STORICA
Rivista quadrimestrale
anno XIX, n. 56-57, 2013
© 2014, Viella s.r.l. e Associazione «Storica»
«Storica» è una rivista fondata in Italia nel 1995, che accoglie
contributi, oltre che in italiano, in inglese, francese e spagnolo.
La rivista vuole essere un luogo di discussione sulla natura,
le regole e le finalità della storiografia, aperto a tutte le discipline interessate alla riflessione sul passato.
«Storica» pubblica tre tipi di testi: saggi veri e propri (nelle
sezioni Primo piano e Filo rosso), discussioni a proposito di
uno o più libri (Questioni) e ampie recensioni critiche (Contrappunti).
I saggi sono sottoposti a peer review.
«Storica» was founded in Italy in 1995 and publishes texts in
Italian, English, French and Spanish.
The journal provides a forum for a discussion of historiography, its nature, rules, aims. It is open to all disciplines interested in a reflection on the past and welcomes contributions ranging from the theoretical to the empirical, as long
as they examine, from the specific perspective of their topic,
interpretative models and their use in historical research and
historical writing.
«Storica» will consider three kinds of texts: essays (for the sections Primo piano and Filo rosso), discussions of one or more
books (Questioni) and book reviews (Contrappunti).
All essays are subject to peer review.
Redazione:
Giulia Albanese, Giorgia Alessi, Alessandro Barbero, Marco
Bellabarba, Francesco Benigno, Valeria Caldelli (direttore responsabile), Giulia Calvi, Sandro Carocci, Amedeo De Vincentiis, Patrizia Dogliani, Serena Ferente, Andrea Graziosi,
Vincenzo Lavenia, Salvatore Lupo, Marco Meriggi, E. Igor
Mineo, Niccolò Pianciola, Biagio Salvemini, Marcello Verga
STORICA
56-57/2013
VIELLA
Indice
Primo piano
Eurocentrismo e narrazioni della modernità scientifica.
Tre prospettive globali
Gennaro Ascione
9
14
23
31
39
48
1.
2.
3.
4.
Introduzione
Eurocentrismo, stadi di modernità e modernità multiple
Arun Bala: il dialogo tra civiltà e la controversia Needham
Susantha Goonatilake: le civiltà come miniere di conoscenza
al servizio di una scienza globale
5. Benjamin Elman. Scienza e sinocentrismo
6. Modernità scientifica: riformulare, dissolvere, «disapprendere»
Filo rosso
Faida e vendetta tra consuetudini e riti processuali
Claudio Povolo
53
58
63
67
77
84
88
94
98
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
Premessa
Faida e vendetta: un problema di definizione e di comparazione
Faida, vendetta e forme del potere
La faida tra consuetudini e riti processuali
La consuetudine e le nuove procedure giudiziarie
Il nuovo clima politico e sociale
La nuova giustizia punitiva
L’antica giustizia di comunità
Dai riti processuali al nuovo processo penale
Indice
Fascismo e apparati di sicurezza: il caso della Sicilia
Vittorio Coco
105
111
117
126
133
139
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Ideologia, organizzazione, istituzioni
Tra Italia liberale e fascismo
L’apparato repressivo di un regime totalitario
Dalla Sicilia / verso la Sicilia
Tra fascismo e Italia repubblicana
Conclusioni
Questioni
Ripensare il diritto e le istituzioni:
Europa e Asia nell’età moderna
Marco Meriggi
145
148
150
154
156
161
164
165
167
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
Diritto stretto e costituzione sociale
L’Asia «dispotica» della riflessione occidentale
Stati occidentali e regni orientali
Il confine incerto tra monarchia e tirannide
Il policentrismo moghul
Centro e provincia nell’impero ottomano
Il tribalismo dell’impero safavide persiano
Burocrazia e clan patriarcali nell’impero cinese
Oltre il mito del dispotismo orientale
171
La Comune del 1871 tra storia e mito
Enrico Zanette
174
177
180
182
184
1.
2.
3.
4.
5.
Mito e uso politico del passato
La mobilitazione
Le donne
La cultura politica
Al di là della Comune
189
Letture di storia ebraica.
Riflessioni su alcuni testi recenti
Cristiana Facchini
Contrappunti
203
Medieval Moral Economy
Lizzul legge Davis
Indice
217
Utilisations du passé
Baggioni legge Ianziti
231
La repubblica dell’emergenza
Mineo legge Fournel, Zancarini
241
Parentela e politica
Ciuffreda legge Delille
261
La giustizia dei coloni
Delpiano legge Fioravanti
273
Le percezioni degli italiani
Meriggi legge Isnenghi
281
Seducente rivoluzione
Armani legge Ventrone
299
Realtà e finzione
Benigno legge Martinat
307
Gli autori di questo numero
311
Summaries
Eurocentrismo e narrazioni
della modernità scientifica.
Tre prospettive globali
Gennaro Ascione
«Storica», n. 56-57
1. Introduzione
La questione dell’eurocentrismo dei saperi storico-sociali fornisce le coordinate entro cui nodi teorici centrali
nella ridefinizione della storia del mondo moderno possono
essere riformulati. I tre pilastri storiografici attraverso cui
la grande narrazione della modernità occidentale ha preso
forma, vale a dire la Rivoluzione scientifica, la Rivoluzione
francese e la Rivoluzione industriale, descrivono oggi dei
campi di tensione entro cui i referenti storici che ciascuno di
questi costrutti interpella non possono essere più descritti
come fenomeni strettamente europei od occidentali: modernità scientifica, politico-istituzionale e socio-economica
vivono processi di risignificazione profondi, caratterizzati
dalla volontà, e spesso dalla necessità, d’includere soggettività ed entità geostoriche non-europee nella costruzione
globale della modernità. La centralità del colonialismo, pertanto, assume quei caratteri di ricorsività che l’articolazione
dello spazio mondiale in termini di centro-periferia aveva
quasi negato all’agency storica del mondo extra-europeo,
o meglio degli eterogenei mondi extra-europei. Il sostrato epistemologico su cui poggia la riscrittura della storia
del mondo in termini normativamente non-eurocentrici
può essere sintetizzato come un’esplicita propensione per
un’ontologia deliberatamente relazionale. In tale riscrittura,
gli enti, i gruppi, le civiltà, protagonisti delle storie messe
in scena sul palcoscenico della modernità globale, sono essi
stessi prodotti eternamente dissolti e ricreati dalle relazioni
che, nel disegnare la complessa rete d’interconnessione tra
spazi, temporalità e «civiltà», abilitano degli inattesi corridoi di comunicazione interculturale. Quanto siffatta opzione sia adeguatamente praticabile è uno dei nodi che le
contro-storie della modernità scientifica qui prese in consi-
10
Primo piano
derazione permettono di affrontare. Cionondimeno, sono
questi corridoi interculturali che connettono società e culture, e che costituiscono il territorio privilegiato d’indagine storiografica di coloro che intendono, in vario modo e a
vario titolo, fornire una narrazione non-eurocentrica della
modernità scientifica. Il tentativo consiste dunque nel portare alla luce il carattere non-europeo (o non esclusivamente
europeo) del patrimonio d’idee, teorie, approcci, soluzioni concettuali che costituiscono la sostanza intellettuale di
quella profonda trasformazione del rapporto tra uomo e
natura, cui la storiografia degli ultimi centocinquant’anni si
riferisce in termini di Rivoluzione scientifica.
Certo, la prevalenza accordata al trasferimento d’idee
piuttosto che alle trasformazioni materiali nell’esperienza europea dello spazio coloniale, limita sia la prospettiva dialogica, sia quella sinocentrica, sia quella globale qui
introdotte, a una ricostruzione che riduce a un accidente
narrativo la questione del rapporto tra scienza moderna ed
esigenze organizzative dei diversi gruppi sociali storicamente determinati. Ne è ben consapevole Harold J. Cook
il quale, viceversa, ha individuato proprio nell’estensione
e intensificazione delle reti «transnazionali» del commercio di lunga distanza il vettore privilegiato dello scambio
globale d’idee e pratiche scientifiche, e dunque la sostanza
storica che definì le domande cui la scienza moderna tentò
di dare risposta, non solo nelle discipline astratte come la
fisica, ma in modo forse ancor più rilevante nella biologia,
nella medicina e nella botanica1.
D’altro canto, il vantaggio politico degli approcci incentrati sulle relazioni di scambio di idee tra ambiti culturali distinti resta quello di offrire strumenti d’immediata
interpretazione del costruirsi diacronico della cartografia
mondiale contemporanea, laddove si converga verso una
sua rappresentazione organizzata in vaste entità geostoriche. Infatti va tenuto presente che l’intera vicenda delle
contro-storie della modernità, scientifica e non, si muove
sullo sfondo del declino relativo della centralità e della supremazia dell’Occidente nell’assetto gerarchico del mondo contemporaneo e della simultanea ascesa di nuovi protagonismi e di diversi etno-centrismi che, inevitabilmente,
1 Cfr. H.J. Cook, Matters of Exchange: Commerce, Medicine, and
Science in the Dutch Golden Age, Yale U.P., New-Haven-London 2007.
Ascione, Eurocentrismo e scienza
11
si accompagnano alla messa in discussione degli assunti
dell’etno-centrismo europeo e del suo preteso universalismo: l’eurocentrismo appunto.
Eurocentrismo che, oggi, non corrisponde certo al trionfalismo con cui la riflessione storica del XIX secolo aveva
legittimato l’espansione del capitalismo su scala mondiale in
termini di progressiva e unilineare transizione alla modernità
di tutte le regioni del mondo; così come non coincide neppure con l’eccezionalismo con cui il pensiero sociale forgiato nella fucina ideologica del positivismo aveva individuato
nella differenza antropologica del genio europeo le ragioni di
quella transitoria supremazia. L’eurocentrismo che continua
a insinuarsi nelle narrazioni della modernità scientifica, per
mezzo delle categorie con cui l’oggetto «modernità scientifica» viene prodotto, è di diversa e più sofisticata fattura.
Esso si costruisce intorno a una più astratta idea di specificità
storica secondo cui, pur ammettendo la possibilità che altri
gruppi umani, in altri spazi e in altri tempi, abbiano elaborato
risposte intellettuali e prassi di ragionamento analoghe a (se
non addirittura più efficaci di) quelle che la storiografia occidentale ha ritenuto fondative della Rivoluzione scientifica,
soltanto nell’Europa del XVI secolo questa convulsa e spesso
contraddittoria trasformazione del rapporto d’intelligibilità
tra uomo e natura avrebbe prodotto quell’unicità storica che
è la scienza moderna. Un asse argomentativo, quello della
versione maggiormente sofisticata dell’eurocentrismo nella
narrazione della modernità scientifica, che collega il «mito
della cornice» di Karl Popper con le interpretazioni storiografiche di Carlo Cipolla, per cristallizzarsi nelle posizioni di
David Landes, o più di recente di Ibn Al-Warraqui e Toby
Huff2. Secondo John Hobson, siamo di fronte all’emergere
di un nuovo paradigma eurocentrico: «l’Europa non è più
la suprema padrona dell’invenzione e creatrice di ogni cosa.
Piuttosto, l’immagine che emerge è quella di un’Europa superiore ed eccezionale, proprio perché in grado di imitare e
prendere a prestito risorse da altri, per poi successivamente
adattare queste risorse ai propri fini»3.
2 Cfr. T.E. Huff, Intellectual Curiosity and the Scientific Revolution:
A Global Perspective, Cambridge U.P., Cambridge-New York 2011; Ibn
Warraq, Why the West is Best: A Muslim Apostate’s Defense of Liberal
Democracy, Encounters, New York 2011.
3 J.M. Hobson, The Eurocentric Conception of World Politics: Western International Theory, 1760-2010, Cambridge U.P., Cambridge-NY 2012, p. 22.
12
Primo piano
L’eurocentrismo muta sembianze, dunque, ma non
potrebbe farlo se non nel quadro di corrispondenti trasformazioni della nozione di modernità. Se nell’Ottocento la modernità s’imponeva come cornice necessaria del
cambiamento storico, nella seconda metà del Novecento la modernità è stata riconfigurata in modo radicale in
termini di una «sindrome universale», secondo l’espressione coniata da Neil Smelser nel 1963. Non solo destino ineludibile per ciascun popolo in Occidente e in ogni
ex-colonia, ma anche processo di trasformazione sociale
che può e deve essere stimolato, prodotto e replicato. A
partire dagli anni cinquanta del Novecento le teorie della modernizzazione, con la loro enfasi sul concetto di
sviluppo, hanno rappresentato la forma più compiuta, e
più radicata nel senso comune, dell’egemonia ideologica
dell’idea di modernità: tutte le società, definite in termini
di stato-nazione, si collocano su di una linea che va dalla tradizione alla modernità, dal semplice al complesso, e
tutte sono in grado di godere dei benefici della modernità
nella misura in cui sono capaci di replicare l’esperienza
storica dell’Occidente, il cui avamposto morale, organizzativo, intellettuale nella seconda metà del Novecento è
costituito dagli Stati Uniti d’America.
Non è un caso che la crisi delle teorie della modernizzazione a partire dalla fine degli anni sessanta del Novecento sia parallela alla vasta opera di disarticolazione
dell’unilinearità e unidirezionalità del tempo storico caratteristico sin dalle prevalenti filosofie ottocentesche della storia, e di conseguenza propria anche delle teorie della
modernizzazione. Tale disarticolazione, a sua volta, è del
tutto complementare alla proliferazione concettuale degli
spazi del mondo coloniale, che offre la possibilità d’inscrivere l’eterogeneità simultanea dello spazio globale nell’affresco eternamente in fieri della modernità. Le riflessioni
sul tempo storico di Koselleck, Bloch, Truillot, maturavano, infatti, in parallelo con la critica alla costruzione
eurocentrica degli spazi del mondo elaborata da AbdelMalek, Said, Amin; mentre l’attacco all’idea di sviluppo
a partire dalle teorie della dipendenza e dall’analisi dei
sistemi-mondo elaborate da Cardoso, Frank, Wallerstein,
Hopkins, Arrighi, apriva la strada alla concettualizzazione dello spazio globale in termini relazionali, per quanto
permanesse l’Europa al centro del moderno capitalismo.
