DILEF - I, 2021/1 (gennaio-dicembre) | Filosofia
ARTICOLO SCIENTIFICO SOTTOPOSTO A PEER REVIEW
Diventare morali con l’aiuto delle
biotecnologie?
I limiti dei programmi coercitivi e volontari di biopotenziamento
Matteo Galletti
Abstract
In
questo
saggio
potenziamento
discutiamo
morale
gli
imposto
e
in
etti
sulla
modo
libertà
degli
trasparente
individui
tramite
considerevolmente le minacce per la libertà e aumentare l’e
di
politiche
un
programma
pubbliche;
per
di
bio-
ridurre
cacia di questi interventi, alcuni
autori propendono per distribuirli segretamente, somministrandoli ai cittadini senza che essi lo
sappiano. Un programma segreto è però incompatibile con istituzioni giuste e perciò non è
un’alternativa accettabile. Nemmeno un bio-potenziamento morale scelto dai singoli individui in
modo volontario sembra risolvere i problemi. Sebbene sia più rispettoso delle libertà personali, va
incontro a un paradosso: è molto probabile che chi ha più bisogno di migliorarsi moralmente
abbia meno motivazioni per ricorrervi. La conclusione della discussione sarà quindi (parzialmente)
aporetica.
In this paper I discuss the e
ects of a program of moral bio- enhancement imposed transparently
through public policy on individual freedom; some authors propose to distribute these interventions
secretly, administering them to citizens without their knowledge, to substantially reduce threats to
freedom
and
increase
the
e
ectiveness
of
these
interventions.
However,
a
secret
program
is
incompatible with just institutions and therefore not an acceptable alternative. Nor does a moral bioenhancement
chosen
by
individuals
voluntarily
seem
to
solve
the
problems.
Although
it
is
more
respectful of personal liberties, it runs into a paradox: it is very likely that those who are most in need
of moral enhancement will have less motivation to resort to it. The conclusion of this discussion will
therefore be (partially) aporetic.
Parole chiave: Potenziamento morale, Libertà sociale, Libero arbitrio, Trasparenza
Keywords: Moral enhancement, Social freedom, Free will, Transparency
Sommario:
La
minaccia
del
Danno
Estremo
e
l’esigenza
del
biopotenziamento
morale
-
Biopotenziamento morale coercitivo e libertà sociale - Un biopotenziamento morale che agisce
nell’oscurità - Un biopotenziamento morale volontario?
Peer review
Data ricezione:
26/11/2021
Data accettazione:
07/02/2022
Data pubblicazione: 04/03/2022
Open access
© 2022 by Author | Attribution - Non commercial - Non derivatives (IT)
Cita come
Matteo
Galletti,
Diventare
morali
con
l’aiuto
delle
biotecnologie?
I
limiti
dei
programmi coercitivi e volontari di biopotenziamento in Rivista DILEF - I, 2021/1
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DILEF - I, 2021/1 (gennaio-dicembre) | Filosofia
(gennaio-dicembre), pp. 36-50. 10.35948/DILEF/2022.3285
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La minaccia del Danno Estremo e l’esigenza del biopotenziamento
morale
Nel breve periodo di due anni, dal nostro angusto osservatorio si è assistito a eventi
che passeranno alla storia: prima una pandemia che a oggi ha ucciso nel mondo quasi
sei milioni di persone e poi l’invasione della Ucraina da parte della Russia, un
conflitto la cui durata ed esito sono incerti nel momento in cui scriviamo. Sono
situazioni non certo nuove nella storia dell’umanità, che si aggiungono a minacce
globali già in atto. Come hanno ampiamente documentato Julian Savulescu e Ingmar
Persson in numerosi scritti, lo sviluppo tecnologico porta con sé innegabili benefici
ma aumenta esponenzialmente la capacità di distruzione degli esseri umani. Gruppi
terroristici potrebbero entrare in possesso di armi nucleari e biologiche devastanti e
questa escalation potrebbe generare reazioni di vendetta e ritorsione e atteggiamenti
xenofobi verso gruppi etnici percepiti come fonte di pericolo per la vita. La minaccia
di Putin di ricorrere all’arma nucleare fa presagire un quadro drammatico, che
riporta indietro di decenni la lancetta dell’orologio della storia. Ma per i due autori
esistono ulteriori motivi per preoccuparsi, perché questo esito sarebbe ulteriormente
aggravato dalla possibilità futura di potenziare le capacità cognitive grazie alle
biotecnologie, incrementando così la memoria, l’autocontrollo, l’attenzione e la veglia.
La prospettiva è che individui in grado di acquisire velocemente conoscenze
complesse potrebbero perfezionare la propria abilità di offesa. Secondo Persson e
Savulescu:
l’espansione della conoscenza scientifica e delle abilità cognitive metterà nelle mani di un
numero crescente di persone “armi di distruzione di massa” o la capacità di
implementarle. Se ciò è vero, questa crescita della conoscenza sarà strumentalmente
cattiva per noi nel suo complesso, poiché amplificherà in modo inaccettabile il rischio di
morire presto. È un male per noi che la conoscenza scientifica continui a crescere con i
mezzi tradizionali ed è anche peggio se questa crescita è ulteriormente accelerata dal
potenziamento biomedico o genetico delle nostre capacità cognitive. (Persson-Savulescu
2008, p. 166)
Inoltre, le società occidentali sono afflitte dalla “tragedia dei beni comuni”: la loro
popolazione è divenuta così numerosa che la somma delle conseguenze degli atti dei
loro cittadini possono essere altamente problematici per il clima e l’ambiente, anche
se ciascuna azione presa singolarmente ha delle conseguenze trascurabili. Occorre
quindi una forte cooperazione interna ai paesi più ricchi e al tempo stesso una
politica estera di coordinazione tra gli sforzi di ciascun paese ricco (ivi, pp. 94 e 104).
