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RIVISTA INTERNAZIONALE DI FILOSOFIA E PSICOLOGIA DOI: 10.4453/rifp.2021.0005 ISSN 2039-4667; E-ISSN 2239-2629 Vol. 12 (2021), n. 1, pp. 56-70 RICERCHE L’etica della passività. Lo slittamento etico della fenomenologia nel pensiero di Lévinas Pietro Pasquinucci(α) Ricevuto: 8 settembre 2020; accettato: 16 marzo 2021 █ Riassunto Il presente lavoro offre un’analisi dell’etica di Lévinas, in particolare in relazione alla fenomenologia genetica di Husserl. La prima parte tratta la revisione di Lévinas della sensibilità passiva, mostrando come la concezione della “passività” di Husserl e di Lévinas, lungi dall’essere reciprocamente escludentisi, godono di un rapporto di complementarità. La seconda parte offre una nuova interpretazione della posizione di Lévinas sull’etica come approfondimento necessario e legittimo della teoria husserliana dell’empatia. Questa prospettiva permette di gettar luce sul retroterra fenomenologico della tesi di Lévinas sul primato dell’etica sull’ontologia. Nella terza parte saranno analizzate e poste a confronto le posizioni di Lévinas e Ricoeur sulla nozione di “riconoscimento” al fine di mostrare come la continuità con la fenomenologia di Husserl renda possibile una considerazione dell’“etica senza riconoscimento” di Lévinas come condizione necessaria per la possibilità di ogni “etica del riconoscimento”, schermandola da diverse e importanti critiche. PAROLE CHIAVE: Fenomenologia; Etica; Passività; Empatia; Riconoscimento █ Abstract The ethics of passivity. The ethical sliding of phenomenology in Lévinas’ thought - The present paper offers an analysis of Lévinas’ ethics, in particular, in relationship to Husserl’s Genetic Phenomenology. The first section deals with Lévinas’ revision of passive sensibility, revealing that Husserl’s and Lévinas’ conceptions of “passivity”, far from being mutually exclusive, enjoy a complementary relationship. The second section offers a new interpretation of Lévinas’ position on ethics as a necessary and legitimate deepening of Husserl’s theory of empathy. This perspective allows us to shed light on the phenomenological background of Lévinas’ thesis on the primacy of ethics over ontology. In the second section, Lévinas’ and Ricoeur’s positions on the concept of “recognition” are analyzed and compared in order to show how continuity with Husserl’s phenomenology makes it possible to consider Lévinas’ “ethics without recognition” a necessary condition for the possibility of any “ethics of recognition”, thereby deflecting a number of relevant criticisms. KEYWORDS: Phenomenology; Ethics; Passivity; Empathy; Recognition Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia, Università degli Studi di Genova, via Balbi, 2-6 – 16126 Genova (I) (α) E-mail: pietropasquinucci@hotmail.it () Creative Commons - Attribuzione - 4.0 Internazionale - © Pietro Pasquinucci 2021 L’etica della passività L’ATTENZIONE NEI CONFRONTI DELLA fenomenologia di Husserl caratterizza l’intero percorso di riflessione di Lévinas. Ciò nonostante, l’indirizzo etico della sua filosofia e l’uso di un linguaggio spesso ambiguo1 hanno rischiato di nascondere il debito del suo pensiero nei confronti della riflessione husserliana. Negli ultimi anni è stato portato all’attenzione come, al di là del loro rivestimento linguistico, le riflessioni etiche di Lévinas conservino una radice teoretica e profondamente fenomenologica. In continuità con i lavori di questi autori,2 intendiamo analizzare l’etica lévinasiana alla luce del suo rapporto con la fenomenologia genetica di Husserl. Muovendo da questo rapporto intendiamo mostrare, in particolare, che è possibile rintracciare una linea di continuità, per certi versi perfino metodologica, tra i pensieri di questi due autori. Seguendo lo svolgimento della filosofia lévinasiana a partire dal confronto con i temi husserliani della passività, della sensibilità, della genesi e dell’alterità, intendiamo mettere in evidenza come l’etica di Lévinas rappresenti non solo un tentativo di superare la fenomenologia a partire dalle sue stesse premesse, ma anche una prosecuzione, per quanto apparentemente poco lineare, della fenomenologia genetica husserliana. A tal scopo, nel primo paragrafo, analizzeremo la rielaborazione della sensibilità passiva da parte di Lévinas, separandola provvisoriamente dalla sua posizione riguardo l’alterità e l’etica: non perché queste tematiche siano scindibili, bensì per dare risalto ai motivi latenti del loro infrangibile legame, al fine di evitare che questa connessione possa essere interpretata come un assunto dogmatico e tendenzioso. Questo ci permetterà innanzitutto di mettere in evidenza come il concetto husserliano e quello lévinasiano di “passività”, lungi dall’escludersi, siano legati piuttosto da un rapporto di complementarità. Nel secondo paragrafo questa constatazione renderà possibile reinterpretare la posizione di Lévinas come un approfondimento legittimo e necessario del problema husserliano dell’empatia, permettendoci di mettere in evidenza il fondamento fenomenologico della sua tesi sull’ante-cedenza dell’etica come “filosofia prima” rispetto all’ontologia. Nel terzo paragrafo metteremo a confronto la riflessione di Lévinas con quella di Ricouer, evidenziando come la continuità con la fenomenologia husserliana rilevata nei primi due paragrafi permetta alla “etica senza riconoscimento” di Lévinas di essere interpretata come necessaria condizione di possibilità di ogni “etica del riconoscimento”, difendendola da alcune delle più importanti critiche che le sono state rivolte. █ 1 La sensibilità passiva e il dominio del pathos Intorno agli anni ’20, nel contesto dell’approfondimento genetico della fenomenologia, Husserl mette in evidenza che ogni oggetto intenzionale 57 verso il quale il soggetto può dirigere la propria attenzione è un’unità sintetica costituita in anticipo dalla coscienza in un costante fungere passivo che fornisce all’ego desto ogni materia.3 Si delinea così il compito di «chiarire ogni formazione data secondo la sua origine»,4 risalendo all’esperienza passiva in virtù della quale ogni senso, intuibile eideticamente nell’analisi statica, può essere sorto “per la prima volta”. Al livello passivo ogni impressione fluisce immediatamente verso il futuro in un’inten-zione protentiva, e viene trattenuta nel passato tramite una “ritenzione”.5 Nel regresso genetico, quindi, ogni vissuto tematizzabile si unisce sinteticamente alla intenzione che ne anticipava il senso, la quale era motivata a sua volta da una precedente impressione. Nelle Zeitvorlesungen Husserl aveva rintracciato nel momento dell’impressione originaria (Urimpression) l’“inizio assoluto” della costituzione, la fonte originaria del senso che non viene «prodotta a sua volta, non nasce come qualcosa di generato, ma per genesi spontanea [Ur-schöpfung]».6 In questo concetto Lévinas rileva, in un primo momento, un rinnovamento risolutorio della dimensione della sensibilità. Alle spalle della sovranità dell’ego trascendentale sembra rivelarsi una “passione innata”, un contatto primitivo con l’essere che dirige e indirizza quella costituzione per mezzo della quale, solamente, l’essere giungerà a manifestazione: l’intenzionalità «trae il suo proprio essere da questi orizzonti che, tuttavia, in un certo senso, essa costituisce (poiché ne prende coscienza); come se, qui, l’essere costituito condizionasse la propria costituzione».7 Prima di essere l’orizzonte potenzialmente illuminabile che circonda l’oggetto attualmente intenzionato, il passato sembra configurarsi come la situazione in cui il soggetto è originariamente collocato e a partire dalla quale esso compie la propria “donazione di senso” (Sinngebung): L’orizzonte implicato nell’intenzionalità non è, dunque, il contesto dell’oggetto […] ma la situazione del soggetto […]. Solo con un atto successivo e con il senno di poi si possono scoprire gli orizzonti nascosti, i quali non formano più il contesto di tale oggetto, ma i sono i donatori trascendentali del suo senso.8 La descrizione husserliana della passività, però, comporta alcune difficoltà aggiuntive. Muovendo dall’interpretazione della sensibilità come una forma di intenzionalità, Husserl specifica che perfino la hyle è una materia preformata in base alla legalità essenziale della coscienza passiva: ogni affezione è un’unità già animata dalla sintesi passiva sulla base di «legalità pre-affettive [voraffektiven] della formazione di unità».9 Da questo punto di vista, secondo Husserl, non vi è alcun contatto che non sia già sintesi, alcuna relazione con l’essere che non presupponga una Pasquinucci 58 soggettività fungente e intenzionante. L’idea di “genesi trascendentale del senso” sembra, in questa direzione, inverare definitivamente l’idealismo fenomenologico.10 Essa comporta infatti la trasposizione della soggettività all’origine della costituzione nella forma di una intenzionalità teleologica e passiva che giunge sempre in anticipo rispetto ad ogni impressione, che anticipa protentivamente il senso del reale. Sebbene, nel presente del riempimento intuitivo, l’estraneo