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Indice Introduzione 1. ARTE DI STRADA 1.1 La constatazione di un’evidenza 1.2 Street o art 1.3 Arte deprivatizzata 2. FAME 2.1 Saluti e baci da Grottaglie 2.2 La mia non è voglia di qualcosa di buono, è proprio FAME 2.3 Immagina una città 2.4 Fame and the city 3. FAME FESTIVAL ANNO PER ANNO 3.1 Duemilaotto 3.2 Duemilanove 3.3 Duemiladieci 3.4 Duemilaundici Bibliografia Sitografia 2 Introduzione Bologna – Berlino, Berlino – Grottaglie Probabilmente quello che amo dell’arte che si trova per strada, è che contiene qualcosa di organico. Sapevo che sarebbe stata l’unico argomento possibile per la mia tesi, dato lo stato di crisi in cui mi trovavo rispetto a tutte le altre forme artistiche che avevo studiato fino ad allora. Con estrema ingenuità e un atteggiamento da fan più che da studiosa, per seguire le tracce di quest’arte che tanto mi affascinava, sono finita a Berlino, sperando che lì avrei ricevuto una quantità di stimoli tale per cui scegliere di cosa avrebbe parlato la mia tesi e scriverla sarebbe stato semplicemente naturale. Sono andata fino a Berlino perché la immaginavo come una città fatta di terzi paesaggi1, in cui ogni binario conducesse a una zona, in cui ogni giorno sarebbe stato come Stalker2, in cui ogni foto sarebbe stata la cartolina di un paesaggio postapocalittico da un possibile prossimo futuro. Una città costellata di luoghi di transizione tra utilizzo e non utilizzo, di pause tra le funzioni, di vuoti lasciati dalla storia e dall’economia, abbandonati o fuggiti dalle pianificazioni urbanistiche, in lista d’attesa per essere riqualificati, per essere destinati a una funzione, che intanto galleggiano come zattere nelle città pronte ad ospitare qualsiasi forma di vita, come biotopi autogestiti o non gestiti dove la natura comincia a riprendersi i propri spazi. Tutti luoghi dove avrei potuto trovare abbondanza di quegli organismi artistici di cui ero alla ricerca, stratificati “come incrostazioni geologiche naturali”3, nati da quella creatività diffusa e anonima che così bene racconta la condizione umana odierna nella nostra civiltà, il cui proliferare è un’ode alla differenza, alla molteplicità, alla contaminazione, al riciclo, che ha così tanto di biologico da avere più cose in comune con le erbe infestanti che crescono lungo i percorsi dei tram che sembrano dire anche loro reclaim the streets, che con le asettiche high street e con i templi dell’arte contemporanea. Io cercavo l’arte che cresce nelle zone che sembrano sporche, disordinate, degradate, che al buio fanno paura, quelle che ci fanno immaginare come potrebbero essere le nostre esistenze e i nostri viaggi nelle città se non ci fossero guide turistiche e riviste di lifestyle a 1 G. CLÉMENT, Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005 Film di Andrei Tarkovsky del 1979 3 F. ALINOVI, Arte di frontiera. New York graffiti, Mazzotta, Milano 1984 2 3 farci da libretto di istruzioni. Avevo sentito degli street artist dire che “siamo tutti figli del modo in cui la città si è sviluppata. Seguiamo tutti i giorni gli stessi tragitti, per andare da un punto A ad un punto B restiamo per forza all’interno di quella rete di strade che la città impone. Così fare graffiti è il nostro modo di rompere la routine, contribuire attivamente al cambiamento della città”4, ed io ero alla ricerca di quei percorsi diversi tracciati da loro. E sono stata esaudita. A Berlino ne ho trovati molti. Ma ho anche appreso che è una città che si prepara ad essere riqualificata, bonificata. Ha iniziato un processo inesorabile di progettazione e organizzazione di spazi appositi e a misura di turista ed è destinata quindi in breve a morire. Quando una città è estremamente viva, chi si occupa di fare della vita un business, ha il compito di rendere ogni cosa vendibile in forma di merce o spazio pubblicitario al fine di trasformare l’esistente e tutte le sue pulsioni vitali in profitto. Inizia così la costruzione di riserve in cui l’abitante o il visitatore, possa osservare la flora e la fauna urbane con la comodità di poter inserire comodamente questa attività nel proprio planning turistico giornaliero e di poter usufruire di targhette esplicative bilingue. Ma nelle riserve, come scrive Clément, la vita muore, e così le città passano di moda. Una volta terminata la bonifica e acquistato numerosi monumenti dai postalmarket dell’architettura e dell’arte contemporanee, ci si accorge che Londra non è più cool, che è diventata più cool Barcellona, poi Berlino e che poi ci sarà bisogno di nuova vita da succhiare e sarà Belgrado o Bucarest e così via in un circolo che durerà fino alla fine dei soldi, che sono il nuovo tempo, dato che il tempo è denaro. A Berlino ho realizzato fino in fondo, in notevole ritardo, che all’arte che amavo e che cercavo, stava accadendo da tempo, la stessa cosa. Nonostante tutto, quando sono arrivata, Berlino era ancora viva, e così la sua arte urbana. Percorrere l’intero perimetro della città con il treno che ad ogni ora ne compiva un giro completo, mi dava enormi soddisfazioni. Il paesaggio era davvero eterogeneo, distese di erba immense, all’occorrenza innevate, tratti di una vegetazione che possono far pensare alla steppa anche una persona che non ha mai visto la steppa, chilometri e chilometri di binari srotolati sotto i ponti, enormi edifici industriali di fine ottocento abbandonati e semi decomposti, cataste di roulottes abitate, edifici prefabbricati contenenti discount, immancabili insegne luminose di multinazionali che come troppe stelle polari ci assicurano sempre di non esserci persi e, soprattutto, ovunque o quasi, una presenza di esemplari di opere d’arte urbana tale da soddisfare la fame che ne avevo e anche quella dei molti altri miei simili. Ne ho trovati di ogni tipo e in ogni dove, su insegne che spuntavano in mezzo 4 P. BUFFA, Gêmeos graffiti, «D di Repubblica», 2010, 6 marzo 4 alle acque del fiume, nelle case disabitate e nei cortili interni di un quartiere turco non (ancora) cool, dove sagome di bambini ritagliate nella carta giocavano a nascondino. Ce n’erano di selvatiche, da cercare di nascosto e da trovare con fatica e intima soddisfazione, altre allo stato brado o che vivevano negli spazi sociali, oppure quelle di allevamento, disponibili al caldo di ex piscine comunali riciclate come spazi espositivi o nelle miriadi di minuscole gallerie dalla vita di farfalla… mi interessava tutto. Volevo vedere tutto e volevo documentare tutto, ero certa che quell’abbondanza mi avrebbe ispirato e che nutrendomi quotidianamente per giorni e giorni di quel cibo avrei trovato l’argomento perfetto per la mia tesi, in cui avrei saputo spiegare perché quella forma d’arte sola mi faceva ancora brillare gli occhi. Ma io sono cresciuta in provincia, nella provincia della provincia Italia, e alla fine mi sono venute le vertigini, mi girava la testa, avevo la sensazione di non riuscire più a catturare niente, di non poter capire, figuriamoci di spiegare. Quando uscivo ormai lasciavo a casa la mia macchina fotografica, insieme a tutti gli strumenti di analisi che avevo accumulato in anni di studio. Mi sembrava tutto inutile, tutto mi sfuggiva. Pensavo che ero stata folle e non volevo finire come quelli che impazziscono nel tentativo di catalogare tutto l’esistente, e così ho cominciato a cercare nei libri. Isolata dal gelo dell’inverno berlinese dalle pareti di vetro della biblioteca, consultavo ogni volume parlasse di graffiti o di arte urbana, pubblica o di strada. E un giorno, rinchiusa in quella serra, in un librone in tedesco5 ho trovato qualcosa che mi ha colpito: un festival di Street Art che aveva luogo in una cittadina pugliese, proprio a pochi chilometri da quella dove avevo vissuto la penultima parte della mia vita, dove tuttora vive parte della mia famiglia. Ero venuta a conoscenza precedentemente dell’esistenza di questa realtà attraverso il passaparola, ma non avevo un’idea molto chiara di cosa fosse, non ci ero mai stata e forse non sapevo nemmeno che si chiamasse Fame Festival. Sarà stato anche l’effetto della distanza, ma da quel momento il pensiero che esistesse una città piena delle opere degli stessi artisti che ero venuta fino a Berlino per cercare, e di averla avuta praticamente dietro casa senza averla mai visitata, ha cominciato ad assillarmi. Poi il mio lungo soggiorno berlinese si è concluso, sono ritornata nella mia amata città di adozione, Bologna, più confusa di quando l’avevo lasciata. Ho riorganizzato la mia vita e 5 P. NGUYEN, S. MACKENZIE, Beyond the streets. The 100 leading figures in urban art, Gestalten, Berlin 2010 5 senza che me ne rendessi conto, e soprattutto senza che avessi deciso ancora niente sulla mia tesi, è arrivata l’estate. Come ogni estate sono emigrata in Puglia per le vacanze, e non appena ne ho avuto la possibilità ho organizzato una gita a Grottaglie. La mia fortuna è stata che tramite una serie di coincidenze telematiche, io e il mio inseparabile compagno di viaggi, ci siamo ritrovati ad avere come guida due fantastici fratelli grottagliesi che non avevamo mai visto prima e che sembravano usciti da un film, per la precisione Arizona Junior. Grazie a loro ho visto opere che probabilmente non avrei mai trovato da sola e ho potuto avere una visione un po’ meno turistica e più ravvicinata della città e del festival, accedendo ad aneddoti e informazioni che solo dei grottagliesi avrebbero potuto darmi. La realtà del festival mi ha incuriosito subito moltissimo. La trovavo del tutto particolare, per il luogo in cui si trovava e per il relativo isolamento mediatico che la circondava a livello locale. Volevo saperne di più e stavo iniziando a pensare che sarebbe stato un argomento di cui mi sarebbe piaciuto parlare nella mia tesi. Alla fine della giornata, dopo aver cercato di vedere tutto il vedibile, mentre attraversavamo la piazza centrale di Grottaglie alla luce del tramonto, diretti al bar sotto il duomo, ritrovo fondamentale per ogni giovane alcolizzato del posto, e mentre io assillavo le nostre guide con infinite e insaziabili domande sul festival e sulla sua organizzazione, si materializza davanti a noi un individuo il cui nome era ricorso più volte nel corso della giornata: Angelino. Era lui, l’organizzatore e ideatore del Fame. I fratelli me lo presentano e quando ci separiamo, senza che nemmeno io abbia ben realizzato come, abbiamo preso accordi per la mia tesi. È iniziato quindi il mio percorso di documentazione. Ho iniziato dalle basi teoriche generali che permettono la lettura del contesto culturale complessivo, quel brandello dell’epoca postmoderna all’interno della quale nascono le forme d’arte a cui il festival dà spazio. In questo quadro ho inserito la descrizione dell’arte urbana stessa e delle sue specificità, accennando all’evoluzione che ha potato al passaggio dal Writing alla Street Art. L’intento era quello costruire attorno a quello che è un fenomeno stilistico una rete essenziale di riferimenti agli altri ambiti culturali con i quali esso interagisce e ha interagito, che sono stati fondamentali per il suo sviluppo e che lo sono altrettanto per la sua lettura. Ho cercato poi di concentrarmi sul dibattito critico-teorico che nasce dal particolare momento in cui si trova attualmente la parabola evolutiva dell’arte urbana. Basandomi su 6 alcuni saggi di critici italiani che analizzano proprio il processo di istituzionalizzazione che la sta riguardando, ho indagato sulle mutazioni della natura poetica del fenomeno che tale processo possono dipendere. Il Fame Festival è un esempio di realtà ibrida, che cerca di fare arte pubblica mantenendo vivo il contatto con la dimensione e le modalità operative underground che sono all’origine dell’arte di strada. Per questo ho cercato di accennare alle caratteristiche dell’arte pubblica da un lato e dell’arte abusiva dall’altro, in modo da evidenziarne affinità e divergenze, delineando quella zona intermedia in cui l’evento va a collocarsi. Per quanto riguarda la parte sul festival, le fonti derivano da un costante contatto virtuale con l’organizzatore stesso, che oltre a rispondere ad ogni mia domanda e seguire il mio lavoro a distanza, mi ha fornito indicazioni su come e dove reperire più o meno tutto ciò che fosse mai stato scritto sul Fame. Si tratta prevalentemente di interviste ed articoli giornalistici, italiani ed esteri. Attualmente non esiste alcuna pubblicazione monografica sull’argomento quindi molto del materiale che ho utilizzato è di prima mano, e in parte si tratta della semplice descrizione di quello che ho osservato e sentito durante le mie visite a Grottaglie. A partire da queste basi e analizzando in modo maniacale il sito dell’evento, ho cercato di mettere insieme il maggior numero possibile di informazioni, al fine di costruirne un profilo soddisfacente, che vada dalla sua storia alla sua organizzazione, al suo rapporto con la città, fino all’analisi di ciascuna delle quattro edizioni attraverso gli artisti che vi hanno partecipato e i progetti da loro realizzati. Ho voluto aggiungere una descrizione della realtà socio-economica locale per darne l’idea a chi non l’abbia mai vissuta, dal momento che a mio avviso contribuisce a creare quelle condizioni che rendono il Fame singolare rispetto ad eventi analoghi. Il Fame Festival infatti rappresenta un caso di curatela non convenzionale, per certi aspetti sperimentale. Uno dei tentativi di creare eventi organizzati di Street Art senza distorcerne completamente la natura. Privo di sovvenzionamenti, commissioni e autorizzazioni, il Fame Festival riesce a conservare quella parte abusiva connaturata a quest’arte, facendo delle debolezze organizzative del territorio in cui nasce, il suo punto di forza. 7 1. ARTE DI STRADA 1.1 La constatazione di un’evidenza 1. “when you start to notice postcards with your murals around the city I guess it is time to stop painting.” Blu su blublu.org, 2011, 8 giugno Le pratiche artistiche e i linguaggi visivi riconducibili alla definizione di street o urban art, nati negli habitat dei paesaggi urbani postmoderni, possono considerarsi a tutti gli effetti parte delle abitudini visive collettive contemporanee. Per questo tipo di fenomeni, il percorso di riconoscimento da parte della cultura popolare e di successiva integrazione in essa, può ritenersi compiuto. È ancora presto però per una completa storicizzazione, ci troviamo in un momento estremamente vivo e prolifico di quantificazione, di diffusione esponenziale di tutte le declinazioni e combinazioni dell’arte urbana possibili e immaginabili, che come piante infestanti si moltiplicano in ogni tipo di spazio pubblico esistente, disponibile e non disponibile, rubando linguaggi e forme dal repertorio iconografico di ogni ambito dell’umano scibile e sfruttando i più diversi materiali e metodi, 8 in un vivacissimo e caleidoscopico copia-incolla culturale e visivo capace di dare le vertigini. Una miriade di queste icone postmoderne sembra riprodursi nottetempo sulla superficie dell’epidermide urbana, contaminando qualsiasi elemento architettonico e complemento di arredo urbano abitante la città contemporanea. Su muri, cassonetti, cabine telefoniche, pali della luce, sarcofagi grigi di centraline elettriche, si compone un mosaico in continua evoluzione tra decomposizione e rigenerazione, fatto di disegni, scritte, fotocopie, collage, graffiti, poesie, ideogrammi, messaggi in codice, racconti epici, microscopiche sculture e ciclopiche pitture murali che vive e prolifera nei villaggi globali, e se non ci raggiunge in quelli reali ci raggiunge in quelli virtuali. Internet rappresenta infatti il principale strumento e supporto di archiviazione, documentazione, mappatura e fruizione di queste opere. La popolarizzazione di questo medium ha costituito un elemento complice fondamentale per lo sviluppo e la diffusione di questo fenomeno artistico e culturale, le cui evoluzioni sono intimamente pervase dell’influenza poetica e metodologica di questa tecnologia. Una delle conseguenze di questa stretta relazione ha implicato il superamento di “alcune delle regole fondanti la cultura del Writing e del Graffitismo”6, primigenia forma di arte visiva urbana dell’epoca contemporanea, “contribuendo fortemente a determinare il passaggio dal cosiddetto Graffitismo alla cosiddetta Street Art.”7 Nella conformazione attuale della Street Art si possono osservare una serie di affinità con i sistemi di diffusione e creazione di cultura propri della rete, poiché essa rappresenta una realtà di riferimento e una fonte di ispirazione con la quale dialogare e condividere metodi e tematiche in una sorta di atipico tecnomorfismo8 strutturale più che propriamente formale. L’intero universo delle arti urbane si riflette nella rete, generando un proprio doppio virtuale che vive in simbiosi con quello reale. Da qualsiasi angolo connesso del mondo abbiamo la possibilità di sapere che Londra, Berlino, Bologna, Buenos Aires, metropoli e città di medie-piccole dimensioni, manifestano quelli che sembrerebbero i sintomi di un’infezione di proporzioni globali che colpisce gli insediamenti urbani. Si tratta in realtà di anticorpi nati in seno alla cultura della globalizzazione come reazione alle malattie che essa porta con sé. Il prodotto di “una L. GIUSTI, Dall’insurrezione mediante i segni alla battaglia del meme, in F. NALDI (a cura di), Do the right wall, Mambo, Bologna 2010 7 Ivi 8 Il tecnomorfismo è la capacità delle arti visive di dare forma ai procedimenti tecnologici del periodo storico di appartenenza. Si veda La nozione di tecnomorfismo, in R. BARILLI, Scienza della cultura e fenomenologia degli stili, Bononia University Press, Bologna 2007 6 9 generazione cresciuta all’ombra di enormi cartelloni pubblicitari che reagisce personalizzando il proprio spazio con un moto di riappropriazione” 9. Dall’Europa al Sudamerica, l’esercito delle arti urbane e dei suoi artefici muove velocemente dalle periferie delle città verso i centri accerchiando sempre più da vicino le moderne acropoli dello shopping e dell’architettura in franchising nel tentativo di proteggere e tenere in vita le forme di cultura provenienti dal basso e difendere con questo agire “anarchico e indipendente” che il filosofo Baudrillard riconosceva nei primi writer “la possibilità di penetrare i codici del capitalismo partendo dalle periferie”10. La dinamica è però molto più complessa. Il sistema dell’economia capitalista globalizzata che presiede alla di produzione di cultura in serie destinata alla masse, è un organismo grande, forte e soprattutto diabolicamente intelligente. È programmato a reagire ad ogni tipo di attacco esterno e interno, distruggendo ogni forma di vita che possa minacciarne l’esistenza, la salute o il funzionamento, oppure, quando la distruzione risulta impossibile o poco conveniente, inglobandola e/o riproducendola in una forma innocua, come un vaccino da somministrare ai consumatori. Questo meccanismo, unito al naturale processo di normalizzazione che riguarda ogni innovazione culturale, ha fatto sì che l’arte nata per le strade delle città mutasse le sue forme e manifestazioni, non solo assecondando i propri istinti di sopravvivenza e adattamento agli ambienti e alle specie circostanti, ma anche in relazione ai rapporti che sono venuti via via a crearsi, evolversi e intensificarsi con aspetti della produzione artistica e culturale di sistema e legate al suo potenziale economico: da una parte il circuito istituzionale dell’arte, la critica, le commissioni pubbliche e le gallerie, dall’altra la moda, l’abbigliamento, la grafica e la pubblicità, il marketing allo stato puro. Il confronto della Street Art, un movimento artistico come che affonda le sue radici nella cultura underground, con la realtà mainstream, ha originato diverse reazioni e, di conseguenza, differenti poetiche e modi di fare arte. Si va dal radicale rifiuto e dall’ostinata resistenza rispetto al sistema arte dei più puristi, al compromesso cosciente di artisti che intrattengono occasionali e sofferti rapporti con le istituzioni al fine di finanziare le proprie attività indipendenti e spesso illegali, è il caso di Blu, che nonostante il sempre crescente riconoscimento internazionale cerca di non asservirsi a nulla se non alla sua idea di arte. Altri sembrano vivere con disillusione questi rapporti conflittuali, ricchi di contraddizioni e interrogativi, alcuni con una tale consapevolezza e ironia da renderli oggetto di geniali e ciniche operazioni concettuali, facendone una tematica autoriflessiva della propria arte, 9 A. MININNO, Graffiti Writing, Mondadori arte, Milano 2008. p. 216 L. GIUSTI, op. cit. 10 10 come il più celebre anonimo inglese dei nostri tempi, Banksy. Si arriva infine a casi di collaborazionismo spinto, come quello di Shephard Farey aka Obey, pioniere della moderna Street Art americana dall’anima di pubblicitario, pronto a operare sul doppio fronte dell’arte di strada e del marketing, marchiando con le sue icone post pop indifferentemente muri illegali, t-shirt per teenager o la propaganda elettorale per un candidato alle presidenziali americane. Questi diversi modi di intendere il rapporto con la cultura e l’economia dominante testimoniano come dai primordi ad oggi, non solo stilisticamente ma anche a livello di autoconsapevolezza, l’arte di strada abbia percorso – imbrattandola – molta strada. Allo stesso tempo gli attori delle istituzioni artistiche, dell’universo del marketing e di quello dell’urbanistica, hanno dovuto prendere atto dell’esistenza di un consistente fenomeno culturale, stilistico e urbano al quale rivolgere le proprie attenzioni. In principio fu il riconoscimento come forma di espressione artistica dei graffiti, che sul finire degli anni Sessanta avevano iniziato a germogliare in forma selvatica e istintiva sui muri dei ghetti e sui vagoni delle metropolitane delle metropoli statunitensi. Seguì quasi subito l'interesse delle prime gallerie e dei primi mercanti d’arte. Inizia così il processo che porterà il graffitismo insieme al resto della cultura hip hop, cui era profondamente legato, a compiere il suo destino. Destino comune di ogni forma di cultura, controcultura o sottocultura nata spontaneamente: essere accettata, riconosciuta, e divenire, infine, moda. È nella seconda metà degli anni Settanta che il Writing vede i suoi primi riconoscimenti nel circuito artistico ufficiale, per raggiungere l’apice del successo nel corso del decennio successivo, durante il quale dialogo e la contaminazione con la cultura di massa e le istituzioni è sempre più fitto. Negli anni Ottanta il Graffitismo era ormai emerso dal sottosuolo delle gallerie della metropolitana, dall’underground metaforico come da quello concreto, per raggiungere la superficie e la luce, diventando tendenza, quasi seguendo parallelamente il processo di riqualificazione e gentrificazione che contemporaneamente stavano compiendo sul piano urbanistico i quartieri degradati di New York in cui era nato. Negli anni a venire, il percorso di riconoscimento e successiva inclusione, ha riguardato ogni significativa evoluzione delle arti urbane successiva al Graffiti Writing, arrivando a comprendere la Street Art in tutta l’ampiezza che tale definizione ha nel frattempo acquisito. Allo stato attuale l’esistenza di un rapporto tra le arti urbane, il mondo istituzionale dell’arte e il sistema di produzione culturale massificata è una realtà oggettiva, ma non si è ancora consolidata in uno standard, nonostante il fatto che in questo momento di esplosiva 11 quantificazione e diffusione naturale e artificiale della Street Art, l’interesse da parte del mercato e dell’arte ufficiale sembra aver raggiunto un picco paragonabile a quello che riguardò la sua forma precedente, il Graffitismo americano, all’apice della sua diffusione. Ovunque oggi fioriscono eventi, pubblicazioni, esposizioni e festival di e sulla Street Art, Urban Art, Activism Art e via dicendo. Per galleristi, critici e curatori è ormai quasi inevitabile occuparsene. In un’intervista Lorenzo Giusti, uno tra i primi critici ad essersi interessato all’argomento in Italia, parla della nascita del suo interesse per la Street Art come della “constatazione di un’evidenza; la presa di coscienza di un fenomeno globale e significativo”, aggiungendo inoltre: “molte delle cose che vedevo per strada (…) mi sembravano di gran lunga più efficaci e comunicative delle opere che ero solito frequentare nelle gallerie e nei musei.”11 L’efficacia che Giusti riconosce a queste forme artistiche e che in alcuni momenti pare mancare all’arte da galleria è dovuta però in buona parte proprio al contesto e alle modalità di concepimento originarie. Nel corso del tempo gli esponenti del mondo istituzionale dell’arte, si sono avvicinati al fenomeno in diversi modi, con differenti approcci e risultati, a seconda della sensibilità e del rispetto nei confronti della sua particolare natura di realtà nata spontaneamente e al di fuori dei loro circuiti. La problematica centrale con la quale si trovano a confrontarsi è come riuscire ad importare o ad avvicinare quest’arte al loro mondo riuscendo a conservare e a restituire il più possibile della sua anima, cosa estremamente delicata dato che gran parte della sua identità risiede in modalità operative quantomeno difficili da riprodurre in circostanze artificiali. È un problema complesso, a cui differenti realtà stanno cercando di rispondere in pratica con la creazione di eventi e iniziative, sperimentando diverse combinazioni e ipotesi su quali possano essere gli spazi, i contesti e le strategie espositive più adatte per snaturare meno possibile questa forma d’arte quando si tenta di inserirla in realtà organizzate. Con la consapevolezza che questa mediazione comporta inevitabilmente delle alterazioni, si può tentare di limitarle cercando un livello di compromesso equilibrato, cercando una via d’uscita diversa da quella attraverso il negozio dei souvenir12. 