L’insieme di questi pericoli prefigura la concreta possibilità che si realizzi il Danno
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Estremo, il potenziale annichilimento sulla terra di ogni forma di vita degna di essere
vissuta (Persson-Savulescu 2019).
Le uniche soluzioni che sembrano credibili comportano una revisione profonda delle
nostre democrazie liberali. Secondo Persson e Savulescu, la possibilità di contrastare
gli usi malvagi della tecnologia dipenderà da politiche di forte limitazione della
privacy: la sorveglianza dello spazio pubblico e privato potrà essere la chiave per
prevenire attacchi terroristici. Tutte le precauzioni prese potrebbero irrigidirsi a tal
punto da diventare insostenibili e motivare politiche discriminatorie verso alcune
etnie a cui appartengono i terroristi e comunque restrizioni di questo tipo sarebbero
giustificate secondo gli autori dalla probabilità anche minima che un danno così
ingente si realizzi. Analogamente, i cambiamenti climatici e ambientali possono
essere affrontati solo con scelte politiche restrittive, che impongono limitazioni allo
stile di vita, ai consumi e al comportamento dei cittadini, così come ai sistemi
produttivi dei paesi più ricchi e inquinanti. Esistono problemi politici ed economici
nel far rispettare decisioni di questo tipo, sia sul fronte interno sia sul fronte
internazionale, in quanto gli interessi egoistici individuali e collettivi potrebbero
frenare (come di fatto stanno già facendo) i cambiamenti globali necessari1.
L’urgenza di queste sfide globali e l’inefficacia dei metodi tradizionali nel produrre
comportamento morale richiedono però scelte ancora più radicali e, secondo Persson
e Savulescu, si rende necessario il biopotenziamento morale dell’umanità, ossia il
ricorso a interventi biomedici per rafforzare o ridurre capacità e disposizioni già
esistenti oppure crearne di nuove con l’intenzione di migliorare la motivazione, la
decisione e il comportamento nella sfera morale (Galletti 2022, pp. 13-23). In
particolar modo, secondo Persson e Savulescu, l’obiettivo è quello di sviluppare
tecnologie genetiche, farmacologiche e neurologiche per potenziare disposizioni
morali come l’altruismo, inteso come capacità di rispondere alle sofferenze altrui, e il
senso di giustizia, inteso come capacità di rispondere con gratitudine e con un favore
reciproco a chi ci beneficia e con rabbia e desiderio di vendetta a chi ci danneggia
(Persson-Savulescu 2019).
Al di là della correttezza di questa diagnosi della condizione attuale in cui versa
l’umanità e dell’effettivo ruolo della malvagità umana nella sua genesi, perpetuazione
e aggravamento2, in questo saggio vogliamo concentrarci sulla terapia che questi due
autori ritengono idonea per la guarigione (non ci soffermeremo però sulla prognosi,
per continuare la metafora, un altro aspetto che ha solleva indubbiamente
interrogativi filosofici). Daremo per scontati alcuni aspetti della terapia. Ad esempio,
non ci occuperemo della questione se in futuro avremo realmente a disposizione
tecnologie di biopotenziamento morale (d’ora in poi BPM) efficaci e sicure. Non è per
niente scontato che il BPM riesca a mantenere tutte le promesse che i suoi fautori
fanno, ma abbiamo trattato estesamente altrove questo problema (Galletti 2022, pp.
61-78, 101-9). Ci occuperemo invece delle modalità con cui le istituzioni devono
distribuire il BPM tra la popolazione. In alcuni scritti Persson e Savulescu sembrano
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sostenere che l’imposizione coercitiva del BPM sia del tutto giustificabile o che, per lo
meno, non esistano ragioni morali valide per escluderla (Persson-Savulescu 2008, p.
174; Persson-Savulescu 2012; Persson-Savulescu 2014; cfr. anche Gordon 2016).
Discuteremo brevemente degli effetti di un programma di BPM imposto in modo
trasparente tramite politiche pubbliche sulla libertà degli individui; per ridurre
considerevolmente le minacce per la libertà e aumentare l’efficacia di questi
interventi, alcuni autori propendono per distribuirli segretamente, somministrandoli
ai cittadini senza che essi lo sappiano (Crutchfield 2021; Wiseman 2017a; Wiseman
2017b, pp. 272-81). Come mostreremo nel par. 3, il BPM è incompatibile con istituzioni
giuste e perciò non è un’alternativa accettabile. Nemmeno un BPM scelto dai singoli
individui in modo volontario sembra risolvere i problemi. Sebbene sia più rispettoso
delle libertà personali, va incontro a un paradosso: è molto probabile che chi ha più
bisogno del BPM abbia meno ragioni motivazionali per ricorrervi. La conclusione
della discussione sarà quindi aporetica.