Ascione, Eurocentrismo e scienza
13
Ed è precisamente a partire dall’inadeguatezza dell’idea di modernità nel rappresentare le trasformazioni geostoriche dello spazio globale che poniamo la questione
del rapporto tra eurocentrismo, modernità e storia della
scienza. La nozione di modernità entro la quale inscrivere
la pretesa anti-eurocentrica delle tre prospettive prese in
esame (dialogica, globale e sinocentrica) è circoscritta dal
punto di vista storico e argomentativo a quella che emerge all’interno del dibattito sull’eurocentrismo negli ultimi
cinquant’anni. Questa nozione ha origine nella crisi delle
teorie della modernizzazione; si definisce in termini temporali grazie all’elaborazione dell’idea di stadi di modernità di Giddens, Lash, Beck (in cui riecheggia con forza la
formulazione della modernità come progetto incompiuto
di Habermas); infine viene riarticolata come molteplicità
degli spazi e multilinearità dei tempi della modernità nel
quadro del paradigma delle «modernità multiple», elaborato da Shmuel Eisenstadt. Le tre prospettive considerate – dialogica, globale e sinocentrica – possono senz’altro
essere ricondotte a temi che nel tempo le hanno precedute, così come condividono molte delle problematiche che
la world history della scienza ha spesso costruito in virtù
dell’approccio comparativo. E infatti che l’autonomia intellettuale che ciascuna delle tre prospettive ritaglia per sé,
in questo sconfinato panorama storiografico, è leggibile
soltanto entro reciproci e perennemente instabili confini
gnoseologici, o meglio membrane epistemiche. Eppure,
per quante prospettive d’analisi vale il contrario?
Le tre prospettive considerate assumono la questione
dell’eurocentrismo come presupposto di metodo e di strategia argomentativa: l’idea di provincializzare l’Europa per
esse non è l’approdo, ma l’assioma su cui fondare la costruzione di narrazioni alternative della modernità. In questo
senso esse rappresentano programmi di ricerca differenti da
quelli che li hanno preceduti. Se, come scriveva Goethe in
una lettera al suo amico Carl Friedrich Zelter, «la più grande di tutte le arti pratiche e teoriche consiste nel cambiare
un problema in un postulato», allora approccio dialogico,
globale e sinocentrico alla scienza moderna hanno sicuramente a che fare con lo stato dell’arte della questione.
L’eurocentrismo contro cui gli approcci globale, dialogico e sinocentrico si scagliano, però, non è del tutto
sovrapponibile a quello le cui mutazioni abbiamo sugge-
14
Primo piano
rito sulla scorta dell’intuizione di Hobson, e che la critica
all’idea di modernità multiple e di stadi di modernità ha
acutamente rilevato, come mi accingo a descrivere. Nelle
crepe dell’eurocentrismo che l’approccio dialogico, quello globale e quello sinocentrico assumono come premessa della loro critica e l’eurocentrismo insito nelle nuove
versioni della nozione di modernità si annida – pur sotto
aspetti differenti – la relativa incapacità, sia della prospettiva dialogica, sia di quella sinocentrica, sia di quella globale, di portare a termine in modo coerente gli obiettivi
teorici che ciascuna si prefigge. Di qui infine, ed è decisivo
affermarlo, il valore euristico dell’operare congiunto di
queste prospettive. Esse evidenziano la natura consustanziale del nesso che collega l’eurocentrismo con qualsiasi
formulazione del cambiamento storico su larga scala e sul
lungo periodo che assuma la modernità come cornice interpretativa, storiografica ed epistemologica. A meno che
non s’individui proprio nell’idea di modernità il principale limite di ordine logico e storico all’elaborazione di categorie storico-sociali non-eurocentriche di comprensione
dei processi di lunga durata e su larga scala.
2. Eurocentrismo, stadi di modernità
e modernità multiple
Il carattere eurocentrico insito nell’idea di modernità e
nelle narrazioni che in vario modo interpellano il costrutto
storiografico «Europa» sembra mettere d’accordo fronti
contrapposti: quanti considerano l’eurocentrismo come
inevitabile risposta concettuale a un’evidenza storica senza la quale risulterebbe velleitario spiegare e raccontare i
processi di lungo periodo sviluppatisi su scala globale negli
ultimi cinque secoli; e coloro che, invece, individuano nella
centralità dell’Europa un mito storiografico e una modalità
di legittimazione del dominio europeo su scala mondiale, e
tentano pertanto di destrutturare le logiche argomentative
e le modalità di costruzione dell’evidenza storiografica su
cui questa centralità viene fondata.
L’idea di modernità e quella di eurocentrismo pongono
analoghi problemi di concettualizzazione. Valade affronta
questo problema nella voce «Modernity» dell’International
Encyclopedia of Social and Behavioural Sciences:
Ascione, Eurocentrismo e scienza
15
Se è vero – ammette – che una nozione consta di una conoscenza intuitiva, sintetica e abbastanza inaccurata circa qualcosa,
allora la modernità appartiene a questo tipo di rappresentazioni
mentali che, opposte al concetto, non offrono contorni definiti
dell’oggetto astratto al quale si riferiscono»4.
Del resto, come Maurice Aymard ama ripetere, «un
concetto serve solo finché non è ben definito». L’eurocentrismo, d’altra parte, pur riferendosi a un campo semantico
meno allusivo, sfugge anch’esso a una definizione che ne
circoscriva l’ambito di significazione a un territorio epistemico ben tracciabile. Riflettendo sul rapporto tra modernità e Islam politico, Samir Amin scrive:
L’eurocentrismo non è una teoria che in ragione della sua
coerenza globale e della sua aspirazione totalizzante pretenda
di fornire la chiave interpretativa dei problemi di cui s’interessa
la Scienza Sociale. L’eurocentrismo non è altro che una deformazione, sistematica e fondamentale, che la maggior parte delle
ideologie e delle teorie sociali dominanti condividono. In altre
parole, l’euro-centrismo è un paradigma che, come tutti i paradigmi, funziona in modo automatico, nella vaghezza dell’evidenza apparente e del senso comune. Per questo motivo esso
si manifesta secondo modalità differenti, tanto nelle espressioni
volgari dei pregiudizi veicolati attraverso i mezzi di comunicazione, quanto nelle asserzioni erudite degli specialisti dei diversi
campi del sapere5.
E tuttavia, dell’idea di modernità si possono fornire
coordinate che dalla vastità ed eterogeneità delle possibili rappresentazioni traggano quelle caratteristiche che
hanno consentito ai saperi storico-sociali, limitatamente
alla seconda metà del XX secolo, di parlare di modernità
in termini di cornice teorica e insieme spazio temporale.
Questa, in sintesi, la proposta di storicizzazione di Peter
Wagner, secondo il quale, se è vero che la «querelle des
Anciens et des Modernes» all’interno dell’accademia francese risale al XVII secolo, è pur vero che il termine «modernità» solo raramente è stato impiegato secondo le modalità e con i significati che gli sono stati invece attribuiti
nel dibattito accademico a partire dagli anni settanta del
Novecento; e sicuramente, il riferimento alla modernità,
fino agli anni settanta, non ha goduto della forza normati-
4 B. Valade, Modernity, in International Encyclopedia of Social and
Behavioural Sciences, eds. N. Smelser and P. Bates, Elsevier Science,
Amsterdam 2001, pp. 9939-44, p. 9939.
5 S. Amin, Eurocentrism, Monthly Review Press, London 1989, p. 9.
16
Primo piano
va cui siamo abituati. Nel volerne collocare storicamente
la diffusione, Peter Wagner rileva come la «modernità» fu
la risposta offerta dalla teoria sociale alla doppia crisi dei
concetti di «modernizzazione» e «capitalismo»6. Le teorie
della modernizzazione davano per scontata una visione
lineare e progressiva della storia, che vedeva i Paesi maggiormente industrializzati come battistrada dello sviluppo
e che era sintetizzata dalla teoria degli stadi di Rostow7;
le teorie del tardo capitalismo facevano invece i conti con
il ripudio postmodernista di qualsiasi grande narrazione,
deliberato da Lyotard8; le evoluzioni di un capitalismo
oltremodo maturo coincidevano storicamente con l’abbandono di qualsiasi speranza in un’accettabile teleologia progressiva della storia, come se il protrarsi del primo
avesse tradito la più o meno latente fiducia nella funzione
escatologica della seconda.
Una singolare convergenza, tuttavia, si evidenziava in
un certo modo di porre le questioni del tempo e dello spazio. Quanto al tempo, le teorie della modernizzazione e le
teorie del tardo capitalismo vivevano nella diffidenza verso
lo storicismo. Le prime, per via dello sforzo di legittimarsi
in termini di saperi utili al processo di decisione politicoeconomica, affidabili e oggettive perché dedite all’elaborazione di leggi sociali tanto universali quanto astoriche. Le
seconde sempre più ammaliate dall’impossibilità di decodificare alcuna logica interna al susseguirsi degli eventi storici, e dunque tanto più concentrate sulle singolarità e sugli
eventi, quanto più coerenti con la dichiarata tensione verso
la decostruzione delle relazioni tra potere e cultura sottese
all’ordito di qualsiasi costruzione razionale. Quanto allo
spazio, sia le teorie della modernizzazione sia le teorie del
tardo capitalismo guardavano con sospetto alla fascinazione olistica che parte dei saperi storico-sociali mostravano
nel passaggio di scala dallo stato-nazione al mondo globale come spazio analitico9: le teorie della modernizzazione,
6 P. Wagner, Theorizing Modernity and Capitalism, in «Thesis Eleven»,
66, 2001, pp. 2-3.
7 Cfr. W.W. Rostow, The Stages of Economic Growth: a NonCommunist Manifesto, Cambdridge U.P., Cambridge-London 1961 (trad.
it. Torino 1962).
8 Cfr. F. Lyotard, La condition postmoderne. Rapport sur le savoir, Les
Éditions de Minuit, Paris 1979 (trad. it. Milano 1981).
9 M. Burawoy ha succintamente ricostruito le caratteristiche del
cosiddetto global turn nelle scienze storico-sociali: cfr. The Global Turn
Ascione, Eurocentrismo e scienza
17
perché l’olismo rappresenta la più seria minaccia metodologica alla loro egemonia nello studio del mondo, ribadita
grazie alla riformulazione del comparativismo nel quadro
degli studi di area10; le teorie del tardo capitalismo, dal canto loro, perché l’enfasi sullo spazio globale rendeva insufficiente la concettualizzazione di «capitalismo» in termini
di modo di produzione, dacché i fenomeni di riallocazione geografica negli spazi del processo di accumulazione su
scala globale svuotavano di significato la convinzione che la
caratterizzazione della fase storica che il capitalismo stava
attraversando potesse essere desunta dal livello di crisi delle sue contraddizioni così come si evidenziavano, in modo
ritenuto sintomatico, nei Paesi più industrializzati, ovvero
nei luoghi di enunciazione della teoria della crisi stessa11.
Sebbene l’uso estensivo del concetto di modernità sia
relativamente recente, lo spazio storico in cui viene proiettato è piuttosto vasto. Tant’è che giunge a coincidere o con
l’emergere del politicamente «moderno» sulla scia dell’età
delle rivoluzioni (sia che si restringa quest’ultima alle Rivoluzioni francese e americana, sia che vi si includa a ragion veduta la Rivoluzione di Haiti)12; o con l’ampliarsi incontestabile della«grande divergenza»; oppure ancora con
l’incorporazione del Nuovo mondo nel sistema di scambi
Lessons From Southern Labor Scholars and Their Labor Movements, in
«Work and Occupations», 36, 2010, pp. 87-95.
10 Per un’analisi critica dello sviluppo e della funzione storica degli studi
areali si veda R.A. Palat, Fragmented Visions. Exacavating the Future of Area
Studies in a Post-American World, in «Review (Fernand Braudel Center)»,
19, 1996, pp. 269-315. Lo studioso indiano si concentra sul rapporto tra
trasformazioni delle strutture politico-economiche su larga scala durante
l’egemonia statunitense e l’evoluzione delle strutture del sapere dedite alla
conoscenza dei mondi non-occidentali.
11 Cfr. A. Ahmad, In Theory: Nations, Classes, Literatures, Verso,
London 1992.
12 Nella prospettiva degli studi postcoloniali, le rivoluzioni
occorse nel mondo coloniale hanno sovente assunto il valore d’icone
dell’anticolonialismo, in grado di esprimere una conflittualità non
intellegibile esclusivamente secondo le categorie politiche emerse in
Occidente, prime tra tutte quella di «classe» e di «nazione». In questa
prospettiva s’inseriscono i lavori di seguito indicati: P. Linebaugh, M.
Redike, The Many-Headed Hydra: Sailors, Slaves, Commoners, and
the Hidden History of the Revolutionary Atlantic, Beacon Press, Boston
2000; S. Fisher, Modernity Disavowed. Haiti and the Cultures of Slavery
in the Age of Revolution, Duke U.P., Durham N.C.-London 2004. R.
Shiliam, Civilization and the Poetics of Slavery, in «Thesis Eleven», 108,
2012, pp. 100-17. Si veda anche The Age of Revolutions in Global Context,
c. 1760-1840, eds. D. Armitage, S. Subrahmanyam, Palgrave-MacMillan,
Houndmills-New York 2010.
18
Primo piano
eurasiatico, europeo o asiatico; oppure con la Rivoluzione
scientifica. Cionondimeno, le condizioni storiche e sociali
dell’ascesa della modernità a cornice teorica di riferimento
incontestata scivolano nell’oblio, proprio mentre il suo statuto di legittimazione viene forgiato nella fucina dell’oggettivazione teorica e della ridondanza metodologica.
I meccanismi che rendono sia l’idea di stadi di modernità sia l’idea di modernità multiple delle vere e proprie
trappole teoriche, in grado d’imbrigliare lo scetticismo, il
dissenso, finanche la critica radicale nei confronti dell’eurocentrismo della grande narrazione occidentale della modernità entro strutture di ragionamento relativamente sterili,
sono stati ampiamente individuati. Vale la pena fornirne gli
elementi principali al fine di esplicitare il criterio di rilevanza adottato nell’esplorazione del rapporto tra scienza e
modernità descritto dalle tre diverse prospettive che ci accingiamo a discutere: nella misura in cui le formulazioni del
rapporto tra scienza e modernità prese in considerazione
sono in grado di oltrepassare i confini del territorio epistemico della modernità, tracciati dall’operare congiunto
oppure discreto di modernità multiple e stadi di modernità, esse rappresentano degli strumenti decisivi nella formulazione di categorie analitiche potenzialmente immuni
all’inevitabilità dell’idea di modernità come cornice teorica;
nella misura in cui, al contrario, le medesime contro-storie
si collocano entro i confini di quel territorio epistemico,
esse contribuiscono in modo determinante al costante processo di consolidamento dell’idea di modernità.
La logica centrale nell’idea di stadi di modernità è la riflessività, ossia la capacità, che distinguerebbe la modernità dalle epoche del passato, di riflettere sul senso del proprio agire sociale nell’atto stesso della sua realizzazione,
per intervenire in modo retroattivo sul rapporto tra individuo e società, in modo tale da liberare progressivamente l’agency dalla struttura. Su questo presupposto, l’ottocentesca dialettica fra tradizione e modernità avrebbe
permesso la transizione da quella che viene ritenuta una
prima modernità a una seconda (riflessiva) modernità13.
Mentre nella prima modernità
13 Si veda, in italiano, U. Beck, A. Giddens, S. Lash, Modernizzazione
riflessiva. Politica, tradizione ed estetica nell’ordine sociale della modernità,
Asterios, Trieste 1999.
