Fama di vita: destino mortale e fama nella Commedia
Leggendo l’Iliade, la sete di gloria e la fama appaiono come il sommo desiderio
dell’uomo nobile, insieme all’onore. L’antichità classica, anche quella latina, riconosce
nella fama l’unica chance data all’uomo mortale di vincere in qualche modo la morte,
attraverso la memoria delle sue gesta. La fama, nata come valore originalmente in un
contesto di società guerriere, in ambito prima greco e poi latino si declina anche
intellettualmente: a sopravvivere non sono solo le gesta dell’eroe guerriero, ma anche
la memoria dei meriti letterari. A sopravvivere, in altre parole, sono le opere, e con
esse il loro autore che ha così modo di sopravvivere anche lui nella riconoscente
memoria dei propri lettori.
La civiltà cristiana adottò un atteggiamento molto diverso nei confronti della
fama. Nella silloge teologiche e nelle compilazioni scolastiche la fama era definita
come qualcosa di instabile e perituro – un attribuito che anche la saggezza classica le
riconosceva – ma che anche qualora, sebbene molto raramente, pressoché
imperitura, come nei casi per esempio di Platone o di Alessandro Magno, resta pur
sempre qualcosa che appartiene al soggetto per accidens. Per capire cosa significa
bisogna riscoprire l’opposizione aristotelica fra attributi sostanziale e accidentali. I
primi sono qualità che realizzano una perfezione propria dell’essenza del soggetto in
questione. Per fare un esempio, risultare comprensibile è un attributo sostanziale della
grafia; l’essere blu o rosso è invece un attributo accidentale di un tratto di pena,
perché il colore non ne inficia la perfezione, che si realizza nella sua comprensibilità.
Ciò significa che per il pensiero cristiano la fama, l’onore sono qualità, conseguendo le
quali l’uomo non realizza la propria essenza. Ma allora come egli può realizzarla e
soprattutto, qual è l’essenza dell’uomo?
A queste domande cercheremo di rispondere con le pagine della Commedia
dantesca. Nel poema dell’Alighieri il campo semantico della fama e del suo opposto è
segnalato da parole come: gloria, glorioso, onoranza, infamia, famoso. Notiamo quindi
che il campo semantico dantesco è in sostanza il medesimo di quello dell’italiano
contemporaneo. Ma ancora più significativo osservare come queste occorrenze siano
più frequenti nella prima cantica e siano meno frequenti, progressivamente, nella
seconda e nella terza; come a significare che fama e onore sono attributi che
competono più alla Terra che al Cielo. Il vocabolo che invece risuona nel Paradiso fin
dall’incipit è gloria.
La gloria di colui che tutto move
per l'universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove
Vorrei evidenziare due aspetti importanti di questi primi versi del primo canto del
Paradiso. Il riferimento alla gerarchia e all’aspetto partecipativo della gloria. Il
movimento della terzina è discendente: si parte con la gloria del Motore immobile, cioè
di Dio, che, come una luce che si irradia, penetra tutte le cose dell’universo. Però, non
tutte le cose, non tutte le persone sono penetrate dalla luce dell’amore divino alla
stessa maniera e con la stessa intensità. Non tutte le cose e non tutti le persone,
quindi, sono gloriosi allo stesso modo, ma esiste una gerarchia della gloria che
dipende da quando si è “vicini” a Dio, ossia alla sua essenza di luce e amore. Di
conseguenza, la gloria è una qualità partecipativa, perché una cosa o un uomo
possono essere gloriosi solo avvicinandosi e assomigliando a Dio, condividendo con
lui un pezzo della gloria di cui Egli è fonte. Si tratta qui dello stesso processo descritto
da Platone con il concetto di metessi: l’uomo buono partecipa all’idea di Bene, si fa
condurre da essa, ma non esaurisce nelle proprie azioni l’idea del Bene, che resta per
questo sempre distinta e trascendente rispetto a ogni cosa che partecipa di essa. Allo
stesso modo, se parliamo degli uomini, essi non posso mai rifulgere della stessa
gloria dell’Altissimo, che rimane quindi inattingibile, come il Sole per la luce, senza per
questo cessare di essere causa finale: cioè che, attirando verso sé, fa sì che anche il
mondo terreno conosca la gloria.
