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Dalla Frontiera al confine, Roma 2002

Quaderni di Studi Arabi. Studi e testi, 5 MARIA PIA PEDANI Dalla frontiera al confine HERDER EDITRICE 2002 UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI DI VENEZIA DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELL’ANTICHITÀ E DEL VICINO ORIENTE Herder Editrice Piazza Montecitorio, 117-120 I 10086 Roma tel. 066794628 – 066795304 – fax 066784751 ISSN 1121-2306 ISBN 88-85876-69-2 Tutti i diritti di riproduzione e rielaborazione anche parziale del testo e delle illustrazioni sono riservati per tutti i paesi. Autorizzazione del Tribunale di Venezia n. 776 del 17.12.1983 Per le parole arabe si è usata la traslitterazione scientifica, per quelle ottomane il turco moderno e per i toponimi la dizione italiana. I I TERMINI 1. Confronti Cemal Kafadar comincia il suo volume sulla creazione dello stato ottomano affermando, con una bella immagine, che Osman fu per gli ottomani ciò che Romolo fu per i romani, cioè l’eroe eponimo di una comunità politica che ebbe successo in una terra straniera.1 Volendo provare a procedere sulla via di tale similitudine, si possono notare però anche degli elementi antitetici: Romolo nacque come il sovrano e il sacerdote che tracciò con il vomere sulla terra il solco primigenio della città di Roma; varcarlo, e quindi negare tale sacro confine, significò per suo fratello Remo la morte. Il potere di Romolo stava in quel solco, in quella divisione tra sacro e profano, in quella cesura di competenze: in quell’idea di confine. La storiografia sull’Impero Ottomano che si può definire ‘classica’ ha invece sottolineato la natura di Osman come gazi, figlio di gazi, colui che combatte sulla frontiera estrema della dār al-islām per difendere e diffondere la fede. È questa la cosiddetta “ideologia della guerra santa”, tesi propugnata da Paul Wittek negli anni ’30 del Novecento, mai posta in discussione se non dopo la sua morte.2 Da una parte vi è quindi il rex, investito dagli dei del potere, che traccia una linea retta e crea non solo un territorio ma anche la regula, la legge. Dall’altra vi è il gazi che, combattendo il ğihād, sposta sempre più avanti la frontiera, cioè quella zona vaga e in movimento, dove tutto si confonde e si trasforma, che racchiude in sé l’idea di confronto con un elemento ostile; la legge per cui egli combatte è quella dell’islam che unisce la religione e lo stato e che divide il mondo in due entità contrapposte: dār al-islām, il cui futuro successo è certo, e dār al-ḥarb, la terra degli infedeli destinata alla sconfitta.3 Nella storia dei primi ottomani si contrapporrebbero dunque due ideologie ben definite: da una parte vi è l’idea di confine passata dai romani ai successivi stati europei; dall’altra l’idea, di matrice islamica, di una frontiera sempre in espansione, cui solo il trattato di Karlowitz nel 1699, con la forza delle armi, pose fine. Se la storiografia potesse fare i conti solo con le teorie, e non anche con i fatti, il discorso sarebbe in sé perfetto e concluso. Tale infatti è rimasto per decenni. Wittek stesso non approfondì il tema della 1 2 3 Kafadar, Between two Worlds, p. 1. Wittek, The Rise of the Ottoman Empire. Mélikoff, Ghāzī, pp. 1068-1069; Johnstone, Ghazw, pp. 1079-1080. frontiera dell’Impero Ottomano, pur essendo questo uno degli elementi portanti della sua teoria. Solo negli ultimi vent’anni, sulla scia della revisione critica dell’ “ideologia della guerra santa” come punto di forza dell’avanzata ottomana, il concetto di frontiera/confine tra paesi cristiani e paesi musulmani è stato oggetto di saggi specifici. Si è cominciato a considerarlo sotto i suoi vari aspetti: non solo politico e militare, ma anche religioso, sociale ed economico. Nello stesso tempo ci si è pure accorti che l’idea di confine, ereditata dal mondo romano, subì nel corso del Medioevo delle variazioni dovute all’irrompere di elementi estranei appartenenti a culture lontane: quelli che genericamente si definiscono barbari portarono nella cultura romana della decadenza modi diversi di considerare e vivere lo spazio proprio e altrui mentre, nello stesso tempo, la legge che un uomo seguiva cominciò a variare a seconda, non del paese dove egli si trovava, ma del gruppo cui apparteneva. 2. Frontiera Frontiera e confine non sono sinonimi, anche se spesso si tende ad usarli senza distinguerne il corretto significato. La frontiera è una fascia di territorio che racchiude in sé l’idea di ‘fronte’: al di là sta il nemico, che può avanzare o indietreggiare. Lo stesso vale per il francese frontière, l’inglese frontier e lo spagnolo frontera. Questo termine fece la sua prima comparsa nella penisola iberica: infatti nel primo testamento di Ramiro I di Aragona redatto nell’anno 1097 dell’Era di Spagna, corrispondente al 1059 d.C., si trova l’espressione «ad castros de fronteras de mauros que sunt pro facere»; anche nel secondo testamento di questo sovrano, del 1061, si dice «in castellos de fronteras de mauros qui sunt per fare et in castellos qui sunt in fronteras per facere»; infine in un terzo atto dell’anno successivo lo stesso monarca affermava: «et tu quod cavallero et franco sedeas quomodo homine debet esse in frontera francho et caballero». Relativamente a questo primo utilizzo della parola ‘frontiera’ si nota, innanzi tutto, che essa comparve in ambiente militare legato al potere statale; in secondo luogo serviva a indicare non una linea di fortificazioni ma uno spazio dinamico volto verso il nemico musulmano e, infine, che il termine era legato a un comportamento necessariamente lontano da schemi prestabiliti, caratteristico di una terra di conquista e di libertà.4 L’idea di frontiera come entità essenzialmente politica e militare venne poi utilizzata soprattutto nell’ambito statale francese, dai tempi dei Valois a quelli di Richelieu, e quindi accolta dalla storiografia europea in generale. L’epopea americana, invece, fece della frontiera una zona di passaggio e una terra aperta ad ogni possibilità, dove il nemico era più la natura ostile che non il vicino: essa divenne una regione abitata da uomini liberi e 4 du Cange, Glossarium, III, p. 421; Sénac, Islam et Chrétienté, pp. 100-101; Sénac, Ad castros de fronteras, pp. 205-221. 4 autosufficienti. Gli storici americani vennero notevolmente influenzati da questo concetto, che poi trasmisero anche a colleghi d’oltre oceano. Va inoltre sottolineato che proprio negli Stati Uniti, negli anni ’20 del Novecento, Frederick Jackson Turner fu forse il primo a considerare la frontiera come un valido soggetto storiografico e a dedicarle un volume, anche se incentrato sulla storia del suo paese e sul significato che tale concetto aveva avuto in quella realtà;5 fu soprattutto attraverso la sua opera che l’idea americana di frontiera si diffuse fino ad influenzare anche persone che studiavano contesti completamente differenti: tale fu il caso di Wittek, per l’origine dell’Impero Ottomano, o di Claudio Sanchez Albornoz per l’avanzata cristiana in Spagna.6 In origine, però, parlare di frontiera significò innanzi tutto fare riferimento a due mondi contrapposti, quello cristiano e quello musulmano, che si spartivano la penisola iberica. 3. Taġr Secondo Philip Senac7 l’idea di limitare lo spazio non sembra essere stato un elemento importante nell’antica civiltà arabo-musulmana di Spagna: in al-Andalus, per esempio, la frontiera non era una linea bensì una zona. Così in epoca omayyade, una volta conquistata la valle dell’Ebro, cominciò a essere identificata come al-taġr al-a‘lā, la frontiera (o marca) superiore. La parola taġr (pl. tuġūr) venne dunque utilizzata in tal senso dagli scrittori arabi. Essa deriva dalla radice tġr, che racchiude un’idea di apertura, bocca, e quindi di frontiera e di denti. Non si trova nel Corano ma nella poesia preislamica; compare anche in qualche ḥadīt: Abū Dāwūd al-Siğistānī (m. 275/889) la utilizza proprio nel significato di frontiera riferendosi all’epoca del califfo ‘Umar.8 Durante il periodo di avanzata musulmana in Asia Minore tale parola fu usata per indicare per antonomasia le regioni del Nord della Siria e della Mesopotamia a ridosso dell’Impero Bizantino. In quest’ambito tuġūr, al plurale, evocava la linea di piazzeforti, che sorvegliavano il possibile arrivo delle armate del basileus, oltre cui si estendeva una vera e propria terra di nessuno, intenzionalmente spopolata da Eraclio (610-642) quando si era ritirato dalla Siria; per proteggere l’Anatolia e l’Armenia il basileus aveva devastato intenzionalmente la pianura della Cilicia tra l’AntiTauro e il Tauro allontanandone le guarnigioni e gli abitanti. Tale zona era soggetta a periodici attacchi e veniva chiamata al-ḍawāḥī, il paese di fuori, l’esterno, o anche ḍawāḥī al-Rūm. Al di qua si estendeva invece un territorio compatto con una serie di piazzeforti, 5 6 7 8 Turner, The Frontier in American History, pp. 1-38. Bazzana-Guichard-Sénac, La frontière, pp. 56-57; Power, Introduction, pp. 1-12. Sénac, Islam et Chrétienté, p. 106; Sénac, La frontière et les hommes, pp. 109-114. Cfr. Manzano Moreno, La Frontera de al-Andalus, p. 31. 5 conosciute come al-‘awāṣim (o le protettrici) dai tempi di Hārūn al-Rašīd (786-809), dove i guerrieri potevano rifugiarsi dopo aver compiuto i loro raid.9 Al singolare il termine taġr servì anche a indicare i grandi porti del litorale siriano, Tripoli, Sidone, Tiro e Acri, che proteggevano dagli attacchi nemici provenienti dal mare.10 Nel senso di piazza commerciale lo troviamo poi usato al tempo dei mamelucchi in Egitto: i tuġūr musulmani erano i porti “protetti [da Dio]”, frequentati da consoli e mercanti infedeli, soprattutto veneziani ma anche fiorentini: (si diceva che) «ai tempi dei re predecessori, i loro consoli e i loro mercanti avessero frequentato i tuġūr musulmani per vendere e comprare al pari del piccolo stato dei veneziani».11 Nei documenti dell’epoca Alessandria d’Egitto sembra essere quasi il taġr per antonomasia, pur condividendo tale appellativo con Damietta, Ascalona, Tiro, Sidone e altre città della costa, così come Creta, Cipro, la Sicilia e altre isole venivano chiamate al tuġūr al-ğazariyya.12 All’estremo occidente invece, come si è visto, taġr fu ampiamente utilizzato per indicare le zone vicine ai regni del nord di al-Andalus e prese, più in generale, il senso di ‘marca’. La più recente storiografia ritiene che in tale regione venisse ricreato il sistema dei distretti militari (ğund, pl. ağnād) che i califfi omayyadi avevano costituito in Siria, attribuendo poi a quelli posti in zone di frontiera il nome di tuġūr. Così il territorio di Saragozza e tutta la regione nord-orientale di al-Andalus venne chiamata “la frontiera superiore” (al-taġr al-a‘lā) o “la frontiera remota” (al-taġr al-aqṣā), mentre la zona verso la Cordigliera centrale fu conosciuta come “la frontiera media” (al-taġr al-awsaṭ) o “la frontiera prossima” (al-taġr al-adnā).13 Il taġr, dunque, segnava in generale una zona di incontro o scontro tra cristiani e musulmani: da una parte stava la dār al-islām, di cui esso faceva parte, dall’altra vi era la dār al-ḥarb: per prenderlo in considerazione l’osservatore deve quindi necessariamente porsi dalla parte musulmana. Una volta che la frontiera veniva violata, il ğihād, la guerra legale, diveniva un dovere per il sovrano musulmano. Tra i suoi compiti vi erano infatti il sostegno alla religione, il mantenimento di una corretta amministrazione fiscale e la salvaguardia delle frontiere,14 cioè i tuġūr al-muslimīn che, almeno in teoria, non sarebbero potuti mai arretrare. Non si trattò però di una frontiera sempre in espansione: per esempio proprio nella penisola iberica, dopo lo scontro di Poitiers nel 732, dinnanzi a un fronte 9 10 11 12 13 14 Canard, al-‘awāṣim, pp. 783-784; Keiko, Migration and Islamisation, pp. 87-91. Miquel, La perception de la frontière, pp. 130-131; Bianquis, Les frontières de la Syrie, p. 140; Bonner, The Naming of the Frontier, pp. 17-21. Amari, I diplomi arabi, pp. 184-209 (anno 1496), cfr. anche pp. 218-220 (1507). Cfr. per esempio al-Qalqašandī, Ṣubḥ, X, pp. 357, 439, 446; XI, pp. 32, 405; Udovitch, Islamic Treatise, p. 37-38. Manzano Moreno, La Frontera de al-Andalus, pp. 44-69. Laoust, La pensée, p. 56. Secondo al-Māwardī la protezione delle frontiere è il quinto dei dieci obblighi personali del califfo. 6 cristiano che continuamente avanzava, venne a crearsene uno musulmano che tese a contrarsi, pur essendo più definito politicamente, socialmente ed economicamente.15 4. Limes Una contrazione simile a quella subita dalla frontiera musulmana nella penisola iberica, pur mantenendo le dovute differenze, si era determinata anche nel caso di un’altra entità statale alla cui espansione non vi sarebbe dovuto essere, almeno in teoria, mai un limite: l’Impero Romano, un «imperium sine fine», come dice Virgilio. Proprio in rapporto con l’avanzata delle truppe romane venne a crearsi il concetto di limes. In generale si considera il limes come una linea fortificata posta a difesa dell’Impero; eppure tale termine subì nel corso dei secoli varie modificazioni. Secondo Banjamin Isaac nella sua evoluzione si possono distinguere tre momenti: a) nel I secolo d.C., in un momento di espansione, venne a indicare la strada militare costruita per penetrare nel territorio nemico; b) dal I al III secolo fu adottato per definire una regione di frontiera dell’Impero, ma senza alcun riferimento a strutture militari; c) dal IV secolo in poi fu un distretto di frontiera, con una connotazione più amministrativa che militare, mentre le turres e praetendurae che lo costellavano erano soprattutto un elemento di controllo politico del territorio.16 S.T. Parker sottolinea invece come nel corso del II secolo venne a crearsi quella che egli chiama una “frontiera scientifica”, in quanto o segnata da una serie di forti legati da strade o formata da una barriera continua, come per esempio il Vallo di Adriano.17 Poiché l’Impero Romano si estendeva sino ai confini con la Persia il concetto di limes non appartenne solo all’Europa, bensì anche al Vicino Oriente. Secondo George Tate la frontiera tra Bisanzio e la Persia nella Siria del Nord e nella Mesopotamia subì, intorno al VII secolo, un drastico cambiamento: tra il IV e il VII secolo questa si presentava come una serie lineare di forti e città fortificate uniti da strade; tra il VII e l’XI secolo, in concomitanza con l’apparire e il consolidarsi del pericolo musulmano, la situazione cambiò e la linea si trasformò in una zona, situata inoltre non più secondo l’asse Nord-Sud, ma in direzione EstOvest.18 15 16 17 18 Cfr. Manzano Moreno, The Creation of a Medieval Frontier, pp. 38-40; l’autore ricorda che secondo Abū Ḥanīfa (m. 150/767) in almeno tre casi era possibile la trasformazione della dār al-Islām in dār al-ḥarb: quando erano imposte leggi non musulmane, quando si era prossimi alla dār al-ḥarb e quando non vi era sicurezza per la vita e i beni dei musulmani. Il problema di passaggio dall’una all’altra entità venne a riproporsi con il colonialismo, cfr. Pedani Fabris, La dimora della pace, p. 54. Isaac, The Meaning, pp. 125-147. Parker, Romans and Saracens, pp. 7-9. Tate, Frontière et peuplement, pp. 151-155. 7 5. Munāṣafa Un altro termine, anche se usato raramente, merita infine di essere preso in esame parlando di frontiere, confini e territori divisi tra stati cristiani e musulmani: si tratta della parola araba munāṣafa (a metà, in condominio). Il testo dell’armistizio concluso tra il sultano mamelucco Baybars e gli Ospitalieri di al-Marqab il 1 ramaḍān 669/13 aprile 1271, ampiamente discusso da Urbain Vermeulen,19 spiega dettagliatamente cosa si intenda con questo termine, cioè cosa significhi un territorio posto sotto una sovranità congiunta. In particolare in questo accordo si intendeva che costruzioni e prodotti, terre coltivate e zone abbandonate, diritti, dazi, redditi d’imposte sui suburbi di al-Marqab e la zona circostante spettavano sia al sultano che ai cavalieri, e che le consuetudini vigenti nel paese non potevano essere modificate. La sicurezza di quanti passavano dal territorio musulmano a quello cristiano, e viceversa, dipendeva da entrambe le entità statali, che avrebbero fornito congiuntamente anche gli uomini per le scorte. Per quanto riguardava il diritto penale i musulmani sarebbero stati giudicati secondo la šarī‘a, ma il ricavato di multe e ammende sarebbe stato incamerato a metà dalle due parti. Se le merci che dovevano essere confiscate erano di un mercante musulmano o di un dimmī appartenente alle terre del sultano, questi le avrebbe incamerate; se erano invece di un cristiano proveniente da zone cristiane, allora sarebbero spettate ai cavalieri. Anche i compiti di polizia dovevano essere esercitati congiuntamente, in quanto i funzionari mamelucchi avrebbero sorvegliato i musulmani, mentre quelli degli Ospitalieri avrebbero represso gli abusi dei cristiani; comunque nessuno poteva essere imprigionato se non con l’accordo di entrambe le parti e i fuggiaschi, cristiani o musulmani, dovevano essere comunque rimandati al luogo di provenienza; in tal caso neppure le chiese potevano concedere diritto d’asilo a un musulmano che vi avesse cercato rifugio. Infine gli abitanti di al-Marqab e dei suburbi non potevano avere alcun contatto con gli abitanti della vicina cittadella di al-‘Ullayqa, né potevano consentire ad alcuno di penetrare con cattive intenzioni nel territorio del sultano. Ulteriori clausole riguardavano il divieto per i cavalieri di restaurare gli edifici cadenti e i fossati; anche alcuni lavori già intrapresi dovevano essere interrotti. Sono soprattutto queste ultime due condizioni, relative alla mobilità della popolazione e degli stessi cavalieri e al restauro di case e fortificazioni, che fanno chiaramente intendere come si sia trattato di una rinuncia, da parte dei cristiani, a una parte della loro sovranità in favore del sovrano musulmano, e non di un accordo stabilito su un piano di parità. Uno sguardo alla situazione politica e militare conferma questa prima impressione: da pochi giorni era stato conquistato Le Crac des Chevaliers (Ḥiṣn al-Akrād); pochi anni dopo, nel 1285 al-Marqab avrebbe seguito la stessa sorte. Comunque è interessante notare l’esistenza di un principio, come quello di munāṣafa, che poneva 19 Vermeulen, Le traité, pp. 123-131; Holt, Early Mamluk Diplomacy, pp. 34-35. 8 cristiani e musulmani viventi in un unico territorio sullo stesso piano per quanto riguardava la sicurezza e la convivenza, mentre le rendite erano divise a metà tra le due vicine entità statali. In base a tale concetto si creò, anche se per pochissimi anni, uno stato dove cristiani e musulmani vivevano seguendo ciascuno la propria legge, mentre i servizi di polizia e di scorta verso altri paesi erano effettuati congiuntamente. Quello raggiunto da Baybars e gli Ospitalieri di al-Marqab non fu comunque l’unico accordo che prevedesse una specie di condominio tra franchi e musulmani, anche se probabilmente è quello meglio conosciuto. A cercare tra le pagine degli storici si scopre che altri ve ne furono; per esempio quello stipulato da Baldovino I di Gerusalemme nel 11081109, che prevedeva che le rendite del territorio a est della valle del Giordano andassero per un terzo all’autorità di Damasco e per due terzi ai franchi e ai contadini.20 6. Dār al-ṣulḥ Nel corso dei secoli si susseguirono dunque non solo periodi di guerra tra cristiani e musulmani, ma anche periodi in cui gli accordi ebbero reale valore. È sufficiente fare un rapido conto degli anni di pace e di guerra che si ebbero durante i quasi cinque secoli di rapporti tra la Repubblica di Venezia e l’Impero Ottomano per rendersi conto che gli anni di pacifica o armata convivenza superarono di gran lunga quelli di guerra aperta, nonostante la storiografia veneziana presenti di solito ‘il Turco’ come il nemico per eccellenza. Cosa pensassero realmente sultani e visir di uno stato che accettò di pagare migliaia di ducati per il rinnovo degli accordi di pace o per conservare territori come Cipro o Zante, non è sempre chiaro, e probabilmente variò a seconda dei momenti di maggior o minor potere da parte della Porta. Certe espressioni presenti in alcuni documenti cinque-seicenteschi, come per esempio usare la parola zâbit (ufficiale) per indicare il doge di Venezia, o ancora dire che i veneziani pagavano la tassa detta haraç (ar. harāğ), o che la Repubblica godeva della “protezione” del sultano fanno propendere per la tesi che in alcuni momenti gli ottomani abbiano considerato Venezia come uno stato in qualche modo tributario. In alcune carte esplicitamente si riconosce la devozione (ubudiyet), sottomissione e ubbidienza (itaat ve inkıyad) della Repubblica e si parla non di un semplice accordo, bensì di un akd-i maun o akd-i ahd esistente tra i due stati: si può comunque notare che tutte le lettere in cui il linguaggio appare così duro e incisivo appartengono alla seconda metà del Cinquecento o alla prima del Seicento e furono indirizzate al doge o da principi ottomani o da alti funzionari della Porta, mentre il sultano si esprimeva in tal modo solamente quando scriveva ai propri subordinati, e non quando si rivolgeva direttamente alla Repubblica.21 20 21 Holt, Early Mamluk Diplomacy, p. 8. ASVe, LST, filza II, c. 105 n. 127 (1562, il principe Selim al doge); filza III, c. 118 n. 296 (1576, il gran visir Mehmed pascià al doge e alla Signoria); filza IV, c. 138 n. 433 (1589, Sinan pascià al doge); da notare filza IV, c. 154-155 n. 443/A dove gli accordi con il “re di 9 A questo punto non si può fare a meno di notare che esiste nel diritto islamico un concetto che potrebbe adattarsi a questo caso specifico, anche se esso non viene accolto da tutte le scuole giuridiche e in particolare non è accettato da quella ḥanafita, seguita dalla maggioranza degli ottomani. Si tratta della dār al-ṣulḥ o dār al-‘ahd, cioè di un territorio dove la condizione di guerra è stata in qualche modo sospesa. Essa era riconosciuta dagli šāfi‘īti, che in particolare la consideravano come una terra di infedeli i cui abitanti, in cambio di una specie di protettorato, pagavano un harāğ collettivo al sovrano musulmano. Una volta terminato però il periodo di pace, la dār al-ṣulḥ rientrava di nuovo in una delle due categorie precedenti, diventando quindi o dār al-ḥarb oppure dār al-islām. Tale teoria aveva, come spesso accade nel diritto islamico, la sua origine in un episodio della vita del Profeta e precisamente nell’accordo stretto tra Muḥammad e la popolazione cristiana del Nağrān. Un altro esempio cui era possibile rifarsi era quello della pace stipulata nel 31/652 tra l’emiro ‘Abd Allāh ibn Sa‘d e i Nubiani. Comunque il concetto di dār al- ṣulḥ resta di solito abbastanza nel vago e, secondo David Santillana, l’esistenza di una terra neutra, né dār al-ḥarb né dār al-islām, sarebbe di fatto una figura giuridica ignota al diritto musulmano.22 7. Confine L’idea di confine come linea, come solco segnato nella terra, appare dunque fortemente connaturata al mondo romano delle origini, sin dal mito della sua fondazione. Il resacerdote che fondò Roma ricreò sulla terra l’ordine cosmico; suo compito era quello di regere fines. Per i romani il cardo e il decumano erano alla base dell’orientamento di ogni città e il cardo aveva la stessa direzione dell’asse celeste mentre il decumano procedeva da est verso ovest, seguendo il corso del sole. 23 Nel V secolo però l’Impero Romano d’Occidente ebbe fine e i popoli che si sogliono definire barbari introdussero una cultura diversa. Così, solo ad esempio, nel De Bello Gallico Giulio Cesare narra che i popoli germanici usavano devastare le zone di confine considerando la terra vacua più sicura che non la presenza di un diverso popolo (4.3, 6.10, 6.23). Così la parola marka, usata poi a indicare una circoscrizione posta proprio a ridosso del confine, deriva dal termine ‘bosco’ nella lingua tedesca antica e gotica.24 In inglese, ma non in italiano, si può notare anche 22 23 24 Vienna” sono chiamati ahd ve aman e ahd ve misak; Documenti turchi, n. 1163; Pedani Fabris, La dimora della pace, p. 38; cfr. anche Gökbilgin, Le relazioni, p. 289 (1548, Sokollu Mehmed pascià, afferma che Venezia è repubblica alleata, come tutti i paesi ottomani); Lesure, Notes et documents, pp. 131-132. Santillana, Istituzioni, I, pp. 90-91; İnalcık, Dār al-‘ahd, p. 116; MacDonald [Abel], Dār alṢulḥ, p. 131; Pedani Fabris, La dimora della pace, pp. 6-7; Vercellin, Istituzioni, pp. 27-28. Piccaluga, Terminus, p. 174; Benveniste, Il vocabolario, p. 295; Zanini, Significati del confine, pp. 6-8. Werkmüller, Gli alberi come segno di confine, p. 465. 10 l’esistenza di due idee di confine non esattamente coincidenti: uno è il border, cioè il confine dello stato, identificabile con una linea, l’altro il boundary, cioè un confine ideale, che abbraccia tutti coloro che vivono vicini e che condividono la medesima cultura, terra e sangue. Non è detto poi che, nella pratica, border e boundary coincidano. Luciano Lagazzi ha contrapposto un’idea di confine perimetrale, agrario, legato alla centuriazione romana, a un’idea di confine circolare, centralizzata, proveniente da popolazioni nomadi. Le pergamene medioevali dimostrano come spesso i confini delle proprietà di monasteri o privati delimitassero una zona circolare, il cui centro era rappresentato da una costruzione: nella prima metà del VII secolo, per esempio, l’insediamento monastico di Bobbio possedeva tutta la terra attorno al monastero per quattro miglia. Accanto ai confini tracciati sul terreno o segnati da cumuli di pietre o dalla natura appaiono anche quelli affidati a elementi più impalpabili come per esempio il suono. Nel Chronicon Novalicense il re Carlo soddisfa il giullare longobardo che l’ha condotto per sentieri sconosciuti alle spalle dell’esercito di Desiderio, donandogli tutta la terra in cui si sarebbe sentito il suo corno suonato dalla sommità di un monte. Ancora oggi sulle montagne del Bellunese i confini delle pievi seguono l’andamento delle vallate, segnati solo dal suono delle campane delle chiese.25 A una tipologia quadrangolare si contrappose dunque un territorio strutturato in modo diverso, spesso sulla base di un punto centrale. Si trattava dell’apporto di un’economia nomade, fatta di caccia e raccolta. Nel momento della sosta, conficcare nella terra una pietra o un palo, una picca, permetteva di rifondare lo spazio, di ricreare l’ordine cosmico: allora la zona intorno si presentava come abitabile e sicura, protetta dalla divinità. Solo un altro elemento ugualmente sacro, come per esempio l’acqua di un fiume, poteva interrompere questo circolo e creare un diverso confine, come per esempio durante le invasioni barbariche le acque del Danubio. Tra le popolazioni nomadi che credevano di creare in questo modo uno spazio sacro vi furono anche quelle turche e mongole, tra cui si possono annoverare avari e unni.26 Troppo pochi sono comunque gli elementi in nostro possesso per poter avanzare altro che una vaghissima ipotesi di antichi legami tra culture diverse. Nello stesso periodo in cui l’idea di confine subì tali modificazioni, si creò probabilmente in Occidente anche uno scollamento tra confine materiale e confine giuridico. Lege romana vivens, lege langobardorum vivens, lege salica vivens… sono frasi che abbondano nei documenti notarili medioevali almeno dall’epoca carolingia fino al XII secolo: stanno a indicare persone, spesso coinvolte nel medesimo atto giuridico o viventi 25 26 Cronaca di Novalesa, pp. 154-155 (da notare come chi propone tale sistema non sia un franco, bensì un longobardo); Lagazzi, Segni sulla terra, pp. 32-36. Eliade, Immagini e simboli, pp. 38-54; Zanini, Significati del confine, pp. 42-43; Goetz, Concepts of Realm, p. 78; Roux, La religione dei turchi, pp. 288-291. 