conservi la sua capacità di sorprendere e influenzare la coscienza,11 a ben vedere esso si identifica con il movimento coscienziale in cui giunge a manifestarsi; esso esiste solo come vissuto di una coscienza che vi si rivolge intenzionalmente e che, seppur in modo passivo, lo anima e lo identifica. Si chiede in tal senso Lévinas: «Il reale che precede e sorprende il possibile – non è forse la definizione stessa del presente che, indifferente […] alla proto-tensione, non sarebbe per questo meno coscienza?».12 Per Husserl «coscienza è necessariamente esser-conscio [Bewusstsein] in ciascuna delle sue fasi»,13 il che implica che la coscienza passiva, pur non essendo consapevole di sé e del proprio operare, rimane intenzionalmente diretta verso la presenza dell’oggetto e teleologicamente orientata verso l’apprensione assoluta: rimane una coscienza-di, tematizzante e rappresentativa.14 Nell’esperienza, per quanto passiva, per quanto antepredicativa, entrano degli aspetti indiscernibili in virtù di una pretesa iniziale o di un iniziale “intendere come” […]. Prendere per.., porre come..., identificare nel molteplice è la caratteristica del pensiero in quanto distinto dalla semplice sensibilità. Il pensiero viene dunque scoperto nell’esperienza.15 In questa direzione interpretativa Lévinas arriva a concludere, in Altrimenti che essere, che nelle analisi di Husserl «l’intuizione che si oppone al concetto è già sensibile concettualizzato».16 Nel “presente vivente” ogni intenzione compare come già motivata, ogni “impressione originaria” si rivela già sintetica: entrambe sembrano dover trovare motivazione in qualcosa che trascende i confini dell’intenzionalità: «L’impressione originaria non precede forse ogni proto-tensione e così la sua propria possibilità?».17 Lo stesso Husserl riconosce, in un manoscritto risalente agli anni ’30, che l’auto-costituzione della soggettività trascendentale conduce al problema del regresso infinito.18 In tal senso sembra che la nozione husserliana di passività non escluda del tutto la possibilità di un primitivo contatto con l’essere che motivi e guidi la donazione di senso,19 rendendo possibile che le cose si manifestino “secondo i loro modi di datità propri”. Dal momento, però, che la sensibilità è definita come una forma di coscienza intenzionale, ciò che viene prima dell’intenzionalità passiva è qualcosa che si estende oltre i limiti della coscienza, in tutti i suoi sensi: Per lo stesso Husserl l’idealismo si impone come una tautologia: ciò che appare come essere appare e, di conseguenza, si trova direttamente o indirettamente nei limiti di una coscienza; ciò che oltrepassa i limiti di una coscienza non è nulla per quest’ultima.20 In ultima analisi sono le implicazioni nascoste del concetto di intenzionalità, gli infinti orizzonti che ogni presenza intenzionale implica, a condurre Lévinas a rifiutare l’interpretazione idealista della fenomenologia husserliana: affermare l’intenzionalità, al di là di ciò che lo stesso Husserl abbia saputo riconoscere, significa «percepire il pensiero come legato ad un implicito in cui esso non cade accidentalmente, ma in cui si trova in modo essenziale […]. Il pensiero è tributario di una vita anonima e oscura».21 Queste problematiche conducono Lévinas, in Altrimenti che essere, ad analizzare la passività indipendentemente dalla tensione conoscitiva che ne consegue.22 Liberata in tal modo dalla «dittatura della rappresentazione»23 e dall’egemonia dell’intenzionalità, la sensibilità originaria si rivela come «vulnerabilità, esposizione all’affezione […] passività più passiva di ogni passività, tempo irrecuperabile, diacronia».24 La passività intesa come attività inconsapevole della coscienza rivela alle sue spalle “una passività più passiva”, un subire che precede sempre l’apprensione e che anticipa la presenza sincronica in cui ciò che è subito giunge a manifestarsi. Che la necessità di questa “passività anarchica” sia frutto di un approfondimento dei risultati della fenomenologia genetica di Husserl risulta evidente quando si constata che essa non è chiamata a sostituire la passività fenomenologica, ma a motivarla e a renderla definitivamente fondata.25 Lévinas non rifiuta la significazione che si svolge come donazione di senso all’interno della struttura intenzionale, non nega la necessaria articolazione della coscienza come intenzione, tendenza verso il riempimento. Egli nega che questo sia il senso ultimo dello “psichismo” che anima la coscienza, che l’essere una pretesa,26 una tensione, una intenzione teleologica costituisca il senso primo e primario della soggettività: Una significazione dominante della sensibilità deve certamente permettere di render conto della sua significazione secondaria come sensazione, elemento di un sapere. […] Il fatto che la sensibilità possa darsi in una “intuizione sensibile” ed entrare nell’avventura della conoscenza non è una contingenza. La significazione dominante della sensibilità […] contiene la motivazione della sua funzione cognitiva.27 Percorrendo fino in fondo il tragitto genetico L’etica della passività tracciato da Husserl, Lévinas pone in questione che la manifestazione sia l’unica forma di significazione,28 che la donazione di senso sia un atto primo e che il fenomeno sia il senso ultimo di ciò che, sempre di nuovo come fenomeno, appare alla coscienza: È certo che la manifestazione fondi tutto ciò che si manifesta? Non deve forse essa stessa essere giustificata da ciò che si mostra? L’interpretazione della significazione sensibile a partire dalla coscienza-di, per quanto poco intellettualista la si voglia, non rende conto del sensibile.29 Nell’approfondimento genetico della fenomenologia Husserl finisce per identificare la riduzione con «una rettifica di una ontologia per mezzo di un’altra ontologia»30 in cui si afferma definitivamente «la coincidenza dell’essere e della sua manifestazione, essenza dell’idealismo».31 È proprio questa coincidenza, sancita dalla rielaborazione husserliana del principio di manifestatività,32 che Lévinas pone di nuovo in questione: non per giungere a un “essere altrimenti” che resiste alla manifestazione, bensì per rivelare, alle spalle di ogni essere e di ogni ente, l’altrimenti che essere in cui prende forma la motivazione prima di ogni donazione di senso e di ogni manifestazione, nell’intento di subordinare «l’ontologia a questa significazione al di là dell’essenza».33 La significazione al di là dell’essenza è possibile, sostiene Lévinas, «unicamente come incarnazione».34 La riflessione sull’incarnazione che viene esposta in Altrimenti che essere è comprensibile come un approfondimento dei concetti husserliani di “corpo vivo” [Leib] e di “intenzionalità cinestetica”.35 In un primo momento Lévinas ritiene che la fenomenologia della sensibilità cinestetica faccia emergere «delle intenzioni che non sono affatto oggettivanti e dei punti di riferimento che non funzionano come oggetti».36 L’“io posso” che si esprime nella spontaneità assoluta dei movimenti cinestetici37 «non rimane se stesso per assorbire ogni altro nella rappresentazione», il movimento corporeo «non è una registrazione, un sapere […]. La sensazione è qui il muoversi stesso. Qui il muoversi è l’intenzionalità della cinestesia e non il suo intentum».38 Secondo Lévinas, quindi, le intenzioni spontanee del corpo vivente non si risolvono nella presenza statica di un tema, non si riducono all’apprensione di una sensazione dalla quale ha origine il processo conoscitivo, bensì esprimono una coscienza incarnata che è già in situazione, che si muove nel mondo prima ancora di costituirlo e di tematizzarlo. Mediante la cinestesia, il soggetto cammina in questo mondo senza che la preposizione significhi una relazione puramente rappresentata, senza che la presenza al mondo si cristallizzi in struttura.39 Perfino a questo livello, però, la descrizione della 59 corporeità cinestetica come una forma di intenzionalità rischia di nascondere la dimensione preegologica e passiva dell’incarnazione: «La cinestesia del riposo non è il riposo della cinestesia. In quanto sensazione essa è già attività».40 La riduzione husserliana della passività a una attività teleologica inconsapevole si riflette sull’interpretazione del Leib come “punto zero dell’orientamento”41 di una intenzionalità incarnata che non è mai del tutto traducibile in un subire privo di assunzione e di tematizzazione.42 «Il corpo, punto zero della rappresentazione» deve essere considerato «al di là di questo zero, già interno al mondo che esso costituisce, fianco a fianco pur ponendosi di fronte a».43 In Altrimenti che essere Lévinas mette quindi in evidenza come, prima di esprimersi nelle intenzioni cinestetiche, la corporeità implichi la «esposizione di una pelle messa a nudo. Il dire è la respirazione stessa di questa pelle prima di ogni intenzione».44 La corporeità intesa come luogo di una originaria esposizione e vulnerabilità si oppone alla tematizzazione che rischia di essere ancora implicata dalla descrizione husserliana del corpo vivo, rendendo concepibile una coscienza che si articola altrimenti che come intenzionalità: «L’esposizione ha un senso radicalmente diverso dalla tematizzazione. L’uno si espone all’altro come una pelle si espone a ciò che la ferisce».45 La critica lévinasiana al concetto di intenzionalità si traduce in un ribaltamento della relazione coscienza-corpo: in continuità con il superamento fenomenologico del dualismo cartesiano di res cogitans e res extensa, superamento che si esprime nel concetto di corpo vivo, Lévinas rileva che il corpo è vivo originariamente nel suo esporsi, è vivente e significante nel suo subire, nella sua nudità senza interesse. Il significato originario del corpo non si esprime quindi nell’intenzionalità cinestetica, bensì nella sua fragilità e precarietà, nel dolore che esso subisce ancor prima di poterlo percepire intenzionalmente,46 nella passività dell’invecchiamento che lo espone a una temporalizzazione antecedente a ogni “sintesi” del soggetto.47 L’esperienza passiva si svolge perciò in un dominio del pathos48 che Husserl sembra avere, almeno in parte, misconosciuto. In questa dimensione assolutamente passiva l’estraneo influisce sul soggetto, tramite la sua esposizione corporea, prima che il soggetto costituisca l’estraneo rendendolo tema, riconducendolo al medesimo. Il soggetto è perciò infranto in un passato irrecuperabile,49 già da sempre, il che implica che non si possa rivivere il passaggio dalla passività all’attività, non si possa recuperare l’inizio se non a costo di ridurlo, come in Husserl, a una originaria attività senza ragion sufficiente,50 a una coscienza da sempre intenzionale, e, dunque, in qualche senso padrona di sé, potenzialmente presente a se stessa. Questa interpretazione della passività e della sensibilità, che Lévinas delinea a partire dalla riflessione husserliana, ci permetterà, nel prossimo para- 60 grafo, di proporre un confronto tra i due autori sul tema dell’alterità e dell’incontro con Altri. █ 2 Alterità ed empatia: una nuova prospettiva Nella Quinta mediazione cartesiana Husserl analizza la genesi del senso “alter-ego” a partire dal “dominio del proprio”.51 Tale dominio viene raggiunto tramite una “riduzione primordinale” che permette di astrarre «da tutte le determinazioni del mondo fenomenale che per il loro senso rimandano ad altri come soggetti-io e quindi li presuppongono».52 In questo campo è compreso l’intero mondo come «correlato trascendentale dell’esperienza».53 Nella “sfera appartentiva” il soggetto percepisce dunque anche il corpo dell’altro come un oggetto che, a questo livello, si offre come “mero momento costitutivo”54 della coscienza immanente. In virtù di una somiglianza tra il corpo così percepito e il corpo proprio vissuto in prima persona, l’impressione motiva una intenzione protentiva diretta verso l’apprensione di quello stesso corpo come corpo proprio di un “alter-ego”. Tale corpo è percepito quindi immediatamente, in un unico vissuto che «può appresentare solo perché presenta»,55 come corpo proprio di un alter-ego, di un ego analogo a quello del soggetto intenzionante. Il riempimento intuitivo verso cui si dirige l’intenzione protentiva sarebbe possibile solo laddove il soggetto intenzionante fosse in grado di vivere in prima persona i vissuti del soggetto intenzionato. Tale intenzione trova un riempimento parziale esclusivamente nella percezione degli atteggiamenti corporei dell’altro,56 rendendo possibile il darsi-sottraendosi di una vita estranea che rimane costitutivamente inesperibile, e che, a differenza delle cose, non si presenta mai “in carne e ossa”. L’altro si costituisce così nel soggetto e per il soggetto, rimanendo ciò nondimeno estraneo, distante, irriducibile a semplice fenomeno immanente. Husserl salvaguarda in tal modo la trascendenza dell’Alter-ego senza rinunciare all’analisi intenzionale. Nell’intenzionalità passiva egli ritrova la motivazione sufficiente per il movimento di trascendenza verso l’altro, senza che questo movimento significhi una riduzione dell’alter-ego a semplice oggetto per la coscienza. Se analizziamo queste riflessioni alla luce della rielaborazione lévinasiana della sensibilità sopra esposta, si può notare come la posizione di Husserl implichi che nessun contatto con l’altro possa precedere la presenza intenzionale del suo corpo di fronte al soggetto passivo. Il modo in cui Husserl affronta la genesi del senso “alter-ego” è influenzato e determinato dalla sua precedente caratterizzazione della passività come inconsapevole attività teleologica.57 L’accoppiamento (Paarung) tra ego e alter-ego viene presentato come una sintesi passiva58 la cui condizione di possibilità e la cui motivazione risiedono interamente nella percezione di un Pasquinucci corpo “in quanto corpo dell’altro”, di un corpo intenzionato e tematizzato, dunque nell’originarietà e onnicomprensività dell’esperienza intenzionale. In continuità con le analisi genetiche degli anni ’20 Husserl interpreta la passività come espressione di una pura sensibilità universale.59 Frutto della sospensione di ogni alterità e di ogni sovrastruttura storico-culturale ad essa connessa, il dominio del proprio si presenta come campo di una estetica trascendentale fenomenologica che non ammette antecedenti, che è originaria in qualità di forma eidetico-trascendentale della sensibilità.60 La motivazione dell’appercezione analogica risiede dunque nelle leggi essenziali della sensibilità intesa come “ragione percettiva” in cui ogni senso è investito dalla necessità trascendentale di una soggettività originaria che lo costituisce a partire “da sé” e dai propri vissuti immanenti. La dimensione pre-intenzionale della passività, pur sfuggendo sempre di nuovo all’analisi, è per Husserl formalmente identificabile con la struttura pura della sensibilità che è isolabile e analizzabile per mezzo della riduzione al dominio del proprio. In tal modo egli sancisce definitivamente la validità onnicomprensiva del principio di manifestatività: anche l’alter-ego non è se non nella misura in cui si manifesta, ed è “Altro” da me solo perché sorge, già a livello percettivo, come “Altro per-me”. L’intenzionalità conserva tutta la propria validità e originarietà e determina la trasformazione della fenomenologia in una monadologia,61 nello sforzo di autocoscienza da parte di una monade onnicomprensiva e totalizzante; una trasformazione che si esprime con tutta la sua forza nella ripresa del famoso motto agostiniano nell’ultima pagina delle Meditazioni.62 Se la costituzione dell’alterego, come nota Ricoeur, doveva evitare lo spegnersi della fenomenologia in una «egologia senza ontologia»,63 essa rischia di sancire definitivamente questo spegnimento, riducendo una volta per tutte l’essere a una determinazione dell’apparire, l’obiettività al prolungamento di una intersoggettività che a sua volta non è altro che uno sviluppo genetico interno a un ego monadico che rimane in-sé, nella sua totalità infinita, unico e assoluto. L’approfondimento lévinasiano della sensibilità husserliana, come mostrato, mette innanzitutto in evidenza che la passività si struttura, prima che come donazione di senso, come dominio del Pathos in cui l’esposizione e la vulnerabilità del corpo precedono e motivano il movimento teleologico in cui ogni oggetto si manifesta in qualità di fenomeno intenzionale. L’analisi della percezione del corpo esterno “in quanto” corpo dell’alter-ego è la tematizzazione di un vissuto già rappresentativo che deve trovare la propria motivazione in un momento antecedente e pre-intenzionale, in una passività radicale in cui nessun corpo può essere propriamente percepito, intenzionato, tematizzato, rappresentato, dunque nemmeno associato analogicamente al mio L’etica della passività corpo. Sia il Leib come corpo proprio sia il corpo esterno con cui esso si unisce associativamente sono vissuti intenzionali che presuppongono una esposizione radicale all’altro, esposizione in cui il Leib è pura vulnerabilità e in cui il corpo dell’altro significa, prima di tutto, una messa in questione del mio esser-ci: La significazione come l’uno-per-l’altro, senza assunzione dell’altro da parte dell’uno, nella passività, suppone la possibilità del puro nonsenso invadente e minacciante la significazione. Senza questa follia ai confini della ragione, l’uno ritornerebbe in se stesso e, nel cuore della sua passione, ricomincerebbe l’essenza.64 In Altrimenti che essere queste considerazioni conducono Lévinas a descrivere l’essenza stessa della soggettività come l’altro nel medesimo […] l’inquietudine del medesimo inquietato dall’altro. Né correlazione dell’intenzionalità e nemmeno quella del dialogo […]; un’affezione per l’Altro […]; risposta alla sua prossimità prima di ogni domanda.65 È interessante notare che, in Totalità e infinito, il dominio del Medesimo veniva esplicitamente identificato con la sfera primordinale della Quinta meditazione.66 In questo periodo della sua riflessione, Lévinas ritiene che il soggetto, in quanto Medesimo separato ontologicamente dall’Altro,67 si esprima originariamente nella possibilità di «possedere cioè di sospendere proprio l’alterità di ciò che è […] altro rispetto a me».68 Il Volto di Altri, “refrattario alla