La gloria, in altre parole, è quindi la somiglianza con Dio, che può essere più o
meno intensa. Ed è la gloria, in Dante, ad essere, nel campo semantico e morale di
fama/onore/gloria, la qualità più eccelsa. Perché la gloria è sempre, anche quando
appartiene a un uomo, una scintilla della gloria divina. Onore e fama, quindi, sono tipi
di gloria meno potenti, meno importanti e meno nobili, poiché più legati alla caducità
umana. E proprio per questo sono spesso cause scatenanti del peccato e della
perdizione morale e religiosa delle anime. Si pensi al celeberrimo incontro di Dante
con Farinata deli Uberti nel canto X dell’Inferno.
Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ’l vedrai
Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto.
Rare sono le volte nella Commedia in cui le anime dei dannati si mostrano
sprezzanti, ma qui ci troviamo nel girone degli “epicurei”, cioè di coloro che in vita
hanno riconosciuto l’importanza solo delle cose mondane e caduche, disprezzando
Dio e i suoi insegnamenti. Di conseguenza, nella loro condizione attuale non rifulgono
di alcuna gloria, e difatti l’ambientazione della scena è assai tetra: le anime non
sembrano soffrire particolari pene ma sono stipate in tombe oscure e il loro intelletto si
mostra ottuso così come lo era in vita. Farinata continua perciò a mostrarsi fiero e
superbo, anche di fronte a un vero e proprio miracolo, che avrebbe dovuto almeno
turbarlo. Dante è infatti vivo e sta di fronte a lui all’Inferno: eppure, Farinata è così
superbo che disprezza anche l’inferno, non si meraviglia del miracolo e le cose che
chiede a Dante riguardano tutte le divisioni politiche fiorentine che già in vita avevano
occupato ogni pensiero di Farinata. Tuttavia, la superbia e la tracotanza che in vita
potevano aver garantito fama e onori, nel mondo ultraterreno invece non pagano più,
esse non sono più le regole del gioco della vita. E così Virgilio ordina a Farinata, che
obbligato a obbedirgli, di misurare le sue parole.
La scena, volendo vedere, appare un po’ comica, proprio in virtù dell’alterigia
mostrata da Farinata con il contesto, misero, della sua condizione. Non scorgete
anche voi dell’ironia nelle parole di Dante che attribuisce enfaticamente la postura di
Farinata, impettita e tronfia, alla volontà di mostrarsi sdegnoso financo nei confronti
dell’Inferno? La cosa è comica per due motivi: in primis perché un uomo che è
condannato eternamente a dimorare in lugubri tombe ha poco da mostrarsi tronfio e
orgoglioso. Dove l’ha portato il suo correre dietro a onori politici, a pensare
unicamente alla fama mondana della sua famiglia? L’ha portato a giacere lontano
dalla gloria di Dio, all’oscurità, condividendo una pena eterna con altri disperati come
lui. Ma la scena è comica – e tragica al contempo – anche per un altro motivo.
Farinata prima domanda a Dante chi furono i suoi avi, e la domanda è già comica di
per sé, perché non è di certo la prima domanda che qualcuno di intelligente farebbe di
fronte a un evento miracolo come la presenza di Dante nei gironi infernali.
Successivamente, Farinata afferma, relativamente agli avi guelfi di Dante:
«Fieramente furo avversi 46
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fiate li dispersi».
Nonostante la sua condanna, Farinata non ha capito ancora nulla e continua
imperterrito – e proprio per questo quasi comicamente – quasi a vantarsi del potere
politico che la sua famiglia ebbe a Firenze. Questa cocciutaggine, che dimostra che
Farinata “non abbia imparato nulla” non deve stupire, perché la pena infernale non ha
per la teologia cattolica alcuno scopo riabilitativo, diversamente dalla pena carceraria
nel nostro ordinamento: si è condannati all’Inferno, in altre parole, solo per essere
eternamente puniti.
