigrafe con alcune lettere finora sfuggite alla critica, che fanno riferimento al 28 maggio o al 27 giugno di quell’anno, senza poter escludere che il testo prosegua sotto alle malte con ulteriori informazioni: Anni D(omi)ni MCLX | V k(a)l(endas) iu[---] (22). Infine, nel 1183, l’abate Alberto fu patrocinatore di un intervento di monumentalizzazione della preesistente cripta, come documentano due epigrafi molto rovinate, distribuite fra la monofora nord-est e quella sudest del catino (23). Se si osserva con attenzione la stratigrafia delle due nicchie laterali ricavate nello spessore del muro della grande conca absidale, sarà facile scorgere, appena sotto alle aperture del 1183, le tracce delle precedenti feritoie strombate (24), appartenenti alla cripta predisposta verosimilmente fra la seconda metà avanzata dell’XI secolo e l’inizio di quello seguente, su ispirazione di alcuni vani ipogei di derivazione marciana (25). Oltre alle due ampie concavità ancora chiaramente leggibili, tuttavia, nell’originaria formulazione icnografica ve n’era di certo una anche in posizione mediana, ad oriente (26), considerata talvolta un inserimento della metà (20) CODEN 2012, p. 543. (21) BARICHELLA, Ricordi, c. 518; FACCIOLI 1803, p. 72. (22) FACCIOLI 1803, p. 72, come nei più recenti studi, ricorda solo la parte della scritta esposta a nord. L’unico ad avere intuito che l’epigrafe continuava anche nell’altro fianco è BARICHELLA, Ricordi, c. 517, che la riporta però in modo impreciso: ANNI DNI MCLX | VI †. (23) FACCIOLI 1803, p. 69; DE RUBEIS 2011, pp. 114-116. (24) MARESCHI 1980, p. 29; PREVITALI 2001, p. 247. (25) ZULIANI 1976, p. 34. (26) MARESCHI 1979, pp. 219, 239; MARESCHI 1980, p. 31. La datazione proposta dalla studiosa va però spostata più avanti. 174 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 263 (2013), ser. IX, vol. III, A del Novecento (27), a seguito dei lavori di ripristino che intesero cancellare le consistenti opere di inizio secolo intraprese dal parroco Fiori. Il dettagliato resoconto dei restauri ricorda il momento della sua scoperta in ben due passaggi: «3-VI (1938). Si riprende più profondamente l’esame del giro absidale interno, asportando con precauzione l’intonaco di cemento e di catrame del 1903 e giungendo a identificare una costruzione, che si ritiene dell’alto medioevo, con tre nicchie e finestrine a sguancio, distrutte nella parte superiore dalle aperture praticate posteriormente» (28); ed inoltre «23 luglio 1938, [...] Vengono esaminati gli scavi e particolarmente il giro absidale interno, con le recenti scoperte delle tre nicchie e finestrine» (29). Le foto storiche delle demolizioni operate nel vano ipogeo, conservate nel locale archivio parrocchiale, confermano una situazione analoga di alterazione in tutti e tre gli incavi (30): anche la nicchia centrale mostra in basso una porzione di muro di andamento arcuato fino allo stesso livello di quella delle altre due, mentre, sopra, i fianchi subirono una demolizione decisamente più consistente, per lasciare posto alla doppia ampia apertura predisposta fra il 1893 e il 1903 (31). È quindi probabile che durante i successivi interventi proprio la nicchia centrale sia stata risarcita in modo più pesante, perché le tracce antiche vi erano più esigue: si offriva così la possibilità, dato che il paramento andava comunque ricomposto, di una riproposizione dell’ipotetica forma originaria, senza alterare troppo le parti antiche ancora integre della conca absidale. Partendo dagli esigui resti delle murature a sezione arcuata ancora presenti, pure essi restaurati nell’occasione, si elevò la restante parte dell’incavo, si predispose la calotta, sul supposto modello di quella esistente nella fase più antica, e si adottò come punto luce una monofora stretta, centinata e strombata, grande quanto i resti delle adiacenti, invece di scegliere come esempio quelle più ampie, con i fianchi rettilinei, volute da Alberto. Il motivo per cui non si tramandò memoria della concavità centrale rimane oscuro, ma non è improbabile che per lungo tempo questo spazio fosse stato occultato per permettere la sistemazione di una struttura aderente al muro di fondo, che obbligò a una ridefinizione degli alzati, (27) ARSLAN 1956, p. 80; NAPIONE 2008, p. 125; FABBRI 2009b, pp. 56, 57, 58. (28) Cronistoria, cc. 55-56; SANTACATTERINA 2008, p. 433. (29) Cronistoria, c. 