categoria”69 e alla rappresentazione, interrompe questo movimento di appropriazione intenzionale, esprimendosi come un appello etico e generando una frattura in seno all’egoismo originario della soggettività. Pur distanziandosi da Husserl nel sottolineare il significato etico dell’incontro con Altri, in questo periodo Lévinas è convinto che l’individuazione del soggetto e la sua tensione verso il possesso intenzionale precedano necessariamente tale incontro. Alla luce delle riflessioni precedenti, la definizione del soggetto come “Altro nel medesimo” non si presenta esclusivamente come una interessante evoluzione del pensiero di Lévinas,70 bensì offre anche l’unità di misura per comprendere questi ripensamenti come un approfondimento della fenomenologia husserliana dell’alterità. Il soggetto è originariamente “altro nel medesimo”, perché il medesimo, l’ego come affermazione di identità e di possesso,71 è una risposta a un traumatismo e a una vulnerabilità che non concernono il corpo come un accadere casuale, bensì esprimono la significazione preoriginaria e pre-intenzionale dell’incarnazione stessa. Questa ridefinizione del soggetto ribalta dall’interno la struttura dell’intenzionalità,72 metten- 61 do in discussione l’interpretazione del dominio del proprio come “fondamento”73 della genesi del senso “Alter-ego”. Il “proprio” si mostra come già invaso e animato dall’estraneo. Se in Husserl l’alterità, l’esteriorità, la trascendenza del passato si fondano su “un’immanenza espansa”,74 su una coscienza che «essa stessa e in se stessa si esteriorizza»,75 Lévinas ritiene, al contrario, che ogni immanenza si fondi sulla trascendenza assoluta e pre-originaria dell’estra-neità, che è tale nella misura in cui non è “intenzionata”, bensì subita, in un subire diverso da quello dell’intenzionalità che «è sempre anche un assumere»,76 in una passività senza assunzione. Ogni presenza intenzionale che si manifesta nel dominio del proprio come oggetto percepito e posseduto è preceduta dall’esposizione ad Altri, dalla prossimità77 d’Altri. Il concetto di prossimità traduce l’assenza della distanza intenzionale che rende ogni oggetto tematizzabile e rappresentabile. Esso esprime l’immediatezza di un contatto che mi sorprende, che mi pone in questione e che mi ossessiona. Non si tratta della vicinanza di un soggetto osservato, vissuto, squadrato e tematizzato, non è la presenza di qualcuno di fronte a me, bensì una non-presenza traumatica, l’inquietudine di un non-senso radicale e indominabile. In un contatto che non è relazione intenzionale l’altro non è un mio analogo, bensì ciò che non ha simili: Non è sufficiente dunque definire la prossimità come rapporto tra due termini e, garantita in quanto rapporto, come simultaneità di questi termini. Bisogna insistere sulla rottura di questa sincronia […] attraverso la differenza del Medesimo e dell’Altro nella non-indifferenza della ossessione esercitata dall’altro sul medesimo.78 La posizione della significazione di Altri al di qua del Medesimo e del suo sforzo di appropriazione intenzionale, permettono a Lévinas di rafforzare la tesi, già espressa in Totalità ed infinito, sull’impossibilità che si dia un’esperienza dell’altro in senso proprio: si può dire che il prossimo non si mostra, non si manifesta […]. Il prossimo è proprio ciò che ha un senso immediatamente, prima che glielo si attribuisca. Ma solo Altri può avere senso in tal modo, come colui che ha un senso prima che glielo si dia.79 Dal punto di vista fenomenologico potremmo chiederci che cosa possa motivare queste considerazioni e in che senso l’altro possa essere descritto come “il prossimo per eccellenza”.80 L’analisi di Lévinas in Altrimenti che essere riguarda infatti un livello totalmente passivo e pre-intenzionale della coscienza. A questo livello la differenza di senso che distingue le cose e le persone non è ancora sorta e non Pasquinucci 62 può essere presupposta. Inoltre, in virtù del ribaltamento della nozione di corpo vivo, la passività non sembra doversi esprimere come vulnerabilità ed esposizione solo nell’incontro con Altri, bensì nella totalità dell’esperienza sensibile. La questione può essere anche posta nella seguente maniera: perché, a differenza delle cose, il Volto d’altri mi pone in questione? Nessuna proprietà dell’alterego nel suo senso eidetico può venirci in aiuto, poiché nessun senso è, a questo livello, propriamente sorto. Rinunciando al filo conduttore [Leitfaden]81 di un senso già posseduto ci troviamo nell’imbarazzo di una passività che vogliamo irrecuperabile, ma la cui irrecuperabilità rischia di condannarci al silenzio. Analizzando tale posizione alla luce della fenomenologia genetica husserliana possiamo mettere in risalto i fondamenti fenomenologici della nozione di prossimità: nell’immediatezza della prossimità l’altro mi parla, prima che io possa comprenderlo.82 Il suo appello non è l’appello di un Volto percepito,83 non risiede nella forma di un oggetto che somiglia al mio corpo (un Leib che non è ancora oggetto perme, né il centro della mia azione intenzionale, bensì il luogo di un contatto persecutorio): la sua violenza è la violenza non voluta di una parola che non comprendo, di un verbo che mi raggiunge prima di ogni senso. Nella prossimità d’Altri, in cui il Dire non è ancora Detto, in cui la parola, incompresa, precede ogni comunicazione, il soggetto è infranto e, posto in questione, è obbligato a rispondere malgrado sé, a prescindere da sé, senza alcuna possibilità di fuga: Il contatto con altri non è né manifestazione né sapere, ma l’evento etico […] presupposto da ogni comunicazione di messaggi […]. La prima parola dice unicamente il dire stesso prima di ogni essere e di ogni pensiero in cui si specchia e si riflette l’essere.84 Questo aspetto rimane incomprensibile, se si analizza l’incontro come un momento secondario rispetto alla coscienza intenzionale. Secondo Husserl l’atteggiamento corporeo dell’Alter-ego ha senso solo nella misura in cui conferma o corregge una precedente intenzione protentiva della coscienza.85 Ogni contatto è già intuizione e ogni intuizione è il riempimento di una precedente tensione conoscitiva diretta verso un senso che, nella tensione, si è già costituito. In questo modo Husserl non si limita ad affermare la necessità di una articolazione teleologica e protensionale della conoscenza,86 bensì pone questa articolazione come struttura originaria di ogni significazione. Per Husserl, come abbiamo visto, la presenza percettiva dell’Altro è il riempimento inadeguato, realizzato nella percezione dei suoi atteggiamenti corporei, di un’intenzione diretta verso l’apprensione dei suoi vissuti. Lévinas mette invece in luce come la prossimità d’Altri preceda ogni tensione conoscitiva e ogni apperce- zione del suo corpo come corpo proprio di un Alter-ego: ogni essenza e ogni senso ideale non sono altro che il prodotto di uno sforzo di sincronizzazione e di comprensione, motivato dal trauma originario di un corpo che mi parla prima ancora che io sia in grado anche solo di percepirlo in quanto corpo e che, così facendo, mi chiama in causa. Queste considerazioni mettono in discussione l’identificazione husserliana tra la coscienza passiva e la struttura universale della sensibilità intenzionale. Il primo contatto con l’altro non soggiace alle leggi dell’intenzionalità, non si esprime in una pura sensibilità universale, bensì precede entrambi, presentandosi come un incontro traumatico che travolge il soggetto prima che esso possa esperire qualcosa in quanto qualcosa dotato di senso. La trascendenza dell’altro in quanto senso immanente è dunque il riflesso fenomenico di una separazione prefenomenica, di una estraneità ed esteriorità che non giungono a manifestazione se non tradendosi: Il Detto mostra, ma tradisce, (ma tradendo, mostra!) la dieresi, il disordine dello psichismo che anima la coscienza di… e che, nel detto filosofico, si chiama trascendenza. Ma non è nel Detto che lo psichismo significa, anche se in esso si manifesta.87 Se, nell’analisi intenzionale della percezione delle cose, il principio di manifestatività sembra mantenere invariato il proprio valore, poiché nulla significa prima di giungere a manifestazione, l’altro mette profondamente in discussione la validità di questo principio, poiché il suo apparire si offre sullo sfondo di un sottrarsi.88 L’altro significa qualcosa prima della mia capacità di comprenderlo, della mia possibilità di rappresentarlo tematicamente e di possederlo in un’esperienza intenzionale. La prossimità d’Altri dissipa ogni tentativo di rintracciare, al di là della manifestazione fenomenica, un essere esistente in sé:89 non però riducendo l’essere al suo apparire, bensì mostrando come ogni essere e ogni apparire non siano se non sullo sfondo di un contatto inassumibile, di una violazione inevitabile, di un appello cui siamo obbligati a rispondere e rispetto al quale ogni senso, compreso il senso dell’essere, suona come una risposta: L’ al di qua o l’al di là dell’essere non è un ente al di qua o al di là dell’essere […]. Gli enti sono e la loro manifestazione nel Detto è la loro vera essenza […]; l’essere è inseparabile dal suo senso! Esso è parlato, è nel Logos. Ma ecco la riduzione del Detto al Dire – al di là del Logos – dell’essere e del non essere – al di là dell’essenza.90 In questo modo l’incontro con Altri, chiamandomi in causa prima di poter essere un “mio vissuto”, violandomi nel mio riposo pre-intenzionale, influenza e determina ogni modalità dell’apparire e L’etica della passività ogni correlativa fenomenologia della cosa: In realtà, la carezza del sensibile nel contatto, e la tenerezza, cioè la prossimità […], si risvegliano solo a partire dalla pelle umana, da un volto, all’avvicinarsi del prossimo […]. Le mani che hanno toccato le cose, i luoghi calpestati dagli esseri, le cose da essi tenute, le immagini delle cose, i frammenti di queste cose […], le inflessioni della voce e le parole che esse articolano […] – su tutte queste cose si diffonde la tenerezza a partire dal viso e dalla pelle umana […]. Attraverso l’essere umano la materia è anche la materia che mi ossessiona con la sua prossimità. La poesia del mondo non è separabile dalla prossimità per eccellenza o dalla prossimità del prossimo per eccellenza.91 La relazione etica invade il reale stesso nella sua forma sensibile e ante-predicativa. Già al livello della percezione delle cose, già nel dominio del Medesimo e del “proprio”, il mondo è animato dalla prossimità etica di Altri. La percezione originaria si rivela come «prossimità dell’essere di cui l’analisi intenzionale non riesce a rendere conto […] Nella relazione etica con il reale […] entra in gioco l’essenziale. La vita è là».92 La riscoperta lévinasiana della passività anarchica sembra dunque poter condurre a una fondazione dell’apparire della cosa, di ogni estetica trascendentale e di ogni pura sensibilità, su una prossimità che nega ogni apriori, che colloca la donazione di senso nella situazione concreta dalla quale essa ha origine, riscoprendo nell’incontro con Altri il luogo originario del sensato, la fonte pre-originaria del senso: Il prossimo mi concerne al di fuori di ogni apriori – ma forse prima di ogni a priori, più anticamente dell’apriori […] passività assoluta; la ricettività riguardo al dato […] non ne uguaglia la misura poiché, precisamente, l’apriori che non si può escludere lascia accogliere – il che sarebbe ancora un atto – tutto il peso del dato.93 Poiché l’inizio è, nella prossimità, una responsabilità per altri che non deriva da me, una risposta che sono obbligato a dare, una messa in questione che impedisce il rilassamento, l’etica, secondo Lévinas, precede e fonda ogni ontologia e ogni fenomenologia. Egli mostra come la prossimità e l’appello che in essa si esprime obblighino il soggetto a una responsabilità che non è solo involontaria, ma che non può essere voluta poiché investe il soggetto prima che esso si desti, determinandone il risveglio. Per concludere il presente lavoro ci soffermeremo sul significato che questa priorità assegnata all’etica può assumere, se riletta a partire dal suo rapporto con la fenomenologia genetica, analizzando le critiche che sono state rivolte a questa controversa tesi lévinasiana. Mo- 63 streremo in tal modo che tali critiche, pur mantenendo la propria validità, non inficino necessariamente il primato dell’etica, rivelandone piuttosto, per certi versi, l’insostituibile validità. █ 3 L’etica senza riconoscimento e il suo valore fenomenologico Ricoeur ha notato come l’etica emerga snaturata dalle riflessioni Lévinasiane nella misura in cui, nella prossimità, il soggetto messo in ostaggio non possiede alcuno spazio di libertà, di discernimento, di scelta.94 Secondo Lévinas «nessuno è buono volontariamente»:95 l’etica assumerebbe perciò un carattere necessitante, che la svincolerebbe pericolosamente dal tradizionale legame con l’identità del soggetto, con la sua colpevolezza, con la sua possibilità di scegliere il bene e di riconoscere consapevolmente l’altro soggetto come limite della propria azione. Si delinea perciò un’«etica senza riconoscimento»,96 in cui il prossimo mi concerne prima di ogni assunzione, prima di ogni impegno consentito o rifiutato […] mi ordina prima di essere riconosciuto. […] La comunità con il prossimo comincia nel mio obbligo nei suo riguardi […] senza interiorizzare attraverso la rappresentazione e il concetto l’autorità che mi comanda.97 Pur riconoscendo che è nel rispetto etico, e non prima di esso, che l’altro assume il proprio autentico senso, Ricoeur non accetta che tale incontro travalichi i confini dell’esperienza egologica: il superamento dell’impostazione rappresentativa di Husserl non consiste, per lui, nel situare la relazione etica al di là dell’ego e della sua azione intenzionale, bensì nel constatare che l’altro si attesta proprio sfuggendo a questa azione, ponendogli un confine insuperabile, o ancor meglio, essendo posto dal soggetto come confine insuperabile del proprio agire: il suo essere deve essere posto praticamente come ciò che limita le pretese della mia simpatia a ridurre la persona alle sue qualità desiderabili e come ciò che fonda la sua stessa apparizione.98 Se Lévinas situa la responsabilità in una passività che precede ogni azione e ogni intenzione, per Ricoeur l’essere responsabile per-altri deriva da un “rispetto” che si configura sempre di più, nel suo pensiero, come una forma di attività consapevole: la realtà dell’altro viene attestata in una riflessione sul limite, non il limite subito come una situazione che mi riguarda, ma voluto come il mezzo per dare valore all’io empirico. Questo atto di autolimitazione [...] può essere chiamato indifferentemente dovere o riconoscimento Pasquinucci 64 dell’altro […] riconoscere l’altro significa obbligarmi in qualche modo […] la posizione dell’altro in quanto altro […] non può non essere etica.99 Come aveva riconosciuto nell’impostazione fenomenologica un ingiustificato primato dell’io,100 Ricoeur rintraccia nella filosofia lévinasiana uno sbilanciamento altrettanto mistificante a favore dell’altro.101 Egli chiede a Lévinas in un celebre dialogo: «se io non avessi la prova in me stesso di ciò che significa dire “io”, non potrei dire “tu” […] c’è una specie di primato epistemologico dell’io e un primato etico del tu».102 Nella risposta di Lévinas si esprime, con tutta la sua forza, la necessità di una collocazione dell’etica al di là dell’ego: «Tuttavia se l’etico non avesse la precedenza sull’epistemologico, ogni relazione morale sarebbe compromessa».103 Affinché sia possibile porre consapevolmente e responsabilmente l’altro soggetto come limite invalicabile del proprio agire occorre che il suo senso sia già etico. Il ri-conoscimento e il rispetto non possono che situarsi in un orizzonte di senso in cui l’altro si afferma già come colui che mi chiama alla responsabilità, sul quale non posso estendere il mio possesso, e che solo per questo può essere riconosciuto e posto come tale. Se così non fosse, l’etica risulterebbe riducibile a una determinazione storica, relativa, empirica, totalmente dipendente dalla possibilità culturale e personale di riconoscere nell’altro un fine assoluto. Pur volendo assegnare al rispetto un valore trascendentale, per salvaguardare la consapevolezza e la libertà, Ricoeur connette la relazione etica a un gesto che, proprio perché è un’azione libera del soggetto, sottrae all’altro la necessità trascendentale della sua eticità. Per svincolare la coscienza dalla sua interpretazione intenzionale e rappresentativa non è sufficiente descrivere la relazione all’altro come una relazione etica: occorre piuttosto rintracciare il significato trascendentale di una simile caratterizzazione e, ancor più, in un percorso molto simile al “regresso genetico” delineato da Husserl, individuare la motivazione originaria del sorgere di un senso che, nell’esperienza cosciente, si presenta come “già etico”.104 Il fatto che il riconoscimento abbia il valore di un gesto di autolimitazione non implica affatto, a ben vedere, la necessità di una priorità epistemologica dell’io: al contrario l’etica del riconoscimento esige che ogni conoscenza riguardo l’altro sia possibile solo sullo sfondo di una passività pre-originaria in cui è l’estraneità irriducibile di Altri a porre il soggetto in una situazione di responsabilità malgrado sé, a prescindere dalla sua consapevolezza e prima di ogni consapevolezza riguardo l’altro. Come sostiene Waldenfels, approfondendo il pensiero di Lévinas: «Senza un momento di ciò che è amorale, ogni morale è destinata a scadere in una morale del gregge».105 La collocazione dell’etica a livello della sensibilità passiva non sembra quindi escludere la possibilità di un’etica del riconoscimento: sembra piuttosto renderne espliciti i presupposti necessari.106 L’etica lévinasiana si pone al di qua «della libertà e della non libertà, […] prima della bipolarità del bene e del male presentati alla scelta»,107 assumendo l’aspetto della condizione di possibilità di ogni rispetto e di ogni atto morale deliberato, più che il senso di un’originaria moralità della relazione intersoggettiva. La asimmetria dell’incontro pre-originario con Altri può essere intesa come