Studi sulla Formazione: 21, 189-200, 2018-1
DOI: 10.13128/Studi_Formaz-23086 | ISSN 2036-6981 (online)
Carlo Lorenzini e la pedagogia illuminista
MONIKA POETTINGER
Docente di Storia economica – Università Bocconi di Milano
Corresponding author: monika.poettinger@unibocconi.it
Abstract. This essay analyses several writings of Carlo Lorenzini, published on journals, newspapers and collections, reconstructing the enlightened pedagogical principles applied in composing his masterpiece, The Adventures of Pinocchio, and also his
assumptions in regard the path of history and the role of education in the bettering
of society. The process of humanization of Pinocchio will also be represented as the
experience of all children, aged eight to twelve, on the verge of adulthood in the land
of freedom of choice and morality building. Lastly, the work of Lorenzini will be contextualised in the history of Tuscany in the decades of Italy’s unification, showing the
disappointment of Lorenzini with the results of the institutionalisation process of the
new state, harming the freedom of its citizen, not least by imposing bourgeois values
through compulsory education.
Keywords. Collodi, Carlo Lorenzini, Pinocchio, Tuscany, 19th century, enlightenment, pedagogy, Immanuel Kant, Jean-Jacques Rousseau, Risorgimento.
1. Ottocento e pedagogia: una introduzione
L’Ottocento, trionfo della borghesia ma anche secolo della pedagogia, vide l’espandersi del modello illuminista di educazione ed insegnamento (Cambi, 2014). Dal crepuscolo dell’ancien regime emergeva, infatti, un uomo nuovo che si definiva e voleva libero,
fin dalla prima infanzia. “La patria – scriveva Jean-Jacques Rousseau a metà Settecento- non può sussistere senza libertà, né la libertà senza virtù, né la virtù senza cittadini;
avrete tutto, se formerete i cittadini, altrimenti non avrete altro che schiavi malvagi, a
cominciare dai capi di stato” (Rousseau 2005, p. 246). L’educazione pratica, riassumeva
il filosofo Immanuel Kant, “è quella che deve insegnare all’uomo come vivere da libero agente”, è “educazione alla personalità”, è “l’educazione di un uomo libero che sappia mantenersi da solo e diventare un membro della società, la cui vita abbia però anche
un valore per lui stesso” (Kant [1803]1987, p. 455). La pedagogia, in questo senso, doveva
essere la scienza del rendere liberi gli uomini: “il problema più grande e difficile che possa venire imposto all’uomo” (Kant [1803] 1983a, pp. 702-703).
La Toscana non rimase immune da questa ondata di cambiamento, seppure con le
sue peculiari caratteristiche ed arretratezze. Ancora per tutto l’Ottocento, la classe dominante fu quella dei ‘moderati’, illuminati per vocazione culturale ma solo in minima parte borghesi per estrazione. La rivoluzione pedagogica, che ci fu certo, fu mediata e contaCopyright © 2018 The Author(s). Open Access. This in an open access article published by Firenze University
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minata dagli interessi e dalle convinzioni di questa élite, capace di spinte modernizzatrici come di incertezze reazionarie (Salvestrini, 1965).
Le Avventure di Pinocchio di Carlo Lorenzini rappresentano un frutto tardo e compiuto della filosofia illuminista, un Bildungsroman (Jeffers, 2005, pp. 35-54) dal chiaro
intento pedagogico. Con il suo burattino Lorenzini, non diversamente da un Kant od un
Rousseau, scriveva di libertà e del suo significato per l’uomo e per la società. Nella miseria, nella svogliatezza, nell’indifferenza agli affetti familiari, nell’ignoranza svelava, infatti, i fili di tanti burattini alla mercé della volontà altrui. Tra i lazzi, gli scherzi, le trovate
tragicomiche, le citazioni ed i rimandi al teatro ed alla letteratura, Lorenzini denunciava
anche, però, i limiti ed i fallimenti del modello risorgimentale, tramutatosi da utopia di
libertà in novella schiavitù per troppi italiani. Nel 1858, sulla Lente, scriveva: “Sia detto a nostra vergogna. Lo schiavo non è un privilegio esclusivo della America! Anche la
civilissima Europa ha i suoi schiavi: anche fra i popoli tirati a pulimento, anche in mezzo alla nostra Società a scagliola si trovano degli individui, così decaduti da ogni diritto
civile, che per la loro durissima condizione non hanno nulla da invidiare a un coltivatore
di canne da zucchero” (Lorenzini, 1858).
Pinocchio doveva così richiamare al loro compito quanti insegnavano, nella scuola
italiana divenuta obbligatoria, scienza e morale ma non libertà, ma soprattutto doveva
essere di esempio per tutti quei ragazzini che troppo creduloni o svogliati rinunciavano
alle libertà appena conquistate per le vaghe promesse di astuti imbroglioni e burattinai,
in cambio del sogno dorato di monete miracolose o di una gita al paese dei balocchi.