11 nella stessa zona, eppure professanti leggi diverse. La personalità della legge, caratteristica delle popolazioni nomadi, appartenne per un lungo periodo anche alla società europea, e fu presente proprio nel periodo in cui franchi, longobardi e altri popoli si trovarono a condividere la stessa terra. 8. Ḥadd, sınır, hudud Si è ripetuto spesso, e con ragione, che lo stato islamico, fino dalla sua fondazione, non fu legato a divisioni territoriali e che i confini invalicabili nell’islam sono quelli del genere o dei rapporti con il prossimo, non quelli segnati sulla terra e basati su convenzioni artificiali, che non impediscono il trasferimento di persone e concetti da una zona ad un’altra. L’idea di una separazione netta tra stati, sancita da una linea confinaria, non fu comunque del tutto estranea alla storia dei popoli islamici, almeno nella pratica. Se da una parte tra i doveri del califfo vi era la difesa delle fortezze lungo la frontiera, dall’altra le circostanze storiche portarono poi alle volte ad accomodamenti che potevano prevedere un vero e proprio confine: per esempio si racconta di una tregua di un anno stipulata da Abū ‘Ubayda, un compagno del Profeta, con cristiani del nord della Siria, e di una linea di demarcazione posta tra i territori di costoro e quelli dei musulmani, simboleggiata da una colonna su cui venne dipinto il ritratto di Eraclio († 641), l’imperatore bizantino regnante; secondo una leggenda, probabilmente di origine cristiana, anni dopo all’immagine venne per sbaglio distrutto un occhio e come riparazione una statua del califfo ‘Umar venne deturpata in modo analogo.27 In arabo, e quindi in ottomano, a indicare il confine si usa la voce ḥadd (pl. ḥudūd) che esprime il concetto di un oggetto affilato come la lama di un coltello, o anche la cresta di una montagna. I geografi arabi usarono tale termine per indicare in generale ogni limite e in particolare di quello della dār al-islām; ḥadd divenne anche il termine tecnico usato per indicare la sanzione di certi atti interdetti o sanzionati con delle punizioni nel Corano e considerati come crimini contro la religione. La parola araba passò poi in ottomano (hudud) per indicare il confine, soprattutto, ma non esclusivamente, quello statale: ehl-i hudud erano gli abitanti delle zone di frontiera, i guardiani dello spirito della guerra contro gli infedeli. Invece had fu, in generale, il limite e, in particolare, il limite individuale legato alle regole di comportamento dell’individuo perfettamente integrato nella società ottomana. Fattori come l’ambiente sociale o familiare, la classe cui si apparteneva, il rango che si era raggiunto determinavano il had di una persona: all’interno di questa sfera ciascuno era abbastanza libero di agire, e ciò era estremamente importante soprattutto per chi operava 27 Piacentini, Il pensiero militare, p. 26; Scarcia Amoretti, Il mondo musulmano, p. 40; Laoust, La pensée, p. 56; Manzano Moreno, Christian-Muslim Frontier, p. 88; Grabar, Arte islamica, pp. 63, 100-101. 12 nella compagine statale; superare tale confine e invadere lo spazio altrui era considerato grossolano e incivile, una incredibile mancanza di etichetta.28 Accanto alla parola hudud, gli ottomani usarono però anche il vocabolo di origine greca sınır, o sınur (da súnoros, limitrofo). Pur essendo sinonimi, e quindi utilizzati nello stesso modo, il secondo termine venne usato per indicare soprattutto limiti interni allo stato ottomano, come per esempio i confini dei vakf, mentre per i confini del mare e delle acque si preferì hudud; sınır fu utilizzato anche nella seconda metà del Quattrocento per i documenti imperiali relativi ai confini con gli stati esteri (sınırname), mentre successivamente si preferì il termine hududname. I sınırname beratı erano invece i diplomi imperiali con cui si definivano i limiti del territorio assegnati a un governatore o donati a qualche importante personaggio. Infine in alcuni documenti, secondo la mia esperienza soprattutto quelli del Sei-Settecento, si possono trovare ambedue i termini usati assieme, nella formula hudud ve sınır.29 9. Ġazw e gaza Secondo Colin Heywood gli ottomani avevano chiara la differenza tra il confine inteso come linea (hudud/sınır) e la frontiera come zona o marca, chiamata in questo caso uc. Secondo la ben nota teoria della “guerra santa” di Wittek, cui comunque in seguito si accennerà più ampiamente, era questo il limite, il punto estremo, la fine, oltre cui si estendeva la terra della miscredenza e i suoi abitanti erano i guardiani dello spirito della razzia contro gli infedeli (gaza tur., ġazw ar.). Che poi nella realtà dei fatti i comportamenti individuali non fossero sempre così rigidi come vuole la teoria fu considerato da alcuni storici di secondaria importanza: in effetti gli uc erano marche di confine poste però solo nella zona balcanica, a occidente dell’Impero, e non verso la Persia musulmana. Maḥmūd al-Kāšġarī, che scrisse nell’XI secolo in arabo un dizionario di turco, considerò uc, cioè il confine del paese (el), traduzione della parola taġr. Altri però, da Imber allo stesso 28 29 Miquel, La perception de la frontière, p. 130; Carra de Vaux - Schacht, Ḥadd, pp. 21-22; Shaw, L’impero ottomano, pp. 97-98. Kreisler, Osmanische Grenzbeschreibungen, pp. 165-172; Kolodziejczyk, Ottoman-Polish Diplomatic Relations, p. 58; Pedani, The Ottoman Venetian Frontier, pp. 171-177. Un documento in greco del 10 luglio [1480] (Documenti turchi, n. 17) venne definito sınırname nella successiva pace veneto-ottomana del 1482 di cui esiste l’originale in ottomano, cfr. Theunissen, Ottoman-Venetian Diplomatics, pp. 131, 362. Sull’uso di entrambi i termini assieme cfr. per esempio, ASVe, Bailo, b. 254, reg. 348, cc. 81-82, metà della luna di safer 1132 (24 dicembre 1719-2 gennaio 1720); sull’uso di sınır per i confini marittimi, cfr. b. 253, reg. 346, carte non numerate, primi della luna di rebiyülevvel 1121 (11-20 mag. 1709) e b. 254, reg. 349, cc. 80-82, 1 cemaziyülevvel 1133 (28 febbraio 1721). Due fac-simile di sınırname bareatı sono pubblicati in Calligraphies ottomanes, nn. 61, 64, pp. 166, 170-171. Cfr. anche Kovačevic, Hududnama, pp. 365-436, e la monografia dello stesso autore Granice. 13 Heywood, hanno notato che il termine gazi, come usato nelle prime cronache ottomane, non è altro che un sinonimo di alp (eroe) o di akıncı, il razziatore della frontiera, come afferma anche lo stesso Aḥmedī (c. 1400) nel suo İskendernâme.30 Le marche della zona balcanica, dunque, poste sotto il comando di ucbeyi, i signori della frontiera, erano tra i pochi possedimenti fondiari ottomani che si trasmettevano ai discendenti e non tornavano allo stato dopo la morte dell’assegnatario. Gli ucbeyi appartenevano ad alcune grandi famiglie i cui capostipiti erano stati compagni dei primi sovrani: Malkoç, Mihail, Evrenos, Turahan; essi erano gli ultimi epigoni di quella che era stata la nobiltà del più antico stato ottomano, spazzata via nel corso del Quattrocento dalle lotte per il potere e dall’ascesa inarrestabile dei kapıkulu, gli schiavi della Porta, uomini per definizione sradicati dal loro ambiente e per questo completamente devoti al loro signore, cui tutto dovevano. I contadini dei Balcani erano inquadrati in uno speciale corpo militare e il servizio che prestavano era il corrispettivo delle tasse che avrebbero dovuto pagare al loro signore; tali combattenti erano chiamati akıncı (da akın, razzia) e non ricevevano soldo ma potevano conservare il bottino delle loro imprese. Erano queste truppe irregolari, destinate non alla conquista duratura di un paese nemico, ma a rapide scorrerie per conoscere le caratteristiche geografiche di una zona, oppure a mosse diversive effettuate per distogliere l’attenzione del nemico dal vero obiettivo del grosso dell’esercito, che operava altrove. Questi razziatori della frontiera erano armati alla leggera, con archi e spade e spesso avevano più di un cavallo a loro disposizione, in modo da poter fuggire veloci con bottino e schiavi; combattevano in gruppi di dieci con a capo un onbaşı, e le loro soste in un’unica zona non duravano mai a lungo: per esempio le loro scorrerie in Friuli nella seconda metà del Quattrocento durarono da un minimo di quattro giorni (luglio 1478) a un massimo di dieci (novembre 1477), anche se questi rapidi raid passarono alla storia come «le invasioni turche». È stato dimostrato che, almeno nel Cinquecento, quando tali corpi militari stavano ormai passando di moda, nei ruoli degli akıncı si trovavano iscritti non solo musulmani ma anche contadini cristiani. Lo spirito della gaza evidentemente aveva ormai poco a che fare con chi, per convenienza, per guadagno o per forza, era spinto a fare la guerra in nome dell’Impero Ottomano.31 L’epopea degli akıncı terminò con i primi anni del Cinquecento; altri corpi vennero ad occupare il loro posto mutuandone le tecniche, come quello dei gönüllü (volontari), che 30 31 Heywood, The Frontier, pp. 233-235; Tryjarski, Kultura, pp. 157-159, dove si citano i passi dello scrittore relativi al confine Uyguro kumi talās, che è probabilmente il nome della città posta sul confine, e alla città di Qazvin, considerata dai turchi come posta entro i loro confini perché fondata dalla figlia di Afrāsijāb (ringrazio Elzbieta Swiecicka per l’indicazione bibliografica); Imber, The Legend, pp. 73-74. Pedani Fabris, I Turchi e il Friuli, p. 204. 14 solo recentemente si comincia a studiare. Anche in questo caso si trattò di militari provenienti da zone di frontiera, la cui coscrizione tuttavia era su base volontaria; dovevano provvedere a proprie spese al loro equipaggiamento e mantenimento; la loro massima aspirazione, sostenuta dalla propaganda ottomana, era quella di ottenere, per i loro atti di coraggio, un tımar in ricompensa oppure di entrare a far parte di qualche corpo regolare.32 10. Militärgrenze La presenza degli ottomani nel cuore dell’Europa orientale, dai limiti della Dalmazia alla Podolia, creò verso settentrione tutta una zona di instabilità politica e tale situazione influenzò anche i nomi attribuiti ad alcuni territori. Ukraina significa semplicemente ‘marca’ e servì a indicare che quella terra era l’ultimo lembo, appartenente prima alla Polonia/Lituania e poi alla Moscovia, posto di fronte al khanato di Crimea.33 Particolare e complessa è la vicenda del confine tra gli Asburgo e l’Impero Ottomano che correva lungo la Croazia, Slavonia e Ungheria. Sin dal Cinquecento, varie aree attrezzate con piazzaforti vennero create a difesa dello stato cristiano, ma nessuna linea confinaria venne tracciata di comune accordo. All’inizio del Settecento, invece, dopo la pace di Karlowitz e la creazione di una vera e propria linea di confine, gli Asburgo organizzarono, nei propri territori a ridosso dell’Impero Ottomano, il cosiddetto Militärgrenze (Confine militare), controllato interamente e direttamente da Vienna e sottratto alla sovranità del regno di Croazia. Già prima esistevano delle piazzeforti in tale zona: ora però dall’Adriatico al nord della Transilvania, da Segna a Košice, il territorio fu organizzato in sei sezioni, a loro volta divise poi in capitanati (1. il confine croato o generalato di Karlowitz, 2. il confine slavo, 3. il confine ungherese dalla Drava al lago Balaton, 4. il confine ungherese dal lago Balaton al Danubio, 5. il confine delle città minerarie, 6. il confine ungherese superiore); il sistema di fortezze era difeso da reggimenti tedeschi. Non fu comunque questo l’unico elemento caratteristico e importante della nuova organizzazione territoriale; le terre furono assegnate soprattutto a contadini slavi del Sud che trovarono qui un rifugio e una nuova casa, impegnandosi in cambio a difendere e proteggere la loro nuova terra; diventavano in tal modo uomini del confine.34 32 33 34 Fodor, In Quest of the Golden Apple, pp. 278-279, dove si nota anche l’ambiguità della terminologia ottomana relativamente all’uso delle parole gönüllü (volontario, coraggioso), garib yiğit (strano, curioso, straniero, senza casa, povero), gönüllü garib yiğit e semplicemente yiğit (giovane, eroe, coraggioso) e ai gruppi di guerrieri cui tali termini facevano riferimento. Power, Introduction, pp. 6-9. Pálffy, The Origins, pp. 3-5, 60-63; Lazanin - Štefanec, Habsburg Military Conscription, pp. 91-94. Secondo Dieter Werkmüller, Recinzioni, p. 650, il termine tedesco grenze, come il russo graníza, deriva dal termine usato nello slavo antico usato per indicare la quercia e che allo stesso modo la parola marka era usata nel medioevo per indicare un bosco; altrove 15 Dalla parte opposta del Militärgrenze correva il territorio ottomano, anch’esso costellato di fortezze poste a difesa di un impero. Nei primi anni del Seicento il numero delle piazzaforti ottomane raggiunse quello delle fortezze asburgiche, e tale rimase fin quasi alla fine del secolo. Come ha notato Rhoads Murphey si trattava di una zona fortemente militarizzata, il che dimostrava la sua importanza geo-politica per i governanti ottomani; in confronto il confine ottomano-safavide, che correva però per circa il doppio, era molto meno difeso e più esposto.35 La pace di Karlowitz, proprio perché sancì per la prima volta la creazione di una linea di confine tra gli ottomani e gli Asburgo, è stata considerata a lungo dalla storiografia come momento in cui la Porta accolse finalmente una concezione lineare ed europea di limite statale. Anche se ciò ormai non appare più come incontrovertibile, tuttavia è importante notare come fu proprio tra Sei e Settecento che il diffondersi del concetto di confine lineare contribuì a una maggiore certezza dei rapporti politici, giuridici, fiscali, a un più diffuso controllo ideologico, religioso e sanitario, e a una semplificazione della difesa militare, non solo in Europa ma anche nei confronti dell’Impero dei sultani. A metà Seicento la pace di Westfalia segnò la fine di due universalismi, quello cattolico e quello imperiale: per gli stati europei divenne allora impossibile risolvere le controversie esistenti tra loro facendo appello a una autorità superiore; la politica dell’equilibrio rappresentò la formula necessaria e vincente per impedire a una grande potenza di acquisire l’egemonia assoluta. Nello stesso tempo l’Impero Ottomano, che usciva da quel lungo periodo di crisi che va sotto il nome di “sultanato delle donne”, pur ritrovando in parte la propria forza, non riuscì tuttavia a sostenere vittoriosamente uno scontro che non era più contro fragili alleanze presto sciolte o contro un unico avversario cristiano, bensì contro un’alleanza solida e compatta di stati ormai completamente sovrani. Per questo sia nelle capitali europee che a Istanbul l’arte della diplomazia e del negoziato assunse un ruolo sempre più rilevante, assieme a quella della delimitazione dei confini, che ne è uno degli elementi di maggior rilievo.36 35 36 (Zanini, Significati del confine, p. 10) si afferma che nasce dall’uso di segnare il confine con una croce, in slavo gran’, incidendola sugli alberi. Sulle parole croate e serbe kotar, meda, krajina, cfr. Roksandic, Stojan Jankovic, pp. 240-241; Roksandic, Ottomans, pp. 415-425. Murphey, Ottoman Warfare, p. XVIII; Ágoston, The Ottoman-Habsburg Frontier, pp. 287296. Carassi, Topografi e diplomatici, pp. 192-194. 16 II LA FRONTIERA 1. La frontiera: simbolo e mito La frontiera è dunque una zona considerata da un unico punto di vista, una cintura di territorio volta verso il nemico, che può espandersi o arretrare, e dove tuttavia leggi e religioni diverse possono più facilmente trovare modo di convivere; una terra di scontri guerreschi e di eroismi, ma anche di pragmatismo e di convivenza. Nella storia dei rapporti tra cristianità e islam questa realtà frontaliera è stata forse più importante di quanto comunemente si pensi: tra turchi ed europei non vi furono solo la battaglia di Lepanto e i due assedi di Vienna, ma anche lunghi anni di una pacifica o armata convivenza, sulla terra e sul mare, dai Balcani al Mediterraneo, dal Mar Nero all’Oceano Indiano. Si può dire che è più facile ricordare gli scontri vinti o perduti, l’odio che fu provato per il nemico, che non il silenzio della tregua. Le carte pubbliche accumulate negli archivi contribuiscono a questa visione parziale: queste di solito si formano quando ci si scontra, non quando regna la pace. Accanto alla frontiera terrestre ne esistette anche una marittima. Si può anzi affermare che il concetto di frontiera si adatta meglio alle acque del mare che non alla terra: infatti sull’elemento liquido è impossibile porre cippi o mete per distinguere quello che appartiene all’uno o all’altro stato; tutto si mescola e confonde; le armate avanzano e arretrano in continuazione senza trovare qui un rifugio sicuro. Di solito si pensa che un confine possa essere una spiaggia o una costa rocciosa. Gli stessi porti, come Alessandria, ma anche Damietta o Ascalona, erano chiamati nei tempi più antichi dell’islam con l’appellativo di taġr, e quindi più legati al concetto di frontiera che non a quello di confine. Infine la gente stessa del mare, cioè quanti lo conoscevano e lo solcavano, era forse più vicina a una società che viveva in una zona di continua guerra, o tregua armata, che non di pacifica convivenza. Ripercorrendo la storia del Vicino Oriente si può tracciare un parallelo tra il mare e altri due elementi consimili: la steppa e il deserto. In tutti era difficile segnare dei limiti. Di solito il cibo e l’acqua dovevano essere portati da lontano da chi vi si avventurava; si sopravviveva solo se si era in gruppo, come le tribù turche e mongole che avanzavano verso occidente, come le carovane che attraversavano i deserti, come le navi e i convogli di navi (le veneziane mude) che solcavano il Mediterraneo. La razzia, il combattimento, l’assalto al nemico o al più debole era caratteristica della gente che abitava questi spazi dove la natura appare comunque ostile e solo il cielo, di notte con le stelle e di giorno con il sole, sembra 17 possa dare indicazioni per la via. Deserto e mare potevano dunque apparire come due realtà consimili: non a caso in arabo per indicare la distanza percorsa in un giorno da una nave si usa il termine mağrā, designante lo spazio giornaliero percorso da un cammello; così per navigare si usa il verbo rakiba, cavalcare. Anche nell’immaginario occidentale il deserto e il mare, assieme alla foresta, vennero considerati a lungo come luoghi di prove ed iniziazioni, di raccoglimento e peregrinazioni, di allucinazioni e insidie demoniache. Come ha dimostrato Jacques Le Goff in un suo ormai classico saggio si trattava di realtà geografiche ma anche simboliche, luoghi dove i credenti potevano trovare la via verso il Paradiso. La Vita di Antonio, scritta dal vescovo di Alessandria Atanasio (c. 360) è incentrata sul deserto; poco dopo san Girolamo si trasferì nel deserto della Calcide in Siria, poco discosto da Antiochia, e molti altri furono gli eremiti orientali che vissero in tali zone estreme. Monaci celtici e nordici scelsero invece di peregrinare di isola in isola; il loro deserto fu il mare, un mare freddo come quello descritto nella Navigatio sancti Brentani, un mare costellato di isole come il deserto lo è di oasi.37 Se il mare, così come il deserto, potevano apparire nel Medioevo occidentale luoghi estremi, dove l’eremita poteva più facilmente avvicinarsi a Dio, nel Vicino Oriente del IX secolo un altro personaggio-tipo, il letterato guerriero, trovava nel soggiornare nella zona frontaliera una pratica devozionale d’élite. Come ha indicato Houari Touati, fu in questo periodo che si diffuse l’idea che anche solo vivere o visitare una frontiera rivolta verso un nemico infedele rappresentasse un gesto di per sé meritorio. Si trattava di un concetto nuovo, nato nel corso del secolo precedente in seno ai tradizionalisti, e che quindi non aveva avuto l’avallo dei primi musulmani. Secondo questo autore l’anteriorità cronologica nell’uso del termine ġazw (razzia), rispetto a ğihād, per indicare il combattimento sulla frontiera, è uno degli elementi che permettono di affermare che questa ideologia, diversamente da quanto affermato da molti, fu un fatto tardivo. Il mito della frontiera, e le pratiche a esso legate, trovavano dunque un parallelo concettuale nel pellegrinaggio, e in particolare, nell’ambito di tale pratica, nell’avvicinarsi alla Mecca come atto meritorio simboleggiante l’avvicinarsi a Dio. Caratteristica però del viaggio ai limiti della dār alislām fu che esso venne intrapreso anche dai dotti e dagli studiosi durante le loro peregrinazioni, attuate sia per incontrare nuovi maestri, e quindi le fonti del sapere, sia per legittimare in tal modo le conoscenze acquisite. Soggiornare in tali zone estreme, anche per breve periodo e pure senza combattere con le armi in pugno gli infedeli, aveva un valore di iniziazione e di conferma della nuova dimensione assunta dallo studioso rispetto alla gente comune; egli entrava dunque tra coloro che avevano dimostrato di essere i veri martiri, e dunque testimoni, dell’islam. Così come succedeva per i massimi centri della religione 37 Le Goff, Il meraviglioso e il quotidiano, pp. 27-44; Gast, Un espace, pp. 165-172. 18 musulmana, dalla Mecca a Medina a Gerusalemme, anche il margine assunse dunque in tale società un potere di santificazione; venne considerato fonte di energia spirituale e chi vi si accostava ne riceveva forza e legittimazione.38 Tale ideologia venne poi ripresa anche nel più affermato tra i miti delle origini della dinastia ottomana: Osman e suo figlio Orhan, come combattenti gazi, avrebbero dunque trovato proprio nella lotta contro gli infedeli bizantini, un elemento di legittimazione e di autorevolezza. Sin dal suo sorgere come disciplina indipendente, più di un secolo fa, la storiografia riguardante l’Impero Ottomano dovette dunque confrontarsi con il concetto di frontiera che divenne importante al punto che Heywood affermò che in questo campo occorre adottare più un punto di vista storiografico che non storico.39 A quanti sostennero l’importanza dell’elemento bizantino islamizzato nella prima amministrazione,40 si contrapposero quelli che, infiammati dal nazionalismo dell’era kemalista, lessero nelle stesse fonti solo le tracce di un’eredità culturale e politica antico-turca.41 Wittek,42 pur riconoscendo che questi due mondi e civiltà diverse non si scontrarono sempre frontalmente ma anche si incontrarono, propose quella che poi è stata chiamata “ideologia della guerra santa”: la compagine statale creata da Osman e dai suoi primi successori venne considerata allora solo uno stato combattente sulla via di Allah e in ogni aspetto della vita di quel periodo venne ricercato unicamente l’influsso di tale ideologia. All’inizio solo poche voci, come quelle di Köprülü e di Friederik Giese43 si levarono contro tale tesi che divenne ben presto indiscutibilmente accettata dagli storici per moltissimi anni. Solo verso gli anni ’80 cominciò a crearsi un gruppo sostenuto di oppositori: per primo Gyula Káldy-Nagy, seguìto da Heywood, contrastò la tesi di Wittek da un punto di vista storico e metodologico, da Rudi Paul Lindner che vide nei primi guerrieri più dei combattenti in nome dello sciamanesimo che non dell’islam, da Imber, che invitò a riconsiderare l’attendibilità delle fonti turche, e poi anche da altri come Ronald C. Jenning, Aldo Gallotta e soprattutto Kafadar, che portarono avanti criticamente questo lavoro sottoponendo così a una severa critica la tesi wittekiana.44 38 39 40 41 42 43 44 Touati, Islam et voyage, pp. 9-18, 96-121, 237-249. Heywood, The Frontier, p. 228; cfr. anche del medesimo autore, Wittek and the Austrian Tradition, pp. 7-25 e Boundless Dreams, pp. 32-50. Cfr. l’opera del 1916 di Gibbon, The Foundation of the Ottoman State. Cfr. l’opera di Mehmet Fuat Köprülü. Tra i molti lavori di questo storico, cfr. in italiano: Alcune informazioni, passim. Wittek, The Rise of the Ottoman Empire; dello stesso autore cfr. Deux chapitres de l’histoire de Turcs de Roum, passim. Su Giese cfr. quanto dice Heywood, Boundless Dreams, pp. 46-48. Káldy-Nagy, The Holy War, pp. 467-473; Lindner, Nomads and Ottomans; Imber, Paul Wittek, pp. 65-81; del medesimo autore, cfr. The Ottoman Dynastic Myth, pp. 7-27; The 19 In questi ultimi tempi il problema dei legami o della indipendenza dei primi ottomani dalla ‘guerra santa’, invece di esaurirsi, ha dato luogo a ulteriori studi e approfondimenti, forse non disgiunti dall’interesse per tutto ciò che è islamico determinato dalle vicende contemporanee.45 Gli ottomani trovarono nell’epopea della frontiera contro i bizantini ampio materiale per i racconti relativi alle loro origini: la prima data certa della loro storia è proprio quella di una battaglia vinta contro il basileus, quella di Bafeo (27 luglio 1302). Cominciarono inserendosi in uno spazio ristretto della frontiera già esistente tra cristianità e islam, ma ben presto ampliarono il loro raggio d’azione e nei secoli seguenti la parola ‘turco’ venne usata come sinonimo di musulmano. Dal Tre al Seicento il loro impero continuò ad espandersi anche se non si trattò più di un unico fronte, bensì di molti, a oriente e a occidente, a meridione e a settentrione e i loro oppositori non furono più solamente cristiani o europei, bensì anche persiani sciiti, oppure berberi viventi nelle regioni interne del Maghreb. 2. Gli accordi di pace e la frontiera Se si prendono in considerazione gli ahdname ottomani emessi per stati europei ci si accorge che, da un punto di vista diplomatico, questo tipo di documento si può suddividere in due categorie, anche se poi gli effetti che questi determinarono furono spesso simili. Alcuni, i più antichi, appaiono come un’evoluzione dell’armistizio (hudna), mentre altri presentano le caratteristiche del salvacondotto generale (amān ‘āmm) concesso da un capo musulmano a un intero gruppo di persone. I primi presupponevano non solo il giuramento da parte di chi li emetteva, ma anche un documento simile emesso dal sovrano dell’altro stato, che a sua volta doveva giurare di rispettare l’accordo: si trattava cioè di instrumenta reciproca. I secondi invece erano decreti unilaterali emessi dal sultano sotto forma di nişan o berat (patente), e non necessitavano di nessuna ratifica della controparte. Nel corso del Cinque-Seicento quest’ultimo tipo cominciò a prevalere e anche gli instrumenta reciproca cominciarono ad assumere qualche caratteristica formale delle patenti. La diplomatica occidentale, in genere, non notò la sottile differenza esistente tra i due tipi di documento, tanto che entrambi passarono poi sotto il nome di capitolazioni, anche se quelle ottocentesche, imposte dagli stati europei e definitivamente abolite solo negli anni ’20 del Novecento, avevano la loro origine nei berat ottomani e non negli armistizi.46 45 46 legend, pp. 67-75; Jennings, Some Thoughts, pp. 151-161; Gallotta, Mito Oguzo, pp. 41-59; Kafadar, Between two Worlds, pp. 1-59. Cfr. quanto dice a questo proposito Linda T. Darling, Contested Territory, pp. 133-163. İnalcık, Imtiyāzāt, pp. 1208-1219; Wansbrough, Imtiyāzāt, pp. 1207-1208; Pedani, La dimora, pp. 32-35;Papp, Der ungarisch-türkische Friedensvertrag, pp. 67-78; Papp, Christian Vassals, pp. 719-730. 