il fondamento passivo del rispetto ricoeuriano, un limite imposto dall’esterno, che il soggetto è chiamato a riconoscere, un dovere di origine eteronoma in relazione al quale ogni imperativo autonomo e ogni autolimitazione sono momenti secondari. A ben vedere, dunque, lungi dall’escludere un’etica del riconoscimento, Lévinas sembra ricercarne il fondamento fenomenologico.108 La trascendenza di Altri è tale solo nella passività del trauma, il che rende ogni rispetto, ogni riconoscimento e ogni Paarung irrimediabilmente limitati e secondari, ogni comunicazione viziata a priori dalla violenza egologica implicita in ogni pensiero. Seguendo l’impostazione di Lévinas, come molti hanno notato, siamo in effetti costretti ad ammettere che il soggetto rimanga impossibilitato a riconoscere fino in fondo il valore trascendentale dell’altro,109 la sua singolarità, e che la categoria dell’alterità venga privata della propria “polisemia”.110 Questo non significa necessariamente, però, che l’etica come filosofia prima neghi il valore trascendentale dell’altro, né la sua singolarità: al contrario essa ne rende conto a tal punto che ogni assegnazione (attestazione, riconoscimento) egologica appare, rispetto a essa, un tradimento, una violazione, una forzatura;111 a tal punto che ogni polisemia categoriale, per quanto ampia la si voglia, si mostra inadeguata a esprimerne il significato. La già criticata “assenza di forma”112 con cui l’altro abita la prossimità traduce l’impossibilità del darsi fenomenico di un’Alterità concreta, irriducibile, inesauribile, rispetto alla quale il libero agire del singolo e il riconoscimento consapevole sono sempre inadeguati: Ma non bisogna forse prendere coscienza di tale convocazione? Il fatto di entrare in relazione non è forse preceduto da un’inevitabile presa di coscienza? […] La presenza del prossimo mi convoca con un’urgenza così estrema che non bisogna cercarne la misura nel modo in cui questa presenza si presenta a me.113 L’impossibilità di riconoscere e rispettare l’altro nel suo valore assoluto si traduce così in una condizione di colpevolezza che nessun atto potrà mai riparare, che nessun rispetto sarà mai in grado di espiare. Una distanza che nessun pensiero può L’etica della passività percorrere se non annullandola, violandola, tradendola. L’infinità dell’etica lévinasiana che così si delinea non ha il peso di un ideale utopico,114 bensì quello di una situazione ineludibile. All’interno di questa riflessione i concetti di responsabilità e di libertà sono soggetti a uno slittamento di senso: essi non indicano le proprietà essenziali di un soggetto autonomo o dei suoi atti, bensì denotano una situazione originaria ed inevitabile in cui il soggetto è posto da Altri, prima e a fondamento di ogni coscienza. Lévinas, a ben vedere, non sancisce l’originarietà dell’etica per derivarne il valore assoluto dell’altro: al contrario, egli muove dalla concreta irriducibilità fenomenica dell’altro, dal suo essere un trauma preoriginario in forza del suo sottrarsi, per mostrare il significato etico di questo traumatismo, e per rivelare che ogni intenzionalità, ogni conoscenza, ogni tensione teleologica e ogni intenzione non sono che una risposta a questa “follia ai confini della ragione”. Sostenere che la relazione con il prossimo […] sia una responsabilità per questo prossimo, che Dire sia rispondere di altri […] è intravedere nella relazione con Altri […] una passività estrema, una passività senza assunzione.115 L’autentica peculiarità lévinasiana, il filo conduttore del suo pensiero, non risiede perciò nell’ambigua affermazione di una antecedenza dell’etica rispetto all’ontologia, bensì nell’aver colto il peccato originale implicito in ogni intenzionalità, la violenza celata dietro la parola “io”,116 l’abuso nascosto all’interno dell’atteggiamento conoscitivo, il velato tradimento contenuto nella concettualizzazione e nella rappresentazione. L’eticità dell’incontro non risiede perciò nel primato dell’altro (che “in quanto altro” può esistere solo come fenomeno per-me), bensì nell’assenza di una intenzione totalizzante: proprio per questo non può essere effetto di una libera scelta da parte del soggetto, se non a costo di una ricaduta nel dominio del medesimo, nel regno incontrastato dell’ego. L’etica di Lévinas è, quindi, esattamente passività. Essa non si aggiunge al passivo per determinarne una qualità estrinseca: la passività è etica proprio perché è assenza di qualsiasi violenza intenzionale, di qualsiasi universalizzazione, di qualsiasi attività di sintesi: L’etico non indica un’inoffensiva attenuazione dei particolarismi passionali […]. Indica, invece, un rivolgimento della soggettività aperta sugli esseri, che a qualsiasi livello se li rappresenta, li pone e pretende che siano questi o quelli […] in soggettività che entra in contatto con una singolarità che esclude l’identificazione nell’ideale, la tematizzazione e la rappresentazione.117 Lévinas mette perciò in evidenza che la passivi- 65 tà, nel suo senso pre-intenzionale, è etica per definizione, e che etica è, per la stessa ragione, la motivazione anarchica di ogni “inizio intenzionale”: «L’orientarsi del soggetto sull’oggetto è diventato prossimità. L’intenzionale è diventato etico».118 █ 4 Conclusioni La posizione dell’etica all’origine del senso fa tutt’uno con l’impossibilità fenomenologica di fare esperienza dell’altro senza tradirlo, senza violarlo, senza ridurlo: è la faccia nascosta della critica all’intenzionalità, il suo significato ultimo. In Lévinas non vi è perciò un passaggio dalla fenomenologia all’etica: vi è uno “slittamento etico” della fenomenologia stessa, in cui è l’irriducibilità fenomenica dell’altro, la sua estraneità pre-genetica, a porre il soggetto, senza il suo consenso, in una situazione etica, un contesto sul quale solo può sorgere la coscienza intenzionale119 compresa adesso nel suo significato responsivo: Il linguaggio etico a cui abbiamo fatto ricorso non deriva da una particolare esperienza morale […]. Deriva dal senso stesso dell’avvicinamento che rompe con il sapere, dal volto che rompe con il fenomeno. La fenomenologia può anche seguire il rovesciarsi della tematizzazione in etica nella descrizione del Volto, ma solo il linguaggio etico può eguagliare il paradosso dinanzi a cui si trova improvvisamente la fenomenologia.120 Si può ancora sostenere, dopo queste considerazioni, che Lévinas oltrepassi il limite che la sua stessa filosofia aveva messo in evidenza, trattando l’etica come una nuova determinazione ontologica e come una nuova essenza apriorica?121 A ben vedere l’etica di Lévinas non designa altro che la negazione della tentazione, propria del pensiero, di poter ritrovare in sé la propria ragion sufficiente. Designare l’altrimenti che essere come una prossimità etica significa rifiutare ogni tentativo di rintracciare, al di là dell’essenza, un essere altrimenti, una nuova ontologia: perfino quella che risorgerebbe implicitamente con l’affermazione di un apriorismo dell’atteggiamento etico. Solo l’incontro con l’altro, infatti, può tradurre il soggetto in essere morale.122 Lévinas non delinea perciò un’etica al di là dell’essenza, quasi che l’etica continuasse a essere, malgrado tutto, una nuova determinazione ontologica, una nuova essenza: egli mostra l’inizio etico di ogni essenza, di ogni essere, di ogni fenomeno e di ogni fenomenologia. Come una porta che separa due mondi e allo stesso tempo li unisce, la prossimità non è al di là né al di qua dell’essere: essa è l’inizio in cui si riflette un pre-inizio, il limite ultimo che, nascondendo come un ingresso ciò che sta al di là, rivela inevitabilmente l’esistenza di ciò che nasconde. Perciò l’incontro con altri dà inizio Pasquinucci 66 all’etica senza che l’etica si caratterizzi come una nuova modalità dell’essenza, senza che nessuna morale lo preceda, rivelando ciò nondimeno che etico è il senso primo e ultimo di ogni donazione di senso, di ogni “risposta”, dunque di ogni essere e di ogni fenomeno. Con la difficoltà di colui che “parla dalla posizione del terzo”,123 con la fatica di un Dire che diviene inesorabilmente Detto e che deve sempre di nuovo “disdirsi”,124 Lévinas sancisce che altrimenti che essere significa altrimenti che “io”, prima di me, malgrado me, e che nessuna evidenza, nessuna intuizione, nessuna riflessione e nessun riconoscimento consapevole potrà mai prendere il posto del Volto d’altri come “luogo originario del sensato”. Non posso rendere conto di questo aspetto se non arrestandomi, se non riconoscendo in Altri il limite ultimo di ogni filosofia, di ogni ontologia, di ogni fenomenologia. La priorità dell’etica non è l’antecedenza del “tu”, non è l’antecedenza dell’altro in quanto fenomeno, né l’antecedenza del bene come oggetto di scelta rispetto al vero: è il passato anarchico di un limite che definisce l’umano, di un confine etico che fornisce all’ego e all’essere i loro lineamenti ontologici e che trova nel Volto d’altri, inteso nel suo senso traumatico-passivo, la propria motivazione fenomenologica. █ Note A tal proposito Ricoeur parla di “terrorismo verbale”, cfr. P. RICOEUR, Altrimenti. Lettura di Altrimenti che essere o al di là dell’essenza di Emmanuel Lévinas, p. 34. 