Indice
Introduzione
1. ARTE DI STRADA
1.1 La constatazione di un’evidenza
1.2 Street o art
1.3 Arte deprivatizzata
2. FAME
2.1 Saluti e baci da Grottaglie
2.2 La mia non è voglia di qualcosa di buono, è proprio FAME
2.3 Immagina una città
2.4 Fame and the city
3. FAME FESTIVAL ANNO PER ANNO
3.1 Duemilaotto
3.2 Duemilanove
3.3 Duemiladieci
3.4 Duemilaundici
Bibliografia
Sitografia
2
Introduzione
Bologna – Berlino, Berlino – Grottaglie
Probabilmente quello che amo dell’arte che si trova per strada, è che contiene qualcosa di
organico.
Sapevo che sarebbe stata l’unico argomento possibile per la mia tesi, dato lo stato di crisi
in cui mi trovavo rispetto a tutte le altre forme artistiche che avevo studiato fino ad allora.
Con estrema ingenuità e un atteggiamento da fan più che da studiosa, per seguire le
tracce di quest’arte che tanto mi affascinava, sono finita a Berlino, sperando che lì avrei
ricevuto una quantità di stimoli tale per cui scegliere di cosa avrebbe parlato la mia tesi e
scriverla sarebbe stato semplicemente naturale.
Sono andata fino a Berlino perché la immaginavo come una città fatta di terzi paesaggi1, in
cui ogni binario conducesse a una zona, in cui ogni giorno sarebbe stato come Stalker2, in
cui ogni foto sarebbe stata la cartolina di un paesaggio postapocalittico da un possibile
prossimo futuro. Una città costellata di luoghi di transizione tra utilizzo e non utilizzo, di
pause tra le funzioni, di vuoti lasciati dalla storia e dall’economia, abbandonati o fuggiti
dalle pianificazioni urbanistiche, in lista d’attesa per essere riqualificati, per essere
destinati a una funzione, che intanto galleggiano come zattere nelle città pronte ad
ospitare qualsiasi forma di vita, come biotopi autogestiti o non gestiti dove la natura
comincia a riprendersi i propri spazi.
Tutti luoghi dove avrei potuto trovare abbondanza di quegli organismi artistici di cui ero
alla ricerca, stratificati “come incrostazioni geologiche naturali”3, nati da quella creatività
diffusa e anonima che così bene racconta la condizione umana odierna nella nostra civiltà,
il cui proliferare è un’ode alla differenza, alla molteplicità, alla contaminazione, al riciclo,
che ha così tanto di biologico da avere più cose in comune con le erbe infestanti che
crescono lungo i percorsi dei tram che sembrano dire anche loro reclaim the streets, che
con le asettiche high street e con i templi dell’arte contemporanea.
Io cercavo l’arte che cresce nelle zone che sembrano sporche, disordinate, degradate, che
al buio fanno paura, quelle che ci fanno immaginare come potrebbero essere le nostre
esistenze e i nostri viaggi nelle città se non ci fossero guide turistiche e riviste di lifestyle a
1
G. CLÉMENT, Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005
Film di Andrei Tarkovsky del 1979
3
F. ALINOVI, Arte di frontiera. New York graffiti, Mazzotta, Milano 1984
2
3
farci da libretto di istruzioni. Avevo sentito degli street artist dire che “siamo tutti figli del
modo in cui la città si è sviluppata. Seguiamo tutti i giorni gli stessi tragitti, per andare da
un punto A ad un punto B restiamo per forza all’interno di quella rete di strade che la città
impone. Così fare graffiti è il nostro modo di rompere la routine, contribuire attivamente al
cambiamento della città”4, ed io ero alla ricerca di quei percorsi diversi tracciati da loro.
E sono stata esaudita. A Berlino ne ho trovati molti. Ma ho anche appreso che è una città
che si prepara ad essere riqualificata, bonificata. Ha iniziato un processo inesorabile di
progettazione e organizzazione di spazi appositi e a misura di turista ed è destinata quindi
in breve a morire. Quando una città è estremamente viva, chi si occupa di fare della vita
un business, ha il compito di rendere ogni cosa vendibile in forma di merce o spazio
pubblicitario al fine di trasformare l’esistente e tutte le sue pulsioni vitali in profitto. Inizia
così la costruzione di riserve in cui l’abitante o il visitatore, possa osservare la flora e la
fauna urbane con la comodità di poter inserire comodamente questa attività nel proprio
planning turistico giornaliero e di poter usufruire di targhette esplicative bilingue. Ma nelle
riserve, come scrive Clément, la vita muore, e così le città passano di moda. Una volta
terminata la bonifica e acquistato numerosi monumenti dai postalmarket dell’architettura e
dell’arte contemporanee, ci si accorge che Londra non è più cool, che è diventata più cool
Barcellona, poi Berlino e che poi ci sarà bisogno di nuova vita da succhiare e sarà
Belgrado o Bucarest e così via in un circolo che durerà fino alla fine dei soldi, che sono il
nuovo tempo, dato che il tempo è denaro.
A Berlino ho realizzato fino in fondo, in notevole ritardo, che all’arte che amavo e che
cercavo, stava accadendo da tempo, la stessa cosa.
Nonostante tutto, quando sono arrivata, Berlino era ancora viva, e così la sua arte urbana.
Percorrere l’intero perimetro della città con il treno che ad ogni ora ne compiva un giro
completo, mi dava enormi soddisfazioni. Il paesaggio era davvero eterogeneo, distese di
erba immense, all’occorrenza innevate, tratti di una vegetazione che possono far pensare
alla steppa anche una persona che non ha mai visto la steppa, chilometri e chilometri di
binari srotolati sotto i ponti, enormi edifici industriali di fine ottocento abbandonati e semi
decomposti, cataste di roulottes abitate, edifici prefabbricati contenenti discount,
immancabili insegne luminose di multinazionali che come troppe stelle polari ci assicurano
sempre di non esserci persi e, soprattutto, ovunque o quasi, una presenza di esemplari di
opere d’arte urbana tale da soddisfare la fame che ne avevo e anche quella dei molti altri
miei simili. Ne ho trovati di ogni tipo e in ogni dove, su insegne che spuntavano in mezzo
4
P. BUFFA, Gêmeos graffiti, «D di Repubblica», 2010, 6 marzo
4
alle acque del fiume, nelle case disabitate e nei cortili interni di un quartiere turco non
(ancora) cool, dove sagome di bambini ritagliate nella carta giocavano a nascondino. Ce
n’erano di selvatiche, da cercare di nascosto e da trovare con fatica e intima
soddisfazione, altre allo stato brado o che vivevano negli spazi sociali, oppure quelle di
allevamento, disponibili al caldo di ex piscine comunali riciclate come spazi espositivi o
nelle miriadi di minuscole gallerie dalla vita di farfalla… mi interessava tutto. Volevo vedere
tutto e volevo documentare tutto, ero certa che quell’abbondanza mi avrebbe ispirato e
che nutrendomi quotidianamente per giorni e giorni di quel cibo avrei trovato l’argomento
perfetto per la mia tesi, in cui avrei saputo spiegare perché quella forma d’arte sola mi
faceva ancora brillare gli occhi.
Ma io sono cresciuta in provincia, nella provincia della provincia Italia, e alla fine mi sono
venute le vertigini, mi girava la testa, avevo la sensazione di non riuscire più a catturare
niente, di non poter capire, figuriamoci di spiegare. Quando uscivo ormai lasciavo a casa
la mia macchina fotografica, insieme a tutti gli strumenti di analisi che avevo accumulato in
anni di studio. Mi sembrava tutto inutile, tutto mi sfuggiva.
Pensavo che ero stata folle e non volevo finire come quelli che impazziscono nel tentativo
di catalogare tutto l’esistente, e così ho cominciato a cercare nei libri. Isolata dal gelo
dell’inverno berlinese dalle pareti di vetro della biblioteca, consultavo ogni volume parlasse
di graffiti o di arte urbana, pubblica o di strada. E un giorno, rinchiusa in quella serra, in un
librone in tedesco5 ho trovato qualcosa che mi ha colpito: un festival di Street Art che
aveva luogo in una cittadina pugliese, proprio a pochi chilometri da quella dove avevo
vissuto la penultima parte della mia vita, dove tuttora vive parte della mia famiglia.
Ero venuta a conoscenza precedentemente dell’esistenza di questa realtà attraverso il
passaparola, ma non avevo un’idea molto chiara di cosa fosse, non ci ero mai stata e
forse non sapevo nemmeno che si chiamasse Fame Festival.
Sarà stato anche l’effetto della distanza, ma da quel momento il pensiero che esistesse
una città piena delle opere degli stessi artisti che ero venuta fino a Berlino per cercare, e di
averla avuta praticamente dietro casa senza averla mai visitata, ha cominciato ad
assillarmi.
Poi il mio lungo soggiorno berlinese si è concluso, sono ritornata nella mia amata città di
adozione, Bologna, più confusa di quando l’avevo lasciata. Ho riorganizzato la mia vita e
5
P. NGUYEN, S. MACKENZIE, Beyond the streets. The 100 leading figures in urban art, Gestalten, Berlin
2010
5
senza che me ne rendessi conto, e soprattutto senza che avessi deciso ancora niente
sulla mia tesi, è arrivata l’estate.
Come ogni estate sono emigrata in Puglia per le vacanze, e non appena ne ho avuto la
possibilità ho organizzato una gita a Grottaglie.
La mia fortuna è stata che tramite una serie di coincidenze telematiche, io e il mio
inseparabile compagno di viaggi, ci siamo ritrovati ad avere come guida due fantastici
fratelli grottagliesi che non avevamo mai visto prima e che sembravano usciti da un film,
per la precisione Arizona Junior.
Grazie a loro ho visto opere che probabilmente non avrei mai trovato da sola e ho potuto
avere una visione un po’ meno turistica e più ravvicinata della città e del festival,
accedendo ad aneddoti e informazioni che solo dei grottagliesi avrebbero potuto darmi.
La realtà del festival mi ha incuriosito subito moltissimo. La trovavo del tutto particolare,
per il luogo in cui si trovava e per il relativo isolamento mediatico che la circondava a
livello locale. Volevo saperne di più e stavo iniziando a pensare che sarebbe stato un
argomento di cui mi sarebbe piaciuto parlare nella mia tesi.
Alla fine della giornata, dopo aver cercato di vedere tutto il vedibile, mentre
attraversavamo la piazza centrale di Grottaglie alla luce del tramonto, diretti al bar sotto il
duomo, ritrovo fondamentale per ogni giovane alcolizzato del posto, e mentre io assillavo
le nostre guide con infinite e insaziabili domande sul festival e sulla sua organizzazione, si
materializza davanti a noi un individuo il cui nome era ricorso più volte nel corso della
giornata: Angelino. Era lui, l’organizzatore e ideatore del Fame.
I fratelli me lo presentano e quando ci separiamo, senza che nemmeno io abbia ben
realizzato come, abbiamo preso accordi per la mia tesi.
È iniziato quindi il mio percorso di documentazione.
Ho iniziato dalle basi teoriche generali che permettono la lettura del contesto culturale
complessivo, quel brandello dell’epoca postmoderna all’interno della quale nascono le
forme d’arte a cui il festival dà spazio. In questo quadro ho inserito la descrizione dell’arte
urbana stessa e delle sue specificità, accennando all’evoluzione che ha potato al
passaggio dal Writing alla Street Art. L’intento era quello costruire attorno a quello che è
un fenomeno stilistico una rete essenziale di riferimenti agli altri ambiti culturali con i quali
esso interagisce e ha interagito, che sono stati fondamentali per il suo sviluppo e che lo
sono altrettanto per la sua lettura.
Ho cercato poi di concentrarmi sul dibattito critico-teorico che nasce dal particolare
momento in cui si trova attualmente la parabola evolutiva dell’arte urbana. Basandomi su
6
alcuni saggi di critici italiani che analizzano proprio il processo di istituzionalizzazione che
la sta riguardando, ho indagato sulle mutazioni della natura poetica del fenomeno che tale
processo possono dipendere.
Il Fame Festival è un esempio di realtà ibrida, che cerca di fare arte pubblica mantenendo
vivo il contatto con la dimensione e le modalità operative underground che sono all’origine
dell’arte di strada. Per questo ho cercato di accennare alle caratteristiche dell’arte pubblica
da un lato e dell’arte abusiva dall’altro, in modo da evidenziarne affinità e divergenze,
delineando quella zona intermedia in cui l’evento va a collocarsi.
Per quanto riguarda la parte sul festival, le fonti derivano da un costante contatto virtuale
con l’organizzatore stesso, che oltre a rispondere ad ogni mia domanda e seguire il mio
lavoro a distanza, mi ha fornito indicazioni su come e dove reperire più o meno tutto ciò
che fosse mai stato scritto sul Fame. Si tratta prevalentemente di interviste ed articoli
giornalistici, italiani ed esteri. Attualmente non esiste alcuna pubblicazione monografica
sull’argomento quindi molto del materiale che ho utilizzato è di prima mano, e in parte si
tratta della semplice descrizione di quello che ho osservato e sentito durante le mie visite
a Grottaglie.
A partire da queste basi e analizzando in modo maniacale il sito dell’evento, ho cercato di
mettere insieme il maggior numero possibile di informazioni, al fine di costruirne un profilo
soddisfacente, che vada dalla sua storia alla sua organizzazione, al suo rapporto con la
città, fino all’analisi di ciascuna delle quattro edizioni attraverso gli artisti che vi hanno
partecipato e i progetti da loro realizzati. Ho voluto aggiungere una descrizione della realtà
socio-economica locale per darne l’idea a chi non l’abbia mai vissuta, dal momento che a
mio avviso contribuisce a creare quelle condizioni che rendono il Fame singolare rispetto
ad eventi analoghi.
Il Fame Festival infatti rappresenta un caso di curatela non convenzionale, per certi aspetti
sperimentale. Uno dei tentativi di creare eventi organizzati di Street Art senza distorcerne
completamente la natura.
Privo di sovvenzionamenti, commissioni e autorizzazioni, il Fame Festival riesce a
conservare quella parte abusiva connaturata a quest’arte, facendo delle debolezze
organizzative del territorio in cui nasce, il suo punto di forza.
7
1.
ARTE DI STRADA
1.1 La constatazione di un’evidenza
1. “when you start to notice postcards with your murals around the city I guess it is time to stop painting.” Blu
su blublu.org, 2011, 8 giugno
Le pratiche artistiche e i linguaggi visivi riconducibili alla definizione di street o urban art,
nati negli habitat dei paesaggi urbani postmoderni, possono considerarsi a tutti gli effetti
parte delle abitudini visive collettive contemporanee. Per questo tipo di fenomeni, il
percorso di riconoscimento da parte della cultura popolare e di successiva integrazione in
essa, può ritenersi compiuto. È ancora presto però per una completa storicizzazione, ci
troviamo in un momento estremamente vivo e prolifico di quantificazione, di diffusione
esponenziale di tutte le declinazioni e combinazioni dell’arte urbana possibili e
immaginabili, che come piante infestanti si moltiplicano in ogni tipo di spazio pubblico
esistente, disponibile e non disponibile, rubando linguaggi e forme dal repertorio
iconografico di ogni ambito dell’umano scibile e sfruttando i più diversi materiali e metodi,
8
in un vivacissimo e caleidoscopico copia-incolla culturale e visivo capace di dare le
vertigini.
Una miriade di queste icone postmoderne sembra riprodursi nottetempo sulla superficie
dell’epidermide urbana, contaminando qualsiasi elemento architettonico e complemento di
arredo urbano abitante la città contemporanea. Su muri, cassonetti, cabine telefoniche,
pali della luce, sarcofagi grigi di centraline elettriche, si compone un mosaico in continua
evoluzione tra decomposizione e rigenerazione, fatto di disegni, scritte, fotocopie, collage,
graffiti, poesie, ideogrammi, messaggi in codice, racconti epici, microscopiche sculture e
ciclopiche pitture murali che vive e prolifera nei villaggi globali, e se non ci raggiunge in
quelli reali ci raggiunge in quelli virtuali. Internet rappresenta infatti il principale strumento e
supporto di archiviazione, documentazione, mappatura e fruizione di queste opere. La
popolarizzazione di questo medium ha costituito un elemento complice fondamentale per
lo sviluppo e la diffusione di questo fenomeno artistico e culturale, le cui evoluzioni sono
intimamente pervase dell’influenza poetica e metodologica di questa tecnologia. Una delle
conseguenze di questa stretta relazione ha implicato il superamento di “alcune delle
regole fondanti la cultura del Writing e del Graffitismo”6, primigenia forma di arte visiva
urbana dell’epoca contemporanea, “contribuendo fortemente a determinare il passaggio
dal cosiddetto Graffitismo alla cosiddetta Street Art.”7
Nella conformazione attuale della Street Art si possono osservare una serie di affinità con
i sistemi di diffusione e creazione di cultura propri della rete, poiché essa rappresenta una
realtà di riferimento e una fonte di ispirazione con la quale dialogare e condividere metodi
e tematiche in una sorta di atipico tecnomorfismo8 strutturale più che propriamente
formale. L’intero universo delle arti urbane si riflette nella rete, generando un proprio
doppio virtuale che vive in simbiosi con quello reale.
Da qualsiasi angolo connesso del mondo abbiamo la possibilità di sapere che Londra,
Berlino, Bologna, Buenos Aires, metropoli e città di medie-piccole dimensioni, manifestano
quelli che sembrerebbero i sintomi di un’infezione di proporzioni globali che colpisce gli
insediamenti urbani. Si tratta in realtà di anticorpi nati in seno alla cultura della
globalizzazione come reazione alle malattie che essa porta con sé. Il prodotto di “una
L. GIUSTI, Dall’insurrezione mediante i segni alla battaglia del meme, in F. NALDI (a cura di), Do the right
wall, Mambo, Bologna 2010
7
Ivi
8
Il tecnomorfismo è la capacità delle arti visive di dare forma ai procedimenti tecnologici del periodo storico
di appartenenza. Si veda La nozione di tecnomorfismo, in R. BARILLI, Scienza della cultura e
fenomenologia degli stili, Bononia University Press, Bologna 2007
6
9
generazione
cresciuta
all’ombra
di
enormi
cartelloni
pubblicitari
che
reagisce
personalizzando il proprio spazio con un moto di riappropriazione” 9. Dall’Europa al
Sudamerica, l’esercito delle arti urbane e dei suoi artefici muove velocemente dalle
periferie delle città verso i centri accerchiando sempre più da vicino le moderne acropoli
dello shopping e dell’architettura in franchising nel tentativo di proteggere e tenere in vita
le forme di cultura provenienti dal basso e difendere con questo agire “anarchico e
indipendente” che il filosofo Baudrillard riconosceva nei primi writer “la possibilità di
penetrare i codici del capitalismo partendo dalle periferie”10.
La dinamica è però molto più complessa. Il sistema dell’economia capitalista globalizzata
che presiede alla di produzione di cultura in serie destinata alla masse, è un organismo
grande, forte e soprattutto diabolicamente intelligente. È programmato a reagire ad ogni
tipo di attacco esterno e interno, distruggendo ogni forma di vita che possa minacciarne
l’esistenza, la salute o il funzionamento, oppure, quando la distruzione risulta impossibile o
poco conveniente, inglobandola e/o riproducendola in una forma innocua, come un
vaccino da somministrare ai consumatori. Questo meccanismo, unito al naturale processo
di normalizzazione che riguarda ogni innovazione culturale, ha fatto sì che l’arte nata per
le strade delle città mutasse le sue forme e manifestazioni, non solo assecondando i propri
istinti di sopravvivenza e adattamento agli ambienti e alle specie circostanti, ma anche in
relazione ai rapporti che sono venuti via via a crearsi, evolversi e intensificarsi con aspetti
della produzione artistica e culturale di sistema e legate al suo potenziale economico: da
una parte il circuito istituzionale dell’arte, la critica, le commissioni pubbliche e le gallerie,
dall’altra la moda, l’abbigliamento, la grafica e la pubblicità, il marketing allo stato puro.
Il confronto della Street Art, un movimento artistico come che affonda le sue radici nella
cultura underground, con la realtà mainstream, ha originato diverse reazioni e, di
conseguenza, differenti poetiche e modi di fare arte. Si va dal radicale rifiuto e dall’ostinata
resistenza rispetto al sistema arte dei più puristi, al compromesso cosciente di artisti che
intrattengono occasionali e sofferti rapporti con le istituzioni al fine di finanziare le proprie
attività indipendenti e spesso illegali, è il caso di Blu, che nonostante il sempre crescente
riconoscimento internazionale cerca di non asservirsi a nulla se non alla sua idea di arte.
Altri sembrano vivere con disillusione questi rapporti conflittuali, ricchi di contraddizioni e
interrogativi, alcuni con una tale consapevolezza e ironia da renderli oggetto di geniali e
ciniche operazioni concettuali, facendone una tematica autoriflessiva della propria arte,
9
A. MININNO, Graffiti Writing, Mondadori arte, Milano 2008. p. 216
L. GIUSTI, op. cit.
10
10
come il più celebre anonimo inglese dei nostri tempi, Banksy. Si arriva infine a casi di
collaborazionismo spinto, come quello di Shephard Farey aka Obey, pioniere della
moderna Street Art americana dall’anima di pubblicitario, pronto a operare sul doppio
fronte dell’arte di strada e del marketing, marchiando con le sue icone post pop
indifferentemente muri illegali, t-shirt
per teenager o la propaganda elettorale per un
candidato alle presidenziali americane.
Questi diversi modi di intendere il rapporto con la cultura e l’economia dominante
testimoniano come dai primordi ad oggi, non solo stilisticamente ma anche a livello di
autoconsapevolezza, l’arte di strada abbia percorso – imbrattandola – molta strada. Allo
stesso tempo gli attori delle istituzioni artistiche, dell’universo del marketing e di quello
dell’urbanistica, hanno dovuto prendere atto dell’esistenza di un consistente fenomeno
culturale, stilistico e urbano al quale rivolgere le proprie attenzioni.
In principio fu il riconoscimento come forma di espressione artistica dei graffiti, che sul
finire degli anni Sessanta avevano iniziato a germogliare in forma selvatica e istintiva sui
muri dei ghetti e sui vagoni delle metropolitane delle metropoli statunitensi. Seguì quasi
subito l'interesse delle prime gallerie e dei primi mercanti d’arte. Inizia così il processo che
porterà il graffitismo insieme al resto della cultura hip hop, cui era profondamente legato, a
compiere il suo destino. Destino comune di ogni forma di cultura, controcultura o
sottocultura nata spontaneamente: essere accettata, riconosciuta, e divenire, infine, moda.
È nella seconda metà degli anni Settanta che il Writing vede i suoi primi riconoscimenti nel
circuito artistico ufficiale, per raggiungere l’apice del successo nel corso del decennio
successivo, durante il quale dialogo e la contaminazione con la cultura di massa e le
istituzioni è sempre più fitto. Negli anni Ottanta il Graffitismo era ormai emerso dal
sottosuolo delle gallerie della metropolitana, dall’underground metaforico come da quello
concreto, per raggiungere la superficie e la luce, diventando tendenza, quasi seguendo
parallelamente il processo di riqualificazione e gentrificazione che contemporaneamente
stavano compiendo sul piano urbanistico i quartieri degradati di New York in cui era nato.
Negli anni a venire, il percorso di riconoscimento e successiva inclusione, ha riguardato
ogni significativa evoluzione delle arti urbane successiva al Graffiti Writing, arrivando a
comprendere la Street Art in tutta l’ampiezza che tale definizione ha nel frattempo
acquisito.
Allo stato attuale l’esistenza di un rapporto tra le arti urbane, il mondo istituzionale dell’arte
e il sistema di produzione culturale massificata è una realtà oggettiva, ma non si è ancora
consolidata in uno standard, nonostante il fatto che in questo momento di esplosiva
11
quantificazione e diffusione naturale e artificiale della Street Art, l’interesse da parte del
mercato e dell’arte ufficiale sembra aver raggiunto un picco paragonabile a quello che
riguardò la sua forma precedente, il Graffitismo americano, all’apice della sua diffusione.
Ovunque oggi fioriscono eventi, pubblicazioni, esposizioni e festival di e sulla Street Art,
Urban Art, Activism Art e via dicendo. Per galleristi, critici e curatori è ormai quasi
inevitabile occuparsene. In un’intervista Lorenzo Giusti, uno tra i primi critici ad essersi
interessato all’argomento in Italia, parla della nascita del suo interesse per la Street Art
come della “constatazione di un’evidenza; la presa di coscienza di un fenomeno globale e
significativo”, aggiungendo inoltre: “molte delle cose che vedevo per strada (…) mi
sembravano di gran lunga più efficaci e comunicative delle opere che ero solito
frequentare nelle gallerie e nei musei.”11 L’efficacia che Giusti riconosce a queste forme
artistiche e che in alcuni momenti pare mancare all’arte da galleria è dovuta però in buona
parte proprio al contesto e alle modalità di concepimento originarie.
Nel corso del tempo gli esponenti del mondo istituzionale dell’arte, si sono avvicinati al
fenomeno in diversi modi, con differenti approcci e risultati, a seconda della sensibilità e
del rispetto nei confronti della sua particolare natura di realtà nata spontaneamente e al di
fuori dei loro circuiti. La problematica centrale con la quale si trovano a confrontarsi è
come riuscire ad importare o ad avvicinare quest’arte al loro mondo riuscendo a
conservare e a restituire il più possibile della sua anima, cosa estremamente delicata dato
che gran parte della sua identità risiede in modalità operative quantomeno difficili da
riprodurre in circostanze artificiali. È un problema complesso, a cui differenti realtà stanno
cercando di rispondere in pratica con la creazione di eventi e iniziative, sperimentando
diverse combinazioni e ipotesi su quali possano essere gli spazi, i contesti e le strategie
espositive più adatte per snaturare meno possibile questa forma d’arte quando si tenta di
inserirla in realtà organizzate. Con la consapevolezza che questa mediazione comporta
inevitabilmente delle alterazioni, si può tentare di limitarle cercando un livello di
compromesso equilibrato, cercando una via d’uscita diversa da quella attraverso il negozio
dei souvenir12.
11
Street art 3.0, intervista a Lorenzo Giusti a cura di Giovanna Tonelli per «Undo»
gioco di parole riferito al titolo del film di Banksy Exit through the gift shop che affronta anche il tema
dell’istituzionalizzazione spinta della Street Art
12
12
1.2 Street o art?
2. Street Art, Escif, Valencia
In un semplice ma efficace tentativo di dare una definizione del termine Street Art Kai
Jacob, che si occupa della documentazione fotografica del fenomeno, scrive: “ Street Art
si riferisce a forme di espressione artistica che si trovano nello spazio pubblico, quindi
apertamente accessibili a chiunque”13. Questa caratteristica accomuna tutte le pratiche di
arte urbana, dai Graffiti newyorkesi degli inizi, al Writing in tutte le sue evoluzioni, fino ai
ratti di Banksy e ai mosaici di Invader dei giorni nostri. Infatti nonostante le sostanziali
differenze, stilistiche e poetiche, che distinguono le varie declinazioni l’una dall’altra, tutte,
nelle loro forme originarie producono opere che si eseguono e si fruiscono in strada,
concepite senza tener conto di concetti come autorizzazioni, commissioni e compensi.
Nell’anonimato e completamente al di fuori dei meccanismi di produzione di arte e cultura
istituzionali e ufficiali, in molti casi in opposizione a questi. Non solo laddove il contenuto
di un’opera sia di esplicita critica ma anche quando semplicemente, questa viene eseguita
senza autorizzazione.
Kai Jacob scrive che la Street Art “non può esistere senza il contesto urbano”14. Un altro
fotografo tedesco, Jurgen Groβe, che segue e si dedica a quella che lui chiama Urban Art
13
14
K. JAKOB, Street art in berlin version 4.0, Jaron Verlag GmbH, Berlin 2011, p. 9
Ivi, p. 11
13
con un approccio molto ravvicinato, quasi dall’interno, parla di “un’appassionata relazione
con l’ambiente urbano, inseparabile dalla propria vita quotidiana” 15 che accomuna tutti
coloro che la praticano, ma anche coloro che, come lui, la documentano.