2. Una nuova letteratura popolare per ragazzi
Carlo Lorenzini prendeva molto seriamente “il problema più grande e difficile che
possa venire imposto all’uomo”, ovvero educare alla libertà i ragazzi italiani di fine secolo. Quando si analizzino con attenzione gli scritti che Lorenzini dedicò alla pedagogia, alla
scuola ed alla letteratura per l’infanzia nelle riviste che diresse o alle quali collaborò, non è
possibile dubitare, come fanno alcuni critici (Avanzini, 2016), del suo impegno o della consapevolezza d’intento e di metodo nella costruzione dei suoi scritti. “Fra le cose più difficili, – scriveva su Fanfulla – una delle più difficili, a parer mio, è quella di scrivere un buon
libro per ragazzi” (Lorenzini, 1875). Non era un compito per tutti. “Se la natura benigna ci
ha dato tanto ingegno, – continuava Lorenzini – quanto appunto ce ne vuole per non saper
fare né un compendio di storia ammodo, né un libro di prime letture dettato con garbo e
con grazia: se per colpa nostra o della poca istruzione avuta, non conosciamo altra lingua
italiana, tranne il dialetto allobrogo corretto e purgato da ogni sapore d’italianità e da ogni
leggiadria di dire toscano, perché ci dovremo incaponire a scrivere per le scuole?” (Ibid.).
Lorenzini aveva ben chiaro il peccato originale della letteratura scolastica italiana:
“oramai i libri scolastici, da noi, sono una specie di monopolio, a benefizio della classe
insegnante – e fra tutte le grammatiche del mondo, le migliori saranno sempre quelle del
professore Scavia” (Lorenzini, 1871b). Scavia, oggetto degli strali di Lorenzini, era padre
di una sterminata manualistica scolastica e prodigava, nei suoi libri, edificanti indicazioni quali “per le vie camminare con modestia; non baloccare di qua e di là; guardarsi
ai piedi per non inciampare; e tenersi lontani dai carri e dagli animali”; “se s’incontrano
buoni compagni, unirsi con loro; se si trova taluno che sia cattivo, schivarlo e non gli
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badare” e ancora: “entrando in iscuola, fare un inchino al maestro, salutare con un cenno del capo i compagni, e prendere in silenzio il posto assegnato” (Marciano, 2004, p.
202). Degli ideali illuministi, di quanto avevano scritto un Kant o un Rousseau, non c’era
niente in questi abbecedari, libri di letture e compendi vari, dove autorità e autoritarismo
soffocavano ogni anelito di libera scelta. “E quanti Scavia ci sono nell’insegnamento italiano!” ironizzava Lorenzini (1871b) decidendo, proprio per arginare questa infestazione,
di iniziare, a metà degli anni ´70, la sua attività di scrittore per l’infanzia (Lorenzini,
1875b).
La serie di Giannettino, che impegnò Lorenzini dal 1877 al 1890, e il Minuzzolo avevano un intento prevalentemente didattico (Lorenzini 1877, 1878, 1880, 1883a, 1883b,
1884, 1886a, 1886b, 1890) e pur nella modernità di linguaggio e di struttura compositiva rimanevano chiusi all’interno degli spazi, della cultura e dei valori borghesi (Cambi
1985, p. 38). D’altra parte, la scuola, per quanto innovativa, non era il luogo principe del
percorso di educazione auspicato dagli illuministi.
Pinocchio nasceva così, nel luglio 1881 sulle pagine del Giornale per i bambini, come
viaggio di formazione verso una nuova umanità, frutto di libera scelta. Il metodo che
Lorenzini intendeva usare era quello già sperimentato per il genere della letteratura di
viaggio in Un romanzo in vapore (Lorenzini [1856], 2010) e per il romanzo d’appendice ne I misteri di Firenze (Lorenzini [1857], 2010): dissacrare, ripresentandoli a rovescio,
topoi dei generi più diversi. Umorismo, quello di Lorenzini, che non era solo un esercizio
di critica letteraria o ironia satirica, ma che nel catturare l’interesse del popolo, educandolo con maggiore efficacia, voleva essere vera letteratura popolare e di conseguenza vera
pedagogia. Quanto un intervento del genere fosse necessario per la letteratura dedicata
all’infanzia lo scriveva su Fanfulla nel 1873 la firma N. Nanni, uno pseudonimo usato
collettivamente da tutti i redattori ed anche da Lorenzini (Bernardini 1890, p. 242).