Ascione, Eurocentrismo e scienza
19
il «perché» della riflessività rimane confinato a ciò che è stato
tramandato dalle generazioni precedenti, e la tradizione, fondandosi sul passato, definisce una sorta di verità evidente […],
con l’avvento della [seconda] modernità la riflessività assume
un diverso carattere […]. Non vi è nulla di certo nella scienza e
niente può essere provato14.
L’assonanza con le posizioni radicalmente relativistiche
e scettiche cui la critica postmoderna ci ha abituato farebbe
pensare a una convergenza. Tuttavia, l’immagine di convergenza mette in ombra la surrettizia sussunzione dello scetticismo postmoderno entro lo schema interpretativo della
modernità riflessiva; quest’ultima, infatti «coopta e neutralizza la critica della riflessione postmoderna e poststrutturalista, trasformandola, ironicamente, in alleato». Tant’è
che, secondo Giddens, parlare di postmoderno costituirebbe un fraintendimento del cambiamento in atto, che indica
invece il momento in cui la modernità «inizia a comprendere se stessa, piuttosto che il superamento della modernità
come tale […], e allo stesso tempo, tuttavia, prova a evitare
l’implosione dell’idea di moderno sotto la pressione della
evidente insostenibilità storica di una sua opposizione concettuale a ciò che è tradizionale». In realtà, «l’idea che solo
alcuni abbiano raggiunto la fase di modernità “radicalizzata” o “riflessiva” reintroduce una gerarchia delle modernità
che, al pari delle dicotomie precedenti, opera quale strumento di legittimazione della superiorità dell’Occidente»15.
Superiorità surrettiziamente riaffermata anche nelle
più sofisticate versioni dell’idea di modernità multiple16.
Per Eisenstadt come per Giddens, l’elemento centrale del
programma culturale della modernità europea è l’enfasi
sull’autonomia dell’uomo, sull’emancipazione dalle forme tradizionali di autorità e sulla riflessività e l’esplorazione che conducono alla trasformazione della natura e al
controllo attivo esercitato su di essa da parte dell’uomo.
Non solo. Lo stesso potere trasformativo e la stessa capacità di controllo si estendono alla natura umana, segnando una via del tutto nuova in direzione della perfettibilità
dell’uomo. Tuttavia, se Giddens, Beck, Lash avevano ri-
14 Cit. in M. Di Meglio, La parabola dell’eurocentrismo. Grandi narrazioni e legittimazione del dominio occidentale, Asterios, Trieste 2006, p. 129.
15 Ivi, pp. 130-1.
16 Cfr. G.K. Bhambra, Rethinking Modernity. Postcolonialism and
Sociological Imaginazion, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2007, pp. 56-79.
20
Primo piano
sposto alle sfide poste dal mondo extra-occidentale (e dai
suoi intellettuali) in termini di superamento delle rigidità strutturali imposte dall’unilinearità del tempo storico,
pur salvaguardando sia la possibilità teorica del progresso sia la centralità dell’Occidente nel rappresentarne la
condizione stessa di possibilità, i teorici delle modernità
multiple hanno risposto alle medesime sfide ponendosi
in modo critico rispetto alle stesse teorie della modernizzazione. Questi hanno contestato la tesi della convergenza delle differenti tradizioni verso un omogeneo stadio
di modernità, prendendo in considerazione la diversità
culturale come modalità di articolazione della modernità
stessa, in forme molteplici ma ugualmente legittime e soprattutto dinamiche. Più specificamente, si sostiene, non
esisterebbe una sola modernità già raggiunta in Occidente cui le altre culture dovrebbero tendere, ma ne esisterebbero molteplici, frutto di quel processo d’ibridazione
tra il mondo europeo e le culture del mondo extra-europeo, iniziato con l’espansione coloniale europea su scala
mondiale17. Sebbene la rifunzionalizzazione del concetto
d’ibridazione, che tanta parte ha nella critica anti-eurocentrica di matrice culturalista, transculturalista e postcoloniale, evidenzi capacità di sussunzione e sterilizzazione
epistemiche del tutto analoghe a quelle già sottolineate a
proposito delle teorie degli stadi di modernità, è l’articolazione del concetto di «civiltà» che consente di integrare
la critica anti-eurocentrica entro lo schema interpretativo
che paradossalmente riafferma la centralità dell’Occidente
nello schema delle modernità multiple.
In tale schema, il concetto di civiltà costituisce uno
strumento di gestione della diversità storica su scala globale, in grado di ospitare al suo interno una dicotomia decisiva tra le istituzioni e la cultura. Ed è proprio questa
scissione a fissare la piattaforma teorica su cui s’innesta
il processo d’ibridazione e dunque di genesi storica delle
modernità multiple. Gli assetti istituzionali nati in Europa sono concepiti come l’aspetto originario e comune a
tutte le forme di modernità, mentre le possibilità di va17 Cfr. S.N. Eisenstadt, W. Schluchter, Introduction: Paths to Early
Modernities: A Comparative View, in «Daedalus», 127, 1998, pp. 1-18; S.N.
Eisenstadt, Multiple Modernities, in «Daedalus», 129, 2000, pp. 1–29; Id., The
Civilizational Dimension of Modernity: Modernity as a Distinct Civilization,
in «International Sociology», 16, 2001, pp. 320-40.
Ascione, Eurocentrismo e scienza
21
riazione, conflitto, divergenza e costante risignificazione
dell’idea di modernità sono relegate prevalentemente allo
spazio dell’incontro di distinti codici culturali. E tuttavia,
per quanto l’obbiettivo dichiarato dell’idea di modernità
multiple consista nel superare il malcelato eurocentrismo
degli stadi di modernità, per mezzo di una riproblematizzazione dello spazio globale incentrata sul concetto di civiltà, essa riesce, con sagacia, solo ad aggirare il problema
dell’eurocentrismo. L’idea di modernità multiple, infatti,
legittima la centralità dell’Europa su basi più sofisticate:
nel costruire le entità geostoriche la cui ibridazione produrrebbe forme specifiche di modernità, all’Occidente
spetterebbe in ogni caso una priorità ontogenetica, perché è in seno all’Occidente che avrebbero preso vita gli
assetti istituzionali diffusi, e poi trasformati, con il colonialismo18. Pertanto, dal punto di vista storico, per quanto
ammissibile possa ritenersi l’esistenza di reciproche intersezioni, tra collocazioni geostoriche, formazioni sociali,
esperienze coloniali, culture non-occidentali, esse non sarebbero in ogni caso sufficienti alla morfogenesi di alcuna
modernità, se non nella misura in cui ritenute in grado di
veicolare configurazioni istituzionali retaggio della modernità europea. Dal punto di vista metodologico, invece, l’inadeguatezza del comparativismo nel descrivere lo
spazio globale viene ignorata: la struttura argomentativa
fondata sullo Stato-nazione come unità d’analisi viene
applicata al più elusivo concetto di civiltà, e il criterio di
rilevanza adoperato stabilisce che le istituzioni occidentali rappresentano il termine di paragone fondamentale per
valutare quanto distano da quella europea le specifiche
modernità prodotte nel mondo postcoloniale. Una forma
post-sviluppista dell’imperativo di «colmare il divario».
A dispetto degli alfieri dell’indiscutibile superiorità occidentale, come David Landes, l’importanza di elaborare
una versione non-eurocentrica della modernità globale
sembra tuttavia essere presa sul serio dai più (sebbene con
esiti spesso contraddittori)19. Ed è sulla base di quest’ipotesi argomentativa, nelle sue differenti declinazioni, che si
tenterà di attraversare le narrazioni impegnate in un’attenta
18
19
Bhambra, Rethinking Modernity cit., p. 58.
Cfr. D. Landes, The Wealth and Poverty of Nations: Why Some
Are So Rich and Some So Poor, Abacus, London-New York, 1999 (trad.
it. Milano 2001).
22
Primo piano
revisione storiografica sull’adeguatezza dell’idea di modernità scientifica. Sulla possibilità di una lettura policentrica
della storia del mondo, del resto, sembrano convergere gli
studi postcoloniali, che hanno da tempo abbandonato un
essenzialismo potenzialmente reo del medesimo essenzialismo di matrice culturalista proprio dell’eurocentrismo, sia
teorici come Eisenstadt o Huntington, che hanno eluso in
modo pragmatico l’impossibilità di riaffermare la superiorità occidentale sulla base di una struttura temporale gerarchica sintetizzata nella felice forma ossimorica della «noncontemporanietà del contemporaneo»20.
Da una parte, gli studi postcoloniali ammettono l’impossibilità di coniugare il proprio disagio nei confronti di
qualsiasi grande narrazione con la pur avvertita necessità
intellettuale di produrre narrazioni della storia coloniale
che siano alternative e non ancelle della modernità occidentale; tant’è che lo stesso Chakrabarty riconosce che
finché il discorso accademico della storia – ossia «la storia» come
discorso prodotto nel luogo istituzionale dell’università – sarà
concepito, «l’Europa» resterà il soggetto teorico e sovrano di
tutte le storie, incluse quelle che chiamiamo «indiana», «cinese»,
«keniana«, e così via. Esiste un modo specifico in cui tutte queste
altre storie tendono a divenire variazioni sul tema di una grande
narrazione che possiamo chiamare «storia dell’Europa»21.
Dall’altra parte, i teorici della modernità sulle due sponde dell’Atlantico sono disposti anche a concedere che le
diverse collocazioni geostoriche che compongono l’articolato mosaico del mondo postcoloniale hanno svolto e svolgono un ruolo attivo nella produzione di forme culturali,
politiche, addirittura istituzionali, che rappresentano delle
declinazioni originali e relativamente autonome dell’originaria esperienza europea, in grado addirittura d’ispirare
assetti e configurazioni storico-sociali validi per l’Occidente. Esemplare, in questo senso è la sollecitazione di Ulrich
Beck che nel dibattito sul cosmopolitismo accetta l’idea che
20 Sulla non contemporaneità del contemporaneo o sull’asincronia del
sincronico, si veda anche R. Bodei, Multiversum. Tempo e storia in Ernst
Bloch, Bibliopolis, Napoli 1983, pp. 15-53; M.-R. Trouillot, Silencing the
Past: Power and the Production of History, Beacon Press, Boston 1995; Id.,
Global Transformations: Anthropology and the Modern World, Palgrave,
New York 2003.
21 D. Chakrabarty, Provincializing Europe: Postcolonial Thought and
Historical Difference, Princeton U.P., Princeton-Oxford 2000, p. 28 (trad.
it. Roma 2004); Id. The Muddle of Modernity, in «American Historical
Review», 116, 2011, pp. 663-75.
Ascione, Eurocentrismo e scienza
23
l’Occidente dovrebbe ascoltare i Paesi non-occidentali laddove
questi ultimi hanno qualcosa da dire nell’ambito delle possibilità
di coesistenza in società multi-etniche, multi-religiose e multiculturali; o a proposito della tolleranza entro spazi limitati dove
la differenza culturale può generare violenza; nel campo di sistemi giuridici improntati al pluralismo in cui alcuni Paesi non occidentali sono «molto sviluppati» (parentesi originali); infine nel
campo delle sovranità multiple sullo stesso territorio22.
3. Arun Bala: il dialogo tra civiltà
e la controversia Needham
Sia coloro che considerano la rivoluzione scientifica
frutto di trasformazioni interne alla scienza medievale, sia
coloro che attribuiscono priorità a fattori esterni, sia infine
coloro i quali argomentano contro la rilevanza storica del
concetto di Rivoluzione scientifica, condividono, secondo
la tesi argomentata da Arun Bala nel suo The Dialogue
of Civilizations in the Birth of Modern Science del 2006,
una matrice fortemente eurocentrica. Tutti, a suo avviso,
sottovalutano l’enorme e decisivo contributo delle civiltà
non-europee alla transizione dalla scienza medievale alla
scienza moderna. Per Bala non si tratta soltanto di registrare
episodicamente l’influenza di specifiche idee, teorie o
approcci nati in seno alle tradizioni scientifiche araba,
cinese o indiana sulle idee, le teorie o gli approcci che siamo
abituati a ritenere «europei». Si tratta piuttosto di riscrivere
la storia della modernità a partire dalle sue fondamenta
scientifiche in modo tale che la presunta superiorità
dell’Europa nella produzione del sapere scientifico e
nei suoi esiti applicativi lasci il posto a una narrazione
multiculturale della nascita della scienza moderna in cui
il riconoscimento dei contributi fondativi di tradizioni
scientifiche altre restituisca dignità storica e gnoseologica
a queste medesime civiltà. Per Bala, la nascita della scienza
moderna è frutto di un intenso e ininterotto dialogo tra
civiltà che per secoli ha nutrito i saperi inscrivendo nel
codice genetico della scienza moderna l’ibridità culturale.
La storiografia sulla rivoluzione scientifica ha, invece,
colpevolmente consegnato alla storia una narrazione in cui
22 U. Beck, The Cosmopolitan Perspective: Sociology of the Second Age
of Modernity, in «British Journal of Sociology», 51, 2001, pp. 79-105, p. 89.
24
Primo piano
i pensatori europei hanno dato vita alla transizione dalla
scienza medievale a quella moderna in modo relativamente
autonomo, per quanto più o meno in contatto con idee
«non europee»23. Un furto di conoscenza, precondizione
del furto della storia denunciato da Goody24. Questo
dialogo multiculturale tra le tradizioni indiana, cinese,
araba è l’elemento centrale della rivoluzione copernicana,
considerata sia in senso stretto, con riferimento al nuovo
paradigma eliocentrico, che in un senso più ampio, come
transizione a un paradigma unificato e strutturante, capace
di fondere cosmologia e fisica. In entrambe le accezioni
il dialogo tra tradizioni rappresentò la condizione di
possibilità per l’emergere di una scienza moderna, non
necessariamente occidentale. La scienza moderna è sin
dalle sue origini una scienza multiculturale25.
La proposta di Bala è mossa dall’intento esplicito di
prosciugare quel vasto bacino di pensiero da cui l’etnocentrismo europeo deve necessariamente attingere: la possibilità di attribuire natura essenziale alla specificità storica,
tramutata idologicamente in progetto universalizzante.
L’obbiettivo polemico di Bala è triplice. Innanzitutto Francis Fukuyama e quelle visioni moderniste e ben consolidate
del progresso inteso come creazione dell’Occidente, che la
scienza moderna doterebbe d’irresistibile potenza nel piegare le tradizioni che gli si oppongono lungo il cammino
della trionfale marcia verso l’affermazione della modernità
capitalistica occidentale. Poi Samuel Huntington e l’idea di
uno scontro di civiltà in cui quella Occidentale si differenzia dalle altre perché, tra le altre cose, il secolarismo della
scienza permea in essa la gerarchia dei valori cui attribuire
priorità, ragion per cui solo in Occidente le forze emancipatorie della razionalità prevalgono infine sulla religione
e i retaggi della tradizione26. Infine la scienza islamica di
Ziauddin Sardar e la tendenza a ricercare nella tradizione
23 A. Bala, The Dialogue of Civlizations in the Birth of Modern Science,
Palgrave, London, 2006, p. 34.