11 Street art 3.0, intervista a Lorenzo Giusti a cura di Giovanna Tonelli per «Undo» gioco di parole riferito al titolo del film di Banksy Exit through the gift shop che affronta anche il tema dell’istituzionalizzazione spinta della Street Art 12 12 1.2 Street o art? 2. Street Art, Escif, Valencia In un semplice ma efficace tentativo di dare una definizione del termine Street Art Kai Jacob, che si occupa della documentazione fotografica del fenomeno, scrive: “ Street Art si riferisce a forme di espressione artistica che si trovano nello spazio pubblico, quindi apertamente accessibili a chiunque”13. Questa caratteristica accomuna tutte le pratiche di arte urbana, dai Graffiti newyorkesi degli inizi, al Writing in tutte le sue evoluzioni, fino ai ratti di Banksy e ai mosaici di Invader dei giorni nostri. Infatti nonostante le sostanziali differenze, stilistiche e poetiche, che distinguono le varie declinazioni l’una dall’altra, tutte, nelle loro forme originarie producono opere che si eseguono e si fruiscono in strada, concepite senza tener conto di concetti come autorizzazioni, commissioni e compensi. Nell’anonimato e completamente al di fuori dei meccanismi di produzione di arte e cultura istituzionali e ufficiali, in molti casi in opposizione a questi. Non solo laddove il contenuto di un’opera sia di esplicita critica ma anche quando semplicemente, questa viene eseguita senza autorizzazione. Kai Jacob scrive che la Street Art “non può esistere senza il contesto urbano”14. Un altro fotografo tedesco, Jurgen Groβe, che segue e si dedica a quella che lui chiama Urban Art 13 14 K. JAKOB, Street art in berlin version 4.0, Jaron Verlag GmbH, Berlin 2011, p. 9 Ivi, p. 11 13 con un approccio molto ravvicinato, quasi dall’interno, parla di “un’appassionata relazione con l’ambiente urbano, inseparabile dalla propria vita quotidiana” 15 che accomuna tutti coloro che la praticano, ma anche coloro che, come lui, la documentano. Il legame tra opera e contesto nell’ambito artistico qui analizzato, è più che mai stretto, tanto che per definirle basta accostare il termine strada a quello generico di arte, confermando il fatto che e i due termini in gioco hanno pari importanza. Il rapporto con lo spazio pubblico della città vissuta e vivente, è più che mai vitale e imprescindibile per le particolari forme artistiche che nascono suo interno. Modificando questo rapporto tra l’opera e il proprio contesto per definizione, la strada, si modifica l’opera stessa, il suo significato e la sua poetica, correndo il rischio di svuotarla completamente. Farlo sistematicamente, creando riserve e spazi appositi destinati all’arte urbana, potrebbe determinarne la morte. Solo una condizione di aperta accessibilità le permette infatti di interagire materialmente e in modo immediato con il vissuto quotidiano degli abitanti delle città, interrompendo il dialogo chiuso e autistico tra pochi eletti e addetti che caratterizza l’arte contemporanea di serra, le quali dinamiche sono all’origine di alcune delle carenze comunicative da cui spesso sembra essere affetta, e rendono molti street artist critici e ostili verso il suo sistema, spingendoli a restarne fuori o a sviluppare sentimenti sovversivi verso l’alta finanza dell’arte e le sue logiche elitarie e antidemocratiche, come dimostra Banksy quando dice: “L’arte che ammiriamo è il prodotto di una casta. Un manipolo di pochi che creano, promuovono, acquistano, espongono e decretano il successo dell’Arte. (…) Quando si visita una galleria d’arte si è solo dei turisti che osservano la vetrinetta dei trofei di qualche milionario”16. L’arte contemporanea di allevamento manifesta di per sé i sintomi piuttosto evidenti di problemi di autoreferenzialità e debolezza comunicativa, ma l’introduzione di un termine apposito come arte pubblica, rimarca quanto poco pubblica riesca ad essere l’arte in generale oggi. Il linguaggio dell’arte urbana allo stato brado, invece, è stato finora contraddistinto da una grande vitalità e da un forte potenziale di comunicativo, oltre che da una sorprendente capacità di rigenerarsi continuamente in nuove forme di se stesso. Questo è in parte dovuto alla capacità di adattamento, sopravvivenza e trasformazione che ha sviluppato grazie all’esposizione a intemperie e influenze, al continuo contatto e alla conseguente contaminazione con tutti gli altri linguaggi con cui convive nel contesto comunicativo del 15 16 J. GROßE, Urban art photography, vol. I, Berlin, Urban art info, Berlin 2008 BANKSY, Wall and piece, L’ippocampo, Milano 2011 14 paesaggio urbano. Linguaggi che deruba, ai quale talvolta si oppone e con i quali condivide e si contende gli stessi fruitori: le masse che attraversano quotidianamente i centri urbani, molto più numerosi e meno selezionati di quelli di qualunque manifestazione d’arte contemporanea ufficiale, anche la più rinomata. Ogni esemplare di Street Art allo stato naturale, si inserisce nel flusso della comunicazione massmediatica che avviene nello spazio urbano. Nell’epoca contemporanea, come ha scritto Baudrillard, la città è lo spazio del codice in cui “la reclusione nella forma/segno è ovunque. È il ghetto della televisione, della pubblicità, il ghetto dei consumatori/consumati, (…) dei circolanti/circolati della metropolitana, dei sollazzatori/sollazzati del tempo libero”17. Questo è lo spazio dove la Street Art nasce, si inserisce e vive. È a quei circolanti circolati che si rivolge, è con quei consumatori consumati che hanno sostituito gli abitanti che cerca di costruire un dialogo. Come scrive Stefano Questioli in uno dei suoi articoli dedicati a questo fenomeno artistico, “si tratta di un’arte fatta per strada, multimediale, perché figlia di una creatività diffusa, trasversale ed impersonale, poiché confusa nei nostri attraversamenti quotidiani, pluricentrica in quanto annodata nella rete del collegamento globale”18. Alcune opere di Street Art fanno parlare spazi che prima potevano sembrare muti, altre interferiscono con messaggi preesistenti invitando a riflettere su questi e offrendo la possibilità di metterli in discussione, sottolineandone la presenza pervasiva e anche in questo caso, offrendo la possibilità di metterla in discussione. l lavoro di molti artisti urbani, dagli anni Novanta ad oggi, si è basato proprio sul détournement di linguaggi e codici già presenti nelle città contemporanee, con particolare attenzione per quelli di tipo pubblicitario, raggiungendo l’apice della capacità corrosiva e critica nelle poetiche artistiche urbane dell’inizio del millennio, ovvero il momento in cui iniziano ad essere denominate con la corrente etichetta di Street Art. Quella che oggi viene chiamata Street Art, è infatti un’evoluzione del Graffitismo che della sua forma originaria conserva quasi solo gli spazi e alcune modalità operative, “lo stesso approccio vandalico, illegale e critico”19. Il processo evolutivo che ha riguardato le arti visive urbane dagli anni Settanta fino ad ora viene affrontato in alcuni saggi critici contenuti nel volume Do the right wall20. 17 J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2002 S. QUESTIOLI, Arte abusiva o dell’abusivismo delle definizioni, «Exibart.com», 2004, 28 maggio 19 F. NALDI, The rats in the streets come at night, in F. NALDI, (a cura di), Do the right wall, Mambo, Bologna 2010 20 F. NALDI, (a cura di), Do the right wall, op. cit. 18 15 I due saggi di Fabiola Naldi21, ne seguono i cambiamenti dal punto di vista formale, spiegando come il Lettering, l’elaborata ricerca sulla lettera su cui si basano gli stili del Writing, si differenzi dalle pratiche che più di recente hanno introdotto elementi iconografici, figurativi ed infine narrativi nell’arte di strada, e come a queste differenze stilistiche di superficie, corrispondano sostanziali differenze poetiche riscontrabili sul piano dei contenuti, delle istanze e degli intenti comunicativi, oltre che su quello pratico delle modalità operative ed esecutive e dei mezzi impiegati. Il Writing, profondamente legato alla cultura hip hop, contrappone ad una sofisticazione stilistica e tecnica evolutissima, una semplicità contenutistica quasi atavica, primordiale, incentrata sull’affermazione di concetti come esistenza, identità e appartenenza. Concetti che è facile smarrire in un ambiente iperculturalizzato, ipercodificato e allo stesso tempo anonimo come la metropoli postmoderna, che diventano centrali in questa particolare sottocultura, che proprio in quelle distese di asfalto e cemento nasce, ma le cui radici affondano in un humus extraoccidentale, misto, che guarda alle storie di altre terre, la cui memoria scorre nel sangue di coloro che sono emigrati, anche dopo generazioni. Spesso sono i propri nomi, nomi nuovi, da iniziati, o quelli delle proprie crew, versione suburbana di forme di collettività tribali, che questi artisti scrivono utilizzando i loro decorativi e occulti alfabeti grafici, nella completa assenza di intenti rappresentativi, perfettamente riassunta dalla definizione panzerismo iconoclasta, coniata dal writer newyorkese Rammelzee. Gli interventi operati dagli street artist di ultima generazione invece, spesso hanno come contenuto articolate tematiche di “denuncia politica, economica e sociale.” 22 Degli aspetti metodologici e di contenuto si occupa Lorenzo Giusti nel saggio Dall’insurrezione mediante i segni alla battaglia del meme 23 che spiega come l’interferenza nel flusso dei codici comunicativi della città che questa forma d’arte ha sempre rappresentato, si sia manifestata nel corso del tempo con differenti caratteristiche, evolvendosi da quella che Baudrillard definì “insurrezione mediante i segni” 24 a quella che Giusti chiama battaglia del meme, usando i termini di Kalle Lasn, fondatore della rivista di controinformazione Adbusters. 21 F. NALDI, The rats in the streets come at night e La mia strada continua e vive oggi più di prima. Il Writing a Bologna dalla fine degli anni Settanta ad oggi, in Do the right wall, op. cit. 22 F. NALDI, The rats in the streets come at night, op. cit. 23 L. GIUSTI, Dall’insurrezione mediante i segni alla battaglia del meme, in F. NALDI, (a cura di), Do the right wall, op. cit. 24 J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2002, I ed. 1979 16 L’offensiva messa in atto “a partire dalla primavera del ‘72” 25 a New York da eserciti di giovani, spesso figli di cosiddette minoranze etniche, armati di pennarelli e, successivamente, di bombolette spray, a cui assiste Baudrillard, inseriva nel sistema codificato della comunicazione urbana un’interferenza che attacca i segni usando la sua stessa forma, lo stesso “modo di produzione e diffusione” 26 ma interrompendo il flusso dei significati. Il filosofo e sociologo francese del postmodernismo sostiene infatti che la forza dei Graffiti sta proprio in questo vuoto di significazione, nel loro presentandosi come “un segno indipendente, autosufficiente e privo di significato altro che sé stesso” 27 che costituisce “una negazione della cultura occidentale di massa”28. Dopo aver attraversato la contaminazione degli anni Ottanta con la cultura dominante e l’arte istituzionale, queste pratiche artistiche si presentano allo schiudersi del decennio successivo profondamente trasformate. Contemporaneamente in quegli anni “fenomeni come il punk, le radio abusive, le riviste di controinformazione attraverso una serie di contaminazioni con i linguaggi delle arti abusive derivate dall’esperienza graffitista, avrebbero contribuito alla formazione di un’idea di arte di opposizione”29. Questa nuova consapevolezza confluisce negli strumenti che la controcultura degli anni Novanta sviluppa per esprimere la propria avversità al sistema dell’economia globalizzata, che vedono nella figura di Kalle Lasn uno dei principali punti di riferimento. Lasn è stato uno dei principale teorici delle strategie volte al sabotaggio comunicativo impiegate nell’ambito no global, praticandole in prima persona alla direzione di Adbusters, rivista cardine del movimento. Tali strategie consistono ancora una volta nell’introdurre un’interferenza nel sistema, ma col valore aggiunto di un messaggio sovversivo. La teoria della culture jam, interferenza culturale, consiste nell’introdurre errori nel sistema massmediatico al fine di sabotarlo combattendo una guerra del meme che non è diversa dalla guerriglia semiologica che anticipa McLuhan. Il meme è la particella elementare della cultura “un unità di trasmissione culturale che si trasmette di cervello in cervello” 30, la cui generazione e prolificazione è stata espropriata alle comunità umane per essere sostituita da un’immensa catena di montaggio che produce e diffonde memi in serie. 25 J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, op. cit. Ivi 27 Ivi 28 Ivi 29 Ivi 30 L. KALLE, Culture jam, Mondadori, Milano 1999 26 17 La strategia dell’interferenza culturale, memore del detournement situazionista, consiste nel conoscere profondamente il sistema della cultura massificata e nell’utilizzarne i metodi, i segni e le icone, all’occorrenza modificati, per rivoltarli contro di essa. Nel corso degli anni Novanta, l’arte abusiva di strada vive un periodo di transizione, durante il quale vengono rivisitate e ampliate le pratiche del Graffitismo e allo stesso tempo vengono sotterraneamente assimilati questi traguardi della controcultura. Quando la Street Art viene a delinearsi nella forma oggi esponenzialmente diffusa, all’inizio degli anni Zero, è qualcosa di profondamente differente dal linguaggio originario dei Graffiti. È un’arte eclettica e onnivora, che mette in pratica tutto quello che era stato sperimentato dalle avanguardie artistiche e politiche precedenti, prosegue le “esperienze artistiche performative e di attivismo urbano degli anni trai i Sessanta e i Novanta” 31 e nei contenuti sviluppa un forte e consapevole “discorso di critica alla società e al sistema dell’arte” 32. Si rapporta allo spazio pubblico rivendicando la sovranità dei suoi abitanti su di esso e ponendosi in una posizione antagonista rispetto ai poteri che lo gestiscono arbitrariamente, coloro che “vengono ogni giorno e deturpano le nostre città. Lasciano ovunque le loro scritte idiote. Rendono il mondo un odioso. Si chiamano agenti pubblicitari e urbanisti”33. Lo faceva anche il primo Graffitismo statunitense, ma in modo istintivo. Stavolta invece c’è una piena coscienza, maturata attraverso le lezioni di movimenti come Reclaim the Streets34, che “ogni cosa che viene messa in uno spazio pubblico, fuori, nelle strade della città, che sia o meno intenzionale, diventa una dichiarazione politica, sia essa un ornamento allo status quo, o un tentativo di cambiare la società”35 I suoi guerriglieri riciclano icone pop in versione anticapitalista come tanti Andy Warhol, molto più impegnati e molto più incazzati, completamente padroni delle teorie e delle tecniche del sabotaggio culturale. Questa ultima ondata di artisti urbani possiede una congenita coscienza e conoscenza dei meccanismi del marketing e del branding in 31 L. KALLE, op. cit. L. GIUSTI, op. cit. 33 BANKSY in C. TWICKEL, Aufstand der Zeichen, in «Greenpeace magazin», 2005, n. 6 34 Reclaim the Streets è un collettivo di attivisti che sostengono l'idea che gli spazi pubblici siano di proprietà collettiva. Per saperne di più vedere il capitolo Riprendiamo le strade in N. KLEIN, No logo, Baldini e Castoldi, Milano 2000 35 La politica della pittura di strada, M. BROFOSKY, E. COCKCROFT, in T. TOZZI, Arte di opposizione, Shake, Milano 2008 32 18 generale e di quello urbano, acquisita attraverso l’assimilazione generazionale per osmosi di testi culto come No logo di Naomi Klein. Questa consapevolezza dà loro gli strumenti per penetrare il sistema, perseguendo poi ciascuno le proprie individuali ambizioni che possono andare dall’integrarsi al disintegrarlo. La stessa consapevolezza unita all’attitudine da sabotatori culturali dà come risultato quello che il loro più illustre e geniale rappresentante, Banksy, ha battezzato brandalism, un ibrido tra branding e vandalism: “ogni messaggio pubblicitario che è collocato in uno spazio pubblico e che non puoi scegliere di non guardare è tuo. Ti appartiene. Lo puoi prendere, rimaneggiare e riutilizzare.”36 L’universo del branding urbano finisce così insieme a qualsiasi altro elemento dell’arredamento urbano, inclusa la segnaletica stradale, nel cesto dei giocattoli di Banksy e dei suoi colleghi Sweza, Zeus, Brad Downey e infiniti altri. Artisti noti e ignoti che li modificano, ricompongono e alterano per risemantizzarli a loro piacimento, combinandoli in motti di spirito, installazioni e composizioni a beneficio di tutti i passanti, che generano un effetto di spaesamento che va ad inserirsi nei percorsi quotidiani, alterandoli leggermente e sfasandoli rispetto al loro abituale scorrimento, aprendo parentesi di possibilità, di imprevista riflessione o emotività. È evidente che questi meccanismi funzionano appieno solo quando inseriti nello scorrere della vita della città e dei suoi abitanti. Un’opera d’arte simile ricostruita nella cattività di un museo o di una galleria potrebbe funzionare da rimando, come un reperto, ma il meccanismo generatore di significato si incepperebbe se non permettendogli di essere fruita pubblicamente nello spazio aperto, dove il pubblico è potenzialmente chiunque, anche fruitori involontari. Spesso i progetti di Street Art hanno una forte componente relazionale e processuale, che può essere più o meno accentuata e più o meno esplicita. È nella loro natura essere opere estremamente aperte. Non solo il rapporto con i fruitori ma anche il passare del tempo, gli agenti atmosferici, le trasformazioni e le regole dello spazio urbano e infine il caso, sono elementi determinanti per il corso della loro esistenza. Alcune opere sono concepite intenzionalmente per richiedere e richiamare l’intervento del caso o la reazione di chi osserva, che può manifestarsi diverse forme di partecipazione più o meno attive: interazione e modifica diretta oppure documentazione e esplorazione. L’evanescenza, e l’impermanenza delle forme più concettuali e performative di arte urbana, concentrate più sul processo e sulla relazione più che sull’aspetto materiale, che caratterizza ad esempio lo stile nordeuropeo, come dimostrano molti dei progetti documentati nel libro/opera fotografica sulla Urban Art a Berlino 36 del tedesco Jürgen BANKSY, op. cit. 19 Große37, o il lavoro del gruppo italiano Stalker, anch’esso considerabile una forma di arte urbana del tipo più immateriale, presenta in forma più accentuata ed evidente caratteristiche che sono comuni a tutta l’arte urbana, anche laddove meno esplicite. Da questo punto di vista, la Street Art realizza quelle utopie delle Avanguardie Storiche e del Situazionismo che auspicavano l’apertura e partecipabilità dell’opera d’arte, fino alla sua fusione con il quotidiano, per arrivare al limite estremo della “sparizione dell’arte” 38 in favore di un’ esteticità diffusa e in direzione di una modificazione cosciente della vita quotidiana di debordiana memoria. La sparizione non è solo metaforica nel caso di quest’arte, data la transitorietà che le è congenita. Un’opera di Street Art non solo prestandosi alle relazioni con gli abitanti e con i luoghi e facendo da tramite tra gli abitanti e i loro luoghi arriva a fondersi e confondersi con questi arrivando a sparire, ma è concretamente destinata a una esistenza materiale estremamente breve se paragonata alla vita media di opere conservate in spazi chiusi e protetti come musei e gallerie. Tutte le opere che si trovano sulle pareti esterne degli edifici invece che su quelle interne, sono esposte senza protezione alcuna a tutti i fattori che determinano il decadimento della materia nel corso del tempo, ma per quanto riguarda le opere di Street Art vanno ad aggiungersi altri fattori che fanno sì che raramente il processo di scomparsa graduale e naturale arrivi a compiersi: interventi artificiali ed arbitrari come la rimozione e cancellazione intenzionale per motivi legali, artistici o semplicemente di evoluzione dello spazio e dell’architettura urbani, sono le più frequenti cause della loro scomparsa. Sia le opere eseguite per scelta poetica o per comodità pratica e giuridica con tecniche e materiali facilmente rimovibili e dal decadimento particolarmente rapido, come stickers e paste-up in carta, che le opere potenzialmente più durature, come i muri dipinti con bombolette e vernici, hanno un carattere costituzionalmente transitorio. Anche muri dipinti da star come Blu, gli stencil di Banksy o le affissioni di Shepard Fairey, hanno una durata limitata, spesso piuttosto breve. Dal momento dell’esecuzione iniziano il loro percorso organico di decomposizione e vengono inseriti nelle vivaci dinamiche di trasformazione urbana organiche o artificiali, esposte a qualsiasi tipo di intervento umano su di esse. Ad esempio, come testimonia Sabina De Gregori nella sua pubblicazione su Banksy 39, i pezzi londinesi del famoso artista hanno avuto i destini più differenti. Molti non esistono più, 37 J. GROßE, op. cit. J. BAUDRILLARD, La sparizione dell’arte, Politi, Milano 1988 39 DE GREGORI Sabina, Banksy il terrorista dell’arte, Castelvecchi, Roma 2010 38 20 cancellati dai raid di igienizzazione urbana delle amministrazioni locali o sostituiti da nuove opere, di Banksy medesimo o di altri artisti, altri invece sono stati sottratti al continuo mutamento cui erano votati da un intervento intenzionale di protezione operato dalle istituzioni, nella manifestazione terrena di bacheche in plexiglass davanti ai suoi stencil sui muri. Il carattere transitorio di queste opere d’arte, unito al possibilità di dover cercare, o seguire particolari percorsi per accedere alla loro fruizione, sembra inoltre riportare inaspettatamente in vita, proprio nell’epoca della riproducibilità tecnica esponenziale, una parte di quell’aura propria delle opere d’arte di un passato in cui il valore cultuale prevaleva su quello espositivo. Infatti se è vero che i lavori di Street Art sono quasi tutti presenti in versione fotografica in rete, per fruirne nella loro completezza, inseriti nel contesto architettonico/paesaggistico e nella dimensione reale, è necessario farlo nel qui ed ora di un’esperienza individuale. Questa è resa unica e irriproducibile dalle molte variabili che la determinano: le condizioni ambientali e climatiche, le modalità di raggiungimento, che può avvenire intenzionalmente come frutto di un percorso pianificato oppure essere casuale e imprevisto, la presenza o l’assenza di altri individui sul luogo e le loro attività, e infine lo stato in cui si trova l’opera al momento della fruizione, data la sua esistenza incerta e volubile che rende estremamente difficile prevedere quanto un’opera potrà durare su un muro in una determinata condizione e in assoluto. Come sottolinea anche Questioli queste opere “ritrovano nella loro precarietà quell’aura che nell’arte del secolo passato pareva definitivamente compromessa”40. La Street Art produce opere che sono caratterizzate da aspetti che si ritrovano anche in alcune forme dell’arte contemporanea in generale: è accessibile in spazi aperti e interagisce col paesaggio come la public art, ha una forte relazione con il contesto come i site specific projects, è interattiva come l’arte relazionale e può vedere incluso il fattore temporale come l’arte processuale, eppure si tratta di un fenomeno che è stato in grado di destabilizzare le regole del sistema dell’arte contemporanea. Una delle molte ragioni è che vi sono delle istanze fondamentali e fondanti per l’identità di quest’arte che sono difficili da conciliare con il circuito istituzionale. Le opere che produce sono eseguite in assenza di autorizzazioni o richieste e molto spesso infrangono le leggi che regolano la gestione dello spazio pubblico. Per molti critici e artisti questa condizione è qualcosa di connaturato alla Street Art esattamente come la relazione con la strada, dato che si tratta di una scelta pratica, poetica e politica che può 40 S. QUESTIOLI, Arte abusiva o dell’abusivismo delle definizioni, «Exibart.com», 2004, 28 maggio 21 essere più o meno cosciente ma che ha un suo significato, un’importanza e delle conseguenze pratiche, poetiche e politiche sull’opera. Il critico Stefano Questioli ad esempio, ritenendo insufficiente e troppo generico il termine Street Art, ha introdotto l’utilizzo del termine arte abusiva41, pensando soprattutto al contesto italiano. Qui infatti risulta particolarmente efficace il polemico accostamento tra due prodotti abusivi tipici del nostro paese come le pitture murali di Blu ed Ericailcane e l’abusivismo edilizio, complice di epiche opere di devastazione, al fine di far emergere le contraddizioni dell’approccio istituzionale alla gestione del paesaggio. La scelta di questa definizione è la scelta critica di riconoscere e sottolineare l’importanza del carattere e della condizione abusiva dell’arte di strada, la parte di essa che rivendica la propria affinità elettiva con i ratti che “esistono senza il consenso di nessuno. Sono odiati, braccati e perseguitati. Vivono in silenziosa disperazione tra il sudiciume. E tuttavia sono in grado di mettere in ginocchio intere civiltà. Se sei sporco, insignificante e senza amore allora i ratti saranno il tuo modello.”42 L’uso del termine arte abusiva ricorda ed evidenzia l’origine e la potenzialità di queste pratiche come “arte di opposizione”43, l’esistenza di aspetti difficili da addomesticare e ridurre in forma di arte pubblica e ancor più di arte da galleria, che rappresentano una parte importantissima della loro anima, seppur non sempre presente e non sempre con la stessa intensità. Quella parte con una forte componente etica e politica, quella più “legata una volontà attiva, militante, nutrita di valori oggi imprescindibili quali l'ambientalismo, la denuncia della perdita progressiva di libertà ed una profonda consapevolezza dell'assoluto potere visivo in seno alla nostra civilizzazione: sia esso al servizio della creazione di un immaginario della persuasione o sfruttato a semplice scopo di ritorsione”44, quella più volta alla “dissacrazione dell'organizzazione trinitaria curatore-gallerista-collezionista e delle sue istituzioni”45 e di tutte le regole del sistema di produzione di cultura basato su legislazioni e autorizzazioni ufficiali e strutturato sul principio del diritto d’autore. Rivelando la sua radice comune con la net.art, a sua volta legata al mondo hacker, l’arte abusiva mette in crisi tale sistema attraverso l’impiego di pratiche autoriali alternative come l’utilizzo di pseudonimi, l’anonimato e l’uso di nomi collettivi e producendo opere che sfidano la possibilità di S. QUESTIOLI, Arte abusiva o dell’abusivismo delle definizioni, art. cit. BANKSY, op. cit. 43 T. TOZZI, Arte di opposizione, Shake, Milano 2008 44 S. QUESTIOLI, Elargissez l’art! Arte abusiva parte seconda, in «Exibart on paper», 2004, n.18, novembredicembre, p. 24 45 Ivi 41 42 22 mercificare l'arte con le loro caratteristiche di fruizione libera, apertamente accessibile e gratuita, e data la possibilità di riproduzione e diffusione non regolamentata, che paradossalmente convive con la “rinnovata unicità e la contraddittoria irriproducibilità di tali interventi”46. Tutto ciò costringe a ripensare le modalità di commercio, commissione e fruizione delle opere d’arte laddove, nel caso di artisti o curatori di eventi vi sia l’ interesse o la necessità di applicarle ad una forma artistica così sfuggente, recuperandole magari da epoche passate o da contesti culturali differenti, ad esempio il nostro Medioevo, in cui forme di artigianato altamente qualificato e grandi commissioni di opere d’arte destinate alla fruizione pubblica convivevano, con una scarsa rilevanza attribuita alle problematiche legate all’autorialità a favore di modalità esecutive collettive e spesso anonime 47. Sono soprattutto questi ultimi gli aspetti più ostili all’integrazione delle arti urbane nel sistema arte ufficiale. Mentre fruizione aperta, realizzazione site specific e collocazione outdoor sono pratiche contemplabili in contesti istituzionali, più complesso è assimilare o assecondare l’anima abusiva e sovversiva delle arti urbane. Ma il sistema dell'arte è notoriamente in grado di “digerire anche ciò che lo nega”48 quindi nasce in seno ad esso, a digestione iniziata, la questione di come porsi rispetto agli aspetti dell’arte abusiva che tendono alla sua negazione: se ritenerli marginali e trascurarli, magari per cercare di rendere la Street Art un po’ più sweet art49, o tentare di tenerli presente trovandosi ad affrontare un rompicapo fatto di contraddizioni e interrogativi che ha come possibili risposte una infinita serie di tentativi, alla ricerca di un compromesso soddisfacente tra street e art, e infinite altre domande. Tra le più frequenti, come sottolinea Questioli, se sia “la documentazione l'unica via possibile per l'esposizione di queste opere”50. A questo interrogativo tentano di rispondere in modo negativo tutti coloro che organizzano festival ed eventi dedicati al fenomeno. Tra i molti che sono stati e che vengono ancora periodicamente realizzati, il sud Italia offre un esempio particolarmente interessante proprio al proposito della tematica dell’ abusivismo: il Fame Festival di Grottaglie. Evento che nasce in assenza di patrocini e S. QUESTIOLI, Elargissez l’art! Arte abusiva parte seconda, art. cit. L’indagine su queste e altre possibili connessioni tra la street art e Medioevo è argomento del saggio di Fabrizio Lollini « Modelli dell’intenzione». Strategie della produzione e della percezione: per un confronto tra la pittura medievale e il wall painting contemporaneo 48 S. QUESTIOLI, Elargissez l’art! Arte abusiva parte seconda, art. cit. 49 Street art sweet art è il nome (che è tutto un programma) di una mostra tenutasi al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano nel 2007 e curata da Alessandro Riva. Si veda il catalogo Street Art Sweet Art a cura di Alessandro Riva edito da Skira nel 2007 50 S. QUESTIOLI, Elargissez l’art! Arte abusiva parte seconda, art. cit. 46 47 23 autorizzazioni da parte delle istituzioni locali, evidenziando come spesso in Italia sia più difficile autorizzare questo tipo di arte che condonare l’abuso edilizio, di cui la provincia di Taranto, in cui sorge la città ospitante, è ricca di esemplari, e confermando che forse, ancora una volta ha ragione il cavaliere fantasma dell’arte abusiva Banksy, nell’affermare che è “più facile ottenere il perdono che il permesso”51. 