2 Vedi in particolare S. GALANTI-GROLLO, La passività del sentire. Alterità e sensibilità nel pensiero di Lévinas, in cui il debito nei confronti di Husserl è analizzato in tutta la sua ampiezza e complessità. In merito si veda anche S. BUSTAN, De l’intellectualisme à l’ètique. Emmanuel Lévinas et la phènomenologie d’Edmund Husserl. 3 Cfr. E. HUSSERL, Meditazioni cartesiane, p. 103. 4 Cfr. E. HUSSERL, Metodo fenomenologico statico e genetico, p. 55. 5 Cfr. in particolare E. HUSSERL, Lezioni sulla sintesi passiva. 6 E. HUSSERL, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), p. 124. 7 E. LÉVINAS, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 150. 8 Ivi, p. 153. 9 E. HUSSERL, Lezioni sulla sintesi passiva, p. 249. 10 Questo aspetto è messo in evidenza, tra gli altri, da Kern. Cfr I. KERN, Husserl und Kant. Eine Untersuchung über Husserls Verhältnis zu Kant und zum Neukantismus, p. 280; A. PUGLIESE, Unicità e relazione. Intersoggettività, genesi e Io puro in Husserl, p. 234. 11 Cfr. E. HUSSERL, Lezioni sulla sintesi passiva, cap. I, in particolare §5. 12 E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 41. 13 E. HUSSERL, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), Beilage IX. 14 Cfr. sul tema J.E. DRABINSKI, Sensibility and singularity. The problem of phenomenology in Lévinas, pp. 140 e segg. 1 E. LÉVINAS, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 257. 16 E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 79. 17 Ivi, p. 41. 18 Cfr. E. HUSSERL, Manoscritto C 10, pp. 6a-6b. Per questo la caratterizzazione del regresso genetico come infinito vedi anche E. HUSSERL, Filosofia prima (1923/24). Seconda parte: teoria della riduzione fenomenologica, in particolare Beilage XXI. 19 In tale direzione alcuni hanno evidenziato come, nei testi tardi, Husserl faccia riferimento alla hyle originaria come «nucleo estraneo all’io [ichfremde Kern]» (E. HUSSERL, Späte Texte über Zeitkonstitution (19291934). Die C Manuskripte, p.110). Cfr. anche E. HUSSERL, Metodo fenomenologico statico e genetico. Per l’analisi di questo aspetto in connessione con il problema della genesi cfr. N. DEPRAZ, Transcendance et incarnation. Le statut de l’intersubjectivité comme altérité à soi chez Husserl. 20 E. LÉVINAS, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 162. 21 Ivi, p. 148. 22 Cfr. S. GALANTI-GROLLO, Riconoscimento e sensibilità: il conflitto con l’altro tra Ricoeur e Lévinas, in particolare p. 30; A. ZIELINSKI, Lecture de Merleau-Ponty et Lévinas. Le corps, le monde, l’autre; M. VERGANI, Lévinas fenomenologo. Umano senza condizioni. 23 Cfr. P. RICOEUR, Kant e Husserl, p. 324. 24 E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, pp. 63 e segg. 25 Questo aspetto è riconosciuto da Galanti-Grollo, il quale sostiene che se per Husserl «nella vita di coscienza vi è una “stratificazione fondamentale”, che prevede a un primo livello “passività e ricettività” e a un secondo livello la “spontanea attività dell’io”, nella coscienza lévinasiana è presente un ulteriore strato, rappresentato dalla pura passività» (S. GALANTI-GROLLO, La passività del sentire, p. 92). 26 Cfr. E. HUSSERL, Lezioni sulla sintesi passiva, in particolare p. 75. 27 E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 80 – corsivo mio. 28 Cfr. D. FRANCK, L’un-pour-l’autre. Lévinas et la signification, p. 56 e segg. 29 E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 84. 30 Ivi, p. 56. 31 Ivi, p. 80. 32 Husserl stesso constata in più di uno scritto che è possibile riscontrare, nell’approfondimento genetico della fenomenologia, una rielaborazione del principio di manifestatività, in cui la “adaequatio rei et intellectus” è posta come fine irraggiungibile della tensione conoscitiva della coscienza (Cfr. E. HUSSERL, Lezioni sulla sintesi passiva, p. 192; E. HUSSERL, Filosofia prima (1923/24). Seconda parte: teoria della riduzione fenomenologica, p. 61); E. HUSSERL, Meditazioni cartesiane, § 46; E. HUSSERL, Metodo fenomenologico statico e genetico, p. 84). 33 E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 80. 34 Ivi, p. 86. 35 Cfr. E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Libro secondo: Ricerche fenomenologiche sopra la costituzione, in particolare, Sezione seconda, cap. III. 15 L’etica della passività E. LÉVINAS, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 160. 37 Cfr. ivi, p. 154. 38 Ibidem. 39 Ivi, p. 182. 40 Ivi, p. 160. 41 In una riflessione risalente agli anni ’30 Husserl definisce il corpo proprio in quanto vivente come “Leibzentrierung”, punto di orientamento della coscienza (Cfr. E. HUSSERL, Zur Phänomenologie der Intersubjectivität. Texte aus dem Nachlass. Dritter Teil: 1929-1935, p. 643). 42 Questa aspetto trova piena espressione nella possibilità, prospettata dai maggiori fenomenologi, di immaginare una coscienza senza corpo, e nella parallela impossibilità di concepire, invece, un corpo senza coscienza (Cfr. E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, Libro primo: § 53; E. STEIN, Il problema dell’empatia, pp. 133-134). Siamo d’accordo con Galanti-Grollo quando sostiene: «si potrebbe dire che il corpo è in realtà per-altri, e che dunque non è veramente proprio» (S. GALANTI-GROLLO, La sensibilità di là dal tempo. Passività e affezione nel pensiero di Lévinas, in particolare p. 19; cfr. anche A. ZIELINSKI, Lecture de Merleau-Ponty et Lévinas, p. 100). 43 E. LÉVINAS, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, pp. 183. 44 E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 62. 45 Ibidem. 46 Cfr. ivi, pp. 70 e segg. 47 Ibidem. 48 Cfr. B. WALDENFELS, Fenomenologia dell’estraneo, pp. 39-65. 49 La riflessione lévinasiana sul tema del tempo in Altrimenti che essere è strettamente connessa a queste considerazioni e scaturisce anch’essa da un confronto profondo con le riflessioni husserliane sulla coscienza immanente del tempo (cfr. E. HUSSERL, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917)). Il concetto di “tempo diacronico” meriterebbe un approfondimento che, per ragioni di spazio, non è possibile offrire nel presente lavoro. Per un’analisi approfondita della questione, anche in rapporto alle Zeitvorlesungen, cfr. S. GALANTI-GROLLO, La passività del sentire, in particolare cap. III. 50 Waldenfels parla a tal proposito di “principio di ragione insufficiente” (cfr. B. WALDENFELS, Fenomenologia dell’estraneo, p. 56). Egli rileva che la trasposizione dell’intenzionalità all’origine della genesi fa sì che l’intenzione prima sia sempre già motivata e che l’impressione originaria sia sempre già animata dalla sintesi passiva, rivelando così la necessità di una motivazione che trascenda i confini dell’intenzionalità, una forma di coscienza passiva rispetto alla quale sia l’impressione (nel suo senso intenzionale) sia l’intenzione si rivelano come momenti secondari. 51 E. HUSSERL, Meditazioni cartesiane, pp. 118 e segg. 52 Ibidem. 53 Ivi, p. 118. 54 Ivi, p. 131. 55 Cfr. ivi, pp. 144. 56 Cfr. ivi, §52. 57 Per la sussunzione della passività husserliana in una “teleologia dell’attività” cfr. A. MONTAVONT, De la passivité dans la phénoménologie de Husserl, p. 105. 58 Cfr. E. HUSSERL, Meditazioni cartesiane, §51. 36 67 59 Già in quegli anni Husserl definisce il regresso genetico come una ricerca che «tratta del problema eidetico di un mondo possibile in generale come mondo dell’esperienza pura […] dunque descrizione eidetica dell’apriori universale» (E. HUSSERL, Logica formale e trascendentale. Saggio di critica della ragione logica, p. 356). 60 E. HUSSERL, Meditazioni cartesiane, pp. 162-163. Per un approfondimento della questione dell’estetica trascendentale fenomenologica vedi V. COSTA, L’estetica trascendentale fenomenologica. Sensibilità e razionalità nella filosofia di Edmund Husserl. 61 Ivi, p. 171. 62 Ivi, p. 172. 63 Cfr. P. RICOEUR, Studio sulle “Meditazioni cartesiane”, pp. 245-247, 251 e 252. 64 E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 64. 65 Ivi, pp. 31 e segg. 66 Cfr. E. LÉVINAS, Totalità e infinito, p. 66. 67 «L’essere si produce come multiplo e come scisso in Medesimo e in Altro. Questa è la sua struttura ultima» (ivi, p. 277). Galanti ha parlato, a tal proposito, di una “ontologia della separazione” che caratterizzerebbe il periodo la riflessione lévinasiana in Totalità e infinito e negli scritti coevi (Cfr. S. GALANTI-GROLLO, La passività del sentire. Alterità e sensibilità nel pensiero di Lévinas, in particolare cap. 1). 68 Ivi, p. 36. 69 Ivi, pp. 38 e segg. 70 È Lévinas a fornirci la chiave di lettura di questa novità, sostenendo che, a differenza di quanto espresso in Totalità e infinito, «l’esposizione all’altro non viene ad aggiungersi all’uno per condurlo dall’interiorità all’esteriorità» (E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 71). L’altro nel medesimo designa una soggettività la cui individuazione avviene a partire dalla esposizione ad Altri, esposizione che non è quindi preceduta da una presenza a sé del soggetto. 71 E. LÉVINAS, Totalità e infinito, p. 34. 