“Oggidì la moda è di scrivere per il popolo, di fare il libro popolare: se rinascesse Vico, sarebbe anch’egli costretto – dall’editore – a stampare sul frontespizio: Scienza
nuova ad uso del popolo! La letteratura popolare, han detto quelli che sanno, è tra tutti i generi il più difficile: per cui tutti vogliono scrivere popolarmente, e scrivono quelle
uggiose cose con quel melenso e bambinesco stile, quelle leziosaggini, e i dialoghini, e
le scenette, e il diluvio di diminutivi cascanti, slombati che formano – fuori poche, ma
assai poche eccezioni – il fondo e la sostanza dei così detti libri popolari e dei libri per le
scuole! Io non so se la Commissione d’inchiesta sull’istruzione secondaria abbia posto,
nella lunga fila dei suoi quesiti anche questo: ricercare la causa per la quale i fanciulli
apprendono nelle scuole tanto disgusto per la lettura. La risposta avrebbe dovuto essere
una sola: la lunga infinita noia che loro ha procacciata la lettura forzata dei libri per le
scuole!” (Nanni, 1873). In mare, allora, tutti volumi scolastici: “i Sillabari, le Grammatiche, i Giannettini, i Minuzzoli, i Racconti del Thouar, il Pulcino della Baccini” (Lorenzini [1881-1883] 1995, p. 460); in mare “tutta quella scienza del bene e del male, ma più del
male che del bene, che i ragazzi imparano in casa, fuor di casa, al teatro, alle scuole, fra
i compagni, e in special modo sui muri delle case” (Lorenzini, 1875c, p. 121)! Un richiamo alla libertà per i ragazzi italiani che, per le costrizioni scolastiche e sociali, non più
di antico regime ma già borghesi, rischiavano di non conoscere più il significato di tale
parola, quando proprio la loro età, priva di responsabilità e libera per antonomasia, era
lo snodo essenziale della formazione dell’uomo (Cambi 1985, p. 36 e p. 72).
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Per i bambini che diventavano ragazzi, Lorenzini scrisse dunque delle bambinate, “fanciullaggini”, come quelle dell’amico Baldassarre Avanzini su Fanfulla, che erano
composte per “far piacere ai suoi piccoli amici e alle mamme”, ma servivano anche “per
l’ammaestramento degli uomini di tutte le età” (Avanzini, 1872). A partire dall’esperienza di Avanzini e la traduzione, poi, delle maggiori fiabe francesi per l’editore Paggi e per
Fanfulla (Lorenzini 1875d; 1875e), Lorenzini aveva imparato ad apprezzare la forza pedagogica di questa forma narrativa. La favola, grazie a vicende fantastiche, ridicole, stravaganti, era, infatti, capace di trasmettere valori fondamentali ad un pubblico vastissimo per età e censo. Quale forma letteraria migliore, allora, per rappresentare il dibattersi
adolescenziale in un’Isola che non c’è della libertà e delle infinite possibilità, dove imparare ad esercitare ragione e volontà?
Come protagonista Lorenzini non poteva che scegliere un ragazzo come quelli per i
quali scriveva. Di questa età Lorenzini aveva già raccontato, ampiamente, sia il ragazzo
di strada che il monello di buona famiglia (Cambi 1985, pp. 40-45). Macchiette queste,
però, ancora radicate nella storia, nella Toscana del suo tempo, nella sua duplice anima
popolare e borghese, inadatte dunque a rappresentare l’archetipo fiabesco del ragazzo in
lotta tra la schiavitù e la libertà nei suoi anni di formazione.
Nella scelta del suo Urbild Lorenzini demitizzò con il ridicolo, cifra caratteristica della sua scrittura, non solo molta della favolistica a lui contemporanea ma persino la tradizione pedagogica illuminista e l’immaginario cattolico. Proprio Immanuel Kant, dubitando dell’efficacia dell’insegnamento nell’educare l’uomo alla libertà e quindi indirizzare
la storia verso un fine positivo (Kant [1798] 2010a, p. 227), aveva affermato: “Da un legno
tanto ritorto quale quello di cui è fatto l’uomo, nessun falegname potrà cavare qualcosa di
completamente dritto” (Kant [1784] 1983b, p. 41), una metafora, derivata da Qoèlet (15,1),
che il filosofo reiterò più volte nei suoi scritti, anche pedagogici. Lorenzini, dissacrando in
una volta filosofia e religione, scelse allora come protagonista della sua favola di formazione proprio “un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e
nei caminetti per accendere e per riscaldare le stanze” (Lorenzini [1881-1883] 1995, p. 361)
e provò a cavarne un uomo libero, al di fuori di un qualsiasi percorso educativo scolastico ed autoritario. Strizzando l’occhio a tutta la mitologia classica e biblica sulla creazione
dell’uomo da una materia povera ed inanimata, Lorenzini, dunque, elesse questo pezzo
di legno ad archetipo dell’uomo da formare, e, così facendo, passo per passo, o meglio di
corsa in corsa, risata dopo risata, arrivava a definire cosa fosse un uomo, voleva educare i
suoi lettori, per via, a tagliare i fili che li rendevano schiavi, fino a gridare “Addio mascherine!” (Lorenzini [1881-1883] 1995, p. 518) a tutti i burattinai di questo mondo.