51 BANKSY, op. cit. 24 1.3 Arte deprivatizzata 3. Blu, Livingston, Guatemala 2007 Alcuni degli aspetti che caratterizzano la cosiddetta Street Art, ad esempio la collocazione outdoor e l’importanza della relazione con il contesto e con un ampio pubblico, si ritrovano anche nelle pratiche artistiche contemporanee che vengono raccolte sotto la definizione di arte pubblica. Queste si sviluppano e diffondono a partire dalla fine degli anni Sessanta, nel contesto di quelle avanguardie che dal Sessantotto in avanti, attraverso una serie di sperimentazioni, hanno modificato e ampliato le possibilità dell’operare artistico nell’intento di creare un contatto più forte con altri ambiti della cultura e della vita e aumentarne il potenziale sociale e politico, indagando i confini dell’estetico e tentando di spingerli più lontano, proseguendo il percorso iniziato dalle Avanguardie Storiche. Il superamento delle barriere tra arte e vita infatti, era un obiettivo e una problematica centrale già nei manifesti teorici dei movimenti di Avanguardia del primo Novecento; ma le conseguenze materiali e pratiche che ne conseguono divengono evidenti e diffuse soprattutto tra i decenni Sessanta e Settanta del secolo. È in questo periodo che vediamo di fatto le pratiche artistiche uscire o svilupparsi al di fuori dei confini, degli spazi e dei 25 supporti che erano loro stati destinati per qualche secolo con le Neoavanguardie e, parallelamente in ambito abusivo, con il Graffitismo. Gallerie, musei e collezioni private, contenitori ideali di oggetti artistici come quadri e sculture, divengono così strutture inadeguate e insufficienti. Impossibilitate a contenere opere d’arte nate dal bisogno di comunicare con un pubblico più ampio e con uno spazio più ampio come emblematicamente e quasi iperbolicamente esemplifica la Land Art. Nonostante le prime esperienze di public art e l’introduzione del concetto, siano contigue cronologicamente ai primi sviluppi del fenomeno del Graffitismo, nonostante entrambe possano essere conseguenza della volontà e della necessità sentita al tempo di interagire e intervenire nel tessuto urbano e sociale delle città, le due realtà nascono e si sviluppano a partire da contesti e presupposti estremamente differenti. Per quanto riguarda l’arte pubblica si tratta, come spesso si sente dire, di “portare l’arte fuori dai musei”, portare quell’arte abituata ad un contesto protetto, funzionale alla sua legittimazione, ad avere un contatto con il mondo esterno attraverso episodi di arte pubblica. L’arte di strada al contrario, nasce nella strada ed è prima segno, gesto e comunicazione, e solo in un secondo momento viene legittimata e diviene arte. A proposito di tale distinzione, Baudrillard nel saggio Kool killer52, sottolineava la differenza tra i graffiti spontanei e i city walls, murales commissionati dalle amministrazioni pubbliche al fine di decorare l’architettura cittadina e di “fare dono dell’arte al popolo” 53. Questa differenza forse era allora più facile da individuare poiché le differenze di istanze ed intenti si rendevano evidenti e visibili rispecchiandosi nelle differenti scelte formali e stilistiche. I city walls spesso contemplavano linguaggi figurativi ed erano esplicitamente finalizzati ad abbellire la città, mentre i Graffiti utilizzavano solo i segni. Selvaggi e istintivi, erano praticati più che progettati con una finalità preventivata, e l’istinto sembrava condurli a una “insurrezione nel luogo dell’urbano come luogo della riproduzione del codice”, volto a più a “sabotare la rete stessa dei codici”54 che ad adempiere a questioni di gradevolezza estetica. L’arte pubblica che si sviluppa nell’ambito dei movimenti artistici post-sessantottini, così come i city wall, è legale e commissionata, “si allontana dall'idea di monumento in quanto ha fini comunicativi e mai celebrativi”55, ma stilisticamente e linguisticamente è legata alle nuove tendenze di ambito propriamente artistico: concettuale dalle temperature variabili, 52 In J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2002, I ed. 1979 J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, op. cit., p. 95 54 Ivi 55 voce Arte pubblica di Wikipedia, it.wikipedia.org 53 26 pratiche performative, minimalismo e pop. Queste si ritrovano anche nei più noti interventi pubblici sul suolo italiano del periodo, come il Cretto di Gibellina di Alberto Burri, l’ago e filo di Oldemburg a Milano o la Fontana Igloo di Mario Merz a Torino. Oggi i linguaggi dell’arte urbana si sono evoluti e contaminati, l’arte abusiva non si limita al lettering ma adotta linguaggi iconici, figurativi, concettuali, astratti, performativi narrativi e perfino decorativi, quindi le differenze possono risultare talvolta quasi invisibili in superficie, e le diverse sfere si trovano spesso ad entrare in contatto e a sovrapporsi, ma sussiste ancora una sostanziale divergenza di istanze a separare l’arte pubblica dall’arte abusiva. Come evidenzia Stefano Questioli, nonostante i due tipi di pratiche siano accomunate dalla fruizione collettiva, pubblica e decontestualizzata rispetto agli spazi funzionali ad essa, “l' arte pubblica è una arte mediata, in un certo senso condizionata, per portare l'arte al popolo, mentre l' arte abusiva è un’arte che nasce direttamente dalla intenzionalità dell'artista”56. Lo stesso Questioli in un saggio precedente affermava che “l’arte abusiva non va confusa con l’arte pubblica, che, sì, accade anch’essa outdoor, ma attraverso l’avvallo delle istituzioni (artistiche e/o politiche). Il contenuto talvolta potrà apparire simile, non il piano ontologico, esattamente antitetico”57. Nei casi in cui pratiche solite a svolgersi in contesti illegali vengono trasferite in contesti ufficiali e riconosciuti, l’arte smette di essere abusiva e diviene pubblica “anche se le istanze, l'etica e lo stile non cambiano”58. Il panorama attuale della Street Art si presenta (anche) sotto questo punto di vista composito ed eterogeneo e abbonda di situazioni ibride. Moltissimi street artist contemporanei e quasi tutti i più conosciuti, lavorano sul doppio binario dell’illegalità autonoma e delle commissioni private e/o pubbliche, muovendosi nel limbo delle arti urbane odierne di cui parla Robert Klanten introducendo il libro Beyond the street, lavoro antologico sull’arte al di là della strada colta in proprio in questa zona intermedia e ibrida molto ampia “tra l’atteso riconoscimento pubblico in quanto arte e una, altrettanto essenziale, credibilità di strada”59, visto che “dal sottopassaggio urbano alla high art, con tutto quello che sta nel mezzo è pieno di spazio, al di là della strada e sulla strada da percorrere”60. In questo limbo i confini si confondono e si fanno labili ma il movimento che 56 S. QUESTIOLI, Arte abusiva vs arte pubblica, in «Artext», artext.it, 2007 S. QUESTIOLI, Arte abusiva o dell’abusivismo delle definizioni, in «Exibart on paper», n. 28, 2004, maggio 58 S. QUESTIOLI, Arte abusiva vs arte pubblica, op. cit. 59 R. KLANTEN, In limbo in P. NGUYEN, S. MACKENZIE, Beyond the streets. The 100 leading figures in urban art, Gestalten, Berlin 2010 60 Ivi 57 27 conduce l’arte da museo a cercare di uscire per prendere una boccata d’aria nell’ambito di manifestazioni e commissioni di public art è l’esatto contrario del movimento che tenta di far entrare l’arte di strada nei contesti istituzionali, nonostante i risultati derivanti dalle due opposte operazioni di mediazione possano risultare simili o equivalenti. Nel secondo caso gli addetti ai lavori del mondo artistico si trovano costretti uno sforzo per contenere, incanalare, valorizzare e rendere commerciabili i linguaggi nuovi nati al di fuori dei cosiddetti spazi deputati all’arte, per costruire intorno alle opere che sorgevano nello spazio della vita degli spazi semichiusi, dei contesti, per cercare di catturare queste forme artistiche che altrimenti si fonderebbero al quotidiano rendendo impossibile ogni commercializzazione e per adeguare i classici contesti espositivi laddove anche il termine esposizione appare impossibile da applicare, trattandosi di opere nate per vivere all’aperto. Nelle iniziative di arte pubblica invece avviene il contrario, e nel portare l’arte al di fuori degli abituali contesti, può accadere che essa riveli la fragilità che anni di reclusione possono causare. Ne derivano una serie di problematiche impossibili da immaginare associate all’arte urbana nata in contesti abusivi. Ne sono un esempio quelle che emergono nelle analisi di alcune esperienze italiane in ambito di arte pubblica, contenute nel saggio Arte e scena urbana di Alessandra Pioselli61. Il critico Luciano Caramel, rilevava negli artisti una percezione di impossibilità a realizzare opere che agissero in rapporto con la struttura urbana e la tendenza a rinunciare “alla possibilità di intervenire su di essa modificandola”62 spesso lasciando che “la città divenisse uno sfondo”63 a causa “della difficoltà in cui versa l’attività estetica, costretta ai margini” 64, dalla quale consegue quella che l’autrice riassume come “una difficoltà avvertita da parte degli operatori culturali nell’identificare le funzioni dell’arte nella città, nel sociale, e una consapevolezza della debolezza e della marginalità della pratica artistica rispetto all’azione politica”65. L’impiego stesso del termine arte pubblica contiene dei paradossi. Se “per arte pubblica si intendono genericamente gli interventi artistici – tanto in città quanto in paesaggi naturali – al di fuori di musei e gallerie ovvero degli spazi solitamente deputati a ospitare l’arte, nonché quelli all’interno di spazi quali scuole, ospedali, tribunali o carceri” 66, questo implica A. PIOSELLI, Arte e scena urbana in C. BIRROZZI, M. PUGLIESE (a cura di) L’arte pubblica nello spazio urbano. Committenti, artisti, fruitori, Bruno Mondadori, Milano 2007 62 L. CARAMEL in A. PIOSELLI, Arte e scena urbana, op. cit., p. 26 63 Ivi 64 Ivi 65 A. PIOSELLI, Arte e scena urbana, op. cit., p. 26 66 C. BIRROZZI, M. PUGLIESE, op. cit., p.1 61 28 che la restante arte, non è di fatto pubblica, o non lo è abbastanza, e che gli spazi ad essa deputati, come i musei e le gallerie, non lo sono altrettanto, come rivela la lettura al negativo (attraverso ciò che esclude) della definizione stessa. La comparsa nel panorama artistico di un’arte pubblica, nella forma di un ambito a sé stante, quasi di un sottogenere dell’arte contemporanea, è sintomatico delle carenze dell’arte tutta, delle sue drammatiche difficoltà ad adempiere in modo soddisfacente alle finalità pubbliche e sociali che si pone, a cui spesso nel corso della storia umana le arti hanno risposto pur rientrando semplicemente nella categoria di arte. Lo sottolinea Stefano Boeri quando scrive: “Penso che quello dell’arte pubblica sia un tema irrilevante. La distinzione fra arte pubblica e arte contemporanea è irrilevante. L’arte ha una finalità a priori pubblica o sociale.”67 La ragione per cui la public art ha potuto risultare una pratica avanguardistica, e per cui tuttora può apparire una tendenza innovativa, è il suo emergere dalla contrapposizione con un lungo periodo precedente, in cui in ambito artistico hanno dominato modalità di fruizione diverse da quella che attualmente viene definita pubblica. Quando posto in un particolare contesto logico, infatti, il termine arte pubblica sembra finalmente assumere un significato. Tale contesto è la relazione di antinomia con il proprio opposto, arte privata. È questa relazione che Stefano Questioli usa per spiegare la ragion d’essere dell’arte pubblica: “l’arte pubblica è rivolta ad una fruizione collettiva, mentre l’arte privata ad una fruizione soggettiva”68 e, altro aspetto fondamentale che distingue l’arte pubblica da quella privata è che essa non è vendibile, pur essendo mercificabile. Nella modernità il quadro era quasi l’oggetto artistico per eccellenza. La sua forma rispecchia e contiene la Weltanschauung dell’epoca, sia quella estetica basata sulla forma simbolica della prospettiva69, sia quella socio-economica basata sulle proprietà private e sugli scambi commerciali tra queste, che in ambito artistico si traduce nella predominanza del collezionismo e della fruizione privata. Il quadro in quanto oggetto mobile e autosufficiente fino all’indifferenza rispetto al contesto, agevola il passaggio da una proprietà privata all’altra e da una fruizione privata all’altra, e contribuisce alla dominazione di questo uso personale o privato dell’arte, che una volta incancrenitosi e fatto decadente ne ha alienato il rapporto con il pubblico riducendolo allo stato attuale. Tutte le forme di arte pubblica S. BOERI in L’arte pubblica tra incisività e inutilità. Conversazione tra Andrea Lissoni e Stefano Boeri in C. BIRROZZI, M. PUGLIESE, op. cit. 68 S. QUESTIOLI, Arte abusiva vs arte pubblica, in «Artext», artext.it, 2007 69 E. PANOFSKY, La prospettiva come forma simbolica e altri scritti, Feltrinelli, Milano, 1961 67 29 invece, da quelle premoderne a quelle postmoderne, sono meno conformi o quantomeno meno confortevoli rispetto a questo modello di fruizione e commercio. Il tema dell’invendibilità dell’opera d’arte riconduce, attraverso l’arte pubblica, all’arte abusiva. Ambedue sono “per costituzione invendibili” 70 ma l’invendibilità dell’arte abusiva ha connotati molto più radicali. L’arte abusiva produce interventi e opere la cui realizzazione e fruizione è intenzionalmente gratuita e non richiesta, mentre l’arte pubblica, la cui la fruizione non è a pagamento, ha comunque dei committenti, dei finanziatori e un prezzo. “L’abusivismo artistico è praticato nell'incuranza delle leggi, nel non rispetto della proprietà privata, ma è soprattutto praticato nell'incuranza delle leggi del contesto artistico”71. Questa scelta, che sia istintiva oppure ponderata e consapevole, è una dichiarazione di opposizione agli schemi “del circo intellettuale postmoderno dell’arte”72 nonché alle dinamiche che dominano gli scambi economici del mercato culturale e globale. Spesso nell’ambito abusivo, coerentemente con i suoi presupposti, è l’impiego autonomo e autogestito delle moderne tecnologie di comunicazione che permette ai “protagonisti del movimento di costruirsi un profilo, ottenere riconoscimento ed eventualmente condurre una modesta ma gratificante vita che aggiri la catena alimentare tradizionale del mercato dell’arte”73, ma è possibile anche mercificare quest’arte attraverso una forma di mercato indiretto, traslato” che ne “sostiene e legittima la prosecuzione” 74 e che rappresenta una fonte di sostentamento un po’ più concreta e/o consistente per gli artisti. Ancora una volta si perde il carattere abusivo ma questo non implica meccanicamente la totale perdita di potenziale comunicativo, il rinnegamento di contenuti e tradimento della propria poetica con relativo ingresso nel girone infernale o nell’empireo dei venduti. Certamente conduce in un territorio irto di contraddizioni e fitto di dilemmi sulla tematica del purismo, ma anche al suo interno sopravvive la possibilità di compiere delle scelte non irrilevanti, determinando il livello di compromesso tra utopia e realtà desiderato in una vasta gamma di soluzioni intermedie tra gli estremi dell’ortodossia e della prostituzione che la vita offre a ciascun individuo. Come conferma l’artista Blu che, interrogato sull’argomento risponde: “per quanto mi riguarda vendere arte mi permette di continuare a dipingere in strada, da una parte si vende e dall’altra si regala, finché posso preferisco questo piuttosto che lavorare per la pubblicità come la maggior parte dei 70 S. QUESTIOLI, Arte abusiva vs arte pubblica, art. cit. Ivi 72 R. KLANTEN In limbo, op. cit. 73 Ivi 74 S. QUESTIOLI, Arte abusiva vs arte pubblica, art. cit. 71 30 creativi.”75 Blu è uno degli artisti che a una costante produzione abusiva e gratuita, solitaria o cooperativa, sulle pareti di edifici abbandonati, abitati, pubblici, privati, autogestiti e occupati, affianca occasionali decorazioni di facciate di cattedrali dell’arte contemporanea e partecipazioni a manifestazioni e festival di natura più o meno istituzionale. Dalle strade e dai muri animati dalle opere di questi artisti, noti e meno noti, e da coloro che li affiancano documentando, organizzando e curandone il lavoro, arte pubblica e arte di strada fanno fronte comune nel dare vita e rilievo a dinamiche di produrre, fruire, commerciare e far circolare arte e cultura alternative, opposte o ibride rispetto ai meccanismi consolidati dal e nel sistema artistico ed economico, facendo pressione dall’interno o dall’esterno per una sua evoluzione in funzione meno privata e privatistica. Questo aspetto unificante può essere percepito in modo talmente forte da superare le distinzioni fino a pensare, come Blu, che “non esistono né graffiti né street art, esistono l’arte pubblica e le persone che la fanno”76. 75 76 Blu in P. RIVASI, Megunica, in «Garage magazine», 2008, n. 13 Blu in P. RIVASI, art. cit. 31 2. FAME 2.1 Saluti e baci da Grottaglie 4. Blu, Grottaglie, Fame Festival 2009 Grottaglie conta quasi trentacinquemila abitanti, le sue sembianze non sono troppo diverse da quelle di altri centri di medie dimensioni limitrofi alla città di Taranto e della Murgia, più in generale è assimilabile a molte realtà pugliesi di provincia. Paesi che sembrano aver venduto l’anima in cambio di un accesso alla modernità industrializzata, sacrificando memoria, identità e storia per diventare satelliti anonimi di filiali delocalizzate e periferiche di quel mondo produttivo apparentemente così lontano ed esclusivo che di questo angolo di pianeta si è ricordato all’inizio degli anni sessanta per cambiarlo, iniziando col trasformare la città dei due mari nella periferia di un’altra città, l’immenso stabilimento siderurgico Ilva di Taranto, la sua cancerogena Versailles di ciminiere e altiforni sempre accesa in danze incandescenti di metallo polvere e fumo, fabbrica di tumori, ossidi e posti di lavoro per tutto il suo regno. L’industrializzazione ha poi raggiunto la provincia, i cui centri hanno quindi vissuto la classica crescita demografica e conversione produttiva, e il quasi oblio dell’economia tradizionale basata su artigianato e agricoltura. 32 Ne è conseguito un fenomeno di abbandono dei centri storici, la loro “perdita di centralità sia fisica che simbolica”77, l’isolamento e spesso il degrado determinato dal venirsi a creare di una zona di città nuova, che in genere circonda quella antica, che ne diventa così il cuore immobile, che custodisce una memoria che non racconta quasi a nessuno, che racchiude e isola un bioritmo differente da quello dell’epoca in cui vive e rallentato rispetto a quello originario. In questo processo il centro storico viene esonerato da ogni funzionalità, escluso dalla circolazione urbana, vissuto e attraversato prevalentemente da anziani, saltuariamente da giovani in cerca di un posto in cui nascondersi e da qualche occasionale turista domenicale in visita alle architetture monumentali e civili di un tempo non sempre così remoto, ma abbandonato e dimenticato talmente in fretta da far apparire i suoi luoghi quasi dei siti archeologici o delle città fantasma se confrontati con i nuovi centri astorici, prontamente edificati per ospitare la crescente quantità di abitanti e per rispondere ai moderni standard abitativi e caratterizzati dagli inconfondibili stili architettonici dell’Italia meridionale: il brutalismo fai da te e l’eclettismo condonato. In queste città nuove le forme crude dei solidi platonici bifamiliari di cemento e laterizi, si affiancano ai condomìni e alle palazzine figlie dell’edilizia popolare italiana anni Sessanta e alle recenti villette a schiera con giardino, componendosi in una struttura urbanistica imprevedibile e autopianificante, assoggettata all’arbitrio e alla libera iniziativa individuale. Grottaglie rispetta questo standard nonostante delle peculiarità. È un centro ricco di storia, testimoniata dai siti archeologici circostanti come dalla stessa città antica, la cui trama edilizia “che si avvolge su sé stessa, rievoca le suggestioni ed il carattere originario dei primi insediamenti proto-urbani sviluppatisi nel circostante habitat delle gravine” 78 unendo nella sua morfologia la memoria della civiltà rupestre locale al modello urbanistico tipico dei centri antichi dell’intera regione, influenzato dalla dominazione araba, in cui l’ambiente privato delle abitazioni e quello pubblico e collettivo della piazza e della strada “giungono ad un compromesso simbolico e fisico, nell'intricato groviglio di vicoli residenziali che si adagia su un profilo altimetrico tormentato, sfruttandone la natura irregolare” 79 creando ambiti semiprivati, prolungamenti esterni delle abitazioni, destinati alla socialità. Come da copione, in concomitanza con l’inizio del processo di abbandono dell’antico nucleo di Grottaglie, inizia a svilupparsi da un suo fianco, a partire dall’Ottocento, il nuovo e futuro centro, destinato ad isolare e infine condannare quello precedente alla 77 G. ROMANO, Progetto Grottaglie, zerounogrottaglie.it Ivi 79 Ivi 78 33 bidimensionalità storica e ad una valorizzazione monumentale, estetica e commemorativa che lo aliena ulteriormente dalle pratiche collettive quotidiane e contribuisce a ridurne la funzione, avvicinandola a quella di un souvenir a forma di trullo sulla mensola del salotto.80 La parte antica di Grottaglie presenta però una realtà urbanistica del tutto unica: il quartiere delle ceramiche. Un’intera zona di città completamente monofunzionale, dedicata all’attività artigianale e artistica della produzione ceramica, che per secoli ha costituito il principale sostentamento economico per la città. Il cosiddetto quartiere dei comignoli si sviluppa a partire dal XVI secolo e costituisce una realtà a sé, composta solo da laboratori e botteghe. La tradizione figulina ha fatto di Grottaglie nel corso della storia un importante centro di artigianato specializzato e ancora oggi ne costituisce il tratto distintivo. Infatti qui, la produzione ceramica è riuscita a sopravvivere all’avvento della nuova economia e ad una classe dirigente devota solo a sé stessa e al “New Deal pugliese”81, che hanno determinato la morte di molte altre forme di artigianato. Essa oggi vive e si tramanda nella realtà indipendente del quartiere delle ceramiche, isolata dal normale scorrere della vita reale dell’abitato. La città nuova si è votata alle leggi della produzione dominanti e, anche se in questo caso ha permesso ad una forma di economia preindustriale di continuare ad esistere, l’ha spinta ai margini, riducendo il suo ruolo nell’economia locale a quello di sottovalutato richiamo turistico. Gli autoctoni medi percepiscono la ricchezza del loro paese, e con essa la sua identità e la sua storia, meno dei turisti. Succubi del mito della modernità globalizzata, vivono accecati dal complesso di vivere alla periferia del mondo. A Grottaglie si trova quel prodotto tipico del meridione d’Italia che è la voglia di evadere, la sensazione che l’unico movimento possibile sia la fuga individuale verso quegli Eldorado di tendenza dove tutto sembra possibile e questo riguarda soprattutto i giovani. Difficile trovare la voglia di restare. Appartenere a un luogo del genere viene vissuto come una sfortuna, una condanna ad essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. La realtà sociale di cui questo paese è esempio è complessa. Innumerevoli sono i fattori che fanno apparire ai suoi abitanti la loro città come un luogo ostile e impossibile da cambiare. Queste terre non sono inospitali per natura, come dimostra il fatto che gli uomini vi si sono insediati in tempi antichissimi, sono diseredate e al tempo stesso derubate dai meccanismi macroeconomici che governano l’economia della parte di mondo cui 80 81 Tipico souvenir pugliese A. COLAPS, Fame Festival 2011: tu su internet, noi a Grottaglie, in librarteria.com, 2011, 27 settembre 34 politicamente appartengono, anche se penzolano in fondo alla catena alimentare. La ricchezza raggiunge queste lande quasi solo nella forma dei suoi scarti. Questi luoghi sono la parte geograficamente più prossima di quel rimosso della nostra civiltà, terre letteralmente da comprare per seppellirci il marcio che si vuole tenere lontano dagli occhi lontano dal cuore, con la collaborazione di avidi indigeni che hanno dimenticato ogni senso di appartenenza diverso dal senso di ciò che appartiene a loro. È in questo quadretto da cartolina con discarica che nasce il Fame Festival, quello che oggi si può ritenere probabilmente il più rilevante evento nell’ambito delle pratiche urbane e pubbliche a livello Italiano nonché uno dei più interessanti sulla scena internazionale. 