Biopotenziamento morale coercitivo e libertà sociale
Una delle critiche più ricorrenti in letteratura riguarda l’incompatibilità tra il BPM
coercitivo e la libertà. Altrove abbiamo già affrontato il problema sollevato dalla
natura polisemica del concetto di libertà: poiché essa può essere intesa in almeno due
modi, come libero arbitrio e come libertà sociale, occorre distinguere con attenzione
l’impatto che il BPM può avere su ciascuna delle due forme (Galletti 2022, pp. 79-83;
Galletti in corso di stampa). Senza ripetere nel dettaglio gli argomenti già avanzati,
vorremo qui riproporre soltanto alcune considerazioni sul rapporto tra BPM e libertà
sociale. In questo contesto per libertà sociale si intende la condizione di chi non si
trova sotto il dominio di un’altra persona. Quando un individuo dipende dalla buona
volontà di qualcun altro per compiere una serie di azioni significative secondo le sue
preferenze, senza avere pieno e libero accesso a risorse, opportunità e opzioni
adeguate allora non è socialmente libero. Rimane sempre nell’arbitrio del dominatore
decidere se la persona considerata possa o non possa agire come crede: l’esempio
classico è quello dello schiavo fortunato che conquista le simpatie, la benevolenza e
l’indulgenza del proprio padrone; sebbene questo schiavo viva una condizione
sicuramente più favorevole degli altri schiavi, non per questo può essere detto libero,
perché tutte le sue scelte e azioni sono condizionate dalla disponibilità del padrone.
Ovviamente ci sono molte sfere dell’attività umana in cui la possibilità di scegliere e
agire dipende da un ampio sistema di opportunità determinate dalle preferenze altrui
e da standard sociali che orientano istituzioni e organizzazioni. Ad esempio, per
viaggiare in aereo occorre che ci siano compagnie aeree e non esista una generale
avversione per i voli; per comprare case occorrono mutui concessi dalle banche
secondo regole e norme condivise. Compagnie aree o funzionari di banca, di norma,
non concedono però l’accesso ai voli e ai mutui in base alla loro buona volontà, ma
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secondo regole esplicite e socialmente condivise. Si tratta in breve della concezione
repubblicana della libertà come non-dominio (Pettit 2014), che ha arricchito
l’interpretazione tradizionale della libertà sociale e politica come libertà positiva
(capacità di autodeterminazione e azione) e come libertà negativa (assenza di
impedimenti e interferenze).
Secondo alcuni autori, come Robert Sparrow (2014), è proprio questa forma di libertà
a essere pregiudicata dal BPM coercitivo e questo effetto traspare nettamente se si
mettono a confronto metodi tradizionali di potenziamento morale, come l’educazione,
e metodi biotecnologici. Secondo Sparrow, nell’educazione, per quanto imposta, si
crea una relazione di parità dei soggetti, in quanto il processo avviene in termini
habermassiani, attraverso il linguaggio e l’agire comunicativo. Ogni intervento è
giustificabile da norme che modellano l’intero progetto e di principio è accettabile da
parte di tutte le persone coinvolte. L’accettabilità implica anche la possibilità di
contestare o di resistere per buone ragioni a ciò che viene proposto: l’intervento
formativo si situa cioè nello “spazio delle ragioni”, lasciando così al potenziato la
possibilità di contrapporsi all’azione educativa. Nel BPM, invece, chi potenzia mira a
modellare l’agentività di chi è potenziato in modo tecnico e strumentale, esercitando
una forma di dominio che spezza il mutuo riconoscimento e produce una relazione
fortemente asimmetrica. Come scrive Sparrow, «la tecnica che usa […] potrebbe
essere usata anche per controllare le motivazioni individuali più in generale. [Il BPM]
‘domina’ i suoi soggetti» (ivi, p. 27). Riprendendo una distinzione elaborata da Peter
Strawson (2009, pp. 90-98), potremmo sostenere che nell’educazione correttamente
intesa il potenziante assume una prospettiva partecipativa, da cui vede nell’altro una
persona coinvolta nelle normali relazioni intersoggettive e partecipe a pieno titolo
delle pratiche morali; al contrario, nel BPM il potenziante assume invece un
atteggiamento oggettivizzante, per cui il potenziato è qualcuno da “curare”, “gestire”,
“indirizzare”, un individuo da prendere in carico, in senso terapeutico o assistenziale
e quindi incapace di partecipare alle pratiche tipiche degli agenti morali. Il BPM
induce a sospendere ogni atteggiamento partecipativo e considerare chi si comporta
in modo ingiusto non più un agente morale, che nutre disposizioni o sentimenti
morali inadeguati, ma un oggetto da manipolare e correggere per il bene collettivo.
L’agente è ridotto a meccanismo che deve essere riparato o comunque contenuto nei
suoi effetti attraverso strumenti efficaci e modifiche mirate.
Ovviamente questa non è un’obiezione decisiva. Si potrebbe infatti rispondere che,
anche se il BPM viola la libertà sociale, la perdita di valore che si realizza è
controbilanciata dal bene prodotto in termini di prevenzione di atti immorali, ma
questa replica funziona solo se accettiamo una concezione ristretta del bene, che non
tiene di conto della potenziale perdita di fiducia nelle istituzioni che può provenire da
un’imposizione del BPM, né del fatto che in questo modo si impedirebbe alle persone
di migliorare il proprio carattere morale in modo autonomo (Galletti 2022, pp. 65-74;
Galletti in corso di stampa). Nel momento in cui nella valutazione complessiva non
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vengono considerati questi aspetti, il bene che viene collocato sui piatti della bilancia
insieme alla libertà risulta impoverito.