70. (30) In particolare una delle foto pubblicate da L. Fabbri lascia intravvedere una piccola porzione dell’incavo in questione, nella quale questa situazione è chiara al di là di ogni dubbio. Cfr. FABBRI 2009a, p. 170, fig. 17. (31) FABBRI 2009a, pp. 165-168. F. CODEN (a cura di): Minima Medievalia 175 le cui fattezze sono recuperabili grazie a un disegno del codice Barichella (32). Si tratta certamente di un imponente deposito per le reliquie dei santi, delimitato da una struttura di recinzione appoggiata all’esterno delle ultime tre colonne orientali, evidentemente predisposta per definire uno spazio di culto emblematico (33): la grande lastra marmorea con la scritta che ricorda i santi Felice e Fortunato era probabilmente collocata proprio in questo luogo, prima del suo trasferimento nell’atrio e del successivo riallestimento in una delle pareti del vano ipogeo (34). Nonostante ciò, Barichella mostra di avere avuto qualche sentore dell’esistenza della nicchia mediana, mai rilevata perché ne era visibile solo il profilo. Sembra testimoniarlo uno degli schizzi nel suo quaderno, in cui, seppur in modo non univoco, si fa riferimento a qualche cosa di analogo a quanto era presente ai lati: «Anche l’abside maggiore ha l’incavo all’apertura, come le due minori segnate nella facciata precedente» (35). La definitiva conferma di questo assunto è fornita da una piccola porzione di ghiera litica (alt. del campo curvilineo 13,5 x largh. 32 x prof. 16 cm), conservata nel lapidario della cripta, che mostra, oltre ai medesimi segni di lavorazione dei conci delle altre due aperture della fine del XII secolo, anche una perfetta coincidenza della linea di curvatura (Fig. 2). La presenza nella faccia anteriore di alcune lettere (canc), che propongono un formato coerente con quello delle altre due parti dell’epigrafe e, in special modo, con quella nella finestra nord, dimostra come anche la nicchia centrale ospitasse in origine una parte della scritta che identifica gli interventi di ammodernamento dell’abate Alberto. Non vi è dubbio, inoltre, che proprio qui si faccia riferimento a qualche tipo di delimitazione presente nel vano ipogeo, sicuramente atta a identificare e nobilitare la tomba dei santi, inondata di una maggiore quantità di luce dalle finestre appena ingrandite. Il codice settecentesco di Placido Cartolari, conservato nella Biblioteca Capitolare di Verona, riporta un disegno (Fig. 3) delle due finestre tutt’oggi esistenti (36), nel quale è evi- (32) BARICHELLA, Ricordi, cc. 86, 475, 507. (33) Il primo dei due disegni è riprodotto da FABBRI 2009a, p. 166. (34) CARRARO 2010, pp. 95-105. (35) BARICHELLA, Ricordi, cc. 491-493. Nelle pagine precedenti del medesimo codice (cc. 491-492), all’interno dello stesso paragrafo, infatti, sono presenti tre schizzi, un alzato e due sezioni a quote differenti, riferibili agli incavi laterali. Il termine abside sembra qui essere utilizzato come sinonimo di nicchia, forse perché immediatamente di seguito lo studioso si occupa proprio del catino absidale a livello del presbiterio. (36) CARTOLARI, Inscriptiones, cc. 57r-57terv, 57bisr. Desidero ringraziare Silvia Musetti sia per avermi segnalato questa preziosa fonte, sia per gli utili suggerimenti relativamente all’epigrafe del campanile. 176 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 263 (2013), ser. IX, vol. III, A Fig. 2 - Vicenza, Santi Felice e Fortunato, lapidario della cripta, frammento di ghiera con iscrizione. dente che, anche prima dei restauri ottocenteschi, lo sviluppo delle epigrafi interessava solo la ghiera e non gli stipiti; questo disegno mostra altresì che nella finestra nord l’ultima parola non era completa (fene), rendendo più che probabile che il suo completamento fosse tracciato all’inizio dell’apertura mediana e, vista la grande quantità di spazio rimanente, non è escluso che, oltre ai cancelli, seguisse l’indicazione di qualche altra opera compiuta, oggi non più identificabile, commissionata dall’abate per abbellire la cripta. La testimonianza del 1183 (37), oggi integrata di una nuova parte, recita quindi: † MCLXXXIII has i(us)sit fene||[stras ---] canc[ellos?