5. manifesto stampato e ideato da Studio Cromie 35 2.2 La mia non è voglia di qualcosa di buono, è proprio FAME 6. Boris Hoppek, Grottaglie, Fame Festival 2011 Mai come oggi si è parlato tanto di civiltà e di cultura, quando è la vita stessa che ci sfugge. E c’è uno strano parallelismo tra questo franare generalizzato della vita, che è alla base della demoralizzazione attuale e i problemi di una cultura che non ha mai conciso con la vita e che è fatta per dettare legge alla vita. La cosa più urgente non mi sembra, dunque, difendere una cultura, […] ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame.82 La storia del Fame Festival potrebbe iniziare da un edificio semidistrutto e inutilizzato di periferia che diventa sala prove e laboratorio serigrafico, oppure dalle masserie abbandonate e dimenticate dei dintorni che diventano sedi di festival musicali autoprodotti. Comunque la scenografia rappresenterebbe di sicuro i paesaggi del profondo sud d’Italia e la sua tendenza alla depressione nonostante il clima mite, e il personaggio principale sarebbe di sicuro Angelo Milano, colui che con la sola forza del do it yourself ha trasformato quell’edificio e quelle masserie in ciò che immaginava potessero essere e poi 82 A. ARTAUD, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 1968 36 ha trasformato il suo paese ridisegnandone “la geografia nel quotidiano prima che nello straordinario.”83 Angelo nasce a Grottaglie, ma rifiuta il destino di emigrato che sembra spettargli per nascita e decide di costruirsi un’alternativa nella sua città che di alternative non sembra offrirne. È per questo che da lei non si allontana mai davvero, nonostante tutte le esperienze fatte lontano, che hanno l’aspetto del viaggio più che della fuga, di occasioni per vedere e riportarsi a casa qualcosa, che può essere un artista in prestito, un idea, un progetto o un’immagine ma sempre da ripensare e riconcepire nel luogo in cui la si vorrebbe realizzare, che non può prescindere da un vero rapporto con esso che si realizza soprattutto nell’esperienza dell’abitarlo e viverlo, anche per un periodo. Durante le sue avventure, Angelo è stato apprendista stampatore di un punk canadese, disegnatore di copertine di dischi in un castello incantato a Monaco84, ladro in quella Bologna estinta di cui la Bologna attuale sembra essere lo spirito senza pace che ne narra le mitologiche gesta, luogo in cui ruba una laurea in semiotica, e infine bassista nella band posthardcore La Quiete85, nata a Forlì all’alba degli anni zero, avventura che continua ancora oggi. Nonostante questo vagabondare gli sia vitale, Angelo torna sempre a Grottaglie perché è proprio in e per questo il luogo di questa terra dove tutto è impossibile, che vorrebbe dare forma concreta ai suoi desideri e ai suoi progetti immaginari. Forse anche per diventare una contraddizione vivente alla favola della land of oppurtunity, che nel piccolo del panorama culturale italiano, all’epoca era raccontata proprio dalla Bologna che lui vive. Favola che una volta vissuta si rivela ai suoi occhi come un esempio di quel sistema di drenaggio di energie economiche, vitali e culturali che li dirige dalle periferie verso i centri (in senso socio economico ancor più che geografico), che è all’origine di ogni flusso migratorio e che alimenta il monopolio della percezione di possibilità, felicità e vivibilità che alcuni luoghi detengono a discapito di altri, che rimangono svuotati di queste possibilità e quasi privati della loro coscienza di esistere come luoghi, abbandonati al potere decisionale di locali che pensano che metterli in saldo sia l’unico modo per inserirli in quell’economia a cui nonostante la decadenza, per personalissimi interessi, sono molto affezionati. Per questo l’uomo della fame ci tiene a precisare che per quanto riguarda il festival, non si è trattato di importare qualcosa dalla viva realtà bolognese in un paese moribondo del sud Italia, bensì del tentativo di reinserire questo paese in quelle mappe 83 A. COLAPS, Fame Festival 2011: tu su internet, noi a Grottaglie, in librarteria.com, 2011, 27 settembre Germania 85 Per saperne di più consultare il sito laquiete.org o la voce La Quiete di Wikipedia 84 37 culturali da cui era stato e si era relegato all’estrema periferia, partendo dalla dimensione locale e usando mappe diverse da quelle egemoni, costruite facendo rete dal basso. Certo, anche il fare rete underground intensifica i suoi intrecci e la sua vitalità laddove, come a Bologna, si intrecciano binari e strade che provengono dalle più diverse direzioni, favorendo gli incontri più diversi. In questi luoghi la storia e la memoria locali si sovrappongono ad infinite altre storie e memorie che lì giungono da lontano per incontrarsi. Questo può semplicemente accadere ovunque, ed è quello che fa accadere il Fame Festival e che prima ancora succedeva nei concerti che Angelo stesso organizzava nelle masserie dei dintorni, invitando gente da tutta Italia che ospitava in quella stessa disastrata sala prove e che vedrà poi l’inizio della rudimentale e improvvisata attività di stampe serigrafiche che si evolverà poi in Studio Cromie. Questi eventi musicali sono stati il contesto in cui Angelo ha conosciuto, tra coloro che si trovavano lì per suonare o per sentire i concerti, quasi tutti gli artisti con cui ora collabora più assiduamente. Essi costituiscono di fatto l’embrione del Fame Festival, contenendone tutto lo spirito e funzionando all’incirca allo stesso modo, nonostante il passaggio dall’ambito musicale a quello delle arti visive, che pure può essere considerato del tutto secondario rispetto alla continuità poetica e metodologica che li unisce e alla continuità umana data dal fatto che molte delle persone che vi ruotavano attorno sono le stesse che realizzano i disegni che Studio Cromie stampa e vende, che a loro volta si sono arrampicati sui muri e hanno invaso le strade della città. La differenza di ambito di competenza dei due tipi di evento risulta ancora più irrilevante se vista dalla giusta prospettiva, ovvero assumendo il punto di vista del contesto nel quale nascono, che è la scuola che ha realmente formato il loro organizzatore e ideatore. La scena culturale, o controculturale, di riferimento è quella dell’autoproduzione, legata alla realtà consistente e attiva dei centri sociali italiani degli anni Novanta, in cui si aveva un approccio multidisciplinare alla cultura. Musica, arti visive e video erano concepite come un tutt’uno a cui collaborare apportando e scambiandosi competenze e capacità. Sarebbe riduttivo definire questa scena un background poiché non prevedeva gerarchie tra i piani, ma aveva una struttura rizomatica, fatta di cooperazione e scambio al di fuori e contro il sistema culturale dominante e le istituzioni. “Un circuito enorme di controinformazione, una rete di realtà interessantissime e alternative al mainstream, una rete rizomatica di supporto reciproco in tutti gli ambienti creativi e di comunicazione” che costituisce la linfa vitale per il lavoro di tutti coloro che l’hanno vissuta e partecipata, tra cui anche alcuni dei protagonisti dell’ultima generazione della Street Art. 38 È attraverso l’esperienza diretta e indiretta di autoproduzione di libri, dischi ed eventi che Angelo acquisisce la consapevolezza della possibilità di realizzare qualcosa che si è immaginato, anche con pochi mezzi e nessuno sponsor. L’intraprendenza e la capacità di autodeterminazione acquisita o ritrovata nel do it yourself, la filosofia di improvvisare e l’arte di arrangiarsi tipica del punk, fluiscono dai concerti nelle masserie abbandonate, a Studio Cromie e da Studio Cromie al festival. Le tre realtà sono costituite tutte della stessa materia, molto organica. Studio Cromie è l’evoluzione successiva della sala prove/motel. Inizia tutto dalla necessità di stampare autonomamente copertine di album, poster per band e concerti punk che Angelo progettava come grafico, che lo porta a realizzare in quel luogo con pochi mezzi non specifici e poche rudimentali competenze, uno studio serigrafico. Il secondo passo fu realizzare che “sarebbe stato figo invitare amici da dovunque per produrre stampe serigrafiche in edizione limitata con i loro disegni e progetti” 86. Inizia così l’attività di stampe d’arte a tiratura limitata di Studio Cromie, che senza la consapevolezza dell’esistenza di una simile possibilità, si trasforma per Angelo in un mezzo di sussistenza e di finanziamento per progetti più grandi. Intanto i suoi amici vandali, disegnatori, musicisti e randagi come Ericailcane, Blu, Cane di coda e Baronciani diventano veri artisti, riconosciuti e inseguiti dai galleristi. Il mondo ha deciso di trasformare alcuni reati in arte e il degrado urbano in oro. La stampa artigianale inoltre è uno dei più immediati e naturali sistemi di mercificazione di questo tipo di arte che su un versante si produce nello spazio urbano e suburbano in forma unica, effimera, non riproducibile e non vendibile, e sull’altro si riproduce all’infinito in mille forme di souvenir che la documentano e la rappresentano ma che mai la contengono: fotografie analogiche e digitali fruibili su libri o in rete, video e per l’appunto stampe. Un sistema che va direttamente dalla fruizione pubblica e gratuita alla diffusione e compravendita di oggetti che tendono alla riproducibilità, e che di conseguenza hanno prezzi più accessibili, lanciando un ponte che permette di passare direttamente dall’arte pubblica all’artigianato artistico, senza attraversare il fossato per privilegiati del possesso di un’opera d’arte unica e irriproducibile. Vi sono dei tentativi di tenere l’arte di strada attaccata a questa dinamica, ma hanno risultati artificiali e forzati, poiché è evidente che la loro vocazione naturale è contribuire a costruire vie d’accesso alla cultura e all’arte molto più democratiche. Adattandosi in modo piuttosto spontaneo a questi presupposti, date le comuni origini, Studio Cromie riesce ad essere molto di più che uno studio serigrafico monofunzionale, la 86 A. MILANO in P. NGUYEN, S. MACKENZIE, op. cit. 39 sua attività va progressivamente allargandosi dal suo ambito specifico di incompetenza, con la versatilità di chi improvvisa. Oggi è una sorta di galleria d’arte contemporanea sperimentale che testa tutte le possibilità di diffusione e vendita applicabili a questo settore artistico, toccando la produzione ceramica, la pubblicazione di libri e forse la stampa di magliette in pezzi unici, oltre alla vendita online dei suddetti prodotti. Un sistema di autofinanziamento che da quattro anni a questa parte ha permesso di sostenere l’organizzazione del festival, che rappresenta la parte curatoriale e organizzativa di Studio Cromie nonché la più nota, che ne riconferma la versatilità e l’unicità dell’approccio. Studio Cromie è in realtà uno pseudonimo dietro al quale si cela tuttora solo Angelo Milano, che inizialmente si nasconde dietro al nome dello studio per suggerire l’idea di un pool di esperti specializzati al lavoro, ma che ora si diverte a rivelare che quello che a Grottaglie vanno a vedere persone da tutto il mondo inizia con lui e il suo cane soli in uno studio incasinato. La determinazione di far accadere tutto ciò che fosse in suo potere proprio a Grottaglie, più che un atto di amore e fedeltà al proprio luogo d’origine può forse essere letta come una scelta fatta in opposizione a quella dinamica per cui ogni energia, cosa e persona deve confluire nelle capitali globalizzate, il cui principale tornaconto è lo svuotamento e la sudditanza culturale ed economica della dimensione locale, e più in generale come un’ipotesi avanzata in risposta al sempre più bruciante interrogativo posto da questo momento storico di più o meno conclamata crisi dell’economia capitalista globalizzata, che rivela le lacune strutturali dei modelli che ci governano 87, di trovare dei modelli alternativi nuovi e/o che passino attraverso il “recuperare ciò che mezzo secolo fa si è abbandonato”88. Se l’organizzatore del Fame non riusciva a concepire “di fare qualcosa lontano da questo posto”89, non è solo perché è sempre stato ispirato dal principio hippie “pensa globale agisci locale”90, ma anche perché avvertiva con l’intensità della fame il bisogno di cercare delle soluzioni ai drammi interni di quel luogo e dei suoi abitanti, che si autoalimentano grazie all’avidità e all’individualismo delle classi dirigenti locali, dei piccoli e grandi potenti e grazie all’indulgenza e all’incoscienza del resto della popolazione. Il Fame è un disperato Come l’artista Blu ha scritto a commento di un suo muro ad Atene, citando L’uomo senza contenuto di Giorgio Agamben, “only in the burning house the fundamental architectural problem becomes visible”, in blublu.org, 2011, 4 ottobre 88 A. COLAPS, art. cit. 89 A. MILANO in P. NGUYEN, S. MACKENZIE, Beyond the streets. The 100 leading figures in urban art, Gestalten, Berlin 2010 90 Attribuibile in origine al botanico, biologo e urbanista scozzese Patrick Geddes (1854 – 1932) 87 40 “tentativo disperato di far succedere qualcosa”91 in quella città, fatto da un suo abitante per “favorire il turismo e portare l’attenzione sui problemi che ci sono qui”92 in modo “che la gente venisse e vedesse quanto è bello questo posto e quanto potenziale è stato sprecato dalla nostra cattiva politica”93. Angelo, in quanto cittadino di Grottaglie, percepisce questi problemi in modo davvero viscerale, per questo ci tiene che il festival ne parli, esplicitamente e implicitamente. Il festival risponde a dei bisogni di un luogo in cui certe mancanze sono talmente forti da essere paragonabili alla fame. Ad esempio il bisogno di capire con che diritto una parte della terra sulla quale i locali vivono, venga venduta a una compagnia privata per costruirvi un’immensa discarica, senza che questi ne siano al corrente. Il bisogno di risvegliare in quegli stessi abitanti la volontà di esercitare il loro diritto di “agire in prima persona sul locale”94, il bisogno di invogliare i giovani a costruire qualcosa invece che prendere un treno per scappare o rimanere a guardare i treni 95 galleggiando tra la sbronza di oggi e quella di domani, il bisogno di ricominciare a sentire dei bisogni che siano rivolti anche a una dimensione collettiva, il bisogno di scuotersi dall’incapacità di percepire anche solo il desiderio di autodeterminarsi… il menù della fame di un luogo come Grottaglie è molto ricco ed è con la stessa forza e prepotenza con cui, chi ha sensibilità, avverte la sua morsa, che il Fame Festival cerca di rispondere, e finora pare che abbia “in qualche modo aiutato a rendere più persone consapevoli della situazione” 96, che è un primo piccolo passo verso delle soluzioni concrete. Il nome del festival sembra un omaggio al modo feroce in cui si può sentire il bisogno di cultura in un luogo dove l’iniziativa culturale più in voga è “la sagra della polvere, patrocinata da comune e regione ogni anno”97, con picchi di qualità come la mostra di un falso figlio di Dalì e le periodiche processioni religiose. Per creare delle alternative di vita che partano dalla cultura, bisogna estrarre da questa idee la cui forza sia pari a quella della fame98. La forza e la violenza di queste idee dovrà essere uguale e contraria a quelle del sistema cui si vogliono opporre, nel caso di A. MILANO in S. PALMIERI, We’re not decorating the city, we just want to make shit happen, destabilize, possibly destroy. Intervista ad Angelo Milano, nel blog «La rotta per Itaca» 92 A. MILANO in P. NGUYEN, S. MACKENZIE, op. cit. 93 Ivi 94 A. MILANO in S. PALMIERI, art. cit. 95 dal titolo del romanzo culto di Irvine Welsh Trainspotting tradotto letteralmente come guardare i treni passare, ossia limitarsi ad assistere all'esistenza 96 A. MILANO in P. NGUYEN, S. MACKENZIE, art. cit. 97 A. MILANO in S. PALMIERI, art. cit. 98 A. ARTAUD, Il teatro e il suo doppio, op. cit. 91 41 Grottaglie, Angelo rende l’idea dicendo: “a me fanno schifo i nostri meccanismi politici locali. Li leggo in rima baciata con mafie e mafiette già viste e denunciate altrove. La satira verso la mafia è una carezza, a me piacerebbe prenderli a pugni questi stronzi. Poi c'è che se non sei bravo a fare a botte usi armi diverse.” 99 7. Boris Hoppek, Grottaglie, Fame Festival 2011 Oltre alla fame di vivibilità, di alternative e di cultura a cui il Festival dà qualcosa da mettere sotto i denti, l’idea di fame cui il nome rimanda, rispecchia anche il suo essere nato come “un bisogno fisiologico”100. Questo aspetto lo rende affine, oltre che alla fame, alla merda, come dice Angelo. Affermazione che può essere spiegata, giustificandone la volgarità, citando il poeta della crudeltà Antonin Artaud, quando in Per gli analfabeti scrive: “Non sono l'intelligenza o la coscienza ad aver fatto nascere le cose ma il dolore mistero del mio utero, dei mio ano”101, descrivendo un approccio istintivo alla creatività che si ritrova nel festival e nell’altrettanto istintivo approccio ad esso del suo organizzatore, che non cerca di fare qualcosa di bello ma di far accadere qualcosa. Qualcosa che smuova, A. MILANO in L. C. D’AMICIS, Angelo Milano è lui il colpevole del meraviglioso Fame Festival, in tuttoilresto-noia.blogspot.com, 2010, 1 ottobre 100 A. MILANO in S. PALMIERI, art. cit. 101 A. ARTAUD, Per gli analfabeti, Stampa Alternativa 99 42 che faccia succedere altro, che faccia pensare: “we’re not decorating the city, we just want to make shit happen, destabilize, possibly destroy.”102 Anche le modalità con cui viene realizzato il festival, le opere e i progetti che lo animano sembrerebbero confermare una buona dose di fiducia in questa componente come metodo per dar vita ad un evento di tale voracità, capace di portare dalla fame alla fame, secondo termine, nonché punto d’arrivo, contenuto nel nome stesso del festival quando questo venga letto privilegiandone l’aspetto cosmopolita a quello provinciale, ovvero leggendolo in inglese. Perfino la “spettacolarizzazione dell’evento è lasciata a se stessa e si autoalimenta” 103; mediaticamente, rispettando la tradizione streetartistica, si appoggia quasi esclusivamente alla rete. Il sito famefestival.it, curato dall’onnipresente Angelo, documenta i progetti con video e foto. Per chiudere il cerchio, il curatore dichiara che “a Fame si premia la totale assenza di tecnica, verso il preculturale”104, onde prevenire qualsiasi eventuale dubbio sull’inclinazione punk del festival. Al Fame si respira sia l’atmosfera do it yourself che l’influenza del think global act local, queste formule sono fondamentali per cominciare a capirne lo spirito ma non vanno interpretate come dei dogmi, poiché il festival procede senza seguirne alcuni. È la semplice realizzazione di una potenzialità, in funzione della quale Angelo Milano si è prestato a fare da fulcro per far confluire in quel preciso luogo, traiettorie dal quale precedentemente era tagliato fuori. “Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili.” 105 102 S. PALMIERI, art. cit. A. COLAPS, art. cit. 104 A. MILANO in S. PALMIERI, op. cit. 105 I. CALVINO nella presentazione di Le città invisibili, Mondadori, Milano 1993 103 43 2.3 Immagina una città Immagina una città in cui i graffiti non fossero illegali, una città in cui tutti potessero disegnare qualsiasi cosa vogliono. Dove ogni strada fosse inondata di milioni di colori e piccole frasi. Dove aspettare in piedi l’autobus non fosse mai noioso. Una città che desse l’impressione di una festa aperta a tutti, non solo agli immobiliari e ai magnati del business. Immaginati una città così e scostati dal muro, la vernice è fresca106 A Grottaglie i graffiti sono illegali e probabilmente i pochi autobus che passano sono in ritardo, però c’è il Fame. Il Fame è un festival in cui artisti internazionali provenienti da diverse parti del mondo sono invitati in un piccolo centro del sud Italia per far reagire la loro arte con la realtà locale e riversarla sui muri e nelle strade. Ha all’attivo quattro edizioni, ma è stato anticipato da un esperimento, risalente all’anno precedente la prima edizione. Di quell’esperienza Angelo racconta: “insieme ad alcuni artisti che avevo invitato per lavorare a delle serigrafie nel mio laboratorio Studio Cromie, abbiamo iniziato a fare un po’ di cose in giro per Grottaglie. In quell’occasione mi sono reso conto che questa gente, proveniente da ogni parte del mondo, si innamorava di questo posto, notava particolarità e potenzialità che gli indigeni ignoravano.” 107 Così nasce l’idea di approfondire l’esperimento e vedere che effetti poteva avere sulla città e sul suo “stato di abbandono materiale e culturale.”108 Il principio è semplice e dalla prima edizione nel 2008 non è cambiato: da fine aprile a fine settembre con l’esca irresistibile del clima estivo della murgia e della cucina ormai leggendaria della signora Gilda109, ogni anno tra i dieci e i venti artisti vengono attirati a Grottaglie, dove trascorrono una residenza d’artista ospitati da Angelo e dalla sua famiglia, che può durare da una a quattro settimane. Durante questo soggiorno ogni artista è invitato ad utilizzare la città come supporto per le proprie opere, senza alcuna autorizzazione istituzionale. Oltre a trovare ospitalità, buon cibo, mare, sole e l’intera città da imbrattare, agli artisti viene offerta la possibilità di collaborare con gli artigiani locali specializzati nella produzione ceramica e di utilizzare lo spazio e l’attrezzatura di Studio Cromie110 per la stampa serigrafica. In questo modo, attraverso l’interazione diretta tra l’arte contemporanea internazionale e l’artigianato tradizionale grottagliese, si producono BANKSY, Wall and piece, L’ippocampo, Milano 2011 A. MILANO in G. CAFFIO Fame, arancini ed eterotopie, in architettisenzatetto.net 108 Ivi 109 La mamma di Angelo 110 Vedi il paragrafo 2.2 La mia non è voglia di qualcosa di buono, è proprio FAME 106 107 44 oggetti artistici in edizione limitata che vengono poi esposti e messi in vendita nell’ambito di una mostra collettiva, che ad ogni edizione chiude la stagione dei graffiti a Grottaglie. Quello che accade col Fame è che l’intera città viene coinvolta e sconvolta dalla presenza di artisti che la abitano temporaneamente e che producono opere pubbliche con le tecniche più diverse, dalla pittura murale alla bomboletta, che risulta quasi vintage se accostata alle tecniche consacrate dalla Street Art di ultima generazione come il paste-up e lo stencil fino ad installazioni tridimensionali e performance, per arrivare ad un’esemplare forma di sintesi mediatica contemporanea come l’animazione su muro. Questa parte del festival, costituita da interventi fruibili gratuitamente nello spazio pubblico per tutta la durata, variabilissima, della loro esistenza, non prevede alcun pagamento e non genera in forma diretta nessun tipo di guadagno. A questo compensa l’aspetto del festival più artigianale. La vendita delle ceramiche e delle stampe a tiratura limitata e di altri pezzi unici che avviene online attraverso Studio Cromie e nel contesto dell’esposizione finale, costituisce la sola fonte di finanziamento dell’evento e di compenso per gli artisti. Affiancare alle opere pubbliche e gratuite, la produzione di oggetti d’arte commerciabili permette al festival di rinunciare ad ogni sponsor e appoggio istituzionale vivendo di solo autofinanziamento. Questo sistema ne preserva l’indipendenza, quindi la possibilità di affrontare nelle opere anche tematiche critiche spesso volte proprio a mettere in luce i problemi e le mancanze derivanti dalle scelte dell’amministrazione locale. La scelta dei luoghi, l’ideazione dei progetti e delle opere, è affidata agli artisti, che durante la realizzazione sono affiancati dall’Angelo custode. Il suo ruolo è quello di una sorta di mediatore, linguistico e non solo, tra loro e la città. È lui che li accompagna alla scoperta del territorio, che si presta a fare da capro espiatorio qualora ci sia bisogno di un responsabile per gli atti illegali che la maggior parte delle opere costituiscono, che fa da traduttore dal grottagliese all’inglese per convincere i residenti a devolvere una parete alla causa dell’arte di strada, per dare spiegazioni e scuse a coloro che tornano dal mare e si trovano un’enorme rana dipinta di fronte alla finestra del soggiorno oppure un muretto in meno e per trattare con le forze dell’ordine, oltre a prestare la sua manodopera per la costruzione di impalcature e altri lavori manuali, come dare una mano a stendere il colore, tutto per favorire la massima velocità di azione e tentare la fuga prima della parte in cui entra in gioco il mediatore linguistico. La mediazione però, non è solo volta a far andare la città incontro agli artisti ma anche il contrario. Quando può e quando serve, Angelo cerca di indirizzarli a pensare i loro progetti su scala locale piuttosto che utilizzare i muri di Grottaglie per riportarvi in scala disegni dai 45 loro sketchbook, pensati precedentemente e altrove, e a tenere in considerazione che le specificità urbanistiche e sociali della realtà in cui intervengono, sono molto diverse da quelle metropolitane su cui sono abituati a lavorare. Al Fame si cerca di pensare i lavori osservando e vivendo gli spazi e le architetture di quel luogo specifico, che ne raccontano la storia, la vita, tempi e drammi, perseguendo l’obiettivo di riempire la città di opere che possano realmente funzionare e dialogare nel contesto prima che globalmente, anche se il dialogo può essere conflittuale e la funzione esplicitamente provocatoria. Gli artisti che finora hanno partecipato appartengono allo stesso composito panorama delle arti urbane, meglio noto come Street Art. Sono rappresentanti di un movimento artistico contemporaneo forte e significativo, forse uno dei più vivi e quello che riesce, molto più di altri, a comunicare anche al di fuori del circuito artistico specializzato. Pur trattandosi sempre di opere che dialogano col contesto urbano e pubblico, il lavoro di ciascuno di questi artisti rappresenta una sfumatura, risultante da attitudini e scelte poetiche individuali oltre che da particolari inclinazioni attribuibili all’influenza dell’ambiente culturale e dell’area geografica di provenienza. Finora più di trenta artisti sono intervenuti sulla città, offrendo nel complesso un quadro piuttosto eterogeneo, che rende l’idea della moltitudine di tendenze che si sono sviluppate sui muri dei centri e delle periferie Italiane, Europee e Americane nell’ultima decina di anni, pur venendo tutti selezionati dal curatore/organizzatore/ideatore/tuttofare del festival Angelo Milano: “gli artisti vengono scelti in base a quanto mi piace quello che fanno e quanto senso può avere il loro lavoro riportato in scala grottagliese.”111 Alcuni di loro, anzi i primi di loro, sono semplicemente amici storici di Angelo, provenienti dallo stessa scena do it yourself italiana, dalla stessa rete di resistenza culturale, all’interno della quale si sono influenzati reciprocamente in tutti i campi della creatività, arrivando alla fine, solo contando gli uni sugli altri, ad avere ciascuno una certa consapevolezza individuale e prospettive più ampie. Blu ed Ericailcane, il fenomeno più punk che Angelo abbia mai toccato nel presente e nel passato, sono tra le tante persone piene di talento che si poteva avere la fortuna di incontrare frequentando quell’ambiente. Ad esempio Leonardo, aka Ericailcane, era il coinquilino bolognese di Angelo. Quando quest’ultimo si è stufato di essere un grafico e ha deciso che era più divertente stampare i disegni dei suoi amici, ha iniziato proprio da quelli di Ericailcane, le quali stampe, vendute A. MILANO in S. PALMIERI, We’re not decorating the city, we just want to make shit happen, destabilize, possibly destroy. Intervista ad Angelo Milano, nel blog «La rotta per Itaca» 111 46 a cinque euro o regalate, sono il primo ingenuo passo verso l’arte contemporanea della premiata ditta Studio Cromie, DIY since 2006. Il rapporto preesistente di amicizia e collaborazione con questi artisti, ha avuto come conseguenza spontanea la loro presenza in prima linea al Fame Festival. Insieme a JR e Lucy McLauchlan, Blu ed Ericailcane sono tra coloro che hanno partecipato e supportato il festival fin dalla prima edizione, contribuendo a costruire con la loro solida presenza e con le loro opere, l’immagine complessiva e la riconoscibilità dell’evento, che ha poi modificato la città stessa, tanto che Angelo li considera elementi fondamentali al pari di se stesso, senza i quali sarebbe stato difficile o diverso immaginare e creare una realtà del genere. Tutti gli altri ospiti, con cui non ci sono precedenti, vengono contattati e invitati semplicemente via mail: “è sempre una scommessa per un artista fidarsi di qualcuno dall’altra parte del pianeta. Devono presumere che saranno provvisti di tutto ciò che gli servirà per lavorare e non c’è alcuna garanzia per loro di come la cosa andrà a finire, quindi è stata una fortuna che molti artisti abbiano deciso di fidarsi di me.”112 Con questa semplice formula, molte delle figure fondamentali della street art mondiale, nel corso degli ultimi quattro anni hanno animato la città di Grottaglie, accettando volentieri le “poche regole del festival.”113 Oltre a Ericailcane, Blu, Lucy McLauchlan e JR, si sono avvicendati nel corso delle varie edizioni nomi come Vhils, Akay, Barry McGee, Boris Hoppek, Brad Downey, Dem, Escif, Momo, Nunca, Os Gemeos, Sam3, Swoon e molti altri, provenienti dall’olimpo della fame oppure più emergenti. In entrambi i casi hanno contribuito ad ottenere il livello di qualità artistica incredibilmente elevato della manifestazione, che riesce così a mantenere un contatto sia con la realtà underground che con quella dell’arte ufficiale di elevata risonanza mediatica, in quella posizione di equilibrio che riflette il lavoro di molti dei suoi partecipanti. Angelo Milano “coinvolgendo le persone, portandole dentro il suo progetto folle di una città dove ogni muro racconta una storia, ospitando gli artisti a casa della santa madre, abbattendo muretti, innalzando impalcature e ponteggi, convincendo (spesso, ma non sempre) le persone a prestare il muro di casa per un disegno, magari scalpellato sull’intonaco annerito”114 ha creato il festival di Street Art su misura per Grottaglie. “This town, were legality is a weird abstract idea and politicians are the first to only care about 112 A. MILANO in P. NGUYEN, S. MACKENZIE, Beyond the streets. The 100 leading figures in urban art, Gestalten, Berlin 2010 113 A. COLAPS, Fame Festival 2011: tu su internet, noi a Grottaglie, in librarteria.com, 2011, 27 settembre 114 G. CAFFIO, Tutti al Fame in architettisenzaetto.net, 2010, 24 settembre 47 their own interests, couldn’t deserve a more appropriate event. an illegal, impro, fucked up, punk parade.”115 Il Fame Festival