20 Se si prendono, però, in considerazione gli stati con cui venne stipulato l’uno o l’altro tipo di documento si possono fare alcune considerazioni. Innanzi tutto i documenti rientranti nella categoria dell’hudna furono emessi per stati come l’Impero, Venezia o la Polonia, mentre quelli classificabili come berat vennero consegnati, a cominciare dalla fine del Cinquecento, ai rappresentanti di Francia, Inghilterra e Olanda. Da una parte dunque troviamo entità statali con cui non solo la Porta aveva combattuto delle guerre, ma che anche erano con essa territorialmente limitrofe; dall’altra invece si trattava di paesi molto lontani da un punto di vista geografico, con cui l’Impero Ottomano era entrato in contatto soprattutto grazie alle loro attività commerciali e marittime. In particolare tre capitolazioni meritano un’analisi più approfondita in quanto sembrano contraddire quanto sopra esposto. Il primo documento venne concesso da Selim I alla Repubblica di Venezia nel 1517, subito dopo la conquista dell’Egitto mamelucco, uno stato che da secoli aveva fornito documenti di protezione ai mercanti veneziani che si recavano a commerciare in quelle terre: è un ahdname che rientra però nella categoria del salvacondotto generale, tipo di documento mai concesso prima dagli ottomani ai sudditi di San Marco. Se si parte però dal presupposto che Selim abbia voluto atteggiarsi a erede, oltre che a conquistatore, dell’Egitto e che per i sovrani egiziani ayyubidi e mamelucchi era valido quanto è stato detto per gli ottomani, cioè che essi concessero hudna ai sovrani degli stati d’oltremare a loro limitrofi e amān ‘āmm ai commercianti delle città italiane, allora anche le caretteristiche diplomatiche dell’ahdname del 1517 appaiono facilmente comprensibili. Maggiori problemi può presentare la comprensione di un secondo documento. Si tratta delle capitolazioni concesse alla Francia nel 1536, che sarebbero, in base alle copie esistenti, un vero e proprio trattato stipulato tra due stati che si ponevano sullo stesso piano. In questo caso si può notare come l’originale di quell’atto non si trovi oggi e non si trovasse neppure nel 1569, quando venne concesso un nuovo documento al re Carlo IX, questa volta sotto forma di berat, ma modellato sulle causole usualmente concesse ai veneziani. Gli storici hanno sostenuto a lungo la validità di queste capitolazioni, tanto che la storia del diritto internazionale, dimentica di altri accordi più antichi anche di oltre un secolo, le ha spesso considerate come le prime capitolazioni concesse a uno stato europeo dalla Porta. In realtà la storiografia più recente preferisce credere si sia trattato solo di una bozza, realizzata per volontà del gran visir İbrahim pascià, che di lì a poco sarebbe stato giustiziato, probabilmente perché divenuto ormai troppo potente e insofferente dell’autorità sovrana. A ordinarne l’esecuzione fu Kanûnî Süleyman, il sovrano che più di ogni altro lasciò traccia di lungimiranza, sicurezza e forza nella storia dell’Impero: ben difficilmente tale sovrano si sarebbe abbassato a sottoscrivere un documento dove, lui che aveva 21 sconfitto gli imperiali a Mohacs, compariva sullo stesso piano di Francesco I, il “re della provincia di Francia”, che da quelle stesse armate era stato sconfitto a Pavia.47 Per quanto riguarda infine il terzo documento, cioè l’accordo con la Spagna del 1581, è stato notato come esso si presenti sotto la forma di temessük (ricevuta), confermante quanto stabilito tra il secondo visir Siyavuş pascià e l’ambasciatore spagnolo Giovanni Marigliani, cioè il mantenimento della pace tra i due paesi, sulla terra e sul mare, per tre anni. Come ha però dimostrato per il periodo seguente Dariusz Kolodziejczyk, la prassi ottomana poteva prevedere anche uno scambio di ricevute provvisorie tra rappresentanti ufficiali di due stati che andavano poi confermate con l’emissione di un ahdname. In tale osservazione vi sarebbe dunque anche la spiegazione delle particolarità diplomatiche del documento ottomano-francese del 1536. La rilevanza dei temessük nella stipulazione degli accordi internazionali non ha avuto fino ad ora l’interesse che merita; invece è importante per capire lo sviluppo delle paci tra l’Europa e l’Impero Ottomano e per collocare conosciuti documenti internazionali come “il trattato di Sitva-Torok” o “il trattato di Karlowitz” nella loro reale dimensione; in quei momenti non si trattò infatti di un rinnovo della prassi diplomatica, come è stato spesso detto, ma solo di un’applicazione di quanto già utilizzato in altre occasioni. I temessük, documenti estremamente flessibili e, se usati nei rapporti con gli stati europei, facilmente influenzati dalla terminologia e dalla diplomatica occidentale, ebbero anche un certo ruolo in occasione delle delimitazioni dei confini, come si vedrà più avanti. A questo punto si può tornare all’affermazione iniziale. La vicinanza o la lontananza con le frontiere musulmane, e ottomane in particolare, fu dunque un elemento discriminante per il tipo di accordo concesso dal sultano alla controparte cristiana. Con gli abitanti di zone limitrofe era necessario ricorrere a un documento che rimandasse al concetto di armistizio, mentre a coloro che vivevano in paesi lontani si poteva concedere una patente o un salvacondotto generale che servisse a proteggere le loro persone e i loro beni. 3. La società della frontiera Prima di prendere in considerazione la frontiera ottomana è bene forse ripercorrere ancora una volta quelli che sono di solito gli stereotipi di una società di frontiera. Si tratta di solito 47 Skilliter, William Harborne, p. 1; Pedani, In nome del Gran Signore, pp. 131-133; Kolodziejczyk, Ottoman-Polish Diplomatic Relations, pp. 47-49. Cfr. anche Matuz, Capitulations, pp.182-192, che però a sostegno della sua tesi utilizza due documenti, il primo, che fa riferimento alle capitolazioni veneziane e non a quelle francesi, e il secondo, che è posteriore alle capitolazioni del 1569 come si legge chiaramente nel testo fac-simile pubblicato. Più intrigante è allora, a questo proposito, un documento del 1541 (Documenti turchi, n. 455; edito da Gökbilgin, Venedik, I, p. 153, n. 26) dove si parla di una conferma dell’accordo di amicizia con il re di Francia. 22 di un ambiente maschile, dove le donne sono poche e i bambini inesistenti; il genere di vita è violento; in nome della religione (o del profitto, o della necessità di appropriarsi dello spazio altrui) si uccide e si commettono atti atroci. Ne fanno parte però anche personaggi eroici, selvaggiamente romantici, che per una spinta ideale combattono contro il nemico, sia questo unicamente la natura ostile oppure un popolo diverso per religione, cultura e provenienza. La società e gli uomini sono comunque barbari, soprattutto se contrapposti alla vita che si svolge nelle località più lontane e centrali dello stato; l’altro, il diverso, non ha bisogno di comprensione e non deve essere capito, deve essere solo annientato politicamente e, se possibile, anche fisicamente. Idee come queste si possono ritrovare non solo nella produzione storiografica, ma possono essere presenti anche in cronache o opere letterarie contemporanee o di poco posteriori agli eventi narrati, se l’autore scriveva soprattutto per sostenere una determinata ideologia, o per creare un mito delle origini che doveva poi essere utilizzato politicamente. Bisogna dunque porre forse ancora più attenzione di quanto si è soliti fare alle fonti, soprattutto se si tratta di elaborazioni scritte per un pubblico di lettori, e non di documenti prodotti per ragioni pratiche o amministrative. Nel caso dei primi ottomani bisogna accontentarsi delle poche testimonianze che sono a nostra disposizione, per lo più appunto cronache, e cercare quindi di comprenderle nella loro vera dimensione, spogliandole dell’ideologia per individuarne solo gli elementi reali. Il revisionismo relativo alla tesi wittekiana ha portato anche, come detto, a una riconsiderazione da questo punto di vista delle antiche cronache, da quella di ‘Aşıkpaşazâde a quelle cosiddette anonime, a quella di Uruc, a una ricostruzione dell’ideologia politica dell’ambiente che le produsse e a un ripensare alle loro fonti, cioè ai takvim (annali), ai menakıb-name (racconti semi-leggendari) e ai gazavat-name (imprese di eroi, soprattutto in zone di frontiera) oggi scomparsi.48 Se per il primo periodo della storia ottomana esistono però quasi esclusivamente testi letterari posteriori, per quello successivo, dalla presa di Costantinopoli in poi, cominciano a farsi sempre più numerosi i documenti, che consentono di osservare da nuove angolature le vicende degli uomini. È quindi più facile rilevare che non esistettero solo entità contrapposte, bensì anche contatti e incontri, e che il bene e il giusto non erano appannaggio di un’unica parte ma tutto si confondeva e si intersecava. Esempio illuminante di questa società di frontiera può essere la cosiddetta “fratellanza di sangue” (pobratimstvo) creata con un vero e proprio rito, testimoniata in area balcanica almeno dal Seicento. Usi come questo rafforzano l’idea di una società dove l’ideale del 48 Cfr. Woodhead, Ta’rīkh, p. 313; Taeschner, ‘Ashıḳ-pasha-zāde, p. 699; Ménage, Ottoman Historiography, pp. 168-179; İnalcık, Ottoman Historiography, pp. 152-167. Per una indagine storiografica condotta in questo modo, cfr. Yerasimos, La fondation de Constantinople, pp. 14, 247-249, che si basa essenzialmente sulle leggende turche create dopo la conquista della città nel 1453 per motivi ideologici. 23 ğihād lasciava ormai spazio a modi di vivere diversi. Ne parla con stupore anche il grande viaggiatore Evliya çelebi, che al 1660 fu testimone di un episodio del genere. Egli racconta la storia di un gazi che partecipò a una scaramuccia con le truppe della vicina Repubblica di Venezia e fu scoperto a nascondere un cristiano. Quando arrivò il momento di uccidere i prigionieri che erano stati catturati il guerriero ottomano si prostrò ai piedi del pascià chiedendogli pietà per il suo nemico: «Pietà, gran visir! Io ho giurato fratellanza di sangue con questo prigioniero sul campo di battaglia; ci siamo scambiati la nostra fede. Se tu lo uccidi, andrà in paradiso con la mia fede e sarà un’ingiuria per me, disgraziato che sono; e se io muoio la fede di questo prigioniero con cui ho giurato fratellanza di sangue resterà con me ed entrambi andremo all’inferno, così che di nuovo io sono il perdente». Fu allora spiegato al pascià che un cristiano e un musulmano, con la cerimonia della fratellanza di sangue sigillata dalla formula «la tua fede è mia, la mia fede è tua», si impegnavano ciascuno a salvare l’altro nel caso fosse stato fatto prigioniero, perché altrimenti l’inferno promesso dalla loro religione li avrebbe attesi. Pur stupito il pascià decise allora di liberare entrambi. Come chiarisce Wendy Bracewell, il pobratimstvo fu una forma di falsa parentela diffusa tra gli slavi del sud e ancora conosciuta e praticata nel Novecento; fu un modo per creare nuovi legami e obbligazioni familiari. Spesso era praticata tra persone appartenenti a gruppi simili, per esempio tra due ortodossi, oppure due cattolici, o ancora due donne o due uomini; in quest’ultimo caso, ma raramente, sottintese anche un rapporto omosessuale. Nel caso di cattolici poteva anche essere officiata davanti a un sacerdote e resa più solenne con una messa, tanto che nel 1579 la sinodo arcivescovile di Zara e Spalato ritenne necessario proibire simili riti. Le canzoni epiche delle zone di frontiera tra slavi, veneti, imperiali e turchi raccontano spesso di esempi di fratellanza di sangue e degli episodi di eroismo a questa connessi. Il pobratimstvo appare dunque come un importante elemento di coesistenza nei Balcani e testimonia come quel mondo non vivesse solo divisioni tra fedi, culture e imperi diversi, ma sapesse trovare anche elementi di unione e interessi comuni. Se da una parte dunque la religione e la politica erano elementi di divisione per tale società, d’altro canto il condividere valori comuni come l’eroismo, l’onore o la virilità, servì ad avvicinare tra loro le popolazioni che vivevano sulla frontiera balcanica.49 Con questo esempio non si vuole comunque trasformare la società della frontiera in un ambiente idilliaco; disordine, anarchia e brigantaggio segnarono tale zona, assieme a saccheggi, carestie e pestilenze mentre la gente trovava difficoltà a sfamarsi e ricorreva quindi a ogni mezzo per sopravvivere, come afferma, tra tanti altri, Vesna Miovic-Peric quando descrive i numerosi truci episodi che ebbero luogo ai limiti dello stato di Ragusa durante la guerra di Morea (1684-1699).50 49 50 Bracewell, Frontier Blood-Brotherwood, pp. 29-45; cfr. anche İnalcık, Foundation, pp. 59-62. Miovic-Peric, Brigandage on the Ragusan Frontier, pp. 41-54. 24 4. Il mare come frontiera Nel 1377 il grande storico tunisino ibn Haldūn, scriveva nella Muqaddima che al tempo dei bizantini, franchi e goti i musulmani controllavano la gran parte del Mediterraneo e neppure una tavola cristiana vi poteva galleggiare.51 Tale affermazione venne ripresa nel Novecento dallo storico belga Henri Pirenne, che scrisse anche: «Con l’islam un nuovo mondo entra nel bacino del Mediterraneo, dove Roma aveva diffuso il sincretismo della sua civiltà. Ha inizio una lacerazione che durerà secoli, che durerà fino ai nostri giorni. Sulle rive del Mare nostrum si stendono ormai due civiltà differenti ed ostili; e se ai nostri giorni quella europea ha sottomesso quella asiatica, tuttavia non l’ha potuta assimilare. Il mare, che era stato fino allora il centro della cristianità, ne diviene la frontiera. L’unità mediterranea è rotta».52 La tanto discussa tesi di questo storico si concentrava sull’idea che le invasioni barbariche non avessero spezzato l’unità mediterranea, definitivamente rotta invece proprio dall’avvento di una fede e una cultura diverse, l’islam; a partire da quel momento si sarebbero interrotti completamente anche gli scambi commerciali e come conseguenza si sarebbe avuta una depressione economica in Occidente, mentre nei secoli IX-X i musulmani sarebbero riusciti, come detto da ibn Haldūn, a divenire padroni assoluti del Mediterraneo. Varie considerazioni spinsero molti storici a rigettare tale teoria: Dopsch, Lopez, Ehrenkreutz, solo per citarne alcuni, sostennero che la depressione del periodo carolingio aveva avuto molteplici cause, che cristianità e islam non furono mai due mondi così rigidamente contrapposti, che gli scambi commerciali non si erano interrotti così drasticamente anche se, come sostenne Elihau Ashtor cercando di mediare, nei secoli VII-IX vi fu in effetti una grave crisi del commercio marittimo. Ovidio Capitani, nella sua introduzione a una recente riedizione della famosa opera di Pirenne, sostiene che ormai il dibattito storiografico si è concluso senza né vinti né vincitori, anche se tale libro mantiene un suo valore di stimolo: l’utilizzo di disclipline affini alla storia, come per esempio l’archeologia, hanno permesso di rilevare il ruolo decisivo avuto nel commercio mediterraneo dall’elemento arabo e islamico, la cui diffusione fu più il prodotto che non la causa della crisi economica occidentale.53 Senza dunque voler entrare ancora una volta in questo specifico dibattito, si possono comunque utilizzare le parole di Pirenne come stimolo per approfondire il problema rappresentato dal tormentato rapporto che esistette tra i musulmani e il mare, un tema che è stato al centro in questi ultimi anni dell’attenzione di valenti storici, da Bono a Bonaffini, da Picard a Khalilieh e a de Planhol, solo per citarne alcuni.54 Il mare rappresentò dunque 51 52 53 54 Ibn Khaldûn, Muqaddimah, II, p. 41-42. Pirenne, Maometto e Carlomagno, pp. 142-143. Pirenne, Maometto e Carlomagno, pp. V-XXXIV. Cfr. per esempio, tra i volumi più recenti: Bonaffini, Un mare di paura; Bono, Il Mediterraneo; Khalilieh, Islamic Maritime Law; Picard, La mer et les musulmans; Picard, 25 per la nuova civiltà che si affacciava sulle sponde del Mediterraneo una nuova frontiera su cui avanzare, ma al tempo stesso fu vista da molti anche come un’entità per sua natura ostile. Un racconto dei primissimi tempi dell’islam dice che il califfo ‘Utmān (644-656) consentì a Mu‘āwiya di dirigersi verso Cipro solo se la spedizione fosse stata completamente sicura e se egli si fosse fatto accompagnare dalla moglie per dimostrarlo; Mu‘āwiya allora si imbarcò non solo con sua moglie ma anche con la sorella, organizzando così la prima spedizione marittima musulmana.55 Dalle sabbie del deserto e dai cammelli gli arabi passarono dunque con estrema rapidità alle onde e alle navi: nel 636 vi furono tre spedizioni contro l’India, nel 645 Alessandria divenne musulmana, nel 648-649 vi fu la spedizione contro Cipro. I nuovi conquistatori si trovarono quindi, da subito, di fronte a due distese marine, e la loro posizione sarebbe poi stata ereditata dagli ottomani. Da una parte stava il Mediterraneo dove le razzie si alternarono con le guerre, i pirati e i corsari con i guerrieri e le armate di stati sovrani; dall’altra vi era invece l’Oceano Indiano, e in particolare il Golfo Persico, le cui acque videro soprattutto un’intensa attività commerciale, continuamente ostacolata da una pirateria che durò, endemica, per più di mille anni. Qui gli episodi di vera e propria guerra furono meno numerosi che nel Mediterraneo. Per esempio, agli inizi dell’espansione europea in quei mari, gli stessi portoghesi, data la loro superiorità tecnica, ebbero ben presto ragione delle navi da guerra inviate loro incontro dai mamelucchi. Fu solo con l’intervento britannico, con la conquista di Aden nel 1839, e poi con gli accordi del 1853, che la “costa dei pirati”, come era chiamata dal XVIII secolo la zona meridionale da Rams a Dubai, divenne finalmente la “costa della tregua” (ṣulḥ).56 Fernand Braudel, nella sua ormai classica opera sui tempi di Filippo II, considera la pirateria come una forma suppletiva della grande guerra sul mare.57 Osservando il Mediterraneo del Cinquecento egli nota come, dopo il 1574, quando ebbero termine i grandi conflitti fatti di flotte, di corpi di spedizione e di grandi assedi, questa attività intervenne come sostituto di ben più ampi conflitti. Tale fu probabilmente anche a tratti nei secoli precedenti. Nello sviluppo storico della marineria musulmana vi fu una continua alternanza tra momenti in cui agirono flotte statali e momenti in cui operarono soprattutto navi di pirati. Un rapido excursus attraverso i secoli,58 per quanto impreciso e superficiale 55 56 57 58 L’océan Atlantique; de Planhol, L’Islam et la mer. Sull’Oceano Indiano cfr. anche Özbaran, The Ottoman Response. de Planhol, L’Islam et la mer, p. 25. Kelly, Ḳurṣān, p. 511. Braudel, Civiltà e imperi, pp. 919-920. Si può notare che sotto gli omayyadi si ebbero alcuni scontri in cui venne utilizzata la flotta: nel 716 per esempio Maslama, zio del califfo, impiegò nell’assedio di Bisanzio sia la flotta che l’esercito di terra, ma venne respinto da Leone III Isaurico e dal “fuoco greco” e con questo scontro ebbe termine il primo conflitto mediterraneo tra musulmani e bizantini. Con 26 possa presentarsi, dimostra come siano esistite sia dinastie o sovrani interessati alle operazioni marittime, sia entità statali completamente impegnate nella pirateria. Comunque la maggior parte delle dinastie e dei regni musulmani guardarono alle attività marittime con superiorità e disprezzo, considerandole indegne di veri guerrieri, anche se la frontiera rappresentata dal mare non era poi molto dissimile da quella terrestre, per il genere di vita che permetteva, la società che ospitava, gli scontri che vi ebbero luogo. Naturalmente la frontiera marittima musulmana ebbe a subire il contraccolpo di simili atteggiamenti; quando i sovrani si impegnavano nel miglioramento della flotta, oppure sostenevano le scorrerie dei pirati, essa di solito avanzava; quando invece se ne disinteressavano essa tendeva ad arretrare. 5. La gente del mare: corsari, pirati e altri Guerre e combattimenti tra cristiani e musulmani ebbero luogo non solo sul fronte terrestre ma anche su quello marittimo. L’ideologia del ğihād non si limitò dunque solo ai combattimenti a piedi o a cavallo; anzi essa venne più volte utilizzata con riferimento a l’Impero Abbaside però i califfi volsero le spalle al mare e l’espansione marittima venne portata avanti da formazioni minori, più organiche, con mezzi e scopi più limitati. Già alla fine dell’VIII secolo squadre provenienti da territori marginali del califfato si dedicavano alla razzia e al commercio. Si trattava infatti di un’attività che aveva, ed ebbe poi anche nei secoli seguenti, un’importante rilevanza economica; la gente delle coste viveva di solito non solo di pesca ma anche di pirateria; il desiderio di chi la praticava non era in genere quello di compiere grandi imprese militari o di impegnarsi in una guerra distruttiva, ma al contrario di catturare schiavi e bottino. La richiesta sempre più pressante da parte della corte di Cordova di schiavi, oppure situazioni caotiche createsi all’interno della Spagna musulmana potevano spingere gli uomini a trasformarsi in pirati. Le spedizioni piratesche dei vikinghi del 844-976 contro le coste spagnole determinarono una rivitalizzazione dei porti e dell’organizzazione militare degli omayyadi di al-Andalus.Anche la dinastia degli Aġlabiti (800-909) si distinse per una intensa attività navale che culminò con la conquista della Sicilia, ai tempi in cui anche Napoli, Gaeta e Amalfi correvano con le loro flotte il Mediterraneo; dalla loro attività di pirateria esercitata anche lungo le coste italiane, ottennero importanti introiti. Anche i Ṭūlūnidi che regnarono in Egitto dall’868 al 905, crearono un potente esercito e una buona flotta, seguiti quindi dai Fatimidi, che ereditarono la Sicilia (909) e conquistarono poi l’Egitto (969). A occuparsi delle esigenze della guerra anche marittima, questa volta per contrastare le armate crociate anche sul mare, fu Saladino che nel 1179 aveva una flotta di 80 navi, e nel 1183 sconfisse i franchi che erano penetrati nel Mar Rosso; con il 1189-91 però le vicende della terza crociata determinarono il crollo di questa marineria. Dopo gli Ayyubidi anche i Mamelucchi, saliti al potere alla metà del XIII secolo, non si curarono molto del mare: solo il grande Baybars sembrò rendersi conto dell’importanza che esso poteva avere, anche se ormai era solo la gente di poco conto ad intraprendere l’attività marinara. In seguito pure i bizantini, pressati da gravi problemi economici, smantellarono la loro flotta e quindi, fino all’arrivo degli ottomani, furono soprattutto genovesi, veneziani o catalani a correre i mari del Levante. 27 coloro che si opponevano ai cristiani sul mare sia nei tempi più antichi che in epoca moderna. L’atavica paura di un elemento ostile e sconosciuto per gente abituata alle sabbie del deserto come gli arabi, trovò giustificazione in una serie di tradizioni che, per quanto genericamente favorevoli alle spedizioni navali, al veleggiare verso la Mecca per compiere il pellegrinaggio, a utilizzare le risorse del mare e a espandere il commercio marittimo, tuttavia si occupavano soprattutto di incoraggiare chi decideva di combattere contro gli infedeli sul mare, promettendo doppia ricompensa a quei martiri rispetto a coloro che morivano combattendo sulla terraferma.59 A tale corpus si rivolsero dunque i musulmani che avevano fatto del mare il loro campo di battaglia. Marinari, pirati e corsari, erano gli abitanti di questa frontiera liquida, ma molto spesso tali categorie tendevano a confondersi anche se, da un punto di vista teorico, la distinzione tra corsari e pirati era chiara, almeno nel mondo europeo: i primi dovevano attaccare solo le navi nemiche del sovrano da cui avevano avuto la patente di corsa, mentre i secondi operavano al di fuori di ogni legge e di ogni legalità.60 Se si prendono in considerazione alcuni ahdname ottomani si scopre che, a questo proposito, il punto di vista musulmano era leggermente diverso: se da una parte stavano i pirati (harami levend), chiaramente individuati come combattenti che erano al di fuori di ogni legge, dall’altra i corsari (korsan, in turco) erano unicamente quelli che agivano in nome di un sovrano occidentale; invece ai barbareschi non era attribuito tale appellativo ma quello di levend61 del Maghreb, sottintendendo quindi che la loro lotta contro i navigli cristiani non rientrava in un’attività concessa da un sovrano, ma si trattava di un modo d’agire doveroso per ogni musulmano. La stessa distinzione tra levend e qorṣān (ar.) si ritrova anche in alcuni accordi di pace in arabo emessi nel Settecento dal sultano del Marocco.62 In arabo comunque si possono trovare, accanto a qorṣān, anche le parole liṣṣ al-baḥr (ladro del mare) per indicare il pirata, e ġāzī al-baḥr, per indicare il musulmano che combatte l’infedele. Anche se era chiara in teoria la distinzione tra pirata, corsaro, e anche levend, non poteva tuttavia nella pratica esistere una tale rigida classificazione: chi combatteva sul mare in nome di uno stato, alle volte anche come militare di professione, poteva facilmente agire come un fuorilegge, quando le circostanze si mostravano propizie. Così spesso i sovrani non esitarono ad assumere al proprio servizio anche pirati, pur di conseguire benefici militari non ottenibili in altro modo. A tale logica non sfuggirono gli ottomani, soprattutto tra Quattro e Cinquecento, quando la loro marineria ancora non era al livello di quelle di 59 60 61 62 Khalilieh, Islamic Maritime Law; pp. 160-176. Bono, Corsari nel Mediterraneo, pp. 9-15. Levend, militare irregolare ottomano, da cui deniz levendleri (levend del mare), cioè i levend per antonomasia. Sull’uso dei levend nella flotta ottomana, cfr. Bostan, Osmanlı bahriye teşkilâtı, pp. 241-244. Pedani Fabris, La dimora della pace, pp. 43-44. 