24 J. Goody, The Theft of History, Cambridge U.P., Cambridge-London
2006 (trad. it. Milano 2008).
25 Bala, The Dialogue of Civlizations cit. pp. 1-12.
26 S.P. Huntington, The Crash of Civilizations and the Remaking of
World Order, Simon & Schuster, New York 1996 (trad. it. Milano 2000); Id.,
The West. Unique, not Universal, in «Foreign Affairs», 75, 1996, pp. 28-46.
Per una critica ad Huntington capace di connettere lo studio delle relazioni
internazionali con la questione dell’eurocentrismo si veda J.M. Hobson,
The Myth of the Clash of Civilizations in Dialogical-Historical Context, in
Ascione, Eurocentrismo e scienza
25
delle scienze extra-europee la risposta alternativa alle insidie di uno sviluppo scientifico incontrollato27. Quest’ultima ipotesi, paradossalmente, metterebbe d’accordo il
postmodernismo con la critica anti-eurocentrica di matrice essenzialista. In rapporto alle teorie postmoderne della
scienza, l’enfasi sulle tradizioni svolgerebbe una funzione
assolutoria: queste teorie, infatti, pur essendo parte del
pensiero occidentale, e dunque «complici» del processo che
ha subordinato o distrutto altri sistemi di pensiero durante
l’espansione coloniale, vestirebbero gli abiti di una critica
radicale sorta all’interno dell’Occidente. Quanto alle teorie
che oppongono all’etnocentrismo europeo altri etnocentrismi diversamente legittimati, l’enfasi sulla tradizione rafforzerebbe la prospettiva dello scontro di civiltà, in termini
di opposizione strategica tra scienze specifiche di ciascuna
civiltà, espressione di valori in ultima istanza inconciliabili
e mutualmente escludenti. Infatti secondo Bala
Comprendere che la conoscenza scientifica è avanzata per
mezzo delle interazioni di idee provenienti da diverse culture
sovvertirebbe qualsiasi tentativo di promuovere l’egemonia di
una singola cultura, o di rendere l’esistenza di culture diverse un
pretesto per lo scontro e il conflitto. Ambedue gli orientamenti
in direzione sia del conflitto tra culture sia dello scontro di civiltà
sono stati avallati di recente adottando un tipo d’indagine storica,
niente affatto nuova, che studia il passato in modo da poter anticipare il futuro, o piuttosto costruisce una narrazione del passato
che possa diventare una profezia che si autoadempie nel futuro28.
Qui, il nodo storiografico assume una centralità immediatamente evidente: il modo attraverso cui gli storici
hanno letto e raccontato la vicenda della transizione dalla
scienza medievale a quella moderna condiziona non solo
lo sguardo sul passato, ma inevitabilmente la percezione
dell’incontro tra civiltà nel presente. Tant’è che Bala si pone
in conversazione serrata con Floris Cohen, considerandone
l’analisi storico-sociale come la forma più solida e sofisticata di narrazione eurocentrica della storia della rivoluzione
scientifica. I due aspetti maggiormente rilevanti di questa
rilettura critica possono essere sintetizzati in una questione
Unesco, The Encyclopedia of Life Support Systems, 2010: http://www.eolss.
net/Sample-Chapters/C04/E1-68-07.pdf (05/05/2013).
27 Cfr. Z. Sardar, Above, Beyond, and at the Center of the Science Wars:
a Postcolonial Reading, in After the Science Wars, eds. K.M. Ashman & P.S.
Baringer, Routledge, London 2001, pp. 120-39.
28 Bala, The Dialogue of Civlizations cit., p. 3.
26
Primo piano
epistemologica e in una questione metodologica: la prima
consiste nel valore assiomatico attribuito alla superiorità
occidentale nella scienza; la seconda riguarda il criterio storiografico di rilevanza da utilizzare per attribuire scoperte,
idee o teorie a una civiltà piuttosto che a un’altra.
Quanto alla questione della superiorità occidentale
nella scienza, Bala rileva come, nel capitolo conclusivo
del suo fondamentale The Scientific Revolution. A
Historiographical Inquiry del 1994, Cohen avesse sostenuto
che qualsiasi ricostruzione fruttuosa della Rivoluzione
scientifica non può prescindere dalla consapevolezza
che sia necessario considerare come un fatto oggettivo e
di assoluto rilievo il prevalere dell’Occidente sulle altre
civiltà nel campo della scienza29. La scienza, in questo
modo, diviene tautologicamente l’ambito di realizzazione
di potenzialità umane che solo in Occidente avrebbero
trovato forma paradigmatica e progressivo compimento,
tant’è che una volta posto l’assioma eurocentrico della
superiorità oggettiva della scienza occidentale moderna
come fondamento logico, Cohen edifica un tipo di
spiegazione negativa dell’inferiorità delle tradizioni
scientifiche non europee articolata intorno alla domanda:
«perché la scienza moderna non si è sviluppata nella civiltà
X?». Rispetto a questo interrogativo, Bala solleva perplesso
la considerazione che
Nella religione o nelle arti nessuno si aspetta costruzioni
culturalmente neutrali. Ma dal momento che la scienza è insegnata ovunque e la conoscenza scientifica è percepita come
universale e cosmopolita, sembra logico domandarsi perché la
scienza non sia riuscita a svilupparsi in una particolare civiltà.
Dietro questa domanda, quindi, giace l’assunto che la scienza
moderna è l’unica scienza possibile e poteva svilupparsi di fatto
soltanto nel modo in cui si è sviluppata30.
In effetti, l’eco della categoria weberiana di razionalità
risuona in fondo al «perché?» formulato da Cohen e scandagliato da Bala. E non tanto nella misura in cui è possibile associare meccanicamente all’Occidente moderno
l’idea di scienza come indagine razionale sulla natura, ma
piuttosto, e a un livello più profondo, perché tra le diverse
razionalità identificate da Weber quella che prevale nella
29 F.H. Cohen, The Scientific Revolution. A Historiographical Inquiry,
Chicago U.P., Chicago-London 1994, p. 404.
30 Bala, The Dialogue of Civlizations cit., p. 8.
Ascione, Eurocentrismo e scienza
27
sua definizione di Occidente moderno, e cioè la razionalità strumentale rispetto allo scopo, dà forma ideal-tipica
a quell’approccio alla conoscenza naturale che designa
un rapporto pragmatico, di controllo e di potere da parte
dell’uomo sulla natura. Nell’imporsi sulle altre forme di
scienza sia premoderne sia extraoccidentali, tale razionalità afferma con forza il principio baconiano dell’utilità
della conoscenza nel fare della natura ciò che serve agli
«dèi mortali, gli uomini», come se il dominio sulla natura costituisse la forma secolare privilegiata e storicamente superiore di espressione della centralità dell’uomo nel
cosmo31. Ma non è tutto. Il comparativismo di matrice
weberiana che è corollario metodologico di questa formulazione dell’assioma della superiorità scientifica europea ripropone un tipo di spiegazione in cui ciascuna delle
«civiltà» considerate sarebbe dotata di proprietà essenziali
intrinseche e rintracciabili all’interno dei confini di uno
spazio geostorico definito in modo allusivo, ma abbastanza efficace da evocare caratteristiche e specificità endogene a ciascuna di esse. La natura relazionale dell’emergere
di processi di produzione di conoscenza scientifica, sebbene intercettabili e localizzabili all’interno di ciascuna
di queste civiltà (indiana, araba, cinese), risulta esclusa a
priori o relegata alla stregua di ancella nella narrazione del
successo dell’Occidente, e del corrispondente fallimento
delle altre civiltà. La struttura descrittiva e normativa che
ne scaturisce riconduce a un atteggiamento euristico in cui
comprensione e spiegazione sono mobilitate più in direzione del giustificare retrospettivamente le gerarchie tra
«civiltà», che della problematizzazione del loro reciproco
formarsi e ridefinirsi in base a processi aperti, reiterati nel
tempo e su larga scala.
Riproposizione di una particolare struttura weberiana
del perché, si è argomentato. Del resto, fu nel tentativo di
rispondere a un interrogativo storiografico analogo che
Joseph Needham elaborò il proprio programma di ricerca sulla scienza in Cina. Il contesto era quello del fervore
trionfalistico con cui le scienze storico-sociali americane
31 Il testo virgolettato si riferisce a F. Bacon, The Great Instauration, cit.
in E. Klaaren, Religious Origins Of Modern Science: Belief In Creation In
Seventeenth Century Thought, Harvard U.P., Cambridge (Mass.)-London,
1997, p. 73. Cfr. L.T. Mumford, The Myth Of The Machine: The Pentagon of
Power, Harcourt, Brace, Jovanovich, New York 1974, pp. 117, 125.
28
Primo piano
del secondo Dopoguerra descrivevano e legittimavano
l’egemonia americana come eredità di quella europea nel
mondo coloniale, e adducevano ragioni considerate autoevidenti per giustificare la superiorità tecnologica, militare
e intellettuale del mondo libero rispetto al blocco comunista. Voce fuori dal coro, Needham sostenne, spesso su basi
controverse e a volte incerte, qualcosa di diverso: non solo
la scienza, anche nelle sue espressioni più astratte, si era
sviluppata in Cina in una molteplicità imponente di forme;
ma molte delle innovazioni tecnologiche che in vario modo
si collegavano a quegli sviluppi avevano anche preceduto
nel tempo i corrispondenti omologhi funzionali europei e
spesso ne erano stati la fonte d’ispirazione. Proprio il carattere controverso delle affermazioni di Needham, sostiene Bala, costituisce la questione metodologica cruciale. «Il
semplice fatto che un’idea sia emersa prima in Cina non
significa che questa non potesse essere prodotta indipendentemente in seguito in Europa»32. E infatti è lo stesso
Needham ad ammettere che le proprie affermazioni circa
la trasmissione delle idee dalla Cina all’Europa sono basate
spesso sulla semplice osservazione del dato cronologico,
dal momento che provare qualsiasi fenomeno di trasmissione di questo tipo è piuttosto difficile33. Bala allora riformula la controversia nei termini che seguono: è plausibile,
in assenza di qualsiasi evidenza diretta, inferire legittimamente che una scoperta avvenuta cronologicamente prima
presso una cultura abbia influenzato un’altra cultura in cui
essa era apparsa successivamente rispetto alla prima, semplicemente sulla base del fatto che esisteva con certezza
un corridoio di comunicazione tra le due culture, tale da
rendere possibile questa trasmissione? Oppure dovremmo
attenerci alla regola in base alla quale la tesi dell’influenza risulta verificata se e solo se, al di là e al di sopra della
possibilità d’influenza, riscontriamo anche l’evidenza di
un’effettiva trasmissione di idee?34
Da un lato, dunque, la difficoltà intrinseca di rinvenire
la prova di fenomeni di trasmissione culturale, dall’altro la
debolezza intrinseca del mero criterio della possibile in32
33
34
Bala, The Dialogue of Civlizations cit., p. 44.
Needham è cit. ivi, p. 83.
Ivi, p. 41. Si veda K. Raj, Relocating Modern Science: Circulation
and the Construction of Knowledge in South Asia and Europe, 1650-1900,
Palgrave, Basingstoke-New York 2007.
Ascione, Eurocentrismo e scienza
29
fluenza in presenza di un corridoio di comunicazione interculturale. Eppure, ribadisce Bala, il biforcarsi di questi
percorsi in corrispondenza della scelta metodologica determina inevitabilmente la storia della scienza che scriveremo.
Se adottiamo coerentemente il criterio debole, ci troveremo
nella condizione di dover ipotizzare che la trasmissione di
idee e scoperte scientifiche avvenga ogni volta possibile;
laddove infatti la condizione di possibilità si accompagna
alla mancanza di evidenza, emergerà una versione dialogica
della storia della scienza moderna modellata in ragione del
fatto che gran parte delle innovazioni teoriche delle scoperte erano state già anticipate in civiltà non-occidentali.
Se, al contrario, adottiamo coerentemente il criterio forte,
non saremo in grado di non riprodurre una versione eurocentrica della storia; laddove, infatti, la sola evidenza sia
considerata come prova, c’imbatteremo nei dilemmi e nei
limiti dell’archivio coloniale, ampiamente dibattuti nel corso degli ultimi decenni35.
Come superare dunque questa impasse? Come trasformare l’insoddisfazione verso un simile agnosticismo in una
proposta metodologica plausibile? Quale criterio adottare
per tentare di scrivere una storia multiculturale dell’origine
della modernità scientifica? A Bala
Appare chiaro che non siamo in grado di decidere se un’influenza abbia avuto luogo semplicemente domandandoci se certe
idee possono essere riscontrate in altre idee premoderne in una
qualsiasi cultura altra. Ciò che risulta cruciale tuttavia è stabilire quando un’idea proveniente dal mondo non europeo si possa
ritenere abbia influenzato i pensatori europei, anche nel caso in
cui la stessa idea fosse stata proposta in precedenza da un pensatore europeo. Se quella stessa idea non era stata presa sul serio
in Europa fino al momento in cui la sua importanza non è stata
dimostrata in seguito al contatto con una cultura non europea,
abbiamo ragioni per presumere che ci sia stata effettivamente influenza. Se un’idea era rimasta un argomento recessivo in Europa
prima dell’emergere della scienza moderna, e il suo valore non era
evidente agli Europei finché questi non dovettero confrontarsi
con essa in quanto ritenuta importante presso un’altra cultura,
tanto da imporsi come tema cruciale per la scienza moderna, allora dobbiamo ammettere che l’emergere di quel tema concettuale
35 Per un’analisi dei limiti dell’archivio coloniale secondo la prospettiva
storiografica di Ranajit Guha e del collettivo di studiosi indiani del Subaltern
Studies Group si veda G. Ascione, A sud di nessun Sud. Postcolonialismo,
movimenti anti-sistemici e studi decoloniali, I Libri di Emil, Bologna 2009.
30
Primo piano
nella scienza mdoerna è il risultato dell’influenza di una cultura
non-Europea36.
In sintesi, Bala ritiene che un criterio metodologico
così articolato sia in grado di abilitare lo storico intenzionato a superare l’eurocentrismo riprodotto da Cohen
ma insoddisfatto dallo scarso rigore storiografico di
Needham, a produrre una narrazione multiculturale
dell’origine della scienza moderna su basi dialogiche e
scientificamente sostenibili37.