---] || abbas fieri Albertus (38) e l’assonanza con l’epigrafe un tempo nel presbiterio non passa di certo inosservata. UN CAPITELLO IONICO DELLA VICENZA (Stefania Fabrello) BASILICA DEI SANTI FELICE E FORTUNATO DI Nel museo lapidario adiacente alla basilica dei Santi Felice e Fortunato a Vicenza è esposto un capitello ionico in marmo bianco di qualità (37) DE RUBEIS 2011, pp. 114-116. (38) Il fatto che in alcune fonti sia citato «fenestras» potrebbe semplicemente indicare che si scelse di integrare questo termine, perché facilmente risarcibile. Cfr. FACCIOLI 1803, p. 69. F. CODEN (a cura di): Minima Medievalia Fig. 3 - Verona, Bibl. Capitolare, disegno dal codice Cartolari. 177 178 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 263 (2013), ser. IX, vol. III, A Fig. 4 - Vicenza, Santi Felice e Fortunato, Museo lapidario, capitello. davvero pregevole, ascrivibile all’epoca carolingia: si tratta di una consapevole copia del modello classico ergonomico (39), sino ad ora poco documentata in Italia settentrionale nell’alto medioevo. L’elemento in questione (alt. 25 x largh. 41 x prof. 25 cm), frammentario, è composto da un echino piuttosto schiacciato e decorato con kyma ionico, da volute molto espanse, sottolineate a propria volta da un canale che ospita un racemo vegetale stilizzato, e da un abaco adornato da una cornicetta seghettata; lo completa un collarino scandito da fusarole accoppiate (Fig. 4). Nel taccuino di disegni di Vittorio Barichella per gli appunti alla Guida di Vicenza è visibile l’imposta ancora collocata (40), a fine Ottocento, nella seconda colonna dell’infilata meridionale, procedendo dall’abside (41). (39) Questa particolare tipologia, prodotta in Italia almeno sino al IV secolo, è documentata da un gruppo di capitelli proveniente dal Museo Archeologico di Verona, ritrovati presso il teatro romano e databili all’epoca della sua costruzione (fine del I secolo d.C.). Le imposte si caratterizzano per le volute dal canale concavo, percorse da un listello e concluse con una rosetta a quattro petali, per l’echino ad ovuli e per la presenza di palmette di raccordo con le spirali laterali piuttosto sporgenti; il collarino è decorato con perline e fusarole. Cfr. SPERTI 1983, pp. 19-23, figg. 2-9. (40) È più che plausibile che si tratti di una ricollocazione di età romanica, secondo una prassi ben documentata in quell’epoca (Rilavorazione 2003). (41) Nei disegni di Barichella il capitello ancora in opera è sormontato da una corni- F. CODEN (a cura di): Minima Medievalia 179 Fig. 5 - Vicenza, Santi Felice e Fortunato, capitello (CARRARO 2010, p. 303). Nell’archivio della parrocchia esiste, inoltre, una foto, scattata probabilmente durante i lavori di rimozione a inizio del Novecento (42), che mostra un capitello pressoché identico a quello in esame, tranne che per la presenza di una rosellina a punte seghettate al centro della voluta (Fig. 5). È assai difficile stabilire se quest’ultimo fosse la faccia opposta di quello oggi conservato o piuttosto un secondo reperto non più rintracciabile. È noto dal Diario di scavo, infatti, che nei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale venne danneggiato il deposito e fu, così, distrutta una decina di pezzi di epoca antica e medievale (43). Confronti pertinenti si riscontrano in ambito romano, in un capitel- ce decorata con motivo a treccia, tuttora conservata presso il museo lapidario della basilica. BARICHELLA, Ricordi, c. 93. (42) L’immagine è edita in CARRARO 2010, p. 303. (43) È plausibile che il reperto sia stato danneggiato durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale che, come è noto dal Diario di Scavo, interessarono direttamente il ricovero delle sculture. Cronistoria, c. 155. 180 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 263 (2013), ser. IX, vol. III, A lo proveniente dai mercati di Traiano, ascrivibile al IX secolo (44) – che ripropone sia la forma con volute espanse ed echino schiacciato, sia la stilizzazione della decorazione vegetale –, in un’imposta presente nella basilica di San Saba (45) e in quelle di Santa Maria in Cosmedin (46), tutte databili all’alto medioevo. Infine, la porta di accesso della cappella di San Zenone, presso la chiesa di Santa Prassede, comprende due capitelli ionici realizzati durante il pontificato di Pasquale I (817-824), di gusto non dissimile da quello che emerge dal sostegno vicentino (47). Alla luce dei confronti citati, il manufatto conservato a San Felice, a differenza di quanto sostenuto dalla critica, non può essere inquadrato all’interno della produzione scultorea di V-VI secolo (48). Cade