Il legame tra opera e contesto nell’ambito artistico qui analizzato, è più che mai stretto,
tanto che per definirle basta accostare il termine strada a quello generico di arte,
confermando il fatto che e i due termini in gioco hanno pari importanza. Il rapporto con lo
spazio pubblico della città vissuta e vivente, è più che mai vitale e imprescindibile per le
particolari forme artistiche che nascono suo interno.
Modificando questo rapporto tra l’opera e il proprio contesto per definizione, la strada, si
modifica l’opera stessa, il suo significato e la sua poetica, correndo il rischio di svuotarla
completamente. Farlo sistematicamente, creando riserve e spazi appositi destinati all’arte
urbana, potrebbe determinarne la morte. Solo una condizione di aperta accessibilità le
permette infatti di interagire materialmente e in modo immediato con il vissuto quotidiano
degli abitanti delle città, interrompendo il dialogo chiuso e autistico tra pochi eletti e addetti
che caratterizza l’arte contemporanea di serra, le quali dinamiche sono all’origine di alcune
delle carenze comunicative da cui spesso sembra essere affetta, e rendono molti street
artist
critici e ostili verso il suo sistema, spingendoli a restarne fuori o a sviluppare
sentimenti sovversivi verso l’alta finanza dell’arte e le sue logiche elitarie e
antidemocratiche, come dimostra Banksy quando dice: “L’arte che ammiriamo è il prodotto
di una casta. Un manipolo di pochi che creano, promuovono, acquistano, espongono e
decretano il successo dell’Arte. (…) Quando si visita una galleria d’arte si è solo dei turisti
che osservano la vetrinetta dei trofei di qualche milionario”16.
L’arte contemporanea di allevamento manifesta di per sé i sintomi piuttosto evidenti di
problemi di autoreferenzialità e debolezza comunicativa, ma l’introduzione di un termine
apposito come arte pubblica, rimarca quanto poco pubblica riesca ad essere l’arte in
generale oggi.
Il linguaggio dell’arte urbana allo stato brado, invece, è stato finora contraddistinto da una
grande vitalità e da un forte potenziale di comunicativo, oltre che da una sorprendente
capacità di rigenerarsi continuamente in nuove forme di se stesso. Questo è in parte
dovuto alla capacità di adattamento, sopravvivenza e trasformazione che ha sviluppato
grazie all’esposizione a intemperie e influenze, al continuo contatto e alla conseguente
contaminazione con tutti gli altri linguaggi con cui convive nel contesto comunicativo del
15
16
J. GROßE, Urban art photography, vol. I, Berlin, Urban art info, Berlin 2008
BANKSY, Wall and piece, L’ippocampo, Milano 2011
14
paesaggio urbano. Linguaggi che deruba, ai quale talvolta si oppone e con i quali
condivide e si contende gli stessi fruitori: le masse che attraversano quotidianamente i
centri urbani, molto più numerosi e meno selezionati di quelli di qualunque manifestazione
d’arte contemporanea ufficiale, anche la più rinomata.
Ogni esemplare di Street Art allo stato naturale, si inserisce nel flusso della comunicazione
massmediatica che avviene nello spazio urbano. Nell’epoca contemporanea, come ha
scritto Baudrillard, la città è lo spazio del codice in cui “la reclusione nella forma/segno è
ovunque. È il ghetto della televisione, della pubblicità, il ghetto dei consumatori/consumati,
(…) dei circolanti/circolati della metropolitana, dei sollazzatori/sollazzati del tempo
libero”17. Questo è lo spazio dove la Street Art nasce, si inserisce e vive. È a quei circolanti
circolati che si rivolge, è con quei consumatori consumati che hanno sostituito gli abitanti
che cerca di costruire un dialogo.
Come scrive Stefano Questioli in uno dei suoi articoli dedicati a questo fenomeno artistico,
“si tratta di un’arte fatta per strada, multimediale, perché figlia di una creatività diffusa,
trasversale ed impersonale, poiché confusa nei nostri attraversamenti quotidiani,
pluricentrica in quanto annodata nella rete del collegamento globale”18.
Alcune opere di Street Art fanno parlare spazi che prima potevano sembrare muti, altre
interferiscono con messaggi preesistenti invitando a riflettere su questi e offrendo la
possibilità di metterli in discussione, sottolineandone la presenza pervasiva e anche in
questo caso, offrendo la possibilità di metterla in discussione.
l lavoro di molti artisti urbani, dagli anni Novanta ad oggi, si è basato proprio sul
détournement di linguaggi e codici già presenti nelle città contemporanee, con particolare
attenzione per quelli di tipo pubblicitario, raggiungendo l’apice della capacità corrosiva e
critica nelle poetiche artistiche urbane dell’inizio del millennio, ovvero il momento in cui
iniziano ad essere denominate con la corrente etichetta di Street Art.
Quella che oggi viene chiamata Street Art, è infatti un’evoluzione del Graffitismo che della
sua forma originaria conserva quasi solo gli spazi e alcune modalità operative, “lo stesso
approccio vandalico, illegale e critico”19.
Il processo evolutivo che ha riguardato le arti visive urbane dagli anni Settanta fino ad ora
viene affrontato in alcuni saggi critici contenuti nel volume Do the right wall20.
17
J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2002
S. QUESTIOLI, Arte abusiva o dell’abusivismo delle definizioni, «Exibart.com», 2004, 28 maggio
19
F. NALDI, The rats in the streets come at night, in F. NALDI, (a cura di), Do the right wall, Mambo,
Bologna 2010
20
F. NALDI, (a cura di), Do the right wall, op. cit.
18
15
I due saggi di Fabiola Naldi21, ne seguono i cambiamenti dal punto di vista formale,
spiegando come il Lettering, l’elaborata ricerca sulla lettera su cui si basano gli stili del
Writing, si differenzi dalle pratiche che più di recente hanno introdotto elementi
iconografici, figurativi ed infine narrativi nell’arte di strada, e come a queste differenze
stilistiche di superficie, corrispondano sostanziali differenze poetiche riscontrabili sul piano
dei contenuti, delle istanze e degli intenti comunicativi, oltre che su quello pratico delle
modalità operative ed esecutive e dei mezzi impiegati. Il Writing, profondamente legato
alla cultura hip hop, contrappone ad una sofisticazione stilistica e tecnica evolutissima,
una semplicità contenutistica quasi atavica, primordiale, incentrata sull’affermazione di
concetti come esistenza, identità e appartenenza. Concetti che è facile smarrire in un
ambiente iperculturalizzato, ipercodificato e allo stesso tempo anonimo come la metropoli
postmoderna, che diventano centrali in questa particolare sottocultura, che proprio in
quelle distese di asfalto e cemento nasce, ma le cui radici affondano in un humus
extraoccidentale, misto, che guarda alle storie di altre terre, la cui memoria scorre nel
sangue di coloro che sono emigrati, anche dopo generazioni.
Spesso sono i propri nomi, nomi nuovi, da iniziati, o quelli delle proprie crew, versione
suburbana di forme di collettività tribali, che questi artisti scrivono utilizzando i loro
decorativi e occulti alfabeti grafici, nella completa assenza di intenti rappresentativi,
perfettamente riassunta dalla definizione panzerismo iconoclasta, coniata dal writer
newyorkese Rammelzee.
Gli interventi operati dagli street artist di ultima generazione invece, spesso hanno come
contenuto articolate tematiche di “denuncia politica, economica e sociale.” 22
Degli aspetti metodologici e di contenuto si occupa Lorenzo Giusti nel saggio
Dall’insurrezione mediante i segni alla battaglia del meme 23 che spiega come l’interferenza
nel flusso dei codici comunicativi della città che questa forma d’arte ha sempre
rappresentato, si sia manifestata nel corso del tempo con differenti caratteristiche,
evolvendosi da quella che Baudrillard definì “insurrezione mediante i segni” 24 a quella che
Giusti chiama battaglia del meme, usando i termini di Kalle Lasn, fondatore della rivista di
controinformazione Adbusters.
21
F. NALDI, The rats in the streets come at night e La mia strada continua e vive oggi più di prima. Il Writing
a Bologna dalla fine degli anni Settanta ad oggi, in Do the right wall, op. cit.
22
F. NALDI, The rats in the streets come at night, op. cit.
23
L. GIUSTI, Dall’insurrezione mediante i segni alla battaglia del meme, in F. NALDI, (a cura di), Do the right
wall, op. cit.
24
J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2002, I ed. 1979
16
L’offensiva messa in atto “a partire dalla primavera del ‘72” 25 a New York da eserciti di
giovani, spesso figli di cosiddette minoranze etniche, armati di pennarelli e,
successivamente, di bombolette spray, a cui assiste Baudrillard, inseriva nel sistema
codificato della comunicazione urbana un’interferenza che attacca i segni usando la sua
stessa forma, lo stesso “modo di produzione e diffusione” 26 ma interrompendo il flusso dei
significati. Il filosofo e sociologo francese del postmodernismo sostiene infatti che la forza
dei Graffiti sta proprio in questo vuoto di significazione, nel loro presentandosi come “un
segno indipendente, autosufficiente e privo di significato altro che sé stesso” 27 che
costituisce “una negazione della cultura occidentale di massa”28.
Dopo aver attraversato la contaminazione degli anni Ottanta con la cultura dominante e
l’arte istituzionale, queste pratiche artistiche si presentano allo schiudersi del decennio
successivo profondamente trasformate. Contemporaneamente in quegli anni “fenomeni
come il punk, le radio abusive, le riviste di controinformazione attraverso una serie di
contaminazioni con i linguaggi delle arti abusive derivate dall’esperienza graffitista,
avrebbero contribuito alla formazione di un’idea di arte di opposizione”29. Questa nuova
consapevolezza confluisce negli strumenti che la controcultura degli anni Novanta
sviluppa per esprimere la propria avversità al sistema dell’economia globalizzata, che
vedono nella figura di Kalle Lasn uno dei principali punti di riferimento. Lasn è stato uno
dei principale teorici delle strategie volte al sabotaggio comunicativo impiegate nell’ambito
no global, praticandole in prima persona alla direzione di Adbusters, rivista cardine del
movimento. Tali strategie consistono ancora una volta nell’introdurre un’interferenza nel
sistema, ma col valore aggiunto di un messaggio sovversivo. La teoria della culture jam,
interferenza culturale, consiste nell’introdurre errori nel sistema massmediatico al fine di
sabotarlo combattendo una guerra del meme che non è diversa dalla guerriglia
semiologica che anticipa McLuhan. Il meme è la particella elementare della cultura “un
unità di trasmissione culturale che si trasmette di cervello in cervello” 30, la cui generazione
e prolificazione è stata espropriata alle comunità umane per essere sostituita da
un’immensa catena di montaggio che produce e diffonde memi in serie.
25
J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, op. cit.
Ivi
27
Ivi
28
Ivi
29
Ivi
30
L. KALLE, Culture jam, Mondadori, Milano 1999
26
17
La strategia dell’interferenza culturale, memore del detournement situazionista, consiste
nel conoscere profondamente il sistema della cultura massificata e nell’utilizzarne i metodi,
i segni e le icone, all’occorrenza modificati, per rivoltarli contro di essa.
Nel corso degli anni Novanta, l’arte abusiva di strada vive un periodo di transizione,
durante il quale vengono rivisitate e ampliate le pratiche del Graffitismo e allo stesso
tempo vengono sotterraneamente assimilati questi traguardi della controcultura.
Quando la Street Art viene a delinearsi nella forma oggi esponenzialmente diffusa,
all’inizio degli anni Zero, è qualcosa di profondamente differente dal linguaggio originario
dei Graffiti.
È un’arte eclettica e onnivora, che mette in pratica tutto quello che era stato sperimentato
dalle avanguardie artistiche e politiche precedenti, prosegue le “esperienze artistiche
performative e di attivismo urbano degli anni trai i Sessanta e i Novanta” 31 e nei contenuti
sviluppa un forte e consapevole “discorso di critica alla società e al sistema dell’arte” 32. Si
rapporta allo spazio pubblico rivendicando la sovranità dei suoi abitanti su di esso e
ponendosi in una posizione
antagonista
rispetto
ai poteri che
lo
gestiscono
arbitrariamente, coloro che “vengono ogni giorno e deturpano le nostre città. Lasciano
ovunque le loro scritte idiote. Rendono il mondo un odioso. Si chiamano agenti pubblicitari
e urbanisti”33.
Lo faceva anche il primo Graffitismo statunitense, ma in modo istintivo. Stavolta invece c’è
una piena coscienza, maturata attraverso le lezioni di movimenti come Reclaim the
Streets34, che “ogni cosa che viene messa in uno spazio pubblico, fuori, nelle strade della
città, che sia o meno intenzionale, diventa una dichiarazione politica, sia essa un
ornamento allo status quo, o un tentativo di cambiare la società”35
I suoi guerriglieri riciclano icone pop in versione anticapitalista come tanti Andy Warhol,
molto più impegnati e molto più incazzati, completamente padroni delle teorie e delle
tecniche del sabotaggio culturale. Questa ultima ondata di artisti urbani possiede una
congenita coscienza e conoscenza dei meccanismi del marketing e del branding in
31
L. KALLE, op. cit.
L. GIUSTI, op. cit.
33
BANKSY in C. TWICKEL, Aufstand der Zeichen, in «Greenpeace magazin», 2005, n. 6
34
Reclaim the Streets è un collettivo di attivisti che sostengono l'idea che gli spazi pubblici siano di proprietà
collettiva. Per saperne di più vedere il capitolo Riprendiamo le strade in N. KLEIN, No logo, Baldini e
Castoldi, Milano 2000
35
La politica della pittura di strada, M. BROFOSKY, E. COCKCROFT, in T. TOZZI, Arte di opposizione,
Shake, Milano 2008
32
18
generale e di quello urbano, acquisita attraverso l’assimilazione generazionale per osmosi
di testi culto come No logo di Naomi Klein. Questa consapevolezza dà loro gli strumenti
per penetrare il sistema, perseguendo poi ciascuno le proprie individuali ambizioni che
possono andare dall’integrarsi al disintegrarlo. La stessa consapevolezza unita
all’attitudine da sabotatori culturali dà come risultato quello che il loro più illustre e geniale
rappresentante, Banksy, ha battezzato brandalism, un ibrido tra branding e vandalism:
“ogni messaggio pubblicitario che è collocato in uno spazio pubblico e che non puoi
scegliere di non guardare è tuo. Ti appartiene. Lo puoi prendere, rimaneggiare e
riutilizzare.”36 L’universo del branding urbano finisce così insieme a qualsiasi altro
elemento dell’arredamento urbano, inclusa la segnaletica stradale, nel cesto dei giocattoli
di Banksy e dei suoi colleghi Sweza, Zeus, Brad Downey e infiniti altri. Artisti noti e ignoti
che li modificano, ricompongono e alterano per risemantizzarli a loro piacimento,
combinandoli in motti di spirito, installazioni e composizioni a beneficio di tutti i passanti,
che generano un effetto di spaesamento che va ad inserirsi nei percorsi quotidiani,
alterandoli leggermente e sfasandoli rispetto al loro abituale scorrimento, aprendo
parentesi di possibilità, di imprevista riflessione o emotività. È evidente che questi
meccanismi funzionano appieno solo quando inseriti nello scorrere della vita della città e
dei suoi abitanti. Un’opera d’arte simile ricostruita nella cattività di un museo o di una
galleria potrebbe funzionare da rimando, come un reperto, ma il meccanismo generatore
di significato si incepperebbe se non permettendogli di essere fruita pubblicamente nello
spazio aperto, dove il pubblico è potenzialmente chiunque, anche fruitori involontari.
Spesso i progetti di Street Art hanno una forte componente relazionale e processuale, che
può essere più o meno accentuata e più o meno esplicita. È nella loro natura essere opere
estremamente aperte. Non solo il rapporto con i fruitori ma anche il passare del tempo, gli
agenti atmosferici, le trasformazioni e le regole dello spazio urbano e infine il caso, sono
elementi determinanti per il corso della loro esistenza. Alcune opere sono concepite
intenzionalmente per richiedere e richiamare l’intervento del caso o la reazione di chi
osserva, che può manifestarsi diverse forme di partecipazione più o meno attive:
interazione e modifica diretta oppure documentazione e esplorazione.
L’evanescenza, e l’impermanenza delle forme più concettuali e performative di arte
urbana, concentrate più sul processo e sulla relazione più che sull’aspetto materiale, che
caratterizza ad esempio lo stile nordeuropeo, come dimostrano molti dei progetti
documentati nel libro/opera fotografica sulla Urban Art a Berlino
36
del tedesco Jürgen
BANKSY, op. cit.
19
Große37, o il lavoro del gruppo italiano Stalker, anch’esso considerabile una forma di arte
urbana del tipo più immateriale, presenta in forma più accentuata ed evidente
caratteristiche che sono comuni a tutta l’arte urbana, anche laddove meno esplicite. Da
questo punto di vista, la Street Art realizza quelle utopie delle Avanguardie Storiche e del
Situazionismo che auspicavano l’apertura e partecipabilità dell’opera d’arte, fino alla sua
fusione con il quotidiano, per arrivare al limite estremo della “sparizione dell’arte” 38 in
favore di un’ esteticità diffusa e in direzione di una modificazione cosciente della vita
quotidiana di debordiana memoria.
La sparizione non è solo metaforica nel caso di quest’arte, data la transitorietà che le è
congenita. Un’opera di Street Art non solo prestandosi alle relazioni con gli abitanti e con i
luoghi e facendo da tramite tra gli abitanti e i loro luoghi arriva a fondersi e confondersi con
questi arrivando a sparire, ma è concretamente destinata a una esistenza materiale
estremamente breve se paragonata alla vita media di opere conservate in spazi chiusi e
protetti come musei e gallerie. Tutte le opere che si trovano sulle pareti esterne degli
edifici invece che su quelle interne, sono esposte senza protezione alcuna a tutti i fattori
che determinano il decadimento della materia nel corso del tempo, ma per quanto riguarda
le opere di Street Art vanno ad aggiungersi altri fattori che fanno sì che raramente il
processo di scomparsa graduale e naturale arrivi a compiersi: interventi artificiali ed
arbitrari come la rimozione e cancellazione intenzionale per motivi legali, artistici o
semplicemente di evoluzione dello spazio e dell’architettura urbani, sono le più frequenti
cause della loro scomparsa.
Sia le opere eseguite per scelta poetica o per comodità pratica e giuridica con tecniche e
materiali facilmente rimovibili e dal decadimento particolarmente rapido, come stickers e
paste-up in carta, che le opere potenzialmente più durature, come i muri dipinti con
bombolette e vernici, hanno un carattere costituzionalmente transitorio. Anche muri dipinti
da star come Blu, gli stencil di Banksy o le affissioni di Shepard Fairey, hanno una durata
limitata, spesso piuttosto breve. Dal momento dell’esecuzione iniziano il loro percorso
organico di decomposizione e vengono inseriti nelle vivaci dinamiche di trasformazione
urbana organiche o artificiali, esposte a qualsiasi tipo di intervento umano su di esse. Ad
esempio, come testimonia Sabina De Gregori nella sua pubblicazione su Banksy 39, i pezzi
londinesi del famoso artista hanno avuto i destini più differenti. Molti non esistono più,
37
J. GROßE, op. cit.
J. BAUDRILLARD, La sparizione dell’arte, Politi, Milano 1988
39
DE GREGORI Sabina, Banksy il terrorista dell’arte, Castelvecchi, Roma 2010
38
20
cancellati dai raid di igienizzazione urbana delle amministrazioni locali o sostituiti da nuove
opere, di Banksy medesimo o di altri artisti, altri invece sono stati sottratti al continuo
mutamento cui erano votati da un intervento intenzionale di protezione operato dalle
istituzioni, nella manifestazione terrena di bacheche in plexiglass davanti ai suoi stencil sui
muri.
Il carattere transitorio di queste opere d’arte, unito al possibilità di dover cercare, o seguire
particolari
percorsi
per
accedere
alla
loro
fruizione,
sembra
inoltre
riportare
inaspettatamente in vita, proprio nell’epoca della riproducibilità tecnica esponenziale, una
parte di quell’aura propria delle opere d’arte di un passato in cui il valore cultuale
prevaleva su quello espositivo. Infatti se è vero che i lavori di Street Art sono quasi tutti
presenti in versione fotografica in rete, per fruirne nella loro completezza, inseriti nel
contesto architettonico/paesaggistico e nella dimensione reale, è necessario farlo nel qui
ed ora di un’esperienza individuale. Questa è resa unica e irriproducibile dalle molte
variabili che la determinano: le condizioni ambientali e climatiche, le modalità di
raggiungimento, che può avvenire intenzionalmente come frutto di un percorso pianificato
oppure essere casuale e imprevisto, la presenza o l’assenza di altri individui sul luogo e le
loro attività, e infine lo stato in cui si trova l’opera al momento della fruizione, data la sua
esistenza incerta e volubile che rende estremamente difficile prevedere quanto un’opera
potrà durare su un muro in una determinata condizione e in assoluto. Come sottolinea
anche Questioli queste opere “ritrovano nella loro precarietà quell’aura che nell’arte del
secolo passato pareva definitivamente compromessa”40.
La Street Art produce opere che sono caratterizzate da aspetti che si ritrovano anche in
alcune forme dell’arte contemporanea in generale: è accessibile in spazi aperti e
interagisce col paesaggio come la public art, ha una forte relazione con il contesto come i
site specific projects, è interattiva come l’arte relazionale e può vedere incluso il fattore
temporale come l’arte processuale, eppure si tratta di un fenomeno che è stato in grado di
destabilizzare le regole del sistema dell’arte contemporanea.
Una delle molte ragioni è che vi sono delle istanze fondamentali e fondanti per l’identità di
quest’arte che sono difficili da conciliare con il circuito istituzionale.
Le opere che produce sono eseguite in assenza di autorizzazioni o richieste e molto
spesso infrangono le leggi che regolano la gestione dello spazio pubblico. Per molti critici
e artisti questa condizione è qualcosa di connaturato alla Street Art esattamente come la
relazione con la strada, dato che si tratta di una scelta pratica, poetica e politica che può
40
S. QUESTIOLI, Arte abusiva o dell’abusivismo delle definizioni, «Exibart.com», 2004, 28 maggio
21
essere più o meno cosciente ma che ha un suo significato, un’importanza e delle
conseguenze pratiche, poetiche e politiche sull’opera.
Il critico Stefano Questioli ad esempio, ritenendo insufficiente e troppo generico il termine
Street Art, ha introdotto l’utilizzo del termine arte abusiva41, pensando soprattutto al
contesto italiano. Qui infatti risulta particolarmente efficace il polemico accostamento tra
due prodotti abusivi tipici del nostro paese come le pitture murali di Blu ed Ericailcane e
l’abusivismo edilizio, complice di epiche opere di devastazione, al fine di far emergere le
contraddizioni dell’approccio istituzionale alla gestione del paesaggio.
La scelta di questa definizione è la scelta critica di riconoscere e sottolineare l’importanza
del carattere e della condizione abusiva dell’arte di strada, la parte di essa che rivendica la
propria affinità elettiva con i ratti che “esistono senza il consenso di nessuno. Sono odiati,
braccati e perseguitati. Vivono in silenziosa disperazione tra il sudiciume. E tuttavia sono
in grado di mettere in ginocchio intere civiltà. Se sei sporco, insignificante e senza amore
allora i ratti saranno il tuo modello.”42
L’uso del termine arte abusiva ricorda ed evidenzia l’origine e la potenzialità di queste
pratiche come “arte di opposizione”43, l’esistenza di aspetti difficili da addomesticare e
ridurre in forma di arte pubblica e ancor più di arte da galleria, che rappresentano una
parte importantissima della loro anima, seppur non sempre presente e non sempre con la
stessa intensità. Quella parte con una forte componente etica e politica, quella più “legata
una volontà attiva, militante, nutrita di valori oggi imprescindibili quali l'ambientalismo, la
denuncia della perdita progressiva di libertà ed una profonda consapevolezza dell'assoluto
potere visivo in seno alla nostra civilizzazione: sia esso al servizio della creazione di un
immaginario della persuasione o sfruttato a semplice scopo di ritorsione”44, quella più volta
alla “dissacrazione dell'organizzazione trinitaria curatore-gallerista-collezionista e delle sue
istituzioni”45 e di tutte le regole del sistema di produzione di cultura basato su legislazioni e
autorizzazioni ufficiali e strutturato sul principio del diritto d’autore. Rivelando la sua radice
comune con la net.art, a sua volta legata al mondo hacker, l’arte abusiva mette in crisi tale
sistema attraverso l’impiego di pratiche autoriali alternative come l’utilizzo di pseudonimi,
l’anonimato e l’uso di nomi collettivi e producendo opere che sfidano la possibilità di
S. QUESTIOLI, Arte abusiva o dell’abusivismo delle definizioni, art. cit.
BANKSY, op. cit.
43
T. TOZZI, Arte di opposizione, Shake, Milano 2008
44
S. QUESTIOLI, Elargissez l’art! Arte abusiva parte seconda, in «Exibart on paper», 2004, n.18, novembredicembre, p. 24
45
Ivi
41
42
22
mercificare l'arte con le loro caratteristiche di fruizione libera, apertamente accessibile e
gratuita, e data la possibilità di riproduzione e diffusione non regolamentata, che
paradossalmente convive con la “rinnovata unicità e la contraddittoria irriproducibilità di tali
interventi”46. Tutto ciò costringe a ripensare le modalità di commercio, commissione e
fruizione delle opere d’arte laddove, nel caso di artisti o curatori di eventi vi sia l’ interesse
o la necessità di applicarle ad una forma artistica così sfuggente, recuperandole magari da
epoche passate o da contesti culturali differenti, ad esempio il nostro Medioevo, in cui
forme di artigianato altamente qualificato e grandi commissioni di opere d’arte destinate
alla fruizione pubblica convivevano, con una scarsa rilevanza attribuita alle problematiche
legate all’autorialità a favore di modalità esecutive collettive e spesso anonime 47.
Sono soprattutto questi ultimi gli aspetti più ostili all’integrazione delle arti urbane nel
sistema arte ufficiale. Mentre fruizione aperta, realizzazione site specific e collocazione
outdoor sono pratiche contemplabili in contesti istituzionali, più complesso è assimilare o
assecondare l’anima abusiva e sovversiva delle arti urbane.
Ma il sistema dell'arte è notoriamente in grado di “digerire anche ciò che lo nega”48 quindi
nasce in seno ad esso, a digestione iniziata, la questione di come porsi rispetto agli aspetti
dell’arte abusiva che tendono alla sua negazione: se ritenerli marginali e trascurarli,
magari per cercare di rendere la Street Art un po’ più sweet art49, o tentare di tenerli
presente trovandosi ad affrontare un rompicapo fatto di contraddizioni e interrogativi che
ha come possibili risposte una infinita serie di tentativi, alla ricerca di un compromesso
soddisfacente tra street e art, e infinite altre domande. Tra le più frequenti, come sottolinea
Questioli, se sia “la documentazione l'unica via possibile per l'esposizione di queste
opere”50. A questo interrogativo tentano di rispondere in modo negativo tutti coloro che
organizzano festival ed eventi dedicati al fenomeno.
Tra i molti che sono stati e che vengono ancora periodicamente realizzati, il sud Italia offre
un esempio particolarmente interessante proprio al proposito della tematica dell’
abusivismo: il Fame Festival di Grottaglie. Evento che nasce in assenza di patrocini e
S. QUESTIOLI, Elargissez l’art! Arte abusiva parte seconda, art. cit.
L’indagine su queste e altre possibili connessioni tra la street art e Medioevo è argomento del saggio di
Fabrizio Lollini « Modelli dell’intenzione». Strategie della produzione e della percezione: per un confronto tra
la pittura medievale e il wall painting contemporaneo
48
S. QUESTIOLI, Elargissez l’art! Arte abusiva parte seconda, art. cit.
49
Street art sweet art è il nome (che è tutto un programma) di una mostra tenutasi al Padiglione d’Arte
Contemporanea di Milano nel 2007 e curata da Alessandro Riva. Si veda il catalogo Street Art Sweet Art a
cura di Alessandro Riva edito da Skira nel 2007
50
S. QUESTIOLI, Elargissez l’art! Arte abusiva parte seconda, art. cit.
46
47
23
autorizzazioni da parte delle istituzioni locali, evidenziando come spesso in Italia sia più
difficile autorizzare questo tipo di arte che condonare l’abuso edilizio, di cui la provincia di
Taranto, in cui sorge la città ospitante, è ricca di esemplari, e confermando che forse,
ancora una volta ha ragione il cavaliere fantasma dell’arte abusiva Banksy, nell’affermare
che è “più facile ottenere il perdono che il permesso”51.