è un ibrido tra un evento di arte pubblica e un ensemble di interventi abusivi coordinati. È uno di quei luoghi in le distinzioni possono diluirsi, o al contrario infittirsi dando luogo a riflessioni critiche senza fine. È uno di quei casi in cui anche il termine Street Art lascia lo spazio che trova e in cui tra i disegni di Blu, le affissioni fotografiche di JR, il bestiario da parete di Ericailcane, le ceramiche di Momo e Nespoon, le performance di strada di Brad Downey e Akay e gli scarabocchi di Nug, l’arte lascia cadere tutti i suoi prefissi e suffissi restando solo quello che è, e forse nemmeno quello. The truth is that it just feels great to do what we really like to do, especially because we were never asked to do it and it wasn’t supposed to be done at all, so you do your shit, somebody will point it out as illegal, some other will call it art, but after all, legality has never been fun and art is just so BORING when it’s so much “art” that it’s better to let others do the talking. we don’t really give a fuck116 8. Boris Hoppek, Grottaglie, Fame Festival 2011 115 116 traduzione di una parte di un intervista rilasciata da Angelo Milano a Juxtapoz magazine non ancora edita A. MILANO nel sito ufficiale del Festival, famefestival.it, 2011, 4 settembre 48 2.4 Fame and the city 9. Momo, Grottaglie, Fame Festival 2011 10. Momo, Grottaglie, Fame Festival 2011 49 L’effetto che il Fame ha avuto sulla città è stato di portata notevole. L’ha cambiata sotto molteplici aspetti, anche se alcuni cambiamenti vorrebbero essere solo l’inizio di un possibile percorso di presa di coscienza, recupero di memoria e consapevolezza, ripresa economica e culturale. In questa prospettiva il festival riveste il ruolo di un suggerimento, di uno stimolo, valido per Grottaglie come per tutti gli altri luoghi che sembrano essersi persi, non riuscendo più a trovarsi nella mappa dell’impero globalizzato. A Grottaglie il Fame Festival ha ricostruito e costruito una mappatura, che porta abitanti e stranieri a ripercorrerne ed esplorarne le strade con una diversa e rinnovata attenzione che. Questa una volta stimolata per la ricerca delle nuove opere, va inevitabilmente a posarsi anche sul preesistente, che finalmente, visto sotto una prospettiva differente da quella dominante, dettata dai percorsi della funzionalità urbanistica, può rivelarsi in tutta la sua bellezza estetica e pregnanza storica, e nel suo abbandono, nella sua trascuratezza, che non necessariamente si manifesta in forme visibili e che riguarda anche quei luoghi degnati dell’attenzione delle varie valorizzazioni e riqualificazioni. Esemplare è il caso del quartiere delle ceramiche di Grottaglie, che nonostante le cure e i riguardi sembra scivolare costantemente in un oblio di monumentalizzazione e inutilità nel quale la vita reale urbana non può raggiungerlo e dal quale a sua volta non può raggiungere la vita reale. Il suo essere una città nella città diventa un male patologico nel momento in cui i due luoghi non comunicano più e divengono alieni l’uno rispetto all’altro. Il quartiere delle ceramiche di Grottaglie, oltre ad essere percepito dai locali come “un’ovvietà culturale” 117, si trova così a trasformarsi in un’eterotopia rispetto alla città, come la definisce Angelo citando Foucault. Un luogo che per la città rappresenta l’identità e la memoria, nel quale si rispecchia e che la rappresenta ma che sembra appartenere ad uno spazio altro “con regole specifiche per l’ingresso e la partecipazione alle proprie attività” 118, come un cimitero, con la differenza che forse in un paese del sud Italia, il cimitero è più frequentato. Alla realtà custodita nel quartiere delle ceramiche accedono solo i turisti e gli artigiani, e nell’altra Grottaglie non vi è alcuna traccia che rimandi alla sua esistenza: “se ti muovi attraverso gli altri quartieri non puoi sapere di essere nella città delle ceramiche, sembra solo un luogo piuttosto squallido con la tipica, inguardabile, edilizia degli anni ’70.”119 117 G. ROMANO, Progetto Grottaglie, zerounogrottaglie.it A. MILANO in G. CAFFIO Fame, arancini ed eterotopie, in architettisenzatetto.net 119 Ivi 118 50 Questa relazione eterotopica osservabile sul piano urbanistico, riconduce più in generale alla relazione tra il passato e il presente per come viene vissuta in questo luogo, una sorta di amnesia praticata attraverso la commemorazione che porta la vita e le economie preindustriali, laddove non si estinguono, a continuare ad esistere e produrre solo in forma autistica. L’artigianato ceramico grottagliese è ancora vivo ed attivo, ma relegato prevalentemente alla produzione di souvenir che, come dice la parola stessa, non lo porta ad uscire dalla dimensione alienata del ricordo e che non lo rende abbastanza partecipe dell’economia reale, per quanto assecondi e alimenti le fugaci forme di turismo. Uno dei propositi del Fame è proprio quello di cercare di sanare questa ferita ricostruendo il contatto tra il quartiere delle ceramiche e il resto della città, recuperandone lo smarrito ruolo urbanistico ed economico, di “utilizzare come base un’attività artistica e artigianale, consolidata nell’animo e nella storia di una città, ma in declino, innestandone su di essa un’altra, contemporanea, con risonanza globale e che possa avere dei punti di forte contatto con la prima.”120 Nel tessuto urbano, la traccia visibile e materiale del passaggio di quattro anni di festival è costituita attualmente dalle settantacinque opere riportate sulla mappa dell’ultima edizione. Esse creano un percorso e dei percorsi che attraversano le città e diventano una specie di sutura che ne ricongiunge le varie parti. Quartiere delle ceramiche, centro storico, periferia che è subito campagna e parte moderna e postmoderna, tornano parte dello stesso tessuto, ricucite dai passi. Coloro che desiderano vedere le opere, si trovano a conoscere ed esplorare Grottaglie in un modo diverso da quello consolidato nelle abitudini di residenti e di turisti. Possono farsi trasportare dal caso in una deriva psicogeografica, seguire fedelmente la numerazione delle opere riportata dalla mappa del festival come in una via crucis che tra una stazione e l’altra vede nascere percorsi sempre diversi, oppure affidarsi al più antropologico dei sistemi: chiedere per strada o farsi guidare attraverso la città dagli indigeni. Così facendo si scoprono molte cose della relazione tra gli abitanti e il festival, ad esempio che le sue opere si sono integrate nella geografia locale ben oltre la carta, entrando a far parte di quella toponomastica orale e informale tipica dei piccoli centri, capace di guidarti da un luogo all’altro senza mai utilizzare nomi propri ma solo punti di riferimento. Tra questi ora a Grottaglie oltre alla classica chiesa, posta e il bar di quello che aveva il figlio zoppo, figurano anche rane, torte, vari pennuti e naturalmente quel disegno tutto pieno di brillantini. 120 A. COLAPS, art. cit. 51 Anche gli anziani grottagliesi, giunti alla quarta edizione, dopo l’iniziale fase di incredulità, incomprensione e rifiuto si sono rassegnati, o hanno accettato il fenomeno, e spesso si prestano volontariamente a guidare gli amanti della street art attraverso le strade a loro tanto note, forse conservando segretamente la speranza di riuscire a catturare il segreto che nasconde la loro enigmatica adorazione per quegli enormi disegni. D’altra parte è impossibile non accorgersi che da quattro anni a questa parte il turismo di Grottaglie è cambiato radicalmente. A quello tradizionale e prevalentemente regionale, basato sul giro domenicale nel quartiere delle ceramiche con la variante invernale dei presepi e quella estiva della gravina, se ne sovrappone un nuovo tipo. Il nome della città delle ceramiche, noto quasi ed esclusivamente nei territori del Regno delle Due Sicilie, dal 2008 in poi comincia a rimbalzare in qualunque angolo del globo ospiti un appassionato di graffititi o di arte contemporanea dotato di connessione internet, che altrimenti mai avrebbe ipotizzato l’esistenza di questo luogo. “A Grottaglie iniziano ad arrivare persone che mai ci avrebbero messo piede prima, l’economia riceve nuovi stimoli, la città nuova inizia a guardare a quella vecchia ritrovandola attraente, ricordandone il valore e riconoscendone potenzialità.” 121 Il riconoscimento internazionale ricevuto dal festival è stato davvero ampio. Ha ottenuto attenzioni dalla stampa nazionale e internazionale, di settore e generica. Studio Cromie, corredato dal Fame, è l’unica realtà curatoriale italiana, insieme alla galleria Patricia Armocida di Milano, a comparire tra le 100 leading figures in urban art122 selezionate per un’importante pubblicazione tedesca, riconfermandosi uno dei più rilevanti eventi nel settore su scala mondiale. Questa benedizione mediatica e critica, insieme al derivante incremento del turismo, sono stati elementi determinanti nel formare l’opinione pubblica locale sull’argomento. I sentimenti dei cittadini e delle istituzioni locali, si sono evoluti dall’iniziale ostilità all’attuale tolleranza, quando non addirittura approvazione, certamente a causa di un inevitabile tempo di elaborazione e di valutazione delle conseguenze, ma anche e soprattutto perché condizionati dalla legittimazione ricevuta dall’alto e soprattutto dall’estero. Questa meccanismo rischia di reinserirsi proprio in quelle dinamiche di sudditanza e devozione culturale ed economica verso un mitico altrove che affliggono Grottaglie, e che il Fame rifugge e cerca di contrastare. C’è il pericolo di passare dall’odio basato sui 121 A. COLAPS, Fame Festival 2011: tu su internet, noi a Grottaglie, in librarteria.com, 2011, 27 settembre P. NGUYEN, S. MACKENZIE, Beyond the streets. The 100 leading figures in urban art, Gestalten, Berlin 2010 122 52 pregiudizi e sulla mancata conoscenza ad un entusiasmo d’importazione senza mai muoversi dal medesimo stato acritico, con il solo risultato di diminuire le potenzialità comunicative dell’evento. Angelo infatti non trova affatto confortante l’acquiescenza che recentemente sembra circondare il Fame: “ottenuto il consenso generale dalla stampa locale, nazionale ed estera, il festival si è legittimato agli occhi di tutti e sembra che tutto quello che facciamo sia bello e giusto. E serviva che ce lo venissero a dire dei pessimi giornalisti a quanto pare.”123 In questo modo si interrompe la dialettica innescata con le prime edizioni, creando una percezione distorta che lo fa apparire, tradendone profondamente la natura, come qualcosa dagli intenti decorativi. Il Fame invece non vuole decorare, ma innescare reazioni, far pensare, e questo può accadere solo se non viene inteso come una scontatezza. Angelo ha nostalgia dell’atmosfera della prima edizione in cui “la gente non sapeva cosa stesse succedendo e offriva un repertorio di reazioni molto più divertente. Era bello che ci fossero delle resistenze e dei contrasti, ed era bello il dubbio.”124 Il festival, come una tag indesiderata, comparendo in uno spazio pubblico lo attivava in quanto spazio pubblico. A differenza di molte altre presenze esteticamente discutibili che ingombrano il paesaggio urbano, a cui come abitanti si è assuefatti, qualcosa che proviene dal basso e non dall’alto crea una condizione di parità che permette all’abitante di sentirsi legittimato a svegliare dal torpore il proprio senso critico, che potrebbe tornargli utile in altre occasioni. Al di là della presenza di questa dinamica implicita, le opere realizzate nel contesto del Fame sono spesso state volutamente molto esplicite nell’illustrare alcune questioni consigliate per l’esercizio del senso critico individuale e collettivo. Preciso intento del festival è proprio quello di portare alla luce problematiche di pubblico interesse sotto forma di enormi disegni difficilmente ignorabili, che possano funzionare come promemoria per gli autoctoni e come denuncia per chi arriva da lontano. Ne costituisce un esempio il murales eseguito nel 2010 da Blu che serviva alla città, poggiata su un piatto tipico della tradizione ceramica locale, un’enorme torta a strati geologici, ripiena di rifiuti 125, che con il suo surrealismo quasi didattico, allude alla farcitura tossica con cui la classe dirigente A. MILANO in S. PALMIERI, We’re not decorating the city, we just want to make shit happen, destabilize, possibly destroy. Intervista ad Angelo Milano, nel blog «La rotta per Itaca» 124 A. MILANO in A. PURICELLA, Così ho portato a Grottaglie il meglio della street art, in larepubblicabari.it, 2011, 19 settembre 125 ora non più visibile, nel giro di un anno gli è stata costruita davanti una casa, alla faccia di chi dice che al Sud sono lenti a costruire 123 53 grottagliese aveva da poco deciso di onorare i suoi cittadini, regalando loro una discarica a sorpresa, ma molto migliore delle solite discariche perché contenente rifiuti d’importazione, riconosciuta garanzia di qualità per i locali. In molte delle sue declinazioni, la Street Art nasce come pratica artistica con una forte carica antagonista e con una componente di impegno sociale che a volte è vero e proprio attivismo. Da sempre si interroga e interroga sui modelli di sviluppo dominanti e sulle loro conseguenze ambientali e sociali, e l’arte di Blu è il più noto e il migliore esempio di questa sensibilità. 11. Blu, Grottaglie, Fame Festival 2010 54 L’impatto dei messaggi e delle funzioni di quest’arte però, rischia di essere neutralizzato dal processo di istituzionalizzazione attualmente in corso, che tende ad un suo appiattimento sui soli aspetti estetici, opportunamente assimilati in precedenza. Gli stessi effetti si possono riscontrare nella realtà del Fame Festival laddove allo spaesamento si sostituisce il riconoscimento globale e la relativa approvazione locale: “ormai c’è solo consenso, e il potere comunicativo del festival si è ridotto a zero. Ai miei compaesani direi: non vi accomodate anche sul festival, che da comodi si dorme meglio e torniamo al punto di partenza.”126 Finora il Fame ha soddisfatto dei bisogni, ha colmato dei vuoti e ha cambiato il paesaggio di Grottaglie. Il suo esercito di artisti di strada ha aiutato animali, piante, forme e colori ad arrampicarsi su quasi tutte le pareti cieche della città nuova affacciate sui nuovi giardini italiani, i giardini di nessuno che nascono in ogni ritaglio di terreno incolto tra una costruzione e l’altra. Ha sospeso geometrie vuote nei geometrici ventri vuoti degli incompiuti edilizi rivelando quanta assenza ci sia in certe presenze architettoniche. Ha dialogato a volte sottovoce a volte gridando con la struttura urbana e con la storia di un paese di un’ingrata ma luminosa terra. È penetrato nel suo cuore di tufo e pietra per giocare nelle sue stradine ingarbugliate, nelle sue arterie lastricate di bianco e di nessuna intenzione lasciandoci merletti, ritratti e peni stilizzati. Si è spinto fino al confine con la campagna per violare già violati edifici abbandonati. L’arte di strada contiene una piccola dose di violenza. Si tratta solo di colore quindi è una dose omeopatica rispetto alle forme di violenza alle quali e dentro le quali cerca di reagire. Violenze in forma di architettura, di economia, di politica, di sviluppo insostenibile, di sfruttamento e di sottomissione degli uomini e della terra, lasciano tracce indelebili e irreversibili anche se, a differenza dei graffiti, non figurano quasi mai tra le cause del degrado. Conservare una parte della violenza di quest’arte era una promessa del festival, e ora che la fame è stata in parte soddisfatta, la sensazione di sazietà potrebbe rendere difficile quest’intento ed indurre all’immobilità… Ad ogni edizione il Fame si è evoluto ed è cambiato vivacemente, ma nonostante questo oggi si interroga sul suo futuro, spaventato dalla leopardiana prospettiva che vede la noia come stato successivo alla soddisfazione di un bisogno come la fame. 126 A. MILANO in S. PALMIERI, art. cit. 55 3. FAME FESTIVAL ANNO PER ANNO 3.1 Duemilaotto 12. Ericailcane, Grottaglie, Fame Festival 2008 Correva l’anno duemilaotto quando la pacifica cittadina di Grottaglie veniva colpita dalla piaga dei disegni giganti. Era la prima edizione del Fame Festival, tutto era improvvisato, imprevisto e imprevedibile. Era ancora un esperimento e nessuno sapeva se la formula avrebbe funzionato e cosa aspettarsi. I locali nel dubbio, come normale reazione a qualunque invasione aliena, decisero di odiarlo. Erano i bei tempi in cui era sufficiente un innocuo gallo alto dieci metri per scatenare l’ira funesta delle istituzioni e della cittadinanza. Tal pennuto della discordia, proveniva dal bestiario uno dei più noti sreet artist italiani ed era l’opera pubblica non autorizzata che aveva deciso di dedicare a Grottaglie in quel primo anno dipingendo, proprio nel quartiere delle ceramiche, l’animale tradizionale più rappresentativo dell’iconografia decorativa della ceramica grottagliese127. Uno stupendo video della realizzazione dell’opera si trova su Youtube col titolo Erica il Cane at FAME festival 127 56 L’autore, Ericailcane, è colui che ai tempi dell’università, divideva la casa con Angelo, mentre frequentava l’Accademia di Belle Arti e riempiva Bologna dei suoi disegni. Con la precisione di un illustratore scientifico e una velocità impensabile, Ericailcane anima i muri di ratti, conigli, volpi, scimmie, elefanti e una varietà di bestie che, evase da un manuale di zoologia e indossate umane vesti, recitano le infinite scene di una commedia dolce, poetica e a volte crudele. L’immaginario di Ericailcane disegna una fiaba continua sui muri delle città, che riporta in vita, o ritrae tassidermizzati in composizioni commoventi e inquietanti, gli animali del Medioevo di Bosch e quelli del Rinascimento di Albrecht Dürer. Crea un surrealismo urbano contemporaneo, un mondo assurdo che sembra frutto del lavoro oscuro “di qualche perverso illustratore Vittoriano di libri per bambini”128, che trasmette un senso di alienazione al mondo reale che in esso si specchia. Come in delle favole di Lafontaine ambientate nell’epoca postmoderna e che hanno smarrito la loro morale, queste “creature antropomorfe spesso funzionano da allegorie delle debolezze umane” 129. Non ci è voluto molto perché il mondo dell’arte si accorgesse di questo cantastorie e lo volesse come artista di corte. Ma lui continua a preferire fare il menestrello vagabondo, facendo tappa di tanto in tanto in musei e gallerie e tornando sempre volentieri a eseguire pezzi illegali, spesso collaborando con altri artisti e vecchi compagni di giochi come Blu. I muri eseguiti in combo da questi due artisti sono stati un classico della Bologna degli anni zero. L’accostamento degli animali umanizzati di Ericailcane e degli umanoidi disumanizzati di Blu, amplifica ulteriormente l’effetto di spaesamento che i comportamenti di questi grandi esseri bidimensionali hanno il potere di generare in chi li osserva. Ericailcane realizza inoltre installazioni e sculture, gran parte della sua produzione è costituita da disegni che in modo piuttosto naturale diventano stampe, rendendo la sua arte fruibile anche in versione indoor. Questo artista è stato infatti protagonista di numerose esposizioni dentro e fuori i confini italiani. In questi contesti il suo universo si riproduce in una versione più intima, capace di creare sulle pareti degli gli spazi espositivi grottesche maratonde130. Per questa loro particolare capacità di adattamento, le sue opere, a partire da questa prima edizione, sono una presenza costante nelle esposizioni collettive finali del Fame, oltre ad essere tra le più richieste stampe acquistabili attraverso 128 P. NGUYEN, S. MACKENZIE, Beyond the streets. The 100 leading figures in urban art, Gestalten, Berlin 2010 129 P. NGUYEN, S. MACKENZIE, op. cit. 130 Particolare tipo di girotondo praticato nel paese delle meraviglie, cfr. Alice nel paese delle meraviglie 57 l’online shop di studiocromie.org. La stessa attività di produzione e vendita di stampe d’arte di Studio Cromie è stata inaugurata, come già detto, con suoi disegni, uno in particolare potrebbe essere la numero uno di Angelo: “ero a Bologna, nella camera di Ericailcane, con la sua prima stampa, un orso della serie del circo, e mi sono incantato pensando a come sarebbe stato bello se avessimo potuto invitare una serie di artisti a realizzare delle stampe da proporre alle gallerie – ai tempi ero ingenuissimo – o da vendere su internet”131. Ad ogni modo il suo gallo nel quartiere delle ceramiche non è stato apprezzato dai grottagliesi e dall’amministrazione comunale. Per qualche motivo ancestrale e misterioso la sua presenza è stata ritenuta talmente conturbante e fastidiosa che dopo pochi mesi il murales è stato cancellato per mano istituzionale. Questo episodio è sufficiente a rendere l’idea dell’ostilità e della diffidenza che i locali e i loro rappresentanti riservavano al festival all’epoca. La realizzazione delle opere veniva osteggiata con ogni mezzo. In quella prima edizione si trattava davvero dell’incontro ravvicinato tra due realtà totalmente estranee e lontane, quella della Street Art e quella della Grottaglie delle ceramiche dimenticate per la fila domenicale davanti alla snai132, che sprigionava tutto il suo potenziale di assurdità, creando tutto un contorno teatrale che completava l’opera. “Non c'è niente di strano in una cabina telefonica e ancora meno in una mandria di buoi. È se le metti insieme ste due cose che il risultato è strano.”133 Chissà cosa avrebbero pensato coloro che si erano tanto scandalizzati per il gallo, di quelle pulci a grandezza uomo realizzate dallo stesso artista quell’anno. Ma per fortuna queste si aggiravano nelle stanze vuote e poco frequentate del monastero abbandonato, divenuto nelle successive edizioni una tappa fissa per gli artisti del festival. Il grandioso complesso conventuale dei Cappuccini, risalente al sedicesimo secolo, domina dall’alto del suo abbandono la gravina del Fullonese, esempio del tipo di paesaggio geologico che caratterizza di queste terre. Dato il totale disinteresse che dagli anni Ottanta gli viene riservato, l’antico convento posto nell’immediata campagna ai confini della città, è la classica location da sogno per chiunque voglia compiere qualsiasi tipo di atto illecito, indisturbato e con una calma inimmaginabile all’interno dei confini dell’abitato, e di conseguenza anche per megalomani creativi con molte idee e poche autorizzazioni. 131 A. MILANO in G: CAFFIO, Fame, arancini ed eterotopie, in architettisenzatetto.net La SNAI è la società per azioni italiana che si occupa della gestione di scommesse 133 A. MILANO in Rico, Resoconto Fame festival. Due chiacchiere con l'organizzatore, in odelay.eu, 2010, 1 ottobre 132 58 Le sue stanze già violate da molti altri, con poche autorizzazioni e meno idee, offrono lo scenario ideale per l’opera dell’artista Conor Harrington, nato anagraficamente in Irlanda e artisticamente nel Writing, oggi pittore based in London. In una nicchia alla destra di un altare che avrà visto più messe sataniche amatoriali del reverendo Manson in persona, uno dei suoi generali in uniforme ottocentesca, decadente e gocciolante, osserva il cumulo di rovine ai suoi piedi più o meno come in un quadro di Friedrich, ma con un tocco di Johnny Rotten. A (s)consacrare ulteriormente il monastero ci pensano Will Barras e Blu, con uno dei suoi personaggi. Blu dipinge anche su un muro grigio e grezzo, che mostra senza veli tutta la sua nudità edilizia, di quelli che così bene si abbinano ai suoi ritratti della (dis)umanità. In città e quasi alla fine della città, emerge solo la testa bucata di uno dei suoi giganti inquietanti. Probabilmente il resto del suo corpo è ancora seppellito là sotto134. 13. Blu, Grottaglie, Fame Festival 2008 Nel centro storico invece, una cornice vuota su di una parete viene trasformata in un capitello bidimensionale dal brasiliano Ethos, che lì dipinge un gesucristo espressionista in 134 Video reperibile su Youtube http://www.youtube.com/watch?v=YgmgNSkHO4U 59 bianco e nero. Restando in bianco e nero, si attraversa l’Atlantico e si arriva ad un altro ospite, JR. Il lavoro dello street artist francese è inconfondibile. È lui che ha introdotto l’uso della fotografia nell’arte urbana. I suoi grandi, a volte enormi, paste up135 riproducono su diversi tipi di superfici architettoniche, i ritratti fotografici in bianco e nero catturati da lui stesso intorno al mondo, con sguardo antropologico e un’attitudine seriale ma ricca di variabili. Una documentazione costante dell’umano che spesso si ferma più volentieri e più a lungo alle periferie del mondo, che va a comporre un catalogo di volti ed espressioni che rimanda alle serie di fototessere di Thomas Ruff e quelle in bianco e nero di architetture industriali dei coniugi Becher, ma con più ironia. È una serialità che nel suo ripetersi sottolinea le infinite differenze possibili, divenendo un elogio della diversità. Enormi volti d guardano le città dai loro muri, come accade nelle affissioni pubblicitarie. A differenza dei volti di queste ultime però, quelli di JR non provengono da un mondo perfetto e irraggiungibile, bensì dalla realtà della strada, spesso proprio da quelle stesse strade sulle quali si affacciano, come una campagna pubblicitaria che abbia come oggetto la condizione umana reale, spesso con la funzione anticonvenzionale di ricordarne le miserie proprio laddove si cerca di dimenticarle. Celebri interventi sono i suoi ritratti di israeliani e palestinesi affissi lungo il muro della West Bank o quelli di donne africane sui tetti delle baracche in uno slum di Nairobi, in Kenya. A Grottaglie l’artista-fotografo francese realizza un progetto site specific. Un trittico di foto scattate a tre volti di grottagliesi, sviluppa il tema della trinità omertosa del non vedo, non sento, non parlo e ciascun pezzo è collocato in un contesto diverso. L’uomo che interpreta il non sentire è il ceramista più anziano della città, maestro Catavto, che nei suoi sessant’anni di esperienza ha lavorato in tutte le botteghe, e il cui viso segnato dal tempo diventa il soggetto del paste up di JR accanto all’ingresso di un centralissimo laboratorio del quartiere delle ceramiche. Il non vedere invece lo si ritrova affisso su una porta in legno, scardinata e collocata all’interno dell’esposizione finale, accanto ad un’opera di Lucy McLauchlan in cui volti femminili incastonati in un motivo fitomorfo, ancora una volta in bianco e nero, sembrano evaporare da un vaso leggeri come bolle, nonostante siano ben impressi sulla superficie ceramica. Questa prima edizione del festival vedeva una ricca mostra di chiusura, in cui trovavano spazio oltre a numerosi disegni di Ericailcane e Blu, alcuni lavori di Ethos, sbalorditiva prova di quello che sembrerebbe impossibile fare con una biro e invece a quanto pare è Termine di uso internazionale con cui nell’ambito della Street Art si definiscono opere realizzate mediante affissioni cartacee su muro o altre superfici, dall’inglese to paste up, incollare su. 135 60 possibile, una serie di ritratti di spalle eseguite dal musicista fumettista Alessandro Baronciani e lavori degli artisti di area anglosassone figli della spray can Sick Boy e Above. Quest’ultimo, affezionato dello stencil, più che per il suo nome è noto per il suo logo-tag, l’icona di una freccia puntata verso l’alto, cimelio della grafica dei videogiochi bidimensionali che hanno cresciuto la generazione a cui appartiene, esposto e incorniciato nel contesto di questa mostra. Questa prima edizione è stata probabilmente meno elaborata e ricercata rispetto alle successive, c’era molto disegno, pittura e molte stampe serigrafiche. Era in un certo senso forse più artigianale, ma alla parte performativa provvedevano i grottagliesi più o meno influenti, con le loro reazioni alla comparsa delle opere: gente smarita, gente incuriosita, altra che gridava o piangeva, qualcuno che dava una mano e qualcuno che per ordine del comune, faceva sparire le impalcature per dipingere col favore delle tenebre. Tutta questa attenzione da parte dei locali oltre a rendere le cose più difficili, e per questo magari anche più divertenti, permetteva al festival di comunicare loro in modo forte e diretto. È stato l’anno in cui il festival ha fatto più rumore, e in questo rumore ha avuto la possibilità di spostare l’attenzione dei locali sui problemi della loro città, spesso causati dalla stessa amministrazione che lo osteggiava fortemente. 