28 alcuni stati europei. Così per esempio nel 1501, alla fine dello scontro con Venezia, e poi ancora nel 1515, alla vigilia della conquista dell’Egitto, i sultani Bayezid II e Selim I chiamarono a raccolta le fuste armate dei levend per combattere i legni cristiani. Se in un primo tempo la misura sembrò rivelarsi efficace, negli anni immediatamente successivi apparve chiaro che occorreva un forte controllo da parte della capitale per impedire che i comandanti (reis) si ponessero al di fuori di ogni legge e autorità. Così, dopo aver suscitato una tale forza dirompente, fu necessario combatterla; nel 1503 venne dunque catturato Kara Tumuş, uno tra i più famosi comandanti che già avevano operato nel conflitto venetoottomano; nel 1506 giannizzeri e silahdar, imbarcati su galee, ebbero ragione di vari pirati mentre dopo il 1517 fu necessario combattere il pirata Kurtoğlu, poi nuovamente impegnato a sostegno delle armate del sultano nel 1522.63 La lotta sul mare dei marinai musulmani contro i cristiani poteva dunque rientrare nel ğihād, almeno in teoria, e una volta terminata, nella seconda metà del Cinquecento, la grande stagione delle campagne di guerra annuali ottomane, l’ideale gazi, che non voleva essere completamente accantonato dai sultani nonostante le mutate condizioni politiche e militari, venne idealmente demandato ai corsari barbareschi, che almeno nominalmente si trovavano sotto l’alta sovranità del sultano, e che con le loro scorrerie continuavano la doverosa lotta contro gli infedeli. A tale ideologia si rifecero spesso sia la Porta che i maghrebini per sostenere posizioni anche opposte, in realtà basate esclusivamente su motivazioni economiche o politiche. La pace dunque poteva sussistere tra le armate di terra, mentre la guerra continuava sul mare, oppure viceversa. Un atteggiamento simile fu quello del sovrano del Marocco Sīdī Muḥammad (1757-1790) che usava attribuire uguale importanza a due fattori che a prima vista potevano apparire antitetici: l’invito al ğihād e l’apertura dei propri mercati all’Europa. Per esempio nel 1774, scrivendo a Carlo III di Spagna, propose una distinzione tra la guerra marittima e quella terrestre, e poco dopo dichiarò ai consoli stranieri che i suoi uomini, accampati davanti a Melilla, facevano la guerra durante il giorno, ma esercitavano il contrabbando durante la notte, mentre sul mare regnava la pace.64 6. La frontiera marittima: il caso della pirateria veneta Ripercorrere la storia della frontiera marittima tra la Repubblica di Venezia e la Porta significa, almeno in parte, scrivere ancora una volta una storia di guerre e battaglie. In particolare si può notare che i conflitti combattuti tra questi due stati furono undici, e che questi si caratterizzarono soprattutto per gli scontri navali, in quanto la forza della città lagunare stava proprio nella sua flotta e le sarebbe stato impossibile affrontare l’Impero dei 63 64 Vatin, L’ordre de Saint-Jean, pp. 126-129, 133-134. Caillé, Les accords, pp. 31, 65, 78-81. 29 sultani con le sole forze terrestri: la disparità sarebbe stata allora incolmabile. Oltre però ai periodi di ostilità dichiarate, quando evidentemente tutto il mare si trasformava in un teatro per possibili scontri, il Mediterraneo fu una zona di frontiera tra Venezia e la Porta anche durante molti periodi di pace. La mancanza di limiti generali, concordemente stabiliti, determinò una situazione di possibili avanzate, scontri, scaramucce tra imbarcazioni dell’una e dell’altra parte. Le navi rappresentavano, con le loro bandiere, piccoli brandelli di stato vaganti in una immensità acquea non appartenente ad alcuno. Vi erano flotte statali, magari impegnate in funzioni di polizia, imbarcazioni mercantili, barche, caicchi, fuste di pirati, navi di corsari, legni appartenenti ai barbareschi, sudditi del Gran Signore. In particolare parlando di frontiera marittima in tempo di pace occorre prendere in esame la corsa e la pirateria, e soprattutto il loro sviluppo storico. Un’analisi diacronica dimostra come queste attività non furono sempre uguali a sé stesse, se non negli esiti, ma i campi d’azione, le forze impiegate e il sostegno che ebbero dai vari stati coinvolti in questo conflitto endemico cambiarono nel tempo. Accanto alla grande guerra vi furono dunque spesso, da parte veneta come da parte ottomana, anche episodi di pirateria. Alle volte furono gli stessi militari veneziani che agirono come pirati, uniformandosi a quanto avveniva allora nel Mediterraneo, dove il confine tra pirati, corsari o ufficiali regolari era spesso scavalcato. Tale fu per esempio il tragico episodio della cattura da parte del governatore delle galee dei condannati Gabriele Emo dell’imbarcazione di Mehmed bey di Gerba nel 1584. Sistemare la faccenda, che aveva visto l’assassinio anche della madre e della moglie del giovane bey e di molte loro serve, costò alla Repubblica tra i 60 e i 70 mila ducati, pari a poco meno della metà di quanto le costava mantenere il sistema militare del Levante per un anno. Se Emo pagò con la vita il gesto suo e della sua ciurma, altri ufficiali veneti, che pure si comportarono in realtà da pirati, non subirono conseguenze, come per esempio il provveditore dell’armata Nicolò Pesaro che il 3 agosto 1499 si scontrò con la sua squadra di cinque galee con una nave turca e ne uccise tutto l’equipaggio; ma tale episodio venne a inserirsi in una situazione che andava sempre più degenerando; forse ne fu una causa, o forse un effetto, comunque pochi mesi dopo scoppiò la guerra. L’inizio e la fine delle ostilità, prima di una vera dichiarazione di guerra e dopo che la pace era stata già segnata, in effetti furono spesso momenti in cui si verificarono episodi di pirateria anche da parte veneziana; le difficoltà oggettive di comunicazione, gli animi già o ancora tesi, il desiderio di bottino, facevano sì che i capitani spesso non si lasciassero sfuggire le occasioni che potevano presentarsi, anche se le loro azioni erano contrarie agli accordi in quel momento ancora o già vigenti. Per esempio, tra i tanti episodi che si potrebbero ricordare, si ricorda come nel 1479, dopo la cessazione delle ostilità, il sopracomito Scipione Bon assaltò nel porto di Thiasso due navi turche cariche di mercanzie in cui era cointeressato anche il pittore del sultano Sinan assieme a suo cugino Pantaleone Arfara, che i veneziani si affrettarono poi a risarcire per evitare ritorsioni dall’ambiente di corte. Ancora all’inizio del 1504, quando la pace era stata 30 concordata ma non ancora giurata, una nave del sangiacco di Valona e Albania, Mustafa, venne colata a picco presso Ragusa mentre l’equipaggio venne fatto annegare.65 Gli episodi di pirateria veneziana nei confronti dei sudditi ottomani non sono tuttavia molti; effettivamente furono in minor numero rispetto a quelli perpetrati da altri stati europei particolarmente dediti a tale attività, che spesso si confondeva con la corsa, come per esempio Malta o i Cavalieri di Santo Stefano; inoltre lo stato esercitò un forte controllo non solo sui suoi uomini, ma anche sulle fonti di informazione dell’epoca. In generale i veneziani sapevano come procurarsi altrove le ricchezze, soprattutto con il commercio, mentre lo stato li proteggeva anche avocando a sé il diritto di rivalsa e ritorsione sugli stranieri. Inoltre si riteneva importante la pace con la Porta, quando esisteva, e si cercava quindi di non esacerbare gli animi; tra l’altro gli accordi previdero sempre un reciproco scambio dei prigionieri, per cui molti schiavi musulmani trovarono effettivamente una possibilità di salvezza passando proprio attraverso la terra di San Marco.66 7. La frontiera marittima ottomana Più informazioni si hanno invece sugli attacchi portati da marinai ottomani alle navi veneziane in periodi di pace. A questo punto, che si sia trattato di pirati, corsari o semplici marinai ha poca importanza; sono invece rilevanti gli esiti generali di tale attività e, come detto, il suo sviluppo diacronico. Per semplicità parleremo dunque, in ambito musulmano, di “corsari barbareschi”, come vuole la storiografia tradizionale, e invece di “pirati” per coloro che, provenienti dalle coste ottomane dell’Albania e dalla Grecia, attaccavano per rapina le navi cristiane che incontravano. Se probabilmenti non erano turchi, ma genovesi, biscaglini e catalani, coloro che attaccarono i veneziani presso Costantinopoli nei primissimi anni del Quattrocento, per combattere i quali fu armata una squadra di una decina di galee, ben presto anche una marineria veramente ottomana cominciò a far sentire il suo peso nel Mediterraneo, come dimostra la battaglia combattuta contro Venezia nel 1416 presso Gallipoli, anche se infausta per i legni turchi. Con la fine di un’altra guerra, quella del 1463-1479, gli ottomani si affacciarono con forza nell’Adriatico con la conquista di Valona, la città sulla costa orientale posta esattamente di fronte a Santa Maria di Leuca in Puglia: tra le due località correva una linea immaginaria che segnava, secondo alcuni veneziani, il confine estremo del loro Golfo. Con la stessa pace i veneziani vennero alla fine estromessi quasi completamente dall’Egeo, dove 65 66 Fabris, Un caso di pirateria veneziana, pp. 91-112; Zago, Emo, pp. 628-631; Gullino, Le frontiere navali, p. 90; Documenti turchi, nn. 20a-d, 137, 147. Bono, Schiavi musulmani, pp. 32-34. 31 conservarono solo il protettorato del ducato di Nasso. A questo punto la frontiera marittima tra Venezia e la Porta si spostò necessariamente sempre più verso l’Adriatico. Valona, ma in seguito anche altri porti vicini, rappresentarono nidi di pirati per quanti si avventuravano in quelle acque. Già al momento della pace nel 1479 Mehmed II diede ordine a Gedik Ahmed pascià di rifondere i danni apportati dalle fuste di Valona ai legni veneti che navigavano all’interno del Golfo e proibì ai propri corsari di entrarvi con scopi offensivi nei confronti di Venezia, minacciando di punirli se avessero disobbedito. Simile attività però non fu abbandonata dagli abitanti della zona: nel 1488 il suo successore, Bayezid II, di fronte alle rimostranze del doge assicurò ancora una volta che i danni allora arrecati sarebbero stati rifusi e i malfattori puniti. Al di fuori dello stato veneto attacchi di piccoli gruppi di turchi (e non di un’armata come a Otranto) si ebbero nel 1479 a Grottammare in provincia di Ascoli Piceno, nel 1485 a Montemarciano, Marzocca e Mondolfo, tra Fano e Ancona, nel 1488 a Sinigallia e ancora nel 1506 in Puglia.67 Anche nel corso del Cinquecento l’imboccatura dell’Adriatico fu una zona spesso pericolosa per le navi. Lamentele per atti di pirateria lì commessi da sudditi ottomani furono avanzate da parte veneziana nel 1533; nel 1536 Barbarossa occupò per una decina di giorni la terra di Castro, presso Otranto, seminando da lì il terrore nelle zone circonvicine; nel 1553-54 un altro corsaro, Turgud reis, attaccò due volte le coste della Puglia prendendo anche schiavi i 6.000 abitanti della città di Vieste; nel 1560 la stessa flotta turca arrivò fino agli Abruzzi. Fu in questi anni che le marine adriatiche occidentali cominciarono a rivestirsi di torri di guardia; il loro scopo era di difendere i contadini e i villaggi, soprattutto informandoli in tempo dell’arrivo delle squadre nemiche in modo che potessero o approntare le difese e prepararsi a combattere o, più spesso, almeno trovare rifugio nei borghi fortificati. Nel 1563 i levend che avevano catturato in Adriatico ventidue navi cariche d’olio, rivendettero il bottino a Valona, Durazzo, Alessio, mentre l’anno seguente il sultano protestò perché le galeotte dei reis Süleyman, Parmaksız Mustafa e Arab Hasan erano state catturate dai veneziani: per questo e per altri episodi consimili il bailo Daniele Barbarigo consegnò come indennizzo 25.000 ducati d’oro ai danneggiati.68 Pirateria e corsa andarono facendosi sempre più intense, soprattutto dopo la fine della grande guerra mediterranea che vide contrapporsi all’Impero Ottomano la Spagna e altre potenze cristiane. Nell’Adriatico ai musulmani si unirono i pirati cristiani e imperiali di Segna, gli uscocchi, mentre con sempre maggior frequenza si trovano nei documenti notizie di scaramucce tra navi venete e ottomane anche nell’Egeo. Da parte loro le autorità locali ottomane intervennero più volte per richiamare all’ordine i loro sudditi, su 67 68 ASVe, Comm, reg. 16, n. 122, c. 141-141v (=143-143v); Documenti turchi, nn. 4, 39; Nardelli, Incursioni e minacce, pp. 42-43. Documenti turchi, nn. 295, 305-306, 785-786; Nardelli, Incursioni e minacce, p. 43; Volpe, Le torri di guardia, pp. 47-73; Cresti, Le difese marittime, pp. 23-38. 32 sollecitazione della Porta, a sua volta pressata dalle proteste del bailo. Per esempio nel 1586 Murad III ordinò al sangiacco e al cadì di Valona di impedire che il reis Mehmed uscisse in mare con la sua galeotta per porre a sacco i possedimenti veneti. Nel 1590 fu invece il sangiacco di Karlı-eli a ricevere l’ordine di non far uscire caicchi armati da Santa Maura, che assalivano poi i veneti; da notare come a questi levend si erano uniti allora anche trentanove ex-schiavi musulmani che erano appena stati liberati dai veneziani dai remi di una nave corsara cristiana. Il 5 maggio 1594, poi, avvenne un fatto molto grave: il rettore di Sebenico con i suoi tre figli e altri nobili vennero attaccati in mare presso Rogoznica da due fregate e tre galee musulmane, di cui una con fanale e bandiera, e quindi appartenente a un alto ufficiale; l’equipaggio venne ucciso mentre il rettore e i suoi congiunti vennero fatti prigionieri.69 Le carte raccontano poi di navi venete che si ancoravano per prendere acqua e venivano svaligiate, come avvenne nel 1590 presso il porto del fiume Bojana in quel di Scutari; di gente di Castelnuovo che si preparava ad attaccare i veneti, di galee e galeotte dei reis di Valona che si spingevano fino nelle acque di Creta.70 Dal 1593 in poi si moltiplicano gli ordini del sultano che ingiungevano alle autorità di Erzegovina, Scutari, Castelnuovo, della Narenta di impedire la costruzione di imbarcazioni atte alla corsa e di bruciare i legni che i loro sudditi costruivano per darsi alla pirateria.71 Sempre più spesso si trovano notizie di gente del Maghreb che penetrava nel Golfo: per esempio nel 1591 fu la volta di Murad reis di Algeri che toccò Spalato, Perasto, Cattaro, Budua, nel 1595 di Kara Deli che arrivò con cinque fuste e prese due vascelli veneziani.72 Se nella prima metà del Cinquecento solo sporadicamente si trovano ordini del sultano volti a impedire agli abitanti della costa di aiutare i levend,73 dall’inizio del Seicento nomi di maghrebini sono spesso accomunati a quelli dei pirati di Valona o Durazzo. Per esempio nel 1605 il sultano ordinò di porre un freno alle malefatte di İbrahim ağa di Durazzo, Mustafa ağa, Ahmed kahya, Bali, Mustafa, Hasan kahya cui si erano allora uniti anche Zafer reis di Algeri, Arabacı Hüseyin, Hasan di Tunisi, Mehmed reis e i figli di Ömer da Castelnuovo; ormai si parla congiuntamente di gente del Maghreb, Valona, 69 70 71 72 73 ASVe, Bailo, b. 250, reg. 330, c. 13ab; b. 252, reg. 343, cc. 87-89; Documenti turchi, nn. 947, 1057. ASVe, Bailo, b. 250, reg. 330, cc. 6a-b (1589), 15ab (1590), 32ab. ASVe, Bailo, b. 250, reg. 330, cc. 16, 136; b. 252, reg. 343, cc. 14, 33, 55, 57, 65, 66, 68, 76; b. 250, reg. 331, c. 14, 22; b. 250, reg. 332, c. 28, 42, 47, 64-68; b. 251, reg. 334, c. 44, 46, 57, 75, 99; Provveditori alla camera dei confini, reg. 243 bis, fasc. Cattaro, passim (da fine ’500 al 1634). La questione fu ripresa nel ’700, cfr. ASVe, Bailo, b. 253, reg. 347, passim; b. 254, reg. 348, cc. 14-15; BOA, MM, reg. 6004, c. 26; Documenti turchi, n. 1240. ASVe, Bailo, b. 250, reg. 330, c. 98; b. 252, reg. 343, c. 62; Villain-Gandossi, La Méditerranée, [V parte], pp. 26-27, 36. Documenti turchi, n. 295 (1533). 33 Durazzo, Castelnuovo e Risano che penetrava in squadre compatte nel Golfo di Venezia; a questi si aggiungevano fuste di levend costruite a Modone, Corone, Malvasia e in generale in Morea e anche a Santa Maura.74 I nuovi pirati che vivevano lungo la costa ottomana cominciarono a un certo punto a non distinguere più tra musulmani e cristiani, quando era il momento di attaccare e fare razzie. Anche importanti personaggi, come per esempio nel 1611 l’ex-sangiacco di Karlı-eli, Mehmed bey, e a Durazzo il sangiacco di Dukagin, Mehmed bey, non disdegnarono di darsi ai saccheggi con proprie galeotte, caicchi o fuste, per non parlare di beylerbeyi maghrebini, come Kasım, pascià di Tunisi, che intorno al 1624 inviò in Adriatico, assieme alle galee di Biserta, anche la sua. Ripetuti attacchi si ebbero tra il 1622 e il 1627 quando ormai i corsari barbareschi si erano formati una fitta rete di contatti e complicità lungo la costa ottomana; gli ordini emessi da Istanbul ai beylerbeyi di Tunisi o Algeri venivano sempre più disattesi, tanto che nel 1626 il sultano si rivolse anche allo şeyhülislam per avere una fetva in cui si imponeva loro di restituire i veneti fatti schiavi, così come era doveroso in quanto Venezia liberava i musulmani che in qualsiasi modo cadevano nelle sue mani.75 La pirateria continuò per tutto il secolo, come testimonia anche la continua edificazione, o riedificazione, delle torri di guardia costiere. Dopo la guerra di Candia (1645-1669) l’attività dei pirati nell’Adriatico riprese non più coperta dalle motivazioni della guerra. Già nel 1670 il sultano ordinò ai suoi comandanti locali di porre fine agli attacchi contro i veneti della gente di Dulcigno. Questa località, che tra fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento era raramente nominata nei documenti che trattavano di rapporti tra Venezia e la Porta, è ora citata sempre più spesso. All’inizio del Settecento, dopo altre guerre, appariva ormai, per quanto riguardava la pirateria ottomana contro le navi veneziane, sullo stesso piano di Valona e Durazzo, e per porre un freno a tale attività, in base alla pace di Passarowitz del 1719, venne anche stabilito di sottrarre ai suoi abitanti le galeotte e altri bastimenti di cui facevano uso e di proibire loro di fabbricarne altri.76 Intanto le bandiere di Barberia issate sui pennoni cominciavano a essere desiderate da altri sudditi ottomani che volevano esercitare la pirateria senza farsi riconoscere, come testimonia un ordine del sultano del 1720 a questo proposito; si scopre così che la gente di 74 75 76 ASVe, Bailo, b. 250, reg. 331, cc. 58, 60 (primi cemaziyülahır 1014/14-23 set. 1605), 79, 8586; reg. 335, cc. 7, 11, 41; b. 251, reg. 335, c. 29, metà receb 1034/19-28 apr. 1625; Confini, reg. 243bis, fasc. Cattaro, şevval 1037/4 giu.-2 lug. 1628 (il sultano al sangiacco di Erzegovina e cadì di Castelnuovo, per Risano). ASVe, Bailo, b. 250, reg. 332, cc. 22, 23, 38, 47; b. 251, reg. 334, cc. 121b-122a, 130, 56; reg. 335, cc. 56, 81a-82; BOA, MM, reg. 6004, cc. 34-35, 52, 104-105, 109, 126; Documenti turchi, n. 1196; Bostan, Garp, pp. 67-69. ASVe, Bailo, b. 253, reg. 247, nn. 13, 14; b. 254, reg. 348, cc. 14-15; Volpe, Le torri di guardia, pp. 62-63. 34 Dulcigno si nascondeva sotto le bandiere del Maghreb e viene quindi da chiedersi quanti attacchi considerati barbareschi dagli abitanti della costa occidentale e poi anche dalla storiografia furono invece apportati da altri sudditi del Gran Signore. Un altro ordine del sultano, emesso nel 1723, proibì ai dulcignotti non solo di utilizzare tali insegne ma anche di uscire dai loro porti. Comunque i legami tra maghrebini e gente della costa adriatica ottomana non si allentarono; per esempio nel 1726 un dulcignotto con una tartana barbaresca si rifugiò nel Maghreb, e il sultano inviò ordini a Tripoli e Tunisi per far restituire la marcigliana che aveva predato. Ancora, nel 1728-29 si impose agli abitanti di tale città di non aiutare i corsari barbareschi. La Repubblica si trovò in tale aperto contrasto con la gente di Dulcigno, anche per un grave episodio avvenuto a Venezia, da ottenere dalla Porta intorno al 1720 un name-i hümayun, poi ribadito nel maggio 1729 e nel marzo 1731, che proibiva alle loro navi, uniche fra quelle mercantili della costa orientale dell’Adriatico, di entrare per qualsiasi motivo nella laguna. Comunque l’uso di innalzare le insegne barbaresche da parte dei dulcignotti rimase in auge, tanto che ancora alla fine degli anni ’40 doveva essere nuovamente e più volte proibito da parte del sultano.77 L’uso di una falsa bandiera fu comunque più diffuso di quanto comunemente si pensi e ciò che deve stupire è la frequenza dei name-i hümayun in cui il sultano proibiva in particolare ai suoi sudditi di Dulcigno di issare quella dei barbareschi, indice quindi di una pratica non più tollerabile da parte delle stesse autorità ottomane. Comunque ogni nave che veleggiava un tempo sul Mediterraneo, e anche altrove, portava nascoste, oltre alla propria, anche insegne di stati diversi, per protezione in caso di avvistamenti sospetti o per nascondersi e poter attaccare da una posizione più favorevole. Lo stesso ammiraglio veneziano Angelo Emo, famoso per il bombardamento di Tunisi e la Goletta e al quale il Museo Navale di Venezia ha dedicato una sala intera, guidando una piccola squadra di tre navi verso Gibilterra, veleggiò protetto dalla bandiera inglese, vessillo che ammainò e sostituì con quello veneziano solo quando, incrociati degli sciabecchi spagnoli, iniziarono gli scambi delle visite di saluto.78 Così nel 1712 Hasan reis portò a sua difesa per aver attaccato presso Suda una tartana inglese comandata da Pietro Davis il non aver prestato fede a una bandiera che riteneva falsa, tanto diffuso era allora l’utilizzo di insegne altrui.79 La bandiera marciana era ben conosciuta e rispettata nel Mediterraneo, tanto che il convoglio di navi che lasciò Venezia l’8 luglio 1797, dunque dopo la caduta della Repubblica, a propria tutela ebbe il permesso di innalzare ancora l’antico vessillo.80 77 78 79 80 ASVe, Bailo, b. 253, reg. 247, passim; b. 254, reg. 348, cc. 221-223; b. 255, reg. 351, cc. 1-2, 6-7; b. 256, reg. 353, c. 11, 12-13, 44-45, 292-294, 312-313, 324-326; reg. 354, cc. 30-34; b. 358, reg. 359, passim; b. 359, reg. 361, cc. 47-48; b. 259, reg. 362, cc. 27-28. ASVe, Arsenale, b. 546. Ringrazio il Com. Guglielmo Zanelli per questa segnalazione. ASVe, Bailo, b. 253, reg. 247, primi ramazan 1124/2-11 ott. 1712. Zordan, Il codice, I, pp. 52-54, 94. 35 La seconda metà del Settecento vide, accanto alla pirateria, anche lo scoppio di alcuni conflitti tra la Serenissima e i cantoni barbareschi, ormai sempre più indipendenti dalla Porta. Nel 1766 Giacomo Nani, con la sua squadra, riuscì a imporre al beylerbeyi di Tripoli di rifondere i danni inflitti dai suoi corsari ai veneti. Nel 1784-6 Angelo Emo, con le sue navi, si schierò invece contro Tunisi e la Goletta, anche se poi il conflittò sfumò, dopo la sua morte forse causata dal veleno, nella pace del 1792. Altre due guerre, anche se di breve durata, scoppiarono ancora tra Venezia e i paesi nord-Africani. Nel giugno 1795 il sultano del Marocco dichiarò aperte le ostilità in quanto non era ancora arrivato il denaro dell’annualità promessa dalla Repubblica; il conflitto ebbe fine a ottobre, dopo la cattura di un’unica nave veneta, e con la consegna del denaro dovuto. Il 10 ottobre 1796 fu invece il dey d’Algeri a dichiarare la guerra come risposta all’aggressione subita a Smirne dagli uomini del suo vekilharc da parte di un gruppo di schiavoni veneti; in questo caso i contatti diplomatici non portarono ad alcuna soluzione del conflitto che finì, dopo la cattura di alcune navi da parte algerina, con la sparizione dalla scena internazionale della millenaria Repubblica di San Marco.81 Le armate napoleoniche dunque, con la distruzione di antiche entità statali come Venezia o Malta, turbarono un equilibrio che si era andato lentamente formando nei secoli tra cristianità e islam; dopo anni di stasi, la ripresa nei primi anni dell’Ottocento della corsa barbaresca nel Mediteranneo fu un ulteriore segnale che ormai la situazione politica era mutata. 8. La frontiera del mare: considerazioni conclusive Per secoli il mare fu veramente una frontiera tra Venezia e la Porta sia, ovviamente, durante le guerre dichiarate, sia durante i periodi di pace. Venezia, con le sue isole, i suoi porti, e soprattutto con le sue squadre navali che ogni anno salpavano dal bacino di San Marco fornì uno sbarramento alle armate turchesche proprio nel campo in cui queste erano più deboli, cioè in quello marittimo. Fu uno sbarramento efficace di cui profittò tutta Europa, ancorché fragile, destinato qui e là a frantumarsi sotto l’urto ottomano per poi però ricompattarsi; come dice Braudel «forse la linea veneziana tenne così a lungo solo a causa della sua stessa debolezza, perché il Turco vi aprì larghe brecce, le finestre e le porte che gli permisero di raggiungere l’Occidente».82 Quando la grande guerra marittima lasciò il Mediteranneo per trovare più ampio spazio nell’Atlantico, questo mare interno vide il proseguire di non dichiarate ostilità attraverso la pirateria e la corsa. Nello stesso tempo il governo di Istanbul, preso da una serie di difficoltà dinastiche dovute a rapidi avvicendamenti sul trono di Osman e a vari 81 82 Pedani, Marocco, p. 96. Braudel, Civiltà e imperi, p. 899. 36 sultani bambini o mentecatti, delegò almeno idealmente la doverosa guerra dei sovrani musulmani contro i nemici della fede ai propri sudditi del Maghreb. Fu proprio questo il periodo di massima fioritura dell’attività corsara: Algeri ebbe due momenti di grande splendore e fortuna dovuta alla attività dei suoi reis, il primo tra il 1560 e il 1570 e il secondo dal 1580 al 1620. Nei primi anni del Seicento le navi barbaresche penetrarono sempre più spesso nell’Adriatico, in concomitanza con l’esplosione del fenomeno uscocco, cioè dei pirati di Segna che, sostenuti dagli imperiali, attaccavano senza sosta sia i legni veneti che quelli ottomani. Nello stesso tempo si venne a formare una sorta di connivenza tra sudditi ottomani del Maghreb e i loro omologhi della costa dalmata-albanese, e in qualche caso anche dell’Egeo: squadre formate da legni e uomini di questa e quella provenienza operarono assieme. Si potrebbe quasi affermare che i barbareschi abbiano insegnato la grande pirateria (o corsa) agli abitanti della costa; questi si impadronirono poi delle loro bandiere e cominciarono a operare da soli lungo le coste adriatiche, attribuendo la colpa di saccheggi e massacri ai loro antichi maestri. L’atteggiamento di Istanbul di fronte al degenerare di una situazione che si sarebbe preferito più controllata fu ambivalente: da una parte non si potevano completamente sconfessare i barbareschi che corseggiavano in nome del sultano, dall’altra però i loro indebiti attacchi rischiavano di causare ritorsioni e scontri in momenti poco adatti a una guerra dichiarata. Come dice un name-i hümayun dei primi della luna di muharrem 1034/14-23 ottobre 1624 ai beylerbeyi, bey, ağa dei giannizzeri e capi delle milizie di Tunisi, scritto dopo l’attacco a Perasto da parte di tredici galeotte,83 «fino ad ora i miei sudditi di quelle parti hanno compiuto azioni eroiche e le loro spade sono lampeggianti, ma ora non devono disturbare la pace che c’è con i miei amici, considerandoli alla stregua degli altri cristiani nemici… bisogna distinguere gli amici dai nemici della Porta»; e i veneziani, in tempo di pace, sia pur cristiani, erano degli amici. 83 ASVe, Bailo, b. 251, reg. 334, cc. 122a-121b; BOA, MM, reg. 6004, cc. 109-110; Bono, I corsari barbareschi, p. 175. 