3. La libertà di un burattino e la schiavitù dell’uomo
Trovata la sua materia primigenia, Lorenzini, nel primo episodio delle Avventure, la
metteva subito nelle mani di “un vecchio falegname, di nome mastr´Antonio” (Lorenzini
[1881-1883] 1995, p. 361), perché la trasformasse in una gamba di tavolino diritta ed utile.
Invano. Ci fosse riuscito, sarebbe stata una storia guidata dalla logica e con un finale positivo. La storia dell’uomo, invece, del singolo come dell’umanità, non è né lineare né positiva. Un finale positivo se c’è, deve essere conquistato, spesso a caro prezzo (Kant 2010b,
p. 126). Nelle Avventure il pezzo di legno, ancora tra le mani del falegname, già si ribelArticoli
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la, non vuol proprio diventare una gamba di tavolino. Parola e ribellione, da Genesi alla
mitologia classica, sono tratti tipici dell’umanità generata per volere divino dalla materia
inanimata, ma non bastano a fare del legno di catasta un uomo. Come voleva la pedagogia illuminista era l’educazione a fare di un essere umano un uomo (Kant 1983a, p. 699).
Altrimenti vi era solo schiavitù: imposta dai propri istinti animali, da altri uomini o dalla
società (Kant 2010c, pp. 141-142). Tant’è che Geppetto, avuto dall’amico falegname il pezzo di legno, vuol farne un burattino: “un burattino meraviglioso, che sappia ballare, tirare
di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino” (Lorenzini [1881-1883] 1995, p. 364).
Nell’Italia di Lorenzini, questa dei girovaghi era l’immagine tipica dello schiavo
moderno (Guerzoni, 1868). L´Italia postunitaria, povera e rurale, esportava in tutta Europa piccoli mendicanti (Angelini 1996). “Siamo liberi, – denunciava Fanfulla – ma gettiamo, infausto accattonaggio, i nostri bambini sulla faccia del mondo, che ce li restituisce
vagabondi, fannulloni, ladri, briganti quando per la meno peggio, non li ingoia cadaveri”
(Rusticus, 1873). Quella dei petit calabrais (Zanella, 1871) era una piaga sociale tanto diffusa che nel dicembre 1873 il parlamento promulgò una legge sulla “Proibizione d’impiego di fanciulli in professioni girovaghe”. La tratta riguardava proprio i ragazzi di Lorenzini, tra gli otto ed i dodici anni. Negata loro qualsiasi libertà, finivano per essere impiegati
come spazzacamini, arpisti, accattoni e prostitute (Io Fanfulla, 1874a). Nella letteratura
sociale e pedagogica del tempo questi ragazzini-schiavi divennero un topos (The little Italians, 1873) e Lorenzini ne fece ampiamente uso nei suoi scritti per l’infanzia. Non solo
Pinocchio finiva tra le grinfie di Mangiafoco e del Direttore del Circo, ma anche lo scimmiotto Pipì, le cui avventure Lorenzini narrò sul “Giornale per i bambini” dopo quelle del
burattino (Lorenzini [1883-85] 1995, pp. 551-603), era destinato dal brigante Golasecca a
dare spettacolo in strada in cambio dell’elemosina del pubblico (Ibid., pp. 601-02).
Nemmeno lo stato liberale dell’Italia unita poteva o voleva salvare da questa nuova schiavitù: la legge rimase lettera morta. Sidney Sonnino, allora ministro per gli affari
esteri, in una lettera a Fanfulla constatava la sua impotenza: “La legge votata dal Parlamento dà tutte le facoltà necessarie al Governo, ma quello che manca sono i quattrini”
(Sonnino, 1874). Non solo, però, mancava qualsiasi aiuto, che non fossero pubbliche collette, ma i piccoli mendicanti, non diversamente da Pinocchio, pur innocenti, di solito
finivano in prigione (Io Fanfulla, 1874b). Tre volte schiavi, dunque, i piccoli accattoni,
per i loro genitori che li vendevano come fenomeni da baraccone, per i loro sfruttatori
che li usavano come burattini da spettacolo ed infine per la società che li bollava come
vagabondi e li rinchiudeva in carcere. Stupisce allora che Pinocchio, per tutte le sue
Avventure, fugga da Geppetto, da Mangiafoco e dal Direttore del Circo che lo volevano
accattone o animale da esposizione? La condizione di girovago è qui l’archetipo, allora,
della schiavitù dell’infanzia, l’opposto dello stato di libertà, il baubau, l’uomo nero, ciò
da cui Lorenzini vuole che i bambini scappino a gambe levate, anche se i burattinai hanno talvolta l’aspetto amorevole di un genitore o quello benevolo di un procacciatore di
facili guadagni (Ibid.).