51
BANKSY, op. cit.
24
1.3 Arte deprivatizzata
3. Blu, Livingston, Guatemala 2007
Alcuni degli aspetti che caratterizzano la cosiddetta Street Art, ad esempio la collocazione
outdoor e l’importanza della relazione con il contesto e con un ampio pubblico, si ritrovano
anche nelle pratiche artistiche contemporanee che vengono raccolte sotto la definizione di
arte pubblica. Queste si sviluppano e diffondono a partire dalla fine degli anni Sessanta,
nel contesto di quelle avanguardie che dal Sessantotto in avanti, attraverso una serie di
sperimentazioni, hanno modificato e ampliato le possibilità dell’operare artistico nell’intento
di creare un contatto più forte con altri ambiti della cultura e della vita e aumentarne il
potenziale sociale e politico, indagando i confini dell’estetico e tentando di spingerli più
lontano, proseguendo il percorso iniziato dalle Avanguardie Storiche.
Il superamento delle barriere tra arte e vita infatti, era un obiettivo e una problematica
centrale già nei manifesti teorici dei movimenti di Avanguardia del primo Novecento; ma le
conseguenze materiali e pratiche che ne conseguono divengono evidenti e diffuse
soprattutto tra i decenni Sessanta e Settanta del secolo. È in questo periodo che vediamo
di fatto le pratiche artistiche uscire o svilupparsi al di fuori dei confini, degli spazi e dei
25
supporti che erano loro stati destinati per qualche secolo con le Neoavanguardie e,
parallelamente in ambito abusivo, con il Graffitismo. Gallerie, musei e collezioni private,
contenitori ideali di oggetti artistici come quadri e sculture, divengono così strutture
inadeguate e insufficienti. Impossibilitate a contenere opere d’arte nate dal bisogno di
comunicare con un pubblico più ampio e con uno spazio più ampio come
emblematicamente e quasi iperbolicamente esemplifica la Land Art.
Nonostante le prime esperienze di public art e l’introduzione del concetto, siano contigue
cronologicamente ai primi sviluppi del fenomeno del Graffitismo, nonostante entrambe
possano essere conseguenza della volontà e della necessità sentita al tempo di interagire
e intervenire nel tessuto urbano e sociale delle città, le due realtà nascono e si sviluppano
a partire da contesti e presupposti estremamente differenti.
Per quanto riguarda l’arte pubblica si tratta, come spesso si sente dire, di “portare l’arte
fuori dai musei”, portare quell’arte abituata ad un contesto protetto, funzionale alla sua
legittimazione, ad avere un contatto con il mondo esterno attraverso episodi di arte
pubblica. L’arte di strada al contrario, nasce nella strada ed è prima segno, gesto e
comunicazione, e solo in un secondo momento viene legittimata e diviene arte.
A proposito di tale distinzione, Baudrillard nel saggio Kool killer52, sottolineava la differenza
tra i graffiti spontanei e i city walls, murales commissionati dalle amministrazioni pubbliche
al fine di decorare l’architettura cittadina e di “fare dono dell’arte al popolo” 53. Questa
differenza forse era allora più facile da individuare poiché le differenze di istanze ed intenti
si rendevano evidenti e visibili rispecchiandosi nelle differenti scelte formali e stilistiche. I
city walls spesso contemplavano linguaggi figurativi ed erano esplicitamente finalizzati ad
abbellire la città, mentre i Graffiti utilizzavano solo i segni. Selvaggi e istintivi, erano
praticati più che progettati con una finalità preventivata, e l’istinto sembrava condurli a una
“insurrezione nel luogo dell’urbano come luogo della riproduzione del codice”, volto a più a
“sabotare la rete stessa dei codici”54 che ad adempiere a questioni di gradevolezza
estetica.
L’arte pubblica che si sviluppa nell’ambito dei movimenti artistici post-sessantottini, così
come i city wall, è legale e commissionata, “si allontana dall'idea di monumento in quanto
ha fini comunicativi e mai celebrativi”55, ma stilisticamente e linguisticamente è legata alle
nuove tendenze di ambito propriamente artistico: concettuale dalle temperature variabili,
52
In J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2002, I ed. 1979
J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, op. cit., p. 95
54
Ivi
55
voce Arte pubblica di Wikipedia, it.wikipedia.org
53
26
pratiche performative, minimalismo e pop. Queste si ritrovano anche nei più noti interventi
pubblici sul suolo italiano del periodo, come il Cretto di Gibellina di Alberto Burri, l’ago e
filo di Oldemburg a Milano o la Fontana Igloo di Mario Merz a Torino.
Oggi i linguaggi dell’arte urbana si sono evoluti e contaminati, l’arte abusiva non si limita al
lettering ma adotta linguaggi iconici, figurativi, concettuali, astratti, performativi narrativi e
perfino decorativi, quindi le differenze possono risultare talvolta quasi invisibili in
superficie, e le diverse sfere si trovano spesso ad entrare in contatto e a sovrapporsi, ma
sussiste ancora una sostanziale divergenza di istanze a separare l’arte pubblica dall’arte
abusiva.
Come evidenzia Stefano Questioli, nonostante i due tipi di pratiche siano accomunate
dalla fruizione collettiva, pubblica e decontestualizzata rispetto agli spazi funzionali ad
essa, “l' arte pubblica è una arte mediata, in un certo senso condizionata, per portare l'arte
al popolo, mentre l' arte abusiva è un’arte che nasce direttamente dalla intenzionalità
dell'artista”56. Lo stesso Questioli in un saggio precedente affermava che “l’arte abusiva
non va confusa con l’arte pubblica, che, sì, accade anch’essa outdoor, ma attraverso
l’avvallo delle istituzioni (artistiche e/o politiche). Il contenuto talvolta potrà apparire simile,
non il piano ontologico, esattamente antitetico”57. Nei casi in cui pratiche solite a svolgersi
in contesti illegali vengono trasferite in contesti ufficiali e riconosciuti, l’arte smette di
essere abusiva e diviene pubblica “anche se le istanze, l'etica e lo stile non cambiano”58.
Il panorama attuale della Street Art si presenta (anche) sotto questo punto di vista
composito ed eterogeneo e abbonda di situazioni ibride. Moltissimi street artist
contemporanei e quasi tutti i più conosciuti, lavorano sul doppio binario dell’illegalità
autonoma e delle commissioni private e/o pubbliche, muovendosi nel limbo delle arti
urbane odierne di cui parla Robert Klanten introducendo il libro Beyond the street, lavoro
antologico sull’arte al di là della strada colta in proprio in questa zona intermedia e ibrida
molto ampia “tra l’atteso riconoscimento pubblico in quanto arte e una, altrettanto
essenziale, credibilità di strada”59, visto che “dal sottopassaggio urbano alla high art, con
tutto quello che sta nel mezzo è pieno di spazio, al di là della strada e sulla strada da
percorrere”60. In questo limbo i confini si confondono e si fanno labili ma il movimento che
56
S. QUESTIOLI, Arte abusiva vs arte pubblica, in «Artext», artext.it, 2007
S. QUESTIOLI, Arte abusiva o dell’abusivismo delle definizioni, in «Exibart on paper», n. 28, 2004, maggio
58
S. QUESTIOLI, Arte abusiva vs arte pubblica, op. cit.
59
R. KLANTEN, In limbo in P. NGUYEN, S. MACKENZIE, Beyond the streets. The 100 leading figures in
urban art, Gestalten, Berlin 2010
60
Ivi
57
27
conduce l’arte da museo a cercare di uscire per prendere una boccata d’aria nell’ambito di
manifestazioni e commissioni di public art è l’esatto contrario del movimento che tenta di
far entrare l’arte di strada nei contesti istituzionali, nonostante i risultati derivanti dalle due
opposte operazioni di mediazione possano risultare simili o equivalenti.
Nel secondo caso gli addetti ai lavori del mondo artistico si trovano costretti uno sforzo per
contenere, incanalare, valorizzare e rendere commerciabili i linguaggi nuovi nati al di fuori
dei cosiddetti spazi deputati all’arte, per costruire intorno alle opere che sorgevano nello
spazio della vita degli spazi semichiusi, dei contesti, per cercare di catturare queste forme
artistiche che altrimenti si fonderebbero al quotidiano rendendo impossibile ogni
commercializzazione e per adeguare i classici contesti espositivi laddove anche il termine
esposizione appare impossibile da applicare, trattandosi di opere nate per vivere
all’aperto.
Nelle iniziative di arte pubblica invece avviene il contrario, e nel portare l’arte al di fuori
degli abituali contesti, può accadere che essa riveli la fragilità che anni di reclusione
possono causare. Ne derivano una serie di problematiche impossibili da immaginare
associate all’arte urbana nata in contesti abusivi. Ne sono un esempio quelle che
emergono nelle analisi di alcune esperienze italiane in ambito di arte pubblica, contenute
nel saggio Arte e scena urbana di Alessandra Pioselli61. Il critico Luciano Caramel, rilevava
negli artisti una percezione di impossibilità a realizzare opere che agissero in rapporto con
la struttura urbana e la tendenza a rinunciare “alla possibilità di intervenire su di essa
modificandola”62 spesso lasciando che “la città divenisse uno sfondo”63 a causa “della
difficoltà in cui versa l’attività estetica, costretta ai margini” 64, dalla quale consegue quella
che l’autrice riassume come “una difficoltà avvertita da parte degli operatori culturali
nell’identificare le funzioni dell’arte nella città, nel sociale, e una consapevolezza della
debolezza e della marginalità della pratica artistica rispetto all’azione politica”65.
L’impiego stesso del termine arte pubblica contiene dei paradossi. Se “per arte pubblica si
intendono genericamente gli interventi artistici – tanto in città quanto in paesaggi naturali –
al di fuori di musei e gallerie ovvero degli spazi solitamente deputati a ospitare l’arte,
nonché quelli all’interno di spazi quali scuole, ospedali, tribunali o carceri” 66, questo implica
A. PIOSELLI, Arte e scena urbana in C. BIRROZZI, M. PUGLIESE (a cura di) L’arte pubblica nello spazio
urbano. Committenti, artisti, fruitori, Bruno Mondadori, Milano 2007
62
L. CARAMEL in A. PIOSELLI, Arte e scena urbana, op. cit., p. 26
63
Ivi
64
Ivi
65
A. PIOSELLI, Arte e scena urbana, op. cit., p. 26
66
C. BIRROZZI, M. PUGLIESE, op. cit., p.1
61
28
che la restante arte, non è di fatto pubblica, o non lo è abbastanza, e che gli spazi ad essa
deputati, come i musei e le gallerie, non lo sono altrettanto, come rivela la lettura al
negativo (attraverso ciò che esclude) della definizione stessa.
La comparsa nel panorama artistico di un’arte pubblica, nella forma di un ambito a sé
stante, quasi di un sottogenere dell’arte contemporanea, è sintomatico delle carenze
dell’arte tutta, delle sue drammatiche difficoltà ad adempiere in modo soddisfacente alle
finalità pubbliche e sociali che si pone, a cui spesso nel corso della storia umana le arti
hanno risposto pur rientrando semplicemente nella categoria di arte. Lo sottolinea Stefano
Boeri quando scrive: “Penso che quello dell’arte pubblica sia un tema irrilevante. La
distinzione fra arte pubblica e arte contemporanea è irrilevante. L’arte ha una finalità a
priori pubblica o sociale.”67
La ragione per cui la public art ha potuto risultare una pratica avanguardistica, e per cui
tuttora può apparire una tendenza innovativa, è il suo emergere dalla contrapposizione
con un lungo periodo precedente, in cui in ambito artistico hanno dominato modalità di
fruizione diverse da quella che attualmente viene definita pubblica. Quando posto in un
particolare contesto logico, infatti, il termine arte pubblica sembra finalmente assumere un
significato. Tale contesto è la relazione di antinomia con il proprio opposto, arte privata. È
questa relazione che Stefano Questioli usa per spiegare la ragion d’essere dell’arte
pubblica: “l’arte pubblica è rivolta ad una fruizione collettiva, mentre l’arte privata ad una
fruizione soggettiva”68 e, altro aspetto fondamentale che distingue l’arte pubblica da quella
privata è che essa non è vendibile, pur essendo mercificabile. Nella modernità il quadro
era quasi l’oggetto artistico per eccellenza. La sua forma rispecchia e contiene la
Weltanschauung dell’epoca, sia quella estetica basata sulla forma simbolica della
prospettiva69, sia quella socio-economica basata sulle proprietà private e sugli scambi
commerciali tra queste, che in ambito artistico si traduce nella predominanza del
collezionismo e della fruizione privata. Il quadro in quanto oggetto mobile e autosufficiente
fino all’indifferenza rispetto al contesto, agevola il passaggio da una proprietà privata
all’altra e da una fruizione privata all’altra, e contribuisce alla dominazione di questo uso
personale o privato dell’arte, che una volta incancrenitosi e fatto decadente ne ha alienato
il rapporto con il pubblico riducendolo allo stato attuale. Tutte le forme di arte pubblica
S. BOERI in L’arte pubblica tra incisività e inutilità. Conversazione tra Andrea Lissoni e Stefano Boeri in C.
BIRROZZI, M. PUGLIESE, op. cit.
68
S. QUESTIOLI, Arte abusiva vs arte pubblica, in «Artext», artext.it, 2007
69
E. PANOFSKY, La prospettiva come forma simbolica e altri scritti, Feltrinelli, Milano, 1961
67
29
invece, da quelle premoderne a quelle postmoderne, sono meno conformi o quantomeno
meno confortevoli rispetto a questo modello di fruizione e commercio.
Il tema dell’invendibilità dell’opera d’arte riconduce, attraverso l’arte pubblica, all’arte
abusiva. Ambedue sono “per costituzione invendibili” 70 ma l’invendibilità dell’arte abusiva
ha connotati molto più radicali. L’arte abusiva produce interventi e opere la cui
realizzazione e fruizione è intenzionalmente gratuita e non richiesta, mentre l’arte
pubblica, la cui la fruizione non è a pagamento, ha comunque dei committenti, dei
finanziatori e un prezzo. “L’abusivismo artistico è praticato nell'incuranza delle leggi, nel
non rispetto della proprietà privata, ma è soprattutto praticato nell'incuranza delle leggi del
contesto artistico”71. Questa scelta, che sia istintiva oppure ponderata e consapevole, è
una dichiarazione di opposizione agli schemi “del circo intellettuale postmoderno
dell’arte”72 nonché alle dinamiche che dominano gli scambi economici del mercato
culturale e globale. Spesso nell’ambito abusivo, coerentemente con i suoi presupposti, è
l’impiego autonomo e autogestito delle moderne tecnologie di comunicazione che
permette ai “protagonisti del movimento di costruirsi un profilo, ottenere riconoscimento ed
eventualmente condurre una modesta ma gratificante vita che aggiri la catena alimentare
tradizionale del mercato dell’arte”73, ma è possibile anche mercificare quest’arte attraverso
una forma di mercato indiretto, traslato” che ne “sostiene e legittima la prosecuzione” 74 e
che rappresenta una fonte di sostentamento un po’ più concreta e/o consistente per gli
artisti. Ancora una volta si perde il carattere abusivo ma questo non implica
meccanicamente la totale perdita di potenziale comunicativo, il rinnegamento di contenuti
e tradimento della propria poetica con relativo ingresso nel girone infernale o nell’empireo
dei venduti. Certamente conduce in un territorio irto di contraddizioni e fitto di dilemmi sulla
tematica del purismo, ma anche al suo interno sopravvive la possibilità di compiere delle
scelte non irrilevanti, determinando il livello di compromesso tra utopia e realtà desiderato
in una vasta gamma di soluzioni intermedie tra gli estremi dell’ortodossia e della
prostituzione che la vita offre a ciascun individuo. Come conferma l’artista Blu che,
interrogato sull’argomento risponde: “per quanto mi riguarda vendere arte mi permette di
continuare a dipingere in strada, da una parte si vende e dall’altra si regala, finché posso
preferisco questo piuttosto che lavorare per la pubblicità come la maggior parte dei
70
S. QUESTIOLI, Arte abusiva vs arte pubblica, art. cit.
Ivi
72
R. KLANTEN In limbo, op. cit.
73
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74
S. QUESTIOLI, Arte abusiva vs arte pubblica, art. cit.
71
30
creativi.”75 Blu è uno degli artisti che a una costante produzione abusiva e gratuita,
solitaria o cooperativa, sulle pareti di edifici abbandonati, abitati, pubblici, privati,
autogestiti e occupati, affianca occasionali decorazioni di facciate di cattedrali dell’arte
contemporanea e partecipazioni a manifestazioni e festival di natura più o meno
istituzionale.
Dalle strade e dai muri animati dalle opere di questi artisti, noti e meno noti, e da coloro
che li affiancano documentando, organizzando e curandone il lavoro, arte pubblica e arte
di strada fanno fronte comune nel dare vita e rilievo a dinamiche di produrre, fruire,
commerciare e far circolare arte e cultura alternative, opposte o ibride rispetto ai
meccanismi consolidati dal e nel sistema artistico ed economico, facendo pressione
dall’interno o dall’esterno per una sua evoluzione in funzione meno privata e privatistica.
Questo aspetto unificante può essere percepito in modo talmente forte da superare le
distinzioni fino a pensare, come Blu, che “non esistono né graffiti né street art, esistono
l’arte pubblica e le persone che la fanno”76.
75
76
Blu in P. RIVASI, Megunica, in «Garage magazine», 2008, n. 13
Blu in P. RIVASI, art. cit.
31
2.
FAME
2.1 Saluti e baci da Grottaglie
4. Blu, Grottaglie, Fame Festival 2009
Grottaglie conta quasi trentacinquemila abitanti, le sue sembianze non sono troppo
diverse da quelle di altri centri di medie dimensioni limitrofi alla città di Taranto e della
Murgia, più in generale è assimilabile a molte realtà pugliesi di provincia. Paesi che
sembrano aver venduto l’anima in cambio di un accesso alla modernità industrializzata,
sacrificando memoria, identità e storia per diventare satelliti anonimi di filiali delocalizzate
e periferiche di quel mondo produttivo apparentemente così lontano ed esclusivo che di
questo angolo di pianeta si è ricordato all’inizio degli anni sessanta per cambiarlo,
iniziando col trasformare la città dei due mari nella periferia di un’altra città, l’immenso
stabilimento siderurgico Ilva di Taranto, la sua cancerogena Versailles di ciminiere e
altiforni sempre accesa in danze incandescenti di metallo polvere e fumo, fabbrica di
tumori, ossidi e posti di lavoro per tutto il suo regno. L’industrializzazione ha poi raggiunto
la provincia, i cui centri hanno quindi vissuto la classica crescita demografica e
conversione produttiva, e il quasi oblio dell’economia tradizionale basata su artigianato e
agricoltura.
32
Ne è conseguito un fenomeno di abbandono dei centri storici, la loro “perdita di centralità
sia fisica che simbolica”77, l’isolamento e spesso il degrado determinato dal venirsi a
creare di una zona di città nuova, che in genere circonda quella antica, che ne diventa
così il cuore immobile, che custodisce una memoria che non racconta quasi a nessuno,
che racchiude e isola un bioritmo differente da quello dell’epoca in cui vive e rallentato
rispetto a quello originario. In questo processo il centro storico viene esonerato da ogni
funzionalità, escluso dalla circolazione urbana, vissuto e attraversato prevalentemente da
anziani, saltuariamente da giovani in cerca di un posto in cui nascondersi e da qualche
occasionale turista domenicale in visita alle architetture monumentali e civili di un tempo
non sempre così remoto, ma abbandonato e dimenticato talmente in fretta da far apparire i
suoi luoghi quasi dei siti archeologici o delle città fantasma se confrontati con i nuovi centri
astorici, prontamente edificati per ospitare la crescente quantità di abitanti e per
rispondere ai moderni standard abitativi e caratterizzati dagli inconfondibili stili
architettonici dell’Italia meridionale: il brutalismo fai da te e l’eclettismo condonato. In
queste città nuove le forme crude dei solidi platonici bifamiliari di cemento e laterizi, si
affiancano ai condomìni e alle palazzine figlie dell’edilizia popolare italiana anni Sessanta
e alle recenti villette a schiera con giardino, componendosi in una struttura urbanistica
imprevedibile e autopianificante, assoggettata all’arbitrio e alla libera iniziativa individuale.
Grottaglie rispetta questo standard nonostante delle peculiarità. È un centro ricco di storia,
testimoniata dai siti archeologici circostanti come dalla stessa città antica, la cui trama
edilizia “che si avvolge su sé stessa, rievoca le suggestioni ed il carattere originario dei
primi insediamenti proto-urbani sviluppatisi nel circostante habitat delle gravine” 78 unendo
nella sua morfologia la memoria della civiltà rupestre locale al modello urbanistico tipico
dei centri antichi dell’intera regione, influenzato dalla dominazione araba, in cui l’ambiente
privato delle abitazioni e quello pubblico e collettivo della piazza e della strada “giungono
ad un compromesso simbolico e fisico, nell'intricato groviglio di vicoli residenziali che si
adagia su un profilo altimetrico tormentato, sfruttandone la natura irregolare” 79 creando
ambiti semiprivati, prolungamenti esterni delle abitazioni, destinati alla socialità.
Come da copione, in concomitanza con l’inizio del processo di abbandono dell’antico
nucleo di Grottaglie, inizia a svilupparsi da un suo fianco, a partire dall’Ottocento, il nuovo
e futuro centro, destinato ad isolare e infine condannare quello precedente alla
77
G. ROMANO, Progetto Grottaglie, zerounogrottaglie.it
Ivi
79
Ivi
78
33
bidimensionalità storica e ad una valorizzazione monumentale, estetica e commemorativa
che lo aliena ulteriormente dalle pratiche collettive quotidiane e contribuisce a ridurne la
funzione, avvicinandola a quella di un souvenir a forma di trullo sulla mensola del salotto.80
La parte antica di Grottaglie presenta però una realtà urbanistica del tutto unica: il
quartiere delle ceramiche. Un’intera zona di città completamente monofunzionale,
dedicata all’attività artigianale e artistica della produzione ceramica, che per secoli ha
costituito il principale sostentamento economico per la città. Il cosiddetto quartiere dei
comignoli si sviluppa a partire dal XVI secolo e costituisce una realtà a sé, composta solo
da laboratori e botteghe.
La tradizione figulina ha fatto di Grottaglie nel corso della storia un importante centro di
artigianato specializzato e ancora oggi ne costituisce il tratto distintivo. Infatti qui, la
produzione ceramica è riuscita a sopravvivere all’avvento della nuova economia e ad una
classe dirigente devota solo a sé stessa e al “New Deal pugliese”81, che hanno
determinato la morte di molte altre forme di artigianato. Essa oggi vive e si tramanda nella
realtà indipendente del quartiere delle ceramiche, isolata dal normale scorrere della vita
reale dell’abitato. La città nuova si è votata alle leggi della produzione dominanti e, anche
se in questo caso ha permesso ad una forma di economia preindustriale di continuare ad
esistere, l’ha spinta ai margini, riducendo il suo ruolo nell’economia locale a quello di
sottovalutato richiamo turistico.
Gli autoctoni medi percepiscono la ricchezza del loro paese, e con essa la sua identità e la
sua storia, meno dei turisti. Succubi del mito della modernità globalizzata, vivono accecati
dal complesso di vivere alla periferia del mondo.
A Grottaglie si trova quel prodotto tipico del meridione d’Italia che è la voglia di evadere, la
sensazione che l’unico movimento possibile sia la fuga individuale verso quegli Eldorado
di tendenza dove tutto sembra possibile e questo riguarda soprattutto i giovani. Difficile
trovare la voglia di restare. Appartenere a un luogo del genere viene vissuto come una
sfortuna, una condanna ad essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.
La realtà sociale di cui questo paese è esempio è complessa. Innumerevoli sono i fattori
che fanno apparire ai suoi abitanti la loro città come un luogo ostile e impossibile da
cambiare. Queste terre non sono inospitali per natura, come dimostra il fatto che gli uomini
vi si sono insediati in tempi antichissimi, sono diseredate e al tempo stesso derubate dai
meccanismi macroeconomici che governano l’economia della parte di mondo cui
80
81
Tipico souvenir pugliese
A. COLAPS, Fame Festival 2011: tu su internet, noi a Grottaglie, in librarteria.com, 2011, 27 settembre
34
politicamente appartengono, anche se penzolano in fondo alla catena alimentare. La
ricchezza raggiunge queste lande quasi solo nella forma dei suoi scarti. Questi luoghi
sono la parte geograficamente più prossima di quel rimosso della nostra civiltà, terre
letteralmente da comprare per seppellirci il marcio che si vuole tenere lontano dagli occhi
lontano dal cuore, con la collaborazione di avidi indigeni che hanno dimenticato ogni
senso di appartenenza diverso dal senso di ciò che appartiene a loro.
È in questo quadretto da cartolina con discarica che nasce il Fame Festival, quello che
oggi si può ritenere probabilmente il più rilevante evento nell’ambito delle pratiche urbane
e pubbliche a livello Italiano nonché uno dei più interessanti sulla scena internazionale.
5. manifesto stampato e ideato da Studio Cromie
35
2.2 La mia non è voglia di qualcosa di buono, è proprio FAME
6. Boris Hoppek, Grottaglie, Fame Festival 2011
Mai come oggi si è parlato tanto di civiltà e di cultura, quando è la vita stessa che ci sfugge. E c’è
uno strano parallelismo tra questo franare generalizzato della vita, che è alla base della
demoralizzazione attuale e i problemi di una cultura che non ha mai conciso con la vita e che è
fatta per dettare legge alla vita. La cosa più urgente non mi sembra, dunque, difendere una cultura,
[…] ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della
fame.82
La storia del Fame Festival potrebbe iniziare da un edificio semidistrutto e inutilizzato di
periferia che diventa sala prove e laboratorio serigrafico, oppure dalle masserie
abbandonate e dimenticate dei dintorni che diventano sedi di festival musicali autoprodotti.
Comunque la scenografia rappresenterebbe di sicuro i paesaggi del profondo sud d’Italia e
la sua tendenza alla depressione nonostante il clima mite, e il personaggio principale
sarebbe di sicuro Angelo Milano, colui che con la sola forza del do it yourself ha
trasformato quell’edificio e quelle masserie in ciò che immaginava potessero essere e poi
82
A. ARTAUD, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 1968
36
ha trasformato il suo paese ridisegnandone “la geografia nel quotidiano prima che nello
straordinario.”83
Angelo nasce a Grottaglie, ma rifiuta il destino di emigrato che sembra spettargli per
nascita e decide di costruirsi un’alternativa nella sua città che di alternative non sembra
offrirne. È per questo che da lei non si allontana mai davvero, nonostante tutte le
esperienze fatte lontano, che hanno l’aspetto del viaggio più che della fuga, di occasioni
per vedere e riportarsi a casa qualcosa, che può essere un artista in prestito, un idea, un
progetto o un’immagine ma sempre da ripensare e riconcepire nel luogo in cui la si
vorrebbe realizzare, che non può prescindere da un vero rapporto con esso che si realizza
soprattutto nell’esperienza dell’abitarlo e viverlo, anche per un periodo.