37 38 III CONFINI DI TERRA 1. Come si costruisce un confine Delimitare consensualmente la terra, tracciarvi un segno, distinguere ciò che appartiene da ciò che non appartiene, è un segnale di pace e non di guerra. La frontiera svanisce e lascia così spazio al confine, linea certa e stabile che, proprio perché separa in maniera netta, in certo qual modo unisce territori, persone, ideologie, religioni, leggi, assegnando a ciascuno un proprio spazio vitale. Il confine è una linea comune, tracciata di comune accordo, riconosciuta e riconoscibile da tutti. Se non c’è questo consenso allora non è un vero confine, ma si tratta di un muro, di una muraglia, di una barriera, di un vallo. Il confine può seguire l’andamento dei monti o le acque di un fiume, una strada già tracciata dagli uomini oppure correre tra campi tutti uguali, passare per l’inestricabile groviglio di un bosco o di una foresta, dividere a mezzo un deserto tra un’oasi e quella successiva, o ancora correre dritto seguendo l’immaginaria linea di un parallelo, di un meridiano o di un segno tracciato con la riga su una carta geografica. Può rispettare le etnie e le religioni, oppure tagliare abitazioni e dividere famiglie e comunità. Tutto questo è confine, e tutto questo dipende dal modo in cui viene tracciato. Quando si decide di costituire un confine vuol dire che già esistono i presupposti per la pace. Spesso però negli accordi sottoscritti tale materia è lasciata in un primo tempo nel vago. Come la frontiera è di solito la prima ad essere violata allo scoppio delle ostilità, così il confine è l’ultimo elemento con cui si corona la pace. Anzi, spesso le trattative continuano, in nuovi incontri, in altre discussioni tra persone incaricate specificatamente di decidere la nuova linea. Non è sempre semplice accordarsi su un confine se si vuole che questo sia il presupposto di una pace duratura: la natura e le comunità non dovrebbero essere violentate da nuove divisioni irresponsabili. La teoria dei confini naturali, già in qualche modo esistenti e rispettosi del territorio, venne codificata nell’Ottocento, proprio nel secolo del colonialismo, quando nel Vicino Oriente o in Africa gli “occidentali” tracciavano sulle carte geografiche linee dritte per spartire le varie zone. Basta osservare un atlante per rendersi subito conto di quali siano i confini che rispettano la geografia e quelli 39 invece che furono arbitrariamente segnati senza osservare da vicino il territorio, senza recarsi sui luoghi e solo allora decidere.84 Nei rapporti tra cristiani e musulmani lo stabilimento di un confine rappresentò un ulteriore riconoscimento del diritto dell’altro ad esistere: se stringere una pace può essere stato talvolta indice di una temporanea sospensione delle ostilità, segnare consensualmente un limite di territorio significava dare un’ulteriore convalida a un accordo che doveva durare nel tempo, al di là delle teorie e delle convinzioni religiose. Le prime notizie per ora conosciute relative all’esistenza di una linea di confine anche per i territori dell’Impero Ottomano riguardano i possedimenti della Rumelia nella seconda metà del Quattrocento. Di fronte all’inarrestabile avanzata dei successori di Osman nella parte orientale del bacino del Mediterraneo la Signoria, come allora si denominava lo stato marciano, si trovò a dover difendere strenuamente le proprie isole, le proprie città portuali, le proprie fasce costiere. Fu forse proprio la natura stessa di questi possedimenti, zone lunghe e strette, schiacciate tra le onde del mare e un nemico sempre più pericoloso, a spingere i veneziani a desiderare un confine. Si trattava di un’esigenza vitale per la sopravvivenza del loro Stato da Mar; infatti non venne altrettanto sentita dall’imperatore che, dal cuore dell’Europa, dominando un vasto impero, si poteva permettere l’esistenza di una zona di incertezza ai margini estremi di esso; la conquista o la perdita di qualche miglio di terra non era forse per quel sovrano di vitale importanza, come lo era invece per la Morea, la Dalmazia e l’Albania veneziane, dove perdere un simile spazio poteva significare cessare di esistere. Ripercorriamo dunque i primi documenti che parlano di accordi di confine tra Venezia e la Porta. Subito dopo la pace stipulata nel 1479 il sultano inviò l’emin Halil bey in Morea e poi sino alla zona di Lepanto, Chimara, Sopoto, Scutari, Antivari, Dulcigno, Budua e Cattaro per stabilire la linea di confine. Le istruzioni che Mehmed II gli diede, e che vennero comunicate anche ai veneziani, erano molto precise riguardo alle terre e città da ricevere o consegnare. Le zone conquistate con la spada dalle vittoriose armate del sultano dovevano rimanere a lui, anche se ciò voleva dire rigettare un confine naturale come quello rappresentato dalle acque del fiume Bojana, vicino a Scutari. Antichi confini venivano ripristinati, come quelli che avevano un tempo segnato le terre di Giovanni Cernovich. Pogliza e altri luoghi non avrebbero più presentato doni al sultano, come era stato uso fino ad allora.85 Si ritrovano dunque già in questo primo name-i hümayun, scritto in greco, come era allora uso per la corrispondenza con gli stati europei, alcuni dei princìpi che poi sempre sottesero alla stipulazione di accordi in materia di confini: l’incarico formale a un proprio rappresentante diplomatico di recarsi sul posto a discutere; l’esistenza 84 85 Riguardo ai confini del Medio Oriente e del Nord-Africa nell’Otto-Novecento, cfr. Boundaries and State Territory, passim. Documenti turchi, n. 4; cfr. il testo edito in Bombaci, Nuovi firmani greci, pp. 300-305. 40 di possibili confini naturali, oltre a quelli di antichi stati che potevano essere ripristinati, e infine il problema rappresentato dai territori conquistati durante le ostilità con la spada, che si riteneva di non dover cedere. In quest’ultimo caso si trattava di applicare il principio del ‘alā ḥalihi, o uti possidetis ita porro possideatis, cioè che ciascuno stato doveva mantenere ciò che era in suo possesso al momento della fine delle ostilità. Sembra che l’applicazione di tale concetto sia rimasta, fino al Settecento, alla base degli accordi di confine con la Porta in quanto si ripropose con le stesse modalità anche nelle paci di Karlowitz e Passarowitz. Anche nell’accordo stretto dopo la guerra di Cipro, Venezia cedette oltre l’isola solo il castello di Sopoto, mentre per il resto in Albania e Bosnia i confini rimasero quelli precedenti l’inizio delle ostilità.86 Se la linea stabilita per l’Albania nel 1479 soddisfò i veneziani, non altrettanto poté dirsi per quella della Morea; così si decise di inviare sul posto due rappresentanti ufficiali, uno veneziano e uno ottomano, in modo che la decisione non fosse unilaterale, bensì presa di comune accordo. Furono dunque scelti Sinan bey e il segretario Giovanni Dario, il cui palazzo sul Canal Grande vicino alla Salute è ancora conosciuto con il suo nome. Essi si recarono in Grecia, e alle loro discussioni e decisioni presero parte anche i provveditori veneti delle più importanti fortezze di confine; altre discussioni si tennero però allora anche a Istanbul, tra l’ambasciatore Nicolò Cocco e lo stesso sultano. Alla fine si arrivò a un accordo, leggermente diverso da quanto Mehmed II aveva scritto nell’ordine dato ad Halil; infatti Pastrovich e Zupa, che avevano fatto parte dei territori di Giovanni Cernovich, rimasero a Venezia. Venne poi richiesta ai veneziani la distruzione del castello di Galata, presso Lepanto, riedificato da un solo anno, e venne loro impedito di ricostruire quello di «Tzivérin» in Morea.87 Solo alla fine delle contrattazioni il sultano emise un hududname (o sınırname) con cui confermava le decisioni prese. Si può notare come in quest’epoca la prassi dello stabilimento dei confini non sembri ancora ben definita. Prima venne inviato nei luoghi un unico rappresentante, quello ottomano, e solo in seguito ne vennero nominati due per le due parti; inoltre le discussioni continuarono anche a Istanbul con l’ambasciatore veneziano. Infine fu il sultano che, unilateralmente, riconobbe la linea di confine, con un suo atto sovrano. Il suo successore, Bayezid II, rinnovando la pace approvò quei confini ma, in seguito al sorgere di alcune usurpazioni in Morea a suo danno, chiese il loro ripristino e quindi li confermò nuovamente.88 Gli hududname sembrano essere stati ancora abbastanza diffusi nel Cinquecento, in seguito, tra Sei e Settecento, quando ormai una prassi specifica per la delimitazione dei confini si era venuta a creare, essi appaiono come un residuo del passato, rifiutati da parte 86 87 88 Documenti turchi, n. 818. Documenti turchi, n. 21. Documenti turchi, nn. 35, 37/c. 41 ottomana e ostinatamente richiesti solo dai veneziani. L’unico citato nel repertorio Başbakanlık Osmanlı Arşivi Rehberi è infatti proprio quello emesso per la Repubblica, e da questa pagato a caro prezzo dopo Karlowitz.89 Gli hududname relativi a rapporti internazionali non sono gli unici. Ne esistettero altri, relativi a confini interni all’Impero, per esempio a circoscrizioni amministrative o a proprietà donate dal sultano a importanti personaggi.90 2. La creazione di una prassi Alla fine del Quattrocento una nuova guerra scosse i rapporti tra la Repubblica e la Porta. Sul finire di essa nuovi contatti tenuti a Istanbul dall’inviato veneziano riportarono la pace. Ancora una volta la questione dei confini venne demandata a dei rappresentanti ufficiali. Il doge incaricò di questo compito prima il segretario Alvise Sagundino ma poi, dopo che questi aveva già consegnato ai turchi la fortezza di Santa Maura con armi e munizioni, lo sostituì con un altro segretario, Zaccaria de’ Freschi. Da parte ottomana, almeno per la Morea, venne incaricato il sangiacco della zona, Ali. In seguito venne emesso un altro name-i hümayun che riconosceva e convalidava quanto stabilito.91 Simili documenti imperiali, cioè i sınırname o hududname internazionali, sembrano essere stati piuttosto diffusi in questo periodo, molto di più che non in epoche successive. Essi rappresentavano la naturale conclusione delle trattative di pace e le susseguenti discussioni sui confini. La prassi relativa all’incontro di due rappresentati ufficiali nelle località da definire è testimoniata non solo per lo stato veneto ma anche, per esempio, per la Polonia: dopo le conquiste ottomane, intorno al 1542, fu necessario procedere allo stabilimento della linea confinaria della zona dell’Ucraina meridionale, tra la PoloniaLituania e lo Yedisan ottomano: in questo caso i commissari furono il sangiacco di Silistra, coadiuvato dai cadì di Akkerman e Bender, e l’etmano polacco Mikolaj Sieniawski; le loro discussioni tuttavia si risolsero in un nulla di fatto in quanto essi non riuscirono a trovare un accordo soddisfacente e il confine rimase indefinito. Altre discussioni si ebbero poco meno di cento anni dopo nel 1633 sempre per lo stabilimento di una demarcazione con le terre polacche e altre ancora seguirono nel 1673, 1680 e 1703, dopo la pace di Karlowitz.92 Contestazioni e discussioni a proposito di confini si ebbero non solo dopo una guerra ma anche in periodi di pace. Negli anni ’20 del Cinquecento, per esempio, continui sconfinamenti da una parte e dall’altra portarono con sé anche usurpazioni di territorio, 89 90 91 92 Başbakanlık Osmanlı Arşivi Rehberi, p. 144. Cfr. per esempio, Calligraphies ottomanes, pp. 166, 170-171. Documenti turchi, nn. 100, 108, 157. Kolodziejczyk, Ottoman-Polish Diplomatic Relations, p. 58; Veinstein, L’occupation ottomane, pp. 137-146. Per un’ulteriore delimitazione austro-ottomana avvenuta alla metà del Settecento; cfr. Prokosch, Molla und Diplomat, passim. 42 oppure, se si vuole vedere il problema in modo diverso, una certa indeterminatezza della linea di confine creò la possibilità di sconfinamenti e usurpazioni. In questo periodo il sangiacco di Bosnia, Hüsrev, assieme al cadì di Scardona e alcuni rappresentanti dell’altro stato, venne incaricato di ripristinare i confini tra la Serenissima e la Porta nelle zone di Sebenico e Traù. I veneziani rivendicavano settanta-ottanta villaggi, anche se portavano a sostegno delle loro affermazioni solo “scritture infedeli” e precisamente privilegi concessi loro dai re d’Ungheria. I turchi del luogo invece affermavano che durante la guerra quelle terre erano state conquistate con la spada, anche se poi erano rimaste deserte di abitanti; in seguito vennero date in mukataa, vi furono inviati uomini e registrati per le decime (öşr) e il haraç; nel 1530 poi gli emin del paese avevano annotato in un nuovo registro (defter-i cedid) la popolazione sottoposta a haraç e cizye e le terre erano state date in tımar a sipahi e guardie di fortezza (hisar eri) che ormai avevano ricevuto anche i loro berat di nomina. Alla fine i villaggi vennero riconosciuti come appartenenti alla Repubblica, anche se il fatto che fossero già stati distribuiti come tımar rese più difficile la loro restituzione. In casi successivi, proprio per evitare simili contestazioni, quando cominciavano a profilarsi dei problemi relativi a terre già consegnate, si preferì allontanare immediatamente il concessionario ricompensandolo con un altro beneficio.93 Tale sistema era piuttosto semplice da realizzarsi nell’Impero Ottomano in quanto il sistema dei tımar non legava per sempre il beneficiario e i suoi successori a una derminata tenuta, ma questa poteva essere sostituita da una più ampia o più piccola e, nel caso di morte, il bene tornava comunque allo stato. Risalgono a questo periodo i primi documenti, ancora conservati a Venezia, attestanti ordini del sultano di eseguire inchieste (teftiş) a proposito di confini, assieme ad azr di risposta delle autorità locali e a estratti di sicil, con autentiche di cadì che certificano le dichiarazioni relative a diritti su terre rese da sudditi ottomani. Solo dopo essere stato così informato il sultano emetteva un ordine con cui si imponeva di trattenere o restituire terre o villaggi.94 Sembra cominciare in questo periodo la prassi che poi si sviluppò pienamente nella seconda metà del secolo e venne applicata fino al Settecento, in cui un ruolo chiave nella certificazione di nuovi o ristabiliti confini spettava proprio al cadì. Un ordine di Murad III ai sangiacchi di Bosnia e Clissa e ai cadì di Clissa e Sarajevo del 1575 spiega come ci si aspettava venisse rideterminato un confine con la Repubblica su cui erano sorte delle contestazioni.95 I destinatari, assieme al çavuş Cafer, dovevano riunirsi con i commissari incaricati da Venezia, delimitare nuovamente i confini e apporvi i segnali; terminato tale lavoro le due parti dovevano scambiarsi gli atti di delimitazione; l’hüccet 93 94 95 ASVe, LST, filza I, cc. 10, 28-29, 35; filza II, c. 10; filza VII, c. 49; Documenti turchi, nn. 261, 307. ASVe, LST, filza I, cc. 30, 39; Documenti turchi, n. 638. Documenti turchi, n. 829. 43 redatto in proposito dai cadì doveva essere trascritto nei sicil e quindi inviato in copia alla Porta. La prassi dunque per stabilire un confine, applicata poi nei rapporti veneto-ottomani anche dopo le paci di Karlowitz e Passarowitz, era la seguente. Il sultano e il doge nominavano propri rappresentanti e fornivano loro delle lettere credenziali che li certificavano come commissari incaricati di segnare la nuova linea. I due rappresentanti, con il loro seguito che nelle missioni più importanti poteva essere anche di centinaia di persone, si riunivano nella località da dove dovevano cominciare i lavori; operavano quindi sul terreno, misurandolo e ponendovi segnali, interrogando la popolazione locale in proposito, controllando le mappe antiche e facendone tracciare di nuove. Alla fine di questi incontri vi era lo scambio dei documenti; i veneziani fornivano alla controparte un atto sottoscritto dal cancelliere della missione con il sigillo del commissario e quello della Repubblica con il leone di San Marco; gli ottomani consegnavano l’originale di un hüccet sottoscritto dal cadì o dai cadì che avevano seguito la commissione; copiato nei registri ufficiali era inviato in copia al sultano accompagnato da un arz a cura del diplomatico incaricato della confinazione e eventualmente anche del cadì. A questo punto la transazione poteva dirsi conclusa e confermata, senza il bisogno di ulteriori formalità. Comunque, per una maggior sicurezza, il sultano poteva emettere un hududname di conferma, in cui veniva riportato il contenuto dell’hüccet.96 Accanto agli hüccet, però, nel corso delle contrattazioni, vennero emessi alle volte anche altri documenti da parte ottomana: erano dei temessük, dei certificati, sottoscritti unilateralmente dal rappresentante del sultano e consegnati alla controparte. Nei rapporti tra la Repubblica e la Porta si trovano soprattutto nel caso vi siano state delle contestazioni o delle incertezze. Secondo Kolodziejczyk97 invece tali atti furono parte integrante della prassi usata per stabilire il confine tra la Polonia e l’Impero Ottomano. Simili ai protocolli di pace, erano preparati nelle due lingue, sottoscritti e sigillati ciascuno da un commissario e quindi scambiati. Da parte ottomana il protocollo di demarcazione era poi trascritto nei registri ufficiali (defter-i mufassal, per esempio nel caso della nuova provincia di Podolia/Kamaniçe), ma non dava origine a un hududname. Ovviamente i temessük erano preparati dopo l’emissione dell’ahdname, alle volte anche dopo qualche anno, e rappresentavano il coronamento delle trattative di pace. 3. Segnare lo spazio Una volta individuate le zone dove doveva correre la linea di confine occorreva che i rappresentanti ufficiali dell’una e dell’altra parte procedessero alla sua identificazione sul 96 97 Pedani, The Ottoman Venetian Frontier, p. 172. Kolodziejczyk, Ottoman-Polish Diplomatic Relations, p. 67. 44 terreno, in modo che da quel momento in poi tutti potessero riconoscere dove finiva uno stato e dove cominciava l’altro. Fin dai tempi classici si usarono porre dei segni sulla terra per indicare un confine. Si trattava di elementi rivestiti di un carattere sacrale; secondo la legge attribuita a Numa Pompilio, chi osava spostare una pietra confinaria, cioè un termine, doveva essere sacrificato agli dei. Pene altrettanto severe si trovano anche presso altri popoli. Nell’alto medioevo, però, con l’avvento di popolazioni di origine germanica al posto delle pietre terminali si preferì utilizzare staccionate, siepi, fossi e, soprattutto, alberi su cui erano stati impressi dei marchi; era forse questa l’espressione di un mondo più legato alla natura, ai boschi e alle foreste che non ai manufatti umani. Sembra quasi fosse allora considerato più importante sapere a chi apparteneva una determinata pianta, e tutte le altre da quel punto in poi, che non parlare di proprietà della terra. Fu solo con i franchi che si tornò all’uso romano dei termini in pietra.98 Per quanto riguarda i confini veneto ottomani alcune notizie sul modo di segnare il territorio sono fornite dai documenti emessi al termine della confinazione e dalle carte, che in qualche caso ancora si conservano, prodotte durante le interminabili discussioni che ebbero luogo tra i rappresentanti dei due stati. Innanzi tutto si nota una preferenza per le piramidi di sassi, chiamate in veneto masiere oppure, nella Dalmazia veneta, anche unche: si trattava di sassi raccolti sul posto e riuniti a formare un cumulo che veniva situato proprio dove correva la linea di confine; un sasso a forma di cuspide era di solito posto sulla sommintà per rendere ben identificabile la costruzione.99 Il lavoro di costruzione di un simile manufatto poteva essere faticoso e questo spiega la presenza di numerosi zappatori e altri uomini di fatica nel seguito dei commissari incaricati di stabilire un confine. Il lungo documento relativo al cosiddetto «confine Nani»,100 stabilito in Dalmazia nel 1671 da Battista Nani e Hüseyin pascià, beylerbeyi di Bosnia, descrive però anche alberi o grandi pietre su cui era stata incisa una croce. Era questo un sistema molto antico per segnare lo spazio, utilizzato non solo in Dalmazia ma anche in altre località europee; per esempio nelle confinazioni veneto-imperiali venne utilizzata spesso una croce incisa sulla roccia con, a fianco, da una parte lo stemma austriaco e dall’altra il leone di San Marco. Il braccio verticale stava a indicare dove correva la linea di confine.101 Un altro modo di segnare lo spazio era quello di piantare sul posto un vero e proprio cippo, come ancora se ne vedono numerosi sulle nostre Dolomiti, o sul bordo lagunare; incisi su questi manufatti si trovano non solo stemmi ma anche iscrizioni, date, numeri, lettere dell’alfabeto, a indicare o la progressione numerica dei segnali infissi nel terreno o 98 99 100 101 Werkmüller, Recinzioni, pp. 641-659. Sartore, Termini di confine, pp. 273-335, foto p. 296. I Libri Commemoriali, XXIX, nn. 66-71. Sartore, Termini di confine, foto a p. 295. 45 l’iniziale di qualche vicina località. I cippi potevano però essere facilmente spostati da chi aveva interesse che la linea confinaria corresse in un posto diverso. Kolodziejczyk afferma che sul confine polacco-ottomano veniva usato per la parte cristiana un cumulo coronato da una croce e da parte musulmana una catasta di legno a forma di testa inturbantata.102 Più difficile era invece sradicare e ripiantare un albero utilizzato per segnare un confine, ma poteva accadere che la natura stessa lo distruggesse, oppure che qualcuno riuscisse ad abbatterlo. Altra cosa era infine rimuovere le incisioni prodotte su una parete rocciosa e infatti tale sistema venne usato anche nel segnare il confine veneto-ottomano di Dalmazia-Albania. Per esempio, nell’inverno del 1699 nella zona montagnosa presso Castelnuovo e Risano si incontrarono i sostituti dei commissari Giovanni Grimani e Osman ağa, che avevano preferito non recarsi di persona in una zona così impervia e coperta di ghiaccio. Arrivati sul posto, dunque, gli incaricati della confinazione si resero conto che la neve e il gelo impedivano di trovare sassi o terra per costruire i cumuli, e decisero di far incidere il fianco della montagna; la croce era stato l’unico segno utilizzato fino a quel momento nei confini veneto-ottomani come quello Nani, e quelli di Sebenico del 1546 e di Zara del 1576.103 Allora però non venne ritenuta adatta per indicare entrambi gli stati; si decise dunque di utilizzarla solo con riferimento alla Repubblica, mentre all’altro stato venne riservata la mezzaluna.104 Si trattava di un antico simbolo turco e questa fu probabilmente la prima volta che dei sudditi del sultano lo utilizzarono da solo, e non in compagnia di altri elementi, per indicare l’Impero Ottomano, come già si tendeva a fare invece in occidente. Vent’anni dopo, in occasione della nuova linea confinaria, quella Grimani, si decise di non toccare quanto era stato stabilito e la croce e la mezzaluna rimasero su quelle montagne a indicare dove la Repubblica di Venezia e l’Impero dei sultani si toccavano. 4. Fortezze di confine Nelle contrattazioni per la determinazione di una linea di confine particolare importanza rivestivano le fortezze e le piazzeforti. Tenerle significava disporre di un deterrente e fornire maggior sicurezza agli abitanti, sia in tempo di pace che nel caso di una prossima futura guerra; lasciarle al nemico significava concedergli un luogo da cui sorvegliare e attaccare il proprio territorio. Un tema così delicato dunque non poteva essere lasciato all’improvvisazione. Il primo accordo tra Venezia e la Porta stabilito dopo la presa di Costantinopoli dimostra che i veneziani erano ancora interessati soprattutto alla protezione dei commerci via mare e si occupavano poco di possibili attacchi da parte di terra; i loro castelli in 102 103 104 Kolodziejczyk, Ottoman-Polish Diplomatic Relations, p. 62. ASVe, Confini, b. 243bis, cc. 21-23; Documenti turchi, n. 863. I Libri Commemoriali, XXX, n. 61; ASVe, Grimani, b. 8, n. 39 (13 feb. 1700). 46 Romania e Albania sono citati solo per affermare che non potevano accogliere nemici o traditori del Gran Signore. Comunque nella pace rientrava tutto lo stato veneto essendo ufficialmente stabilita tra il sultano e la Signoria, i suoi nobili, i sudditi, le città, terre, isole e luoghi che innalzavano il gonfalone marciano.105 Di fortezze e confini si parlò più diffusamente nell’accordo successivo, quello del 1479, non a caso stabilito dopo una lunga guerra (1463-1479) combattutta non solo con navi ma anche in campo aperto e in cui gli akıncı si spinsero fino oltre il Tagliamento. La pace venne giurata dal sultano, per terra e per mare, con tutte le terre, castelli, isole e luoghi veneti. Venezia fu obbligata a restituire Scutari d’Albania, l’isola di Stalimine, i «castelli e i luogi... in le parte de la Morea» conquistati durante la guerra, ma venne stabilito di restituirle «li occupati destreti neli confini vechi de le terre loro, vicinando cum li luogi de la mia Signoria in ogni luogo».106 Come detto, proprio in seguito a questa pace avvenne la prima delimitazione condotta da due rappresentanti ufficiali, uno veneto e l’altro ottomano, di cui si abbia notizia. Di solito quando si doveva consegnare una fortezza all’ex-nemico si portavano via tutte le armi e munizioni che vi erano custodite, oltre a vuotarla di soldati e ufficiali. Ciò prevedevano di solito gli accordi di pace, ma non sempre si rispettò questa prassi: nel 1503 il castello di Santa Maura venne consegnato dai veneziani al rappresentante del sultano con quanto vi si trovava assieme a sette prigionieri; al contrario nel 1540 il subaşı Yunus dichiarò di ricevere la città di Malvasia assieme alla rocca, ma vuota di armamenti.107 Una corretta gestione del problema rappresentato dalle fortezze poste sul confine era importante in quanto, nel caso fossero rimaste come zona contesa e quindi priva di abitanti, gli edifici rappresentavano un facile e comodo rifugio per malfattori. Nel 1480, per esempio, il sultano minacciò di mandare i suoi uomini a distruggere Thermisi, Vatica e il castello di Aberto in Morea, che non gli erano stati ancora consegnati come stabilito e che, nel frattempo, erano divenuti covo di fuggitivi.108 Comunque, se non si riusciva a ottenere le piazzeforti con facilità durante i colloqui di pace, spesso si chiedeva almeno di distruggerle. Così fece per esempio nel 1539 il sultano per quanto costruito dai veneziani nei pressi di Castelnuovo in territorio ottomano durante la guerra che si stava allora concludendo. Spesse volte gli edifici per cui si decideva la demolizione non erano antichi presidi bensì nuovi, costruiti proprio durante il periodo delle ostilità. Per esempio nel 1542 il sultano chiese venisse atterrata una fortezza nei pressi di Scutari d’Albania: già distrutta, di comune accordo, per motivi di sicurezza ai tempi di İskender bey Mihaloğlu, era stata poi riedificata dai veneziani durante la guerra (1537105 106 107 108 ASVe, Comm., reg. 14, cc. 136-137v (=143-145v). ASVe, Comm., reg. 16, cc. 136v-137 (=138v-139); in greco cc. 142-142v (=144-144v). Documenti turchi, nn. 106, 440, 435, 436. Documenti turchi, n. 13. 