perciò l’assunto che l’opera sia coeva ad alcune testimonianze presenti nel complesso di San Felice, come la lastra con gli agnelli, l’iscrizione dei martiri sulla stele in cripta e il sacello di Santa Maria Mater Domini (49). Più precisamente, i caratteri formali che contraddistinguono il capitello concorrono a collocarlo nel IX secolo, cautamente nei primi decenni. UN INEDITO FRAMMENTO DI FREGIO NELLE CASE CANONICALI DELLA CATTEDRALE DI VERONA (Silvia Musetti) A Verona, nello zoccolo del palazzo che affaccia su via San Girolamo, al civico 6, è stato reimpiegato un frammento di un fregio (Fig. 6), inedito, che, non essendo segnalato nel contributo sulle case canonicali (50), è verosimile sia stato posto in luce negli anni successivi al 1979. È arduo valutare il momento del suo riutilizzo, poiché l’edificio in cui è inserito viene datato al XIX secolo, ma insiste su una precedente struttura quattrocentesca (51). (44) Pani Ermini individua altri reperti simili a Roma nel nartece di Sant’Agnese Fuori le Mura e nella chiesa di Santa Maria in Aracoeli. PANI ERMINI 1974, pp. 143-144, figg. 232-233. (45) Il capitello è datato X secolo da TRINCI CECCHELLI 1976, pp. 177-178, figg. 186-187. (46) CATTANEO 1888, pp. 144-148. Seminario 1976, pp. 268-275. (47) KRAUTHEIMER & CORBETT 1971, pp. 256-258; KRAUTHEIMER 1980, p. 134. (48) Napione in un primo momento colloca il reperto al V-VI secolo (NAPIONE 2009, p. 254) e successivamente lo circoscrive al V, con incertezza (note in CARRARO 2010, p. 303, fig. VI). (49) NAPIONE 2009, p. 254. (50) BRUGNOLI, MARCHI, CAMBRUZZI & CASALI 1979; in particolare, non compare nemmeno nel rilievo, assai accurato, di p. 219. (51) CAMBRUZZI & CASALI 1979, p. 219. F. CODEN (a cura di): Minima Medievalia 181 Fig. 6 - Verona, Case canonicali, fregio. Il blocco di calcarenite giallina (alt. 32 x largh. 64 cm) versa in un cattivo stato di conservazione, in quanto gran parte della superficie è caduta o si sta sfaldando. Si può, tuttavia, leggere ancora agevolmente il soggetto raffigurato: da sinistra a destra, all’interno di una fascia delimitata da due listelli, sono scolpiti un grosso palmipede, rivolto verso destra, e una figura umana anch’essa gradiente a destra, che sembra guidare un grande animale, forse un bue o un cavallo, di cui resta solo il posteriore. L’impressione che quest’ultimo gruppo rappresentasse una scena di aratura è contraddetta dall’assenza del vomere. Il rilievo appare sostanzialmente appiattito, con i profili che si stagliano per lo più a spigolo vivo; il lapicida ha fatto riferimento a due livelli di lavorazione delle figure rispetto al fondo piano, uno più esterno e un secondo intermedio, per suggerire un senso di profondità. Le piume dell’uccello sono rese una ad una, incidendone i contorni; inoltre, l’occhio della figura umana risulta piombato. Viste le condizioni conservative, lo stato frammentario e la qualità non alta del rilievo, non è semplice indicare in modo preciso l’epoca della sua realizzazione; si potrebbe, comunque, suggerire un arco cronologico compreso tra il secondo quarto del XII secolo e la prima metà del XIII. Orienta verso questa datazione un confronto con i fregi sottogrondali e con quello che attraversa la facciata della cattedrale cittadina, che si ritengono eseguiti nel terzo decennio del XII secolo (52), e inoltre (52) BARTOLI 1987, pp. 105, 106-119, 155. 182 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 263 (2013), ser. IX, vol. III, A con quelli delle absidi centrale e meridionale di San Giovanni in Valle, dove lavorò una maestranza attiva anche presso la chiesa vescovile (53). Per questo genere di decorazione è attestata, a Verona, una certa continuità tematica e tecnica per tutto il XIII secolo e fino alla metà del XIV, come dimostrano i rilievi di coronamento della chiesa di San Zeno Maggiore (54). Se paragonato con i fregi appena ricordati della cattedrale veronese, nelle cui vicinanze si trova, il frammento palesa una più stretta somiglianza con quelle parti caratterizzate da una maggior semplificazione delle forme, non disgiunta, nel caso in esame, da una scarsa finezza esecutiva, per esempio nella resa delle articolazioni, piuttosto grosse, delle figure. Non appare, comunque, ascrivibile alla medesima campagna costruttiva per le differenze stilistiche e qualitative e, soprattutto, per la diversa ratio esecutiva, trattandosi