14. JR nel quartiere delle ceramiche 16. Conor Harrington 15. Ericailcane al monastero abbandonato 17. Ethos 61 3.2 Duemilanove 18. Ericailcane, Grottaglie, Fame Festival 2009 È il secondo anno per il ristorante della Fame. Angelo ha sperimentato che la cucina tradizionale di sua mamma Gilda è efficacissima per attirare artisti, soprattutto quelli provenienti dal “terzo mondo culinario”136, così la rosa dei partecipanti si allarga. Il nome del festival inizia a fare il giro del mondo e a raccogliere riconoscimenti all’estero, anche se paradossalmente Grottaglie conserva ancora una certa perplessità nei suoi confronti. Coloro che hanno già partecipato sanno come funziona e conoscono l’atmosfera, che nella maggior parte dei casi piace particolarmente, perché per molti rappresenta un ritorno alle origini, ai tempi in cui lavoravano illegalmente, e perché la cittadina pugliese per la sua conformazione architettonica offre un’invidiabile abbondanza di spazi ibridi e privi di funzione che si prestano ad essere modificati esteticamente dagli interventi artistici degli ospiti che, data anche la ridotta presenza di altre immagini nel suo panorama visivo, sembrano avere qui un impatto maggiore rispetto a quello che avrebbero nel contesto iconograficamente saturo di una metropoli, fast food culturale in cui l’indigestione di stimoli è il menu quotidiano di abitanti e visitatori occasionali. 136 A. MILANO in A. PURICELLA, Così ho portato a Grottaglie il meglio della street art, in larepubblicabari.it, 2011, 19 settembre 62 Il menu del Fame di quest’anno invece, ripropone le specialità della casa di Ericailcane e Blu e vi aggiunge un altro piatto tipico italiano, Dem. I tre appartengono alla stessa generazione di artisti che ha attuato nell’ambito dell’arte di strada più recente “il ritorno di una retorica narrativa, raggiunta attraverso il ritorno alla figurazione” 137, rappresentando l’approdo dell’evoluzione dei linguaggi urbani, che dal Writing, passando per le prime icone sintetiche come la paperella Pea Brain di Cuoghi e Corsello, porta a quello stile che rimanda alle grandi tradizioni del muralismo, come quello “messicano degli anni Trenta” 138, che oggi in qualche modo sembra accomunare il lavoro di molti artisti attivi in paesi ispanofoni e sudamericani e quello di molti italiani. Tra Blu, Dem ed Ericailcane ci sono state numerose e differenti combinazioni di collaborazioni in passato, che spesso si sono materializzate sulle pareti di edifici occupati e autogestiti italiani. Su questi muri si accostavano i loro stili ad altissima compatibilità e le loro creature, capaci di contaminarsi e completarsi reciprocamente conservando le particolarità stilistiche e poetiche personalissime di ciascuno di loro. Quelle di Dem creano un’iconografia fatta di ibridi e mostri portati in vita attraverso eleganti sintesi graficocromatiche. A Grottaglie crea una scena di caccia di un sofisticato neoprimitivismo, interpretata da esseri impossibili che cercano di catturare un enorme creatura mitologica tra il canide, la papera e il pesce. Ambientata tra le saracinesche di una spartana struttura architettonica di cui i colori e linee curve del dipinto compensano il grigiore e l’ortogonalità. Dem, come molti suoi coetanei artisti e non, ha un’innata attrazione per i siti archeologici e gli edifici risalenti all’era dello splendore industriale occidentale, come le fabbriche abbandonate. I figli dell’epoca postmoderna amano animare il vuoto di questi luoghi un tempo destinati alla pura funzione, con atti estetici altrettanto puri come la danza o la pittura. Vi è un rapporto privilegiato tra questi rifiuti architettonici e questa generazione di artisti. Essi sembrano avere una naturale predisposizione al riciclo e alla ricerca dei luoghi più favorevoli al proliferare della vita organica e della biodiversità. Come dei sopravvissuti costretti a ritornare primitivi, decorano con i loro graffiti quelli che sembrano già essere i presagi della fine di questa civiltà e le ipotesi dell’inizio di una nuova. I loro dipinti cercano le strutture che sintetizzano il razionalismo modernista, talvolta degenerato e delirante, per risalirne le pareti come rampicanti e riportare a quelle creazioni umane, la componente rimossa organica e biologica indispensabile alla vita. L. GIUSTI, Dall’insurrezione mediante i segni alla battaglia del meme in F. NALDI (a cura di), Do the right wall, Mambo, Bologna 2010 138 F. NALDI, La mia strada continua e vive oggi più di prima. Il Writing a Bologna dalla fine degli anni Settanta a oggi in F. NALDI (a cura di), Do the right wall, Mambo, Bologna 2010 137 63 Scena funebre per Ericailcane: una lunghissima processione di pennuti vestiti a lutto sfila lungo le pareti esterne dello stadio, celebrando la morte del pollo giustiziato l’anno precedente. Dal suo stesso cappello salta fuori anche un enorme coniglio. Presagio nefasto a tema apocalisse ambientale invece per il masterpiece di Blu. Su una parete piuttosto drammatica di per sé, questo poeta del muro crea un paesaggio trompe l’oeil grigio almeno quanto il suo sfondo che non ha bisogno di ritocchi per diventare un cielo pesante come il cemento, nel quale una distesa di volti umani si rivolgono per rovesciarci dentro nuvole nere respirando dalle loro ciminiere (fig. 4, p. 32). Blu è un artista viaggiatore, le sue opere risentono sempre degli stimoli che gli dà il luogo in cui dipinge attraverso i suoi spazi, i suoi racconti e i suoi abitanti. Come dice l’artista stesso “I’m often influenced by the stories I’ve heard about the place where I’m working”139. Ha anche un forte rapporto con le strutture architettoniche sulle quali lavora, che ama cercare e scegliere, sulle quali i suoi disegni sembrano attaccarsi come piante parassite succhiandone e raccontandone la vita che hanno assorbito, “his inspiration stems from a need to create that is stifled by domestic walls, and from the sheer pleasure of visually transforming ordinary and decayng buildings.”140. I suoi paesaggi e i suoi androidi paranoici nascono da un immaginario che volutamente si lascia condizionare dalle circostanze come dagli eventuali collaboratori Il mondo cyberpunk di Blu racconta spesso di drammi ambientali e sociali, illustrando le dinamiche politiche ed economiche che governano il nostro mondo che si riproducono dal globale al locale, e dal generale al particolare senza cambiare aspetto. Blu dice che la sua ispirazione proviene dai luoghi in cui lo portano i suoi viaggi, quindi se alcuni temi sono ricorrenti è perché ricorrono in molte delle realtà con cui si confronta. Qui a Grottaglie parla di inquinamento perché l’inquinamento parla con prepotenza a questa città e ai suoi abitanti. La rilevanza attribuita a determinate problematiche da lui percepite e restituite come vitali, deriva da una sua particolare sensibilità ma è riconducibile anche alla prospettiva con cui guardava al mondo il cosiddetto attivismo politico degli anni novanta. Quello che cercava di ripensare le attività umane in versione sostenibile in assoluto, affrontando contemporaneamente gli aspetti ambientali, economici e politici, ritenendoli parte di un unico problema sistemico di fondo, quello che Blu rende disegno e racconto. “Le sue pitture murali muovono una critica aperta al consumo, alla finanza, alla 139 BLU in P. NGUYEN, S. MACKENZIE, Beyond the streets. The 100 leading figures in urban art, Gestalten, Berlin 2010 140 P. NGUYEN, S. MACKENZIE, op. cit. 64 speculazione, allo sviluppo insostenibile. Forse più di ogni altro artista abusivo della sua generazione, Blu ha saputo aggiornare la propria vocazione creativa, il proprio stile, ai modi e ai tempi della globalizzazione, mantenendo intatti alcuni dei caratteri fondanti lo spirito eversivo che aveva mosso le prime forme di Graffitismo. ”141 L’arte di Blu si distingue tra le infinite forme e colori che possono appiccicarsi ai muri delle nostre città per l’immediatezza con cui riesce a comunicare socialmente senza perdere poesia. Il potere comunicativo della sua retorica riesce a insidiare lo strapotere detenuto in questo campo dalla pubblicità con enunciati dai contenuti sovversivi. Anche in questo caso si può far riferimento a quella consapevolezza politica di cui si è detto, di cui molta Street Art è imbevuta, che fa del culture jam uno dei principali strumenti di opposizione al sistema vigente. Blu è uno dei molti artisti che non sono estranei all’uso di questa tecnica che consiste nel creare delle interferenze culturali all’interno della comunicazione di massa introducendovi messaggi volti a rivoluzionarla, sebbene i codici visivi del suo linguaggio non siano mutuati direttamente da quell’universo ma da un universo parallelo e interiore, che però trae nutrimento da quello reale. Sarà forse anche grazie alla semplicità delle forme, che le immagini di Blu riescono a comunicare con una tale intensità, complice anche l’imponenza fisica delle sue creazioni. Per assecondare la sua attitudine al gigantismo, l’artista ha abbandonato le tecniche che utilizzava agli inizi del suo percorso artistico. Nel suo passato infatti c’è un “traditional spraycan graffiti background”142, dal quale Blu si è evoluto sviluppando il suo personale linguaggio espressivo rimanendo fedele al contesto. Per realizzare i suoi enormi murales ora Blu utilizza rulli e pennelli, spesso provvisti di lunghissimi bastoni che diventano le protesi delle sue mani nel realizzare disegni ciclopici. Le costose e tossiche bombolette, invece, sono sostituite da colori fatti in casa, per ragioni economiche ed ecologiche, a riconferma della particolare attenzione riservata dall’artista a determinate tematiche. È già di per sé affascinante e interessante osservare nei video il processo generativo delle opere di Blu, che nel susseguirsi accelerato di svariate albe, tramonti e notti, porta al risultato finale, ma lui ha iniziato a spingere più in là la sperimentazione sulle possibili interazioni tra pittura murale e video. È stato uno dei primi ad applicare la tecnica dello stop motion e dell’animazione, a disegni realizzati su parete, creando come esperimento il corto MUTO a wall-painted animation143, record di visualizzazioni su Youtube. Anche nel L. GIUSTI, Dall’insurrezione mediante i segni alla battaglia del meme, op. cit Ivi 143 il video è visibile su Youtube con il titolo MUTO a wall-painted animation by BLU 141 142 65 contesto di questa edizione del Fame, Blu realizza un’animazione su muro, in collaborazione con il poliedrico artista newyorkese David Ellis. Lo stile grafico e di quest’ultimo si combina con quello dell’artista italiano nel video prodotto da Studio Cromie Combo144, in cui le creature dell’uno rincorrono quelle dell’altro sui pavimenti, sui muri, lungo le scale, le grondaie, i ballatoi, dentro e fuori le finestre, del monastero abbandonato coinvolgendo tutta la sua architettura in una folle corsa, la cui fine si ricongiunge al principio in un loop che non ha una conclusione ma che tende all’opera d’arte quasi totale. In Combo dalla quasi monocromia di Blu sgorgano i colori di Ellis, in un flusso che va a rendere animata la struttura dando vita agli elementi derivati dalla sua decadenza utilizzandoli come elementi complementari ai disegni, spingendo ancora un passo uno più avanti la sperimentazione multimediale. Lo stesso monastero abbandonato, quell’estate, oltre a essere posseduto dall’opera video di David Ellis e Blu, viene visitato da Sam3. L’artista spagnolo lascia qui una delle ombre della sua collezione, in cui una grande figura umana siede su tanti piccoli equilibristi e sui loro monocicli. Le altre sue opere sono da cercare nel centro abitato. Le si distingue perché sono quasi sempre prive di colore e di particolari, sono solo profili di delle presenze, silhouettes che restano sui muri delle città per assorbire con la loro ambiguità le interpretazioni, i sogni e le paure di chi guarda, diventando metafore e figure retoriche di una poesia o di un incubo ogni volta diverso. Un’altra artista il cui stile è contraddistinto dall’uso monocromo della pittura è l’inglese Lucy McLauchlan, i cui motivi decorativi fitomorfi sembrano ben predisposti a posarsi con eleganza su qualsiasi superficie o a riempire qualsiasi sagoma, forse memori di quelle Arts and Crafts del suo connazionale William Morris. Questa volta sono due uccelli, forse madre e figlio, che si sono posati sui due lati adiacenti del parallelepipedo perfetto di una torretta elettrica alla periferia di Grottaglie. Senza parole lasciano sentire un dialogo muto creando una di quelle immagini a cui, se cadesse nelle mani di un bambino, probabilmente verrebbero aggiunti dei fumetti. Lo stesso tipo di edificio diventa il supporto dell’opera del conterraneo Conor Harrington, anche lui al secondo giro al Fame, come Lucy e quasi tutti gli artisti elencati finora, i cui interventi nello spazio pubblico sono peraltro accomunati dall’essere ciascuno una variante del medesimo tipo di intervento, la pittura su muro, fatta eccezione per Combo che è un’opera più composita ma in cui comunque questa tecnica ha un ruolo centrale. 144 Il video è visibile su Youtube con il titolo COMBO a collaborative animation by Blu and David Ellis (2 times loop) al link http://www.youtube.com/watch?v=uad17d5hR5s 66 In questa seconda edizione, il Fame Festival è collaudato e in un certo senso più solido, e lo scorcio della realtà artistica che rappresenta si apre alla presenza di una maggiore quantità di differenti media, impiegati nella realizzazione di interventi pubblici e urbani, offrendone nel complesso un quadro più composito. Ne sono esempio le opere di una presenza inedita come Vhils. Questo artista originario di Lisbona, al secolo Alexandre Farto, ha avuto la prima esperienza con i Graffiti a tredici anni ed è diventato, giovanissimo, uno degli street artist più celebri e richiesti a livello internazionale, noto per aver sperimentato mezzi e tecniche nuove nelle sue opere, come quella che utilizza per eseguire un dettaglio di ritratto sul muro di un antico edificio nella piazza principale del centro storico di Grottaglie. Incidendo l’intonaco annerito fino a rivelarne il bianco originario, Vhils scolpisce il chiaroscuro che definisce i tratti di quel volto. Lui fa parte della generazione di artisti che hanno assimilato l’evoluzione delle pratiche artistiche urbane quando essa era già in una fase molto avanzata e presentava un livello di complessità altissimo, una varietà e vastità sconfinata di tipi di interventi, di possibilità di contatto con le istituzioni artistiche e il mercato, di tematiche e di tecniche, ora entrate a tutti gli effetti a far parte del vocabolario quotidiano dell’arte di strada. Oggigiorno la fase di quantificazione è talmente spinta e l’assimilazione di questi linguaggi è così completa, che si può arrivare a percepire questo panorama come saturo e a pensare di essere entrati in una fase manierista della sua parabola, in cui un largo margine della possibilità di stupire è affidato a virtuosismi ed effetti speciali. La poetica di coloro che operano ora all’interno di questo già ricco panorama, spesso può essere caratterizzata, non per scelta ma per circostanza, da una minore dose di idealismo, alla quale però fa da controparte una fortissima consapevolezza delle contraddizioni, dei limiti e del potere della loro arte, che li porta ad avere con essa una confidenza disincantata, che a volte può risultare anche cinica, e ad avere una grande padronanza delle capacità tecniche e retoriche che utilizzano, affrontando la difficoltà di confrontarsi con un pubblico sempre più abituato a questi linguaggi, quasi assuefatto, e difficile da meravigliare. Si può arrivare così ad un sofisticato citazionismo di secondo grado, in cui si rielaborano tematiche e tecniche importate nel campo della Street Art da settori diversi in una fase precedente, proseguendo con la sperimentazione. Questa evoluzione talvolta può rendersi evidente anche nel percorso di un singolo artista, qualora la sua attività sia stata abbastanza lunga da attraversare più di una generazione di queste pratiche. 67 È il caso di Word to Mother, altra presenza inglese al Fame, che inizia facendo Graffiti e che dopo numerose sperimentazioni pittoriche su diversi supporti, arriva a concepire lavori come le serie di scritte mother. Una di queste si trova all’interno del monastero abbandonato. Si tratta di una sorta di tag in negativo, ricavata da una campitura monocroma intagliata in modo tale da rivelare porzioni della superficie sottostante, a formarne le lettere che la compongono nella materia grezza del muro vissuto e magari già scritto. 19. 20. Slinkachu, Grottaglie, Fame Festival 2009 L’artista Londinese Slinkachu, che in questa edizione porta in vacanza a Grottaglie il suo Little people project, nasce nel 1979. Ci sono una decina di anni a separarlo da Vhils ma anch’egli è stato ideatore di una formula assolutamente inedita di intervento urbano. Si tratta di microinstallazioni raffiguranti esseri umani intenti nelle più diverse attività, che hanno come ambientazione scorci di strada visti da una prospettiva ravvicinatissima. Destinati ad avere un’aspettativa di vita direttamente proporzionale alle loro dimensioni, l’esistenza e le attività di questi cittadini lillipuziani viene documentata da fotografie. Esse sono una parte complementare del lavoro di Slinkachu, anche perché contribuiscono a creare un’effetto di spaesamento proporzionale, dal momento che riportano le piccole persone alle stesse dimensioni di esseri umani rimpiccioliti da una fotografia. Analogo tema per le installazioni di Mark Jenkins, statunitense di Washington145, ma stavolta le presenze umane sono a grandezza naturale. Queste controfigure iperrealistiche si inseriscono nel fluire delle attività quotidiane riproducendo comportamenti alienati, insoliti, pericolosi, preoccupanti, borderline e antisociali, che possono spiazzare ma anche passare inosservati confondendosi tra le molte versioni reali degli stessi. Sono pensati per stimolare e cercare un dialogo con gli abitanti delle città, per cercarne l’attenzione in modo 145 D.C. 68 quasi disperato. I fantocci di Jenkins catturano lo sguardo dei passanti meno distratti inscenando situazioni estreme che richiederebbero il loro aiuto. A Grottaglie egli sistema uno dei suoi stuntman posticci appeso al terrazzo di un edificio che si affaccia sulla piazza principale, più in bilico di un cesto di frutta metaforico dipinto da Caravaggio, seminando il panico tra anziane donne preoccupate per la vita del giovine. L’installazione è durata tre giorni, dopodichè al proprietario dell’immobile è stato chiesto di rimuoverla onde evitare una denuncia per procurato allarme. In questa edizione sono presenti anche la statunitense Judith Supine, che realizza alcuni dei suoi paper monster, collages realizzati direttamente sui muri con immagini prelevate da riviste e affissioni, e il norvegese Dolk. Quest’ultimo utilizza la tecnica dello stencil, divenuta celebre attraverso l’opera di Banksy, che consiste nel realizzare i disegni mediante l’uso di mascherine sagomate preparate in precedenza, attraverso le quali applicare il colore. Si ottengono così delle immagini di facile lettura ed esecuzione, replicabili all’infinito con poca difficoltà. Dolk realizza, oltre ad un enorme disegno su muro raffigurante un bambino-bandito col volto coperto da una bandana di winnie the pooh, una serie limitata di stencil su carta e legno destinati alla vendita. Anche quest’anno infatti ciascuna artista ha il compito di creare anche delle opere mobili che possano essere esposte nella mostra finale ed eventualmente vendute, dividendo il guadagno con l’organizzatore. 21. Dem 23. Blu e David Ellis al lavoro per Combo 22. Vhils 24. Sam3 69 25. Mark Jenkins 27. Judith Supine 26. Sam3 28. David Ellis per Combo 70 29. Lucy McLauchlan 30. Dolk 31. Vhils 71 3.3 Duemiladieci 32. 108, monastero abbandonato, Grottaglie, Fame Festival 2010 In questo terzo anno le cose cominciano a cambiare. La fame del festival ha fatto il giro del mondo nei due anni precedenti, e dopo aver fatto il giro del mondo sembra aver raggiunto, infine, anche Grottaglie. La line up di quest’anno è ricchissima, internazionale, variopinta e ricca di novità. Le opere sono moltissime e non meno stupefacenti di quelle delle precedenti edizioni, ma l’atteggiamento dei locali è profondamente cambiato. Una volta assimilata l’approvazione che sembra circondare l’evento, sembrano ora disposti ad accettare quasi qualunque cosa. Ogni atteggiamento ostile è scomparso, per lasciare spazio nel peggiore dei casi all’indifferenza. Questo permette gli artisti di avere maggiore libertà di azione e di agire indisturbati. Rendendo il lavoro più facile, forse fin troppo e rischia di compromettere il raggiungimento dello scopo principale del festival: comunicare, soprattutto a livello locale. Come spiega Angelo “adesso possiamo fare quel cazzo che ci pare. Ne hanno giovato le logistiche ma è calato il mordente e sicuramente il divertimento.”146 146 A. MILANO in A. PURICELLA, Così ho portato a Grottaglie il meglio della street art, in larepubblicabari.it, 2011, 19 settembre 72 Questa approvazione/assuefazione ha permesso di realizzare una grande quantità di opere, ma diventa deleteria nel momento in cui attraverso delle opere create in questo contesto, si cerca di fare della denuncia sociale, uno degli intenti principali dell’evento. Ne è un esempio l’opera di quest’anno di Blu (fig. 11, p. 54). La sua torta multistrato di rifiuti contiene una pesante ed esplicita critica alle scelte della classe dirigente cittadina e alla sua recente scelta di reinvestire nel business dei rifiuti per far girare l’economia, a tal proposito l’organizzatore ci tiene a sottolineare che “il festival contribuisce a denunciare questo scempio, io trovo che artisti dotati di così tanto talento hanno una possibilità unica e irripetibile di attirare l’attenzione.”147 Eppure in questo caso le reazioni sono state pressoché nulle se paragonate al parapiglia scatenato dal famigerato pollo disegnato da Ericailcane nel corso della prima edizione. Certo, oltre ad aver risentito dell’influenza dell’ondata di giudizi positivi provenienti dall’esterno, l’opinione pubblica locale ha subìto questo cambiamento anche perché probabilmente ha realizzato che tutto sommato le opere non avevano un potere nocivo così forte sulle vite dei cittadini, e ha preso atto invece delle implicazioni positive che il festival aveva comportato per la città stessa, in termini culturali ed economici. Forse è stato un graduale prendere confidenza, e forse ora c’è davvero qualcuno tra coloro che erano diffidenti, che questi grandi disegni ha iniziato ad apprezzarli, ma forse ancora in pochi si preoccupano di interrogarsi sul loro significato. Per la primavera estate duemiladieci, Angelo ha invitato a far visita a Grottaglie un sostanzioso contingente di artisti provenienti dal Sud America, landa vivacissima e prolifica per quanto riguarda la Street Art complice una tradizione importante e una regolamentazione molto aleatoria. Gli artisti di strada sono degli uccelli migratori, sempre in cerca di un clima accogliente per deporre le loro opere, e una delle mete preferite delle loro migrazioni stagionali, è proprio questa zona. Blu stesso la visita costantemente, come racconta Megunica148, il film di Lorenzo Fonda che documenta un suo itinerario in America Latina. Per questo Fame invece, sono Os Gêmeos, Nunca e Bastardilla a svernare nell’emisfero settentrionale, portando sui muri di Grottaglie le loro variopinte opere e trovando in questo luogo più di un’assonanza architettonica con le loro terre d’origine, accomunate dalla dominazione spagnola e da un’edilizia postindustriale poco pianificata. 147 A. MILANO in R. FANO, Street Art, il Fame festival tra artigianato e polemica, in blog.panorama.it, 2011, 19 aprile 148 Megunica, Lorenzo Fonda, Italia, Mercurio Film, 2008 73 Bastardilla, colombiana di Bogotà, in soli dieci giorni lascia una scia di disegni luccicanti che trasformano le superfici di edifici della città antica e di quella nuova, e realizza una serie di stampe serigrafiche. Il suo lavoro combina spray e vernici ed è completato da un tocco di magia povera, ottenuto con l’applicazione di una polvere glitterata su alcune aree del disegno, che in questo modo riflettono la luce. Le figure umane da lei dipinte sono dolci, aggressive, tragiche, cariche di espressività e decorative al tempo stesso. Spesso sono ottenute riempiendo gli spazi con moduli sintetici, che ricordano le fantasie dei tessuti. Seguendo le sue tracce brillantinate ci si può far condurre in un mondo che ha un che di atavico, in cui una voce femminile racconta una storia antica ed eterna quanto la vita. 33. 