Durante le sue avventure, Angelo è stato apprendista stampatore di un punk canadese,
disegnatore di copertine di dischi in un castello incantato a Monaco84, ladro in quella
Bologna estinta di cui la Bologna attuale sembra essere lo spirito senza pace che ne narra
le mitologiche gesta, luogo in cui ruba una laurea in semiotica, e infine bassista nella band
posthardcore La Quiete85, nata a Forlì all’alba degli anni zero, avventura che continua
ancora oggi. Nonostante questo vagabondare gli sia vitale, Angelo torna sempre a
Grottaglie perché è proprio in e per questo il luogo di questa terra dove tutto è impossibile,
che vorrebbe dare forma concreta ai suoi desideri e ai suoi progetti immaginari. Forse
anche per diventare una contraddizione vivente alla favola della land of oppurtunity, che
nel piccolo del panorama culturale italiano, all’epoca era raccontata proprio dalla Bologna
che lui vive. Favola che una volta vissuta si rivela ai suoi occhi come un esempio di quel
sistema di drenaggio di energie economiche, vitali e culturali che li dirige dalle periferie
verso i centri (in senso socio economico ancor più che geografico), che è all’origine di ogni
flusso migratorio e che alimenta il monopolio della percezione di possibilità, felicità e
vivibilità che alcuni luoghi detengono a discapito di altri, che rimangono svuotati di queste
possibilità e quasi privati della loro coscienza di esistere come luoghi, abbandonati al
potere decisionale di locali che pensano che metterli in saldo sia l’unico modo per inserirli
in quell’economia a cui nonostante la decadenza, per personalissimi interessi, sono molto
affezionati. Per questo l’uomo della fame ci tiene a precisare che per quanto riguarda il
festival, non si è trattato di importare qualcosa dalla viva realtà bolognese in un paese
moribondo del sud Italia, bensì del tentativo di reinserire questo paese in quelle mappe
83
A. COLAPS, Fame Festival 2011: tu su internet, noi a Grottaglie, in librarteria.com, 2011, 27 settembre
Germania
85
Per saperne di più consultare il sito laquiete.org o la voce La Quiete di Wikipedia
84
37
culturali da cui era stato e si era relegato all’estrema periferia, partendo dalla dimensione
locale e usando mappe diverse da quelle egemoni, costruite facendo rete dal basso.
Certo, anche il fare rete underground intensifica i suoi intrecci e la sua vitalità laddove,
come a Bologna, si intrecciano binari e strade che provengono dalle più diverse direzioni,
favorendo gli incontri più diversi. In questi luoghi la storia e la memoria locali si
sovrappongono ad infinite altre storie e memorie che lì giungono da lontano per
incontrarsi. Questo può semplicemente accadere ovunque, ed è quello che fa accadere il
Fame Festival e che prima ancora succedeva nei concerti che Angelo stesso organizzava
nelle masserie dei dintorni, invitando gente da tutta Italia che ospitava in quella stessa
disastrata sala prove e che vedrà poi l’inizio della rudimentale e improvvisata attività di
stampe serigrafiche che si evolverà poi in Studio Cromie. Questi eventi musicali sono stati
il contesto in cui Angelo ha conosciuto, tra coloro che si trovavano lì per suonare o per
sentire i concerti, quasi tutti gli artisti con cui ora collabora più assiduamente. Essi
costituiscono di fatto l’embrione del Fame Festival, contenendone tutto lo spirito e
funzionando all’incirca allo stesso modo, nonostante il passaggio dall’ambito musicale a
quello delle arti visive, che pure può essere considerato del tutto secondario rispetto alla
continuità poetica e metodologica che li unisce e alla continuità umana data dal fatto che
molte delle persone che vi ruotavano attorno sono le stesse che realizzano i disegni che
Studio Cromie stampa e vende, che a loro volta si sono arrampicati sui muri e hanno
invaso le strade della città.
La differenza di ambito di competenza dei due tipi di evento risulta ancora più irrilevante
se vista dalla giusta prospettiva, ovvero assumendo il punto di vista del contesto nel quale
nascono, che è la scuola che ha realmente formato il loro organizzatore e ideatore. La
scena culturale, o controculturale, di riferimento è quella dell’autoproduzione, legata alla
realtà consistente e attiva dei centri sociali italiani degli anni Novanta, in cui si aveva un
approccio multidisciplinare alla cultura. Musica, arti visive e video erano concepite come
un tutt’uno a cui collaborare apportando e scambiandosi competenze e capacità. Sarebbe
riduttivo definire questa scena un background poiché non prevedeva gerarchie tra i piani,
ma aveva una struttura rizomatica, fatta di cooperazione e scambio al di fuori e contro il
sistema culturale dominante e le istituzioni. “Un circuito enorme di controinformazione, una
rete di realtà interessantissime e alternative al mainstream, una rete rizomatica di supporto
reciproco in tutti gli ambienti creativi e di comunicazione” che costituisce la linfa vitale per il
lavoro di tutti coloro che l’hanno vissuta e partecipata, tra cui anche alcuni dei protagonisti
dell’ultima generazione della Street Art.
38
È attraverso l’esperienza diretta e indiretta di autoproduzione di libri, dischi ed eventi che
Angelo acquisisce la consapevolezza della possibilità di realizzare qualcosa che si è
immaginato, anche con pochi mezzi e nessuno sponsor. L’intraprendenza e la capacità di
autodeterminazione acquisita o ritrovata nel do it yourself, la filosofia di improvvisare e
l’arte di arrangiarsi tipica del punk, fluiscono dai concerti nelle masserie abbandonate, a
Studio Cromie e da Studio Cromie al festival. Le tre realtà sono costituite tutte della stessa
materia, molto organica.
Studio Cromie è l’evoluzione successiva della sala prove/motel. Inizia tutto dalla necessità
di stampare autonomamente copertine di album, poster per band e concerti punk che
Angelo progettava come grafico, che lo porta a realizzare in quel luogo con pochi mezzi
non specifici e poche rudimentali competenze, uno studio serigrafico.
Il secondo passo fu realizzare che “sarebbe stato figo invitare amici da dovunque per
produrre stampe serigrafiche in edizione limitata con i loro disegni e progetti” 86. Inizia così
l’attività di stampe d’arte a tiratura limitata di Studio Cromie, che senza la consapevolezza
dell’esistenza di una simile possibilità, si trasforma per Angelo in un mezzo di sussistenza
e di finanziamento per progetti più grandi. Intanto i suoi amici vandali, disegnatori,
musicisti e randagi come Ericailcane, Blu, Cane di coda e Baronciani diventano veri artisti,
riconosciuti e inseguiti dai galleristi. Il mondo ha deciso di trasformare alcuni reati in arte e
il degrado urbano in oro. La stampa artigianale inoltre è uno dei più immediati e naturali
sistemi di mercificazione di questo tipo di arte che su un versante si produce nello spazio
urbano e suburbano in forma unica, effimera, non riproducibile e non vendibile, e sull’altro
si riproduce all’infinito in mille forme di souvenir che la documentano e la rappresentano
ma che mai la contengono: fotografie analogiche e digitali fruibili su libri o in rete, video e
per l’appunto stampe. Un sistema che va direttamente dalla fruizione pubblica e gratuita
alla diffusione e compravendita di oggetti che tendono alla riproducibilità, e che di
conseguenza hanno prezzi più accessibili, lanciando un ponte che permette di passare
direttamente dall’arte pubblica all’artigianato artistico, senza attraversare il fossato per
privilegiati del possesso di un’opera d’arte unica e irriproducibile. Vi sono dei tentativi di
tenere l’arte di strada attaccata a questa dinamica, ma hanno risultati artificiali e forzati,
poiché è evidente che la loro vocazione naturale è contribuire a costruire vie d’accesso
alla cultura e all’arte molto più democratiche.
Adattandosi in modo piuttosto spontaneo a questi presupposti, date le comuni origini,
Studio Cromie riesce ad essere molto di più che uno studio serigrafico monofunzionale, la
86
A. MILANO in P. NGUYEN, S. MACKENZIE, op. cit.
39
sua attività va progressivamente allargandosi dal suo ambito specifico di incompetenza,
con la versatilità di chi improvvisa. Oggi è una sorta di galleria d’arte contemporanea
sperimentale che testa tutte le possibilità di diffusione e vendita applicabili a questo settore
artistico, toccando la produzione ceramica, la pubblicazione di libri e forse la stampa di
magliette in pezzi unici, oltre alla vendita online dei suddetti prodotti. Un sistema di
autofinanziamento che da quattro anni a questa parte ha permesso di sostenere
l’organizzazione del festival, che rappresenta la parte curatoriale e organizzativa di Studio
Cromie nonché la più nota, che ne riconferma la versatilità e l’unicità dell’approccio.
Studio Cromie è in realtà uno pseudonimo dietro al quale si cela tuttora solo Angelo
Milano, che inizialmente si nasconde dietro al nome dello studio per suggerire l’idea di un
pool di esperti specializzati al lavoro, ma che ora si diverte a rivelare che quello che a
Grottaglie vanno a vedere persone da tutto il mondo inizia con lui e il suo cane soli in uno
studio incasinato. La determinazione di far accadere tutto ciò che fosse in suo potere
proprio a Grottaglie, più che un atto di amore e fedeltà al proprio luogo d’origine può forse
essere letta come una scelta fatta in opposizione a quella dinamica per cui ogni energia,
cosa e persona deve confluire nelle capitali globalizzate, il cui principale tornaconto è lo
svuotamento e la sudditanza culturale ed economica della dimensione locale, e più in
generale come un’ipotesi avanzata in risposta al sempre più bruciante interrogativo posto
da questo momento storico di più o meno conclamata crisi dell’economia capitalista
globalizzata, che rivela le lacune strutturali dei modelli che ci governano 87, di trovare dei
modelli alternativi nuovi e/o che passino attraverso il “recuperare ciò che mezzo secolo fa
si è abbandonato”88.
Se l’organizzatore del Fame non riusciva a concepire “di fare qualcosa lontano da questo
posto”89, non è solo perché è sempre stato ispirato dal principio hippie “pensa globale
agisci locale”90, ma anche perché avvertiva con l’intensità della fame il bisogno di cercare
delle soluzioni ai drammi interni di quel luogo e dei suoi abitanti, che si autoalimentano
grazie all’avidità e all’individualismo delle classi dirigenti locali, dei piccoli e grandi potenti
e grazie all’indulgenza e all’incoscienza del resto della popolazione. Il Fame è un disperato
Come l’artista Blu ha scritto a commento di un suo muro ad Atene, citando L’uomo senza contenuto di
Giorgio Agamben, “only in the burning house the fundamental architectural problem becomes visible”, in
blublu.org, 2011, 4 ottobre
88
A. COLAPS, art. cit.
89
A. MILANO in P. NGUYEN, S. MACKENZIE, Beyond the streets. The 100 leading figures in urban art,
Gestalten, Berlin 2010
90
Attribuibile in origine al botanico, biologo e urbanista scozzese Patrick Geddes (1854 – 1932)
87
40
“tentativo disperato di far succedere qualcosa”91 in quella città, fatto da un suo abitante per
“favorire il turismo e portare l’attenzione sui problemi che ci sono qui”92 in modo “che la
gente venisse e vedesse quanto è bello questo posto e quanto potenziale è stato sprecato
dalla nostra cattiva politica”93.
Angelo, in quanto cittadino di Grottaglie, percepisce questi problemi in modo davvero
viscerale, per questo ci tiene che il festival ne parli, esplicitamente e implicitamente. Il
festival risponde a dei bisogni di un luogo in cui certe mancanze sono talmente forti da
essere paragonabili alla fame. Ad esempio il bisogno di capire con che diritto una parte
della terra sulla quale i locali vivono, venga venduta a una compagnia privata per costruirvi
un’immensa discarica, senza che questi ne siano al corrente.
Il bisogno di risvegliare in quegli stessi abitanti la volontà di esercitare il loro diritto di “agire
in prima persona sul locale”94, il bisogno di invogliare i giovani a costruire qualcosa invece
che prendere un treno per scappare o rimanere a guardare i treni 95 galleggiando tra la
sbronza di oggi e quella di domani, il bisogno di ricominciare a sentire dei bisogni che
siano rivolti anche a una dimensione collettiva, il bisogno di scuotersi dall’incapacità di
percepire anche solo il desiderio di autodeterminarsi… il menù della fame di un luogo
come Grottaglie è molto ricco ed è con la stessa forza e prepotenza con cui, chi ha
sensibilità, avverte la sua morsa, che il Fame Festival cerca di rispondere, e finora pare
che abbia “in qualche modo aiutato a rendere più persone consapevoli della situazione” 96,
che è un primo piccolo passo verso delle soluzioni concrete.
Il nome del festival sembra un omaggio al modo feroce in cui si può sentire il bisogno di
cultura in un luogo dove l’iniziativa culturale più in voga è “la sagra della polvere,
patrocinata da comune e regione ogni anno”97, con picchi di qualità come la mostra di un
falso figlio di Dalì e le periodiche processioni religiose.
Per creare delle alternative di vita che partano dalla cultura, bisogna estrarre da questa
idee la cui forza sia pari a quella della fame98. La forza e la violenza di queste idee dovrà
essere uguale e contraria a quelle del sistema cui si vogliono opporre, nel caso di
A. MILANO in S. PALMIERI, We’re not decorating the city, we just want to make shit happen, destabilize,
possibly destroy. Intervista ad Angelo Milano, nel blog «La rotta per Itaca»
92
A. MILANO in P. NGUYEN, S. MACKENZIE, op. cit.
93
Ivi
94
A. MILANO in S. PALMIERI, art. cit.
95
dal titolo del romanzo culto di Irvine Welsh Trainspotting tradotto letteralmente come guardare i treni
passare, ossia limitarsi ad assistere all'esistenza
96
A. MILANO in P. NGUYEN, S. MACKENZIE, art. cit.
97
A. MILANO in S. PALMIERI, art. cit.
98
A. ARTAUD, Il teatro e il suo doppio, op. cit.
91
41
Grottaglie, Angelo rende l’idea dicendo: “a me fanno schifo i nostri meccanismi politici
locali. Li leggo in rima baciata con mafie e mafiette già viste e denunciate altrove. La satira
verso la mafia è una carezza, a me piacerebbe prenderli a pugni questi stronzi. Poi c'è
che se non sei bravo a fare a botte usi armi diverse.” 99
7. Boris Hoppek, Grottaglie, Fame Festival 2011
Oltre alla fame di vivibilità, di alternative e di cultura a cui il Festival dà qualcosa da
mettere sotto i denti, l’idea di fame cui il nome rimanda, rispecchia anche il suo essere
nato come “un bisogno fisiologico”100. Questo aspetto lo rende affine, oltre che alla fame,
alla merda, come dice Angelo. Affermazione che può essere spiegata, giustificandone la
volgarità, citando il poeta della crudeltà Antonin Artaud, quando in Per gli analfabeti scrive:
“Non sono l'intelligenza o la coscienza ad aver fatto nascere le cose ma il dolore mistero
del mio utero, dei mio ano”101, descrivendo un approccio istintivo alla creatività che si
ritrova nel festival e nell’altrettanto istintivo approccio ad esso del suo organizzatore, che
non cerca di fare qualcosa di bello ma di far accadere qualcosa. Qualcosa che smuova,
A. MILANO in L. C. D’AMICIS, Angelo Milano è lui il colpevole del meraviglioso Fame Festival, in
tuttoilresto-noia.blogspot.com, 2010, 1 ottobre
100
A. MILANO in S. PALMIERI, art. cit.
101
A. ARTAUD, Per gli analfabeti, Stampa Alternativa
99
42
che faccia succedere altro, che faccia pensare: “we’re not decorating the city, we just want
to make shit happen, destabilize, possibly destroy.”102
Anche le modalità con cui viene realizzato il festival, le opere e i progetti che lo animano
sembrerebbero confermare una buona dose di fiducia in questa componente come
metodo per dar vita ad un evento di tale voracità, capace di portare dalla fame alla fame,
secondo termine, nonché punto d’arrivo, contenuto nel nome stesso del festival quando
questo venga letto privilegiandone l’aspetto cosmopolita a quello provinciale, ovvero
leggendolo in inglese.
Perfino la “spettacolarizzazione dell’evento è lasciata a se stessa e si autoalimenta” 103;
mediaticamente, rispettando la tradizione streetartistica, si appoggia quasi esclusivamente
alla rete. Il sito famefestival.it, curato dall’onnipresente Angelo, documenta i progetti con
video e foto. Per chiudere il cerchio, il curatore dichiara che “a Fame si premia la totale
assenza di tecnica, verso il preculturale”104, onde prevenire qualsiasi eventuale dubbio
sull’inclinazione punk del festival.
Al Fame si respira sia l’atmosfera do it yourself che l’influenza del think global act local,
queste formule sono fondamentali per cominciare a capirne lo spirito ma non vanno
interpretate come dei dogmi, poiché il festival procede senza seguirne alcuni. È la
semplice realizzazione di una potenzialità, in funzione della quale Angelo Milano si è
prestato a fare da fulcro per far confluire in quel preciso luogo, traiettorie dal quale
precedentemente era tagliato fuori.
“Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili.” 105
102
S. PALMIERI, art. cit.
A. COLAPS, art. cit.
104
A. MILANO in S. PALMIERI, op. cit.
105
I. CALVINO nella presentazione di Le città invisibili, Mondadori, Milano 1993
103
43
2.3 Immagina una città
Immagina una città in cui i graffiti non fossero illegali, una città in cui tutti potessero disegnare
qualsiasi cosa vogliono. Dove ogni strada fosse inondata di milioni di colori e piccole frasi. Dove
aspettare in piedi l’autobus non fosse mai noioso. Una città che desse l’impressione di una festa
aperta a tutti, non solo agli immobiliari e ai magnati del business. Immaginati una città così e
scostati dal muro, la vernice è fresca106
A Grottaglie i graffiti sono illegali e probabilmente i pochi autobus che passano sono in
ritardo, però c’è il Fame.
Il Fame è un festival in cui artisti internazionali provenienti da diverse parti del mondo sono
invitati in un piccolo centro del sud Italia per far reagire la loro arte con la realtà locale e
riversarla sui muri e nelle strade.
Ha all’attivo quattro edizioni, ma è stato anticipato da un esperimento, risalente all’anno
precedente la prima edizione. Di quell’esperienza Angelo racconta: “insieme ad alcuni
artisti che avevo invitato per lavorare a delle serigrafie nel mio laboratorio Studio Cromie,
abbiamo iniziato a fare un po’ di cose in giro per Grottaglie. In quell’occasione mi sono
reso conto che questa gente, proveniente da ogni parte del mondo, si innamorava di
questo posto, notava particolarità e potenzialità che gli indigeni ignoravano.” 107 Così nasce
l’idea di approfondire l’esperimento e vedere che effetti poteva avere sulla città e sul suo
“stato di abbandono materiale e culturale.”108
Il principio è semplice e dalla prima edizione nel 2008 non è cambiato: da fine aprile a fine
settembre con l’esca irresistibile del clima estivo della murgia e della cucina ormai
leggendaria della signora Gilda109, ogni anno tra i dieci e i venti artisti vengono attirati a
Grottaglie, dove trascorrono una residenza d’artista ospitati da Angelo e dalla sua famiglia,
che può durare da una a quattro settimane. Durante questo soggiorno ogni artista è
invitato ad utilizzare la città come supporto per le proprie opere, senza alcuna
autorizzazione istituzionale. Oltre a trovare ospitalità, buon cibo, mare, sole e l’intera città
da imbrattare, agli artisti viene offerta la possibilità di collaborare con gli artigiani locali
specializzati nella produzione ceramica e di utilizzare lo spazio e l’attrezzatura di Studio
Cromie110 per la stampa serigrafica. In questo modo, attraverso l’interazione diretta tra
l’arte contemporanea internazionale e l’artigianato tradizionale grottagliese, si producono
BANKSY, Wall and piece, L’ippocampo, Milano 2011
A. MILANO in G. CAFFIO Fame, arancini ed eterotopie, in architettisenzatetto.net
108
Ivi
109
La mamma di Angelo
110
Vedi il paragrafo 2.2 La mia non è voglia di qualcosa di buono, è proprio FAME
106
107
44
oggetti artistici in edizione limitata che vengono poi esposti e messi in vendita nell’ambito
di una mostra collettiva, che ad ogni edizione chiude la stagione dei graffiti a Grottaglie.
Quello che accade col Fame è che l’intera città viene coinvolta e sconvolta dalla presenza
di artisti che la abitano temporaneamente e che producono opere pubbliche con le
tecniche più diverse, dalla pittura murale alla bomboletta, che risulta quasi vintage se
accostata alle tecniche consacrate dalla Street Art di ultima generazione come il paste-up
e lo stencil fino ad installazioni tridimensionali e performance, per arrivare ad
un’esemplare forma di sintesi mediatica contemporanea come l’animazione su muro.
Questa parte del festival, costituita da interventi fruibili gratuitamente nello spazio pubblico
per tutta la durata, variabilissima, della loro esistenza, non prevede alcun pagamento e
non genera in forma diretta nessun tipo di guadagno. A questo compensa l’aspetto del
festival più artigianale. La vendita delle ceramiche e delle stampe a tiratura limitata e di
altri pezzi unici che avviene online attraverso Studio Cromie e nel contesto
dell’esposizione finale, costituisce la sola fonte di finanziamento dell’evento e di compenso
per gli artisti. Affiancare alle opere pubbliche e gratuite, la produzione di oggetti d’arte
commerciabili permette al festival di rinunciare ad ogni sponsor e appoggio istituzionale
vivendo di solo autofinanziamento. Questo sistema ne preserva l’indipendenza, quindi la
possibilità di affrontare nelle opere anche tematiche critiche spesso volte proprio a mettere
in luce i problemi e le mancanze derivanti dalle scelte dell’amministrazione locale.
La scelta dei luoghi, l’ideazione dei progetti e delle opere, è affidata agli artisti, che durante
la realizzazione sono affiancati dall’Angelo custode. Il suo ruolo è quello di una sorta di
mediatore, linguistico e non solo, tra loro e la città. È lui che li accompagna alla scoperta
del territorio, che si presta a fare da capro espiatorio qualora ci sia bisogno di un
responsabile per gli atti illegali che la maggior parte delle opere costituiscono, che fa da
traduttore dal grottagliese all’inglese per convincere i residenti a devolvere una parete alla
causa dell’arte di strada, per dare spiegazioni e scuse a coloro che tornano dal mare e si
trovano un’enorme rana dipinta di fronte alla finestra del soggiorno oppure un muretto in
meno e per trattare con le forze dell’ordine, oltre a prestare la sua manodopera per la
costruzione di impalcature e altri lavori manuali, come dare una mano a stendere il colore,
tutto per favorire la massima velocità di azione e tentare la fuga prima della parte in cui
entra in gioco il mediatore linguistico.
La mediazione però, non è solo volta a far andare la città incontro agli artisti ma anche il
contrario. Quando può e quando serve, Angelo cerca di indirizzarli a pensare i loro progetti
su scala locale piuttosto che utilizzare i muri di Grottaglie per riportarvi in scala disegni dai
45
loro sketchbook, pensati precedentemente e altrove, e a tenere in considerazione che le
specificità urbanistiche e sociali della realtà in cui intervengono, sono molto diverse da
quelle metropolitane su cui sono abituati a lavorare.
Al Fame si cerca di pensare i lavori osservando e vivendo gli spazi e le architetture di quel
luogo specifico, che ne raccontano la storia, la vita, tempi e drammi, perseguendo
l’obiettivo di riempire la città di opere che possano realmente funzionare e dialogare nel
contesto prima che globalmente, anche se il dialogo può essere conflittuale e la funzione
esplicitamente provocatoria.
Gli artisti che finora hanno partecipato appartengono allo stesso composito panorama
delle arti urbane, meglio noto come Street Art. Sono rappresentanti di un movimento
artistico contemporaneo forte e significativo, forse uno dei più vivi e quello che riesce,
molto più di altri, a comunicare anche al di fuori del circuito artistico specializzato. Pur
trattandosi sempre di opere che dialogano col contesto urbano e pubblico, il lavoro di
ciascuno di questi artisti rappresenta una sfumatura, risultante da attitudini e scelte
poetiche individuali oltre che da particolari inclinazioni attribuibili all’influenza dell’ambiente
culturale e dell’area geografica di provenienza. Finora più di trenta artisti sono intervenuti
sulla città, offrendo nel complesso un quadro piuttosto eterogeneo, che rende l’idea della
moltitudine di tendenze che si sono sviluppate sui muri dei centri e delle periferie Italiane,
Europee e Americane nell’ultima decina di anni, pur venendo tutti selezionati dal
curatore/organizzatore/ideatore/tuttofare del festival Angelo Milano: “gli artisti vengono
scelti in base a quanto mi piace quello che fanno e quanto senso può avere il loro lavoro
riportato in scala grottagliese.”111
Alcuni di loro, anzi i primi di loro, sono semplicemente amici storici di Angelo, provenienti
dallo stessa scena do it yourself italiana, dalla stessa rete di resistenza culturale,
all’interno della quale si sono influenzati reciprocamente in tutti i campi della creatività,
arrivando alla fine, solo contando gli uni sugli altri, ad avere ciascuno una certa
consapevolezza individuale e prospettive più ampie. Blu ed Ericailcane, il fenomeno più
punk che Angelo abbia mai toccato nel presente e nel passato, sono tra le tante persone
piene di talento che si poteva avere la fortuna di incontrare frequentando quell’ambiente.
Ad esempio Leonardo, aka Ericailcane, era il coinquilino bolognese di Angelo. Quando
quest’ultimo si è stufato di essere un grafico e ha deciso che era più divertente stampare i
disegni dei suoi amici, ha iniziato proprio da quelli di Ericailcane, le quali stampe, vendute
A. MILANO in S. PALMIERI, We’re not decorating the city, we just want to make shit happen, destabilize,
possibly destroy. Intervista ad Angelo Milano, nel blog «La rotta per Itaca»
111
46
a cinque euro o regalate, sono il primo ingenuo passo verso l’arte contemporanea della
premiata ditta Studio Cromie, DIY since 2006.
Il rapporto preesistente di amicizia e collaborazione con questi artisti, ha avuto come
conseguenza spontanea la loro presenza in prima linea al Fame Festival. Insieme a JR e
Lucy McLauchlan, Blu ed Ericailcane sono tra coloro che hanno partecipato e supportato il
festival fin dalla prima edizione, contribuendo a costruire con la loro solida presenza e con
le loro opere, l’immagine complessiva e la riconoscibilità dell’evento, che ha poi modificato
la città stessa, tanto che Angelo li considera elementi fondamentali al pari di se stesso,
senza i quali sarebbe stato difficile o diverso immaginare e creare una realtà del genere.
Tutti gli altri ospiti, con cui non ci sono precedenti, vengono contattati e invitati
semplicemente via mail: “è sempre una scommessa per un artista fidarsi di qualcuno
dall’altra parte del pianeta. Devono presumere che saranno provvisti di tutto ciò che gli
servirà per lavorare e non c’è alcuna garanzia per loro di come la cosa andrà a finire,
quindi è stata una fortuna che molti artisti abbiano deciso di fidarsi di me.”112
Con questa semplice formula, molte delle figure fondamentali della street art mondiale, nel
corso degli ultimi quattro anni hanno animato la città di Grottaglie, accettando volentieri le
“poche regole del festival.”113 Oltre a Ericailcane, Blu, Lucy McLauchlan e JR, si sono
avvicendati nel corso delle varie edizioni nomi come Vhils, Akay, Barry McGee, Boris
Hoppek, Brad Downey, Dem, Escif, Momo, Nunca, Os Gemeos, Sam3, Swoon e molti
altri, provenienti dall’olimpo della fame oppure più emergenti. In entrambi i casi hanno
contribuito ad ottenere il livello di qualità artistica incredibilmente elevato della
manifestazione, che riesce così a mantenere un contatto sia con la realtà underground
che con quella dell’arte ufficiale di elevata risonanza mediatica, in quella posizione di
equilibrio che riflette il lavoro di molti dei suoi partecipanti.
Angelo Milano “coinvolgendo le persone, portandole dentro il suo progetto folle di una città
dove ogni muro racconta una storia, ospitando gli artisti a casa della santa madre,
abbattendo muretti, innalzando impalcature e ponteggi, convincendo (spesso, ma non
sempre) le persone a prestare il muro di casa per un disegno, magari scalpellato
sull’intonaco annerito”114 ha creato il festival di Street Art su misura per Grottaglie. “This
town, were legality is a weird abstract idea and politicians are the first to only care about
112
A. MILANO in P. NGUYEN, S. MACKENZIE, Beyond the streets. The 100 leading figures in urban art,
Gestalten, Berlin 2010
113
A. COLAPS, Fame Festival 2011: tu su internet, noi a Grottaglie, in librarteria.com, 2011, 27 settembre
114
G. CAFFIO, Tutti al Fame in architettisenzaetto.net, 2010, 24 settembre
47
their own interests, couldn’t deserve a more appropriate event. an illegal, impro, fucked up,
punk parade.”115
Il Fame Festival è un ibrido tra un evento di arte pubblica e un ensemble di interventi
abusivi coordinati. È uno di quei luoghi in le distinzioni possono diluirsi, o al contrario
infittirsi dando luogo a riflessioni critiche senza fine. È uno di quei casi in cui anche il
termine Street Art lascia lo spazio che trova e in cui tra i disegni di Blu, le affissioni
fotografiche di JR, il bestiario da parete di Ericailcane, le ceramiche di Momo e Nespoon,
le performance di strada di Brad Downey e Akay e gli scarabocchi di Nug, l’arte lascia
cadere tutti i suoi prefissi e suffissi restando solo quello che è, e forse nemmeno quello.