Un biopotenziamento morale che agisce nell’oscurità
Eppure, secondo alcuni l’unica speranza di evitare il Danno Estremo è proprio il
biopotenziamento morale. La prospettiva di prevenire innumerevoli sofferenze,
morti di massa e, infine, l’estinzione del genere umano sembra giustificare ogni
sacrificio di altri valori, ogni abdicazione alla difesa di libertà fondamentali.
Ovviamente, premessa di questo ragionamento è che il biopotenziamento morale sia
efficace e questo punto è tutt’altro che scontato. Il progetto auspicato da Persson e
Savulescu si scontra non solo con la realtà della ricerca attuale, che ancora è ben
lontana dall’individuare tecniche capaci di potenziare le disposizioni morali nel modo
desiderato; ma è probabilmente destinato a naufragare per la sua stessa
impostazione. Utilizzare come bersaglio delle tecniche singoli tratti del complesso
psicologico delle persone potrebbe non avere l’effetto sperato in termini di
miglioramento morale degli individui, né esistono garanzie che sfide globali come il
cambiamento climatico e la comparsa di pandemie planetarie siano affrontabili
semplicemente rendendo gli individui più generosi, più altruisti o dotati di maggiore
senso di giustizia. La dimensione “individualistica” e “aggregativa” del programma
del BPM è dissonante rispetto al modo in cui l’umanità è riuscita a raggiungere nel
passato le grandi conquiste morali e sociali e allargare il raggio inclusivo della
comunità morale. Sembra quindi che occorre un complesso intreccio di buone
disposizioni soggettive e di ambienti sociali capaci di favorire il loro esercizio. Non
solo, ma in questi casi si tratta di problemi di azione collettiva, in cui occorre che un
certo numero di persone sia disposto a potenziarsi e lo faccia effettivamente; se una
certa soglia non viene raggiunta, è probabile che non vi sia la sufficiente
cooperazione per risolvere il problema (Glannon 2018, pp. 76-79).
Parker Crutchfield (2021) ha sostenuto che un modo di risolvere questi problemi
consiste nel conversare il programma di PBM, ma di renderlo segreto. Secondo
Crutchfield, i problemi di azione collettiva sono difficili da risolvere per la presenza di
oneri epistemici: esistono zone di ignoranza, false credenze, informazioni opache che
devono essere eliminate perché sia possibile la coordinazione necessaria. Ad esempio,
se non conosco a pieno gli effetti del cambiamento climatico o non so cosa gli altri
pensano o come intendono agire al proposito, sarà per me più difficile riuscire a
valutare la situazione e decidere come comportarmi:
Gli oneri epistemici comprendono sia la conoscenza proposizionale sia quella nonproposizionale (o, per essere più precisi, l’ignoranza). Gli oneri epistemici modellano in
modo preconscio le nostre strutture incentivanti o le nostre gerarchie delle preferenze. I
corsi di azione che sembrano portare oneri epistemici incredibilmente pesanti non sono
tipicamente considerati come opzioni nella lista su cui l’agente delibera e in base a cui alla
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fine compie una scelta consapevole, mentre corsi di azioni che sembrano portare oneri
epistemi comparativamente pesanti sono sistematicamente escluse dalla lista delle opzioni
che sembrano meno problematiche dal punto di vista epistemico. L’ignoranza modella la
psicologia decisionale. (Ivi, p. 50)
Un modo per attenuare gli oneri epistemici dei problemi di azione collettiva che
coinvolgono beni pubblici consiste nel fare aumentare il valore soggettivo assegnato
al superamento di questi oneri: si può quindi intervenire indirettamente con un
biopotenziamento cognitivo e diminuire il peso dell’onere epistemico legato al
contributo all’azione collettiva oppure intervenire direttamente e aumentare (fino a
una soglia accettabile) il valore soggettivo attribuito al contributo. Anche nel primo
caso si tratta di un BPM perché per Crutchfield l’intervento massimizza la
realizzazione di valori morali (riduzione diffusa del danno e della sofferenza,
promozione
di
utilità,
libertà,
uguaglianza
e
piacere)
e
corrisponde
a
un’amplificazione della sensibilità ai valori, sia in termini riconoscitivi sia in termini
motivazionali (ivi, p. 58). Diversamente da Persson e Savulescu, Crutchfield ritiene
che un programma di BPM coercitivo sia efficace solo se attuato in modo segreto. Le
persone diffiderebbero di un intervento coercitivo che modifica le loro convinzioni
morali e le loro credenze non-morali attraverso un meccanismo biotecnologico e non
presterebbero fiducia nelle autorità che lo impongono data la diffusa opinione che
non esistono esperti morali e che il disaccordo morale è un fenomeno ubique (ivi, pp.
82-84). Qualora invece l’azione avvenisse segretamente (ad esempio attraverso
l’acqua del rubinetto o insieme a vaccini obbligatori), i cittadini non potrebbero
opporre resistenza perché inconsapevoli, ma trarrebbero tutti i vantaggi possibili dal
BPM.