34. Bastardilla, 33 Pàjaro, 34 Calavera, stampe realizzate per Studio Cromie nel corso dell’edizione del 2010 del Fame Festival Un’altra invasione proveniente dal Sud America, è quella di alcuni individui dall’incarnato giallo. Si tratta del popolo dei muñecos149 che nasce dalle bombolette spray dei gemelli Brasiliani Otàvio e Gustavo Pandolfo, in arte Os Gêmeos, che ha iniziato a comparire sui muri del loro quartiere di San Paolo per poi continuare le sue scorribande nelle città e nelle gallerie di tutto il mondo su quasi ogni tipo di superficie. Questi artisti sono stati i “pionieri del movimento graffitista brasiliano della metà degli anni Ottanta” 150 e in seguito hanno sviluppato il loro personale linguaggio che va a costruire un colorato immaginario surreale, in cui vengono catapultate scene di vita quotidiana e ritratti che costituiscono una “cronaca socio-politica del folklore e della cultura popolare brasiliana.”151 149 pupazzi P. NGUYEN, S. MACKENZIE Stuart, Beyond the streets. The 100 leading figures in urban art, Gestalten, Berlin 2010 151 Ivi 150 74 A Grottaglie i gemelli dipingono una serie di trompe l’oeil umani. Alcuni sono impegnati a giocare a nascondino e cercano rifugio dietro gli angoli della città vecchia, provando anche ad attraversare i muri, ma spiccando comunque contro le pareti immacolate traditi dai colori vivaci dei loro vestiti. Uno di questi niños particolarmente indisciplinato, imbratta un muro con una tag che omaggia le radici artistiche dei due artisti, e al tempo stesso la mamma di Angelo, che grazie alla sua cucina e alla sua ospitalità si è guadagnata un atto vandalico in suo nome, e chiunque sa che non c’è dedica più romantica che si possa ricevere da un graffitaro. All’opera di un altro artista proveniente dal Brasile, è legato un aneddoto che racconta molto del rapporto diretto che interventi del genere possono avere con gli abitanti di una città di così piccole dimensioni. La storia è questa: durante tutti i giorni in cui Nunca stava dipingendo il suo pezzo sotto il sole cocente, lui e Angelo ricevevano le continue visite di un tale, che viveva dall’altra parte della strada, che con gentilezza estrema chiacchierava con loro a proposito del significato dell’opera, la quale rappresentava un uomo intento a scolpire nel suolo le sagome dei simboli delle più importanti valute economiche correnti. La sua gentilezza stupefacente, se si pensa che rivolta a due individui che stanno commettendo un atto illegale nel bel mezzo della città, è resa ancor più stupefacente dal fatto che il visitatore che alla fine del pezzo si è congedato affettuosamente dal suo artefice e dal suo committente-assistente, era l’ex sindaco di Grottaglie. Questo rende l’idea di quanto l’atteggiamento della rappresentanza cittadina rispetto al festival si sia evoluto rispetto agli anni precedenti, e di come l’approvazione esterna costringa gli stessi attori che prima erano in conflitto, a una convivenza pacifica velata di sfumature di ipocrisia. L’ex sindaco faceva parte del consiglio che ha approvato la costruzione della discarica ad insaputa della cittadinanza, alle rimostranze della quale, le risposte erano state le cariche delle divise sui manifestanti. Vicenda che nell’ambito del festival si è in più di una circostanza denunciato. Per l’interpretazione dell’opera si può riportare quella data dallo stesso ex primo cittadino, che in essa ha letto un invito a lavorare duramente sulla terra e sul territorio per ricavarne risorse e opportunità e che Angelo completa sottolineando che si possono fare molti soldi dalla propria terra, soprattutto se si sa bene come il suo interlocutore che “you just have to fuck with it first”152. Tornando agli artisti che hanno operato nell’ambito di questa edizione, si incontrano altre presenze inedite provenienti dagli Stati Uniti. Si tratta di Momo, Swoon e Ben Wolf. 152 A. MILANO nel blog del Fame Festival, famefestival.it, 2010, 14 giugno 75 Momo porta al festival i suoi graffiti astratti, che introducono una novità rispetto all’estetica figurativa che fino a quel momento era stata un tratto comune dei lavori realizzati al Fame. Questo artista è noto per le sue sperimentazioni cervellotiche post-graffiti realizzate con le più diverse tecniche, che vanno da enormi collages che diventano affissioni, a sculture galleggianti fatte con sagome che si muovono seguendo il flusso delle onde, includendo video, stampe e spingendosi fino alla progettazione di un programma informatico in grado di progettare opere di Street Art. Il comune denominatore dei suoi lavori è un linguaggio fatto di forme geometriche e colori puri, prelevate dal mondo delle astrazioni mentali per essere applicate alle superfici urbane e architettoniche più ostili e grezze, creando un contrasto stridente e affascinante che si riflette nel suo stile di vita. In esso infatti convivono una tensione verso le forme più elaborate del pensiero umano culturalizzato, e una necessità di contatto con l’ambiente e con la materia del mondo. Quest’ultima si manifesta nella scelta di vivere per lunghi periodi in grotte, tende o camion. I suoi moduli geometrici si riproducono su diversi muri del centro e della periferia grottagliese, assorbendo le irregolarità delle superfici o arrendendosi ad esse, con una certa predilezione per quelle più ostili. Momo dipinge le sue figure integrandole col preesistente più intrattabile, con ostinazione ma senza prepotenza, dipingendo anche cavi, tubi, solchi e rilievi, e all’occorrenza accettando la presenza di altre forme strutturali o disegnate, che diventano così parte delle sue composizioni. La sua arte potrebbe far pensare a una versione randagia di Sol Lewitt alla continua ricerca della materia concreta. Quel che ne risulta in qualche modo sembra una poesia dedicata allo spirito di adattamento. Gli altri due artisti statunitensi, Swoon e Ben Wolf, lavorano entrambi a Brooklyn. Sono arrivati insieme a Grottaglie e sono stati loro che hanno aperto le danze di questa terza edizione del festival. Swoon è una delle più richieste, rinomate e attive artiste della scena. I suoi ritratti a figura intera si trovano nascosti nelle città di mezzo mondo, dove si può ammirare la loro rapida decomposizione fondersi in modo organico con quella più lenta di certi particolari scenari urbani, dei quali assecondano il fascino decadente. Le opere che questa artista regala alle città sono infatti intagliate e ricamate con una precisione artigianale nel materiale più effimero possibile, la carta. Sono origami di scorci di umanità delicati come ali di farfalla, i cui lembi si regalano in fretta al vento o alla pioggia, facendo acquistare all’opera ancora più fascino e poesia. La tecnica che Swoon ha elaborato può rientrare nella definizione di 76 cut out. Viene definito cut out un paste up153 che non conserva la forma rettangolare di un poster o di un foglio da stampa, ma viene ritagliato e sagomato, integrandosi maggiormente con le superfici e favorendo l’inganno dell’effetto trompe l’oeil, con cui molti interventi urbani giocano. Le affissioni di Swoon, essendo spesso traforate, lasciano intravedere la superficie sottostante, che diventa colore che riempie i vuoti, contribuendo a far comparire quelle figure umane colte in gesti e atteggiamenti affettuosi e familiari. 35. 36. Swoon, monastero abbandonato, Grottaglie, Fame Festival 2010 Swoon sembra aver fatto tesoro delle tecniche del collage e dell’assemblage care alle Avanguardie Storiche, e unendovi una pazienza da filatrice, da ricamatrice e da tessitrice tutta femminile, ha ottenuto il suo perfetto equilibrio. Tutte le sue opere comunque, anche quelle più semplici, hanno un aspetto composito e tendono alla decomposizione, rivelando una passione per il riciclo che avvicina l’artista americana al dadaista tedesco Kurt Schwitters. Swoon è infatti l’ideatrice di un meraviglioso progetto itinerante e galleggiante: The Swimming Cities. Su delle zattere costruite riciclando materiali di scarto, degne degli 153 vedi la nota 135 a piè di pagina, paragrafo 3.1 77 scenari postapocalittici di Waterworld154, lei e la sua crew155 navigano tra una città e l’altra fermandosi per offrire performance visive e musicali e per incontrare la gente del posto. Questo ambiziosa opera performativa, oltre a conservare esteticamente quell’aspetto organico che contraddistingue tutte le opere dell’artista, racconta molto di più sulla poetica dell’arte urbana in generale. Questa forma artistica è probabilmente quella più riesce ad aderire all’anima di quest’epoca ponendosi rispetto ad essa in modo sincero e propositivo, pronta a ricostruire un mondo dalle macerie di quello che cerca di continuare a brillare mentre affonda e muore, insinuandosi nelle sue rovine, scoprendone i posti segreti e rimossi, quelli che vorrebbe dimenticare e nascondere e dai quali invece quest’arte trae la vita e la materia per le sue forme e i suoi racconti, traducendo la globalizzazione in viaggio, nomadismo e scambio che diventa, oltre che il nutrimento per l’arte, una filosofia di vita. Le tracce del capitano Swoon a Grottaglie si trovano nel centro storico e, naturalmente nel monastero abbandonato. Qui decora l’abside della cappella, inserendo nelle vuote nicchie, i suoi intagli in carta che, simili alle incisioni su legno dell’espressionismo tedesco, dominano con una certa solennità sull’assenza dell’altare e sulla devastazione sottostante. Ben Wolf invece nel cortile del monastero, costruisce un’installazione tridimensionale e polimaterica fatta di materiali di scarto uniti ad elementi pittorici, che però ha vita breve in quanto viene quasi subito distrutta da un ragazzino del posto. Per la prima volta a Grottaglie, anche Boris Hoppek, un artista tedesco adottato dalla città di Barcellona. Hoppek è uno dei più folli e divertenti street artist della scena. Il suo marchio di fabbrica inconfondibile è un viso sintetizzato al punto di essere costituito da tre ovali, che diventano l’espressione allibita dei suoi personaggi che possono essere sagome nere dipinte sui muri oppure pupazzi di pezza. L’arte di Hoppek sembra essere contraddistinta da una certa centralità del corpo, uno dei soggetti più di frequente rappresentati dall’artista. Una speciale attenzione è dedicata al sesso, tema che l’artista affronta con frequenza e ironia, come dimostra la serie di fotografie Lavagina, protagonista della quale è il corpo femminile e un pelouche156 a forma di vagina da lui ideato. La centralità del corpo può manifestarsi attraverso l’impiego diretto del proprio da parte dell’artista, nella realizzazione di performance documentate in video in cui, tradendo il 154 Film di fantascienza del 1995 diretto da Kevin Reynolds e ambientato in un mondo futuro quasi completamente sommerso dalle acque 155 Nel vero e proprio senso della parola in questo caso, crew si traduce letteralmente come equipaggio, ciurma 156 Latexpussy, 2007 78 tradizionale costume della Street Art, Hoppek sembra mostrarsi volentieri a viso scoperto. Spesso le sue performance parlano della migrazione. Sono azioni che avvengono sempre e comunque nello spazio pubblico, restando perciò tecnicamente arte pubblica e urbana anche se spostata verso il teatro e documentata su supporto video, data la loro impermanenza. Una di queste performance viene realizzata anche a Grottaglie: l’artista si aggira per le strade della città trasportando sulle sue spalle un ingombrante fardello di cartone che rende faticosa la sua deambulazione. Hoppek con la sua ironia riesce ad affrontare temi delicati e profondi rendendoli accessibili, la sua poetica affronta l’esistenza con un candore irriverente che ha qualcosa che rimanda all’infanzia, come il nome che ha scelto per i suoi personaggi: Bimbo. Questa caratteristica unita al suo disegno di un primitivismo sintetico rende Hoppek una specie di radiant child, che ricorda i profeti della Street Art Keith Haring e Jean-Michel Basquiat157. 37. Boris Hoppek, Grottaglie, Fame festival 2010 Al Fame Hoppek realizza diversi lavori, dando segnali di iperattività, tra questi spiccano un muro illegale lungo trenta metri popolato da famiglie di Bimbo neri che tentano di decifrare un misterioso documento, forse una fila per un permesso di soggiorno, ma l’interpretazione è assolutamente libera e facoltativa, e un Bimbo letteralmente sepolto vivo, dipinto su un muro in una cornice che riproduce il perimetro di una bara poi completamente ricoperto di fango. L’operazione è documentata dal video Mud Coffin visibile sul canale Vimeo dell’artista158. Durante l’esecuzione non autorizzata di questo The radiant child (traducibile come “il ragazzo radioso”) è il titolo del film sulla vita di Basquiat e al tempo stesso il nome con cui Haring chiamava le creaturine che popolavano i suoi disegni 158 Quello della performance si trova invece sul sito ufficiale del Fame Festival oltre che sul sito ufficiale del Fame Festival oltre che su Youtube 157 79 pezzo, proprio di fronte al quartier generale nemico, il Municipio, la Polizia Municipale è stata mandata per conto del comune a fermare Boris e Angelo, ma tutto ciò che hanno fatto è stato avvisarli che la Polizia di Stato sarebbe intervenuta per prenderli a calci e che gli sarebbe convenuto spostarsi. Loro non si sono spostati e nessuno è arrivato, questa piccola commedia rende l’idea del clima di comica tolleranza in cui si svolge questa terza edizione del festival e delle conseguenze che questo ha sulla libertà d’azione concessa agli artisti, che si riflette sulla quantità e sulle dimensioni dei loro interventi, come dimostrano i lavori di altri due ospiti provenienti anch’essi dalla Spagna: Escif e Sam3. Sam3 torna sul luogo del delitto per il secondo anno di fila e si supera realizzando due capolavori dalla sua collezione di ombre. Approfittando dell’insensatezza della parete laterale di un edificio in attesa della prossima concessione edilizia, l’artista ci rende partecipi della visione ai raggi X del suo interno e di ciò che là dentro avviene: un uomo cerca di difendersi con una scopa dall’ingombrante presenza di una gigantessa che occupa quasi l’intero stabile con il suo corpo, un’Alice nel paese delle ceramiche che rimane incastrata nell’appartamento del Coniglio Bianco dopo aver bevuto la pozione magica. L’altra sua opera raffigura una scena circense che sfrutta l’illuminazione di una calda luce su un muro della città antica per trasformare questi acrobati in bianco e nero in ombre cinesi. In bilico su una scala vera appoggiata alla parete, questi acrobati riportano alla memoria quelli del primo periodo di Picasso ma con la sintesi, la monocromia e la megalomania del periodo di Guernica, che si ritrova in tutta l’opera di questo suo conterraneo contemporaneo. Osservando l’evoluzione dell’opera di questo artista come di ciascuno degli altri, da un anno all’altro si può rilevare come gradualmente aumenti la confidenza e la conoscenza del territorio e delle sue architetture, e proporzionalmente anche la capacità di interagire con essi in modo familiare, costruendo dialoghi sempre più intimi. Evoluzione che nel caso di Sam3 si riflette anche nelle sue realizzazioni ceramiche. Escif invece viene da Valencia ed è per la sua prima volta a Grottaglie ma si mostra subito disinibito, complice il nuovo clima permissivo stabilitosi una volta fatta l’abitudine al festival, che probabilmente avrà fatto sentire l’artista particolarmente a casa dato che la sua città ha una tradizione piuttosto consolidata benché recente in fatto di pittura murale. Escif in soli sei giorni porta a Grottaglie uomini con la testa a forma pallone da calcio, una deformazione fisica diffusa in Spagna come nella cittadina pugliese, cavalli e alberi dimezzati oltre a numerosi acquerelli per la mostra finale. Le sue opere vanno dai muri perimetrali dello stadio, che quest’anno hanno dato spazio anche agli stessi Hoppek e Sam3, fino al quartiere delle ceramiche, dove realizza un grande muro in cui delle enormi 80 teste galleggiano come manufatti in terracotta cavi messi a raffreddare nella stessa acqua in cui nuotano degli esseri umani. Il suo stile è sintetico e ironico, tende a integrarsi particolarmente bene con le architetture grazie alla capacità dell’artista di reinterpretare la vita quotidiana che si svolge nei pressi degli spazi in cui interviene. Per concludere la lista degli ospiti provenienti dalla penisola iberica, ancora una volta troviamo la street art star portoghese Vhils, che realizza uno ritratto con la sua particolare tecnica che consiste nell’incidere e graffiare la superficie e rivelando gli strati cromatici sottostanti. Realizzando così dei leonardeschi chiaroscuri, in questi stencil fatti per via di levare più che per via di porre159, che fanno di lui quasi una sorta di scultore delle pareti. Tornano a dare il loro contributo al festival dal resto d’Europa anche Lucy McLauchlan, Word To Mother e JR che sceglie Grottaglie come seconda tappa per il suo progetto Unframed che porta fotografie storiche e di repertorio fuori dai libri e – appunto – dalle cornici, riproducendole in scala ciclopica su diverse superfici architettoniche generando uno sconcertante effetto di spaesamento. Anche il panorama delle presenze italiane quest’anno amplia la sua latitudine, raggiungendo la provincia piemontese, luogo d’origine di 108, e il capoluogo partenopeo da cui provengono Cyop e Caf, che vanno ad arricchire e variegare la rappresentanza di Street Art nostrana, aggiungendosi agli ex fuorisede bolognesi Blu ed Ericailcane. Quest’ultimo quest’anno porta un principe ranocchio e un cervo con case popolari per volatili sulle corna, entrambi di dimensioni particolarmente grandi, su due di quei muri grezzi e senza finestre che sembrano essere una risorsa locale inesauribile, che fanno di Grottaglie un parco di divertimenti per graffitari e che farebbero rivoltare Leon Battista Alberti nella tomba. 108 viene da Alessandria e porta sotto il sole pugliese le sue forme fredde e il suo stile nordico. Egli si può inserire in quella corrente che qualcuno chiama postgraffitismo, che è un po’ l’equivalente grafico del postrock, laddove il postrock “è un genere musicale che utilizza una strumentazione rock (chitarra elettrica, basso, batteria) in modo non conforme alla tradizione del rock stesso, attingendo più da altre tradizioni della musica d'avanguardia”160, i postgraffiti utilizzano la strumentazione tipica del graffito per creare un linguaggio che è profondamente condizionato da avanguardie artistiche, anche quelle estremamente astratte o sintetiche come il neoplasticismo o il suprematismo, come si è 159 I due tipi di arte plastica identificati dal teorico rinascimentale Leon Battista Alberti nel suo trattato sulla scultura De Statua 160 voce Post – rock di Wikipedia 81 già visto in Momo, e che tende ad applicarsi anche ad ambiti artistici differenti come la grafica e le arti applicate. 108 realizza “grandi e misteriose figure nere che invadono gli spazi pubblici” 161 che “emergono dal subconscio”162. Nel caso del festival, data l’aura occulta che queste immagini emanano, non potevano materializzarsi in un luogo migliore dei muri del monastero abbandonato, tra un pentacolo e l’altro. Le forme del suo morboso suprematismo compaiono anche in una serie di stampe realizzata per Studio Cromie. Anche su carta non perdono quell’aspetto di buchi neri geometrici pronti a inghiottire per l’eternità tutte le formine colorate dalla forma giusta e forse anche le altre. Il duo Cyop & Caf, invece, rappresenta una delle entità artistiche più attive e prolifiche di Napoli. Lavorano assiduamente sui suoi muri, sulla carta e sulla rete cercano di tenere viva quella realtà sotterranea della controcultura e della controinformazione che a volte si dimentica di innaffiare una volta divenuti artisti. I due lavorano insieme a delle figure che attingono a numerosi repertori iconografici tradizionali e contemporanei, per creare anatomie di corpi in cui pezzi di Basquiat, fumetti e Dada si combinano dando vita ad inquietanti e grotteschi mutanti. Quelli realizzati quest’anno per il festival sono ottenuti usando solo 3 colori, bianco, rosso e nero e sono inseriti in elementi architettonici che si prestano a diventare supporti che incorniciano le loro opere come medievali trittici, tavole e pale d’altare. In questa edizione il Fame Festival si mostra in una sua versione matura, abbondante, completa. Riesce ad aprire uno scorcio davvero ampio e soddisfacente sulle tendenze dell’arte pubblica contemporanea e anche a guadagnarsi il consenso o la noncuranza dei locali. Ma proprio tutta questa completezza e questa soddisfazione comportano un’atmosfera di calma piatta e privano questo tipo di arte di un elemento vitale e fondamentale: la relazione vera e diretta con gli abitanti e i fruitori dello spazio pubblico, le loro reazioni, il loro stupore, la curiosità e la conseguente voglia di capire. La città di Grottaglie si è trasformata in uno stupendo museo a cielo aperto ma il rapporto tra i fruitori di un museo e lo spazio museo è profondamente differente da quello degli attraversatori e degli abitanti dello spazio urbano e pubblico. Il museo è uno spazio finalizzato ad una precisa funzione, e per quanto aperto possa essere il suo cielo, crea comunque un particolare contesto con delle aspettative, regole e tolleranze diverse da quelle del contesto eterogeneo e 161 162 Breve autobiografia di 108 riportata sul sito di Studio Cromie, studiocromie.org Ivi 82 composito dello spazio aperto e pubblico generico. Ogni regola e proporzione del rapporto tra opera e contesto cambia, e il coinvolgimento e le reazioni del pubblico diventano un obiettivo più difficile da raggiungere. 38. Cyop & Caf 40. Sam3 39. Vhils 41. Escif 83 42. Escif 43. JR 44. Sam3 45. Os Gemeos 46. Nunca 84 47. Cyop & Caf 48. Word to Mother 49. Ericailcane 85 3.4 Duemilaundici L’ultima edizione del Fame in ordine cronologico. Quando arriva l’estate duemilaundici il festival è divenuto ormai una certezza, un punto di riferimento, un appuntamento immancabile nei tour estivi cool di giornalisti, critici e appassionati d’arte, capace di generare attesa e aspettative. Molti degli obiettivi che Angelo aveva sognato di raggiungere sono stati raggiunti, Grottaglie è una località che è ricomparsa nelle mappe ed è divenuta nota a livello internazionale. La gente che la visita proviene da tutto il mondo e una volta qui scopre, oltre al festival di street art, la sua storia e la sua tradizione ceramica. Si è venuto a creare un turismo che si dura più a lungo della passeggiata nel quartiere delle ceramiche, che si ferma nei bed & breakfast e nei ristoranti locali contribuendo all’economia in modo più sostanzioso. L’artigianato è entrato in contatto con il mondo dell’arte contemporanea facendo presagire un ipotetico processo di emancipazione dal suo isolamento… Tutto sembra andare per il meglio ed essersi stabilizzato su degli standard positivi. Ma quando Angelo ha pensato questo festival non voleva creare un appuntamento fisso, non voleva stabilizzarsi su degli standard, voleva che qualcosa si muovesse. Una volta che le cose si sono mosse alla fase dell’entropia segue quella in cui si vengono a creare i nuovi equilibri, che saranno la nuova stabilità. Giunti a questo punto ciò che aveva innescato il movimento, deve scegliere se diventare parte dei nuovi equilibri oppure no, estinguendosi, cercando di portare la stessa innovazione altrove o rimanendo all’interno di quel sistema che ha già mutato in passato cercando di cambiare forma per tentare di dar vita a nuove evoluzioni. Dopo tre anni consecutivi di successo crescente è con questo dilemma che si trova ad avere a che fare il Fame. E risponde con un’edizione che è quasi un test del livello di assuefazione e di sopportazione raggiunto da Grottaglie, in cui gli artisti sono invitati a fare del loro peggio. Un’edizione violenta, rumorosa, dispettosa e vandala che cerca in tutti modi di capire se il proprio potenziale comunicativo fosse recuperabile. Sembrava funzionare all’inizio, qualcuno reagiva male, ma poi le recensioni positive della stampa hanno inibito l’esperimento in corso. In quest’ultimo Fame l’aspetto performativo è stato dominante rispetto a quello decorativo. Sono state realizzate molte più azioni sbilanciate sul processo piuttosto che sul risultato rispetto agli anni precedenti. Anche se confrontata con la terza edizione, che pure aveva aperto a linguaggi molto ermetici e a molto post-graffitismo sperimentale spinto, 86 quest’ultima risulta molto più immateriale, sfuggente, a ribadire per l’ultima volta che l’obiettivo non è la bellezza bensì innescare dei meccanismi e delle logiche, che il Fame non vuole essere un fronzolo, un orpello decorativo per rendere più graziosa la sua cittadina, ma un motore attivo di qualcosa, inserito in un movimento più grande al quale è disposto a sacrificare la sua stessa esistenza. Qualora questo non sia più possibile o non più comprensibile, lo spirito del festival, che esso continui ad esistere o meno, morirebbe comunque. Esempio perfetto per cogliere l’essenza performativa di questa edizione è l’opera di due artisti che arrivano al festival per la prima volta dall’Europa centro-settentrionale. I loro lavori concettuali e ironici si trovano perfettamente sincronizzati con lo stile complessivo di questo quarto anno, nonché tra loro. Tutte le opere da loro realizzate a Grottaglie sono state infatti frutto della collaborazione tra i due artisti, da cui nasce il nome Brakay. Scindendolo si risale alle loro singole identità, si tratta di Akay e Brad Downey. Brad Downey è un artista statunitense con base a Berlino. Il suo lavoro consiste nella manomissione, nel sabotaggio e nell’alterazione di tutti le componenti e i segnali volti a dare istruzioni agli abitanti di un luogo sulla sua corretta fruizione. Lo spazio urbano è pieno di segni e di codici ed è tra questi che vanno ad inserirsi le opere di Downey, fatte dello stesso materiale e che parlano lo stesso linguaggio. Delle vere e proprie interferenze, talvolta talmente sottili da poter passare inosservate, che giocano con la “regolazione istituzionale del comportamento pubblico. Facendo questo egli spera di incrementare negli spettatori la coscienza di ciò che lo circonda, consentendo loro di riguadagnare potere nello spazio pubblico.”163 Le installazioni di Downey tendono a sottolineare come alla vita urbana e al suo scorrere incanalato e prestabilito dalle corsie, dai segnali e dai percorsi dei mezzi pubblici, vadano a sovrapporsi infinite esperienze individuali che spesso evadono da quei tracciati, accedendo laddove è vietato, introducendo biciclette e giocando a pallone nelle ore pomeridiane 164, vivendo nella città come in una vera concrete jungle165 da esplorare. A Grottaglie l’americano trova un compagno di giochi ideale, viene da Stoccolma, si chiama Akay e ha una predisposizione innata per la collaborazione con altri artisti. Dopo essere stato uno dei primi writer della 163 P. NGUYEN, S. MACKENZIE, Beyond the streets. The 100 leading figures in urban art, Gestalten, Berlin 2010 164 Citazione presa da una vignetta del fumetto di Quino Mafalda in cui il personaggio Felipe descriveva un suo sogno trasgressivo 165 Concrete jungle (giungla di cemento) è il titolo di un pezzo di Bob Marley & the Wailers dall’album Catch a fire nonché una metafora piuttosto diffusa per indicare la città. 87 capitale svedese a metà degli anni Ottanta, ha iniziato a divertirsi con il pasting up di poster, per poi passare agli inizi degli anni Zero a sperimentare con interventi urbani tridimensionali. Per Akay “il divertimento sta più nello sviluppare idee e realizzare il lavoro che nell’ammirare il prodotto finito”166 e questo emerge chiaramente nei suoi progetti realizzati per il Fame insieme a Brad Downey. Si tratta di opere estremamente effimere, costruite prevalentemente impiegando come materiali elementi già presenti nella città, da ricombinare, rapire, nascondere, con i quali giocare e fare dispetti. In sei giorni Brakay nelle sue scorribande grottagliesi ha lasciato il suo effimero marchio temporaneo attraverso diversi interventi, consistenti in sottili modifiche in chiave poetica, estetica e ludica di elementi e spazi del quotidiano. Il duo ha avuto la brillante trovata di customizzare un oggetto essenziale, che riassume in sé l’identità e l’essenza della vita in un centro storico italiano, in particolare del meridione. Quella cortina mobile e leggera posta tra l’intimità domestica e l’intimità allargata del vicinato sulla quale questa si affaccia, la classica tenda di fili che separa e unisce gli interni da quegli ambienti semi-privati che sono i vicoli ciechi, le dialettali 'nchiosce, o arabe azzika. I due artisti hanno voluto sottolineare la particolarità e il folklore di questo oggetto realizzandone una versione in pastasciutta. Hanno realizzato il desiderio di veder scomparire tutte le automobili presenti nel centro storico coprendole con delle lenzuola, hanno raccolto tutte le scope che hanno trovato poggiate fuori dagli usci e le hanno incastrate tra le due pareti laterali di uno stretto vicolo, trasformandolo in un punto particolarmente avventuroso di quell’intricato labirinto che è la città vecchia, immediatamente diventato occasione di gioco per i ragazzini di quelle strade. Lo stesso hanno fatto con altri objet trouvé, collocati come ostacoli nei percorsi quotidiani degli abitanti del posto, scatoloni e copertoni di automobili, questi ultimi una presenza fondamentale nella caratterizzazione del paesaggio regionale, anche nella nota versione flambé che produce l’inconfondibile profumo di vacanze pugliesi 167. Brakay firma anche due performance documentate da video, che ne seguono il processo di realizzazione, vera e propria spina dorsale estetica. Tipping point 2, punto di non ritorno, è una reazione a catena di barattoli di vernice aperti legati tra loro che si trascinano uno dopo l’altro a lanciarsi nel vuoto dall’alto un cornicione, riversando tutto il loro variopinto contenuto sulla strada sottostante. Far168, lontano, mostra gli artisti intenti a collegare tra 166 P. NGUYEN, S. MACKENZIE, op. cit. Prestito dal testo della canzone Vacanze romane dei Matia Bazar 168 Entrambi i video sono visibili sul sito e sul canale Vimeo ufficiale del Fama Festival 167 88 loro dei chiodi presenti sulle pareti con un filo di lana rossa creando dei percorsi che celebrano l’estetica involontaria169. Una processualità che omaggia il caso, impregnata di patafisica, che ricorda le macchine celibi dadaiste e l’incantevole corso delle cose rappresentato nella superlativa opera video di Fischli & Weiss170. Akay non è l’unico scandinavo che porta la sua algida arte nelle assolate Puglie, quest’estate il Fame ha l’onore di ospitare è uno dei peggiori graffiti vandals di tutta la Svezia: Nug. Il suo operare riprende i primordi del Writing riproponendo le sue pratiche costitutive, tagging e bombing, che lui svuota fino a lasciarne solo la gestualità e gli strumenti. Queste due azioni sono alle origini della cultura contemporanea occidentale dei Graffiti urbani, iniziano ad essere praticate dalle minoranze etniche delle metropoli statunitensi alla fine degli anni Sessanta e consistono sostanzialmente nel segnare il territorio al proprio passaggio, lasciando come traccia il proprio pseudonimo scritto a pennarello (tagging) o con la bomboletta spray (bombing). 