The truth is that it just feels great to do what we really like to do, especially because we were never
asked to do it and it wasn’t supposed to be done at all, so you do your shit, somebody will point it
out as illegal, some other will call it art, but after all, legality has never been fun and art is just so
BORING when it’s so much “art” that it’s better to let others do the talking.
we don’t really give a fuck116
8. Boris Hoppek, Grottaglie, Fame Festival 2011
115
116
traduzione di una parte di un intervista rilasciata da Angelo Milano a Juxtapoz magazine non ancora edita
A. MILANO nel sito ufficiale del Festival, famefestival.it, 2011, 4 settembre
48
2.4 Fame and the city
9. Momo, Grottaglie, Fame Festival 2011
10. Momo, Grottaglie, Fame Festival 2011
49
L’effetto che il Fame ha avuto sulla città è stato di portata notevole. L’ha cambiata sotto
molteplici aspetti, anche se alcuni cambiamenti vorrebbero essere solo l’inizio di un
possibile percorso di presa di coscienza, recupero di memoria e consapevolezza, ripresa
economica e culturale. In questa prospettiva il festival riveste il ruolo di un suggerimento,
di uno stimolo, valido per Grottaglie come per tutti gli altri luoghi che sembrano essersi
persi, non riuscendo più a trovarsi nella mappa dell’impero globalizzato.
A Grottaglie il Fame Festival ha ricostruito e costruito una mappatura, che porta abitanti e
stranieri a ripercorrerne ed esplorarne le strade con una diversa e rinnovata attenzione
che. Questa una volta stimolata per la ricerca delle nuove opere, va inevitabilmente a
posarsi anche sul preesistente, che finalmente, visto sotto una prospettiva differente da
quella dominante, dettata dai percorsi della funzionalità urbanistica, può rivelarsi in tutta la
sua bellezza estetica e pregnanza storica, e nel suo abbandono, nella sua trascuratezza,
che non necessariamente si manifesta in forme visibili e che riguarda anche quei luoghi
degnati dell’attenzione delle varie valorizzazioni e riqualificazioni. Esemplare è il caso del
quartiere delle ceramiche di Grottaglie, che nonostante le cure e i riguardi sembra
scivolare costantemente in un oblio di monumentalizzazione e inutilità nel quale la vita
reale urbana non può raggiungerlo e dal quale a sua volta non può raggiungere la vita
reale. Il suo essere una città nella città diventa un male patologico nel momento in cui i
due luoghi non comunicano più e divengono alieni l’uno rispetto all’altro. Il quartiere delle
ceramiche di Grottaglie, oltre ad essere percepito dai locali come “un’ovvietà culturale” 117,
si trova così a trasformarsi in un’eterotopia rispetto alla città, come la definisce Angelo
citando Foucault. Un luogo che per la città rappresenta l’identità e la memoria, nel quale si
rispecchia e che la rappresenta ma che sembra appartenere ad uno spazio altro “con
regole specifiche per l’ingresso e la partecipazione alle proprie attività” 118, come un
cimitero, con la differenza che forse in un paese del sud Italia, il cimitero è più frequentato.
Alla realtà custodita nel quartiere delle ceramiche accedono solo i turisti e gli artigiani, e
nell’altra Grottaglie non vi è alcuna traccia che rimandi alla sua esistenza: “se ti muovi
attraverso gli altri quartieri non puoi sapere di essere nella città delle ceramiche, sembra
solo un luogo piuttosto squallido con la tipica, inguardabile, edilizia degli anni ’70.”119
117
G. ROMANO, Progetto Grottaglie, zerounogrottaglie.it
A. MILANO in G. CAFFIO Fame, arancini ed eterotopie, in architettisenzatetto.net
119
Ivi
118
50
Questa relazione eterotopica osservabile sul piano urbanistico, riconduce più in generale
alla relazione tra il passato e il presente per come viene vissuta in questo luogo, una sorta
di amnesia praticata attraverso la commemorazione che porta la vita e le economie
preindustriali, laddove non si estinguono, a continuare ad esistere e produrre solo in forma
autistica.
L’artigianato ceramico grottagliese è ancora vivo ed attivo, ma relegato prevalentemente
alla produzione di souvenir che, come dice la parola stessa, non lo porta ad uscire dalla
dimensione alienata del ricordo e che non lo rende abbastanza partecipe dell’economia
reale, per quanto assecondi e alimenti le fugaci forme di turismo.
Uno dei propositi del Fame è proprio quello di cercare di sanare questa ferita ricostruendo
il contatto tra il quartiere delle ceramiche e il resto della città, recuperandone lo smarrito
ruolo urbanistico ed economico, di “utilizzare come base un’attività artistica e artigianale,
consolidata nell’animo e nella storia di una città, ma in declino, innestandone su di essa
un’altra, contemporanea, con risonanza globale e che possa avere dei punti di forte
contatto con la prima.”120
Nel tessuto urbano, la traccia visibile e materiale del passaggio di quattro anni di festival è
costituita attualmente dalle settantacinque opere riportate sulla mappa dell’ultima edizione.
Esse creano un percorso e dei percorsi che attraversano le città e diventano una specie di
sutura che ne ricongiunge le varie parti. Quartiere delle ceramiche, centro storico, periferia
che è subito campagna e parte moderna e postmoderna, tornano parte dello stesso
tessuto, ricucite dai passi. Coloro che desiderano vedere le opere, si trovano a conoscere
ed esplorare Grottaglie in un modo diverso da quello consolidato nelle abitudini di residenti
e di turisti. Possono farsi trasportare dal caso in una deriva psicogeografica, seguire
fedelmente la numerazione delle opere riportata dalla mappa del festival come in una via
crucis che tra una stazione e l’altra vede nascere percorsi sempre diversi, oppure affidarsi
al più antropologico dei sistemi: chiedere per strada o farsi guidare attraverso la città dagli
indigeni. Così facendo si scoprono molte cose della relazione tra gli abitanti e il festival, ad
esempio che le sue opere si sono integrate nella geografia locale ben oltre la carta,
entrando a far parte di quella toponomastica orale e informale tipica dei piccoli centri,
capace di guidarti da un luogo all’altro senza mai utilizzare nomi propri ma solo punti di
riferimento. Tra questi ora a Grottaglie oltre alla classica chiesa, posta e il bar di quello che
aveva il figlio zoppo, figurano anche rane, torte, vari pennuti e naturalmente quel disegno
tutto pieno di brillantini.
120
A. COLAPS, art. cit.
51
Anche gli anziani grottagliesi, giunti alla quarta edizione, dopo l’iniziale fase di incredulità,
incomprensione e rifiuto si sono rassegnati, o hanno accettato il fenomeno, e spesso si
prestano volontariamente a guidare gli amanti della street art attraverso le strade a loro
tanto note, forse conservando segretamente la speranza di riuscire a catturare il segreto
che nasconde la loro enigmatica adorazione per quegli enormi disegni.
D’altra parte è impossibile non accorgersi che da quattro anni a questa parte il turismo di
Grottaglie è cambiato radicalmente. A quello tradizionale e prevalentemente regionale,
basato sul giro domenicale nel quartiere delle ceramiche con la variante invernale dei
presepi e quella estiva della gravina, se ne sovrappone un nuovo tipo.
Il nome della città delle ceramiche, noto quasi ed esclusivamente nei territori del Regno
delle Due Sicilie, dal 2008 in poi comincia a rimbalzare in qualunque angolo del globo
ospiti un appassionato di graffititi o di arte contemporanea dotato di connessione internet,
che altrimenti mai avrebbe ipotizzato l’esistenza di questo luogo.
“A Grottaglie iniziano ad arrivare persone che mai ci avrebbero messo piede prima,
l’economia riceve nuovi stimoli, la città nuova inizia a guardare a quella vecchia
ritrovandola attraente, ricordandone il valore e riconoscendone potenzialità.” 121
Il riconoscimento internazionale ricevuto dal festival è stato davvero ampio. Ha ottenuto
attenzioni dalla stampa nazionale e internazionale, di settore e generica. Studio Cromie,
corredato dal Fame, è l’unica realtà curatoriale italiana, insieme alla galleria Patricia
Armocida di Milano, a comparire tra le 100 leading figures in urban art122 selezionate per
un’importante pubblicazione tedesca, riconfermandosi uno dei più rilevanti eventi nel
settore su scala mondiale.
Questa benedizione mediatica e critica, insieme al derivante incremento del turismo, sono
stati elementi determinanti nel formare l’opinione pubblica locale sull’argomento. I
sentimenti dei cittadini e delle istituzioni locali, si sono evoluti dall’iniziale ostilità all’attuale
tolleranza, quando non addirittura approvazione, certamente a causa di un inevitabile
tempo di elaborazione e di valutazione delle conseguenze, ma anche e soprattutto perché
condizionati dalla legittimazione ricevuta dall’alto e soprattutto dall’estero.
Questa meccanismo rischia di reinserirsi proprio in quelle dinamiche di sudditanza e
devozione culturale ed economica verso un mitico altrove che affliggono Grottaglie, e che
il Fame rifugge e cerca di contrastare. C’è il pericolo di passare dall’odio basato sui
121
A. COLAPS, Fame Festival 2011: tu su internet, noi a Grottaglie, in librarteria.com, 2011, 27 settembre
P. NGUYEN, S. MACKENZIE, Beyond the streets. The 100 leading figures in urban art, Gestalten, Berlin
2010
122
52
pregiudizi e sulla mancata conoscenza ad un entusiasmo d’importazione senza mai
muoversi dal medesimo stato acritico, con il solo risultato di diminuire le potenzialità
comunicative dell’evento. Angelo infatti non trova affatto confortante l’acquiescenza che
recentemente sembra circondare il Fame: “ottenuto il consenso generale dalla stampa
locale, nazionale ed estera, il festival si è legittimato agli occhi di tutti e sembra che tutto
quello che facciamo sia bello e giusto. E serviva che ce lo venissero a dire dei pessimi
giornalisti a quanto pare.”123
In questo modo si interrompe la dialettica innescata con le prime edizioni, creando una
percezione distorta che lo fa apparire, tradendone profondamente la natura, come
qualcosa dagli intenti decorativi. Il Fame invece non vuole decorare, ma innescare
reazioni, far pensare, e questo può accadere solo se non viene inteso come una
scontatezza.
Angelo ha nostalgia dell’atmosfera della prima edizione in cui “la gente non sapeva cosa
stesse succedendo e offriva un repertorio di reazioni molto più divertente. Era bello che ci
fossero delle resistenze e dei contrasti, ed era bello il dubbio.”124 Il festival, come una tag
indesiderata, comparendo in uno spazio pubblico lo attivava in quanto spazio pubblico. A
differenza di molte altre presenze esteticamente discutibili che ingombrano il paesaggio
urbano, a cui come abitanti si è assuefatti, qualcosa che proviene dal basso e non dall’alto
crea una condizione di parità che permette all’abitante di sentirsi legittimato a svegliare dal
torpore il proprio senso critico, che potrebbe tornargli utile in altre occasioni.
Al di là della presenza di questa dinamica implicita, le opere realizzate nel contesto del
Fame sono spesso state volutamente molto esplicite nell’illustrare alcune questioni
consigliate per l’esercizio del senso critico individuale e collettivo. Preciso intento del
festival è proprio quello di portare alla luce problematiche di pubblico interesse sotto forma
di enormi disegni difficilmente ignorabili, che possano funzionare come promemoria per gli
autoctoni e come denuncia per chi arriva da lontano. Ne costituisce un esempio il murales
eseguito nel 2010 da Blu che serviva alla città, poggiata su un piatto tipico della tradizione
ceramica locale, un’enorme torta a strati geologici, ripiena di rifiuti 125, che con il suo
surrealismo quasi didattico, allude alla farcitura tossica con cui la classe dirigente
A. MILANO in S. PALMIERI, We’re not decorating the city, we just want to make shit happen, destabilize,
possibly destroy. Intervista ad Angelo Milano, nel blog «La rotta per Itaca»
124
A. MILANO in A. PURICELLA, Così ho portato a Grottaglie il meglio della street art, in larepubblicabari.it,
2011, 19 settembre
125
ora non più visibile, nel giro di un anno gli è stata costruita davanti una casa, alla faccia di chi dice che al
Sud sono lenti a costruire
123
53
grottagliese aveva da poco deciso di onorare i suoi cittadini, regalando loro una discarica a
sorpresa, ma molto migliore delle solite discariche perché contenente rifiuti d’importazione,
riconosciuta garanzia di qualità per i locali.
In molte delle sue declinazioni, la Street Art nasce come pratica artistica con una forte
carica antagonista e con una componente di impegno sociale che a volte è vero e proprio
attivismo. Da sempre si interroga e interroga sui modelli di sviluppo dominanti e sulle loro
conseguenze ambientali e sociali, e l’arte di Blu è il più noto e il migliore esempio di questa
sensibilità.
11. Blu, Grottaglie, Fame Festival 2010
54
L’impatto dei messaggi e delle funzioni di quest’arte però, rischia di essere neutralizzato
dal processo di istituzionalizzazione attualmente in corso, che tende ad un suo
appiattimento sui soli aspetti estetici, opportunamente assimilati in precedenza.
Gli stessi effetti si possono riscontrare nella realtà del Fame Festival laddove allo
spaesamento si sostituisce il riconoscimento globale e la relativa approvazione locale:
“ormai c’è solo consenso, e il potere comunicativo del festival si è ridotto a zero. Ai miei
compaesani direi: non vi accomodate anche sul festival, che da comodi si dorme meglio e
torniamo al punto di partenza.”126
Finora il Fame ha soddisfatto dei bisogni, ha colmato dei vuoti e ha cambiato il paesaggio
di Grottaglie. Il suo esercito di artisti di strada ha aiutato animali, piante, forme e colori ad
arrampicarsi su quasi tutte le pareti cieche della città nuova affacciate sui nuovi giardini
italiani, i giardini di nessuno che nascono in ogni ritaglio di terreno incolto tra una
costruzione e l’altra. Ha sospeso geometrie vuote nei geometrici ventri vuoti degli
incompiuti edilizi rivelando quanta assenza ci sia in certe presenze architettoniche. Ha
dialogato a volte sottovoce a volte gridando con la struttura urbana e con la storia di un
paese di un’ingrata ma luminosa terra. È penetrato nel suo cuore di tufo e pietra per
giocare nelle sue stradine ingarbugliate, nelle sue arterie lastricate di bianco e di nessuna
intenzione lasciandoci merletti, ritratti e peni stilizzati. Si è spinto fino al confine con la
campagna per violare già violati edifici abbandonati.
L’arte di strada contiene una piccola dose di violenza. Si tratta solo di colore quindi è una
dose omeopatica rispetto alle forme di violenza alle quali e dentro le quali cerca di reagire.
Violenze in forma di architettura, di economia, di politica, di sviluppo insostenibile, di
sfruttamento e di sottomissione degli uomini e della terra, lasciano tracce indelebili e
irreversibili anche se, a differenza dei graffiti, non figurano quasi mai tra le cause del
degrado.
Conservare una parte della violenza di quest’arte era una promessa del festival, e ora che
la fame è stata in parte soddisfatta, la sensazione di sazietà potrebbe rendere difficile
quest’intento ed indurre all’immobilità…
Ad ogni edizione il Fame si è evoluto ed è cambiato vivacemente, ma nonostante questo
oggi si interroga sul suo futuro, spaventato dalla leopardiana prospettiva che vede la noia
come stato successivo alla soddisfazione di un bisogno come la fame.
126
A. MILANO in S. PALMIERI, art. cit.
55
3.
FAME FESTIVAL ANNO PER ANNO
3.1 Duemilaotto
12. Ericailcane, Grottaglie, Fame Festival 2008
Correva l’anno duemilaotto quando la pacifica cittadina di Grottaglie veniva colpita dalla
piaga dei disegni giganti. Era la prima edizione del Fame Festival, tutto era improvvisato,
imprevisto e imprevedibile. Era ancora un esperimento e nessuno sapeva se la formula
avrebbe funzionato e cosa aspettarsi. I locali nel dubbio, come normale reazione a
qualunque invasione aliena, decisero di odiarlo.
Erano i bei tempi in cui era sufficiente un innocuo gallo alto dieci metri per scatenare l’ira
funesta delle istituzioni e della cittadinanza.
Tal pennuto della discordia, proveniva dal bestiario uno dei più noti sreet artist italiani ed
era l’opera pubblica non autorizzata che aveva deciso di dedicare a Grottaglie in quel
primo anno dipingendo, proprio nel quartiere delle ceramiche, l’animale tradizionale più
rappresentativo dell’iconografia decorativa della ceramica grottagliese127.
Uno stupendo video della realizzazione dell’opera si trova su Youtube col titolo Erica il Cane at FAME
festival
127
56
L’autore, Ericailcane, è colui che ai tempi dell’università, divideva la casa con Angelo,
mentre frequentava l’Accademia di Belle Arti e riempiva Bologna dei suoi disegni. Con la
precisione di un illustratore scientifico e una velocità impensabile, Ericailcane anima i muri
di ratti, conigli, volpi, scimmie, elefanti e una varietà di bestie che, evase da un manuale di
zoologia e indossate umane vesti, recitano le infinite scene di una commedia dolce,
poetica e a volte crudele.
L’immaginario di Ericailcane disegna una fiaba continua sui muri delle città, che riporta in
vita, o ritrae tassidermizzati in composizioni commoventi e inquietanti, gli animali del
Medioevo di Bosch e quelli del Rinascimento di Albrecht Dürer. Crea un surrealismo
urbano contemporaneo, un mondo assurdo che sembra frutto del lavoro oscuro “di
qualche perverso illustratore Vittoriano di libri per bambini”128, che trasmette un senso di
alienazione al mondo reale che in esso si specchia. Come in delle favole di Lafontaine
ambientate nell’epoca postmoderna e che hanno smarrito la loro morale, queste “creature
antropomorfe spesso funzionano da allegorie delle debolezze umane” 129.
Non ci è voluto molto perché il mondo dell’arte si accorgesse di questo cantastorie e lo
volesse come artista di corte. Ma lui continua a preferire fare il menestrello vagabondo,
facendo tappa di tanto in tanto in musei e gallerie e tornando sempre volentieri a eseguire
pezzi illegali, spesso collaborando con altri artisti e vecchi compagni di giochi come Blu. I
muri eseguiti in combo da questi due artisti sono stati un classico della Bologna degli anni
zero. L’accostamento degli animali umanizzati di Ericailcane e degli umanoidi
disumanizzati di Blu, amplifica ulteriormente l’effetto di spaesamento che i comportamenti
di questi grandi esseri bidimensionali hanno il potere di generare in chi li osserva.
Ericailcane realizza inoltre installazioni e sculture, gran parte della sua produzione è
costituita da disegni che in modo piuttosto naturale diventano stampe, rendendo la sua
arte fruibile anche in versione indoor. Questo artista è stato infatti protagonista di
numerose esposizioni dentro e fuori i confini italiani. In questi contesti il suo universo si
riproduce in una versione più intima, capace di creare sulle pareti degli gli spazi espositivi
grottesche maratonde130. Per questa loro particolare capacità di adattamento, le sue
opere, a partire da questa prima edizione, sono una presenza costante nelle esposizioni
collettive finali del Fame, oltre ad essere tra le più richieste stampe acquistabili attraverso
128
P. NGUYEN, S. MACKENZIE, Beyond the streets. The 100 leading figures in urban art, Gestalten, Berlin
2010
129
P. NGUYEN, S. MACKENZIE, op. cit.
130
Particolare tipo di girotondo praticato nel paese delle meraviglie, cfr. Alice nel paese delle meraviglie
57
l’online shop di studiocromie.org. La stessa attività di produzione e vendita di stampe
d’arte di Studio Cromie è stata inaugurata, come già detto, con suoi disegni, uno in
particolare potrebbe essere la numero uno di Angelo: “ero a Bologna, nella camera di
Ericailcane, con la sua prima stampa, un orso della serie del circo, e mi sono incantato
pensando a come sarebbe stato bello se avessimo potuto invitare una serie di artisti a
realizzare delle stampe da proporre alle gallerie – ai tempi ero ingenuissimo – o da
vendere su internet”131.
Ad ogni modo il suo gallo nel quartiere delle ceramiche non è stato apprezzato dai
grottagliesi e dall’amministrazione comunale. Per qualche motivo ancestrale e misterioso
la sua presenza è stata ritenuta talmente conturbante e fastidiosa che dopo pochi mesi il
murales è stato cancellato per mano istituzionale. Questo episodio è sufficiente a rendere
l’idea dell’ostilità e della diffidenza che i locali e i loro rappresentanti riservavano al festival
all’epoca. La realizzazione delle opere veniva osteggiata con ogni mezzo.
In quella prima edizione si trattava davvero dell’incontro ravvicinato tra due realtà
totalmente estranee e lontane, quella della Street Art e quella della Grottaglie delle
ceramiche dimenticate per la fila domenicale davanti alla snai132, che sprigionava tutto il
suo potenziale di assurdità, creando tutto un contorno teatrale che completava l’opera.
“Non c'è niente di strano in una cabina telefonica e ancora meno in una mandria di buoi. È
se le metti insieme ste due cose che il risultato è strano.”133
Chissà cosa avrebbero pensato coloro che si erano tanto scandalizzati per il gallo, di
quelle pulci a grandezza uomo realizzate dallo stesso artista quell’anno.
Ma per fortuna queste si aggiravano nelle stanze vuote e poco frequentate del monastero
abbandonato, divenuto nelle successive edizioni una tappa fissa per gli artisti del festival.
Il grandioso complesso conventuale dei Cappuccini, risalente al sedicesimo secolo,
domina dall’alto del suo abbandono la gravina del Fullonese, esempio del tipo di
paesaggio geologico che caratterizza di queste terre. Dato il totale disinteresse che dagli
anni Ottanta gli viene riservato, l’antico convento posto nell’immediata campagna ai confini
della città, è la classica location da sogno per chiunque voglia compiere qualsiasi tipo di
atto illecito, indisturbato e con una calma inimmaginabile all’interno dei confini dell’abitato,
e di conseguenza anche per megalomani creativi con molte idee e poche autorizzazioni.
131
A. MILANO in G: CAFFIO, Fame, arancini ed eterotopie, in architettisenzatetto.net
La SNAI è la società per azioni italiana che si occupa della gestione di scommesse
133
A. MILANO in Rico, Resoconto Fame festival. Due chiacchiere con l'organizzatore, in odelay.eu, 2010, 1
ottobre
132
58
Le sue stanze già violate da molti altri, con poche autorizzazioni e meno idee, offrono lo
scenario ideale per l’opera dell’artista Conor Harrington, nato anagraficamente in Irlanda e
artisticamente nel Writing, oggi pittore based in London. In una nicchia alla destra di un
altare che avrà visto più messe sataniche amatoriali del reverendo Manson in persona,
uno dei suoi generali in uniforme ottocentesca, decadente e gocciolante, osserva il cumulo
di rovine ai suoi piedi più o meno come in un quadro di Friedrich, ma con un tocco di
Johnny Rotten.
A (s)consacrare ulteriormente il monastero ci pensano Will Barras e Blu, con uno dei suoi
personaggi. Blu dipinge anche su un muro grigio e grezzo, che mostra senza veli tutta la
sua nudità edilizia, di quelli che così bene si abbinano ai suoi ritratti della (dis)umanità. In
città e quasi alla fine della città, emerge solo la testa bucata di uno dei suoi giganti
inquietanti. Probabilmente il resto del suo corpo è ancora seppellito là sotto134.
13. Blu, Grottaglie, Fame Festival 2008
Nel centro storico invece, una cornice vuota su di una parete viene trasformata in un
capitello bidimensionale dal brasiliano Ethos, che lì dipinge un gesucristo espressionista in
134
Video reperibile su Youtube http://www.youtube.com/watch?v=YgmgNSkHO4U
59
bianco e nero. Restando in bianco e nero, si attraversa l’Atlantico e si arriva ad un altro
ospite, JR. Il lavoro dello street artist francese è inconfondibile. È lui che ha introdotto l’uso
della fotografia nell’arte urbana. I suoi grandi, a volte enormi, paste up135 riproducono su
diversi tipi di superfici architettoniche, i ritratti fotografici in bianco e nero catturati da lui
stesso intorno al mondo, con sguardo antropologico e un’attitudine seriale ma ricca di
variabili. Una documentazione costante dell’umano che spesso si ferma più volentieri e più
a lungo alle periferie del mondo, che va a comporre un catalogo di volti ed espressioni che
rimanda alle serie di fototessere di Thomas Ruff e quelle in bianco e nero di architetture
industriali dei coniugi Becher, ma con più ironia. È una serialità che nel suo ripetersi
sottolinea le infinite differenze possibili, divenendo un elogio della diversità. Enormi volti d
guardano le città dai loro muri, come accade nelle affissioni pubblicitarie. A differenza dei
volti di queste ultime però, quelli di JR non provengono da un mondo perfetto e
irraggiungibile, bensì dalla realtà della strada, spesso proprio da quelle stesse strade sulle
quali si affacciano, come una campagna pubblicitaria che abbia come oggetto la
condizione umana reale, spesso con la funzione anticonvenzionale di ricordarne le miserie
proprio laddove si cerca di dimenticarle. Celebri interventi sono i suoi ritratti di israeliani e
palestinesi affissi lungo il muro della West Bank o quelli di donne africane sui tetti delle
baracche in uno slum di Nairobi, in Kenya.
A Grottaglie l’artista-fotografo francese realizza un progetto site specific. Un trittico di foto
scattate a tre volti di grottagliesi, sviluppa il tema della trinità omertosa del non vedo, non
sento, non parlo e ciascun pezzo è collocato in un contesto diverso. L’uomo che interpreta
il non sentire è il ceramista più anziano della città, maestro Catavto, che nei suoi
sessant’anni di esperienza ha lavorato in tutte le botteghe, e il cui viso segnato dal tempo
diventa il soggetto del paste up di JR accanto all’ingresso di un centralissimo laboratorio
del quartiere delle ceramiche. Il non vedere invece lo si ritrova affisso su una porta in
legno, scardinata e collocata all’interno dell’esposizione finale, accanto ad un’opera di
Lucy McLauchlan in cui volti femminili incastonati in un motivo fitomorfo, ancora una volta
in bianco e nero, sembrano evaporare da un vaso leggeri come bolle, nonostante siano
ben impressi sulla superficie ceramica.
Questa prima edizione del festival vedeva una ricca mostra di chiusura, in cui trovavano
spazio oltre a numerosi disegni di Ericailcane e Blu, alcuni lavori di Ethos, sbalorditiva
prova di quello che sembrerebbe impossibile fare con una biro e invece a quanto pare è
Termine di uso internazionale con cui nell’ambito della Street Art si definiscono opere realizzate mediante
affissioni cartacee su muro o altre superfici, dall’inglese to paste up, incollare su.
135
60
possibile, una serie di ritratti di spalle eseguite dal musicista fumettista Alessandro
Baronciani e lavori degli artisti di area anglosassone figli della spray can Sick Boy e
Above. Quest’ultimo, affezionato dello stencil, più che per il suo nome è noto per il suo
logo-tag, l’icona di una freccia puntata verso l’alto, cimelio della grafica dei videogiochi
bidimensionali che hanno cresciuto la generazione a cui appartiene, esposto e incorniciato
nel contesto di questa mostra.