di figure che si stagliano su un fondo piano e che non sono inserite in un sistema di tralci abitati (55). È verosimile, tuttavia, che il pezzo sia stato reimpiegato in prossimità del luogo cui era destinato; essendo murato in un edificio appartenente alle case canonicali, si potrebbe suggerire un’originaria provenienza dal complesso della cattedrale. Ma tutta l’area circostante era caratterizzata da una fitta maglia di edifici gestiti da ecclesiastici, e in particolare di chiese, che sembrano il genere di struttura ideale in cui poteva inserirsi il frammento in questione. UN CAPITELLO ROMANICO POCO NOTO DALL’ABBAZIA DI SAN BONIFACIO (VR) (Angelo Passuello) Nell’abside maggiore della cripta dell’abbazia di Villanova presso San Bonifacio è murata una piccola porzione di capitello a protomi leonine (alt. 20 x largh. 30 cm), in pietra bianco-grigia, rimasta sinora pressoché ignorata dalla letteratura specialistica (56). La sezione anteriore del (53) FABBRI 2007, pp. 154-157; FABBRI 2010, pp. 890-894. (54) VALENZANO 1993, pp. 170-179. (55) I tralci abitati sono il soggetto in assoluto più diffuso nei fregi sottogrondali del veronese. Esiste, tuttavia, anche il caso costituito dalla decorazione degli spioventi laterali della facciata di San Zeno, attribuibili ad Adamino da San Giorgio e databili al secondo/terzo decennio del XIII secolo, in cui i soggetti (prevalentemente animali) si susseguono su un fondo piano per la maggior parte della lunghezza del rilievo (cfr. VALENZANO 1993, pp. 53-59, anche se con diversa attribuzione). (56) L’unico ad accorgersi della presenza di questo reperto, a cui peraltro dedica solo un rapido accenno, è AGOSTINI 2000, p. 88. F. CODEN (a cura di): Minima Medievalia 183 Fig. 7 - Villanova di San Bonifacio, San Benedetto, cripta, capitello a protomi. calato, complessivamente ben leggibile, è suddivisa centralmente da due foglie d’acanto sovrapposte, ai lati delle quali s’innestano le due tozze e robuste fiere camuse (Fig. 7). Ammesso che tale imposta permanga in situ, non sussistono purtroppo elementi sufficienti per ipotizzarne la precisa collocazione originaria: le dimensioni piuttosto ridotte, che escludono facesse parte dei sostegni del vano ipogeo o del corpo basilicale, inducono a supporre possa provenire dal chiostro, dalla bifora di facciata o dallo scomparso protiro pensile del fronte. I medesimi scalpellini che realizzarono questo manufatto, con ogni probabilità, portarono a compimento in forme più monumentali anche l’imposta a protomi animali (57) che è posizionata tuttora nella seconda colonna dell’infilata settentrionale della chiesa (58), ritenuta dalla quasi totalità della critica analoga a due capitelli presenti a San Giovanni in (57) SIMEONI 1909, p. 487 sostiene che le fiere siano in realtà dei maiali. (58) PORTER 1917, III, p. 574; AGOSTI 1952, p. 303; CAMPARA 1980, p. 242; PREVITALI 2001, p. 133, collocano questo manufatto nel XII secolo. 184 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 263 (2013), ser. IX, vol. III, A Valle (59) o addirittura compiuta dagli stessi lapicidi (60). In realtà, gli esiti della chiesa veronese denunciano un’esecuzione assai più accurata rispetto agli episodi sambonifacesi e presentano, piuttosto, stringenti analogie con alcuni capitelli posizionati nel protiro del fianco meridionale della cattedrale e con un’imposta attualmente in opera nel loggiato d’ingresso al Vescovado, realizzati presumibilmente dallo stesso atelier (61). Tutti questi manufatti, contraddistinti da uno «stile provinciale» (62) che esprime la presenza di componenti strettamente connesse sia ai modelli di area comasco-lombarda, sia agli esempi di area wiligelmica-emiliana, sono adornati da eleganti fiere caratterizzate da una pelliccia delicatamente arricciata e finemente cesellata, risolta nell’aggraziato motivo a cordoncino che corona il volto degli animali. I possenti leoni camusi di Villanova mostrano una fattura affatto differente: la trattazione delle masse è piuttosto rozza e greve e le folte criniere sono formate da incisioni parallele tracciate con decisione; allo stesso modo, le foglie d’acanto denotano uno sviluppo dissimile, dal momento che sfoggiano lobi assai più taglienti ed incavati (63). Sebbene i capitelli di San Pietro s’inseriscano nell’ampio contesto delle imposte a protomi animali, largamente impiegate in età romanica nella città di