50. Nug, monastero abbandonato, Grottaglie, Fame Festival 2011 Le opere di Nug ricreano l’impatto visivo del garbuglio di tag sovrapposte che tatuavano i vagoni dei treni e i tunnel della metropolitana a Manhattan e nel South Bronx all’alba degli 169 G. CLÉMENT, Traité succinct de l'art involontaire, Sens&Tonka, Paris, 1997 Der Lauf der Dinge, opera video fondamentale realizzata nel 1987 dal duo svizzero Fischli & Weiss, reperibile su Youtube con il titolo inglese The way things go al link http://www.youtube.com/watch?v=AA0mFjJbNH8 170 89 anni Settanta. Ma il suo territorial pissing171 ha perduto ogni senso di appartenenza, non c’è più crew, non c’è più pseudonimo da diffondere né territorio da contendersi, non c’è più stile da evolvere ma solo il gesto e il segno di una bomboletta o di un pennarello nero, che diventa l’equivalente grafico del rumore. Al Fame Nug si moltiplica in un branco di imbrattamuri incappucciati che, armati di bombolette nere, riempiono i muri con questo disturbo visivo. L’esecuzione di questi atti vandalici collettivi è testimoniata da video come The concept is fuck you, yes you172 che segue la crew impazzita nelle stanze del monastero abbandonato mentre è intenta a trasformarlo nel tempio del rumore. Per la precisione dalla metà in poi, il video riproduce l’azione al contrario, riportando il luogo al suo silenzio mentre il colore nero ritorna nei barattolini da cui proviene. La performance è inoltre corredata da un ulteriore video in cui il ceramista artista grottagliese Giorgio Delle Dacnie, già ideatore di numerose ceramiche di cui non c’era bisogno173, interpretando l’ennesimo critico d’arte di cui non c’era bisogno, ci accompagna in una videovisita guidata tra le stanze affrescate da Nug. Ma non sono solo i nuovi arrivi a sperimentare i limiti del vandalismo, anche le vecchie e fidate conoscenze come Escif e Sam3 sono invitate quest’anno a comportarsi male, prendendo in mano la più antica e semplice arma capace di far imbestialire i residenti. Questa edizione del Fame vede oltre a Nug anche Escif e Sam3 alle prese con la malefica bomboletta nera. Escif non rinuncia a realizzare un paio di muri con un valore aggiunto di decorativismo e gradevolezza visiva, ma a questi affianca due pezzi concettuali e sarcastici. Uno è una scritta nera che recita a caratteri cubitali applause please dai muri che circondano il campo da calcio, l’altro è una installazione documentata da un video intitolato Rise and fall protagonista del quale è il già decantato ancestrale simbolo del graffito sgradevole e antiartistico. Una lunga serie di bombolette nere sono allineate a qualche metro di distanza l’una dall’altra lungo un muro sul quale l’artista traccia una linea curva con una bomboletta che raggiunga l’altra, con la quale viene poi tracciata un’altra linea curva e così via fino a chiudere il video lasciandosi alle spalle un’invitante quantità di spraycan gratuite, disponibili e quasi piene, pronte all’uso. La perfomance avrebbe dovuto completarsi con le azioni che la presenza di queste esche avrebbe dovuto mettere in moto, ma purtroppo 171 Territorial pissing è il titolo di una videoperformance di Nug in cui imbratta un vagone della metropolitana Il video è visibile sul canale Vimeo del Fame Festival 173 Ceramiche di cui non c’era bisogno è il titolo di una mostra di Giorgio Delle Dacnie tenutasi presso Il Punto Librarteria a Napoli nel dicembre 2011 172 90 l’unica reazione registrata nei cinque giorni successivi è stato il furto di una bomboletta, commesso senza lasciare traccia alcuna. Tutti questi interventi lasciano intendere come questa edizione del festival sia mossa da una profonda necessità di recuperare un contatto con coloro che con le opere convivono quotidianamente che non sia basato sulla tolleranza ad oltranza riservata alle stranezze del mondo dell’arte contemporanea o sulla sottomissione alle direttive critiche impartite dai mass media. Per evitare ogni fraintendimento interpretativo quest’anno di Fame rivendica i propri intenti non decorativi, accentuando quelli esplicitamente antidecorativi. Laddove sotto la luce del consenso generale dalla stampa locale, nazionale ed estera, sembra che nel contesto del festival “tutto quello che facciamo sia bello e giusto” 174, Angelo ha istigato i suoi artisti a “disinnescare questa convivenza pacifica in favore di un sano giudizio critico”175 anche con “disegni orrendi, violenti, fuori luogo, video che ne bastava la metà per essere denunciati”176, al fine di interrogare il festival stesso, capire cosa questa creatura fosse diventata, quali potenzialità avesse conquistato, quali conservato e quali invece fossero andate perdute nel corso di quattro anni di esistenza e di successo, quindi quale la direzione da dare al suo futuro. In questo spirito si inserisce l’opera di Sam3, che impiega sofisticati calcoli per realizzare una figura che, disegnata su differenti superfici di uno scorcio architettonico, si ricomponga nella sua interezza da una sola prospettiva. In questo caso il punto di vista segreto è custodito dal bagno della casa di Angelo, nella città vecchia. Solo da quella finestra tutti quei segmenti criptici vanno a riallinearsi rivelando come in un’epifania il contenuto dell’opera di Sam3: “un gran bel cazzo”, come dice soddisfatto il protagonista di Fight Club177 Tyler Durden dopo aver inserito nella pellicola di un film con un laborioso procedimento un messaggio subliminale dal medesimo contenuto fallico. Sam3 usa questo complesso metodo elaborato dalla Street Art più avanzata per tracciare con lo spray nero e senza metafore, quell’elemento primordiale che è parte dell’esperienza graffitista di ogni essere umano, per quanto breve e fallimentare: il cazzetto stilizzato semplice, elevandolo al rango di opera d’arte come un tempo accadde ad un orinatoio, realizzando un’opera estremamente ironica e autoironica con indiscutibili potenzialità snervanti. A. MILANO in S. PALMIERI, We’re not decorating the city, we just want to make shit happen, destabilize, possibly destroy, in larottaperitaca.wordpress.com 2011, 22 settembre 175 Ivi 176 Ivi 177 Fight club è un film di David Fincher del 1999 tratto dall’omonimo primo romanzo di Chuck Palaniuk scritto nel 1996 174 91 A completare l’omaggio agli aspetti materiali dell’esistenza ci pensa Boris Hoppek che, novello Courbet, affigge un’enorme rappresentazione fotografica dell’origin du mond all’interno della volta di un arco, trasformandolo così in una postmoderna icona di fertilità (fig. 8,p. 48). Hoppek quest’anno dà il meglio di se con una serie di interventi che danno prova della sua versatilità artistica oltre che del suo senso dell’umorismo, installazioni e video realizzate con mezzi e materiali poverissimi gli hanno fatto guadagnare il titolo di MacGyver del festival. Il leitmotif della vagina e della fertilità ritorna in versione super-sintetizzata in un dipinto su muro in cui il solito ovale, marchio di fabbrica all’artista, è realizzato in fango e inscritto in un grande triangolo nero rovesciato. Il fango diventa il materiale ideale anche per celebrare un altro elemento essenziale di quella trivialità infantile capace di riassumere inaspettatamente la logica dell’esistenza, l’artista lo impiega per realizzare tante piccole sculture iperrealistiche di escrementi, con le quali realizza una composizione (fig. 7, p. 42). Lo stesso Hoppek si presta a decorare il furgone che vende panini davanti ad una chiesa nei pressi del campo da calcio con una scena erotico-comica, da apprezzare in tutta la sua bellezza osservandola dalla prospettiva che permette di leggere la retrostante scritta al neon, che dalla facciata in stille modernista dell’edificio sacro gialleggia un “AVE MARIA”, al quale l’abbinamento al camioncino del paninaro regala un’allure divinamente blasfema (fig. 6, p. 36). E ancora, è autore di una performance video realizzata con dei sacchetti neri per la spazzatura riempiti d’aria che sembra proseguire la tematica del viaggio già affrontata nella precedente edizione, oltre che responsabile della comparsa di numerosi Bimbo, alcuni dipinti sui muri, altri ottenuti modificando oggetti ed elementi architettonici già presenti nel paesaggio, altri ancora sono invece parte di acquerelli e stampe su legno e carta realizzate per la mostra finale. Questa incredibile quantità di opere prodotte da Boris Hoppek durante la sua permanenza a Grottaglie rende l’idea dell’inesauribilità del suo repertorio di idee, che vanno a comporre il suo universo pop, erotico, divertente, metaforico, dolce, pornografico, irritante, sarcastico, leggero e profondo.178 Un’altra presenza estremamente prolifica in questa edizione è stata Nespoon. Questa artista viene dalla Polonia e porta in giro per il mondo un’attività tipicamente femminile particolarmente legata alla tradizione artigianale del suo paese di origine: il ricamo manuale di pizzi e merletti. Nespoon porta questa pratica e gli oggetti da essa prodotti, al 178 La lista di aggettivi è parzialmente tratta da quella fatta da Angelo Milano a commento del lavoro di Hoppek del 2011 sul sito ufficiale del Fame Festival, famefestival.it 92 di fuori dei contesti casalinghi e polverosi cui è solitamente relegata, riproducendo centrini sui muri esterni degli edifici sotto forma di stencil o ricamandoli, come ragnatele di pizzo tra gli angoli. A Grottaglie dà luogo a un incrocio unico con la tradizione ceramica creando in collaborazione con artigiani locali alcuni merletti in ceramica, destinati a diventare installazioni che vanno ad inserirsi nello spazio urbano. Anche l’immancabile ragazza del Fame, Lucy McLauchlan, realizza una serie di pezzi unici in ceramica, delle piastrelle smaltate decorate con diversi dei suoi motivi opticalfitomorfi, che possono essere combinate e composte tra loro, oltre a un enorme dipinto che si stende lungo i pavimenti delle ingarbugliate e sottili stradine della città vecchia, che invita a seguirlo tra i vicoli ciechi lungo il percorso che disegna, come una pianta rampicante per chi va in salita e come un corso d’acqua sottile nel suo letto secco per chi va in discesa. Sempre dall’Inghilterra torna Word To Mother che, come Nug, riporta al Writing e alle radici dell’arte di strada contemporanea proponendone una ripetizione differente. I linguaggi del Writing, infatti, dopo una quarantennale presenza negli urban landscapes delle città e delle periferie di tutto il mondo, dopo essere stati digeriti dalla cultura dominante e poi vomitati sotto forma di decorazioni di oggetti di tutti i tipi, dai cappellini da baseball agli zaini della Seven179, e di carosello pubblicitario quotidiano giovanile per MTV e per il resto del palinsesto, possono considerarsi ad oggi parte assimilata di quei codici visivi che costituiscono gli infiniti stimoli che ogni giorno il cervello di un essere umano abitante del mondo occidentale riceve. Vanno quindi ad aggiungersi a quel corredo di segni, oggetti e simboli che, con la velocità e l’abilità acquisita grazie alla confidenza con questo tipo di stress mentale e culturale, che contraddistingue l’attitudine dell’individuo postmoderno, l’ultima generazione di street artist manipola e modifica per creare le sue opere d’arte. Ne è un esempio Making illegal permanent180 di Brad Downey, che riproduce un throw-up181 con la tecnica del mosaico. 179 Azienda italiana leader nel settore della produzione di zaini e accessori per la scuola. Questo marchio ha iniziato a produrre nei tardi anni Novanta una serie decorata con pezzi Wildstyle e continua a dimostrare particolare attenzione alle tendenze della strada, come testimoniano le ultime campagne pubblicitarie a tema street art che ne spiegano il processo di istituzionalizzazione in corso più in fretta e meglio un’intera tesi di laurea. 180 Opera realizzata nel 2009 a Malmo, Svezia 181 Il throw-up, nel linguaggio del writing è un pezzo eseguito velocemente e con pochi colori per poter essere eseguito nel minor tempo possibile occupando la maggior superficie possibile. Dall’inglese throw-up, vomitare. 93 Word To Mother nei suoi lavori grottagliesi propone una rivisitazione del pezzo, l’evoluzione della tag nonché massima espressione dell’abilità tecnica e dello stile di un writer, ma anche stavolta in versione svuotata, invertita. L’elaborata ricerca formale sulla lettera, che ha dato luogo alla sofisticazione del Wild Style, è dimenticata e con essa la sua ricchezza cromatica. Le lettere che compongono la parola mother, che si può leggere di per sé come un omaggio alle origini in senso lato, sono composte da forme di una geometria elementare ricavate dall’assenza di colore in una campitura uniforme, perciò il loro corpo è costituito dalla superficie del muro vero e proprio, dalle imperfezioni e dalle scritte preesistenti, attorno alle quali l’artista traccia un contorno in negativo mettendole in risalto, evidenziandole e incorniciandole nel profilo della parola madre. Anche Vhils è presente in questa ultima edizione, e dona a Grottaglie uno dei suoi ritratti, ottenuti incidendo l’intonaco di un muro particolarmente annerito data l’esposizione al traffico, che va così a svolgere la duplice funzione per gli automobilisti in coda, di intrattenimento visivo e memento mori per tumore ai polmoni da inquinamento. Il prolifico artista portoghese realizza anche alcuni dei suoi scratchiti182 su superfici mobili trovate in giro per la città e desinate ad essere esposte nella mostra finale, uno su legno e uno sulla particolare superficie cartacea originata dallo stratificarsi delle affissioni pubblicitarie. Infine organizza in collaborazione con Angelo la costruzione di un muro all’interno dello stesso spazio espositivo per poi scrostarlo in loco, lasciando le macerie residue sul pavimento sottostante il volto femminile che emerge dalla superficie al termine dell’operazione. Per il secondo anno di fila è presente anche Momo, la cui innata attitudine multimediale lo porta a materializzare nei progetti che realizza per il festival le sue geometrie su diverse superfici e con differenti metodi. L’artista statunitense dipinge un muro nella città vecchia (fig. 10, p. 49) e uno in quella nuova (fig. 9, p. 49), che vanno ad aggiungersi a quello eseguito nel quartiere delle ceramiche l’anno precedente, completando un percorso che va così a ricongiungere le tre differenti parti urbanistiche dell’abitato. Sul versante delle opere mobili invece realizza una serie di stampe serigrafiche, le cui forme sono poi riprodotte in scala ingrandita in legno sagomato per comporre un’installazione tridimensionale nello spazio espositivo della mostra di chiusura insieme al lavoro nato dal crossover con l’artigianato locale, dal quale nasce una serie di moduli geometrici in ceramica smaltata pensati per essere combinati in diverse composizioni, richiamando 182 Neologismo dato dalla fusione della parola graffiti con il termine inglese scratch, graffio 94 ancora una volta a quell’attitudine logico matematica che caratterizza tutte le forme di arte astratta. Ancora geometrie e astrazioni in versione urbana per gli interventi di due ospiti italiani, Moneyless e 108. Moneyless porta per la prima volta al Fame i suoi solidi vuoti. Piramidi, triangoli, poliedri e poligoni regolari e irregolari si combinano dando vita a delle visioni di una concretezza ipotetica che si manifestano nei luoghi più diversi. In aperta campagna tra gli ulivi, dove la loro purezza tutta mentale fa da contrappunto alle forme naturali, oppure inserite nelle cavità misurate e monumentali delle architetture degli edifici storici, con le quali instaurano silenziosi dialoghi armonici dalle sfumature classicheggianti, e infine nei più sentimentali vuoti di palazzi antichi sventrati dal tempo e dalla decadenza, o di altri rimasti incompiuti prima di avere dei muri perimetrali e degli abitanti. In questa cornice gli scheletri di solidi platonici costruiti con lo spago da Moneyless sembrano esprimersi al massimo del loro potenziale, diventando l’eco di quei vuoti drammatici 183. Quando inseriti in un edificio in rovina, come un capriccio in un dipinto romantico, riecheggiano l’assenza materiale del passato, che diventa oblio o memoria, in un incompiuto architettonico invece fanno rimbombare l’incertezza e l’ipoeticità del futuro, quando non una giustificata sensazione, ancora una volta, di mancanza. Ma le geometrie di Moneyless possono essere anche bidimensionali e riportare ad atmosfere più rassicuranti, quasi quanto quella dell’ultima pagina del quaderno Pigna con le formule. Ne sono testimonianza quelle che dipinge sulle pareti del monastero abbandonato e con le quali realizza una serie di serigrafie. A chiudere letteralmente il cerchio delle presenze che al Fame rappresentano la corrente più astratta interna alla urban art ci pensa 108, che realizza per l’appunto un’enorme circonferenza nera con delle malformazioni genetiche, sulla facciata laterale di un condominio. Nonostante l’introduzione di alcuni elementi colorati, questa figura aleggia comunque come una presenza inquietante sulle teste dei clienti del panificio sottostante. La declinazione più pittorica e figurativa delle evoluzioni dei graffiti, che fin dall’inizio è stata ampiamente raccontata dal festival anche in quest’ultima edizione trova spazio nelle opere murali di Cyop & Caf, Aryz, Ericailcane e Blu. Il duo napoletano dipinge molti dei suoi strani personaggi in giro per la città, intenti a inscenare altrettante piccole commedie surreali. Gli interpreti di ciascuna, sono accomunati tra loro da vincoli cromatici che li legano ai pochi colori che si alternano e 183 Inteso come qualcosa che ha una forte intensità emotiva, non necessariamente da intendersi come tragica. 95 combinano in ogni rappresentazione, di solito non più di quattro. Il risultato è una sintesi grafica e minimalista che ricorda forme artistiche lontane nello spazio e nel tempo, appartenenti al passato o a culture altre. All’appello c’è un’opera in meno del previsto poiché una è stata cancellata prima di essere ultimata. Può capitare anche dopo quattro anni di festival che quando si esegue un muro illegale qualcuno possa reclamare i propri diritti estetici di proprietario pretendendo di vederlo bianco. Aryz invece viene dalla Spagna, ha solo ventidue anni ed è per la prima volta a Grottaglie e qui realizza un gigantesco gambero lisergico e fumettistico. Gli ultimi due artisti ci riportano alle origini del festival. Presenti fin dalla prima edizione, sangue dello stesso sangue, fatti della materia stessa del Fame e del suo genitore (o tutore legale), eccelsi esponenti della grande tradizione italiana della pittura a fresco, e contemporaneamente annoverati tra i più interessanti artisti attualmente sulla scena dell’arte urbana e attuale in generale, anche quest’anno Ericailcane e Blu scelgono di tornare. Stessa spiaggia, stesso mare, stessi muri da imbrattare. Il pezzo di Blu riproduce un disegno dal suo sketchbook, raffigurante un metaforico biliardo con teste al posto delle palle colorate e una lampadina invece della palla bianca, di probabile contenuto sociopolitico, ma meno specifico ed esplicito che in altre occasioni. La scelta del soggetto è stata infatti frutto di un compromesso, cercato per andare incontro alle esigenze di un’anziana signora residente nel vicinato. Ericailcane invece torna nel quartiere delle ceramiche, dove il primo anno aveva realizzato il malfamato gallo, e proprio nel suo centro dipinge un enorme lupo ladro, intento a rubare delle ceramiche, per la precisione dei pumi, particolari manufatti grottagliesi in terracotta a forma di bocciolo che spesso decorano gli angoli dei balconi delle abitazioni della cittadina. Sempre nel centro storico il cane porta anche una grande piramide di animali acrobati, che è piaciuta perfino alla vecchina che ogni giorno alzando lo sguardo sulla parete a fianco del suo balcone incontra occhi di rane, gatti, passeri e ratti concentrati nell’intento di rimanere in equilibrio. Così, con gli stessi animali di Ericailcane, si apre e si chiude questa parata di arte pubblica non convenzionale durata quattro anni. Per tutta la sua durata, il Fame ha fatto di tutto per mantenere, come gli animali equilibristi, quel delicatissimo equilibrio tra vandalismo e artigianato, tra arte abusiva e arte pubblica, tra istituzioni e underground, dando vita a una realtà che è un incrocio particolare e molto ben riuscito, che rappresenta uno dei più validi, duraturi e consistenti esempi di evento d’ 96 arte urbana non in cattività e che ha trasformato la cittadina jonica in uno strano luogo pieno di disegni e visitatori. Dopo questa edizione matura, completa, ricca e di rinnovato incredibile successo, forse si inizia ad avvertire un senso di sazietà. Il festival è stato oggetto di un involontario ma inevitabile processo di riconoscimento, accettazione e istituzionalizzazione, lo stesso che si può osservare specularmente in scala generale sull’intero movimento della Street Art e più nel particolare nei percorsi dei suoi protagonisti più significativi giunti, con più o meno contraddizioni e sofferenze, alla fama. Il futuro del Fame Festival attualmente è ignoto. Qualche volta Angelo Milano ha fatto riferimento a quella del duemilaundici come possibile edizione conclusiva, ma è difficile riuscire a decifrare i suoi intenti, forse perché non c’è ancora un piano preciso. Certo è che la formula vincente con cui finora è stato realizzato il festival, si è ormai consolidata. Le moderate reazioni ai tentativi di portarla all’estremo fatti quest’anno lo hanno confermato, nutrendo i dubbi e la fantasia del suo ideatore: “Fame cosi com’è è prassi. C’è il rischio di annoiarsi e darlo per scontato. Se ci sarà la quinta edizione dovrà essere molto diversa.”184 Ciò che è troppo semplice non è abbastanza stimolante per Angelo, che infatti oggi collabora anche all’organizzazione di un’altra manifestazione di Street Art che lo diverte molto meno rispetto al Fame degli inizi. Si tratta del festival Crono, che da due anni ha luogo nella città di Lisbona, nel contesto del quale, con il permesso del comune, diversi dei molti edifici abbandonati e in stato di degrado presenti sul territorio urbano della capitale portoghese, vengono messi a disposizione di artisti internazionali che realizzano immensi disegni sulle loro facciate. Le opere realizzate nell’ambito del Crono sono impressionanti, imponenti e spettacolari, molti degli artisti che sono finora stati ospitati, sono gli stessi che sono passati più volte a Grottaglie, ma l’atmosfera è differente. In un piccolo centro della provincia pugliese, un evento analogo al Crono come il Fame, è nato in modo quasi disperato, da un bisogno cieco di possibilità e alternativa. Probabilmente era questo che gli conferiva quella carica vitale che il suo organizzatore non riesce più a trovare tra i consensi le autorizzazioni e i riconoscimenti. Ma, citando i La Quiete, “la fine non è la fine”185 e di sicuro ci sarà dell’altro. S. PALMIERI, We’re not decorating the city, we just want to make shit happen, destabilize, possibly destroy. Intervista ad Angelo Milano, in larottaperitaca.wordpress.com 2011, 22 settembre 185 Pezzo dei La Quiete che dà il titolo all’omonimo album del 2004 184 97 Lo spirito che ha animato l’arte di strada più forte e commovente, quella più pura e allo stesso tempo più sporca, dal quale in origine nasce anche il Fame, non è nato con la Street Art né con il Fame, e non morirà con essi. Continuerà ad esistere, come sempre, in ogni forma di cultura affamata che dai bassifondi del genere umano è risalita e risalirà fino alla superficie. Cambierà aspetto, sarà irriconoscibile, magari starà già strisciando in una forma nuova e ignota mentre i suoi vecchi corpi vuoti continueranno a recitare, continuando a nutrire l’instancabile e insaziabile evoluzione della cultura che nessuna istituzionalizzazione riesce a contenere e a fermare e alimentando quella continua dialettica tra il creare umano più spontaneo e ciò di altrettanto umano che lo regola e lo governa. Il passaggio della Street Art dall’illegalità alla consacrazione delle istituzioni fino all’attuale trasformazione in moda, nemmeno per Angelo non significa la sua fine bensì un cambiamento dalle molteplici e contraddittorie implicazioni: “ci sono controsensi evidentissimi che affiorano ogni volta che si ha a che fare col fenomeno, sia quando entra negli spazi delle istituzioni, sia quando ne rimane fuori, come al principio.” 186 I randagi che hanno animato questo movimento artistico in origine “dipingevano per un bisogno di espressione che sfiora la compulsione”187 che spesso rimane invariato anche dopo il raggiungimento della fama. Questa “componente aggressiva, rabbiosa, a volte unita a un impegno politico”188 è, come già detto, quella più complessa, se non costituzionalmente impossibile, da conciliare con il sistema ufficiale: “quando artisti e istituzioni hanno trovato un compromesso, i contenuti si sono alleggeriti, desaturati; quando non c’è stato questo tipo di dialogo, si è arrivati alla rottura” 189 che in genere si manifesta nella forma tradizionale della censura. “Non è la morte del fenomeno, è un cambiamento,”190 e mentre questo cambiamento si compie è possibile agire, riflettere oppure osservare, dall’interno o dall’esterno, per ingannare il tempo che ci separa dalla prossima ignota evoluzione. 186 A. MILANO in G. CAFFIO, Fame, arancini ed eterotopie, in architettisenzatetto.net, 2011, 19 settembre Ivi 188 Ivi 189 Ivi 190 Ivi 187 98 51. Brad Downey e Akay 52. Moneyless 53. 108 54. Aryz 55. Sam3 56. Brad Downey e Akay 99 57. Nespoon 58. Vhils 59. Ericailcane 60. Escif 61. Blu 100 62. mappa delle opere presenti a Grottaglie, retro del manifesto dell’edizione del Fame Festival 2011 101 Bibliografia Libri e cataloghi AA. VV., Obey. Supply and demand. The art of Shepard Fairey, Ginkgo Press, Corte Madera 2006 AA. VV., We come at night. A corporate street art attack, Gestalten, Berlin 2008 ALINOVI Francesca, Arte di frontiera. New York graffiti, Mazzotta, Milano 1984 ARTAUD Antonin, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 1968 AUGÉ Marc, Disneyland e altri nonluoghi, Bollati Boringhieri, Torino 1999 AUGÉ Marc, Nonluoghi. 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La fonte di tutte le restanti è il sito ufficiale del Fame Festival, famefestival.it, eccetto la 33 e la 34 che essendo stampe provengono dal sito di Studio Cromie, studiocromie.org. 105 Sitografia Articoli apparsi in riviste e periodici online CAFFIO Giovanni, Tutti al Fame, in architettisenzatetto.net, 2010, 24 settembre CAFFIO Giovanni, Notizie da Grottaglie, in architettisenzatetto.net, 2010, 27 settembre CAFFIO Giovanni, Fame, arancini ed eterotopie, in architettisenzatetto.net, 2011, 19 settembre CIUFFI Valentina, Quelli che… si sono presi lo spazio, in ilsole24ore.com, 27 ottobre COLAPS Antonello, Fame Festival 2011: tu su internet, noi a Grottaglie, in librarteria.com, 2011, 27 settembre D’AMICIS Lilli Ch., Angelo Milano è lui il colpevole del meraviglioso Fame Festival, in tuttoilresto-noia.blogspot.com, 2010, 1 ottobre FANO Riccardo, Street Art, il Fame festival tra artigianato e polemica, in blog.panorama.it, 2011, 19 aprile PALMIERI Stefano, We’re not decorating the city, we just want to make shit happen, destabilize, possibly destroy. 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