La prima osservazione è che la segretezza che dovrebbe caratterizzare il programma
di BPM non appare conciliabile con la sua proposta pubblica: converrebbe non
parlarne, né difenderlo pubblicamente in un libro. È pur vero che il saggio di
Crutchfield ha tutte le caratteristiche per circolare soltanto tra la comunità scientifica
dei filosofi, senza raggiungere il grande pubblico, ma prima o poi la notizia potrebbe
venire resa nota al di là della stretta cerchia dei ricercatori.
Crutchfield inoltre dedica un intero capitolo a difendere l’idea che la trasparenza non
è una condizione necessaria per giustificare qualsiasi intervento finalizzato a
massimizzare il benessere di una popolazione. L’argomentazione di Crutchfield si
snoda attraverso osservazioni concettuali e osservazioni empiriche. Ad esempio,
sostiene che, di principio, la mancanza di trasparenza non è incompatibile con il
rispetto per le persone, qualora non lo si definisca come un atteggiamento morale
verso l’agentività razionale ma lo si intrepreti come la disponibilità a tenere in
considerazione gli interessi legati alla sentience e quindi di natura edonistica (ivi, pp.
113-4).
Crutchfield cita poi alcuni studi empirici le cui conclusioni mostrerebbero che la
trasparenza non è necessaria per creare e conservare la fiducia pubblica, ma
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addirittura potrebbe danneggiarla (ivi, pp. 117-8) o che i cittadini (americani)
preferiscono tendenzialmente la cosiddetta stealth democracy, ossia «vogliono che le
politiche siano fatte nell’oscurità, pur conservando l’opportunità di gettare luce su di
esse, se lo desiderano» (ivi, p. 123).
Non sembra che la concezione del rispetto per le persone presentata da Crutchfield
risolva tutti i problemi, perché le persone potrebbero avere un interesse a sapere che
sono oggetto di un biopotenziamento, la cui mancata considerazione può produrre
sofferenza, disagio, frustrazione. Per quanto riguarda il sostegno empirico alle
conclusioni su fiducia e trasparenza, Crutchfield stesso riconosce che i dati a
disposizione sono «esigui», ma c’è un problema fondamentale che contraddistingue la
volontà dell’autore di far convivere politiche pubbliche che agiscono nell’oscurità e
strumenti che consentono ai cittadini di venirne a conoscenza, qualora lo desiderino.
È infatti abbastanza difficile far convivere la “democrazia furtiva” con la possibilità di
fare luce su ciò che rimane oscuro: continuando la metafora, per riuscire a fare luce
occorre sapere dove puntare la torcia ma se i cittadini rimangono all’oscuro circa il
programma di BPM difficilmente riusciranno anche solo a desiderare di saperne di
più.
Rimane da considerare se la mancanza di trasparenza riesca a essere compatibile con
istituzioni giuste e, quindi, se politiche mancanti di pubblicità possano essere
considerate effettivamente giuste. Sebbene la questione sia complessa (Kogelmann
2021), vorremo qui fare alcune osservazioni partendo da ciò che John Rawls dice in
Una teoria della giustizia. Qui Rawls (1983, pp. 62, 122-3) elenca una serie di
condizioni che impongono vincoli per stabilire l’accettabilità dei principi etici, tra cui
c’è la condizione di pubblicità: in un’ottica contrattualista le parti presuppongono di
sapere dei principi tutto ciò che saprebbero se l’accettazione di questi principi fosse
frutto di un accordo. Si può quindi seguire con regolarità un principio senza averne
alcuna consapevolezza e questo è per Rawls inconcepibile in una società ben
ordinata, in cui i cittadini devono valutare le concezioni della giustizia in quanto
pubblicamente riconosciute e in quanto «costituzioni morali pienamente efficaci nella
vita sociale». La struttura fondamentale della società è un sistema pubblico di regole
caratterizzato da una dinamica di reciproca consapevolezza tra i cittadini riguardo a
quali sono le regole vigenti e cosa esse richiedono (reciproca perché ciascuno sa che
gli altri sanno). Questa dimensione orizzontale della trasparenza regola l’accettazione
dei principi e le aspettative dei cittadini non solo nei confronti delle istituzioni, ma
anche tra i cittadini stessi. Il senso di reciprocità che la concezione contrattualistica
presuppone è connesso all’esigenza rawlsiana di costruire una teoria della giustizia
basata sui principi di equità che possono regolare una società ben ordinata in
presenza di disaccordi ragionevoli e di concezioni sostantive plurali del bene. In un
certo senso, la possibilità di sapere quali sono i principi grazie a cui è regolata la
società permette cooperazione e convergenze, ma consente anche uno spazio di
contestazione delle regole, apre la possibilità a una revisione. Un modello di BPM
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DILEF - I, 2021/1 (gennaio-dicembre) | Filosofia
segreto non creerebbe questa opportunità, eliminando alla radice la possibilità che
esista dissenso. Non si tratta di attribuire valore alla contestazione in quanto tale, ma
di riconoscere che la pratica del dissenso, laddove condotta entro una pratica di
scambio di ragioni, è essenziale per comprendere punti di vista diversi e per
alimentare la rappresentazione dei cittadini non come semplici meccanismi da
aggiustare, ma come soggetti agenti (Huang 2018, pp. 557-60). Inoltre, il
riconoscimento di questo diritto previene anche il pericolo del conformismo morale
ottenuto per via biotecnologica, la contrazione del pluralismo morale, la riduzione
della possibilità di confronto.