72 Cfr. E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 60. Vedi per questo aspetto: S. GALANTIGROLLO, Riconoscimento e sensibilità, p. 30; cfr. anche S. GALANTI-GROLLO, Lévinas e il linguaggio della passività. 73 Il proprio è «caratterizzato dal fatto che esso ha funzione di fondamento; ciò vuol dire che io non posso possedere l’estraneo come esperienza, senza avere quello strato in una esperienza reale ed effettiva, mentre la reciproca non vale» (E. HUSSERL, Meditazioni cartesiane, p. 118). 74 Per una discussione approfondita di questa “espansione dell’immanenza” cfr. A. ALTOBRANDO, Husserl e il problema della monade, in particolare §§ 7, 8. 75 E. LÉVINAS, Alterità e trascendenza, cit., p. 27. In Crisi si legge: «la considerazione radicale del mondo è una considerazione sistematica e interna della soggettività che “si esteriorizza” nell’esteriorità» (E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, p. 143). 76 E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 127. 77 Ivi, cap. III, §6. 78 Ivi, p. 136 (p. 106). 79 E. LÉVINAS, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 267. 80 Cfr. ivi, p. 266. 81 Il tema del senso eidetico come “filo conduttore” per Pasquinucci 68 la ricostruzione della sua genesi è un passaggio fondamentale dell’argomentazione della Quinta meditazione (Cfr. E. HUSSERL, Meditazioni cartesiane, p. 130). A tal proposito Lévinas sostiene che sia necessario «rinunciare all’intenzionalità come filo conduttore verso l’eidos dello psichismo» (E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, pp. 85 e segg.) per rilevare una passività radicale che non può essere recuperata, dunque nemmeno influenzata dalla guida trascendentale del senso eidetico, poiché essa precede ogni protensione in cui il senso del reale anticipa il reale stesso. 82 A fronte di numerosi passi in cui Lévinas sostiene che il prossimo convoca il soggetto prima di qualsiasi formulazione verbale, questa affermazione potrebbe sembrare scorretta. Si può notare, però, che quei passi tendono a sottolineare la mancanza di una comunicazione reciproca e di una reciproca comprensione, più che l’assenza di qualsiasi espressione verbale. In uno di questi passi egli specifica che il senso dell’obbedienza a un imperativo che non è ancora stato formulato è identico a quello di un imperativo che è stato formulato “prima di ogni presente possibile”, dunque prima di ogni possibile comprensione (cfr. ivi, p. 18). Questo ruolo della parola nel delineare il senso della prossimità d’Altri come trauma, è messo in evidenza in un testo risalente al 1967, in cui Lévinas tenta di «pensare insieme linguaggio e contatto, analizzando il contatto al di fuori delle “informazioni” che può raccogliere alla superficie degli esseri, analizzando il linguaggio indipendentemente dalla coerenza e dalla verità delle informazioni trasmesse, cogliendo in essi l’evento della prossimità» (E. LÉVINAS, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, pp. 253-276). 83 In questo senso Altrimenti che l’essere riesce a chiarire definitivamente il ruolo del Volto che era stato delineato in Totalità e infinito, integrandolo con la rielaborazione della sensibilità e della passività. Il Volto va analizzato come una “significazione al di là dell’essenza”, dunque non nel suo senso intenzionale, bensì nel suo significato pre-intenzionale. 84 E. LÉVINAS, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 276, corsivo mio. 85 Cfr. E. HUSSERL, Meditazioni cartesiane, p. 134. 86 Questa caratterizzazione è avallata anche da Lévinas, il quale non interpreta l’idealismo e la teleologia idealista come errori casuali in cui alcuni filosofi sono incappati, bensì come il tradimento mistificatorio necessariamente implicato in ogni forma di conoscenza: «Attraverso la soppressione del singolare, attraverso la generalizzazione, il conoscere è idealismo» (E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 108). 87 Ivi, pp. 83, 84 e 88. 88 Waldenfels definirà a tal proposito l’estraneo come un “iperfenomeno” che “si mostra solo nella misura in cui si sottrae” (CFR. B. WALDENFELS, Fenomenologia dell’estraneo, p. 65) 89 La sensibilità passiva non si esaurisca nella manifestazione del fenomeno non implica infatti «che essa introduca nella conoscenza un elemento opaco […]. Pensare il sensibile in tal modo equivarrebbe a valutarlo nuovamente in rapporto alla conoscenza» (E. LÉVINAS, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 263). 90 E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 57. 91 E. LÉVINAS, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 266. 92 Ibidem. 93 Ivi, pp. 107-108, nota 20. Cfr. P. RICOEUR, Altrimenti. Lettura di Altrimenti che essere o al di là dell’essenza di Emmanuel Lévinas; P. RICOEUR, Sé come un altro; P. RICOEUR, Percorsi del riconoscimento; S. GALANTI-GROLLO, L’etica come traumatismo. La coscienza morale in Lévinas; S. GALANTIGROLLO, Riconoscimento e sensibilità; I. BERTOLETTI, Ricoeur interprete di Lévinas, pp. 49-61. 95 E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 15. 96 Cfr. S. GALANTI-GROLLO, Riconoscimento e sensibilità, p. 32. 97 E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 108. 98 P. RICOEUR, Kant e Husserl, p. 336. 99 P. RICOEUR, Simpatia e rispetto, p. 25. 100 La critica al primato dell’io nella fenomenologia risale al 1954 (cfr. P. RICOEUR, Studio sulle “Meditazioni cartesiane” di Husserl). 101 Questa critica viene delineata già in P. RICOEUR, Sé come un altro e viene radicalizzata in P. RICOEUR, Percorsi del riconoscimento. 102 E. LÉVINAS, Giustizia, amore e responsabilità. Un dialogo tra Emmanuel Lévinas e Paul Ricoeur, in particolare pp. 74-75. 103 Ibidem. 104 Il “riconoscimento” di Ricoeur, privo di un approfondimento genetico, si situa infatti necessariamente di nuovo su un terreno gnoseologico (Cfr. per questo R.A. COHEN, Moral selfhood. A Lévinasian réponse to Ricoeur on Lévinas, pp. 142 e segg.). 105 B. WALDENFELS, Fenomenologia dell’estraneo, p. 65. 106 Questa constatazione si presenta come un approfondimento della tesi di Galanti, che sottolinea come la concezione di Lévinas «si colloca ad un livello diverso rispetto a quello del riconoscimento reciproco» (S. GALANTI-GROLLO, Riconoscimento e sensibilità, p. 27). 107 E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 154. 108 Ricoeur sembra riconoscere questo rapporto di complementarità quando sostiene «la mia tesi è che la scoperta dell’oblio della dissimmetria originaria è benefica per il mutuo riconoscimento» (P. RICOEUR, Percorsi del riconoscimento, p. 289). L’idea stessa di “percorsi verso il riconoscimento” non tradisce forse, alla sua origine, l’impossibilità di un riconoscimento immediato, la necessità di una dissimmetria originaria che imponga al soggetto di impegnarsi in un percorso verso il riconoscimento dell’altro il cui risultato sarà comunque sempre inadeguato rispetto allo scopo preposto? 109 Cfr. B. BERGO, Lévinas between ethics and politics. For the beauty that adorns the Earth, p. 225. 110 Cfr. P. RICOEUR, Sé come un altro, p. 410. 111 Cfr. S. GALANTI-GROLLO, Lévinas e il linguaggio della passività, pp. 282 e segg. 112 Cfr. M. VANNI, L’impatience des rèponses. L’etique d’Emmanuel Lévinas au risque de son inscription pratique, pp. 75 e segg.; J.L. MARION, D’autrui individu, pp. 296 e segg. 113 E. LÉVINAS, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 268. 114 Cfr. S. GALANTI-GROLLO, Riconoscimento e sensibilità, pp. 8-9. 115 E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 60. 116 Per questo aspetto risultano interessanti le riflessioni 94 L’etica della passività sull’io come “affermazione di identità”, come “abuso” e come “violenza” (cfr. E. LÉVINAS, L’io e la totalità; E. LÉVINAS, Totalità e infinito). 117 E. LÉVINAS, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, pp. 262 e segg. 118 Ibidem. 119 In tal senso Riva evidenzia che «Per Lévinas, invece, il sorgere del pensiero viene col sorgere dell’altro, così che l’altro non è appunto un guadagno, ma una condizione preliminare dell’etica» (F. RIVA, La vicinanza e la distanza, p. lxxiv). 120 E. LÉVINAS, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 273. 121 I. BERTOLETTI, Ricoeur interprete di Lévinas, p. 54. 122 E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, pp. 15 e segg. 123 Cfr. P. RICOEUR, Altrimenti. Lettura di Altrimenti che essere o al di là dell’essenza di Emmanuel Lévinas. 124 Ibidem. █ Riferimenti bibliografici ALTOBRANDO, A. (2010). Husserl e il problema della monade, Trauben, Torino. BERGO, B. (2003). Lévinas between ethics and politics. For the beauty that adorns the Earth, Duquesne University Press, Pittsburg. BERTOLETTI, I. (2007). Ricoeur interprete di Lévinas. In: P. RICOEUR, Altrimenti. Lettura di Altrimenti che essere o al di là dell’essenza di Emmanuel Lévinas, Morcelliana, Brescia, pp. 49-61. BUSTAN, S. (2014). De l’intellectualisme à l’ètique. Emmanuel Lévinas et la phènomenologie d’Edmund Husserl, Ousia, Bruxelles. COHEN, R.A. (2001). Moral selfhood. A Lévinasian réponse to Ricoeur on Lévinas. In: R.A. COHEN, J.L. MARSH, Ricoeur as another. 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