Se immaginiamo il modo attraverso cui questa opzione
di metodo opera una volta messa in pratica per ricostruire
la storia di un’idea o di una teoria scientifica, una considerazione s’impone alla riflessione: l’influenza di una cultura
altra come causa dell’emergere d’idee e teorie presenti (ma
latenti) fino a quel momento in Europa può sicuramente
essere uno tra i fattori possibili del suo diffondersi in presenza di un corridoio di trasmissione culturale. Tuttavia
non è affatto automatico, come intende suggerire Bala,
condensare questa corrispondenza reciproca entro uno
schema interpretativo in cui le dinamiche d’influenza sono
in grado da sole di rendere conto di una complessità che si
presta ad essere interpretata a partire dalle medesime premesse, in modi differenti, ma altrettanto legittimi. Sebbene,
infatti, l’ipotesi metodologica di Bala ampli, estenda e «democratizzi» le opzioni teoriche in campo, la teoria cui dà
spazio resta inevitabilmente sottodeterminata, in senso epistemologico, e chiaramente esposta alle medesime critiche
storiografiche che nel corso dei decenni hanno evidenziato
la natura congetturale di molte delle tesi di Needham. È
evidente, e del tutto esplicito nelle premesse del discorso
di Bala, che il suo intervento storiografico va considerato
nel quadro di una prospettiva politica e teorica che risulterebbe incomprensibile se non fossimo in grado appunto
36
37
Bala, The Dialogue of Civlizations cit. p. 47.
Tra le più interessanti critiche al lavoro di Needham, sia dal punto di
vista storiografico, sia metodologico, sia teorico ricordiamo T. Brook, Xu
Guangqi in his Context: The World of the Shanghai Gentry, in Statecraft
and Intellectual Renewal in Late Ming China: The Cross-Cultural Synthesis
of Xu Guangqi (1562-1633), eds. C. Jami, P. Engelfriet and G. Blue, Brill,
Leiden-Boston 2001; China and Historical Capitalism. Genealogies of
Sinological Knowledge (In Honour of Joseph Needham), eds. T. Brook and
G. Blue, Cambridge U.P., Cambridge-New York 2002; T. Brook, Japan in the
Late Ming: The View from Shanghai, in Sagacious Monks and Bloodthirsty
Warriors: Chinese Views of Japan in the Ming-Qing Period, ed. J.A. Fogel,
EastBridge, Norwalk 2003, pp. 42-62.
Ascione, Eurocentrismo e scienza
31
di muovere dalla sua storiografia alla cornice teorica che la
modella. La sua storia dialogica della rivoluzione scientifica
è inscritta nella cornice epistemologica e storico-sociale di
una grande narrazione, in fieri, della modernità intesa come
globale e multiculturale. Siffatta grande narrazione tenta di
allontanarsi dalla grande narrazione eurocentrica, trionfalista ed eccezionalista della modernità, e allo stesso tempo
inevitabilmente si muove intorno ai limiti della disciplina
storica in quanto impresa di ricostruzione del passato su
basi razionali e tendenzialmente oggettive, così come istituzionalizzatasi in Europa a partire dal XIX secolo, evidenziandone le fattezze. È dunque nello iato tra le controstorie anti-eurocentriche della rivoluzione scientifica e la
proposta di elaborare una grande narrazione della modernità che sia multiculturale e globale che vanno indagate ulteriormente le trasformazioni nel rapporto tra episteme e
narrazione, sollecitato dalla tesi del dialogo tra civiltà.
4. Susantha Goonatilake: le civiltà come miniere
di conoscenza al servizio di una scienza globale
L’idea che una scienza plurale e multiculturale sia condizione imprescindibile nell’elaborazione di un’idea di modernità globale incorpora una particolare versione del rapporto tra presente, passato e futuro, ossia una particolare
cronosofia, in accordo con la terminologia introdotta dallo
storico Krzysztof Pomian38. In essa le esigenze che dettano
una determinata ricostruzione del passato appaiono come
preoccupazioni legate agli assetti possibili del mosaico di
«civiltà» nel presente: il dialogo piuttosto che la contrapposizione è il principio che sta alla base della proposta di Bala.
Questo stesso principio costituirebbe la precondizione di
un futuro orizzonte di convivenza multiculturale tra le diverse civiltà nel contesto della cartografia del mondo globale e tra le diverse culture nel quadro delle configurazioni
locali degli spazi inter-etnici, sulla base del reciproco riconoscimento e del contributo delle diverse civiltà alla genesi
e allo sviluppo della scienza moderna: una modernità intesa
come costruzione globale e non prioritariamente europea.
38
1992).
K. Pomian, L’ordre du temps, Gallimard, Paris 1984 (trad. it. Torino
32
Primo piano
Questa struttura narrativa fa propria l’idea di scienza
globale e multiculturale che il sociologo srilankese Susantha Goonatilake propone come programma adeguato a
rispondere alle esigenze di riformulazione delle strutture
di produzione della conoscenza scientifica nell’era della ridefinizione dell’ordine spaziale del mondo moderno39. In
assonanza con la proposta storiografica di Bala, Goonatilake è sensibile al fascino delle continuità spaziotemporali,
piuttosto che delle rotture, che collegherebbero la scienza
moderna occidentale a vaste regioni intellettuali premoderne ed extra-europee. Goonatilake s’ispira a quelle tesi che
intendono radicalizzare questa prospettiva continuista fino
a descrivere scenari che si estendono al di là dell’Europa
del basso medioevo, per proiettarsi all’indietro nel tempo
per diversi secoli. Se l’oggetto dell’analisi storico-sociale
non fosse costituito da idee e teorie, ma costruito intorno
a più estese strutture dei perché che soggiacciono alle idee
e le teorie, vale a dire intorno alle grandi domande, agli interrogativi fondamentali cui lo sviluppo della conoscenza
scientifica presso le diverse civiltà ha tentato nel corso dei
secoli di dare risposta, ci ritroveremmo a osservare quelli che, nella traduzione letterale della terminologia introdotta da Gerald Holton, sono i «temi ideazionali». Vale a
dire quei principi tematici derivati dalla concezione della
natura e della collocazione dell’uomo al suo interno, che
forniscono le premesse su cui si fondano i diversi sistemi
scientifici di conoscenza. Goonatilake condivide l’idea di
Holton secondo cui per spiegare la stabilità così come il
cambiamento nella scienza, non ci si può limitare soltanto
al ruolo, seppur centrale, dell’aspetto empirico o analitico
nella produzione di teorie e idee; neppure (come peraltro
la storiografia degli ultimi trent’anni ha ampiamente fatto)
al ruolo dei quadri strettamente metafisici di riferimento. I
principi tematici (o temi ideazionali) persistono sullo sfondo delle trasformazioni del discorso scientifico e della formulazione delle modalità di riscontro empirico; ne guidano
l’articolazione, proprio in quanto intrinsecamente sottratti alla prova dell’evidenza, alla confutazione, alla verifica.
Goonatilake evidenzia come
sin dall’antica Grecia le teorie scientifiche sono state edificate
sulla base di ristretti insiemi di temi e anti-temi. Esempi di ciò
39
Bala, The Dialogue of Civlizations cit., p. 49.
Ascione, Eurocentrismo e scienza
33
sono le coppie dicotomiche complessità-semplicità, riduzionismo-olismo e continuità-discontinuità. Se questi temi costituiscono i mattoni, gli elementi fondamentali irriducibili delle teorie
scientifiche esistenti, allora ulteriori temi e anti-temi potrebbero
essere trovati e riscoperti presso altre culture. Ciò garantirebbe
una maggiore varietà di mattoni con cui edificare nuovi concetti
e cornici teoriche40.
Il concetto di tema ideazionale è in grado di aprire
varchi spaziotemporali tali da rendere la separazione tra
la modernità e ciò che la precede piuttosto fluidi, consentendo a Goonatilake di adoperare lo strumento euristico del corridoio d’influenza sostenuto da Bala per
collegare l’Europa del XV secolo con quella che Karl Jaspers aveva individuato in termini di Axial Age41. Jaspers
si riferiva all’età assiale come a quell’era, tra il IX e il
III secolo a.C., durante la quale diverse civiltà sarebbero
emerse più o meno simultaneamente nel Mediterraneo,
in India e in Cina42. Durante l’età assiale, l’intensificarsi
di scambi commerciali e culturali sarebbe stato poi alla
base di un fervore intellettuale in virtù del quale avrebbero avuto origine proprio i temi ideazionali, che non
sono mai stati di fatto isolati l’uno dall’altro, ma si sono
vicendevolmente influenzati sin dall’antichità. Nulla di
particolarmente innovativo, dunque, se solo si considera che l’eredità di Jaspers riguardo all’idea dell’età assiale era già stata rivendicata da Eisenstadt che nel suo
voluminoso Comparative Civilizations and Multiple
Modernities aveva, a partire dai primi anni ottanta del
Novecento, proposto l’idea secondo la quale esiste una
continuità storica evidente tra le configurazioni geostoriche dell’età assiale e la cartografia del mondo moderno
descritta in termini di modernità multiple. Ciò che Goonatilake enfatizza è la conseguenza di questa cornice
storica di lungo periodo declinata in termini di scienza
globale. Per Goonatilake, infatti, esiste a tutt’oggi un
40 S. Goonatilake, Toward a Global Science: Mining Civilizational
Knowledge, Indiana U.P., Minneapolis 1998, p. 49.
41 K. Jaspers, The Axial Period, in Id., The Origin and Goal of History,
Yale U.P., New Haven, 1953, pp. 1-25.
42 Cfr. S. Eisenstadt, Comparative Civilizations and Multiple
Modernities, 3 vols., Brill, Leiden-Boston 2003. In part. il vol. I dell’opera
include la versione aggiornata dell’articolo seminale in cui Eisenstadt
rielabora il concetto di età assiale: Id., The Axial Age: The Emergence of
Transcendental Visions and the Rise of Clerics, in «European Journal of
Sociology», 23, 1982, pp. 294-314.
34
Primo piano
enorme patrimonio intellettuale di cui sono depositarie
le diverse culture tradizionali e le diverse civiltà43.
Ma cosa? O meglio, quale scienza? Se infatti la proposta storiografica di Bala lascia sullo sfondo la dimensione
normativa dell’idea di scienza, Goonatilake ragiona su cosa
debba essere una scienza globale e multiculturale per il
XXI secolo. Egli chiarisce subito che il multiculturalismo
in scienza e il multiculturalismo nelle scienze umane sono
due cose differenti. Per la scienza il punto di riferimento
è sempre la realtà quotidiana: la scienza deve funzionare,
deve rispondere a esigenze pratiche di utilità che dettano
in ultima istanza la fisionomia dei criteri di rilevanza e di
legittimazione della ricerca: «un ponte o si regge oppure
crolla»44. Tuttavia questa consapevolezza, ammette Goonatilake, sembra aver perso vigore: l’iniziale fede illuministica
ha perso la sua certezza intellettuale. Questo perché
le questioni legate ai limiti dello sfruttamento della biosfera hanno condotto ad alcune letture semplicistiche degli scritti di Bacon
sulla scienza come torturatrice della natura. Gli attuali problemi
epistemologici hanno messo in questione la dicotomia cartesiana
tra soggetto e oggetto. E il progetto di matematizzazione della
«conoscenza certa» nella scienza e di elaborazione di fondamenta
completamente razionali è collassato, dal momento che la matematica, dopo Gödel, ha perso la sua presunta certezza.
Ma essendo la scienza il pilastro fondamentale di ciò che
continuiamo a intendere per modernità, sembra piuttosto
evidente che «il progetto della modernità stesso sia in seria difficoltà, e non a causa delle teorie postmoderne che di
questa difficoltà non sono altro che un sintomo, ma a causa
delle premesse che esso stesso si era dato. L’agenda della
modernità ha esaurito le proprie energie. La nuova agenda, invece, dovrà sorgere sulle rovine di quelle precedenti
certezze che conservano una propria validità e sulla base
delle nuove certezze che possono provenire da altre culture e dalle altre civiltà»45. Ma come coniugare ciò che resta
delle antiche certezze con le nuove certezze provenienti da
culture o civiltà altre? Per Goonatilake, i sistemi di conoscenza non sono tutti equivalenti tra di loro e le possibili
43
44
45
Goonatilake, Toward a Global Science cit., p. 24 sgg.
Ivi, p. 1.
Id., Mining Civilization Knowledge, in The Postcolonial Science and
Technology Studies Reader, ed. S. Harding, Duke U.P., Durham N.C.London 2011, pp. 380-7, p. 384.
Ascione, Eurocentrismo e scienza
35
spiegazioni per uno stesso fenomeno possono senza dubbio essere ordinate su una scala gerarchica. «Alcune spiegazioni possono essere più parsimoniose di altre, ossia in
grado di spiegare una vasta gamma di fenomeni con l’utilizzo di poche variabili; altre possono predire meglio di altre; altre ancora possono fornire risultati replicabili in altri
campi. Esistono anche fenomeni che, per loro natura, non
possono essere replicati ma semplicemente simulati, come
il big bang o l’inizio della vita sulla terra. Ed esiste infine un
certo grado di incommensurabilità tra diverse spiegazioni e
forme di conoscenza»46.
Radicalizzando questa constatazione sul piano delle diverse «civiltà» nelle diverse epoche storiche e collocandola
nell’abituale struttura gerarchica polarizzata in termini di
tradizione e modernità, Goonatilake ribadisce:
Non credo affatto che un abitante della foresta conosca le leggi del moto in modo anche lontanamente assimilabile a Galileo,
Copernico, Keplero o Newton. Difendere una simile posizione
sarebbe, al massimo, romantica ignoranza. Ma sono altrettanto
convinto che l’abitante della foresta possegga una profonda conoscenza del proprio ambiente, della sua flora e della sua fauna.
Credo, sulla scorta di quanto sostengono diversi antropologi, che
la spinta intellettuale che guida l’abitante della foresta non sia per
nulla diversa, in ultima istanza, da quella di Newton. Lui, o lei, si
trovano di fronte a un insieme di problemi differenti, in un insieme differente di circostanze storiche e pertanto giungono a differenti posizioni. E credo anche che se Newton fosse trasportato
per magia in quella stessa foresta, potrebbe acquisire dai gruppi
umani locali una conoscenza vasta, sistematica e verificabile delle
piante, e avrebbe davvero poco da dare in cambio come contributo di conoscenza47.
L’orientamento normativo che emerge da questa idea di
scienza globale lascia poco spazio all’equivoco o alla speculazione di matrice relativistica. La continuità concettuale,
spaziale e temporale tra ere e tra civiltà viene orientata secondo due modalità: da un lato essa designa un’ampia rete
di corridoi di comunicazione che attraversano il globo nel
corso dei secoli in modo tale da rendere quanto meno riduttiva qualsiasi immagine dello sviluppo della modernità scientifica come creazione dell’Europa, nella misura in
cui si attribuisca valore fondativo agli schemi gnoseologici
descritti dai temi ideazionali piuttosto che alle teorie scien46
47
Ivi, p. 387.