Bastava sfuggire ai burattinai, allora, per essere liberi? Non per Lorenzini. Pinocchio
non conosce il vero significato della libertà, la libertà cui anela appena creato è quella
popolana, demoniaca e carnevalesca dei burattini: (Marcheschi, 1990). Le sue aspirazioni
erano: “mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vaga-
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bondo” [Lorenzini [1887] 1995, p. 641). In questo Pinocchio è Urbild e sublimazione del
ragazzino collodiano, quello che: “aveva tutti i difetti, che può avere un giovinetto della
sua età, fra gli undici e i dodici anni: disubbidiente, goloso, pigro, dormiglione, nemico
dell’acqua per lavarsi le mani e il viso, coperto di frittelle e di strappi in tutti i vestiti
che portava addosso, spacciatore di bugie all’ingrosso e al minuto, ciarliero, impertinente, rispondiero e avversario implacabile dei libri e della scuola” (Lorenzini [1887] 1995, p.
641). Tanto che Pinocchio appena uscito dalle mani di Geppetto, per non andare a scuola
scappa immediatamente di casa, manda il babbo in prigione e uccide il grillo parlante
senza alcun rimorso. Il grillo, non a caso, da subito irride e stigmatizza la sua disumanità: “-Povero Pinocchio! Mi fai proprio compassione! (…) Perché sei un burattino e, quel
che è peggio, perché hai la testa di legno” (Lorenzini [1881-1883] 1995, pp. 372-73). Ciò
che mancava al pezzo di legno di catasta per essere un uomo erano, in primis, la ragione,
ovvero la capacità di percepire dentro di sé il bene e scegliere di conseguenza – ha una
testa di legno – e quindi la libertà – difatti è un burattino, anche senza fili.
Pinocchio dovrà correre a lungo, tra le campagne toscane che Lorenzini gli tratteggia intorno, alla ricerca delle esperienze che possano rendergli immanente quell’imperativo categorico che fino alla sua metamorfosi sarà solo al di fuori di lui in dozzine di
animali, rappresentanti una natura più umana della sua. Pinocchio diverrà ragazzo, o
figliolo nelle parole di chi lo circonda e lo giudica quando, nella disperazione per la morte della fata bambina o per la sorte terribile di Geppetto e nel compiere qualche azione
giusta, inizierà a dimostrare una qualche consapevolezza morale delle sue scelte (Lorenzini [1881-1883] 1995, p. 439; pp. 444-445; pp. 515-17). Quanto dovrà sbagliare, quante
persone far morire, quante volte morire lui stesso per arrivare appena a queste lacrime?
Le Avventure diventano così una storia più che lineare ondivaga, con ripetuti alti e bassi
ed una direzione tutt’altro che definita (Marcheschi 1990, p. 109).
Pinocchio si appropria faticosamente, tramite l’esperienza, della Kantiana ragione
pratica, ma la libertà di scelta che così conquista non si traduce necessariamente nella scelta del bene. La volontà di essere un bravo bambino convivrà a lungo con l’anelito
demoniaco del burattino. Apollo e Dioniso in un pezzo di legno da catasta: uno specchio
dell’andamento della storia umana come prefigurato da Kant (2010b, p. 124)? Lorenzini
lo conferma sulle pagine del Fanfulla, facendo disquisire un fucile ad Ago della razionalità di Descartes (1649), della verità biblica e dell’esperienza della guerra (Lorenzini, 1870).
Le conclusioni non sono confortanti: “Se l’uomo, dico io, fosse davvero dotato dell’uso
della ragione, come si potrebbe spiegare la guerra? (…) L´uomo, che fonda gli spedali e
gli istituti di carità, e nel tempo stesso studia i perfezionamenti dei retrocarica; l´uomo
che applica il cloroformio alle operazioni chirurgiche e inventa le palle esplosive e le
mitragliatrici; l´uomo che ti dice che la torpedine fabbricata da lui fa saltare in aria un
bastimento carico di gente, con quello stesso orgoglio, con cui domani ti racconta che ha
costruito una macchina di salvataggio; l´uomo, infine, che perfeziona gli osanori e i denti
artificiali, perché il suo prossimo sia meno scompleto che può!...e poi s´ingegna di trovare
il mezzo più sicuro, per portargli via di netto le gambe e le braccia. Mio caro amico, se
questo è un animale ragionevole, io non so davvero che cosa pensare degli animali irragionevoli” (Ibid.). Lorenzini cita, poi, con la solita ironia, lo stesso Kant: “Ci fu una volta
un filosofo…. Vi rammentate il nome? – No – Neppure noi – Ebbene non importa; ci
fu una volta un filosofo il quale, in un accesso di bile umanitaria si lasciò scappare dalArticoli
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la bocca questa sentenza: – ‘I popoli non potranno dirsi civilizzati fino a tanto che non
avranno abolito definitivamente la guerra’” (Lorenzini, 1860). Ma come credere alla pace
perpetua, ad un fine positivo della storia se l’uomo si comporta in maniera irragionevole,
se usa la sua libertà per scegliere il male (Lorenzini, 1871a)? “Il mondo invecchia – scriveva ancora Lorenzini – e se debbo dirla senza tanti complimenti, invecchia piuttosto male.