Subito dopo il colloquio con Farinata, un’altra anima dannata, ma con un
atteggiamento molto diverso, rivolge la propria curiosità a Dante. È Cavalcante
Cavalcanti, padre del grande amico di Dante, Guido, campione della poesia
stilnovistica.
piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco».
E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».
Certo Cavalcante non ha nulla della sciocca e comica alterigia di Farinata. Egli,
anzi, mostra tutta la propria umanità, versando lagrime sincere e commoventi per la
delusione di non scorgere insieme a Dante il proprio figliuolo. Eppure, l’errore, anzi la
colpa di Cavalcante è la medesima di Farinata: in vita ha anteposto altre cose,
caduche e mortali, all’amore per Dio. I versi del Poeta la fanno intendere
magistralmente: Cavalcante mostra infatti di attendersi di vedere Guido insieme a
Dante perché suppone che la concessione di visitare l’inferno possa essere da Dio
concessa solo per altezza d’ingegno, cioè per meriti intellettuali. E il padre sa quanti e
di che qualità sono i meriti del proprio figlio, che in vita fu unanimemente riconosciuto
come il migliore dei poeti stilnovisti fiorentini, godendo di grandissima e meritata fama.
La risposta di Dante, però, ribalta subito la questione. Esclama infatti il poeta: «da me
stesso non vegno»!. Non sono infatti i meriti letterari e intellettuali ad aver condotto
Dante in questo viaggio, ma unicamente la grazia di colui ch’attende là: è Dio quindi, o
forse Beatrice come simbolo della fede e come incarnazione angelica dell’amore
divino, che hanno scelto Dante per il viaggio. Dante, tuttavia, pur con tutti i suoi difetti,
ha capito a un certo punto della sua vita – come lui stesso racconta nella Vita nova –
di aver sbagliato a dedicare le proprie energie e la propria vis poetica all’amore
mondano e, grazie all’aiuto di Beatrice, ha iniziato finalmente a dedicarsi a ciò che
solo conta davvero, cioè la salvezza dell’anima. Guido invece, dice Dante a
Cavalcante, ha avuto a disdegno questa preoccupazione e, insieme a suo padre, ha
snobbato Dio e la salvezza della propria anima: e per questo entrambi sono ora
eternamente dannati. In sintesi, nel canto X dell’Inferno Dante ci insegna che la fama
intellettuale, benché meritata, non è gloria divina, ma solo vanagloria.
Una variante simile di questo stesso concetto la troviamo nel canto XX, sempre
dell’Inferno, dove Dante incontra gli indovini, che per la loro attività di divinazione
hanno ora un corpo mostruosamente deformato, con la testa rivolta all’indietro e con
le lagrime che si riversano sulle loro natiche. Dante, straziato da questa visione, si
mette a piangere, ma Virgilio si mostra inflessibile e lo rimprovera: è giusta l’orrenda
punizione subita da queste anime, perché esse si sono macchiate della folle pretesa
di conoscere la volontà di Dio, impiegando a tal fine arti magiche e fraudolente.
Non attraverso le loro doti intellettuali, ma attraverso arti diaboliche gli indovini
hanno cercato di acquisire fama e gloria disvelando il futuro, la cui conoscenza spetta
solo a Dio. Il loro errore non solo quindi è stato quello di anteporre la gloria mondana
a Dio, ma anche l’hybris di arrogarsi un diritto che invece spetta solo a Dio. L’uomo,
infatti, non è tenuto a conoscere il proprio destino, ma invece, come detto dal
Vangelo, ogni uomo deve vivere come se il giorno del giudizio fosse imminente,
cercando di farsi trovare pronto. A tal fine, solo l’umiltà e l’accettazione dei propri limiti
possono aiutare l’uomo a salvarsi, non la pretesa di conoscere il futuro che ci spetta, il
quale Dio ha voluto celare.