Ivi, p. 384.
36
Primo piano
tifiche che entro questi stessi schemi assumono rilevanza
e collocazione; dall’altro, la persistenza coeva e contemporanea di questi medesimi schemi presso tradizioni culturali
e civiltà non occidentali costringe ad una riconsiderazione
profonda del ruolo della scienza occidentale rispetto alle altre tradizioni scientifiche. Se la narrazione eurocentrica della modernità scientifica aveva accordato alla presunta manifesta superiorità della scienza occidentale il diritto naturale
d’imporsi sulle altre forme di scienza e aveva legittimato
la progressiva marginalizzazione di queste ultime a fronte
dei suoi «successi», l’agenda di un scienza multiculturale
e globale per il XXI secolo deve necessariamente fondarsi sull’assunto opposto, ossia sulla consapevolezza che la
scienza moderna ha progressivamente esaurito il proprio
potere sia analitico che predittivo e che la prosecuzione del
suo programma deve attingere a quelle miniere di civiltà
che, pur essendo state recessive finora, non si sono mai
estinte. Questo allargamento della superficie su cui fondare una scienza globale include territori epistemologici dalla
cui humus estrarre linfa per rivitalizzare l’attitudine verso
la natura che aveva consentito all’Occidente di prevalere
sulle altre civiltà, ossia il pragmatismo di matrice baconiana che Goonatilake assume come principio organizzatore.
Del resto, chiosa Goonatilake:
La scienza esistente sarà pure capitalistica, eurocentrica,
patriarcale e di classe. Ma crearne una differente ex novo non
è più possibile. [...]. Nelle aree geostoriche delle altre grandi
civiltà come l’Asia orientale, così come in quelle minori come
le Americhe pre-colombiane, si trovano miniere di civiltà ancora da esplorare. Se ciò dà adito all’idea che intendo accettare
l’egemonia «totalizzante» della scienza moderna, sì: intendo
accettarla. Il mio intento è di ampliare se possibile e non di
distruggere l’egemonia della scienza moderna. Il mio intento è
di oltrepassare il progetto illuministico e parte delle sue limitazioni eurocentriche48.
Tuttavia, volendo cedere alla tentazione di adoperare gli
strumenti euristici che il contestualismo ha offerto alla storia delle idee, non si farà torto a Goonatilake notando come
la conseguenza concreta della sua posizione diverge dalle
intenzioni che l’autore stesso esplicita, nel contesto del discorso sull’elaborazione di una scienza globale non-euro-
48
Ivi, p. 387.
Ascione, Eurocentrismo e scienza
37
centrica49. Nel vasto panorama di ricerche che si occupano
di approfondire la concezione della scienza e della natura
di Bacon, infatti, Goonatilake non va oltre una consolidata interpretazione di matrice modernista ed eurocentrica,
per nulla dissimile da quella marxista proposta nell’immediato Secondo Dopoguerra da Benjamin Farrington. Per
Farrington, impegnato nel rintracciare le continuità tra la
scienza della Grecia classica e quella moderna, l’essenza
dell’approccio di Bacon alla nuova scienza consisterebbe
nel concepire normativamente quest’ultima come quella
forma di conoscenza che «serve a migliorare le condizioni
di vita dell’uomo»50.
La spinta in direzione del superamento dell’eurocentrismo, che sia Bala sia Goonatilake condividono, nel secondo
sembra arenarsi sulla seicentesca soglia del Novum Organum. E se la proposta storiografica di Bala era mossa dalla
volontà di sostanziare una costruzione dialogica del rapporto tra civiltà, in opposizione alle teorie dello scontro, il
programma di Goonatilake emerge dalla priorità accordata
a un differente ordine di questioni. Questioni di ordine demografico, geopolitico e culturale: la scienza del XXI secolo è profondamente diversa da quella del XVII, per molti
aspetti essa è un’impresa del tutto nuova, come nuove sono
l’enorme quantità di dati a disposizione, la potenza della
capacità di calcolo possibile, l’automazione dei processi, la
simulazione dei fenomeni, etc. E soprattutto la componente umana di questa impresa è del tutto differente sia quantitativamente sia qualitativamente. Il numero di scienziati
è aumentato, nel corso del Novecento, con progressione
aritmetica e questa tendenza, pur approssimandosi a una
parziale inversione di tendenza, sta producendo un ridimensionamento quantitativo della predominanza degli
scienziati occidentali in rapporto agli scienziati non-occi49 Sul contestualismo nella storia delle idee e le diverse posizioni
metodologiche e teoriche che esso raccoglie si veda un recente simposio
in cui si offre una stimolante attualizzazione critica delle teorie prodotte a
partire dagli anni ottanta del Novecento, tra gli altri, da Q. Skinner e J.G.A.
Pockok, e culminate nel dibattito successivo alla pubblicazione dell’opera di
M. Bevir, The Logic of the History of Ideas, Cambridge U.P., CambridgeNew York 2000. Cfr. Symposium: Assessing and Extending The Logic of
the History of Ideas, in «The Journal of the History of Ideas», 73, 2012, pp.
583-665.
50 B. Farrington, Francis Bacon: Philosopher of Industrial Science,
Schuman, New York 1949 (trad. it. Torino 1952). Si veda la preziosa
prefazione all’edizione del 1967 di P. Rossi.
38
Primo piano
dentali. Questa trasformazione quantitativa in virtù della
quale sempre più cinesi, indiani, latinoamericani diventano
scienziati di professione, sta già generando, per Goonatilake, una trasformazione qualitativa nella produzione di
conoscenza scientifica. Non si tratta soltanto di registrare
l’influenza che culture scientifiche non occidentali possono indurre nel farsi quotidiano della ricerca scientifica, ma
piuttosto di prendere in considerazione il fatto che questi
stessi scienziati portano con se sistemi di valori, di credenze
e di pratiche di vita la cui diversità e alterità si riverberà inevitabilmente sul processo di produzione scientifica.
Benché non priva di plausibilità, questa previsione rende piuttosto problematico stabilire la natura del possibile
nesso ch’essa suggerisce. E ciò per varie ragioni che spaziano dalle dinamiche di socializzazione dei nuovi scienziati
non-occidentali entro istituzioni e strutture di produzione
del sapere le cui logiche riproducono forme di eurocentrismo sofisticate, fino alle trasformazioni essenziali del ruolo e della figura dello «scienziato» proprio nel quadro di
questo esponenziale aumento del numero di professionisti
della scienza; trasformazioni che già da tempo impongono
all’analisi sociologica la riflessione su chi siano gli scienziati e chi invece i tecnici della scienza oggi51. Ciò non toglie
che quelle stesse tradizioni di analisi storico-sociale che
sono state impegnate nello stabilire legami di ordine causale tra le trasformazioni nelle condizioni socioeconomiche
dell’Europa e l’emergere della scienza moderna ora sono
poste di fronte alla questione cruciale di individuare i possibili modi del cambiamento di medio e lungo periodo nelle
strutture di produzione del sapere scientifico in relazione
alla riconfigurazione delle gerarchie di potere materiale e
51 Nella prospettiva di studi sulla scienza inaugurata da K. Knorr-Cetina
il campo semantico del termine «scienziato» nel Novecento risulta imploso.
Esso non sarebbe più in grado d’includere la variegata frammentarietà dei
significati che ad esso il senso comune continua ad attribuire. Ma soprattutto
questa condizione di frammentarietà sarebbe inevitabile poiché rispecchia
la natura intrinseca allo sviluppo della scienza moderna: per Knorr-Cetina,
infatti, non esiste una scienza, ma ne esistono diverse, ciascuna legata a logiche
e sistemi pratico-simbolici interni, di gran lunga più vincolanti del più ampio
contesto sociale esterno che abitano. Si veda in questo senso K. Knorr-Cetina,
Epistemic Cultures. How the Sciences Make Knowledge, Harvard U.P.,
Cambridge (Mass.) 1999. Come riferimenti al dibattito sociologico italiano
sul tema della responsabilità sociale degli scienziati si considerino E. De
Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali,
Einaudi, Torino 2001 (I ediz. 1977), e U. Galimberti, Psyche e techne. L’uomo
nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2002.
Ascione, Eurocentrismo e scienza
39
intellettuale su scala mondiale. A tal proposito, sembra evidente da diversi anni ormai che una delle chiavi di lettura
maggiormente adeguate per ridisegnare la cartografia mondiale dei centri di accumulazione di potere e risorse sia da
ritenersi l’ascesa dell’Asia orientale intorno all’affermarsi
del colosso Cina52.
5. Benjamin Elman. Scienza e sinocentrismo
La formidabile ascesa economica della Cina, negli
ultimi tre decenni, ha imposto una riconsiderazione ad
ampio spettro di gran parte delle categorie analitiche che
erano servite a rendere conto della superiorità occidentale su scala globale, fino a mettere radicalmente in dubbio
le coordinate spaziotemporali entro cui la legittimazione
del dominio occidentale aveva dotato di senso la storia del
mondo. Di questa vasta e intensa pagina di ricerca la tesi
della grande divergenza sollevata da Kenneth Pomeranz e
ampiamente dibattuta negli ultimi quindici anni resta uno
spartiacque fondamentale. Per Pomeranz – vi accenniamo
– è del tutto fuorviante interpretare la storia del mondo tra
XVI e XIX secolo assumendo come unità d’analisi significativa uno spazio globale il cui centro sarebbe l’Europa.
Fino al 1800, per Pomeranz, le trasformazioni occorse in
Europa erano state sì determinate da fattori endogeni, ma
analoghe trasformazioni stavano avvenendo simultaneamente anche in Asia orientale; ciò che segnò la divergenza
tra Asia ed Europa nel XIX secolo fu l’accesso privilegia52 Il quadro macro-storico cui alludiamo descrive il rapporto tra Asia
orientale ed economia mondiale in termini d’integrazione progressiva nel
sistema di relazioni capitalistiche di produzione e circolazione. Tuttavia, a
differenza della tesi classica dell’espansione unidirezionale dell’Europa in
Asia, essa afferma la relativa autonomia del percorso di sviluppo economico
e sociale asiatico e, a partire da ciò, considera il rapporto tra Europa e Asia in
termini di dialettica tra il sistema produttivo e di scambio occidentale da un
lato, e un altrettanto complesso e articolato sistema produttivo e di scambio
orientale, organizzato intorno alla centralità della Cina. Si vedano a tal
proposito G. Arrighi, T. Hamashita, M. Selden, The Resurgence of East Asia:
500, 150 and 50 Year Perspectives, Routledge, New York-London 2003; A. So,
S.W.K. Chiu, East Asia and the World-Economy, Sage, Newbury Park 1996;
G. Arrighi, Adam Smith a Pechino: genealogie del XXI secolo, Feltrinelli,
Milano 2008; R. Wade, Governing the Market. Economic Theory and the
Role of Government in East Asia Industrialization, Princeton U.P., Princeton
2003; W. Jun, Expansion of the Southern China Growth Triangle, in Growth
Triangles in Asia. A New Approach to Regional Economic Cooperation, eds.
M. Thant, M. Tang and H. Kakazu, Oxford U.P., Oxford, 1996, pp. 163-86.
40
Primo piano
to di quest’ultima alle risorse del mondo coloniale, di cui
l’Europa si sarebbe appropriata in virtù del processo di
accumulazione originaria teorizzato da Marx nel capitolo XXVI del libro I del Capitale (1867), approfondito ed
esteso da Rosa Luxemburg in L’Accumulazione di Capitale (1913), e poi riformulato in termini di Accumulation
by dispossesion da Harvey (2003). Fu allora che l’Europa
occidentale poté avvantaggiarsi dello sviluppo di tecnologie di produzione ad alta intensità di capitale piuttosto
che ad alta intensità di forza-lavoro. Tuttavia, collocandosi ad un livello di sviluppo delle tecnologie ad alta intensità di utilizzo della terra inferiore rispetto alla Cina,
in presenza di un rapido aumento demografico, l’Europa
avrebbe dovuto necessariamente ricorrere anch’essa a tecnologie ad alta intensità di forza-lavoro piuttosto che ad
alta intensità di capitale per soddisfare la domanda di beni
di sussistenza, se non avesse potuto sfruttare le risorse
provenienti dagli imperi coloniali53. La cartografia policentrica della storia globale proposta da Pomeranz, in cui
il Vecchio Continente e il Celeste Impero definiscono un
complesso spazio eurasiatico, e in cui allo stesso tempo il
ruolo del Nuovo Mondo è tutt’altro che secondario, data
la centralità dell’oro e dell’argento americani nel sistema
del commercio di lunga distanza su scala mondiale, implica necessariamente un’altrettanto profonda riconfigurazione del tempo in cui queste trasformazioni si articolano. La tesi della validità analitica di un sistema mondiale
dell’economia tendenzialmente sinocentrico e ben più
antico degli ultimi cinque secoli, strenuamente difesa già
a partire dalla fine degli anni ottanta del Novecento da
Andre Gunder Frank, da un lato fornisce l’infrastruttura
narrativa per l’ipotesi della «grande divergenza», dall’altro ne risulta a sua volta corroborata dal ridimensionamento della centralità europea54. I due «residuali» secoli
di dominio europeo andrebbero dunque ricollocati entro
uno schema narrativo di più lunga durata, in cui la Cina
avrebbe costituito l’avamposto scientifico, organizzativo
53 K. Pomeranz, The Great Divergence. China, Europe and the Making
of the Modern World Economy, Princeton U.P., Princeton 2000, p. 4 (trad.
it. Bologna 2002).
54 Si veda il dibattito tra Andre Gunder Frank e Immanuel Wallerstein.
I. Wallerstein, Frank Proves the European Miracle, in «Review», 22, 1999,
pp. 355-71.
Ascione, Eurocentrismo e scienza
41
e tecnologico del mondo in vasti campi del sapere. Centralità che sembrerebbe dunque riproporsi al volgere del
II millennio, al termine della «parentesi» eurocentrica.
La contesa tra il mito dell’inevitabilità dell’ascesa
dell’Occidente da un lato e il mito della ritrovata centralità
della Cina dall’altro si riverbera sulla struttura dei perché
nell’indagine sulle trasformazioni delle modalità di produzione del sapere scientifico. Non si tratta più di spiegare
il fallimento della Cina a fronte del successo dell’Europa
nell’elaborazione di forme avanzate di conoscenza scientifica, ma piuttosto di comprendere e descrivere l’evolvere
delle relazioni eurasiatiche in virtù delle quali, pur essendo
la scienza cinese (sebbene nella sua diversità) non inferiore
a quella europea fino al XIX secolo, quest’ultima è riuscita
poi a superare quella cinese sia in termini teorici, sia per
livello di astrazione, sia nei suoi esiti applicativi, e soprattutto a egemonizzare tutte le altre agende di ricerca.