Non mi domandate che cosa fosse il mondo, da giovine, perché non l’ho conosciuto: ma
posso dirvi che ora, da vecchio, è gonfio, uggioso e prolisso come i periodi dello storico
Guicciardini! Quand’apre bocca, discorre sempre di pace, e di bisogno di riposo: mentre
poi si addormenta ogni sera, armato da capo ai piedi, come un rompicollo del medioevo.
Predica l’ordine, ed ha tutta la casa sottosopra; crede d’esser coraggioso, perché racconta
a tutti di non aver paura: e qualche volta si figura di esser ringiovanito, perché si tinge la
barba e i capelli coi principi dell’89!...Povero mondo!” (Lorenzini 1873c).
Eppure proprio da questo sbagliare e sbagliare ancora, da questa apparentemente
inconsulta ricerca della libertà, arriverà il riscatto, per l´umanità di Kant come per il burattino di Lorenzini (Lorenzini 1886c). Kant confidava nell’esperienza terribile delle guerre per
convincere l’umanità della necessità di progredire verso una società cosmopolitica. Guerra, dunque, come caratteristica della storia umana, imprescindibile al suo svolgersi positivo:
un’interpretazione che Lorenzini riportava, satireggiandola a modo suo, su Fanfulla (Lorenzini, 1873b). Allo stesso modo Lorenzini infliggeva al suo burattino, tra tante risate, esperienze terribili per trasformarlo in un uomo, per dare alla sua fiaba un esito positivo. Un
Bildungsweg che è, per Pinocchio, come per il mondo, privo di una qualsiasi guida. Nessun sistema scolastico o pedagogico, si è detto, poteva educare l’uomo alla libertà. La libertà
confligge insanabilmente con l’autorità (Miller-Kipp 1992; Vogel 1990). Un dilemma pedagogico che si riflesse, all’epoca di Lorenzini nelle discussioni, anche accese, sull’opportunità
di rendere l’istruzione obbligatoria nel neonato stato italiano. “Siamo o non siamo liberi? –
faceva dire Lorenzini ad un analfabeta – Se siamo liberi, mi pare che ogni ignorante debba
avere il suo bravo diritto di morire ciuco: e accidenti a chi si ribella” (Lorenzini 1874).
In effetti, sul problema dell’istruzione obbligatoria il secolo dei lumi e della libertà naufragava in una aporia apparentemente insolubile: rimanere asini liberi o diventare
burattini sapienti? Tutti comunque schiavi: dell’ignoranza oppure della pedagogia autoritaria. Kant risolveva il problema a modo suo, anteponendo all’educazione culturale,
che necessitava di maestri, quella educazione alla disciplina che, a partire dalla scoperta
della ragione intorno ai dieci anni, doveva e poteva essere solo raggiunta da uno sforzo personale di autocoscienza ed autolimitazione (Kant 1983a, p. 697). In questo stadio
dell’educazione il bambino doveva imparare a vedere nei consigli di un maestro non una
limitazione della sua libertà ma una via per guadagnare la sua libertà, per non rimanere
burattino od asino. Questa consapevolezza doveva maturare nel ragazzo grazie all’esperienza, non poteva essere insegnata. Così anche per Lorenzini: “La migliore educazione
pratica, che possa acquistare un ragazzo, – scriveva in una nota autografa – è quella che
il ragazzo impara da sé, modellandosi sull’esempio delle persone perbene e proponendosi
di adempiere continuamente i propri doveri verso i genitori, verso i maestri e verso la
gente da più di lui. Questa concezione non si impara sui libri, né c’è barba di maestro
che possa insegnarlo” (Marcheschi 1995, p. 1007). Solo Pinocchio poteva dunque scegliere tra la libertà del burattino, un carnevale eterno privo di ragione, e quella dell’uomo,
una quaresima di disciplina e morale.