Ma la figura emblematica della Commedia in cui si condensa tutto il pensiero del
Poeta intorno alla fama, al destino, all’hybris e all’opposizione fra onori e virtù
mondane e gloria soprannaturale è certamente l’Ulisse del canto XXVI dell’Inferno. I
seguenti versi sono fra i più celeberrimi del poema dantesco, citatissimi ancora oggi
finanche nei profili Facebook o Instragram di giovani e meno giovani; Ulisse racconta
del suo viaggio oltre le colonne d’Ercole e riferisci alcune parole del suo discorso fatto
ai proprio compagni di viaggio che, dopo mesi di attesa, avevano manifestato la loro
insofferenza e frustrazione:
“Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”
Sono parole grandi, che fanno trasparire tutta la grandezza umana e l’eroicità di
chi le pronunzia. Abbacinati dallo slancio di questo discorso, i critici ottocenteschi hanno
voluto scorgere nell’entusiasmo di Ulisse la celebrazione, da parte di Dante, della sete
di conoscenza di un uomo che, non arrendendosi ai limiti impostagli dalla natura e dalla
tradizione, vuole andare oltre. L’Ulisse dantesco, nell’interpretazione a lungo
maggioritaria, diventava così la metafora del destino dell’umanità, la quale era chiamata
a liberarsi dal giogo della condizione naturale, che la sviliva al livello delle bestie
relegandola in un’immutabile condizione di sofferenza e sudditanza, per ambire a
conoscere tutto il mondo e i suoi segreti.
Però, questa interpretazione eroica del personaggio di Ulisse, come si concilia con
il fatto ch’egli è eternamente dannato? Si potrebbe pensare ch’egli paghi “solo” i
numerosi inganni di cui in vita si rese colpevole – e difatti è inserito nella bolgia dei
consiglieri fradulenti. Avremmo così un Dante che ammira il lato eroico e, diremmo,
superomistico di Ulisse, sebbene non rinunci a punirne i peccati. Tuttavia, leggiamo le
parole che lo stesso Ulisse pronuncia prima del celeberrimo verso :
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelope far lieta
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
Per la sete di conoscenza, Ulisse ha abbandonato la moglie che da poco l’aveva
riabbracciato, il vecchio padre, il figlio: ha abbandonato tutti i proprio affetti ed è
sfuggito a tutte le sue responsabilità di padre. Non è solo l’hybris di andare dove
l’uomo non era destinato a recarsi che condanna Ulisse, o almeno non solo: è, ancora
una volta, la stupidità, analoga a quella di Farinata, di Cavalcante e di Guido, di
scambiare il valore delle cose mondane – persino quelle più nobili, come il desiderio di
conoscere – per oro quando esse non sono che stagno.
Ma allora quel verso potentissimo? Quella virtute e canoscenza che ci sembrava
che Dante volesse, per voce di Ulisse, indicare come il fine proprio dell’umana
esistenza? Anche se sembra assurdo, ma penso davvero che il senso dell’episodio è
che finanche le massime realizzazione della virtute e canoscenza non sono sufficienti
per l’uomo, perché non ne costituiscono l’essenza. E infatti la sete di conoscenza ha
condotto Ulisse e i compagni al naufragio e alla morte. Ulisse, quindi, è la figura che
incarna in sé l’errore di anteporre alla fede e Dio le virtù e gli onori umani – come
Farinata – e l’hybris di non accettare i limiti imposti da Dio all’uomo – come gli
indovini.
Pensiamo a chi accompagnerà Dante in Paradiso? Non a caso sarà Beatrice,
non Virgilio. E certamente secondo il metro del valore e della gloria umane, chi è
Beatrice al cospetto del più grande poeta latino? Eppure… solo Beatrice è degna di
vivere con Dio, perché in vita si è alimentata di Lui, ha avuto sete e fame di vita
eterna… non di onori mortali.
Tommy Colasanto
Bibliografia
Divina commedia, a cura di Emilio Pasquini e Antonio Quaglio, Garzanti, Milano 2021
Divina Commedia, a cura di Natalino Sapegno, (diverse edizioni)
La Commedia, edizione e commento a cura di Giorgio Inglese, Carocci, Roma 2016
Inferno, Purgatorio e Paradiso, edizione e commento di Franco Nembrini, Mondadori,
Milano 2018