47 1540). Uno dei motivi portati a giustificazione dello scoppio delle ostilità da parte ottomana e indicati nella dichiarazione di guerra espressa con name-i hümayun dei primi della luna di ramazan del 977/7-16 febbraio 1570, fu proprio il fatto che, secondo il sultano, i veneziani stavano ricostruendo castelli e villaggi oltre i confini; già un anno prima la Porta si era lamentata che, sui confini di Clissa, erano state erette due nuove fortezze e altre trentaquattro, già demolite in base all’accordo di pace, erano state via via ripristinate. Questo comportamento non fu comunque solo veneziano; anche gli ottomani, quando ne avevano l’occasione, agivano nello stesso modo: nel 1586 il sultano fu costretto a ordinare la demolizione delle nuove fortezze sul confine di Bosnia, in quanto i veneti si erano accorti di traffici sospetti di calce e legname.109 Fortezze e castelli infatti non furono costruiti o restaurati solo durante le guerre, ma anche durante i periodi di pace, soprattutto quando questa durava ormai da moltissimi anni e la geo-politica di una data zona stava cambiando. Nei rapporti tra la Porta e la Serenissima bisogna infatti tener presente che non si ebbe una conflittualità continua, bensì si ebbero lunghi periodi di tregua, tra i quali quello più significativo durò dal 1573 al 1645; un altro fu quello che andò dal 1718 alla fine della Repubblica, nel 1797, e che fu segnato anche dalla stipulazione, nel 1733, di una pace perpetua che non necessitava quindi di ulteriori ratificazioni.110 Tra le carte si trovano vari esempi di fortezze costruite durante questi lunghi anni di tregua: nel 1557 il sultano chiese che venisse demolito nel distretto di Pogliza presso Clissa un castello che disturbava le vicine saline, assieme a un forte costruito sempre nelle vicinanze dagli spalatini che minacciavano un tranquillo sfruttamento del sale da parte ottomana. Nel 1577 mentre il sangiacco di Clissa, Mustafa, costruiva una fortezza nel distretto di Cattaro, veneti e uscocchi ne creavano un’altra a Podgorje, intorno a una vecchia torre che era rimasta disabitata per più di ottant’anni e tentavano anche di impadronirsi di un vecchio forte situato presso Sedd-i Islam, che venne però prontamente demolito dalle autorità ottomane. Ancora nel 1601 e nel 1622 si parlava di fortezze edificate dagli ottomani presso Novigrad e Spalato.111 Per portare a termine simili progetti era però necessario molto materiale da costruzione ed era soprattutto questo che non sfuggiva all’attenzione dei confinanti. Quando però i lavori erano concordati, allora si poteva anche chiedere aiuto alla controparte, che spesso però nicchiava. Nel 1531 il sultano chiedeva che i veneziani difendessero gli operai che stavano costruendo la fortezza di Salona, situata nel sangiaccato di Bosnia, ma in zona deserta e pericolosa, presso gli scali veneti, facilmente attaccabile da navigli nemici; nel 1547, invece, il sultano chiese ai veneti muratori («bennā»), falegnami 109 110 111 Documenti turchi, nn. 410, 488, 802, 808, 958. Bellingeri, Un frammento, pp. 247-280; Pedani, La dimora della pace, pp. 40-41. ASVe, LST, filza II, c. 42; filza III, c. 164; filza V, cc. 204-205; BOA, MM, reg. 6004, c. 108. 48 («neğğār»), operai («erġāt») e viveri per la costruzione del castello di Nadin, posto nel sangiaccato di Clissa.112 Nadin, assieme a Buçac, Rasten, Velin, Vrana, Sene e Degirmenler (cioè Mulini) erano delle fortezze situate ai confini della Bosnia, verso la Dalmazia, in un’area conquistata dagli ottomani durante la guerra del 1537-1540; questi toponimi compaiono infatti nel successivo accordo di pace. Il possesso di Nadin e della vicina Vrana non venne contestato dai veneziani pur ricordando il loro nome anche nelle capitolazioni seguenti del 1567, 1575 e 1576. Degirmenler venne invece riconosciuto veneziano sebbene già negli anni ’20 del Cinquecento vi fossero state delle contestazioni per tale località, posta presso Salona, dove ancora non vi era ancora alcun castello bensì solo dei mulini di proprietà della gente di Sebenico; nel 1523 risulta che la zona fosse proprietà (mülk) del visir Ahmed, che comunque propose ai veneziani che già allora ne rivendicavano il possesso, un accordo in cambio di denaro, ratificato poi dal sultano in quello stesso anno. Più travagliata e controversa fu la vicenda delle altre fortezze. Per stabilire a chi appartenessero Buçac, che era una torre disabitata di fronte al castello di Clissa, la vicina Sene, edificio a guisa di fortezza, anche se in rovina, posto a difesa della salina presso il mare, la casa posta tra gli ulivi lungo il mare presso Sebenico, detta Rasten, e la torre di Velin, posta vicino al castello di Strevice, ci fu bisogno di creare una commissione mista. La decisione fu che erano tutte ottomane; poi però il castello di Rasten venne lasciato ai veneziani, che ancora nel 1546 tenevano un presidio anche a Velin.113 A proposito del problema rappresentato dalle fortezze poste proprio lungo il confine, particolare interesse riveste la delimitazione attuata dopo Karlowitz. A leggere i resoconti dell’epoca, appare chiaro che un certo spazio doveva essere attribuito tutto intorno a una fortezza allo stato che la possedeva, creando quindi lungo una linea dritta dei rientri o delle protuberanze circolari, di solito percorribili in alcune ore di cammino. Quindi non tutte i forti posti esattamente sulla linea confinaria vennero distrutti, ma alcuni vennero attribuiti, di comune accordo, a uno dei due stati. 5. La terra contesa Alle volte dopo la cessazione delle ostilità, comunque prima della formalizzazione della pace o della creazione di un confine, poteva capitare che una delle parti, con un colpo di mano, si impadronisse di una località, un villaggio o un castello ritenuto di importanza strategica e quindi appetibile e importante per continuare le discussioni da una posizione di vantaggio. Un esempio di questo comportamento, tra i tanti rintracciabili lungo i confini 112 113 ASVe, LST, filza I, c. 25; filza II, c. 18; cfr. Bonelli, Il trattato, p. 355. ASVe, LST, filza I, cc. 22, 27, 70 (edito in Bonelli, Il trattato, pp. 351-352); Documenti turchi, nn. 430, 528, 540, 543, 556, 562; Theunissen, Ottoman-Venetian Diplomatics, pp. 617-639. 49 balcanici, fu quello tenuto dagli imperiali subito dopo la pace di Karlowitz, mentre erano ancora in corso le trattative per lo stabilimento della nuova linea veneto-ottomanaimperiale: il 10 giugno 1699 circa mille cavalieri e cinquecento fanti si presentarono sotto le mura di Zuonigrad, difesa da circa quaranta veneziani; due ufficiali con otto uomini bussarono alla fortezza chiedendo che questa venisse loro consegnata; avutone un diniego, le diedero l’assalto mentre dalle mura si riuscivano a sparare solo tre colpi di artiglieria; cento imperiali allora penetrarono attraverso una breccia e presero possesso dell’edificio, che rimase poi a loro anche dopo la delimitazione.114 Comunque usurpazioni potevano aver luogo anche durante un periodo di pace. Nel 1531 per esempio il bailo si lamentò con il sultano che fossero stati occupati indebitamente dei luoghi tra Spalato e Almissa. Viceversa nel 1542 il sangiacco di Scutari Halil e il cadì di Montenegro riferirono che la gente di Cattaro si era impadronita di molte terre del fisco nella salina detta “del despota” e le aveva messe a coltura danneggiando così la raccolta di sale, mentre altre usurpazioni si erano avute presso Estargard e Pastrovich, Antivari e Dulcigno. In questo caso il sultano ordinò di verificare ancora una volta di comune accordo i confini e nel caso i veneti persistessero nel coltivare terre ottomane si richiedessero loro almeno i tributi dovuti. Nel 1564 venne invece ordinata dalla Porta la demolizione di tre case, edificate su terre venete presso Clissa, e quindi la restituzione di quanto indebitamente occupato. Nel 1590 si lamentarono ancora sconfinamenti presso Pastrovich da parte di sudditi ottomani, mentre nel 1591 furono i veneti ad essere accusati di aver saccheggiato e poi occupato, d’accordo con gli uscocchi, trentaquattro villaggi, cioè 360 baştine presso Spalato, Sebenico e Traù, i cui abitanti “pagano ora haraç agli infedeli”, e soprattutto il castello di Vrhpolje che era divenuto, secondo i supplicanti, un covo di pirati. Nella vicina zona di Petrevagore vennero poi costruite dagli ottomani due fortezze ottomane proprio per proteggere il loro territorio dalle usurpazioni. Gli stessi comandanti locali dell’una o dell’altra parte contribuirono qualche volta volontariamente a una indebita variazione della linea di confine, come tentò di fare, per esempio, il sangiacco di Clissa, Ferhad, nel 1559.115 Si può poi notare come accanto alla proprietà delle terre anche le persone fossero considerate come un bene che non si doveva cedere facilmente allo stato vicino. Per esempio, nel 1537, quando stava per scoppiare la guerra, il sangiacco di Bosnia Hüsrev presentò una lista di centocinquanta persone, tra cui anche donne e bambini, che si erano rifugiate in territorio veneto e di cui chiedeva la restituzione. Non tutti infatti erano contenti di abitare sotto un determinato regime e la vicinanza di uno stato diverso per leggi, costumi e fede poteva invogliare interi gruppi di persone a rivolgersi ai ‘nemici’ nella speranza di 114 115 ASVe, PTM, filza 701, n. 14. Per il resoconto di questi avvenimenti visti da parte imperiale, cfr. Holjevac, The “Triplex Confinium”, pp. 133-137. ASVe, LST, filza IV, c. 159, filza V, cc. 10, 13, 14, 28, 10, 478, 479, 2; Documenti turchi, nn. 284, 490, 748, 788. 50 un destino migliore. Si ricorda spesso come i greci di Costantinopoli avessero detto, prima della caduta della città, che preferivano il turbante del turco alla tiara del papa di Roma. Meno conosciuti sono invece altri episodi. Per esempio, intorno al 1520-1523 sia gli abitanti di alcuni villaggi di Rodi che altri di Scarpanto scrissero al sultano chiamandolo in loro aiuto; i primi lamentavano l’oppressione dei cristiani e chiedevano quindi di mandare le armate a conquistare l’isola.116 6. Fiumi e monti Un tempo, così come oggi, quando si tracciava un confine era importante renderlo visibile. Nel caso corresse lungo un fiume, le acque stesse segnavano una linea argentea di divisione. Per molte popolazioni, tra cui anche i turchi, prima della conversione all’islam, l’acqua era un elemento sacro; intorbidarla e sporcarla, anche per lavarsi, era un crimine; le rive, soprattutto la parte più vicina alla sorgente, erano una zona dove più forte si sentiva la presenza della divinità e per questo era luogo deputato a giuramenti, alleanze e paci. Il corso stesso delle acque aveva una valenza particolare e non fu raro il caso di tombe di sovrani scavate proprio nel letto di un fiume, dopo averlo deviato per il tempo necessario e quindi lasciato nuovamente libero. Lo stesso dicasi per i luoghi elevati, le cime di montagne o colline, pure essi considerati adatti ad essere testimoni di giuramenti, di sepolture sovrane o anche a segnare la divisione dello spazio. Tracce di queste antiche credenze si trovano ancora, per esempio, negli accordi stabiliti tra Venezia e i khan di Crimea: nel 1342, per esempio, si giurò la pace presso un fiume, in una località detta “riva rossa”.117 Così come i corsi d’acqua le creste montane furono spesso utilizzate per segnare un confine; anche in questo caso però era difficile, se non impossibile e spesso inutile, porvi dei segni per riconoscere l’esatto limite dell’uno e dell’altro stato. Alle volte questi vennero posti ai piedi di erte pareti, specificando poi nell’accordo scritto che si dovevano intendere come se fossero stati posti sulle vette: capitò così nel 1778 tra veneziani e imperiali nei pressi del ghiacciaio della Marmolada; in seguito, ignorando il testo scritto, c’è stato chi ha voluto rifarsi a quell’antica decisione per segnare il confine tra il Veneto e il Trentino prendendo in considerazione solo i segni sulla montagna, e non anche le carte dell’epoca. Da fatti come questo si capisce come non sia solo uno sfoggio di cultura lo studio degli antichi accordi, ma che questi possono avere una ricaduta anche sul presente. Così altrettanto importante appare, dal punto di vista della geopolitica attuale, il confine, o meglio i vari confini, che nel corso dei secoli separarono la Dalmazia veneta dall’Impero 116 117 ASVe, CXM, reg. 46, c. 22v; Documenti turchi, nn. 400, 1102. Diplomatarium, 1, n. 135. 51 Ottomano: per vari tratti si è fatto ricorso a quegli antichi tracciati per dividere l’attuale territorio della Croazia da quello della Bosnia.118 Nel corso dell’Ottocento acque e montagne vennero definiti “confini naturali”; si credeva infatti allora che la natura stessa avesse diviso uomini e culture; le barriere fisiche erano ritenute un dono divino, un elemento esistente da sempre, così come predestinati a rimanere separati erano i popoli che vivevano al di qua e al di là di esso. La linea dei Pirenei venne a lungo considerata come l’esempio migliore di tale concetto, così come gli Urali vennero ritenuti l’elemento di separazione tra i popoli orientali e l’Europa e le acque del Mediterraneo una fascia posta tra la cristianità e l’islam. Così il confine tra l’Impero Ottomano e la Repubblica di Venezia non venne segnato solo dalla mano dell’uomo, ma dove fu possibile si ricorse anche alla natura stessa. Il torrente Tiskovac, affluente del Cetina, presso Stermiza, per esempio, venne riconosciuto nel 1720 come il limite per uno spazio percorribile in cinque ore. Così se tra gli Asburgo e gli ottomani esisteva, dopo il 1699, nella zona presso la riva sinistra dell’Una un ‘confine secco’ (suha meda), ciò significa che in altre parti della vallata, dove effettivamente il limite correva assieme alle acque del fiume, il confine era necessariamente ‘bagnato’. Ancora nel 1542 polacchi e ottomani discussero relativamente a un tratto comune: per i primi doveva correre lungo il Kodyma, affluente destro del Boh, per gli altri lungo il fiume Savran (o Savranka) posto più a Nord.119 7. Misurare lo spazio e il tempo Abituati come siamo a ragionare in base al sistema metrico decimale, ormai diffuso a livello mondiale, appare difficile capire le difficoltà incontrate da popoli diversi per convenire sui sistemi di misurazione dello spazio. Durante le consultazioni tenute per tracciare un confine bisognava accordarsi anche su quanto si doveva tenere discosto il tracciato della linea da una fortezza e su quanto dovevano distare uno dall’altro le mete, cioè i segni posti sulla terra. Si trattava di questioni importanti in quanto attribuire più o meno terreno a una piazzaforte voleva dire renderla meno o più pericolosa, per non parlare in generale dell’ampliamento del territorio di uno stato, che andava naturalmente a discapito della parte opposta. I veneziani usavano come unità di misura lineare il piede veneto, corrispondente a 0,347 m; cinque piedi formavano un passo veneto (1,738 m) mentre sei piedi formavano una pertica grande, o cavezzo (2,086 m) e mille passi il miglio veneto (1.738,674 m). Per 118 119 I libri Commemoriali, XXXIII, n. 13 all. (regesto); cfr. anche il testo originale in ASVe, Comm., reg. 33, c. 57; Mustac, The Borders, pp. 63-71. Sui monti nel precedente confine del 1750, cfr. Zoccoletto, Il congresso di Mauthen, p. 140. Documenti turchi, n. 1851; Roksandic, Stojan Jankovic, p. 240; Kolodziejczyk, OttomanPolish Diplomatic Relations, pp. 58-59. 52 quanto riguarda invece gli ottomani, esistevano misure di lunghezza propriamente dette e quelle “di cammino”. Tra le prime la base era l’arşın, che si può tradurre con picco o cubito, ma che assumeva valenze diverse a seconda di chi lo utilizzava; vi era cioè il mi’mar arşını, usato dagli architetti per mura o terreni da costruzione, del valore di 0,758 m, con il suo multiplo il kulaç, pari a 1,89 m e i sottomultipli, kadem cioè piede (0,379 m), parmak cioè pollice (0,03159 m), hat cioè linea (0,0026 m) e nokta cioè punto (0,0002 m); vi era poi il çuhacı arşını cioè l’arşın del drappiere, usato per le stoffe, pari a 0,68 m suddiviso in rub (0,085 m) e per i drappi di maggior valore l’enzade, leggermente più corto (0,65 m). Tra le misure geografiche vi erano invece il mil (miglio) pari a 1.895 m, il fersah (5.685 m), il berid (22.740 m), corrispondente concettualmente alla distanza tra due luoghi di sosta per la posta (berid), e il merhale (45.480 m), cioè il viaggio che si poteva compiere in un giorno, mentre il mili bahri (miglio marino) era pari a 1.667 m.120 Data la complessità dei modi di misurare lo spazio, si capisce come spesso sorgessero delle difficoltà per accordarsi con precisione. Alle volte si sceglievano misure lineari, e allora occorreva rapportare quelle usate in uno stato a quelle dell’altro; ma si poteva anche scegliere di basarsi sullo spazio percorribile in un determinato tempo, di solito sulla base dell’ora. Dopo l’invenzione degli orologi meccanici misurare il tempo divenne più facilmente quantificabile anche se la lunghezza del giorno e della notte continuò ufficialmente per lungo tempo a variare a seconda della stagione e così, conseguentemente, la misura delle ore. In una giornata di mezza estate cioè, il giorno, calcolato dall’alba al tramonto, era molto più lungo della notte e così le ore, sempre dodici, in cui era suddiviso, si allungavano in proporzione mentre quelle notturne si accorciavano di conseguenza; d’inverno invece il rapporto si invertiva e solo nel periodo degli equinozi le ore, sia di giorno che di notte, avevano la medesima durata. Tale sistema era più facilmente applicabile da popolazioni che vivevano ancora a contatto con la natura. Una volta deciso però di accordarsi su un cammino della durata di una o più ore, occorreva anche stabilire se a percorrerlo doveva essere un uomo o un animale e, in quest’ultimo caso, di che genere di bestia si trattasse; i passi di un cammello sono diversi sia da quelli di un cavallo che di un mulo o di un asino, e questi da quelli di un uomo. Particolarmente chiara, per illustrare le modalità di come venisse materialmente tracciato un confine di questo tipo, è la descrizione che è stata fatta dello stabilimento di un breve tratto presso il Triplice confine nel 1699. Il 20 giugno di quell’anno i commissari veneto, imperiale e i due ottomani cominciarono il loro lavoro discutendo che genere di passi si volessero applicare, se quelli di un uomo, di un cavallo o di un cammello; fecero anche delle prove con i loro orologi, rendendosi ben presto conto che ciascuno segnava in 120 Martini, Manuale di metrologia, p. 817; Système des mesures, pp. 3-9; İnalcık, Weights and Mesures, pp. 987-994; İnalcık, Introduction to Ottoman metrology, pp. 311-348. 53 modo diverso lo spazio di un’ora. Più semplice sembrò invece ragionare sulle misure lineari: per il momento un braccio turco venne calcolato corrispondere a mezzo passo veneto meno un quarto, per cui 1330 braccia turche corrispondevano a 598 passi geometrici veneti. Il 30 agosto, dopo aver già segnato il punto dove i tre stati si sarebbero dovuti toccare, si ricominciò a discutere sullo spazio che si doveva assegnare alle varie piazzeforti e fu deciso, per maggiore chiarezza, di stabilire praticamente il corrispettivo tra un quarto d’ora percorso a cavallo e i passi geometrici. Si fecero dunque delle prove: alla presenza delle due delegazioni il cartografo Giust’Emilio Alberghetti cominciò a procedere a cavallo, un turco si incamminò «con passo assai ridicolo» mentre il commissario imperiale, conte Marsili, stabilì con il suo orologio la durata di un quarto d’ora, «più qualche minuto per cortesia»; nello stesso tempo il suo collega Giovanni Grimani procedette a misurare il terreno con l’asta, sigillata con sigillo dello stato, rappresentante la misura ufficiale di un passo veneto. Alla fine della prova un quarto d’ora si vide corrispondere a 1.057 passi e questa fu la misura utilizzata in seguito per stabilire la linea semicircolare che doveva correre attorno alle piazzeforti.121 8. Incontri di commissari Le carte dei commissari veneti incaricati di stabilire i confini dopo la pace di Karlowitz e quella di Passarowitz, cioè Giovanni Grimani e Alvise III Mocenigo forniscono alcune informazioni su quella che fu la vita nei mesi passati fianco a fianco con le delegazioni ottomane per stabilire la linea di confine tra la terra di San Marco e quella del sultano. Al di là degli incontri diplomatici e del lavoro attuato sul campo per misurare, costruire mete, attribuire posti di guardia o campi coltivati a questa o quella parte, si ebbero anche momenti più piacevoli e rilassati, quando si facevano visite di cortesia o ci si scambiavano doni o favori. Lavorare insieme per tanti mesi, incontrarsi quasi tutti i giorni, anche discutere e litigare, poteva portare a conoscersi meglio e anche in certi casi a fraternizzare.122 Ecco dunque gli scambi di doni: olio e acqua di cannella, magari appena arrivati da Venezia, arance e limoni, stoffe, pani di zucchero, confetture, formaggio grana, allora chiamato piacentino, orologi, pesce e persino vino, con grande stupore dei veneziani per quest’ultima richiesta. Da parte ottomana si potevano consegnare staffe smaltate di produzione locale o stivali, fazzoletti o fucili, come quelli donati dal pascià di Erzegovina a Mocenigo, oppure ancora ventagli, abiti, brucia-profumo, tabacco e pipe, marmellata di rose, coppe da sorbetti, pettini, ambra e aloe. La familiarità che si veniva a creare poteva dare luogo a inviti a festeggiamenti personali, come le nozze del commissario Mehmed 121 122 ASVe, PTM, filza 701, nn. 19, 38. ASVe, Grimani, b. 8, n. 39 (diario di G. Grimani); Documenti turchi, nn. 1651-1862; Pedani, The Ottoman-Venetian Frontier, p. 175. Su un caso iberico cfr. Szászdi León-Borja, La demarcación, p. 194-196, 199-201. 54 efendi, cui il commissario veneto venne invitato: non vi andò di persona ma inviò un suo rappresentante con uno specchio e alcune confetture per gli sposi. Altre volte si cercò di sfruttare tali conoscenze per ottenere le cure di un medico forse più esperto del proprio, ma aggregato alla spedizione dell’altro stato; oppure la liberazione di qualche schiavo, come fece il Mocenigo per un certo Pellegrini consegnato in cambio di alcuni schiavi ottomani. Al contrario all’inizio della loro conoscenza Osman ağa cercò di ottenere la liberazione di alcuni prigionieri da Giovanni Grimani che però riuscì a evitare di dare una risposta concreta al riguardo. Avere un medico disponibile per ogni eventualità era in molti casi importante in quanto vari erano gli accidenti che potevano capitare: l’8 luglio 1699, per esempio, Grimani fu colpito a una gamba da un calcio di cavallo e passò alcuni giorni dolorante nella sua tenda, mentre il seguente 15 agosto gente proveniente dalla cittadina di Zuonigrad, contesa dagli imperiali ai veneziani, attaccò uno dei due campi ottomani, rubò cavalli e ferì alcuni uomini: raffreddori e flussioni poi erano all’ordine del giorno.123 I commissari incaricati dei confini, fossero essi veneti, imperiali o ottomani, non si presentavano certo soli per portare a termine il loro lavoro. Il loro seguito era spesso molto numeroso. Per esempio nel 1699 Osman ağa, un antico ağa dei silihdar del sultano, aveva con sé 100 fanti, 100 cavalieri, 180 servi, 70 zappatori e 100 membri del seguito destinati alla sua persona; tra questi vi erano un kadı, un defterdar, un miralem, un alaybeyi, cinque vecchi esperti del paese e un interprete. Giovanni Grimani, invece, aveva un seguito di oltre cinquecento uomini, cioè 100 cavalieri, 100 fanti, 250 persone che si dovevano occupare dei cavalli e del bagaglio e 100 membri del seguito più ristretto di cui facevano parte anche un segretario, due o tre interpreti, a seconda dei momenti, un cartografo, sei trombettieri e due medici. Le voci dell’epoca informano infine che il commissario imperiale, conte Luigi Ferdinando Marsili, raggiunse il luogo dell’incontro addirittura con quattromila persone.124 9. Il triplice confine Quando si pensa a un confine si immagina di solito una lunga linea che divide due stati. Alle volte però vi sono dei luoghi dove gli stati che si incontrano sono tre, se non addirittura quattro. Se possono dunque sorgere problemi quando solamente due entità statali sono interessate allo stabilimento di un confine, ancora più difficile può essere decidere dove sia il punto di un triplice confine. Il modo in cui venne deciso quello venetoimperiale-ottomano nel 1699, e come venne poi contestato, può essere considerato un modello esemplare. In questi ultimi anni vari storici hanno affrontato questo tema. La dissoluzione della Yugoslavia, con la susseguente nascita di nuove entità statali bisognose 123 124 ASVe, PTM, filza 701, nn. 8all., 11-12, 28; Documenti turchi, nn. 1662, 1669, 1723, 17251726, 1731, 1736-37, 1739-42, 1744, 1754-1757, 1762, 1766-69, 1771, 1773, 1776-77, 1780, 1784-5, 1788, 1800, 1821, 1831, 1838-9, 1853. ASVe, PTM, filza 701, n. 12. 55 di richiami storici per una loro più corretta identificazione, ha fatto nascere un interesse diffuso, anche con diverse implicazioni politiche, per il tema dei confini e in particolare per il Triplex Confinium, come venne chiamato quello dove Impero, Venezia e la Porta si incontravano. Ciò che interessa notare in questa recente produzione storiografica è che le fonti documentarie usate dai vari autori, pur relative al medesimo tema, sono diverse e complementari. Vi è chi si si basa su documenti conservati all’Archivio di Stato di Zara, pur proponendo un punto di vista essenzialmente raguseo;125 chi indaga il problema da un punto di vista strettamente cartografico basandosi sulle mappe conservate soprattutto a Zagabria,126 chi studia invece le carte dello Steiermärkisches Landesarchiv di Graz e ricorda quindi soprattutto le considerazioni degli imperiali,127 come pure fa chi si concentra sulle carte italiane del commissario Luigi Ferdinando Marsili,128 chi prende in esame le fonti veneziane e quanto pensarono i rappresentanti della Repubblica di San Marco,129 e chi infine utilizza solo i documenti ottomani.130 Per quanto riguarda la nozione di triplice confine il suo significato può variare a seconda dell’angolatura da cui si parte: può essere cioè un punto e precisamente, per il confine veneto-asburgico-ottomano del 1699, la cima Debelo Brdo, o Velico Brdo, sul monte Medveda Glavica, ma può essere anche, in senso più lato, una intera zona, che condivide i medesimi problemi, per esempio quella estesa tra Zara, Segna, Knin e Bihac, le città più importanti tra gli stati confinanti. Per quanto riguarda la regione eurasiatica vi furono, secondo Alfred J. Rieber,131 almeno cinque zone simili: oltre a quella appena citata, la Transilvania dove asburgo, ungheresi e ottomani si incontrarono, la steppa pontica confine polacco-russo-ottomano, il “nodo caucasico” punto di contatto tra Russia, la Porta e l’Iran, e quindi nell’Asia più interna il confine russo-cinese e dei khan mongoli. Il medesimo autore nota anche parecchie similarità soprattutto tra il primo confine, la steppa pontica e la parte caucasica, piuttosto che con le altre due zone identificate, e traccia anche un parallelo tra la società cosacca e quella uscocca. Anche per stabilire questi limiti occorsero accordi di pace e incontri di diplomatici; per esempio nel 1724 il triplice confine del Caucaso venne convenuto tra l’Impero Ottomano e la Russia presso il Caspio, poco distante da Baku, non sulla cima di un monte come nei Balcani ma alla confluenza di due 125 126 127 128 129 130 131 Tolomeo, La repubblica di Ragusa, pp. 305-323. Slukan, Cartographic Sources. Cfr. anche il catalogo di mostra sulla pace di Karlowitz, Like Mira. Holjevac, The “Triplex Confinium”, pp. 117-140. Marsili, Relazioni dei confini; Nouzille, Histoire de frontiers, pp. 98-105. Pedani, The Ottoman-Venetian Frontier, pp. 171-177. Abou-El-Haj, Ottoman Diplomacy, pp. 498-512; Abou-El-Haj, Ottoman Attitudes, pp. 131137; Abou-El-Haj,The Formal Closure, pp. 467-475. Rieber, Triplex Confinium in Comparative Context, pp. 17-18, 23-27. 