Questa prima edizione è stata probabilmente meno elaborata e ricercata rispetto alle
successive, c’era molto disegno, pittura e molte stampe serigrafiche. Era in un certo senso
forse più artigianale, ma alla parte performativa provvedevano i grottagliesi più o meno
influenti, con le loro reazioni alla comparsa delle opere: gente smarita, gente incuriosita,
altra che gridava o piangeva, qualcuno che dava una mano e qualcuno che per ordine del
comune, faceva sparire le impalcature per dipingere col favore delle tenebre.
Tutta questa attenzione da parte dei locali oltre a rendere le cose più difficili, e per questo
magari anche più divertenti, permetteva al festival di comunicare loro in modo forte e
diretto. È stato l’anno in cui il festival ha fatto più rumore, e in questo rumore ha avuto la
possibilità di spostare l’attenzione dei locali sui problemi della loro città, spesso causati
dalla stessa amministrazione che lo osteggiava fortemente.
14. JR nel quartiere delle ceramiche
16. Conor Harrington
15. Ericailcane al monastero abbandonato
17. Ethos
61
3.2 Duemilanove
18. Ericailcane, Grottaglie, Fame Festival 2009
È il secondo anno per il ristorante della Fame. Angelo ha sperimentato che la cucina
tradizionale di sua mamma Gilda è efficacissima per attirare artisti, soprattutto quelli
provenienti dal “terzo mondo culinario”136, così la rosa dei partecipanti si allarga. Il nome
del festival inizia a fare il giro del mondo e a raccogliere riconoscimenti all’estero, anche se
paradossalmente Grottaglie conserva ancora una certa perplessità nei suoi confronti.
Coloro che hanno già partecipato sanno come funziona e conoscono l’atmosfera, che
nella maggior parte dei casi piace particolarmente, perché per molti rappresenta un ritorno
alle origini, ai tempi in cui lavoravano illegalmente, e perché la cittadina pugliese per la sua
conformazione architettonica offre un’invidiabile abbondanza di spazi ibridi e privi di
funzione che si prestano ad essere modificati esteticamente dagli interventi artistici degli
ospiti che, data anche la ridotta presenza di altre immagini nel suo panorama visivo,
sembrano avere qui un impatto maggiore rispetto a quello che avrebbero nel contesto
iconograficamente saturo di una metropoli, fast food culturale in cui l’indigestione di stimoli
è il menu quotidiano di abitanti e visitatori occasionali.
136
A. MILANO in A. PURICELLA, Così ho portato a Grottaglie il meglio della street art, in larepubblicabari.it,
2011, 19 settembre
62
Il menu del Fame di quest’anno invece, ripropone le specialità della casa di Ericailcane e
Blu e vi aggiunge un altro piatto tipico italiano, Dem. I tre appartengono alla stessa
generazione di artisti che ha attuato nell’ambito dell’arte di strada più recente “il ritorno di
una retorica narrativa, raggiunta attraverso il ritorno alla figurazione” 137, rappresentando
l’approdo dell’evoluzione dei linguaggi urbani, che dal Writing, passando per le prime
icone sintetiche come la paperella Pea Brain di Cuoghi e Corsello, porta a quello stile che
rimanda alle grandi tradizioni del muralismo, come quello “messicano degli anni Trenta” 138,
che oggi in qualche modo sembra accomunare il lavoro di molti artisti attivi in paesi
ispanofoni e sudamericani e quello di molti italiani.
Tra Blu, Dem ed Ericailcane ci sono state numerose e differenti combinazioni di
collaborazioni in passato, che spesso si sono materializzate sulle pareti di edifici occupati
e autogestiti italiani. Su questi muri si accostavano i loro stili ad altissima compatibilità e le
loro creature, capaci di contaminarsi e completarsi reciprocamente conservando le
particolarità stilistiche e poetiche personalissime di ciascuno di loro. Quelle di Dem creano
un’iconografia fatta di ibridi e mostri portati in vita attraverso eleganti sintesi graficocromatiche. A Grottaglie crea una scena di caccia di un sofisticato neoprimitivismo,
interpretata da esseri impossibili che cercano di catturare un enorme creatura mitologica
tra il canide, la papera e il pesce. Ambientata tra le saracinesche di una spartana struttura
architettonica di cui i colori e linee curve del dipinto compensano il grigiore e l’ortogonalità.
Dem, come molti suoi coetanei artisti e non, ha un’innata attrazione per i siti archeologici e
gli edifici risalenti all’era dello splendore industriale occidentale, come le fabbriche
abbandonate. I figli dell’epoca postmoderna amano animare il vuoto di questi luoghi un
tempo destinati alla pura funzione, con atti estetici altrettanto puri come la danza o la
pittura. Vi è un rapporto privilegiato tra questi rifiuti architettonici e questa generazione di
artisti. Essi sembrano avere una naturale predisposizione al riciclo e alla ricerca dei luoghi
più favorevoli al proliferare della vita organica e della biodiversità. Come dei sopravvissuti
costretti a ritornare primitivi, decorano con i loro graffiti quelli che sembrano già essere i
presagi della fine di questa civiltà e le ipotesi dell’inizio di una nuova. I loro dipinti cercano
le strutture che sintetizzano il razionalismo modernista, talvolta degenerato e delirante, per
risalirne le pareti come rampicanti e riportare a quelle creazioni umane, la componente
rimossa organica e biologica indispensabile alla vita.
L. GIUSTI, Dall’insurrezione mediante i segni alla battaglia del meme in F. NALDI (a cura di), Do the right
wall, Mambo, Bologna 2010
138
F. NALDI, La mia strada continua e vive oggi più di prima. Il Writing a Bologna dalla fine degli anni
Settanta a oggi in F. NALDI (a cura di), Do the right wall, Mambo, Bologna 2010
137
63
Scena funebre per Ericailcane: una lunghissima processione di pennuti vestiti a lutto sfila
lungo le pareti esterne dello stadio, celebrando la morte del pollo giustiziato l’anno
precedente. Dal suo stesso cappello salta fuori anche un enorme coniglio.
Presagio nefasto a tema apocalisse ambientale invece per il masterpiece di Blu. Su una
parete piuttosto drammatica di per sé, questo poeta del muro crea un paesaggio trompe
l’oeil grigio almeno quanto il suo sfondo che non ha bisogno di ritocchi per diventare un
cielo pesante come il cemento, nel quale una distesa di volti umani si rivolgono per
rovesciarci dentro nuvole nere respirando dalle loro ciminiere (fig. 4, p. 32).
Blu è un artista viaggiatore, le sue opere risentono sempre degli stimoli che gli dà il luogo
in cui dipinge attraverso i suoi spazi, i suoi racconti e i suoi abitanti. Come dice l’artista
stesso “I’m often influenced by the stories I’ve heard about the place where I’m
working”139. Ha anche un forte rapporto con le strutture architettoniche sulle quali lavora,
che ama cercare e scegliere, sulle quali i suoi disegni sembrano attaccarsi come piante
parassite succhiandone e raccontandone la vita che hanno assorbito, “his inspiration
stems from a need to create that is stifled by domestic walls, and from the sheer pleasure
of visually transforming ordinary and decayng buildings.”140. I suoi paesaggi e i suoi
androidi paranoici nascono da un immaginario che volutamente si lascia condizionare
dalle circostanze come dagli eventuali collaboratori
Il mondo cyberpunk di Blu racconta spesso di drammi ambientali e sociali, illustrando le
dinamiche politiche ed economiche che governano il nostro mondo che si riproducono dal
globale al locale, e dal generale al particolare senza cambiare aspetto. Blu dice che la sua
ispirazione proviene dai luoghi in cui lo portano i suoi viaggi, quindi se alcuni temi sono
ricorrenti è perché ricorrono in molte delle realtà con cui si confronta. Qui a Grottaglie
parla di inquinamento perché l’inquinamento parla con prepotenza a questa città e ai suoi
abitanti. La rilevanza attribuita a determinate problematiche da lui percepite e restituite
come vitali, deriva da una sua particolare sensibilità ma è riconducibile anche alla
prospettiva con cui guardava al mondo il cosiddetto attivismo politico degli anni novanta.
Quello che cercava di ripensare le attività umane in versione sostenibile in assoluto,
affrontando contemporaneamente gli aspetti ambientali, economici e politici, ritenendoli
parte di un unico problema sistemico di fondo, quello che Blu rende disegno e racconto.
“Le sue pitture murali muovono una critica aperta al consumo, alla finanza, alla
139
BLU in P. NGUYEN, S. MACKENZIE, Beyond the streets. The 100 leading figures in urban art, Gestalten,
Berlin 2010
140
P. NGUYEN, S. MACKENZIE, op. cit.
64
speculazione, allo sviluppo insostenibile. Forse più di ogni altro artista abusivo della sua
generazione, Blu ha saputo aggiornare la propria vocazione creativa, il proprio stile, ai
modi e ai tempi della globalizzazione, mantenendo intatti alcuni dei caratteri fondanti lo
spirito eversivo che aveva mosso le prime forme di Graffitismo. ”141
L’arte di Blu si distingue tra le infinite forme e colori che possono appiccicarsi ai muri delle
nostre città per l’immediatezza con cui riesce a comunicare socialmente senza perdere
poesia. Il potere comunicativo della sua retorica riesce a insidiare lo strapotere detenuto in
questo campo dalla pubblicità con enunciati dai contenuti sovversivi. Anche in questo caso
si può far riferimento a quella consapevolezza politica di cui si è detto, di cui molta Street
Art è imbevuta, che fa del culture jam uno dei principali strumenti di opposizione al sistema
vigente. Blu è uno dei molti artisti che non sono estranei all’uso di questa tecnica che
consiste nel creare delle interferenze culturali all’interno della comunicazione di massa
introducendovi messaggi volti a rivoluzionarla, sebbene i codici visivi del suo linguaggio
non siano mutuati direttamente da quell’universo ma da un universo parallelo e interiore,
che però trae nutrimento da quello reale.
Sarà forse anche grazie alla semplicità delle forme, che le immagini di Blu riescono a
comunicare con una tale intensità, complice anche l’imponenza fisica delle sue creazioni.
Per assecondare la sua attitudine al gigantismo, l’artista ha abbandonato le tecniche che
utilizzava agli inizi del suo percorso artistico. Nel suo passato infatti c’è un “traditional
spraycan graffiti background”142, dal quale Blu si è evoluto sviluppando il suo personale
linguaggio espressivo rimanendo fedele al contesto. Per realizzare i suoi enormi murales
ora Blu utilizza rulli e pennelli, spesso provvisti di lunghissimi bastoni che diventano le
protesi delle sue mani nel realizzare disegni ciclopici. Le costose e tossiche bombolette,
invece, sono sostituite da colori fatti in casa, per ragioni economiche ed ecologiche, a
riconferma della particolare attenzione riservata dall’artista a determinate tematiche.
È già di per sé affascinante e interessante osservare nei video il processo generativo delle
opere di Blu, che nel susseguirsi accelerato di svariate albe, tramonti e notti, porta al
risultato finale, ma lui ha iniziato a spingere più in là la sperimentazione sulle possibili
interazioni tra pittura murale e video. È stato uno dei primi ad applicare la tecnica dello
stop motion e dell’animazione, a disegni realizzati su parete, creando come esperimento il
corto MUTO a wall-painted animation143, record di visualizzazioni su Youtube. Anche nel
L. GIUSTI, Dall’insurrezione mediante i segni alla battaglia del meme, op. cit
Ivi
143
il video è visibile su Youtube con il titolo MUTO a wall-painted animation by BLU
141
142
65
contesto di questa edizione del Fame, Blu realizza un’animazione su muro, in
collaborazione con il poliedrico artista newyorkese David Ellis. Lo stile grafico e di
quest’ultimo si combina con quello dell’artista italiano nel video prodotto da Studio Cromie
Combo144, in cui le creature dell’uno rincorrono quelle dell’altro sui pavimenti, sui muri,
lungo le scale, le grondaie, i ballatoi, dentro e fuori le finestre, del monastero abbandonato
coinvolgendo tutta la sua architettura in una folle corsa, la cui fine si ricongiunge al
principio in un loop che non ha una conclusione ma che tende all’opera d’arte quasi totale.
In Combo dalla quasi monocromia di Blu sgorgano i colori di Ellis, in un flusso che va a
rendere animata la struttura dando vita agli elementi derivati dalla sua decadenza
utilizzandoli come elementi complementari ai disegni, spingendo ancora un passo uno più
avanti la sperimentazione multimediale.
Lo stesso monastero abbandonato, quell’estate, oltre a essere posseduto dall’opera video
di David Ellis e Blu, viene visitato da Sam3. L’artista spagnolo lascia qui una delle ombre
della sua collezione, in cui una grande figura umana siede su tanti piccoli equilibristi e sui
loro monocicli. Le altre sue opere sono da cercare nel centro abitato. Le si distingue
perché sono quasi sempre prive di colore e di particolari, sono solo profili di delle
presenze, silhouettes che restano sui muri delle città per assorbire con la loro ambiguità le
interpretazioni, i sogni e le paure di chi guarda, diventando metafore e figure retoriche di
una poesia o di un incubo ogni volta diverso.
Un’altra artista il cui stile è contraddistinto dall’uso monocromo della pittura è l’inglese
Lucy McLauchlan, i cui motivi decorativi fitomorfi sembrano ben predisposti a posarsi con
eleganza su qualsiasi superficie o a riempire qualsiasi sagoma, forse memori di quelle Arts
and Crafts del suo connazionale William Morris. Questa volta sono due uccelli, forse
madre e figlio, che si sono posati sui due lati adiacenti del parallelepipedo perfetto di una
torretta elettrica alla periferia di Grottaglie. Senza parole lasciano sentire un dialogo muto
creando una di quelle immagini a cui, se cadesse nelle mani di un bambino, probabilmente
verrebbero aggiunti dei fumetti.
Lo stesso tipo di edificio diventa il supporto dell’opera del conterraneo Conor Harrington,
anche lui al secondo giro al Fame, come Lucy e quasi tutti gli artisti elencati finora, i cui
interventi nello spazio pubblico sono peraltro accomunati dall’essere ciascuno una
variante del medesimo tipo di intervento, la pittura su muro, fatta eccezione per Combo
che è un’opera più composita ma in cui comunque questa tecnica ha un ruolo centrale.
144
Il video è visibile su Youtube con il titolo COMBO a collaborative animation by Blu and David Ellis (2 times
loop) al link http://www.youtube.com/watch?v=uad17d5hR5s
66
In questa seconda edizione, il Fame Festival è collaudato e in un certo senso più solido, e
lo scorcio della realtà artistica che rappresenta si apre alla presenza di una maggiore
quantità di differenti media, impiegati nella realizzazione di interventi pubblici e urbani,
offrendone nel complesso un quadro più composito.
Ne sono esempio le opere di una presenza inedita come Vhils. Questo artista originario di
Lisbona, al secolo Alexandre Farto, ha avuto la prima esperienza con i Graffiti a tredici
anni ed è diventato, giovanissimo, uno degli street artist più celebri e richiesti a livello
internazionale, noto per aver sperimentato mezzi e tecniche nuove nelle sue opere, come
quella che utilizza per eseguire un dettaglio di ritratto sul muro di un antico edificio nella
piazza principale del centro storico di Grottaglie. Incidendo l’intonaco annerito fino a
rivelarne il bianco originario, Vhils scolpisce il chiaroscuro che definisce i tratti di quel
volto. Lui fa parte della generazione di artisti che hanno assimilato l’evoluzione delle
pratiche artistiche urbane quando essa era già in una fase molto avanzata e presentava
un livello di complessità altissimo, una varietà e vastità sconfinata di tipi di interventi, di
possibilità di contatto con le istituzioni artistiche e il mercato, di tematiche e di tecniche,
ora entrate a tutti gli effetti a far parte del vocabolario quotidiano dell’arte di strada.
Oggigiorno la fase di quantificazione è talmente spinta e l’assimilazione di questi linguaggi
è così completa, che si può arrivare a percepire questo panorama come saturo e a
pensare di essere entrati in una fase manierista della sua parabola, in cui un largo
margine della possibilità di stupire è affidato a virtuosismi ed effetti speciali.
La poetica di coloro che operano ora all’interno di questo già ricco panorama, spesso può
essere caratterizzata, non per scelta ma per circostanza, da una minore dose di idealismo,
alla quale però fa da controparte una fortissima consapevolezza delle contraddizioni, dei
limiti e del potere della loro arte, che li porta ad avere con essa una confidenza
disincantata, che a volte può risultare anche cinica, e ad avere una grande padronanza
delle capacità tecniche e retoriche che utilizzano, affrontando la difficoltà di confrontarsi
con un pubblico sempre più abituato a questi linguaggi, quasi assuefatto, e difficile da
meravigliare.
Si può arrivare così ad un sofisticato citazionismo di secondo grado, in cui si rielaborano
tematiche e tecniche importate nel campo della Street Art da settori diversi in una fase
precedente, proseguendo con la sperimentazione. Questa evoluzione talvolta può rendersi
evidente anche nel percorso di un singolo artista, qualora la sua attività sia stata
abbastanza lunga da attraversare più di una generazione di queste pratiche.
67
È il caso di Word to Mother, altra presenza inglese al Fame, che inizia facendo Graffiti e
che dopo numerose sperimentazioni pittoriche su diversi supporti, arriva a concepire lavori
come le serie di scritte mother. Una di queste si trova all’interno del monastero
abbandonato. Si tratta di una sorta di tag in negativo, ricavata da una campitura
monocroma intagliata in modo tale da rivelare porzioni della superficie sottostante, a
formarne le lettere che la compongono nella materia grezza del muro vissuto e magari già
scritto.
19.
20.
Slinkachu, Grottaglie, Fame Festival 2009
L’artista Londinese Slinkachu, che in questa edizione porta in vacanza a Grottaglie il suo
Little people project, nasce nel 1979. Ci sono una decina di anni a separarlo da Vhils ma
anch’egli è stato ideatore di una formula assolutamente inedita di intervento urbano. Si
tratta di microinstallazioni raffiguranti esseri umani intenti nelle più diverse attività, che
hanno come ambientazione scorci di strada visti da una prospettiva ravvicinatissima.
Destinati ad avere un’aspettativa di vita direttamente proporzionale alle loro dimensioni,
l’esistenza e le attività di questi cittadini lillipuziani viene documentata da fotografie. Esse
sono una parte complementare del lavoro di Slinkachu, anche perché contribuiscono a
creare un’effetto di spaesamento proporzionale, dal momento che riportano le piccole
persone alle stesse dimensioni di esseri umani rimpiccioliti da una fotografia.
Analogo tema per le installazioni di Mark Jenkins, statunitense di Washington145, ma
stavolta le presenze umane sono a grandezza naturale. Queste controfigure iperrealistiche
si inseriscono nel fluire delle attività quotidiane riproducendo comportamenti alienati,
insoliti, pericolosi, preoccupanti, borderline e antisociali, che possono spiazzare ma anche
passare inosservati confondendosi tra le molte versioni reali degli stessi. Sono pensati per
stimolare e cercare un dialogo con gli abitanti delle città, per cercarne l’attenzione in modo
145
D.C.
68
quasi disperato. I fantocci di Jenkins catturano lo sguardo dei passanti meno distratti
inscenando situazioni estreme che richiederebbero il loro aiuto. A Grottaglie egli sistema
uno dei suoi stuntman posticci appeso al terrazzo di un edificio che si affaccia sulla piazza
principale, più in bilico di un cesto di frutta metaforico dipinto da Caravaggio, seminando il
panico tra anziane donne preoccupate per la vita del giovine. L’installazione è durata tre
giorni, dopodichè al proprietario dell’immobile è stato chiesto di rimuoverla onde evitare
una denuncia per procurato allarme.
In questa edizione sono presenti anche la statunitense Judith Supine, che realizza alcuni
dei suoi paper monster, collages realizzati direttamente sui muri con immagini prelevate
da riviste e affissioni, e il norvegese Dolk. Quest’ultimo utilizza la tecnica dello stencil,
divenuta celebre attraverso l’opera di Banksy, che consiste nel realizzare i disegni
mediante l’uso di mascherine sagomate preparate in precedenza, attraverso le quali
applicare il colore. Si ottengono così delle immagini di facile lettura ed esecuzione,
replicabili all’infinito con poca difficoltà.
Dolk realizza, oltre ad un enorme disegno su muro raffigurante un bambino-bandito col
volto coperto da una bandana di winnie the pooh, una serie limitata di stencil su carta e
legno destinati alla vendita. Anche quest’anno infatti ciascuna artista ha il compito di
creare anche delle opere mobili che possano essere esposte nella mostra finale ed
eventualmente vendute, dividendo il guadagno con l’organizzatore.
21. Dem
23. Blu e David Ellis al lavoro per Combo
22. Vhils
24. Sam3
69
25. Mark Jenkins
27. Judith Supine
26. Sam3
28. David Ellis per Combo
70
29. Lucy McLauchlan
30. Dolk
31. Vhils
71
3.3 Duemiladieci
32. 108, monastero abbandonato, Grottaglie, Fame Festival 2010
In questo terzo anno le cose cominciano a cambiare. La fame del festival ha fatto il giro
del mondo nei due anni precedenti, e dopo aver fatto il giro del mondo sembra aver
raggiunto, infine, anche Grottaglie. La line up di quest’anno è ricchissima, internazionale,
variopinta e ricca di novità. Le opere sono moltissime e non meno stupefacenti di quelle
delle precedenti edizioni, ma l’atteggiamento dei locali è profondamente cambiato. Una
volta assimilata l’approvazione che sembra circondare l’evento, sembrano ora disposti ad
accettare quasi qualunque cosa. Ogni atteggiamento ostile è scomparso, per lasciare
spazio nel peggiore dei casi all’indifferenza. Questo permette gli artisti di avere maggiore
libertà di azione e di agire indisturbati. Rendendo il lavoro più facile, forse fin troppo e
rischia di compromettere il raggiungimento dello scopo principale del festival: comunicare,
soprattutto a livello locale. Come spiega Angelo “adesso possiamo fare quel cazzo che ci
pare. Ne hanno giovato le logistiche ma è calato il mordente e sicuramente il
divertimento.”146
146
A. MILANO in A. PURICELLA, Così ho portato a Grottaglie il meglio della street art, in larepubblicabari.it,
2011, 19 settembre
72
Questa approvazione/assuefazione ha permesso di realizzare una grande quantità di
opere, ma diventa deleteria nel momento in cui attraverso delle opere create in questo
contesto, si cerca di fare della denuncia sociale, uno degli intenti principali dell’evento.
Ne è un esempio l’opera di quest’anno di Blu (fig. 11, p. 54). La sua torta multistrato di
rifiuti contiene una pesante ed esplicita critica alle scelte della classe dirigente cittadina e
alla sua recente scelta di reinvestire nel business dei rifiuti per far girare l’economia, a tal
proposito l’organizzatore ci tiene a sottolineare che “il festival contribuisce a denunciare
questo scempio, io trovo che artisti dotati di così tanto talento hanno una possibilità unica
e irripetibile di attirare l’attenzione.”147 Eppure in questo caso le reazioni sono state
pressoché nulle se paragonate al parapiglia scatenato dal famigerato pollo disegnato da
Ericailcane nel corso della prima edizione.
Certo, oltre ad aver risentito dell’influenza dell’ondata di giudizi positivi provenienti
dall’esterno, l’opinione pubblica locale ha subìto questo cambiamento anche perché
probabilmente ha realizzato che tutto sommato le opere non avevano un potere nocivo
così forte sulle vite dei cittadini, e ha preso atto invece delle implicazioni positive che il
festival aveva comportato per la città stessa, in termini culturali ed economici.
Forse è stato un graduale prendere confidenza, e forse ora c’è davvero qualcuno tra
coloro che erano diffidenti, che questi grandi disegni ha iniziato ad apprezzarli, ma forse
ancora in pochi si preoccupano di interrogarsi sul loro significato.
Per la primavera estate duemiladieci, Angelo ha invitato a far visita a Grottaglie un
sostanzioso contingente di artisti provenienti dal Sud America, landa vivacissima e
prolifica per quanto riguarda la Street Art complice una tradizione importante e una
regolamentazione molto aleatoria. Gli artisti di strada sono degli uccelli migratori, sempre
in cerca di un clima accogliente per deporre le loro opere, e una delle mete preferite delle
loro migrazioni stagionali, è proprio questa zona. Blu stesso la visita costantemente, come
racconta Megunica148, il film di Lorenzo Fonda che documenta un suo itinerario in America
Latina. Per questo Fame invece, sono Os Gêmeos, Nunca e Bastardilla a svernare
nell’emisfero settentrionale, portando sui muri di Grottaglie le loro variopinte opere e
trovando in questo luogo più di un’assonanza architettonica con le loro terre d’origine,
accomunate dalla dominazione spagnola e da un’edilizia postindustriale poco pianificata.
147
A. MILANO in R. FANO, Street Art, il Fame festival tra artigianato e polemica, in blog.panorama.it, 2011,
19 aprile
148
Megunica, Lorenzo Fonda, Italia, Mercurio Film, 2008
73
Bastardilla, colombiana di Bogotà, in soli dieci giorni lascia una scia di disegni luccicanti
che trasformano le superfici di edifici della città antica e di quella nuova, e realizza una
serie di stampe serigrafiche. Il suo lavoro combina spray e vernici ed è completato da un
tocco di magia povera, ottenuto con l’applicazione di una polvere glitterata su alcune aree
del disegno, che in questo modo riflettono la luce. Le figure umane da lei dipinte sono
dolci, aggressive, tragiche, cariche di espressività e decorative al tempo stesso. Spesso
sono ottenute riempiendo gli spazi con moduli sintetici, che ricordano le fantasie dei
tessuti. Seguendo le sue tracce brillantinate ci si può far condurre in un mondo che ha un
che di atavico, in cui una voce femminile racconta una storia antica ed eterna quanto la
vita.
33.
34.
Bastardilla, 33 Pàjaro, 34 Calavera, stampe realizzate per Studio Cromie nel corso dell’edizione del 2010 del
Fame Festival
Un’altra invasione proveniente dal Sud America, è quella di alcuni individui dall’incarnato
giallo. Si tratta del popolo dei muñecos149 che nasce dalle bombolette spray dei gemelli
Brasiliani Otàvio e Gustavo Pandolfo, in arte Os Gêmeos, che ha iniziato a comparire sui
muri del loro quartiere di San Paolo per poi continuare le sue scorribande nelle città e nelle
gallerie di tutto il mondo su quasi ogni tipo di superficie. Questi artisti sono stati i “pionieri
del movimento graffitista brasiliano della metà degli anni Ottanta” 150 e in seguito hanno
sviluppato il loro personale linguaggio che va a costruire un colorato immaginario surreale,
in cui vengono catapultate scene di vita quotidiana e ritratti che costituiscono una “cronaca
socio-politica del folklore e della cultura popolare brasiliana.”151
149
pupazzi
P. NGUYEN, S. MACKENZIE Stuart, Beyond the streets. The 100 leading figures in urban art, Gestalten,
Berlin 2010
151
Ivi
150
74
A Grottaglie i gemelli dipingono una serie di trompe l’oeil umani. Alcuni sono impegnati a
giocare a nascondino e cercano rifugio dietro gli angoli della città vecchia, provando anche
ad attraversare i muri, ma spiccando comunque contro le pareti immacolate traditi dai
colori vivaci dei loro vestiti. Uno di questi niños particolarmente indisciplinato, imbratta un
muro con una tag che omaggia le radici artistiche dei due artisti, e al tempo stesso la
mamma di Angelo, che grazie alla sua cucina e alla sua ospitalità si è guadagnata un atto
vandalico in suo nome, e chiunque sa che non c’è dedica più romantica che si possa
ricevere da un graffitaro.
All’opera di un altro artista proveniente dal Brasile, è legato un aneddoto che racconta
molto del rapporto diretto che interventi del genere possono avere con gli abitanti di una
città di così piccole dimensioni. La storia è questa: durante tutti i giorni in cui Nunca stava
dipingendo il suo pezzo sotto il sole cocente, lui e Angelo ricevevano le continue visite di
un tale, che viveva dall’altra parte della strada, che con gentilezza estrema chiacchierava
con loro a proposito del significato dell’opera, la quale rappresentava un uomo intento a
scolpire nel suolo le sagome dei simboli delle più importanti valute economiche correnti.