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Se, dunque Giannettino e Minuzzolo, ma anche l’Emilio di Rousseau (Trombino
1991), avevano degli educatori, Pinocchio si libera brutalmente del grillo parlante, il Virgilio che avrebbe dovuto accompagnarlo tra Inferno e Purgatorio, ed abbandona la fata
turchina, la sua paradisiaca Beatrice. Il burattino andrà così in galera da solo, da solo
finirà impiccato, da solo affronterà il Gatto e la Volpe, Mangiafoco, il Pescatore verde
ed infine il terribile Pesce-cane. Da solo imparerà a prendersi cura del padre ammalato, andrà a lavorare, vedrà morire il suo migliore amico, da solo si risveglierà bambino.
Una solitudine esistenziale che è essenziale per il suo percorso educativo. Niente gli viene
risparmiato, perché nessuna esperienza può essergli risparmiata. Pinocchio conquista da
solo la sua libertà, la sua umanità, con cinque mesi di auto-disciplina che compensano
esattamente i cinque mesi di baldoria nel Paese dei Balocchi (Lorenzini [1881-1883] 1995,
pp. 522-23). Non sono i consigli dei tanti pedagoghi a quattro o più zampe che ha incontrato nelle sue avventure, né tanto meno quelli dei maestri di scuola, della fata turchina o
del pur amato babbo che permettono la metamorfosi del burattino. Solo da sé stesso, riconoscendo il suo desiderio di essere buono ed agendo di conseguenza, potrà morire come
burattino e risorgere bambino: “andò a guardarsi allo specchio, e gli parve d’essere un
altro. Non vide più riflessa la solita immagine della marionetta di legno, ma vide l’immagine vispa e intelligente di un bel fanciullo coi capelli castagni, cogli occhi celesti e con
un’aria allegra e festosa come una pasqua di rose” (Lorenzini [1881-1883] 1995, p. 525).
Pasqua e Pentecoste insieme? Una speranza per l’umanità? Il “risettino” (Marchetti 1958, p. 20.) di Lorenzini, che sempre accompagna l’uso di un vocabolario religioso,
toglie una qualsiasi certezza positiva a questa risurrezione della carne, come alla possibilità che la ragione possa scendere sull’uomo per dono divino. Il burattino muore perché
con lui muore la libertà dionisiaca dell’adolescenza. Peter Pan non può lasciare l’Isola
che non c’è: non esiste al di fuori di essa. Fuori dell’Isola, come constatava Lorenzini, si è
bambini o uomini, i ragazzi non esistono. Tuttavia, non sempre da un ragazzo nasce un
uomo libero. Per ben due volte Pinocchio muore per rinascere burattino e vi sono burattini che, sotto il terribile – ma non troppo – governo di Mangiafoco, lo rimangono tutta
la vita. Peggio: i burattini possono diventare ciuchi, perdendo persino quella scintilla di
umanità che è la parola. Da ciuchi fanno “una vita durissima e strapazzata” (Lorenzini
[1881-1883] 1995, p. 496) e fanno una fine miserevole. Muore Pinocchio, affogato dal suo
compratore (Lorenzini [1881-1883] 1995, p. 502), muore Lucignolo “rifinito dalla fame e
dal troppo lavoro” (Lorenzini [1881-1883] 1995, p. 521).
La lezione morale di Lorenzini è questa, in tutta la sua crudezza: a nessuno è imputabile la schiavitù dei burattini e dei ciuchi se non a loro stessi. Se il mondo o la storia
ne determinano l’inevitabile fine, è sempre un atto di volontà iniziale a fare di un ragazzo un burattino o un ciuco. Per un figlio dell’illuminismo come Lorenzini, che si era
conquistato la propria libertà sui campi di battaglia, non si potevano fare concessioni al
determinismo, quale che fosse. L’adolescenza, il viaggio nell’Isola che non c’è, è una conquista della libertà o una strada di perdizione da percorrere da soli acquisendo coscienza
e responsabilità delle proprie azioni. La volontà dell’uomo si esercita qui per la prima
e forse l’ultima volta. Fuori da questo tempo magico eppur terribile di libertà assoluta,
acquisita la disciplina, l’educazione diventa acculturamento, socializzazione e moralità.
L’uomo entra nel tempo della storia e ne subisce la determinazione. Se il ragazzo esce
dall’adolescenza da uomo libero potrà decidere del proprio futuro, ma comunque dal-
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la società che contribuisce a creare, dalle regole morali che si attribuisce sarà alla fine
determinato. Non solo: inevitabilmente tenterà di determinare la generazione a lui successiva, diventerà burattinaio.