Verona (oltre ai casi già ricordati, San Lorenzo, atrio cosiddetto di “Santa Maria Matricolare”) e nel suo territorio (San Floriano di Valpolicella), denunciano nondimeno una qualità esecutiva più scadente, che li allontana dai calibrati e ricercati prodotti delle botteghe di lapicidi attive nei più importanti cantieri urbani (64), come Santa Maria Matricolare e San Giovanni in Valle, e anche dagli esemplari periferici più raffinati di San Lorenzo di Pescantina. (59) DALLA TOMBA 1975, p. 17; BENINI 1995a, p. 242; VALENZANO 2009, p. 173. (60) ARSLAN 1939, p. 146; TREGNAGHI 1964, p. 30; SUITNER 1991, p. 552. In particolare, CALZONA 1985, p. 444 ritiene che i capitelli a protomi di Villanova e di San Giovanni in Valle siano una diretta derivazione, in forme più rozze, di quelli dell’ultima campata occidentale di San Zeno Maggiore. (61) ARSLAN 1943, p. 89; VALENZANO 2008, p. 152; CASTEGINI, DE MARCHI 2001, p. 76. Gli autori pensano che a San Bonifacio possa aver lavorato addirittura lo scultore Pelegrinus. (62) BARTOLI 1987, p. 132. (63) Di diverso parere è BARTOLI 1987, p. 137, secondo cui le medesime maestranze sarebbero responsabili dell’esecuzione delle imposte di Santa Maria Matricolare, di San Giovanni in Valle e di Villanova. (64) NAPIONE 2008, p. 330, confrontando il capitello sambonifacese con quello di San Giovanni in Valle, lo definisce «un episodio estemporaneo e modesto, quasi una citazione improvvisata di quello condotto con più solida personalità dall’officina della chiesa urbana». F. CODEN (a cura di): Minima Medievalia 185 Le singolari e invero modeste caratteristiche formali delle imposte di Villanova rendono verosimile l’ipotesi che queste ultime siano opera di una maestranza attiva in territorio provinciale nella prima metà del XII secolo, aggiornata però sul raffinato lessico figurativo che si stava imponendo in alcune grandi fabbriche cittadine. LA LASTRA ALTOMEDIEVALE DALL’ABBAZIA DI SAN BONIFACIO (VR) (Angelo Passuello) Il pluteo custodito nell’abbazia di Villanova, in corrispondenza dell’absidiola settentrionale della cripta, è uno dei manufatti altomedievali più noti del territorio veronese (65), come dimostrano i numerosi dibattiti in sede critica concernenti le sue iconografia e cronologia, che hanno portato ad esiti spesso discordanti (Fig. 8). La letteratura specializzata risulta invero divisa fra chi reputa la lastra dell’VIII (66), chi la colloca a cavallo fra l’VIII e il IX (67) e chi la ritiene un’opera «rustica e ritardataria» (68) realizzata da un lapicida attivo nel pieno IX secolo (69). Il manufatto in marmo bianco (alt. 72 x largh. 91 x prof. 14 cm), di incerta provenienza (70), presenta sulla faccia posteriore delle tracce – due incavature di forma quadrata in prossimità degli spigoli inferiori e uno scanso regolare lungo tutto il profilo del fianco destro – che farebbero presupporre un suo originario impiego in un recinto presbiteriale, dove sarebbe stata connessa ad altri pezzi analoghi, piuttosto che configurarsi come antependium d’altare (71). La rappresentazione a rilievo – consistente in due pavoni affrontati che si abbeverano in un piccolo kantharos da cui spunta una croce latina, e circondati da una serie di motivi fitomorfi e astratti che riem- (65) ARSLAN 1943, p. 10. (66) VON DER GABELENTZ 1903 p. 97; RIVOIRA 1905, p. 142; PORTER 1917, III, pp. 574575; AGOSTI 1952, p. 303; RASPI SERRA 1974, p. 218; CASARTELLI NOVELLI 1974, p. 176; DALLA TOMBA 1975, p. 200. (67) CATTANEO 1888, p. 177; SIMEONI 1909, p. 487; PANAZZA & TAGLIAFERRI 1966, p. 166; CAMPARA 1980, p. 242; BENINI 1995a, pp. 283, 244. (68) ZULIANI 1982, p. 337. (69) KAUTZSCH 1941, p. 38; FORLATI TAMARO 1959, pp. 57-58; ZOVATTO 1964, pp. 536-541; DUFOUR BOZZO 1966, p. 26; RUSSO 1974, p. 55; CANOVA DAL ZIO 1987, p. 205. (70) NAPIONE 2008, p. 328. Parecchi studiosi hanno addotto la presenza del pluteo per comprovare l’origine altomedievale del monastero di Villanova; in realtà, è assai plausibile che questa lastra sia un pezzo erratico proveniente da un altro sito. (71) Di quest’idea è PREVITALI 2001, p. 132. 