Il continente cui la riflessione sulla storia globale approda attraverso la via sinocentrica è enorme. Ciononostante,
lo storico americano Benjamin Elman ha tentato negli ultimi anni di ricomporre, almeno in parte, questa vicenda
in una narrazione coerente dello sviluppo della scienza in
Cina e dei suoi rapporti con lo sviluppo della scienza in
Europa fino alla fine del XIX secolo. La sua ricostruzione
può risultare più o meno accurata e approfondita; tuttavia
essa non assume rilievo nel ragionamento sul rapporto tra
scienza e modernità solo per il suo valore storiografico, ma
piuttosto perché, nel tesserne la trama, Elman radicalizza
uno degli assunti condivisi sia da Bala sia da Goonatilake.
Ci riferiamo alla consapevolezza che una civiltà cinese (o
quella occidentale) è stata in grado di mobilitare tali risorse
intellettuali, idee e strumenti euristici da ridurre gran parte
delle teorie scientifiche prodotte altrove alla stregua di rielaborazioni totali o parziali di concetti, tecniche, nozioni,
prospettive già facenti parte del proprio patrimonio culturale. Pertanto, anche nel caso in cui l’influenza da parte
della civiltà europea avesse effettivamente determinato una
trasformazione nella scienza cinese, o simmetricamente
viceversa, ciascuna delle due civiltà può negare o diminuire il valore di questa influenza e normalizzarne l’impatto
attribuendone la significatività al riemergere di fattori di
cambiamento già presenti in nuce all’interno della propria
tradizione scientifica, filosofica o metafisica.
42
Primo piano
Sulla base di questo assunto, la versione sinocentrica del
rapporto tra scienza e modernità proposta da Elman e sintetizzata nel titolo del suo volume del 2005 On Their Own
Terms si articola in tre nodi teorici: primo, la coesistenza di
molteplici tradizioni scientifiche, sia cinesi che non, presso
la corte del Celeste Impero, al fianco e in posizione niente
affatto subordinata rispetto a quella occidentale; secondo,
la rifunzionalizzazione selettiva di parte della scienza europea nel contesto delle esigenze organizzative proprie della
società cinese; terzo, la documentata discrasia tra ciò che
l’idea di scienza moderna rappresentava simultaneamente
in Occidente e in Cina, dove la presenza dei gesuiti prima e
dei protestanti poi avrebbe creato una temporalità sincopata di diffusione tra i due spazi geostorici in questione.
Nel ridefinire il ruolo delle missioni gesuitiche in Cina,
Elman si colloca empaticamente in prossimità del punto di
vista «cinese» sul rapporto tra scienza e modernità nello
spazio globale, ed esordisce ironico:
La Cina dei Ming nel XVI secolo non viveva certo in attesa
dell’arrivo dei gesuiti. I Ming erano una dinastia dinamica benché
tormentata, composta da regnanti enigmatici ma potenti. […].
Durante l’era dei Ming, studiosi-stampatori produssero enciclopedie e collectanea che presentavano il mondo naturale alla luce
della conoscenza antica e contemporanea, sia classica che popolare, e aggiungevano nuovi ambiti d’interesse quali l’esistenza quotidiana, il fascino per la vita materiale, e l’aspetto spirituale della
salute del corpo55.
In questo contesto, prosegue Elman, i gesuiti tentarono
di ridefinire l’agenda della ricerca scientifica cinese e di mediare tra ciò ch’essi ritenevano fosse la Cina e ciò che per la
Cina era l’Occidente.
Se la scoperta di nuovi mondi costrinse l’Europa a rileggere il paganesimo per confrontarsi con le popolazioni indigene
delle Americhe, contemporaneamente in Cina ebbe luogo un
processo alternativo di parallela riscoperta e assimilazione cui
possiamo riferirci in termini di scoperta dell’Occidente (Taixi)
da parte della Cina56.
La reazione all’arrivo dei gesuiti presso i Ming trovò
forma in una particolare modalità attraverso cui sistematizzare la «conoscenza occidentale» entro la cornice culturale
55 B.A. Elman, On Their Own Terms: Science in China 1550-1900,
Harvard U.P., Cambridge (Mass.) 2005, p. 23.
56 Ivi, p. 27.
Ascione, Eurocentrismo e scienza
43
dell’antichità classica cinese. Come sintetizzato dallo studioso cinese Wang Hui
Nella tradizione cinese il problema della conoscenza lixue
(studio del principio) era diviso in tre ambiti interrelati, identificati con tre concetti: gezhi (investigazione ed estensione), gewu
(investigare le cose), e qiongli zhi xue (completare la prova del
principio). Il termine gewu zhizhi (investigare le cose in modo da
estendere la conoscenza) consiste in una struttura verbo-oggetto che riflette una relazione dinamica soggetto-oggetto. Infatti,
gezhi è formato da due verbi [investigare ed estendere] può essere
considerato sia come un gerundio [investigando-estendendo] sia
come un infinitivo. Se consideriamo l’utilizzo più comune del
concetto di «scienza», ci rendiamo conto come analogamente il
termine gezhi enfatizzi il processo di conoscenza, osservazione,
esperienza ad opera del soggetto conoscente57.
Per i literati cinesi dunque, la scientia dei gesuiti non
era altro che una particolare declinazione occidentale
dell’approccio alla conoscenza conosciuto come gezhi.
Tant’è che quando i gesuiti presentarono alla corte dei
Ming la loro versione della storia naturale, strutturata nei
termini aristotelici di un linguaggio concettuale alternativo ai collectanea (la cui logica meraviglierà Luis Borges
all’inizio del Novecento e ispirerà Foucault nella sua ricerca archeologica sui saperi), videro la descrizione occidentale del mondo dell’esperienza tradotta dai loro collaboratori cinesi entro la struttura logico-grammaticale
di una collectanea di collectantium58. Per i literati cinesi
non si trattava soltanto di importare e sistematizzare le
conoscenze prodotte presso altre civiltà, quanto di attuare
una strategia epistemologica tale da attribuire una collocazione adeguata a ciascun sistema non cinese di organizzazione di conoscenze. E questa strategia epistemologica
operava per mezzo di una metastruttura categoriale abbastanza flessibile da assimilare non i contenuti, ma le intere
architetture categoriali entro cui quegli stessi contenuti
erano collocati e interrelati. Del resto questa medesima
strategia d’integrazione epistemologica, capace di operare
al di là e al di sopra dei sistemi di pensiero scientifico non
cinesi, aveva consentito storicamente alla civiltà cinese di
57 W. Hui, The Fate of «Mr Science» in China. The Concept of Science
and Its Application in Modern Chinese Thought, in «Position», 3, 1995, pp.
1-68, p. 3.
58 «Collection of collectors» nel testo originale. Elman, On Their Own
Terms cit., p. 39.
44
Primo piano
tradurre e accomodare le forme di conoscenza in cui si era
in vario modo imbattuta nel corso delle imprese marittime nell’Oceano Indiano o terrestri nel Caucaso, dando
vita a sistemi di classificazione e metodologie d’indagine
più ampie di quelle precedentemente a disposizione, che
tuttavia s’innestavano su queste ultime senza mai giungere a destabilizzarle. La stessa Rivoluzione copernicana in
senso stretto, per riprendere la distinzione di Bala discussa in precedenza, assume connotati del tutto specifici se
interpretata nella prospettiva sinocentrica di Elman.
Nel 1280, infatti, l’introduzione del sistema astronomico da parte della dinastia Yuan, denominato Shoushi Li,
poi confermato e nuovamente promulgato dai Ming nel
1368, aveva garantito una notevole affidabilità nella previsione degli eventi celesti e legittimato l’istituzione che si
sarebbe occupato della conoscenza astronomica e del calcolo del calendario fino al 1580 come istituzione di ricerca
astronomica fondamentale presso l’impero cinese. Le applicazioni pratiche delle conoscenze scientifiche elaborate
e divulgate si erano dimostrate estremamente utili per il
governo. Infatti, le innovazioni e i vantaggi rinvenuti in
altri modelli astronomici, come quelli introdotti da indiani, musulmani e dagli stessi gesuiti, avevano consentito
da un lato agli aspetti più convincenti di questi modelli
astronomici di essere integrati a, e resi compatibili con, il
calendario astronomico Ming prima e Qing poi; e dall’altro avevano costituito l’opportunità per i rappresentati
più o meno eminenti di queste diverse culture scientifiche
non cinesi di essere impiegati presso la corte del celeste
impero59. Nel XVI secolo, i gesuiti presentarono Copernico prima come un seguace di Plotino, e dunque del geocentrismo, poi come seguace di Tycho Brahe, e dunque
di un approccio geo-eliocentrico; infine, quando Benoist
presentò il modello eliocentrico copernicano intorno alla
metà del XVIII secolo, i literati cinesi furono sorpresi
dall’incoerenza del modello a fronte degli avanzamenti in
astronomia che ormai avevano a disposizione più che dal
carattere rivoluzionario di quella teoria60. Il tentativo di
59 Ivi, p. 64. Per un’analisi più specifica di questo aspetto, si veda Id.,
The Social Roles of Literati in Early to Mid-Ch’ing, in The Cambridge
History of China, vol. IX-1, The Ch’ing Empire to 1800, ed. W Peterson,
Cambridge U.P., Cambridge-New York 2002, pp. 360-427.
60 Elman, On Their Own Terms cit., p. 13.
Ascione, Eurocentrismo e scienza
45
Benoist si colloca a ridosso della brusca conclusione della
diuturna controversia dei riti cinesi, il cui esito vide la delegittimazione della missione gesuitica nel 1742.
Mentre in Europa la stessa egemonia del calcolo differenziale nella formulazione dello stesso Newton veniva
messa precocemente in discussione dagli sviluppi continentali dei sistemi di notazione e di calcolo infinitesimale ispirati a Leibniz e sviluppati da Lagrange, Condorcet, d’Alembert, prima ancora che le teorie di Newton potessero
essere introdotte in Cina, qui la narrazione dello sviluppo
della scienza viveva un radicale processo di indigenizzazione, impegnato nel rinvenire e documentare «l’origine cinese della conoscenza occidentale».
Il progetto di accomodamento promosso dai gesuiti si dimostrò un alleato imprevisto del sinocentrismo: se i testi classici cinesi custodivano un patrimonio di antica saggezza, sia cinese che
europea, allora tutta la conoscenza europea, inclusi i campi della
scientia come la storia naturale e la matematica, aveva di fatto
avuto origine in Cina ed era stata in un secondo momento diffuse
in Occidente. I cinesi potevano certo condividere con i gesuiti
l’idea della trasmissione culturale in teoria, ma nella pratica erano
liberi di cambiare la direzione della trasmissione e affermare la
propria centralità61.
L’impatto della dimensione normativa di questa emergente grande narrazione sinocentrica nel XVIII secolo,
promossa dai literati cinesi, si manifestò sotto diversi punti
di vista. Molti literati si disinteressarono all’approccio empirista e applicativo che per secoli aveva costituito parte
integrante del gezhi per rivolgersi alla matematica dei gesuiti fino a renderla una materia indipendente, piuttosto che
uno degli strumenti per produrre conoscenza astronomica.
Così facendo, secondo gran parte della storiografia del Novecento, essi inaridirono l’interesse per gli aspetti applicativi della scienza, nello stesso momento in cui questa stessa
forma di conoscenza diveniva misura del valore assoluto
della conoscenza scientifica in Occidente62.
Questa circostanza è stata per lo più letta come il
momento dell’interruzione del canale di comunicazione
interculturale tra Europa e Cina, ed è stata spesso considerata la ragione dell’incapacità della civiltà cinese di
tenere il passo con l’innovazione scientifica e tecnologica
61
62
Ivi, p. 173.
Ivi, p. 255.
46
Primo piano
che nel corso del XIX secolo si configurerà come uno degli elementi cruciali della grande divergenza tra Europa e
Cina. Secondo la prospettiva di Elman, corroborata dai
successivi studi di Harriet Zurndorfer e del tutto compatibile sia con la cornice culturale sinocentrica elaborata
da Wang Hui sia con l’ordine cronologico della «grande divergenza», invece, le trasformazioni nelle strutture cinesi di produzione della conoscenza scientifica non
trovano affatto cause sufficienti né nella tesi della reazione all’incontro con l’Occidente, né in quella dell’involuzione epistemologica verso i classici iniziata verso
la metà del XVIII secolo. Piuttosto, i fenomeni di riorientamento della produzione di conoscenza scientifica e
delle metodologie di legittimazione in cui queste ultime
si sostanziavano costituiscono delle risposte a esigenze
organizzative altre rispetto a quelle dell’Occidente coevo, legate a doppio filo sia alle medesime differenze che
Pomeranz aveva collocato ai due estremi della dicotomia
labour-intensive vs capital-intensive, sia a determinate
congiunture ecologiche e politico-militari63. E mentre
la storiografia eurocentrica di gran parte del XX secolo
aveva individuato nel XVIII secolo le radici dell’ottocentesca stasi cinese, il sinocentrismo nella storia della
scienza colloca proprio in quei radicali riorientamenti
epistemologici la creazione di quelle strutture cognitive
che offrirono alla Cina le risposte intellettuali adeguate
a trasformazioni di breve e di lungo periodo: nel breve
periodo, esse consentirono alla Cina di seguire la propria vocazione labour-intensive dettata da una molteplicità di fattori socio-economici, demografici, ecologici e
culturali; nel lungo periodo, quegli stessi riorientamenti
si sono dimostrati, nel corso del XX secolo, in grado di
porre la Cina in condizione tale da confrontarsi con gli
sviluppi teorici e applicativi della scienza occidentale,
fino a utilizzarne e ulteriormente svilupparne gli esiti
nell’ampio e diversificato quadro delle forme di organizzazione produttiva capital-intensive, promosse dalla
Cina post-maoista. La stessa «grande divergenza» allude
63 Cfr. Conflict and Accommodation in Early Modern East Asia, ed.
H.T. Zurndorfer, Brill, Leiden 1993; E.J. Waley-Cohen, China and Western
Technology in the Late Eighteenth Century, in «American Historical
Review» 98, 1993, pp. 1525-44; Id., The Sextants of Beijing: Global Currents
in Chinese History, W.W. Norton and Company, New York 1999.