Una possibilità è quella di optare per un sistema misto. In questo senso è utile la
distinzione introdotta da Luc Bovens, secondo cui è possibile individuare due tipi di
trasparenza: la trasparenza del tipo di interferenza (type interference transparency) e
la trasparenza dell’occasione dell’interferenza (token interference transparency). Nel
primo caso il governo dichiara pubblicamente che farà uso di certi strumenti per
ottenere certi risultati; nel secondo caso, invece, dichiara pubblicamente che in una
particolare occasione sta utilizzando un particolare strumento per ottenere un certo
scopo. Si tratta di due modi diversi di rendere trasparenti le interferenze, che possono
dare luogo a tre richieste diverse provenienti dal principio di pubblicità: (a) i cittadini
devono essere consapevoli del fatto che il governo utilizza certi dispositivi tecnologici
per potenziare moralmente le persone senza sapere quando e come li utilizza
effettivamente; (b) i cittadini possono non essere consapevoli del fatto che il governo
utilizza certi dispositivi tecnologici per potenziare moralmente le persone ma devono
sapere quando e come il governo utilizza questi dispositivi di potenziamento; (c) i
cittadini devono essere consapevoli del fatto che il governo utilizza certi dispositivi
tecnologici per potenziare moralmente le persone e devono sapere quando e come il
governo li utilizza (Bovens 2009, pp. 216-7; Mills 2015, pp. 500-2)3. Un programma
semi-segreto di BPM potrebbe adottare un principio di pubblicità che realizza una
trasparenza di tipo (a). Sebbene possa risultare più accettabile, ovviamente tale
proposta non sarebbe accettata da Crutchfield, perché la considererebbe inefficace.
Un’altra possibile soluzione è di organizzare una deliberazione pubblica in cui i
cittadini sono chiamati a decidere ed esprimersi sulla possibilità di rinunciare a quote
della loro libertà sociale per prevenire il Danno Estremo. Questa soluzione
sembrerebbe più in linea con i valori democratici, ma niente assicura che i cittadini
che vi partecipino non siano schiacciati, nelle sue varie fasi, da oneri epistemici. Ma
questo problema affligge anche la proposta del BPM segreto. Le persone che
dovrebbero decidere di imporlo potrebbero scontrarsi con il problema di dover
superare oneri epistemici, dimostrandosi molto più sensibili al valore dell’interesse
personale che al valore degli stati prodotti dal BPM. Dovremmo quindi assicuraci che
esse per prime siano state biopotenziate, ma su iniziativa di chi? Il rischio di un
regresso all’infinito sembra attanagliare il programma segreto di BPM.
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DILEF - I, 2021/1 (gennaio-dicembre) | Filosofia
Un biopotenziamento morale volontario?
Per evitare le conseguenze negative del biopotenziamento coercitivo, sia nella sua
versione esplicita, sia nella sua versione segreta, rimane la possibilità di renderlo
volontario. Vojin Rakić (2014; 2021), ad esempio, ha sostenuto che il BPM coercitivo ha
serie conseguenze sul libero arbitrio e, quindi, sull’identità degli esseri umani:
Rendere obbligatorio il BPM per ridurre la probabilità del danno estremo depriverebbe gli
esseri umani del loro libero arbitrio. Privare loro di questa libertà significa eliminare
qualcosa di essenziale per gli esseri umani in quanto esseri morali. […] Il BPM obbligatorio,
un’impresa che tocca ciò che percepiamo come libero arbitrio, tocca anche ciò che noi
percepiamo come identità umana (che include il fatto di avere libero arbitrio). Quindi, Il
BPM obbligatorio, che tocca ciò che percepiamo come il nostro libero arbitrio, è contrario
alla nozione di chi siamo. In questo senso, infligge anche un altro danno essenziale: un
danno, forse un danno estremo, alla nostra identità di esseri umani. (Rakić 2021, 22-3)
Secondo Rakić l'unico modo per conservare i beni del biopotenziamento morale senza
rinunciare al libero arbitrio è di rendere il BPM obbligatorio solo per alcuni cittadini
(ad esempio, criminali incalliti già incarcerati che rappresenterebbero da liberi una
minaccia per la collettività); tutte le altre persone dovrebbero avere il diritto di
acquistare e utilizzare, dietro prescrizione medica, dispositivi o farmaci potenzianti
(ivi, pp. 63-6).