La sua gentilezza stupefacente, se si pensa che rivolta a due individui che stanno
commettendo un atto illegale nel bel mezzo della città, è resa ancor più stupefacente dal
fatto che il visitatore che alla fine del pezzo si è congedato affettuosamente dal suo
artefice e dal suo committente-assistente, era l’ex sindaco di Grottaglie. Questo rende
l’idea di quanto l’atteggiamento della rappresentanza cittadina rispetto al festival si sia
evoluto rispetto agli anni precedenti, e di come l’approvazione esterna costringa gli stessi
attori che prima erano in conflitto, a una convivenza pacifica velata di sfumature di
ipocrisia. L’ex sindaco faceva parte del consiglio che ha approvato la costruzione della
discarica ad insaputa della cittadinanza, alle rimostranze della quale, le risposte erano
state le cariche delle divise sui manifestanti. Vicenda che nell’ambito del festival si è in più
di una circostanza denunciato. Per l’interpretazione dell’opera si può riportare quella data
dallo stesso ex primo cittadino, che in essa ha letto un invito a lavorare duramente sulla
terra e sul territorio per ricavarne risorse e opportunità e che Angelo completa
sottolineando che si possono fare molti soldi dalla propria terra, soprattutto se si sa bene
come il suo interlocutore che “you just have to fuck with it first”152.
Tornando agli artisti che hanno operato nell’ambito di questa edizione, si incontrano altre
presenze inedite provenienti dagli Stati Uniti. Si tratta di Momo, Swoon e Ben Wolf.
152
A. MILANO nel blog del Fame Festival, famefestival.it, 2010, 14 giugno
75
Momo porta al festival i suoi graffiti astratti, che introducono una novità rispetto all’estetica
figurativa che fino a quel momento era stata un tratto comune dei lavori realizzati al Fame.
Questo artista è noto per le sue sperimentazioni cervellotiche post-graffiti realizzate con le
più diverse tecniche, che vanno da enormi collages che diventano affissioni, a sculture
galleggianti fatte con sagome che si muovono seguendo il flusso delle onde, includendo
video, stampe e spingendosi fino alla progettazione di un programma informatico in grado
di progettare opere di Street Art.
Il comune denominatore dei suoi lavori è un linguaggio fatto di forme geometriche e colori
puri, prelevate dal mondo delle astrazioni mentali per essere applicate alle superfici
urbane e architettoniche più ostili e grezze, creando un contrasto stridente e affascinante
che si riflette nel suo stile di vita. In esso infatti convivono una tensione verso le forme più
elaborate del pensiero umano culturalizzato, e una necessità di contatto con l’ambiente e
con la materia del mondo. Quest’ultima si manifesta nella scelta di vivere per lunghi
periodi in grotte, tende o camion.
I suoi moduli geometrici si riproducono su diversi muri del centro e della periferia
grottagliese, assorbendo le irregolarità delle superfici o arrendendosi ad esse, con una
certa predilezione per quelle più ostili. Momo dipinge le sue figure integrandole col
preesistente più intrattabile, con ostinazione ma senza prepotenza, dipingendo anche cavi,
tubi, solchi e rilievi, e all’occorrenza accettando la presenza di altre forme strutturali o
disegnate, che diventano così parte delle sue composizioni. La sua arte potrebbe far
pensare a una versione randagia di Sol Lewitt alla continua ricerca della materia concreta.
Quel che ne risulta in qualche modo sembra una poesia dedicata allo spirito di
adattamento.
Gli altri due artisti statunitensi, Swoon e Ben Wolf, lavorano entrambi a Brooklyn. Sono
arrivati insieme a Grottaglie e sono stati loro che hanno aperto le danze di questa terza
edizione del festival.
Swoon è una delle più richieste, rinomate e attive artiste della scena. I suoi ritratti a figura
intera si trovano nascosti nelle città di mezzo mondo, dove si può ammirare la loro rapida
decomposizione fondersi in modo organico con quella più lenta di certi particolari scenari
urbani, dei quali assecondano il fascino decadente. Le opere che questa artista regala alle
città sono infatti intagliate e ricamate con una precisione artigianale nel materiale più
effimero possibile, la carta. Sono origami di scorci di umanità delicati come ali di farfalla, i
cui lembi si regalano in fretta al vento o alla pioggia, facendo acquistare all’opera ancora
più fascino e poesia. La tecnica che Swoon ha elaborato può rientrare nella definizione di
76
cut out. Viene definito cut out un paste up153 che non conserva la forma rettangolare di un
poster o di un foglio da stampa, ma viene ritagliato e sagomato, integrandosi
maggiormente con le superfici e favorendo l’inganno dell’effetto trompe l’oeil, con cui molti
interventi urbani giocano. Le affissioni di Swoon, essendo spesso traforate, lasciano
intravedere la superficie sottostante, che diventa colore che riempie i vuoti, contribuendo a
far comparire quelle figure umane colte in gesti e atteggiamenti affettuosi e familiari.
35.
36.
Swoon, monastero abbandonato, Grottaglie, Fame Festival 2010
Swoon sembra aver fatto tesoro delle tecniche del collage e dell’assemblage care alle
Avanguardie Storiche, e unendovi una pazienza da filatrice, da ricamatrice e da tessitrice
tutta femminile, ha ottenuto il suo perfetto equilibrio. Tutte le sue opere comunque, anche
quelle più semplici, hanno un aspetto composito e tendono alla decomposizione, rivelando
una passione per il riciclo che avvicina l’artista americana al dadaista tedesco Kurt
Schwitters. Swoon è infatti l’ideatrice di un meraviglioso progetto itinerante e galleggiante:
The Swimming Cities. Su delle zattere costruite riciclando materiali di scarto, degne degli
153
vedi la nota 135 a piè di pagina, paragrafo 3.1
77
scenari postapocalittici di Waterworld154, lei e la sua crew155 navigano tra una città e l’altra
fermandosi per offrire performance visive e musicali e per incontrare la gente del posto.
Questo ambiziosa opera performativa, oltre a conservare esteticamente quell’aspetto
organico che contraddistingue tutte le opere dell’artista, racconta molto di più sulla poetica
dell’arte urbana in generale. Questa forma artistica è probabilmente quella più riesce ad
aderire all’anima di quest’epoca ponendosi rispetto ad essa in modo sincero e propositivo,
pronta a ricostruire un mondo dalle macerie di quello che cerca di continuare a brillare
mentre affonda e muore, insinuandosi nelle sue rovine, scoprendone i posti segreti e
rimossi, quelli che vorrebbe dimenticare e nascondere e dai quali invece quest’arte trae la
vita e la materia per le sue forme e i suoi racconti, traducendo la globalizzazione in
viaggio, nomadismo e scambio che diventa, oltre che il nutrimento per l’arte, una filosofia
di vita.
Le tracce del capitano Swoon a Grottaglie si trovano nel centro storico e, naturalmente nel
monastero abbandonato. Qui decora l’abside della cappella, inserendo nelle vuote nicchie,
i suoi intagli in carta che, simili alle incisioni su legno dell’espressionismo tedesco,
dominano con una certa solennità sull’assenza dell’altare e sulla devastazione sottostante.
Ben Wolf invece nel cortile del monastero, costruisce un’installazione tridimensionale e
polimaterica fatta di materiali di scarto uniti ad elementi pittorici, che però ha vita breve in
quanto viene quasi subito distrutta da un ragazzino del posto.
Per la prima volta a Grottaglie, anche Boris Hoppek, un artista tedesco adottato dalla città
di Barcellona. Hoppek è uno dei più folli e divertenti street artist della scena. Il suo marchio
di fabbrica inconfondibile è un viso sintetizzato al punto di essere costituito da tre ovali,
che diventano l’espressione allibita dei suoi personaggi che possono essere sagome nere
dipinte sui muri oppure pupazzi di pezza. L’arte di Hoppek sembra essere contraddistinta
da una certa centralità del corpo, uno dei soggetti più di frequente rappresentati
dall’artista. Una speciale attenzione è dedicata al sesso, tema che l’artista affronta con
frequenza e ironia, come dimostra la serie di fotografie Lavagina, protagonista della quale
è il corpo femminile e un pelouche156 a forma di vagina da lui ideato.
La centralità del corpo può manifestarsi attraverso l’impiego diretto del proprio da parte
dell’artista, nella realizzazione di performance documentate in video in cui, tradendo il
154
Film di fantascienza del 1995 diretto da Kevin Reynolds e ambientato in un mondo futuro quasi
completamente sommerso dalle acque
155
Nel vero e proprio senso della parola in questo caso, crew si traduce letteralmente come equipaggio,
ciurma
156
Latexpussy, 2007
78
tradizionale costume della Street Art, Hoppek sembra mostrarsi volentieri a viso scoperto.
Spesso le sue performance parlano della migrazione. Sono azioni che avvengono sempre
e comunque nello spazio pubblico, restando perciò tecnicamente arte pubblica e urbana
anche se spostata verso il teatro e documentata su supporto video, data la loro
impermanenza. Una di queste performance viene realizzata anche a Grottaglie: l’artista si
aggira per le strade della città trasportando sulle sue spalle un ingombrante fardello di
cartone che rende faticosa la sua deambulazione. Hoppek con la sua ironia riesce ad
affrontare temi delicati e profondi rendendoli accessibili, la sua poetica affronta l’esistenza
con un candore irriverente che ha qualcosa che rimanda all’infanzia, come il nome che ha
scelto per i suoi personaggi: Bimbo. Questa caratteristica unita al suo disegno di un
primitivismo sintetico rende Hoppek una specie di radiant child, che ricorda i profeti della
Street Art Keith Haring e Jean-Michel Basquiat157.
37. Boris Hoppek, Grottaglie, Fame festival 2010
Al Fame Hoppek realizza diversi lavori, dando segnali di iperattività, tra questi spiccano un
muro illegale lungo trenta metri popolato da famiglie di Bimbo neri che tentano di decifrare
un misterioso documento, forse una fila per un permesso di soggiorno, ma
l’interpretazione è assolutamente libera e facoltativa, e un Bimbo letteralmente sepolto
vivo, dipinto su un muro in una cornice che riproduce il perimetro di una bara poi
completamente ricoperto di fango. L’operazione è documentata dal video Mud Coffin
visibile sul canale Vimeo dell’artista158. Durante l’esecuzione non autorizzata di questo
The radiant child (traducibile come “il ragazzo radioso”) è il titolo del film sulla vita di Basquiat e al tempo
stesso il nome con cui Haring chiamava le creaturine che popolavano i suoi disegni
158
Quello della performance si trova invece sul sito ufficiale del Fame Festival oltre che sul sito ufficiale del
Fame Festival oltre che su Youtube
157
79
pezzo, proprio di fronte al quartier generale nemico, il Municipio, la Polizia Municipale è
stata mandata per conto del comune a fermare Boris e Angelo, ma tutto ciò che hanno
fatto è stato avvisarli che la Polizia di Stato sarebbe intervenuta per prenderli a calci e che
gli sarebbe convenuto spostarsi. Loro non si sono spostati e nessuno è arrivato, questa
piccola commedia rende l’idea del clima di comica tolleranza in cui si svolge questa terza
edizione del festival e delle conseguenze che questo ha sulla libertà d’azione concessa
agli artisti, che si riflette sulla quantità e sulle dimensioni dei loro interventi, come
dimostrano i lavori di altri due ospiti provenienti anch’essi dalla Spagna: Escif e Sam3.
Sam3 torna sul luogo del delitto per il secondo anno di fila e si supera realizzando due
capolavori dalla sua collezione di ombre. Approfittando dell’insensatezza della parete
laterale di un edificio in attesa della prossima concessione edilizia, l’artista ci rende
partecipi della visione ai raggi X del suo interno e di ciò che là dentro avviene: un uomo
cerca di difendersi con una scopa dall’ingombrante presenza di una gigantessa che
occupa quasi l’intero stabile con il suo corpo, un’Alice nel paese delle ceramiche che
rimane incastrata nell’appartamento del Coniglio Bianco dopo aver bevuto la pozione
magica. L’altra sua opera raffigura una scena circense che sfrutta l’illuminazione di una
calda luce su un muro della città antica per trasformare questi acrobati in bianco e nero in
ombre cinesi. In bilico su una scala vera appoggiata alla parete, questi acrobati riportano
alla memoria quelli del primo periodo di Picasso ma con la sintesi, la monocromia e la
megalomania del periodo di Guernica, che si ritrova in tutta l’opera di questo suo
conterraneo contemporaneo. Osservando l’evoluzione dell’opera di questo artista come di
ciascuno degli altri, da un anno all’altro si può rilevare come gradualmente aumenti la
confidenza e la conoscenza del territorio e delle sue architetture, e proporzionalmente
anche la capacità di interagire con essi in modo familiare, costruendo dialoghi sempre più
intimi. Evoluzione che nel caso di Sam3 si riflette anche nelle sue realizzazioni ceramiche.
Escif invece viene da Valencia ed è per la sua prima volta a Grottaglie ma si mostra subito
disinibito, complice il nuovo clima permissivo stabilitosi una volta fatta l’abitudine al
festival, che probabilmente avrà fatto sentire l’artista particolarmente a casa dato che la
sua città ha una tradizione piuttosto consolidata benché recente in fatto di pittura murale.
Escif in soli sei giorni porta a Grottaglie uomini con la testa a forma pallone da calcio, una
deformazione fisica diffusa in Spagna come nella cittadina pugliese, cavalli e alberi
dimezzati oltre a numerosi acquerelli per la mostra finale. Le sue opere vanno dai muri
perimetrali dello stadio, che quest’anno hanno dato spazio anche agli stessi Hoppek e
Sam3, fino al quartiere delle ceramiche, dove realizza un grande muro in cui delle enormi
80
teste galleggiano come manufatti in terracotta cavi messi a raffreddare nella stessa acqua
in cui nuotano degli esseri umani. Il suo stile è sintetico e ironico, tende a integrarsi
particolarmente bene con le architetture grazie alla capacità dell’artista di reinterpretare la
vita quotidiana che si svolge nei pressi degli spazi in cui interviene.
Per concludere la lista degli ospiti provenienti dalla penisola iberica, ancora una volta
troviamo la street art star portoghese Vhils, che realizza uno ritratto con la sua particolare
tecnica che consiste nell’incidere e graffiare la superficie e rivelando gli strati cromatici
sottostanti. Realizzando così dei leonardeschi chiaroscuri, in questi stencil fatti per via di
levare più che per via di porre159, che fanno di lui quasi una sorta di scultore delle pareti.
Tornano a dare il loro contributo al festival dal resto d’Europa anche Lucy McLauchlan,
Word To Mother e JR che sceglie Grottaglie come seconda tappa per il suo progetto
Unframed che porta fotografie storiche e di repertorio fuori dai libri e – appunto – dalle
cornici, riproducendole in scala ciclopica su diverse superfici architettoniche generando
uno sconcertante effetto di spaesamento.
Anche il panorama delle presenze italiane quest’anno amplia la sua latitudine,
raggiungendo la provincia piemontese, luogo d’origine di 108, e il capoluogo partenopeo
da cui provengono Cyop e Caf, che vanno ad arricchire e variegare la rappresentanza di
Street Art nostrana, aggiungendosi agli ex fuorisede bolognesi Blu ed Ericailcane.
Quest’ultimo quest’anno porta un principe ranocchio e un cervo con case popolari per
volatili sulle corna, entrambi di dimensioni particolarmente grandi, su due di quei muri
grezzi e senza finestre che sembrano essere una risorsa locale inesauribile, che fanno di
Grottaglie un parco di divertimenti per graffitari e che farebbero rivoltare Leon Battista
Alberti nella tomba.
108 viene da Alessandria e porta sotto il sole pugliese le sue forme fredde e il suo stile
nordico. Egli si può inserire in quella corrente che qualcuno chiama postgraffitismo, che è
un po’ l’equivalente grafico del postrock, laddove il postrock “è un genere musicale che
utilizza una strumentazione rock (chitarra elettrica, basso, batteria) in modo non conforme
alla tradizione del rock stesso, attingendo più da altre tradizioni della musica
d'avanguardia”160, i postgraffiti utilizzano la strumentazione tipica del graffito per creare un
linguaggio che è profondamente condizionato da avanguardie artistiche, anche quelle
estremamente astratte o sintetiche come il neoplasticismo o il suprematismo, come si è
159
I due tipi di arte plastica identificati dal teorico rinascimentale Leon Battista Alberti nel suo trattato sulla
scultura De Statua
160
voce Post – rock di Wikipedia
81
già visto in Momo, e che tende ad applicarsi anche ad ambiti artistici differenti come la
grafica e le arti applicate.
108 realizza “grandi e misteriose figure nere che invadono gli spazi pubblici” 161 che
“emergono dal subconscio”162. Nel caso del festival, data l’aura occulta che queste
immagini emanano, non potevano materializzarsi in un luogo migliore dei muri del
monastero abbandonato, tra un pentacolo e l’altro. Le forme del suo morboso
suprematismo compaiono anche in una serie di stampe realizzata per Studio Cromie.
Anche su carta non perdono quell’aspetto di buchi neri geometrici pronti a inghiottire per
l’eternità tutte le formine colorate dalla forma giusta e forse anche le altre.
Il duo Cyop & Caf, invece, rappresenta una delle entità artistiche più attive e prolifiche di
Napoli. Lavorano assiduamente sui suoi muri, sulla carta e sulla rete cercano di tenere
viva quella realtà sotterranea della controcultura e della controinformazione che a volte si
dimentica di innaffiare una volta divenuti artisti. I due lavorano insieme a delle figure che
attingono a numerosi repertori iconografici tradizionali e contemporanei, per creare
anatomie di corpi in cui pezzi di Basquiat, fumetti e Dada si combinano dando vita ad
inquietanti e grotteschi mutanti. Quelli realizzati quest’anno per il festival sono ottenuti
usando solo 3 colori, bianco, rosso e nero e sono inseriti in elementi architettonici che si
prestano a diventare supporti che incorniciano le loro opere come medievali trittici, tavole
e pale d’altare.
In questa edizione il Fame Festival si mostra in una sua versione matura, abbondante,
completa. Riesce ad aprire uno scorcio davvero ampio e soddisfacente sulle tendenze
dell’arte pubblica contemporanea e anche a guadagnarsi il consenso o la noncuranza dei
locali.
Ma proprio tutta questa completezza e questa soddisfazione comportano un’atmosfera di
calma piatta e privano questo tipo di arte di un elemento vitale e fondamentale: la
relazione vera e diretta con gli abitanti e i fruitori dello spazio pubblico, le loro reazioni, il
loro stupore, la curiosità e la conseguente voglia di capire. La città di Grottaglie si è
trasformata in uno stupendo museo a cielo aperto ma il rapporto tra i fruitori di un museo e
lo spazio museo è profondamente differente da quello degli attraversatori e degli abitanti
dello spazio urbano e pubblico. Il museo è uno spazio finalizzato ad una precisa funzione,
e per quanto aperto possa essere il suo cielo, crea comunque un particolare contesto con
delle aspettative, regole e tolleranze diverse da quelle del contesto eterogeneo e
161
162
Breve autobiografia di 108 riportata sul sito di Studio Cromie, studiocromie.org
Ivi
82
composito dello spazio aperto e pubblico generico. Ogni regola e proporzione del rapporto
tra opera e contesto cambia, e il coinvolgimento e le reazioni del pubblico diventano un
obiettivo più difficile da raggiungere.
38. Cyop & Caf
40. Sam3
39. Vhils
41. Escif
83
42. Escif
43. JR
44. Sam3
45. Os Gemeos
46. Nunca
84
47. Cyop & Caf
48. Word to Mother
49. Ericailcane
85
3.4 Duemilaundici
L’ultima edizione del Fame in ordine cronologico.
Quando arriva l’estate duemilaundici il festival è divenuto ormai una certezza, un punto di
riferimento, un appuntamento immancabile nei tour estivi cool di giornalisti, critici e
appassionati d’arte, capace di generare attesa e aspettative. Molti degli obiettivi che
Angelo aveva sognato di raggiungere sono stati raggiunti, Grottaglie è una località che è
ricomparsa nelle mappe ed è divenuta nota a livello internazionale. La gente che la visita
proviene da tutto il mondo e una volta qui scopre, oltre al festival di street art, la sua storia
e la sua tradizione ceramica. Si è venuto a creare un turismo che si dura più a lungo della
passeggiata nel quartiere delle ceramiche, che si ferma nei bed & breakfast e nei ristoranti
locali contribuendo all’economia in modo più sostanzioso. L’artigianato è entrato in
contatto con il mondo dell’arte contemporanea facendo presagire un ipotetico processo di
emancipazione dal suo isolamento…
Tutto sembra andare per il meglio ed essersi stabilizzato su degli standard positivi. Ma
quando Angelo ha pensato questo festival non voleva creare un appuntamento fisso, non
voleva stabilizzarsi su degli standard, voleva che qualcosa si muovesse. Una volta che le
cose si sono mosse alla fase dell’entropia segue quella in cui si vengono a creare i nuovi
equilibri, che saranno la nuova stabilità. Giunti a questo punto ciò che aveva innescato il
movimento, deve scegliere se diventare parte dei nuovi equilibri oppure no, estinguendosi,
cercando di portare la stessa innovazione altrove o rimanendo all’interno di quel sistema
che ha già mutato in passato cercando di cambiare forma per tentare di dar vita a nuove
evoluzioni.
Dopo tre anni consecutivi di successo crescente è con questo dilemma che si trova ad
avere a che fare il Fame. E risponde con un’edizione che è quasi un test del livello di
assuefazione e di sopportazione raggiunto da Grottaglie, in cui gli artisti sono invitati a fare
del loro peggio. Un’edizione violenta, rumorosa, dispettosa e vandala che cerca in tutti
modi di capire se il proprio potenziale comunicativo fosse recuperabile. Sembrava
funzionare all’inizio, qualcuno reagiva male, ma poi le recensioni positive della stampa
hanno inibito l’esperimento in corso.
In quest’ultimo Fame l’aspetto performativo è stato dominante rispetto a quello decorativo.
Sono state realizzate molte più azioni sbilanciate sul processo piuttosto che sul risultato
rispetto agli anni precedenti. Anche se confrontata con la terza edizione, che pure aveva
aperto a linguaggi molto ermetici e a molto post-graffitismo sperimentale spinto,
86
quest’ultima risulta molto più immateriale, sfuggente, a ribadire per l’ultima volta che
l’obiettivo non è la bellezza bensì innescare dei meccanismi e delle logiche, che il Fame
non vuole essere un fronzolo, un orpello decorativo per rendere più graziosa la sua
cittadina, ma un motore attivo di qualcosa, inserito in un movimento più grande al quale è
disposto a sacrificare la sua stessa esistenza. Qualora questo non sia più possibile o non
più comprensibile, lo spirito del festival, che esso continui ad esistere o meno, morirebbe
comunque.
Esempio perfetto per cogliere l’essenza performativa di questa edizione è l’opera di due
artisti che arrivano al festival per la prima volta dall’Europa centro-settentrionale. I loro
lavori concettuali e ironici si trovano perfettamente sincronizzati con lo stile complessivo di
questo quarto anno, nonché tra loro. Tutte le opere da loro realizzate a Grottaglie sono
state infatti frutto della collaborazione tra i due artisti, da cui nasce il nome Brakay.
Scindendolo si risale alle loro singole identità, si tratta di Akay e Brad Downey.
Brad Downey è un artista statunitense con base a Berlino. Il suo lavoro consiste nella
manomissione, nel sabotaggio e nell’alterazione di tutti le componenti e i segnali volti a
dare istruzioni agli abitanti di un luogo sulla sua corretta fruizione. Lo spazio urbano è
pieno di segni e di codici ed è tra questi che vanno ad inserirsi le opere di Downey, fatte
dello stesso materiale e che parlano lo stesso linguaggio. Delle vere e proprie
interferenze, talvolta talmente sottili da poter passare inosservate, che giocano con la
“regolazione istituzionale del comportamento pubblico. Facendo questo egli spera di
incrementare negli spettatori la coscienza di ciò che lo circonda, consentendo loro di
riguadagnare potere nello spazio pubblico.”163 Le installazioni di Downey tendono a
sottolineare come alla vita urbana e al suo scorrere incanalato e prestabilito dalle corsie,
dai segnali e dai percorsi dei mezzi pubblici, vadano a sovrapporsi infinite esperienze
individuali che spesso evadono da quei tracciati, accedendo laddove è vietato,
introducendo biciclette e giocando a pallone nelle ore pomeridiane 164, vivendo nella città
come in una vera concrete jungle165 da esplorare. A Grottaglie l’americano trova un
compagno di giochi ideale, viene da Stoccolma, si chiama Akay e ha una predisposizione
innata per la collaborazione con altri artisti. Dopo essere stato uno dei primi writer della
163
P. NGUYEN, S. MACKENZIE, Beyond the streets. The 100 leading figures in urban art, Gestalten, Berlin
2010
164
Citazione presa da una vignetta del fumetto di Quino Mafalda in cui il personaggio Felipe descriveva un
suo sogno trasgressivo
165
Concrete jungle (giungla di cemento) è il titolo di un pezzo di Bob Marley & the Wailers dall’album Catch a
fire nonché una metafora piuttosto diffusa per indicare la città.
87
capitale svedese a metà degli anni Ottanta, ha iniziato a divertirsi con il pasting up di
poster, per poi passare agli inizi degli anni Zero a sperimentare con interventi urbani
tridimensionali. Per Akay “il divertimento sta più nello sviluppare idee e realizzare il lavoro
che nell’ammirare il prodotto finito”166 e questo emerge chiaramente nei suoi progetti
realizzati per il Fame insieme a Brad Downey. Si tratta di opere estremamente effimere,
costruite prevalentemente impiegando come materiali elementi già presenti nella città, da
ricombinare, rapire, nascondere, con i quali giocare e fare dispetti. In sei giorni Brakay
nelle sue scorribande grottagliesi ha lasciato il suo effimero marchio temporaneo
attraverso diversi interventi, consistenti in sottili modifiche in chiave poetica, estetica e
ludica di elementi e spazi del quotidiano.
Il duo ha avuto la brillante trovata di customizzare un oggetto essenziale, che riassume in
sé l’identità e l’essenza della vita in un centro storico italiano, in particolare del meridione.
Quella cortina mobile e leggera posta tra l’intimità domestica e l’intimità allargata del
vicinato sulla quale questa si affaccia, la classica tenda di fili che separa e unisce gli
interni da quegli ambienti semi-privati che sono i vicoli ciechi, le dialettali 'nchiosce, o
arabe azzika. I due artisti hanno voluto sottolineare la particolarità e il folklore di questo
oggetto realizzandone una versione in pastasciutta. Hanno realizzato il desiderio di veder
scomparire tutte le automobili presenti nel centro storico coprendole con delle lenzuola,
hanno raccolto tutte le scope che hanno trovato poggiate fuori dagli usci e le hanno
incastrate tra le due pareti laterali di uno stretto vicolo, trasformandolo in un punto
particolarmente
avventuroso
di
quell’intricato
labirinto
che
è
la
città
vecchia,
immediatamente diventato occasione di gioco per i ragazzini di quelle strade. Lo stesso
hanno fatto con altri objet trouvé, collocati come ostacoli nei percorsi quotidiani degli
abitanti del posto, scatoloni e copertoni di automobili, questi ultimi una presenza
fondamentale nella caratterizzazione del paesaggio regionale, anche nella nota versione
flambé che produce l’inconfondibile profumo di vacanze pugliesi 167.
Brakay firma anche due performance documentate da video, che ne seguono il processo
di realizzazione, vera e propria spina dorsale estetica. Tipping point 2, punto di non ritorno,
è una reazione a catena di barattoli di vernice aperti legati tra loro che si trascinano uno
dopo l’altro a lanciarsi nel vuoto dall’alto un cornicione, riversando tutto il loro variopinto
contenuto sulla strada sottostante. Far168, lontano, mostra gli artisti intenti a collegare tra
166
P. NGUYEN, S. MACKENZIE, op. cit.
Prestito dal testo della canzone Vacanze romane dei Matia Bazar
168
Entrambi i video sono visibili sul sito e sul canale Vimeo ufficiale del Fama Festival
167
88
loro dei chiodi presenti sulle pareti con un filo di lana rossa creando dei percorsi che
celebrano l’estetica involontaria169. Una processualità che omaggia il caso, impregnata di
patafisica, che ricorda le macchine celibi dadaiste e l’incantevole corso delle cose
rappresentato nella superlativa opera video di Fischli & Weiss170.