186 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 263 (2013), ser. IX, vol. III, A Fig. 8 - Villanova di San Bonifacio, San Benedetto, cripta, lastra. piono pressoché tutta la specchiatura – (72) mostra notevoli affinità iconografiche con le lastre gardesane di Sirmione (73) e di Santa Maria di Cisano (74), realizzate nel IX secolo e ascrivibili, verosimilmente, ad un analogo ambito di produzione. Il reperto di Sirmione esibisce due croci «saturate d’intrecci» (75) entro arcate a pieno sesto, che nel pennacchio intermedio ospitano fiori di giglio simili a quelli che arricchiscono gli archetti a sesto oltrepassato presenti lungo il profilo superiore dell’esemplare di San Bonifacio; i motivi di riempimento a fiori, girali e matasse sono, per di più, affatto simili. Il pluteo frammentario di Cisano, oltre alla consueta croce greca percorsa da due nastri a cordoncino, contempla due uccelli stilizzati (76) che si abbeverano ad una coppa e (72) NAPIONE 2001, pp. 167-168. (73) MIRABELLA ROBERTI 1982, pp. 139-140. (74) IBSEN 2006, p. 327, n. 60. (75) ARSLAN 1943, p. 10. (76) La riduzione schematica dei volatili di Sirmione, accomunabili per alcuni tratti ai pavoni del pluteo sambonifacese, è ravvisabile anche negli uccelli e nei pesci che F. CODEN (a cura di): Minima Medievalia 187 un fiore ad otto petali, contraddistinto da un ovario centrale a girandola fortemente rilevato, che compare pure fra i singolari motivi astratti della scultura di Villanova. Un interessante accostamento può essere altresì istituito con l’ornamentazione plastica del ciborio di Sant’Eleucadio, realizzato fra l’806 e l’810 (77) e attualmente conservato presso la basilica di Sant’Apollinare in Classe. L’archivolto interno del lato orientale del manufatto ravennate, nel settore di sinistra, sfoggia due pavoni ai lati di una croce, i cui tratti sono assai semplificati: il corpo è segnato da un piumaggio fatto di profondi solchi ondulati che si risolvono nell’ala dal profilo semicircolare, percorsa da striature oblique, mentre la testa arcuata mostra un grande occhio rotondo profondamente inciso. I volatili, alla pari di quelli sambonifacesi, riflettono una degenerazione formale rispetto agli esiti più raffinati e ancora ispirati a modelli tardoantichi che qualificano, ad esempio, i pavoni dell’arco cuspidato presente nella canonica di Santa Maria a Garda (metà dell’VIII sec.) (78). Inoltre, le croci percorse da una treccia viminea annodata con le estremità patenti e cordiformi, e la partizione dei motivi di riempimento nelle campiture di risulta fra i bracci – una girandola a sinistra e un fiore a sette petali a destra, a cui corrisponde diagonalmente un elemento analogo nel settore superiore – appaiono, nel ciborio di Sant’Eleucadio e nel pluteo di Villanova, pressoché sovrapponibili. Le serrate analogie stilistiche e iconografiche fra le due opere confermerebbero, anche per la lastra sambonifacese, una datazione agli inizi del IX secolo. NUOVE CONSIDERAZIONI SUI MODIGLIONI DI FACCIATA DEI SANTI APOSTOLI VERONA (Francesca Riu) A Sul prospetto occidentale della chiesa dei Santi Apostoli a Verona si conservano, quali unici elementi scultorei del fronte, due mensole in pietra calcarea bianca (79), di considerevoli dimensioni (alt. 40 x largh. affollano la lastra triangolare della chiesetta di San Vito di Cortelline, presso Bardolino, che si dipanano intorno a una croce greca gigliata: questo reperto, che mostra un’esecuzione piuttosto sommaria, è collocato nel pieno IX secolo (IBSEN 2006, p. 321, n. 52). (77) ANGIOLINI MARTINELLI 1968, pp. 36-37; LAVERS 1971, pp. 200-211; RIZZARDI 1993, pp. 161-167. (78) IBSEN 2006, p. 309, n. 4. (79) ARSLAN 1939, p. 71; ROMANINI 1964, p. 630; NAPIONE 2008, p. 287. 188 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 263 (2013), ser. IX, vol. III, A 55 x prof. 40 cm), interpretabili come i sostegni di una struttura, verosimilmente un protiro, originariamente sovrastante il portale maggiore dell’edificio. I due manufatti, attualmente ridotti in cattive condizioni, presentano una sommaria decorazione consistente in tre differenti motivi: frontalmente compare, in alto, un girale vegetale racchiuso entro listelli, mentre la superficie sottostante è ricoperta da fasce digradanti a kymatia lesbii di profilo convesso e da file di motivi a ventaglio, alternate a gole; lateralmente, invece, si mostra, oltre al tralcio già incontrato, ma qui sviluppato solo per un breve tratto corrispondente agli spigoli, un piccolo arbusto con foglie cuoriformi, che copre l’intera superficie residua, reso in modo marcatamente semplificato (Fig. 9). Le mensole s’inseriscono perfettamente nel tessuto murario, confermando