56 fiumi, il Kura e l’Arasse.132 La situazione nella zona rimase comunque molto fluida con avanzate da parte persiana, con i russi alle volte chiamati, come nel 1770, a difesa di popolazioni cristiane, per non parlare poi di ribellioni locali, come quella guidata da Mansur Ušurma, ossia Giovanni Battista Boetti, un frate italiano convertitosi all’islam e fondatore di un nuovo credo universalista e mistico, basato più sul Corano che sul Vangelo.133 Nei Balcani, nella zona di incontro dell’Impero Asburgico, di quello Ottomano e della Repubblica di Venezia la gente del luogo, suddita dell’uno o dell’altro stato, non trovò, almeno fino al Settecento inoltrato, un vero limite invalicabile nel confine statale. Ogni anno i pastori usavano scendere a valle l’autunno, per raggiungere la costa; in primavera invece seguivano il percorso inverso per giungere fino ai verdi pascoli estivi posti tra i monti. In questa zona, di continua contesa, la presenza di questa transumanza arrivò a influenzare anche la reale linea confinaria tra gli stati. Per spiegare come ciò accadde occorre rifarsi a quell’agosto del 1699 e all’incontro presso la località di Otton tra i commissari Giovanni Grimani, Osman ağa, İbrahim efendi e Luigi Ferdinando Marsili. Quest’ultimo, dopo una discussione durata circa due ore, improvvisamente «spiccata una corsa» si diresse verso tre piccole collinette allora allora mostrate da Osman ağa indicando che quello era il luogo perfetto per il Triplice Confine; allora «col geto de sassi e col sbaro della gente di Cesare s’alzò masiera gettando tutti un sasso», mentre i quattro commissari si abbracciavano l’un l’altro. La presenza di una vasta documentazione dell’episodio, veneziana, ottomana e asburgica, consente di ricostruire anche i maneggi più nascosti che portarono a quella corsa. Un consiglio segreto si era tenuto la sera prima tra Marsili e i rappresentanti della Porta e si era così deciso di porre in quel luogo il Triplice; in tal modo l’Impero avrebbe allargato il proprio territorio a scapito di Venezia, conservando oltre a Zuonigrad, strappata ai veneziani indebitamente dopo la sottoscrizione della pace, anche il territorio fino alla fortezza di Otton, mentre la parte ottomana avrebbe acquistato la fertile pianura di Plavno e Stermizza.134 Preso in contropiede Giovanni Grimani cedette alla pressione psicologica del momento ma subito dopo, rendendosi conto che gli era stata forzata la mano, si rifiutò di sottoscrivere alcunché. Una decisione solo verbale non era valida se non confermata da un testo scritto, firmato, sigillato. Dopo qualche giorno, mentre il commissario veneto non prendeva alcuna decisione affermando di dover aspettare ordini in proposito da Venezia, vi fu un piccolo scontro tra gli uomini dei commissari e alcuni morlacchi (valacchi). Secondo 132 133 134 ASVe, SDC, filza 177, cc. 550-553, con disegno (copia veneziana di un originale ottomano usato per lo stabilimento del confine). Sambonet, Il profeta armato, pp. 76, 78, 154-175. ASVe, Grimani, b. 8, n. 39 (12 ago. 1699); PTM, f. 701, n. 34; Marsili, Relazioni di confini, pp. 146, 149. 57 Grimani era una scaramuccia creata ad arte per farlo decidere e quindi sciogliere la riunione. Bisognava infatti partire poiché la situazione si faceva sempre più tesa. Così lasciò la località di Popine e si avviò con Osman ağa per continuare lungo tutta la Dalmazia la confinazione. Il problema del luogo dove doveva sorgere il triplice confine rimase però insoluto. Per i veneziani Debelo Brdo era inaccettabile, per cui non sottoscrissero mai quell’accordo; per gli imperiali e gli ottomani, invece, riconoscerlo significava attribuirsi un tratto strategicamente importante di territorio. In questo modo, mantenendo sia gli uni che gli altri le proprie posizioni, si lasciò il problema irrisolto: Zuonigrad rimase agli imperiali, la cittadina di Plavno agli ottomani e la fortezza di Otton con il suo territorio compresa la cima Debelo Brdo ai veneziani. Tale situazione si mantenne invariata anche dopo la pace di Passarowitz. Nel frattempo, poiché pur non esistendo un confine politico occorreva per le necessità pratiche che vi fosse una qualche delimitazione, si continuò ad usare, fino alla sparizione della Repubblica di Venezia dalla scena internazionale, la linea detta dalla gente del luogo ‘confine dei pastori’ perché utilizzata per gli spostamenti delle mandrie tra i pascoli estivi e quelli invernali.135 Al di là delle convenzioni tra stati in questo caso il confine venne definito da chi usava passarlo abitualmente. 135 ASVe, SDC, reg. 35, cc. 144-145; Netto, I confini, pp. 137-153. 58 IV VIVERE SUL CONFINE 1. Una società di confine Da un punto di vista sociale e di fruizione del territorio una zona di confine era diversa da qualsiasi altra. Innanzi tutto l’incertezza politica era maggiore: non solo la guerra ma anche un rinnovo degli accordi di pace poteva portare a una riattribuzione delle terre a uno o all’altro stato. Le popolazioni, specie se erano in gioco anche motivi religiosi, molto spesso seguivano queste variazioni, spostandosi quindi anch’esse. Era proprio in tali zone che venivano reclutati più che altrove soldati o compagnie di mercenari. Venezia, per esempio, sfruttò abilmente i possibili sentimenti anti-ottomani di quanti abitavano lungo la Dalmazia, basando la sua politica in quei luoghi soprattutto in una ricerca di alleanze con la popolazione locale e assoldando numerosi serbi o morlacchi. Gli ottomani ebbero negli akıncı un elemento di forza soprattutto per la loro avanzata nei Balcani. Da parte loro gli Asburgo crearono il Militärgrenze zona dove la popolazione maschile era formata potenzialmente da combattenti. In particolare, secondo vari studiosi, la struttura dei capitanati asburgici, ereditati dagli antichi stati medioevali di ungheresi, slavoni e croati, venne ripresa nei capitanati ottomani, via via che la Porta conquistava territori nei Balcani. Quello di Gradiška venne creato nel 1537, quello di Krupa nel 1565, quello di Bihac nel 1592. In entrambi gli stati si trattava di centri militari di soldati professionali, sia fanti che cavalieri, di origine locale; la maggior differenza fu che in Bosnia erano ereditari, al contrario che nell’Impero. Inoltre, mentre in quest’ultimo cominciarono a diminuire gradatamente nel corso del Settecento, quelli ottomani si mantennero più a lungo e ancora nel 1829 nell’eyalet di Bosnia erano trentanove.136 Una zona montagnosa situata a ridosso di una costa più fertile appare già come un ambiente particolare. Se poi in tale territorio corre anche una linea di divisione tra stati, questo può influenzare non solo le abitudini di chi vi abita, ma l’ambiente naturale. Mirela Slukan, studiando a fondo la zona del Triplex Confinium, ha dimostrato come qui una società dedita alla pastorizia e transumanza abbia mantenuto più a lungo che altrove le 136 Roksandic, Stojan Jankovic, p. 242; Moačanin, Some observations, pp. 241-246. 59 proprie abitudini, trasformandosi solo in parte e molto lentamente in una società agricola; l’incertezza sul possesso della terra, assieme alla paura di possibili devastanti guerre, non favoriva certo il radicarsi in determinate aree.137 Ciò avvenne solo quando si creò una situazione di maggior sicurezza, aiutata anche da un intervento diretto dell’amministrazione statale in favore dell’agricoltura, come nel caso sia degli Asburgo che anche dei veneziani. Fu soprattutto l’introduzione della patata, promossa nel Militärgrenze alla fine del Settecento, che contribuì a trasformare in stanziale la popolazione seminomade. Anche la localizzazione e la struttura dei villaggi fu diversa nella parte asburgica e in quella ottomana. In quest’ultima le case apparivano concentrarsi in piccoli agglomerati familiari (zadruga, famiglia estesa), per esempio il villaggio di Klenovac consisteva in nove case riunite in sei gruppi situate sul fianco di una montagna tra pascoli, foresta e terre, ma senza una strada nel vero senso della parola che lo collegasse al resto del paese. Quando però i paesi ottomani cominciarono a passare dalla parte dell’Impero, anche la loro struttura cominciò a cambiare, con le case che si concentravano soprattutto lungo le vie commerciali. Nella zona dalmata la transumanza venne invece influenzata anche dalla geografia del luogo; il clima di una costa secca, in possesso di Venezia, era adatto alla permanenza invernale degli armenti, mentre le montagne, pur imperiali e soprattutto ottomane, erano più umide e adatte a pascoli estivi. Sulle montagne inoltre si andava a fare legna per i fabbisogni sia della costa che dell’entroterra. Proprio questo sfruttamento intenso del territorio attuato soprattutto prima dell’accordo sul triplice confine del 1699 contribuì a creare in tale zona delle aree nude e improduttive dalla parte veneziana e a ridurre di molto le foreste della Lika. I pastori, sudditi dell’uno o dell’altro stato, non trovarono, almeno fino al Settecento inoltrato, un vero limite invalicabile nel confine statale. Ogni anno si effettuava a primavera il passaggio verso l’interno e in autunno viceversa si andava verso la costa. Ciò avvenne in particolare anche nella zona di Otton, Plavno, Stermizza, non lontano dalla cima Debelo Brdo, dove insisteva ufficialmente il Triplice Confine. Come già visto, in tale territorio la presenza di pastori ebbe un particolare riflesso sullo stabilimento del confine. 2. I commerci La società di una zona di confine partecipa di solito di due culture, due modi di vivere, di parlare, di essere. Anche in Dalmazia, o nell’Egeo, dove territori veneziani e ottomani, cristiani e musulmani, erano limitrofi la gente di solito scambiava prodotti, faceva affari insieme, e in generale si parlava. Anche un fiume o le asperità montane non potevano creare, spesso, un confine che si definisce a “saracinesca”, quasi impenetrabile, diffuso oggi 137 Slukan, Cartographic Sources, pp. 72-75. 60 e dovuto soprattutto ai progressi tecnici, ma più difficile da creare nell’età moderna e, ancor più, nel periodo precedente. I documenti testimonianti i rapporti tra la Repubblica di Venezia e l’Impero Ottomano raccontano dunque di scambi commerciali effettuati tra gente che abitava in tali zone, di fiere frequentate da mercanti cristiani e musulmani. Per esempio nel 1527 il provveditore a Zante inviò alcuni suoi uomini ad acquistare cavalli alle fiere del sangiaccato di Morea; nella stessa zona, nel 1537, alcuni mercanti veneti vennero assaliti e derubati di 500-600 ducati veneziani; nel 1533 un mercante veneto venne assalito e ucciso da una banda di malfattori di un vicino villaggio mentre si recava al famoso e rinomato mercato di Podgoriza; nel 1533 voivoda e subaşı della terra di Dulcigno cercarono di impedire ai sudditi del sultano, frapponendo loro mille ostacoli, di recarsi a commerciare nella veneziana Scutari; nel 1559 Fabrizio Salvaresa pensò di creare uno scalo dove vendere ai veneti la legna che turchi e veneti usavano tagliare nei boschi disabitati posti tra la località di Obrovazzo e quella di Karin, facenti parte delle tenute imperiali al di là del fiume Kerka nel sangiaccato di Clissa. Naturalmente i documenti raccontano solo di vicende straordinarie, di furti o uccisioni, più raro è trovare ricordi di scambi svoltisi in completa tranquillità. Restano tracce di mercanti che approfittarono del loro stato di stranieri per farsi consegnare della merce e subito dopo rifugiarsi in patria per non pagarla, come avvenne nel 1527 per del grano tra Modone, Castel Tornese e la veneta Zante. Nel caso dunque fossero sorte contestazioni, un suddito ottomano poteva citare in giudizio un commerciante veneto presso il tribunale della località, anche estera, dove questo si trovava; solo nel caso fosse stato ancora nel “custodito Impero” allora avrebbe potuto chiamarlo a rispondere localmente o presso la Porta. Dal canto loro, i mercanti veneti furono alle volte espressamente protetti da name-i hümayun indirizzati alle autorità periferiche, ed emessi su esplicita richiesta del bailo.138 I prodotti che lo stato veneziano scambiava con l’Impero Ottomano non erano solo quelli trasportanti dalle mude, dopo un lungo viaggio in mare, fino a Istanbul o ai porti del litorale siriano, né fu questa l’unica via per cui i prodotti ottomani giunsero a Venezia. Altri ne arrivarono direttamente dai Balcani, soprattutto bestiame, o dalla Morea, come frumento, olio e uva passa. Con la seconda metà del Cinquecento poi, a causa dei pirati uscocchi e dei corsari barbareschi che infestavano l’Adriatico e il bacino del Mediterraneo, si cominciò a preferire i viaggi via terra da Istanbul alla costa adriatica. Se questo fu vero soprattutto per i rappresentanti diplomatici, tuttavia valse anche per le merci, non più ricercate dai veneziani in lontane contrade, ma sempre più spesso acquistate alle fiere ottomane poco oltre la Dalmazia. Vi furono poi anche mercanti ottomani che raggiunsero il 138 ASVe, LST, filza II, c. 126; BOA, MM, reg. 6004, c. 17; Documenti turchi, nn. 217-218, 231, 302-303, 392, 751, 753, 755. Sulle motivazioni che spinsero a creare poi il porto di Spalato, cfr. Paci, Spalato, pp. 45-70. 61 territorio veneto per vendervi le proprie mercanzie. La via di terra attraverso i Balcani venne dunque privilegiata, e il tragitto via mare si ridusse a quello dai porti dalmati e albanesi alla capitale lagunare. Si ha notizia che in questa zona fu spesso imbarcato anche del bestiame, che doveva poi essere rivenduto a Venezia, mentre altro ne giungeva da nord, per via di terra. Quando però si verificava una carestia nei territori ottomani, allora anche l’esportazione subiva dei rallentamenti, come accadde per esempio nel 1566 nella zona di Clissa, quando l’esportazione di buoi e vettovaglie venne completamente interrotta per far fronte alle necessità della popolazione locale. Da notare come le necessità della navigazione incrementarono anche un commercio costiero: bastava che una nave sparasse un colpo di cannone perchè dai villaggi dell’immediato entroterra si precipitassero i contadini portando derrate e animali da vendere.139 All’uscita da un territorio, fosse esso veneziano o ottomano, tutte le merci dovevano pagare una tassa, che equivaleva a una licenza di esportazione, come affermò il sultano in un name-i hümayun del 1569 relativo a un commercio di armi; un suo suddito stava per imbarcare a Venezia proprio un carico del genere, e vi aveva già pagato la dogana, quando le autorità veneziane lo avevano bloccate considerandolo merce proibita per l’esportazione in territorio ottomano, per cui nacque un lungo contenzioso tra i due stati. Nell’Impero i dazi erano raccolti da emin che ne avevano di solito acquistato l’appalto, sborsando all’erario imperiale una tassa per il berat di nomina, oltre a una somma annuale; di solito il documento aveva validità per tre anni, e poi doveva essere rinnovato. Questi funzionari erano alle volte turchi, spesso ebrei, ma alcune volte portavano nomi cristiani. Il dazio sul sale turco venduto nei porti veneziani, come Spalato, Traù, Sebenico, Zara o Cattaro, era riscosso da emin che spesso, anche se non sempre, chiesero e ottennero di risiedere in quelle località, o almeno nelle sue immediate vicinanze, in modo da poter controllare il traffico; altri potevano stabilirsi in zone più lontane, per esempio nel 1531 l’emin di Narenta e Makarska che controllava il commercio con Spalato e Traù, si recava frequentemente in queste due città, con l’assistenza delle autorità veneziane, per riscuotere dazi e pedaggi. Nel caso un emin che operava in uno scalo veneto non avesse pagato il denaro dell’appalto al sultano, allora veniva ricercato dalla giustizia del suo paese, anche se si trovava nell’altro stato; trattandosi di denaro del fisco, era infatti possibile ottenere giustizia anche fuori della giurisdizione locale, come afferma nel 1561 Haydar, sangiacco di Erzegovina. Qualche volta gli appaltatori si facevano una concorrenza feroce, abbassando la percentuale loro dovuta, pur di invogliare i mercanti a vendere in questo o in quel porto veneto; se poi, come accadde per esempio nel 1591 per le località di Sebenico, Spalato, Zara e Traù, il sultano appaltava la riscossione a una stessa persona, allora le 139 ASVe, LST, filza II, c. 175; BOA, MD, reg. 23, c. 47; Documenti turchi, nn. 722, 990. Sul commercio di uva passa, cfr. Fusaro, Uva passa; Tucci, L’alimentazione, p. 601. 62 tariffe tornavano a salire con grande disappunto, soprattutto dei veneti. In base alle capitolazioni, la tassa sul sale e sulle altre merci era per i veneti del 5%: si trovano comunque testimonianze di mercanti che affermarono di essere stati costretti a pagare di più, fino al 12% e, in un caso clamoroso, fino al 150%. I sudditi della Serenissima non dovevano in teoria pagare altri balzelli, anche se qualche volta vennero costretti a subire altre imposizioni, da cui furono in genere, dopo varie proteste presentate al sultano, esentati. Per esempio in Morea nel 1536-37 furono sottoposti all’ağırlık e intorno al 1599, in vari scali ottomani, furono costretti a pagare sul bestiame il kassab akçesi, come i mercanti locali. Simili contrasti con gli emin continuarono anche nel secolo seguente.140 Negli scali veneti non si trovavano però solo mercanti sudditi della Serenissima ma anche quelli dell’Impero Ottomano; spesso si trattava di ebrei, ma vi erano anche i musulmani; in Dalmazia erano soprattutto di provenienza balcanica, cioè di Bosnia, d’Erzegovina o d’Albania; nelle isole elleniche invece arrivavano soprattutto greci dell’entroterra. Era un commercio sia locale che internazionale quello che spingeva, per esempio, gente di Santa Maura, Arta o Gianina a commerciare a Cefalonia o Corfù, o quelli della Morea o di Anatolico o Angelocastro a recarsi a Cefalonia o Zante. Di certo, viste le poche miglia di mare che separavano lo stato vicino, queste persone conoscevano i luoghi, la lingua, i mercanti e come soddisfare le richieste locali. Nonostante ciò, era sempre uno stato straniero quello in cui si recavano, con una giustizia diversa, altre leggi e altri giudici; per questo proprio in tali località si riscontra un istituto particolare, sorto per necessità locali, a protezione dei mercanti del Gran Signore, quello di un console veneto incaricato della tutela dei sudditi ottomani. Il primo che venne creato fu a Corfù nel 1598 su richiesta ottomana; poi ve ne furono a Cefalonia, Nauplia e a Zante, mentre a Spalato e Zante ve ne furono anche per gli ebrei sudditi ottomani; alla fine del Settecento ne esisteva ancora uno a Zante che si occupava non dei soli mercanti della vicina Morea, bensì di tutti i sudditi ottomani che capitavano in quelle acque.141 Accanto alle esportazioni regolari vi erano anche i contrabbandi: sia negli scali marittimi che lungo i confini vi era chi era pronto a sfidare i rigori della giustizia per non pagare dazi e pedaggi, o per esportare illegalmente merce proibita. Dall’Impero era proibito esportare soprattutto polvere da sparo, piombo, cuoio di manzo conciato, frumento, rame, tela da vele, armi, cera, cavalli, pece, sego, come dice una lista del 1589. Alle volte anche i veneziani furono coinvolti in tali commerci illegali, come dimostrano alcuni ordini 140 141 ASVe, LST, filza II, c. 78, 280; filza V, cc. 212, 213; BOA, MM, reg. 6004, cc. 17 (Morea ed Eubea), 41 (Spalato); Documenti turchi, nn. 223, 226, 241, 243, 253, 258, 280, 347, 384, 395, 526, 537, 557, 571, 572. ASVe, Mercanzia, 1ª s., b. 600, fasc. «T. Condulmer» (14 gen. 1793); 2ª s., b. 44; SM, filza 218 (12 lug. 1618); filza 430 (25 ott. 1650); filza 677 (30 ott. 1688); filza 752 (9 gen. 1700); filza 878 (3 mag. 1721). 63 imperiali di metà Seicento. Dal Veneto uscivano nel Cinquecento, sia per via di terra che per mare, moltissime armi, come affermava nel 1560 nella sua relazione il bailo Marino Cavalli, che diceva essere triste vedere i sudditi di San Marco uccisi con quanto da loro stessi prodotto. Vi era poi il problema rappresentato dalle merci uscite da porti musulmani e dirette ad Ancona, sulle quali molte volte in mare i veneziani pretesero con la forza il pagamento del pedaggio in quanto consideravano l’Adriatico come il loro Golfo. 142 3. Sconfinamenti e violenze Non si viveva sempre tranquilli in una zona di confine, soprattutto quando questo divideva uno stato cristiano da uno musulmano. Le liti potevano assumere facilmente anche una valenza religiosa. Come dicono sinteticamente gli storici, le guerre di solito si fanno o per fame o per religione e se, nel primo caso, quando finalmente non si ha più fame, non vi è più motivo di combattere, nel secondo, porre fine ai combattimenti è molto più problematico perché bisogna influire sulla mentalità della gente. A questo si aggiungeva la possibilità di riparare facilmente in un territorio diverso, con altre leggi, dove l’estradizione non era automatica, ma si poteva ottenere solo dopo un fitto scambio di missive con le autorità locali. Inoltre chi si convertiva, da una parte e dall’altra, poteva sperare di godere di particolari privilegi. Comunque non sempre quanto stabilito da chi governava nelle lontane capitali era poi applicato puntualmente. Infine le guerre lasciavano spesso uno strascico di odi, di desideri di vendetta e rivalsa che solo anni e anni di pace potevano in qualche modo sopire. Parlare in generale di una società di confine non è sempre facile: occorrerebbe tener continuamente presente il momento politico e le guerre appena concluse e si noterebbe allora che gli episodi di violenza furono molto più diffusi in tali periodi che non in altri, quando ormai ci si era assuefatti a un treno di vita più quieto. Tra i più antichi documenti ottomani conservati a Venezia ve ne sono alcuni che trattano di alcuni malfattori e fuggiaschi che, nei dintorni di Lepanto negli anni immediatamente successivi al conflitto tra Venezia e la Porta terminato nel 1479, lasciavano le terre ottomane per quelle venete e quindi tornavano indietro a distruggere e danneggiare lo stato che avevano abbandonato; viceversa negli stessi anni vi era anche gente che, pur continuando a risiedere nel “custodito Impero”, passava nello stato vicino per compiervi misfatti e rapine. Tra il 1479 e il 1481 non tutte le fortezze in Dalmazia, Albania e Grecia, che avrebbero dovuto garantire la sicurezza del territorio, erano state già attribuite a un legittimo possessore oppure erano state distrutte, come prevedevano di solito gli accordi di pace; esse rappresentavano, anziché una difesa per gli abitanti, un possibile ricettacolo di sbandati. L’attenzione dei governanti, poi, era posta nella conservazione non 142 ASVe, Bailo, b. 250, reg. 330, cc. 5a-b; b. 252, reg. 343, c. 37; LST, filza II, c. 111; BOA, MD, reg. 90, cc. 43-44; Documenti turchi, n. 683; Le relazioni, III/1, p. 293; Faroqhi, Die Osmanische Handelspolitik, pp. 207-222; Ágoston, Merces prohibitae, pp. 177-192. 64 solo del territorio ma anche di chi vi abitava: una terra priva di contadini che la coltivassero e, con la loro sola presenza, la proteggessero, era facile preda di usurpazioni da parte di chi viveva oltre il confine; in una tale situazione questi fatti potevano facilmente risolversi anche in una diminuzione del territorio di uno stato. Ecco quindi Bayezid II che nel 1487 chiedeva al doge che i suoi sudditi cristiani, fuggiti o in fuga verso territori veneti, venissero a lui restituiti o respinti al confine.143 Oltre a chi fuggiva per motivi politici o religiosi, vi era però anche chi utilizzava una situazione di incertezza per commettere più facilmente furti e rapine: grano, cavalli, bestiame e prodotti ortofrutticoli erano di solito gli obiettivi. Gli episodi ricordati dai documenti sono numerosi, equamente distribuiti in tutte le epoche e lungo tutto il confine veneto-ottomano. Vale forse la pena di ricordare un episodio particolare, avvenuto nel 1527, quando le autorità di Castel Tornese e Arcadia si lamentarono con il provveditore a Zante per numerosi furti di cavalli commessi da abitanti dell’isola. Nello stesso anno più complesso fu il caso di un impostore che aveva finto di farsi monaco alla Vlacherna, in territorio ottomano, promettendo di donare tutto ciò che aveva al monastero; poi invece, una volta ottenuto la fiducia dei religiosi, aveva venduto i beni del cenobio e si era rifugiato a Zante; per questo fatto il cadì e i maggiorenti di Castel Tornese protestarono vivamente con le autorità veneziane. Molto spesso la quantità di notizie che abbiamo su furti e abigeati dipende, oltre che dalla loro concentrazione in un determinato tempo e territorio, anche dall’importanza delle persone danneggiate: come scrisse al doge nel 1577 Piero Francesco Malipiero, governatore delle galee dei condannati, dopo che alcuni veneti avevano danneggiato delle saline a Bastia, nulla era stato fatto contro le proprietà degli emin del luogo altrimenti questi, secondo il loro solito, avrebbero già strepitato.144 Un tipo particolare di furto che si poteva commettere in una zona di confine riguardava anche l’acqua, così vitale un tempo come oggi. L’importanza dei fiumi era ben conosciuta dai veneziani. Pur nella scarsità di documentazione a proposito di furti di acque, comunque, non stupisce quindi che siano stati proprio dei veneti, gli abitanti di Vonizza, a tagliare gli argini del fiume Berdas, che correva anche in territorio ottomano nel sangiaccato di Karlı Eli, deviando le sue acque affinché scorressero solo nel loro territorio. In tal modo però resero aridi i campi ottomani e misero a secco i mulini dei vicini. Ciò avvenne non solo nel 1722, per cui si rese necessario un ricorso alla Porta, ma poi ancora circa vent’anni dopo, a testimonianza che l’acqua di quel fiume era di estrema importanza per le popolazioni che abitavano quella zona.145 Vi era poi anche il problema rappresentato da popolazioni non stanziali, che migrando potevano arrivare fino al confine di uno stato: per esempio nel 1528 varie 143 144 145 Documenti turchi, nn. 10, 14, 35. Documenti turchi, nn. 225, 227-230, 310, 373, 378, 387, 541. ASVe, Bailo, b. 254, reg. 350, cc. 295-297; b. 258, reg. 359, cc. 325-328. 65 questioni sorsero nei pressi di Sebenico e Traù proprio a causa di gruppi nomadi di valacchi che, passando di terra in terra, distruggevano oliveti, vigne e campi e catturavano gli abitanti per venderli come schiavi. Altre bande di malfattori si fingevano turchi nelle terra della Serenissima e veneti in quelle della Porta in modo da indirizzare verso un falso obiettivo chi cercava di ottenere giustizia: fu quello che capitò per esempio nel 1523 con un gruppo di ungheresi; i veneti dicevano che i turchi avevano assalito i loro villaggi, ma accusavano gli ungheresi di aver rubato 15.000 pecore appartenenti al gran visir; questi, assieme a suo fratello che all’epoca dei fatti era sangiacco d’Erzegovina, accusavano invece gli ungheresi di aver assalito i villaggi della Repubblica, pur ritenendo i veneti responsabili dell’abigeato.146 Trattenere i soldati posti a guardia di un territorio in una lunga e forzata inattività non era sempre facile. Non si potevano sguarnire le piazzaforti, ma al tempo stesso alle volte erano proprio i militari che causavano disordini oppure si organizzavano in bande anche di notevoli dimensioni e terrorizzavano la popolazione. Nel 1523, e poi ancora nel 1530, per esempio, Süleyman I ordinò ai sangiacchi di Bosnia e di Erzegovina di controllare martolos, azeb, akıncı, subaşı e sipahi che terrorizzavano il territorio veneto; nel 1532 vi furono altre scorrerie provenienti dall’Erzegovina; nel 1533 alcuni hisar eri di Castelnuovo commisero ruberie nella veneta Cattaro e poi divisero il bottino con il dizdar della loro fortezza, che li proteggeva; in un secondo tempo, sempre a Cattaro, dopo essersi ubriacati, assalirono con le spade sguainate il provveditore della fortezza. Nello stesso periodo quelli di Risano attaccavano uomini, terre, navi e fortezze, impedendo i commerci per terra e per mare. Nel 1536 malviventi di Clissa erano sostenuti e aiutati dai vicini castelli veneti, mentre dalla costa ottomana si facevano incursioni in quel di Cattaro, attaccata ancora, assieme a Budua, da militari delle fortezze ottomane. In seguito, nel 1545, dopo la guerra, furono i veneti a danneggiare la zona di Clissa, come lamentava il sangiacco Mehmed al doge: sosteneva di essere riuscito a porre freno ai suoi sudditi che, sotto il suo predecessore Veli, usavano rapire fanciulli veneti, e quindi pretendeva che le autorità venete facessero altrettanto impedendo ai loro soggetti di compiere azioni riprovevoli.147 Alle volte però erano proprio piccole autorità locali che organizzavano proprie bande, distruggendo, rubando e ostacolando i commerci. Per esempio nel 1534 il voivoda del Montenegro, Hamza, dipendente da Scutari, usava devastare vigne e frutteti presso Budua, tanto da costringere la gente a chiudersi nella fortezza; arrivò con i suoi uomini anche a Cattaro, dove minacciò i maggiorenti veneziani e bloccò le vie d’accesso alla città. Pochi mesi prima della guerra, nel 1537, un altro voivoda dipendente da Scutari (o forse lo 146 147 ASVe, LST, filza I, cc. 1, 27 (trad. in Documenti turchi, n. 198); filza II, c. 14; filza III, cc. 179, 184. ASVe, LST, filza I, cc. 6, 8; filza II, c. 17; Documenti turchi, nn. 251, 285. 