Akay non è l’unico scandinavo che porta la sua algida arte nelle assolate Puglie,
quest’estate il Fame ha l’onore di ospitare è uno dei peggiori graffiti vandals di tutta la
Svezia: Nug. Il suo operare riprende i primordi del Writing riproponendo le sue pratiche
costitutive, tagging e bombing, che lui svuota fino a lasciarne solo la gestualità e gli
strumenti. Queste due azioni sono alle origini della cultura contemporanea occidentale dei
Graffiti urbani, iniziano ad essere praticate dalle minoranze etniche delle metropoli
statunitensi alla fine degli anni Sessanta e consistono sostanzialmente nel segnare il
territorio al proprio passaggio, lasciando come traccia il proprio pseudonimo scritto a
pennarello (tagging) o con la bomboletta spray (bombing).
50. Nug, monastero abbandonato, Grottaglie, Fame Festival 2011
Le opere di Nug ricreano l’impatto visivo del garbuglio di tag sovrapposte che tatuavano i
vagoni dei treni e i tunnel della metropolitana a Manhattan e nel South Bronx all’alba degli
169
G. CLÉMENT, Traité succinct de l'art involontaire, Sens&Tonka, Paris, 1997
Der Lauf der Dinge, opera video fondamentale realizzata nel 1987 dal duo svizzero Fischli & Weiss,
reperibile su Youtube con il titolo inglese The way things go al link
http://www.youtube.com/watch?v=AA0mFjJbNH8
170
89
anni Settanta. Ma il suo territorial pissing171 ha perduto ogni senso di appartenenza, non
c’è più crew, non c’è più pseudonimo da diffondere né territorio da contendersi, non c’è più
stile da evolvere ma solo il gesto e il segno di una bomboletta o di un pennarello nero, che
diventa l’equivalente grafico del rumore.
Al Fame Nug si moltiplica in un branco di imbrattamuri incappucciati che, armati di
bombolette nere, riempiono i muri con questo disturbo visivo. L’esecuzione di questi atti
vandalici collettivi è testimoniata da video come The concept is fuck you, yes you172 che
segue la crew impazzita nelle stanze del monastero abbandonato mentre è intenta a
trasformarlo nel tempio del rumore. Per la precisione dalla metà in poi, il video riproduce
l’azione al contrario, riportando il luogo al suo silenzio mentre il colore nero ritorna nei
barattolini da cui proviene. La performance è inoltre corredata da un ulteriore video in cui il
ceramista artista grottagliese Giorgio Delle Dacnie, già ideatore di numerose ceramiche di
cui non c’era bisogno173, interpretando l’ennesimo critico d’arte di cui non c’era bisogno, ci
accompagna in una videovisita guidata tra le stanze affrescate da Nug.
Ma non sono solo i nuovi arrivi a sperimentare i limiti del vandalismo, anche le vecchie e
fidate conoscenze come Escif e Sam3 sono invitate quest’anno a comportarsi male,
prendendo in mano la più antica e semplice arma capace di far imbestialire i residenti.
Questa edizione del Fame vede oltre a Nug anche Escif e Sam3 alle prese con la malefica
bomboletta nera.
Escif non rinuncia a realizzare un paio di muri con un valore aggiunto di decorativismo e
gradevolezza visiva, ma a questi affianca due pezzi concettuali e sarcastici. Uno è una
scritta nera che recita a caratteri cubitali applause please dai muri che circondano il campo
da calcio, l’altro è una installazione documentata da un video intitolato Rise and fall
protagonista del quale è il già decantato ancestrale simbolo del graffito sgradevole e
antiartistico. Una lunga serie di bombolette nere sono allineate a qualche metro di distanza
l’una dall’altra lungo un muro sul quale l’artista traccia una linea curva con una bomboletta
che raggiunga l’altra, con la quale viene poi tracciata un’altra linea curva e così via fino a
chiudere il video lasciandosi alle spalle un’invitante quantità di spraycan gratuite,
disponibili e quasi piene, pronte all’uso. La perfomance avrebbe dovuto completarsi con le
azioni che la presenza di queste esche avrebbe dovuto mettere in moto, ma purtroppo
171
Territorial pissing è il titolo di una videoperformance di Nug in cui imbratta un vagone della metropolitana
Il video è visibile sul canale Vimeo del Fame Festival
173
Ceramiche di cui non c’era bisogno è il titolo di una mostra di Giorgio Delle Dacnie tenutasi presso Il
Punto Librarteria a Napoli nel dicembre 2011
172
90
l’unica reazione registrata nei cinque giorni successivi è stato il furto di una bomboletta,
commesso senza lasciare traccia alcuna.
Tutti questi interventi lasciano intendere come questa edizione del festival sia mossa da
una profonda necessità di recuperare un contatto con coloro che con le opere convivono
quotidianamente che non sia basato sulla tolleranza ad oltranza riservata alle stranezze
del mondo dell’arte contemporanea o sulla sottomissione alle direttive critiche impartite dai
mass media. Per evitare ogni fraintendimento interpretativo quest’anno di Fame rivendica i
propri intenti non decorativi, accentuando quelli esplicitamente antidecorativi. Laddove
sotto la luce del consenso generale dalla stampa locale, nazionale ed estera, sembra che
nel contesto del festival “tutto quello che facciamo sia bello e giusto” 174, Angelo ha istigato
i suoi artisti a “disinnescare questa convivenza pacifica in favore di un sano giudizio
critico”175 anche con “disegni orrendi, violenti, fuori luogo, video che ne bastava la metà
per essere denunciati”176, al fine di interrogare il festival stesso, capire cosa questa
creatura fosse diventata, quali potenzialità avesse conquistato, quali conservato e quali
invece fossero andate perdute nel corso di quattro anni di esistenza e di successo, quindi
quale la direzione da dare al suo futuro.
In questo spirito si inserisce l’opera di Sam3, che impiega sofisticati calcoli per realizzare
una figura che, disegnata su differenti superfici di uno scorcio architettonico, si ricomponga
nella sua interezza da una sola prospettiva. In questo caso il punto di vista segreto è
custodito dal bagno della casa di Angelo, nella città vecchia. Solo da quella finestra tutti
quei segmenti criptici vanno a riallinearsi rivelando come in un’epifania il contenuto
dell’opera di Sam3: “un gran bel cazzo”, come dice soddisfatto il protagonista di Fight
Club177 Tyler Durden dopo aver inserito nella pellicola di un film con un laborioso
procedimento un messaggio subliminale dal medesimo contenuto fallico.
Sam3 usa questo complesso metodo elaborato dalla Street Art più avanzata per tracciare
con lo spray nero e senza metafore, quell’elemento primordiale che è parte dell’esperienza
graffitista di ogni essere umano, per quanto breve e fallimentare: il cazzetto stilizzato
semplice, elevandolo al rango di opera d’arte come un tempo accadde ad un orinatoio,
realizzando un’opera estremamente ironica e autoironica con indiscutibili potenzialità
snervanti.
A. MILANO in S. PALMIERI, We’re not decorating the city, we just want to make shit happen, destabilize,
possibly destroy, in larottaperitaca.wordpress.com 2011, 22 settembre
175
Ivi
176
Ivi
177
Fight club è un film di David Fincher del 1999 tratto dall’omonimo primo romanzo di Chuck Palaniuk
scritto nel 1996
174
91
A completare l’omaggio agli aspetti materiali dell’esistenza ci pensa Boris Hoppek che,
novello Courbet, affigge un’enorme rappresentazione fotografica dell’origin du mond
all’interno della volta di un arco, trasformandolo così in una postmoderna icona di fertilità
(fig. 8,p. 48).
Hoppek quest’anno dà il meglio di se con una serie di interventi che danno prova della sua
versatilità artistica oltre che del suo senso dell’umorismo, installazioni e video realizzate
con mezzi e materiali poverissimi gli hanno fatto guadagnare il titolo di MacGyver del
festival. Il leitmotif della vagina e della fertilità ritorna in versione super-sintetizzata in un
dipinto su muro in cui il solito ovale, marchio di fabbrica all’artista, è realizzato in fango e
inscritto in un grande triangolo nero rovesciato. Il fango diventa il materiale ideale anche
per celebrare un altro elemento essenziale di quella trivialità infantile capace di riassumere
inaspettatamente la logica dell’esistenza, l’artista lo impiega per realizzare tante piccole
sculture iperrealistiche di escrementi, con le quali realizza una composizione (fig. 7, p. 42).
Lo stesso Hoppek si presta a decorare il furgone che vende panini davanti ad una chiesa
nei pressi del campo da calcio con una scena erotico-comica, da apprezzare in tutta la sua
bellezza osservandola dalla prospettiva che permette di leggere la retrostante scritta al
neon, che dalla facciata in stille modernista dell’edificio sacro gialleggia un “AVE MARIA”,
al quale l’abbinamento al camioncino del paninaro regala un’allure divinamente blasfema
(fig. 6, p. 36). E ancora, è autore di una performance video realizzata con dei sacchetti
neri per la spazzatura riempiti d’aria che sembra proseguire la tematica del viaggio già
affrontata nella precedente edizione, oltre che responsabile della comparsa di numerosi
Bimbo, alcuni dipinti sui muri, altri ottenuti modificando oggetti ed elementi architettonici
già presenti nel paesaggio, altri ancora sono invece parte di acquerelli e stampe su legno
e carta realizzate per la mostra finale.
Questa incredibile quantità di opere prodotte da Boris Hoppek durante la sua permanenza
a Grottaglie rende l’idea dell’inesauribilità del suo repertorio di idee, che vanno a comporre
il suo universo pop, erotico, divertente, metaforico, dolce, pornografico, irritante,
sarcastico, leggero e profondo.178
Un’altra presenza estremamente prolifica in questa edizione è stata Nespoon. Questa
artista viene dalla Polonia e porta in giro per il mondo un’attività tipicamente femminile
particolarmente legata alla tradizione artigianale del suo paese di origine: il ricamo
manuale di pizzi e merletti. Nespoon porta questa pratica e gli oggetti da essa prodotti, al
178
La lista di aggettivi è parzialmente tratta da quella fatta da Angelo Milano a commento del lavoro di
Hoppek del 2011 sul sito ufficiale del Fame Festival, famefestival.it
92
di fuori dei contesti casalinghi e polverosi cui è solitamente relegata, riproducendo centrini
sui muri esterni degli edifici sotto forma di stencil o ricamandoli, come ragnatele di pizzo
tra gli angoli. A Grottaglie dà luogo a un incrocio unico con la tradizione ceramica creando
in collaborazione con artigiani locali alcuni merletti in ceramica, destinati a diventare
installazioni che vanno ad inserirsi nello spazio urbano.
Anche l’immancabile ragazza del Fame, Lucy McLauchlan, realizza una serie di pezzi
unici in ceramica, delle piastrelle smaltate decorate con diversi dei suoi motivi opticalfitomorfi, che possono essere combinate e composte tra loro, oltre a un enorme dipinto
che si stende lungo i pavimenti delle ingarbugliate e sottili stradine della città vecchia, che
invita a seguirlo tra i vicoli ciechi lungo il percorso che disegna, come una pianta
rampicante per chi va in salita e come un corso d’acqua sottile nel suo letto secco per chi
va in discesa.
Sempre dall’Inghilterra torna Word To Mother che, come Nug, riporta al Writing e alle
radici dell’arte di strada contemporanea proponendone una ripetizione differente. I
linguaggi del Writing, infatti, dopo una quarantennale presenza negli urban landscapes
delle città e delle periferie di tutto il mondo, dopo essere stati digeriti dalla cultura
dominante e poi vomitati sotto forma di decorazioni di oggetti di tutti i tipi, dai cappellini da
baseball agli zaini della Seven179, e di carosello pubblicitario quotidiano giovanile per MTV
e per il resto del palinsesto, possono considerarsi ad oggi parte assimilata di quei codici
visivi che costituiscono gli infiniti stimoli che ogni giorno il cervello di un essere umano
abitante del mondo occidentale riceve. Vanno quindi ad aggiungersi a quel corredo di
segni, oggetti e simboli che, con la velocità e l’abilità acquisita grazie alla confidenza con
questo tipo di stress mentale e culturale, che contraddistingue l’attitudine dell’individuo
postmoderno, l’ultima generazione di street artist manipola e modifica per creare le sue
opere d’arte. Ne è un esempio Making illegal permanent180 di Brad Downey, che riproduce
un throw-up181 con la tecnica del mosaico.
179
Azienda italiana leader nel settore della produzione di zaini e accessori per la scuola. Questo marchio ha
iniziato a produrre nei tardi anni Novanta una serie decorata con pezzi Wildstyle e continua a dimostrare
particolare attenzione alle tendenze della strada, come testimoniano le ultime campagne pubblicitarie a tema
street art che ne spiegano il processo di istituzionalizzazione in corso più in fretta e meglio un’intera tesi di
laurea.
180
Opera realizzata nel 2009 a Malmo, Svezia
181
Il throw-up, nel linguaggio del writing è un pezzo eseguito velocemente e con pochi colori per poter
essere eseguito nel minor tempo possibile occupando la maggior superficie possibile. Dall’inglese throw-up,
vomitare.
93
Word To Mother nei suoi lavori grottagliesi propone una rivisitazione del pezzo,
l’evoluzione della tag nonché massima espressione dell’abilità tecnica e dello stile di un
writer, ma anche stavolta in versione svuotata, invertita. L’elaborata ricerca formale sulla
lettera, che ha dato luogo alla sofisticazione del Wild Style, è dimenticata e con essa la
sua ricchezza cromatica. Le lettere che compongono la parola mother, che si può leggere
di per sé come un omaggio alle origini in senso lato, sono composte da forme di una
geometria elementare ricavate dall’assenza di colore in una campitura uniforme, perciò il
loro corpo è costituito dalla superficie del muro vero e proprio, dalle imperfezioni e dalle
scritte preesistenti, attorno alle quali l’artista traccia un contorno in negativo mettendole in
risalto, evidenziandole e incorniciandole nel profilo della parola madre.
Anche Vhils è presente in questa ultima edizione, e dona a Grottaglie uno dei suoi ritratti,
ottenuti incidendo l’intonaco di un muro particolarmente annerito data l’esposizione al
traffico, che va così a svolgere la duplice funzione per gli automobilisti in coda, di
intrattenimento visivo e memento mori per tumore ai polmoni da inquinamento.
Il prolifico artista portoghese realizza anche alcuni dei suoi scratchiti182 su superfici mobili
trovate in giro per la città e desinate ad essere esposte nella mostra finale, uno su legno e
uno sulla particolare superficie cartacea originata dallo stratificarsi delle affissioni
pubblicitarie. Infine organizza in collaborazione con Angelo la costruzione di un muro
all’interno dello stesso spazio espositivo per poi scrostarlo in loco, lasciando le macerie
residue sul pavimento sottostante il volto femminile che emerge dalla superficie al termine
dell’operazione.
Per il secondo anno di fila è presente anche Momo, la cui innata attitudine multimediale lo
porta a materializzare nei progetti che realizza per il festival le sue geometrie su diverse
superfici e con differenti metodi. L’artista statunitense dipinge un muro nella città vecchia
(fig. 10, p. 49) e uno in quella nuova (fig. 9, p. 49), che vanno ad aggiungersi a quello
eseguito nel quartiere delle ceramiche l’anno precedente, completando un percorso che
va così a ricongiungere le tre differenti parti urbanistiche dell’abitato. Sul versante delle
opere mobili invece realizza una serie di stampe serigrafiche, le cui forme sono poi
riprodotte in scala ingrandita in legno sagomato per comporre un’installazione
tridimensionale nello spazio espositivo della mostra di chiusura insieme al lavoro nato dal
crossover con l’artigianato locale, dal quale nasce una serie di moduli geometrici in
ceramica smaltata pensati per essere combinati in diverse composizioni, richiamando
182
Neologismo dato dalla fusione della parola graffiti con il termine inglese scratch, graffio
94
ancora una volta a quell’attitudine logico matematica che caratterizza tutte le forme di arte
astratta.
Ancora geometrie e astrazioni in versione urbana per gli interventi di due ospiti italiani,
Moneyless e 108. Moneyless porta per la prima volta al Fame i suoi solidi vuoti. Piramidi,
triangoli, poliedri e poligoni regolari e irregolari si combinano dando vita a delle visioni di
una concretezza ipotetica che si manifestano nei luoghi più diversi. In aperta campagna
tra gli ulivi, dove la loro purezza tutta mentale fa da contrappunto alle forme naturali,
oppure inserite nelle cavità misurate e monumentali delle architetture degli edifici storici,
con le quali instaurano silenziosi dialoghi armonici dalle sfumature classicheggianti, e
infine nei più sentimentali vuoti di palazzi antichi sventrati dal tempo e dalla decadenza, o
di altri rimasti incompiuti prima di avere dei muri perimetrali e degli abitanti. In questa
cornice gli scheletri di solidi platonici costruiti con lo spago da Moneyless sembrano
esprimersi al massimo del loro potenziale, diventando l’eco di quei vuoti drammatici 183.
Quando inseriti in un edificio in rovina, come un capriccio in un dipinto romantico,
riecheggiano l’assenza materiale del passato, che diventa oblio o memoria, in un
incompiuto architettonico invece fanno rimbombare l’incertezza e l’ipoeticità del futuro,
quando non una giustificata sensazione, ancora una volta, di mancanza.
Ma le geometrie di Moneyless possono essere anche bidimensionali e riportare ad
atmosfere più rassicuranti, quasi quanto quella dell’ultima pagina del quaderno Pigna con
le formule. Ne sono testimonianza quelle che dipinge sulle pareti del monastero
abbandonato e con le quali realizza una serie di serigrafie.
A chiudere letteralmente il cerchio delle presenze che al Fame rappresentano la corrente
più astratta interna alla urban art ci pensa 108, che realizza per l’appunto un’enorme
circonferenza nera con delle malformazioni genetiche, sulla facciata laterale di un
condominio. Nonostante l’introduzione di alcuni elementi colorati, questa figura aleggia
comunque come una presenza inquietante sulle teste dei clienti del panificio sottostante.
La declinazione più pittorica e figurativa delle evoluzioni dei graffiti, che fin dall’inizio è
stata ampiamente raccontata dal festival anche in quest’ultima edizione trova spazio nelle
opere murali di Cyop & Caf, Aryz, Ericailcane e Blu.
Il duo napoletano dipinge molti dei suoi strani personaggi in giro per la città, intenti a
inscenare altrettante piccole commedie surreali. Gli interpreti di ciascuna, sono
accomunati tra loro da vincoli cromatici che li legano ai pochi colori che si alternano e
183
Inteso come qualcosa che ha una forte intensità emotiva, non necessariamente da intendersi come
tragica.
95
combinano in ogni rappresentazione, di solito non più di quattro. Il risultato è una sintesi
grafica e minimalista che ricorda forme artistiche lontane nello spazio e nel tempo,
appartenenti al passato o a culture altre. All’appello c’è un’opera in meno del previsto
poiché una è stata cancellata prima di essere ultimata. Può capitare anche dopo quattro
anni di festival che quando si esegue un muro illegale qualcuno possa reclamare i propri
diritti estetici di proprietario pretendendo di vederlo bianco.
Aryz invece viene dalla Spagna, ha solo ventidue anni ed è per la prima volta a Grottaglie
e qui realizza un gigantesco gambero lisergico e fumettistico.
Gli ultimi due artisti ci riportano alle origini del festival. Presenti fin dalla prima edizione,
sangue dello stesso sangue, fatti della materia stessa del Fame e del suo genitore (o
tutore legale), eccelsi esponenti della grande tradizione italiana della pittura a fresco, e
contemporaneamente annoverati tra i più interessanti artisti attualmente sulla scena
dell’arte urbana e attuale in generale, anche quest’anno Ericailcane e Blu scelgono di
tornare. Stessa spiaggia, stesso mare, stessi muri da imbrattare.
Il pezzo di Blu riproduce un disegno dal suo sketchbook, raffigurante un metaforico biliardo
con teste al posto delle palle colorate e una lampadina invece della palla bianca, di
probabile contenuto sociopolitico, ma meno specifico ed esplicito che in altre occasioni. La
scelta del soggetto è stata infatti frutto di un compromesso, cercato per andare incontro
alle esigenze di un’anziana signora residente nel vicinato.
Ericailcane invece torna nel quartiere delle ceramiche, dove il primo anno aveva realizzato
il malfamato gallo, e proprio nel suo centro dipinge un enorme lupo ladro, intento a rubare
delle ceramiche, per la precisione dei pumi, particolari manufatti grottagliesi in terracotta a
forma di bocciolo che spesso decorano gli angoli dei balconi delle abitazioni della
cittadina. Sempre nel centro storico il cane porta anche una grande piramide di animali
acrobati, che è piaciuta perfino alla vecchina che ogni giorno alzando lo sguardo sulla
parete a fianco del suo balcone incontra occhi di rane, gatti, passeri e ratti concentrati
nell’intento di rimanere in equilibrio.
Così, con gli stessi animali di Ericailcane, si apre e si chiude questa parata di arte pubblica
non convenzionale durata quattro anni.
Per tutta la sua durata, il Fame ha fatto di tutto per mantenere, come gli animali equilibristi,
quel delicatissimo equilibrio tra vandalismo e artigianato, tra arte abusiva e arte pubblica,
tra istituzioni e underground, dando vita a una realtà che è un incrocio particolare e molto
ben riuscito, che rappresenta uno dei più validi, duraturi e consistenti esempi di evento d’
96
arte urbana non in cattività e che ha trasformato la cittadina jonica in uno strano luogo
pieno di disegni e visitatori.
Dopo questa edizione matura, completa, ricca e di rinnovato incredibile successo, forse si
inizia ad avvertire un senso di sazietà. Il festival è stato oggetto di un involontario ma
inevitabile processo di riconoscimento, accettazione e istituzionalizzazione, lo stesso che
si può osservare specularmente in scala generale sull’intero movimento della Street Art e
più nel particolare nei percorsi dei suoi protagonisti più significativi giunti, con più o meno
contraddizioni e sofferenze, alla fama.
Il futuro del Fame Festival attualmente è ignoto. Qualche volta Angelo Milano ha fatto
riferimento a quella del duemilaundici come possibile edizione conclusiva, ma è difficile
riuscire a decifrare i suoi intenti, forse perché non c’è ancora un piano preciso. Certo è che
la formula vincente con cui finora è stato realizzato il festival, si è ormai consolidata. Le
moderate reazioni ai tentativi di portarla all’estremo fatti quest’anno lo hanno confermato,
nutrendo i dubbi e la fantasia del suo ideatore: “Fame cosi com’è è prassi. C’è il rischio di
annoiarsi e darlo per scontato. Se ci sarà la quinta edizione dovrà essere molto
diversa.”184
Ciò che è troppo semplice non è abbastanza stimolante per Angelo, che infatti oggi
collabora anche all’organizzazione di un’altra manifestazione di Street Art che lo diverte
molto meno rispetto al Fame degli inizi. Si tratta del festival Crono, che da due anni ha
luogo nella città di Lisbona, nel contesto del quale, con il permesso del comune, diversi dei
molti edifici abbandonati e in stato di degrado presenti sul territorio urbano della capitale
portoghese, vengono messi a disposizione di artisti internazionali che realizzano immensi
disegni sulle loro facciate.
Le opere realizzate nell’ambito del Crono sono impressionanti, imponenti e spettacolari,
molti degli artisti che sono finora stati ospitati, sono gli stessi che sono passati più volte a
Grottaglie, ma l’atmosfera è differente.
In un piccolo centro della provincia pugliese, un evento analogo al Crono come il Fame, è
nato in modo quasi disperato, da un bisogno cieco di possibilità e alternativa.
Probabilmente era questo che gli conferiva quella carica vitale che il suo organizzatore
non riesce più a trovare tra i consensi le autorizzazioni e i riconoscimenti.
Ma, citando i La Quiete, “la fine non è la fine”185 e di sicuro ci sarà dell’altro.
S. PALMIERI, We’re not decorating the city, we just want to make shit happen, destabilize, possibly
destroy. Intervista ad Angelo Milano, in larottaperitaca.wordpress.com 2011, 22 settembre
185
Pezzo dei La Quiete che dà il titolo all’omonimo album del 2004
184
97
Lo spirito che ha animato l’arte di strada più forte e commovente, quella più pura e allo
stesso tempo più sporca, dal quale in origine nasce anche il Fame, non è nato con la
Street Art né con il Fame, e non morirà con essi. Continuerà ad esistere, come sempre, in
ogni forma di cultura affamata che dai bassifondi del genere umano è risalita e risalirà fino
alla superficie. Cambierà aspetto, sarà irriconoscibile, magari starà già strisciando in una
forma nuova e ignota mentre i suoi vecchi corpi vuoti continueranno a recitare,
continuando a nutrire l’instancabile e insaziabile evoluzione della cultura che nessuna
istituzionalizzazione riesce a contenere e a fermare e alimentando quella continua
dialettica tra il creare umano più spontaneo e ciò di altrettanto umano che lo regola e lo
governa.
Il passaggio della Street Art dall’illegalità alla consacrazione delle istituzioni fino all’attuale
trasformazione in moda, nemmeno per Angelo non significa la sua fine bensì un
cambiamento dalle molteplici e contraddittorie implicazioni: “ci sono controsensi
evidentissimi che affiorano ogni volta che si ha a che fare col fenomeno, sia quando entra
negli spazi delle istituzioni, sia quando ne rimane fuori, come al principio.” 186
I randagi che hanno animato questo movimento artistico in origine “dipingevano per un
bisogno di espressione che sfiora la compulsione”187 che spesso rimane invariato anche
dopo il raggiungimento della fama. Questa “componente aggressiva, rabbiosa, a volte
unita a un impegno politico”188 è, come già detto, quella più complessa, se non
costituzionalmente impossibile, da conciliare con il sistema ufficiale: “quando artisti e
istituzioni hanno trovato un compromesso, i contenuti si sono alleggeriti, desaturati;
quando non c’è stato questo tipo di dialogo, si è arrivati alla rottura” 189 che in genere si
manifesta nella forma tradizionale della censura.
“Non è la morte del fenomeno, è un cambiamento,”190 e mentre questo cambiamento si
compie è possibile agire, riflettere oppure osservare, dall’interno o dall’esterno, per
ingannare il tempo che ci separa dalla prossima ignota evoluzione.
186
A. MILANO in G. CAFFIO, Fame, arancini ed eterotopie, in architettisenzatetto.net, 2011, 19 settembre
Ivi
188
Ivi
189
Ivi
190
Ivi
187
98
51. Brad Downey e Akay
52. Moneyless
53. 108
54. Aryz
55. Sam3
56. Brad Downey e Akay
99
57. Nespoon
58. Vhils
59. Ericailcane
60. Escif
61. Blu
100
62. mappa delle opere presenti a Grottaglie, retro del manifesto dell’edizione del Fame Festival 2011
101
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Credits immagini
La fonte delle foto in figura 1 e 3 è il sito dell’artista Blu, blublu.org, quella della figura 2 è il
sito dell’artista Escif, streetagainst.com e quella della 28 il blog architettisenzatetto.net. Le
foto 4, 18, 30 e 49 sono scatti personali. La foto 5 mi è stata spedita da Angelo Milano e la
104
58 è una scansione del manifesto del Fame Festival 2011. La fonte di tutte le restanti è il
sito ufficiale del Fame Festival, famefestival.it, eccetto la 33 e la 34 che essendo stampe
provengono dal sito di Studio Cromie, studiocromie.org.
105
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Adbusters adbusters.org
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Bastardilla bastardilla.org
Blu blublu.org
Boris Hoppek borishoppek.de
Crono cargocollective.com/crono
Cyop & Caf cyopecaf.com
Dem demdemonio.org
Ericailcane ericailcane.org
Escif streetagainst.com
Fame famefestival.it
Giorgio Delle Dacnie tubulidae.com
Il Punto Librarteria librarteria.org
JR jr-art.net
Mark Jenkins xmarkjenkinsx.com
Momo momoshowpalace.com
Slinkachu slinkachu.com
Studio Cromie studiocromie.org
Canale Vimeo del Fame Festival http://vimeo.com/user7619306
unurth.com
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