l’alloggiamento nella fase di erezione del prospetto, riferibile all’inizio del XII secolo. I pezzi avrebbero quindi mantenuto la medesima ubicazione nel corso dei secoli, nonostante i numerosi rifacimenti a cui venne sottoposto il fronte (80), come testimoniano due fotografie scattate durante un intervento di restauro eseguito tra il 1903 e il 1904, conservate presso l’Archivio della Soprintendenza per i Beni Architettonici di Verona (81). In passato si è ritenuto, in base ad analisi stilistiche, che i modioni fossero più antichi dell’edificio oggi conosciuto (82), avanzando così l’ipotesi di una loro appartenenza al primitivo apparato scultoreo dei Santi Apostoli, anche sulla scorta di fonti – quali la Veronae rhytmica descriptio e la cosiddetta Iconografia Rateriana – che citano la presenza di un tempio con la stessa dedicazione nella Verona altomedioevale (83). Osservando però attentamente i manufatti, si può notare che le modanature (soprattutto quelle riscontrabili sulle facce frontali) sono eseguite, seppur mostrando un modus rigido e approssimativo, con sufficiente vivacità; inoltre, la cornice superiore con il girale vegetale parrebbe più definita e disinvolta del motivo laterale ad albero, la cui resa risulta invece assai esitante. La sospetta arcaicità ravvisata nei motivi potreb(80) SIMEONI 1909, pp. 134-137; PORTER 1917, III, p. 480; BALESTRIERI 1954, p. 9; FLORES D’ARCAIS 1980, p. 360; NAPIONE 2008, p. 287. (81) Verona, Archivio della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Verona, Rovigo e Vicenza, b. Santi Apostoli, F\11 a\1 e a\2. (82) ARSLAN 1939, p. 71; BENINI 1995b, p. 78. In particolare, Arslan parla di “carattere... più arcaico”, seppur ricollegando le mensole a un originario e presunto protiro collocato in facciata. Anche Benini, riprendendo le medesime supposizioni, ritiene addirittura che le mensole appartenessero a una precedente fase della chiesa. (83) DA LISCA 1913, pp. 161-163; BALESTRIERI 1954, pp. 7-8; ZOVATTO 1960, p. 574. F. CODEN (a cura di): Minima Medievalia 189 Fig. 9 - Verona, Santi Apostoli, modiglione di facciata. be essere interpretata più cautamente come scarsa qualità della decorazione, che propone moduli desunti dal repertorio classico, risolti, però, con esiti piuttosto impacciati. Un confronto stilistico con apparati scultorei provenienti da simili ambiti geografico-culturali accerta la diffusa consuetudine di riproporre modelli tratti dall’antico – tra cui cornici a tralcio e il cosiddetto albero della vita –, inquadrabili nel più tipico universo simbolico paleocristiano qui veicolato dal revival di forme classiche declinate nelle nuove sensibilità rappresentative. A tale proposito, sulla facciata della pieve di San Pancrazio a Montichiari (Brescia) è visibile un pluteo, riferito al VI secolo, impreziosito da un alberello a foglie cuoriformi, fuoriuscente da 190 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 263 (2013), ser. IX, vol. III, A un kantharos, affiancato sui due lati da pavoni (84), che sembra essere un utile termine di paragone per la composizione veronese. Inoltre, su un frammento di pluteo datato IX secolo e conservato presso il portico di Ca’ da Noal a Treviso, figura un albero della vita, prossimo a quello dei Santi Apostoli, scolpito nel momento in cui il supporto lapideo fu riutilizzato in un nuovo contesto sicuramente ancora medievale (85). Grazie al confronto, infine, con altri elementi scultorei presenti in situ e riconducibili al programma decorativo della fase romanica, come quelli visibili all’esterno del prospetto orientale (86), si potrebbe ipotizzare che nel cantiere dei Santi Apostoli della prima metà del XII secolo, accanto a maestranze perfettamente aggiornate sulle nuove tendenze, fossero presenti lapicidi solo sommariamente informati sulla più elegante sensibilità architettonico-decorativa del tempo. Pertanto, ciò che è stato interpretato come un carattere arcaico e che, invece, parrebbe indicare un modus operandi attardato, non denuncerebbe una maggior antichità dei due manufatti in oggetto, quanto piuttosto la loro contemporaneità alla realizzazione del nuovo edificio, nel contesto di un cantiere dove cooperavano personalità e tecniche assai diversificate. BIBLIOGRAFIA AGOSTI A., 1952 - L’abbazia di Villanova, in «Vita Veronese», X, 5, pp. 300-305. 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