L’obiezione di Rakić al BPM coercitivo non è politica, ma metafisica, in quanto
riconosce un’incompatibilità tra questo di intervento e il libero arbitrio. Tuttavia, la
negazione della libertà della volontà incide sull’identità pratica degli individui umani
e questa è una rilevante conseguenza etica. Il BPM volontario preserva invece il libero
arbitrio, anzi è una sua diretta espressione. Si potrebbe però obiettare che la
decisione di sottoporsi volontariamente al BPM crea un problema se si accetta una
concezione “complessa” dell’identità personale, secondo cui l’identità diacronica è
data da una relazione di continuità e connessione tra parti corporee e mentali diverse
della vita della persona (Parfit 1973). È possibile suddividere in parti questa
continuità e distinguere il sé presente dai sé futuri, la persona che oggi prende la
decisione X e la persona che domani, in momenti diversi, subirà gli effetti di quella
decisione. Un’obiezione di questo tipo viene mossa da Michael Hauskeller:
L'asimmetria persisterebbe quindi tra il nostro sé presente (e futuro) e il nostro sé
precedente, che per il nostro sé presente è un'altra persona. Ci troveremmo in condizioni
analoghe al caso in cui qualcuno ha firmato volontariamente un contratto che lo ha reso
schiavo per il resto della sua vita. Anche se quella persona avesse liberamente scelto di
essere schiava, una volta schiava, non avrebbe più la possibilità di non esserlo, e non è
un'intuizione inusuale che per questo sia sbagliato fare una tale scelta (e non dovrebbe
essere permesso farla). Allo stesso modo, privandoci volontariamente e deliberatamente
della possibilità di agire in determinati modi (che sono stati selezionati come moralmente
indesiderabili o “cattivi” da qualcun altro), ci trasformiamo in schiavi di una decisione
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precedente, e non importa se questa decisione è stata presa da noi o da qualcun altro,
perché in entrambi i casi finiamo per essere schiavi. (Hauskeller 2017, p. 374)
Hauskeller parla di libertà politica, non di libero arbitrio, e si potrebbe pensare che
questo argomento non funzioni contro l’ipotesi di BPM volontario di Rakić; è però
sufficiente riformulare l’obiezione chiedendo se sia moralmente giusto o lecito
consentire alle persone di trasformare in “zombie morali” i loro sé futuri. In questo
modo l’obiezione non sembra perdere forza, perché la prospettiva di autotrasformarci liberamente in individui che possono soltanto compiere azioni
moralmente buone, senza alcun libero arbitrio nella sfera morale, potrebbe risultare
fortemente indesiderabile. In entrambi i casi abbiamo un sé presente che non tratta i
sé futuri come persone, ma come oggetti da manipolare a suo piacimento, da far
diventare schiavi o zombie.
Ci sono però alcune cose che non funzionano. L’argomento della schiavitù si basa
sull’idea che esista una frattura tra ciò che il sé presente vuole e ciò che il sé futuro
desidera. Derek Parfit (1973) presenta il celebre esempio di un nobile russo
dell’Ottocento che sa di ereditare dopo molti anni alcune terre. Poiché è un convinto
socialista decide che darà questi possedimenti ai contadini, firmando un documento
legale di cessione, revocabile solo con il suo consenso della moglie. Quindi chiede alla
moglie di promettergli che non darà ascolto al suo sé futuro se dovesse abdicare i suoi
ideali socialisti e quindi decidere di non cedere le terre. Qualora ciò accedesse, la
moglie potrebbe ritenere che la persona che ora chiede di stracciare il documento di
cessione non sia più la stessa persona che prima lo ha sottoscritto. Il sé attuale non ha
alcuna facoltà di sollevarla dalla promessa fatta perché non è a lui che l’aveva fatta e
il sé passato a cui aveva dato parola non esiste più, perché con la perdita degli ideali
giovanili. (Per inciso, si potrebbe ribattere che proprio questa perdita compromette
l’autorità morale della promessa, giustificata da quei principi a cui l’uomo non
aderisce più. Lasciamo però perdere questo punto.)
Nel caso del BPM volontario si dovrebbe sostenere che la persona che esisterà dopo
l’intervento non è più la persona che esisteva prima. Poiché il BPM interviene su
disposizioni come altruismo e senso di giustizia, la persona che risulterà sembrerà
diversa, perché diversi sono i suoi atteggiamenti morali rispetto al passato. Poiché
però il BPM non sembra intervenire direttamente sui principi che strutturano
l’identità pratica, non è chiaro in quale misura il sé futuro sarà diverso da quello
precedente. Ovviamente, un BPM che causi un radicale cambiamento dell’intera
personalità dell’individuo potrebbe sortire un effetto analogo a quello prodotto nel
carattere di Phineas Gage dall’incidente nel caso analizzato da Damasio. Se però gli
effetti sono circoscritti, potremmo sensatamente parlare di una persona che dopo il
BPM diventa più altruista o più giusta, rimanendo la stessa persona, così come può
diventare più socievole senza per questo cessare di portare a credere che ci troviamo
di fronte a un “altro sé”.
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Se questa frattura identitaria non si realizza, il BPM volontario può quindi essere
assimilato a una qualsiasi scelta che modella i nostri desideri futuri e ha quindi
conseguenze su chi saremo tra qualche anno, come la scelta dell’università, che non
consideriamo una forma immorale di auto-schiavitù. E tuttavia da queste scelte si può
sempre recedere, ci è dato un margine di ripensamento e di revisione delle decisioni
cruciali che riguardano la nostra vita. Invece di equiparare il BPM a una scelta
cruciale che ha conseguenze sull’andamento della biografia futura di un individuo,
sembra più giusto pensarlo come una strategia di auto-controllo preventivo, un
«vincolo essenziale» per usare la terminologia di Jon Elster. Vincolo essenziale è
qualsiasi stratagemma con cui gli agenti si autoimpongono restrizioni in modo da
condizionare il comportamento futuro in ragione di alcuni benefici attesi: il BPM
esprime allora una «certa forma di razionalità nel tempo»:
Nel momento 1, un individuo vuole fare A nel momento 2, ma prevede che quando 2 sarà
arrivato, egli potrà o vorrà fare B, a meno che qualcosa non glielo impedisca. In questi casi,
il comportamento razionale da adottare nel momento 1 può richiedere di prendere
qualche misura precauzionale per evitare la scelta di B al momento 2, o quanto meno per
rendere tale scelta meno probabile (Elster 2000, p. 17).