Così Pinocchio, divenuto Alfredo, il padroncino della fiaba dello scimmiottino rosa
(Marcheschi 1995, pp. 1042-43), pur benevolmente, imporrà a Pipì regole di comportamento completamente estranee alla piccola scimmia, strappandola al contempo dalla sua
famiglia. La povera scimmietta, di fronte ad uno specchio dopo la sua trasformazione,
rimase inorridita: “Non son più io!... Non sono più Pipì!... Mi hanno vestito da uomo…
e son diventato un mostro da far paura. Non voglio più star qui: voglio andarmene…
voglio tornarmene a casa mia. Non voglio più questi vestitacci: no,no, no!... – E gridando
e avvoltolandosi per terra, si levò le scarpe e le buttò nel caminetto: tirò il cappello sul
viso del sarto, si strappò il fazzoletto bianco dal collo: e spiccato un gran salto, uscì fuori dalla finestra e si dette a correre per i campi” (Lorenzini [1883-85] 1995, pp. 564-65).
Niente boccoli castani, né occhi azzurri stavolta: Pipì scappa da Alfredo non diversamente da come Pinocchio aveva fatto dai suoi burattinai.
Il dilemma risorgimentale di Lorenzini è qui perfettamente rappresentato. L’autodeterminazione di una generazione diventa la schiavitù di quella successiva. La pedagogia ha in questo la colpa principale: il sistema educativo, che deve formare gli uomini di domani, vuole, infatti, come insegnanti uomini di ieri, rendendo impossibile alla
società di progredire con questo tipo di istruzione (Kant 2010a, pp. 227-28). Da qui la
necessità di ricorrere di generazione in generazione alla materia primigenia e lasciare che, dal legno da catasta che può dar vita solo a burattini, emerga un uomo nuovo
che liberamente decida del suo futuro, facendo esperienza del mondo che lo circonda,
quale che sia. La libertà dell’uomo non può essere acquisita per sempre, ma deve essere
conquistata di nuovo, ancora ed ancora, ad ogni nuova generazione, anche a prezzo di
esperienze terribili.
4. Conclusioni
Carlo Lorenzini fu, nella seconda metà dell’Ottocento, giornalista molto apprezzato,
per le sue macchiette, la sua satira politica e le sue critiche letterarie, musicali ed artistiche, spesso polemicamente irriverenti verso l’opinione comune (Maini e Scapecchi,
1981). La sua fama, però, rimane legata ad una favola per bambini, un capolavoro nato,
pare a molti, per caso (Asor Rosa 1995, pp. 890-91). Non a caso. Le Avventure di Pinocchio affrontano con la profondità di un saggio filosofico e la leggerezza di un teatrino di
marionette questioni quali la natura dell’umanità stessa, l’origine della diversità tra un
uomo, un ciuco o un pezzo di legno da catasta od il contenuto del concetto di libertà. Il
lettore, chiamato in causa fin da quel primo “C’era una volta…”, è anche costretto, qualsiasi età abbia, a qualsiasi tempo appartenga, qualsiasi sia la sua cultura, a trovare la sua
risposta. Lorenzini non scrive mai di libertà, di ragione, di società, di morale nel suo
Pinocchio. Come nelle fiabe del Paggi la morale è una aggiunta fuori dal testo, così nelle
Avventure la vera morale, non quella impositiva e limitante della fata o del grillo parlante, non è mai esplicita. Le Avventure diventano in questo modo le avventure di ogni
uomo e realizzano il loro intento educativo, insegnando a cercare la libertà ed a definirla
di nuovo e di nuovo, forgiando ogni volta un nuovo futuro.
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A saper leggere, tuttavia, oltre le risate e le spiritosaggini, oltre lo humor nero e gli sberleffi, tra articoli e racconti traspaiono profonde riflessioni sul significato della libertà umana, sul ruolo della ragione, sul volontarismo opposto al determinismo storico, si chiamano
in causa Kant ed i grandi pedagoghi ottocenteschi, gli storici e gli economisti, Giambattista
Vico ed Adam Smith, si discute di diritto e di morale. Qui si trovano le risposte di Lorenzini alle domande di Pinocchio, risposte che, per essere quelle di un uomo del Risorgimento
che cercava di trasmettere questa carica ideale alle generazioni future, un lumaio che voleva
essere maestro di libertà, raccontano il movimento culturale che ha portato alla formazione
dello Stato italiano, ma anche il lento ed inarrestabile irrigidirsi della struttura sociale dell’Italia post-unitaria, ed il ruolo che una certa pedagogia aveva avuto in questa trasmutazione. Leggere le Avventure insieme a questa loro morale permette di riscoprire criticamente le
origini ideologiche dell’Italia, non tanto e non solo nel periodo risorgimentale, ma in quello
post-unitario, quando il nuovo stato si era dotato di un costrutto istituzionale destinato a
durare per oltre mezzo secolo. Una lettura in grado di svelare con acutezza i pregi ed i difetti
della società che si era inevitabilmente sovrapposta all’ideale di nazione italiana, società che
Lorenzini sperava che i giovani lettori del Pinocchio fossero in grado di riformare e rifondare più libera, grazie ad una pedagogia meno autoritaria e rivolta al futuro.
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