Ascione, Eurocentrismo e scienza
47
alla biforcazione di un percorso implicitamente considerato condiviso e orientato al progresso; la radicalizzazione della prospettiva sinocentrica aperta da Elman,
invece, mette in questione il carattere univoco dell’idea
di progresso definito dalla priorità accordata allo sviluppo della scienza orientata verso le tecnologie produttive
e organizzative industriali e capital-intensive: ciò che era
utile all’Europa del Settecento non era utile per la Cina
nello stesso periodo. Dunque, l’ordine temporale di cui
la grande divergenza rappresenterebbe un passaggio
cruciale risulta anch’esso provvisorio e inficiato da una
visione della storia del mondo profondamente e intrinsecamente eurocentrica. In questo senso, la narrazione
di Elman dello sviluppo della scienza in Cina sostanzia e
attualizza una visione sinocentrica della storia mondiale
di cui uno dei suoi principali fautori, Nathan Sivin (cui
per altro On Their Own Terms è dedicato), ha fornito i
contorni. In estrema sintesi, secondo Sivin, la questione
del perché la scienza moderna non si sia sviluppata in
Cina è un interrogativo storiografico a cui non è affatto possibile dare risposta; inoltre, qualcosa di analogo
a ciò che secondo gli assiomi della storia della scienza
occidentale deve intendersi per Rivoluzione scientifica
ebbe luogo in Cina all’inizio del XVIII secolo, ma non
produsse gli esiti socio-economici che si manifestarono
in Europa a partire dal XVI secolo, bensì generò trasformazioni sociali leggibili entro le caratteristiche proprie
della civiltà cinese. In questa «Rivoluzione scientifica
cinese» molti elementi che la storiografia occidentale
aveva considerato come ostacoli allo sviluppo delle conoscenza scientifica, in virtù delle teorie della modernizzazione, come il confucianesimo, servirono al contrario
a modellare la scienza cinese e ad assicurarne una proliferazione del tutto specifica64.
64 A partire dai primi anni settanta del Novecento, N. Sivin ha indagato
i limiti dei saperi occidentali devoti alla conoscenza della scienza cinese, sulla
scia dei lavori di Needham. Cfr. N. Sivin, Copernicus in China, in «Studia
Copernicana», 6, 1973, 103-122; Id., Why the Scientific Revolution Did Not
Take Place in China - Or Didn’t It?, in «Chinese Science», 5, 1982, pp. 45-66;
Id., Max Weber, Joseph Needham, Benjamin Nelson: The Question of Chinese
Science, in Civilizations East and West: A Memorial Volume for Benjamin
Nelson, ed. E.V. Walter, Humanities Press, Atlantic Highlands 1985, pp. 3749; N. Sivin, Science and Medicine in Chinese History, in Heritage of China:
Contemporary Perspectives on Chinese Civilization, ed. P.S. Ropp, University
of California Press, Berkeley 1990, pp. 164-96.
48
Primo piano
6. Modernità scientifica:
riformulare, dissolvere, «disapprendere»
Che forma assume, dunque, il rapporto tra scienza e
modernità alla luce di ciascuna delle tre prospettive considerate? E, se intendessimo valutarne congiuntamente il
contributo, cosa resterebbe in piedi dell’architettura narrativa ed epistemica della modernità scientifica? Infine, in che
misura ciò che sopravvive di questa architettura può fornire le fondamenta per l’elaborazione di categorie analitiche e
strutture narrative non-eurocentriche?
Si è posta come ipotesi analitica l’interpretazione dell’aderenza o distanza dei tre diversi approcci considerati rispetto alla cornice concettuale della modernità, riformulata
a sua volta in termini di stadi di modernità e di modernità
multiple. Inoltre, nell’attraversare le specificità che distinguono questi tre approcci, così come nell’evidenziare le
analogie che li accomunano, si è scelto di costruirne una
descrizione capace d’indirizzare l’attenzione del lettore
verso quegli elementi concettuali e narrativi che avrebbero
reso immediatamente intuibili proprio le zone di relativa
aderenza o distanza cui si è testè accennato. Sulla base di
tali indicazioni, ma volendo tuttavia offrire un quadro sintetico della capacità di queste prospettive di destabilizzare
il paradigma della modernità e, allo stesso tempo, dell’incapacità di oltrepassarne i confini, vale la pena approfondire
due questioni complessive.
La prima attiene alla profonda destabilizzazione spaziotemporale della modernità che emerge se consideriamo
congiuntamente queste tre prospettive. Le tesi continuiste
sia di Bala sia di Goonatilake mettono in crisi la cornice
teorica della modernità tanto rispetto all’assunto in base
al quale la scienza moderna sarebbe qualcosa d’intrinsecamente differente dalla scienza medievale e da quella noneuropea, quanto in relazione all’individuazione del «dove»
e del «quando» dell’origine della modernità scientifica. Il
mito dell’origine della Rivoluzione scientifica, paradossalmente, si sostanzia nonostante l’assenza di coordinate spaziotemporali condivise della sua morfogenesi storica. Inoltre, entro la riconfigurazione sinocentrica della storia del
mondo proposta da Elman, laddove le coordinate spaziali
vengono apoditticamente enunciate e stabilite in modo tale
da costituire a loro volta l’assunto fondativo della narrazio-
Ascione, Eurocentrismo e scienza
49
ne proposta, le coordinate temporali entro cui si struttura la
versione sinocentrica della storia della scienza moderna destrutturano inevitabilmente non solo l’ordine cronologico
e la cornice narrativa della modernità, ma inevitabilmente
il suo senso e le sue direzioni della grande narrazione della
modernità che in virtù di quell’ordine e di quella cornice
avevano trovato legittimazione e coerenza logica.
Il secondo ordine di questioni ha a che fare invece con
la dimensione normativa, più o meno implicita e condivisa da questi approcci. Se in termini narrativi e descrittivi
le coordinate spaziotemporali della modernità sembrano
essere incapaci di contenere l’operare congiunto di diverse
forze centrifughe che assumono l’eurocentrismo come premessa critica, in termini normativi la modernità riafferma la
propria egemonia epistemologica. Fin troppo automatica,
tanto da apparire addirittura ingenua, è l’adesione di Goonatilake all’idea degli stadi di modernità e a un rinnovato
programma baconiano. E tuttavia, proprio la superiorità
incontestata del programma baconiano costituisce il filo
rosso che collega surrettiziamente l’idea di stadi di modernità a una versione ulteriormente sofisticata di modernità
multiple. In che modo? Tutte e tre le ipotesi, sia di Bala, sia
di Goonatilake, sia di Elman, preservano una particolare
struttura argomentativa, quasi del tutto inscrivibile entro
un quadro logico nel quale il primato dell’Europa nella
scienza non si esprime più in termini di originalità delle
scoperte scientifiche: l’idea che l’Europa per prima fosse
giunta a un determinato livello di conoscenze tale da assicurarle per diritto naturale il ruolo di guida lungo il percorso del progresso scientifico dell’umanità lascia il posto
all’accettazione che gran parte delle conoscenze scientifiche
caratteristiche della modernità siano state prodotte altrove;
dunque, l’immagine eurocentrica della storia globale viene
ad essere sostituita da una cartografia policentrica in cui le
diverse civiltà hanno dato e continuano a dare vita a forme
ibride di conoscenza scientifica. Tali forme ibride sono il risultato dell’incontro delle differenti e alternative specificità
culturali, tutte ugualmente legittime poiché concettualizzate pariteticamente in termini di civiltà. Eppure la scienza
moderna, per definizione, si caratterizza in termini di rottura epistemologica rispetto alle altre forme di conoscenza,
per quanto le conoscenze scientifiche non-europee abbiano
concorso a fornire idee, concetti e teorie. Come coniugare
50
Primo piano
dunque la natura non-eurocentrica dei molteplici contributi che hanno nutrito e nutrono la scienza moderna e la sua
unicità storica, senza la quale l’assunto della sua specificità
si dissolverebbe? Nell’architettura teorica delle modernità
multiple, si ricorderà, erano le configurazioni istituzionali
nate in Europa a ibridarsi con le specificità culturali locali
per dar vita a forme diverse di modernità; allo stesso modo,
se si considera la scienza moderna non come un insieme articolato e complesso di conoscenze, ma piuttosto in termini
di modalità di concepire la conoscenza della natura come
uno sforzo teorico che fa del pragmatismo il criterio ultimo
di validità, allora la particolare configurazione intellettuale rappresentata dal metodo baconiano è da considerarsi
la matrice costitutiva della modernità scientifica, costantemente riprodotta e tradotta nel corso dell’incontro tra civiltà. Del resto, anche se nella versione sinocentrica della storia della scienza il gezhi risulta un’attitudine verso la natura
analoga al metodo baconiano ma precedente all’incontro
con l’Occidente, la centralità della contesa stessa intorno al
carattere originario di questa forma di conoscenza cinese –
tema di assoluta rilevanza nell’attuale dibattito su scienza e
scientismo nella Cina del XX secolo – finisce con il legittimare retroattivamente la priorità accordata a una particolare visione (occidentale moderna) della scienza, oggi condivisa e sostenuta «in termini» cinesi (per parafrasare Elman).
Il ragionamento sin qui condotto giunge sino alla soglia di un’evidente aporìa: da un lato, l’idea che l’avvento
della modernità sia, a tutti gli effetti, una rottura spaziale, temporale e ontologica appare sempre più problematica a fronte di consolidate tradizioni storiografiche che
puntualmente hanno messo in discussione sia l’unicità e il
carattere intrinsecamente europeo di idee cruciali nell’autobiografia trionfalista dell’Occidente organizzata intorno al mito della Rivoluzione scientifica, sia la possibilità
stessa di distinguere il tradizionale dal moderno all’interno di qualsiasi contesto sociale di produzione della conoscenza scientifica storicamente determinato; dall’altro
lato, e a dispetto di questa instabilità narrativa, l’idea di
modernità resta la struttura epistemologica entro cui questa stessa instabilità narrativa viene riformulata, estesa e
aggirata nei termini di stadi di modernità e di modernità
multiple, a seconda che tale riformulazione prediliga la dimensione temporale o la dimensione spaziale, e più spesso
Ascione, Eurocentrismo e scienza
51
come combinazione di entrambe. Ciò perché la trama di
relazioni concettuali che lega scienza, modernità e saperi storico-sociali è tanto intricata quanto relativamente
coesa da costituire simultaneamente sia la struttura fondazionale delle diverse versioni della grande narrazione
della modernità, sia la matrice logico-grammaticale delle
contro-storie della scienza, impegnate a loro volta a destabilizzarne i presupposti epistemologici.
Ma se permane l’intento del superamento dell’eurocentrismo, allora i percorsi che si profilano sono almeno tre. Il primo, sostenuto da John Hobson, consiste nel
perseverare con il tentativo di produrre una nuova grande narrazione della modernità globale che si nutra della
dialettica costante tra la storia multiculturale e dialogica
della scienza incentrata sul concetto di civiltà da un lato e,
dall’altro, la critica costante alle forme molteplici di «neoeurocentrismo» che altrettanto costantemente emergono65. Il secondo, sulla scia della proposta di Harriet Zurndorfer, consiste nel riflettere sulla scienza abbandonando
il concetto di modernità; questa ipotesi prende le mosse
dalla constatazione dei limiti teorici imposti dalla presunta inscindibilità di nessi concettuali fondamentali nell’analisi storico sociale della modernità, nel contesto della
storia non-europea: la tesi di Zurndorfer poggia infatti
sull’impiego del concetto di scienza liberato dalla cornice semantica della modernità, data l’instabilità narrativa
ed epistemica di quest’ultima nel quadro della possibile
elaborazione di una storia globale non-eurocentrica66.
Il terzo, che intendo perseguire, può essere immaginato
come un processo di «disapprendimento» della modernità
(unthinking modernity)67. Per un verso, in parziale accor65 J.M. Hobson, Global Dialogical History and the Challenge of NeoEurocentrism, in Asia, Europe and the Emergence of Modern Science:
Knowledge Crossing Boundaries, ed. A. Bala, Palgrave MacMillan,
Houndmills-New York 2012, pp. 36 sgg.
66 Lo spunto per questa riflessione, ammette Zurndorfer, nasce dal
seminale articolo di P.H. Will, Modernisation Less Science? Some Reflections
on China and Japan before Westernisation, in East Asian Science: Tradition
and Beyond, eds. K. Hashimoto, C. Jami, L. Skar, Kansai U.P., Osaka
1995. Cfr. H. Zurndorfer, Science without Modernization: China’s First
Encounter with Useful and Reliable Knowledge from Europe, Paper for
the Fourth Conference of the Gehn (Global Economic History Network),
Leiden, 2004 (http://www.lse.ac.uk/economicHistory/Research/GEHN/
GEHNPDF/Conf4_HZurndorfer.pdf).
67 G. Ascione, Unthinking Modernity: Socio-Historical, Epistemological
and Logical Pathways, in «The Journal of Historical Sociology», 26, 2013.
52
Primo piano
do con Zumdoerfer, sono convinto che sia la stessa idea
di modernità a costituire il principale limite all’elaborazione di categorie analitiche post-eurocentriche, e quindi
non credo che la via riproposta da Hobson conduca fuori dall’attuale cul-de-sac del dibattito sull’eurocentrismo;
per un altro verso, in sintonia con la tensione espressa da
Hobson, diffido degli effetti di lungo termine di operazioni normative così nette come quella di Zurndorfer68.
La tentazione di «legiferare» riguardo all’utilizzo di un
concetto tanto ampio come quello di modernità sottovaluta forse la necessità di disarticolare e di sciogliere quei
nessi concettuali che si preferisce piuttosto recidere69. Ciò
soprattutto alla luce della considerazione che proprio l’idea di modernità è già uscita pressoché indenne da attacchi mossi con simile piglio critico. Non si tratta dunque
di ragionare di scienza imponendosi di tacere l’idea di
modernità, quanto di assumere in modo radicale la natura congetturale della modernità e tentare di demolirne gli
assiomi fondativi in cui una determinata idea di scienza si
è forgiata, in modo da esplorare gli interstizi che innervano le regioni epistemiche e narrative, spesso ignote, che si
estendono tra scienza e modernità e attraversano le zone
d’ombra della storia coloniale celate dalle versioni più sofisticate dell’eurocentrismo.
68 Una proposta analoga è quella di R. Bin Wong, secondo cui il concetto di industrializzazione andrebbe liberato dal nesso presuntamente
inscindibile con il concetto di capitalismo. Cfr. China Before Capitalism,
paper presentato al seminario organizzato dall’Economic History Society a Utrecht, 2013 (http://vkc.library.uu.nl/vkc/seh/research/_layouts/
WordViewer.aspx?id=/vkc/seh/research/Lists/Seminar%20Program/
Attachments/121/Wong%20%20China%20Before%20Capitalism.
doc&Source=http%3A%2F%2Fvkc%2Elibrary%2Euu%2Enl%2Fvkc%2Fseh%2Fresearch%2FLists%2FSeminar%2520Program%2FDispForm%2Easpx%3FID%3D121%26ContentTypeId%3D0x0100C3046F4C473B5748A1ECB27938EF1D01&DefaultItemOpen=1).
69 Il termine «legiferare» traduce l’espressione di Chakrabarty utilizzata
proprio nel dibattito teorico circa la plausibilità di abbandonare tout court il
termina modernità: «It is often more fruitful to see what people have done
with these words rather than to try to legislate their use», D. Chakrabarty,
In Defense of «Provincializing Europe»: A Response to Carola Dietze, in
«History and Theory», 47, 2008, pp. 85-96, p. 93.