Scegliere di sottoporsi al BPM non manifesta solo razionalità, ma anche uno scrupolo
e una cura per la qualità delle proprie disposizioni morali. Significa esprimere una
preoccupazione per il tipo di persona che si è e per il tipo di comportamento che si
tiene in aree rilevanti della nostra vita e che ha ripercussioni sugli altri e sulle
relazioni che intratteniamo con loro. Diversamente dal BPM obbligatorio, quello
volontario non comporta una limitazione assoluta della libertà né comunica una
volontà di dominio intersoggettivo, bensì un atteggiamento di scrupolo per il proprio
carattere morale.
Tuttavia, il significato espressivo del BPM volontario contiene in sé anche il limite di
questa soluzione. Esso dà infatti luogo a un paradosso: chi si vuole potenziare
moralmente dimostra già di avere una certa sensibilità morale, perché si preoccupa
della natura dell’impatto delle sue azioni sul mondo. Esprime una propensione a
migliorarsi ricorrendo a metodi biotecnologici, perché ritenuti più efficaci e veloci dei
metodi tradizionali. Questo significa che solo una piccola parte degli individui
deciderà di ricorrere al BPM e questa minoranza dimostra già di avere desideri
moralmente apprezzabili. Come ha scritto Elster, «desiderare di essere mossi da un
interesse a lungo termine è già di per sé essere mossi da questo interesse a lungo
termine, proprio come aspettarsi che ci si aspetti che qualcosa accada è già aspettarsi
che qualcosa accada, o desiderare di diventare immorali è già essere immorali» (ivi, p.
47). Ribaltando queste ultime parole, si può sostenere che desiderare di diventare
morali è già essere morali; quindi, il BPM avrebbe una portata molto limitata nella
sua forma volontaria ed è per questo motivo che Crutchfield sostiene che la forma
coercitiva è quella più giustificata. Chi necessita davvero del BPM è scarsamente
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sensibile ai valori, cosicché sarà meno motivato a biopotenziarsi deliberatamente.
Quindi, se non riesce a superare la sua carenza morale grazie a un atto di volontà,
allora ha sufficienti capacità morali che rendono superfluo il ricorso al BPM; se invece
non riesce a colmare questa carenza, allora difficilmente desidererà ricorrere al BPM
(Crutchfield 2021, pp. 61-3).
Siamo quindi giunti a un punto di stallo. Le forme coercitive (pubbliche e segrete) di
BPM minacciano la libertà sociale e rendono potenzialmente ingiuste le istituzioni che
lo promuovono. Quella volontaria non pregiudica il libero arbitrio, né la libertà
sociale ma corre il rischio di essere inefficace. Questo esito aporetico potrebbe
indurre a cercare altre strade: ad esempio, potrebbe essere un’alternativa una
deliberazione pubblica, trasparente e partecipata, in cui gruppi di cittadini possano
acquisire conoscenza e consapevolezza delle tecnologie di BPM e delle loro
implicazioni e decidere se e in che forma siano rese disponibili. In questo modo,
sarebbe un’intera comunità politica ad auto-vincolarsi e scegliere il mezzo migliore
per ottenere i benefici previsti. Non possiamo in questa sede percorrere questa
direzione, ma dobbiamo limitarci a indicarla e a riconoscere che il punto di partenza
di questo nuovo cammino è costituito dai limiti del BPM coercitivo e di quello
individuale volontario.
Note
1. Altri fautori del biopotenziamento morale interpretano in modo diverso i limiti della natura
umana, proponendo giustificazioni del biopotenziamento morale più vicine alle motivazioni che in
Arancia meccanica portano a sviluppare il metodo Ludovico: la natura umana è intrinsecamente
difettosa perché incorpora tendenze malvagie che spiegano il prosperare di violenze, aggressioni,
stupri, ecc. I metodi tradizionali, come la socializzazione e l’educazione, si sono dimostrati
inefficaci nell’eliminare radicalmente il male e quello che serve è un’alterazione della natura
biologica umana (resa possibile dalle numerose prove empiriche che dimostrano il legame tra
comportamenti al patrimonio genetico (Walker 2009, pp. 27-9; DeGrazia 2014, p. 362). Secondo altri,
semplicemente, l’accettabilità del biopotenziamento morale deriva dai benefici collettivi che
potrebbe produrre e dall’assenza di ragioni morali forti contro il suo utilizzo (Douglas 2008, pp.
229-30).
2. John Harris, ad esempio, ripete spesso che è molto probabile che la distruzione ultima dell’umanità
non sarà l’effetto della malvagità umana, ma della stupidità; Harris 2016, pp. 3-4, 70-74, 135-6.
3. La prima delle possibili combinazioni della coppia individuata da Bovens ha alcune somiglianze
con la compatibilità individuata da Thompson (1999) tra una «segretezza di primo ordine» e una
«pubblicità di secondo ordine».
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