66 stesso, non è possibile accertarlo) con una banda di circa trenta o quaranta cavalieri e vari fanti assalì non solo villaggi ma anche soldati veneti presso le loro fortezze, uccidendone alcuni, catturando e facendo schiavi gli altri. Subito dopo la guerra in quel di Zara alcuni voivoda ottomani usavano rubare in vigne e orti posti in territorio veneto. Alle volte erano gli stessi sangiacchi che proteggevano i loro subordinati, quando non li spingevano a compiere tali azioni. Il sangiacco di Bosnia, Ulama bey, nel 1545 assecondò Deli Mehmed quando questi cominciò a saccheggiare ripetutamente quarantanove villaggi del territorio di Zara contesi tra veneziani e ottomani: la speranza era che gli abitanti, pur di porre fine alle aggressioni, si dichiarassero sudditi ottomani. I veneziani non sembrano aver agito diversamente e l’anno dopo furono i turchi a lamentare rapine, sconfinamenti e anche trasferimenti coatti di popolazione dal loro territorio a quello veneto; contemporaneamente l’emin Ferhad si dava da fare nella stessa zona per fare schiavi i sudditi di San Marco. La guerra era ufficialmente finita ormai da sei anni, ma evidentemente gli animi non si erano ancora placati e l’incertezza della linea di confine contribuiva a riscaldarli. Così venne anche ordinato al sangiacco di Clissa di risiedere per qualche tempo presso le fortezze di Karin, Nadin e Vrana, per impedire gli sconfinamenti. Venticinque anni dopo si ha notizia di altre bande attive nella zona: nel 1581, con la connivenza del sangiacco di Lika e Kerka, Mehmed, un kapudan turco mosse da Karin con fanti, cavalieri e bandiere spiegate (sancak açup, come dice il documento), per attaccare la fortezza di Novigrad presso Zara; l’anno dopo due compagnie di cavalieri vennero inviate a distruggere i villaggi di Gruzi e Malpaga nel contado di Zara: fecero 57 prigionieri, uccisero 12 persone, razziarono 520 buoi, 1250 pecore e 20 cavalli e se qualcuno ricominciava ad arare i campi ricomparivano per spezzare gli aratri. Vari anni dopo, nel 1599, si ha notizia di altri attacchi al territorio veneto da parte del dizdar di una fortezza presso Almissa.148 Un’ultima notazione riguarda lo scoppio delle ostilità. Non appena nasceva un conflitto tra Venezia e l’Impero allora anche chi non rientrava nei ranghi di alcun corpo poteva trovare l’occasione per razziare i beni posti al di là del confine. Nulla era dunque più al sicuro. Anche la semplice voce di un simile grave avvenimento, in una società dove le notizie passavano di bocca in bocca, ma non vi era la possibilità di accedere immediatamente a fonti dirette per una conferma o una smentita, poteva determinare episodi di rivalsa. Per questo, per esempio, nel 1591, di fronte all’ipotesi che la grande flotta appena costituita fosse diretta contro la Serenissima, il sultano inviò una smentita ufficiale in proposito a tutti i suoi funzionari preposti a terre di confine.149 148 149 ASVe, LST, filza II, c. 5; filza IV, cc. 78-79; filza V, c. 236; Documenti turchi, nn. 329, 394, 512, 553, 600-601, 891, 910-911, 918-919. ASVe, LST, filza V, c. 34. 67 4. La terra divisa L’intervento di bande armate da governanti e signorotti locali nelle terre dello stato limitrofo aveva spesso, oltre uno scopo immediato di rapina, anche quello di rendere deserti i campi, sia per costruire una terra di nessuno posta a cuscinetto tra le due comunità, sia per preparare il terreno a prossime possibili silenziose usurpazioni. Come si è visto, la risistemazione dei confini con commissari inviati da entrambi i sovrani avvenne non solo dopo una guerra, quando effettivamente la linea di demarcazione tra i due stati andava ritoccata in seguito alle nuove conquiste, ma anche quando una situazione di incertezza andava trascinandosi da anni, rendendo instabile e insicuro il territorio. Uomini e terra erano ugualmente desiderabili, così per esempio nel 1503 il sangiacco di Morea, Ali, senza far conto della pace appena giurata, fece bruciare le messi coltivate nello stato ottomano da sudditi veneti che abitavano appena oltre il confine; l’anno seguente invitò i provveditori di Nauplia a non permettere che i loro sudditi si recassero a lavorare oltre i confini, il che avrebbe significato abbandonare la loro fonte di sostentamento; pur di rimanere in possesso della terra senza subire ulteriori danni molti avrebbero certo preferito riconoscersi sudditi della Porta. Nel 1528 invece l’emin di Ponticò inviò un suo uomo a Zante per riscuotere la decima dagli abitanti dell’isola che avevano terreni nella sua circoscrizione. Nel 1524 e nel 1525 fu lo stesso ambasciatore veneziano a Istanbul a pagare 150 ducati dovuti come decima ad Ayas pascià per delle vigne situate nel kaza di Argo in Morea, presso la veneta Nauplia. Nel 1532 vi furono poi contestazioni dovute al fatto che i contadini veneti dovevano passare il confine ogni volta che volevano macinare il loro grano, poiché i loro mulini si trovavano in Bosnia. Quattro anni prima gente veneta di Sebenico era stata addirittura attaccata, derubata e fatta prigioniera da sudditi ottomani di Scardona perché si recava ai propri mulini posti nello stato vicino. Alle volte comunque era solo la quantità di biada o di boschi del vicino entroterra a far gola ai veneti che vivevano lungo la costa: nel 1576 nella zona di Zara si ebbero incidenti proprio perché questi si recavano in terra ottomana per falciare erba o tagliar legna.150 Gli esempi trovati riguardano soprattutto veneti che si recavano a coltivare campi posti in territorio ottomano; meno diffusa sembra essere stata la pratica opposta, anche se nel 1481 Mehmed II scriveva che era consentito ai suoi sudditi di possedere e utilizzare beni posti in territorio veneziano. Da un firmano al sangiacco di Erzegovina del 1529 a proposito della zona di Poglizza, invece, sembra quasi di capire che non fosse lecito in quell’epoca per un suddito del Gran Signore possedere terre nello stato vicino. In effetti, quando veniva evacuato un territorio che era stato della Porta, il primo ordine riguardava l’allontamento degli abitanti per i quali veniva trovata un’altra sistemazione sempre in terre 150 ASVe, LST, filza I, c. 1; Documenti turchi, nn. 158, 202, 235, 273-274, 286, 865. 68 del “custodito Impero”: così avvenne per esempio nel 1531 ai confini di Bosnia e poi ancora nel 1558 per dei paesi, riconosciuti veneti, posti presso Sebenico, e lo stesso accadde l’anno successivo vicino a Traù, anche se allora i valacchi che abitavano tre di questi villaggi si rifiutarono di abbandonarli, assoggettandosi a pagare alla camera fiscale di Traù per terratici e regalie 1/5 o 1/6 delle biade e, al tempo stabilito, regalie di castrati, agnelli, capretti e legna. Un secolo dopo gli abitanti di uno di questi villaggi, fiuhodol, pagavano ancora la decima alla famiglia Fasaneo di Lesina, proprietaria delle terre da loro coltivate, e, contemporaneamente, l’haraç al fisco ottomano. Nella zona di Parga invece intorno al 1579 gli abitanti di un villaggio preferirono trasferirsi in massa in territorio ottomano per evitare di essere soggetti a una doppia tassazione. Nel 1623 fu il sultano stesso ad ordinare di non esigere l’haraç dagli abitanti di alcuni villaggi veneti presso Cattaro, come invece era antico uso. Quanto succedeva sul confine veneto-ottomano non era dissimile da quanto poteva accadere altrove. Per esempio in Ungheria le cittadine (mezövárosok) di Nagykörös, Kecskemét e Cegléd, ottenuta una certa autonomia amministrativa dai feudatari ungheresi, la mantennero poi sotto la nuova dominazione, ma nello stesso tempo si sottomisero al pagamento delle tasse a chi ne aveva diritto sia da parte asburgica che da parte ottomana. Le alterne vicende di una zona di confine potevano infatti spingere gli abitanti, pur di vivere in tranquillità, ad assoggettarsi a due padroni: alcuni valacchi abitanti nella zona di Traù cercarono a un certo punto di non pagare più le tasse ai veneziani, sostenendo che il sangiacco di Clissa li aveva esonerati, ma poi dopo una serie di contestazioni pagarono, in parte volontariamente, in parte obbligati per vie legali. Nel 1591, invece, secondo una lettera di Hasan, beylerbeyi di Bosnia, ben 10.000 case di sudditi ottomani pagavano haraç agli infedeli uscocchi e veneziani. La Serenissima non sembra essere stata altrettanto fiscale in questa materia, o per spirito di libertà, oppure perché costretta dalle circostanze: dopo tutto è facile allontanare qualche centinaio di persone, più difficile è rendere disabitata un’ampia superficie di territorio o zone densamente popolate. Per esempio, prima di consegnare Nauplia nel 1540 i veneziani si portarono via gli armamenti, ma venne previsto che alcuni abitanti rimanessero; per questo Süleyman I ordinò ai suoi funzionari di non molestare chi avesse deciso di restare, di esentarlo da varie tasse, di rispettare preti, frati e chiese, e di non costringere alcuno a convertirsi all’islam con la forza. In quegli stessi anni il sultano ordinava al sangiacco di Erzegovina e ai cadì di Scutari e del Montenegro di richiedere i tributi dovuti ai veneziani che coltivavano le terre del sultano.151 151 ASVe, LST, filza I, cc. 8, 60, 65; filza II, cc. 24-25; filza IV, cc. 29-38 (fasc. relativo ai valacchi della zona di Traù); filza V, c. 4; SDC, reg. 5, cc. 142v e segg.; BOA, MM, reg. 6004, c. 143; Fabris Il dottor Girolamo Fasaneo, pp. 116-117; Documenti turchi, nn. 21, 490, 740, 746, 749; Beyerle, The Compromise at Zsitvatorok, p. 27; Veinstein, Les provinces balkaniques, p. 292. 69 Se un bene, dunque, posto in uno stato, apparteneva a un suddito dello stato vicino, contestazioni e ripicche erano a portata di mano. La situazione non era migliore se questo accadeva non con piccoli proprietari, che magari avevano visto il loro unico campo diviso in due dalla linea confinaria, ma anche con grossi proprietari terrieri; era questa anzi la situazione più diffusa e allora i contadini, per vivere in pace, erano costretti a pagare decime ai due sovrani. Per risolvere il sorgere di simili contestazioni si ha notizia, per esempio, che nel XV secolo tra la Repubblica di Venezia e gli Asburgo vennero segnate due linee di confine, una che divideva effettivamente i due stati, l’altra che correva secondo il limitare dei vari appezzamenti di terreno in modo che i contadini o chi li possedeva non fosse costretto a pagare le tasse all’uno e all’altro sovrano.152 Niente di simile venne però creato tra la Serenissima e la Porta, e questo diede luogo a un’infinità di contestazioni. Vi furono però dei territori dove, in determinati periodi ebbe vigore, almeno in teoria, una sorta di doppia sovranità; si trattava delle due isole di Cipro e Zante, che nominalmente la Porta considerava parte del suo Impero ma che, viceversa, per i veneziani erano esclusivamente terra di San Marco. Tuttavia finché ebbe il possesso di tali zone la Repubblica pagò per esse un tributo al sultano. Zante, già appartenente alla famiglia Tocco di Cefalonia, nel 1479 venne conquistata da Gedik Ahmed pascià; l’anno successivo passò nuovamente, assieme a Cefalonia, ad Antonio Tocco, che però dovette cedere le due isole nel 1482 e 1483 ai veneziani. Nel 1485 questi cedettero nuovamente la seconda agli ottomani ma trattennero la prima in cambio di una pensione di 500 ducati annui; gli accordi del 1573 aumentarono poi la contribuzione a 1.500 ducati, cifra che fu mantenuta fino al trattato di Karlowitz nel 1699 quando vennero sospesi i pagamenti. Per quanto riguarda Cipro, invece, nel 1427, re Giano di Lusignano aveva accettato di pagare un tributo annuo ai mamelucchi per poter riottenere la libertà e lasciare il Cairo dove era trattenuto come prigioniero; quando Venezia subentrò a quella dinastia (1489) accettò anche gli oneri connessi alla sovranità sull’isola e continuò a pagare all’Egitto 8.000 ducati in panni di seta, la stessa cifra che il Senato corrispose alla rinunciataria Caterina Cornaro finché visse. Nel 1517 Selim I conquistò il regno mamelucco e incamerò anche i diritti relativi, per cui i veneziani, con gli accordi di pace del 21 şaban 923/8 settembre 1517, trasferirono alla Porta il versamento annuale, convertito ora in moneta sonante. Tale pagamento continuò sino alla vigilia della guerra, scoppiata nel 1571, che portò alla conquista ottomana dell’isola. Se per Zante nelle paci si indica solo che devono essere versati al tesoro imperiale dei ducati, per Cipro invece, sin dall’accordo del 1517 e poi nei successivi, si parla 152 Adami, I magistrati ai confini, p. VI. 70 esplicitamente di haraç pagato dai veneziani, evidentemente con tutte le implicazioni che tale termine comportava dal punto di vista del diritto islamico. 5. Gentilezze di confine Per chi vive sul confine molto spesso il vicino è un conoscente e in qualche caso un amico. Anche le autorità locali usavano scambiarsi gentilezze e doni. Sembra quasi che sangiacchi e cadì siano stati in proporzione più munifici del loro signore verso i rappresentanti veneziani. Pochi e di poco valore furono i regali inviati al doge dal sultano nel Cinquecento, un secolo che vide una nutrita schiera di rappresentanti diplomatici ottomani raggiungere le lagune. Al contrario i sangiacchi che si succedettero in Bosnia inviarono al doge oggetti costosi: per esempio nel 1522 due cavalli, nel 1587 alcuni tappeti e nel 1591 un guanto ricamato da falconiere, un arco con delle frecce e un altro tappeto; altri due cavalli vennero mandati nel 1551 dal beylerbeyi di Buda. Così tra il provveditore a Zante, il sangiacco di Morea e i cadì di Castel Tornese e d’Arcadia vi furono scambi di doni: se nel 1552 il primo inviò un falco, animale molto apprezzato dai turchi, il sangiacco rispose con montoni e capi di bestiame; altri falchi vennero recapitati nel 1525 al cadì d’Arcadia. Le visite effettuate periodicamente dalle autorità ottomane nei distretti di confine furono un’altra occasione di contatto; spesso i provveditori veneziani, saputo dell’arrivo del collega, usarono inviare uomini e cortesie; questa fu l’occasione per qualche sangiacco di scrivere lettere di ringraziamento per i pişkeş (dono dato a un superiore) loro offerti, come fece nel 1577 Mehmed, sangiacco di Scutari d’Albania.153 Assieme ai regali ci si scambiavano anche messi con lettere di cortesia, come quella inviata nel 1592 da Hasan, beylerbeyi di Bosnia, al provveditore generale da Mar, Almorò Tiepolo: oltre ad esprimere la propria intenzione di voler rispettare gli accordi e assicurare di adoperarsi in ogni modo contro i malfattori che turbavano le buone relazioni, il beylerbeyi si impegnò a impedire che i suoi sottoposti molestassero la terra veneta e promise il rispetto degli antichi confini e l’assistenza con vettovaglie e munizioni. Questo funzionario ottomano sembra aver tenuto molto alle buone relazioni con le autorità veneziane, se scrisse anche al conte e ai signori di Zara lodando il loro comportamento contro gli uscocchi, usando parole di amicizia e chiedendo loro di lasciare che i mercanti si recassero liberamente a commerciare in Bosnia, nella zona di Banjaluka, dove sarebbero stati ben trattati con grande vantaggio sia loro sia della controparte musulmana.154 Capitava poi che vi fossero anche intrecci di parentele, non tanto con i nobili veneziani inviati come provveditori o ufficiali, le cui famiglie non potevano facilmente 153 154 Sanudo, I diarii, XXXIII, col. 440; ASVe, EP, reg. 7, cc. 153-154v; reg. 9, cc. 157-157v; Documenti turchi, nn. 210, 219-221, 248-249, 705; ASVe, LST, filza II, cc. 32-33, 101-102; filza III, c. 173. ASVe, LST, filza V, cc. 111, 148. 71 imparentarsi al di fuori di una stretta cerchia stabilita dalle leggi della Serenissima, quanto tra gli abitanti locali, sudditi dell’uno e dell’altro signore. Nel 1527 l’emin di Ponticò era parente per matrimonio di un abitante di Zante. Il reclutamento poi della classe dirigente ottomana tramite il devşirme, la leva dei ragazzi, o comunque per mezzo di rapimenti di fanciulli, facilitava l’esistenza di simili legami di sangue. Non sempre chi veniva strappato bambino al focolare domestico dimenticava parenti e amici: esempi famosi furono Ahmed Hersekoğlu, cioè Stjepan Vukčic-Kosače figlio del duca di San Sava, che anche nel patronimico (Hersek, cioè Erzegovina) volle mantenere il ricordo della sua origine, e Sokollu Mehmed pascià che come gran visir protesse da Istanbul i suoi parenti. Altri legami vi furono sicuramente, meno famosi, ma non per questo passarono del tutto nell’oblio. Nel 1550 il beylerbeyi di Buda chiedeva a Venezia delle prebende, già godute da suo zio abate, per il cugino don Antonio di Sebenico. Nel 1564 Mehmed, sangiacco di Clissa, scriveva al doge di ricercare quei nobili veneti, collaterali di un suo parente, un certo Stefano, che, abbandonata la casa e la fede, si era fatto turco ed era divenuto poi sangiacco di Erzegovina. Nel 1574 Ali, sangiacco di Ocrida, raccomandava al doge un suo parente, Vincenzo Diva, che aveva legami di sangue anche con il potente odabaşı del sultano. Anche i pirati uscocchi ebbero alle volte simili relazioni con i turchi, di cui furono pur sempre conosciuti come feroci nemici: nel 1590 il capo di Segna, Yuri, aveva come zio Hüseyin, voivoda di Zemonico, che era amicissimo di İbrahim bey, sangiacco di Lika; nel 1599 il sangiacco di Kerka, Halil, inviò invece un suo uomo a Segna, per dare l’avvio a contatti più amichevoli, affidandogli grano e cavalli da donare ai capi degli uscocchi.155 155 ASVe, LST, filza II, cc. 32-33, 161; filza Bailo, b. 250, reg. 330, c. 14. III, 72 c. 44; filza V, c. 237; Documenti turchi, n. 222; V CONFINI DI MARE 1. Il Golfo: un mare interno Nel 1727 il bailo Francesco Gritti, di ritorno da Istanbul, parlò a lungo al Senato dell’Impero Ottomano e dei suoi rapporti con la Repubblica.156 Il suo discorso cominciò con la seguente considerazione: Il continuo e lungo confine di terra e di mare con li suoi stati, il commercio con le di lei scale, più che altrove necessario, le dispute frequenti, le molte et attrocissime guerre, sono circostanze che portano la Serenissima Repubblica ad avere ad essa quella più vicina relazione per cui si è acquistata il merito e la gloria… e terminò ricordando: Nell’umiliare alle sovrane sapientissime considerazioni dell’eccellenze vostre questi riveritissimi riflessi diretti a prevenire li disordini più frequenti, e più facili a insorgere, credo non essermi distolto dall’assunto necessario di esaminare l’interesse della Serenissima Patria con sì grande Imperio, cui la divina Provvidenza l’ha voluta confinante per lungo tratto di terra e di mare. La Repubblica di Venezia, il cui territorio si estendeva dall’Italia settentrionale all’Egeo, confinava con l’Impero Ottomano non solo per un lungo tratto di terra ma anche sulle acque, in quel mare interno che è il Mediterraneo. Braudel ha sottolineato come non si tratti in effetti di un’unica distesa bensì di vari mari, uniti da stretti più o meno ampi. Questa affermazione non può non far pensare a un concetto espresso da uno storico ben più antico, ibn Haldūn, che nella sua Muqaddima affermò che il Mediterraneo, che nasce attraverso lo stretto tra Tangeri e Taifa dal ‘Mare che circonda’, si suddivide a nord in due altre entità: il Mar Nero e il Golfo di Venezia.157 Ibn Haldūn dunque rappresenta il pensiero dei dotti musulmani del XIV secolo, per i quali il ‘Golfo di Venezia’ era un’entità particolare, diversa dalla distesa liquida da cui scaturiva, un mare interno che emergeva dal territorio bizantino nella sua parte settentrionale e si estendeva dalla terra dei veneziani a quella di Aquileia. Da un punto di 156 157 Relazioni inedite, pp. 885, 947. Braudel, Civiltà e imperi, I, p. 102; Ibn Khaldūn, Muqaddimah, I, pp. 98-99. 73 vista di geografia politica questa descrizione risente di idee già vecchie ai suoi tempi, ereditate da precedenti studiosi, quando ancora i bizantini imperavano sulle spiagge adriatiche, e non vagliate e controllate per adattarle a una situazione ormai notevolmente mutata. Anche per al-Idrīsī, che scrisse nel XII secolo già esisteva un ğūn al-banādiqa. Da notare che la prima menzione del termine ‘Golfo di Venezia’ non è in latino né in italiano, ma proprio in arabo: prima del 1000, quando un documento veneziano citava ancora un Mare Adriaces, il nome romano derivato dalla città di Adria, il viaggiatore e geografo ibn Ḥawqal, nel suo Ṣūrat al-ard parlava già di un ğūn al-Banādiqīn.158 Nel XIV secolo, quando gli ottomani giunsero in contatto con Venezia, questa città affermava ormai il proprio dominio sul «Golfo», un’entità che, dapprima ristretta alla zona tra il Po e Aquileia, si era quindi allargata fino all’asse Zara-Ancona, per arrivare poi a una linea immaginaria che collegava Otranto a Valona e quindi, al massimo della sua estensione, la punta di Santa Maria di Leuca, sulla costa italiana, all’isola di Corfù. Da notare comunque che nei primissimi anni del Quattrocento il capitano generale Carlo Zeno era arrivato a definire «chaxa nostra» anche le acque del Peloponneso meridionale. La Porta non mise in dubbio il diritto veneziano sul Golfo, se non quando la Serenissima si mostrò incapace, tra Cinque e Seicento, di difendere i sudditi ottomani che vi si avventuravano. Al contrario uno studio condotto sulle capitolazioni veneto-ottomane dimostra che il sultano già dal 1419 volle esercitare sul Mar di Marmara lo stesso tipo di dominio che Venezia imponeva sull’Adriatico. Ancora più efficace fu poi il controllo esercitato dagli ottomani sul Mar Nero, dopo che tutte le sue coste erano cadute in potere della Porta.159 Durante il Medioevo altri stati italiani si comportarono come Venezia: Genova voleva avere diritti sul Golfo Ligure, alcune città toscane sul Tirreno e il papato sulle acque costiere del Lazio. Comunque furono città e stati europei, e non islamici, che si opposero al dominio esercitato da Venezia sulle acque, in base al diritto romano e alla legislazione giustinianea per cui il mare sarebbe comune a tutti e da tutti ugualmente fruibile. Nei tempi antichi Roma infatti aveva esteso il proprio impero su tutte le sue rive ed era quindi arrivata a dimenticare nelle sue leggi gli accordi più remoti stipulati con Cartagine, che prevedevano una divisione delle acque del mare tra stati diversi.160 Accogliendo l’antica legislazione romana nello ius commune, la maggior parte dei paesi europei accolse dunque a partire dal Duecento l’idea che il mare fosse un bene comune. Venezia però, da parte sua, 158 159 160 Edrisi, Libro di Re Ruggero, (testo arabo) pp. 78-79; Documenti relativi alla storia di Venezia, pp. 58-60 n. 37 (944); Nallino, Venezia in antichi scrittori arabi, pp. 111-120. Altri autori antichi citavano un baḥr, ğun, o halīğ al-Banādiqa. Tenenti, Il senso del mare, pp. 48-50; Pedani, Gulf of Venice. Vismara, Il diritto del mare, pp. 439-474; Cessi, La Repubblica di Venezia, pp.45-70, 115168, 208-217, 233-242; Camera, La polemica, pp. 251-282; Sassi, La politica navale, pp. 99200; Stefani, Carlo VI, pp. 148-224. 74 pose sempre in primo piano un proprio diritto, stabilito nei propri consilia e scritto nei propri statuti, rifiutando in generale di adeguarsi al diritto romano e a quanto veniva insegnato nelle università, e difendendo quindi il proprio dominio sul Golfo. Solo un po’ alla volta, di fronte a situazioni nuove, si cercarono, nell’Europa nutrita di diritto romano, soluzioni diverse. Per esempio nel 1479 nel trattato di Alcáçovas tra Castiglia e Portogallo si citano dei «términos» nell’Oceano che si andava allora occupando e scoprendo, mentre il susseguente trattato, firmato a Tordesillas nel 1494, è chiamato della «partición del Mar Oceano»; probabilmente, come dice Ádám Szászdi Nagy, all’inizio si trattava solo della creazione di zone di influenza, inseribili all’interno dei parametri del diritto romano, ma queste vennero poi a trasformarsi in un impero territoriale emisferico, tanto da far affermare ai sovrani Ferdinando e Isabella «Mar Océano, que es Nuestro, que comienza por una raya o línea que Nos habemos fechos marcar (...) por manera que todo lo que es allende de la dicha línea al Occidente es Nuestro e Nos pertenece».161 Tali affermazioni di principio non impedirono però ai sovrani di Spagna di opporsi, ancora nel Seicento, al dominio veneto sull’Adriatico proprio in nome del diritto romano e della libertà dei mari. Fu invece proprio in questo secolo che alcuni giuristi arrivarono a postulare, anche da un punto di vista teorico, una giurisdizione marittima sulle acque che uno stato riusciva a controllare, sia impedendovi la navigazione altrui sia raccogliendovi imposte. 2. Una barriera nel mare Un recente volume di Khalilieh dimostra, sulla base di documenti commerciali, accordi internazionali e controversie giuridiche, come da un punto di vista islamico si distinguesse, sin da tempi remoti, tra alto mare, zone costiere e acque interne. Se l’alto mare sfuggiva necessariamente alla sovranità del califfo, lungo la costa un’autorità locale poteva esercitare determinati diritti mentre le acque di fiumi e laghi ricadevano direttamente sotto il controllo dello stato. David Santillana afferma che il mare è, secondo vari dotti musulmani, fay’, cioè acquisto fatto dall’erario in via pacifica.162 Gli stessi usi relativi ai funerali in mare, con il 161 162 Szászdi Nagy, La partición del Mar Océano, p. 62. Khalilieh, Islamic Maritime Law, pp. 133-148; Santillana, Istituzioni, 1, pp. 318-319 («Sono fuori commercio, perché incapaci di appropriazione da parte dei singoli, e quindi naturalmente concesse a tutti… l’acqua, dono gratuito di Dio, cioè il mare libero e le acque dei grandi fiumi… le acque correnti di fiumi e riviere»); pp. 373-374 («Ma la giurisprudenza ha trovato modo… di limitare tale regola. L’acqua è bensì comune, e non può essere venale. Ma se taluno raccoglie dell’acqua in un vaso o in un recinto chiuso, l’acqua così raccolta diventa sua per occupazione e, trovandosi nella sua custodia… cessa di esser comune… Per estensione, lo stesso ragionamento si applica alle acque che si trovano entro i limiti di un fondo, anche se si tratti di acqua corrente»); pp. 382-383 («servitù legali… rispetto alle acque…»); p. 406 («I musulmani hanno in comune tre cose: l’acqua, il fuoco ed il foraggio»); pp. 409-410 («ciò che viene rigettato dal mare… se non portano traccia di lavoro umano, sono 75 cadavere appesantito da pietre perché venisse trascinato sul fondo, se si era presso un paese infedele, oppure abbandonato in una cassa alle correnti quando si navigava presso il territorio islamico, possono far pensare che i concetti di dār al-ḥarb e dār al-islām si applicassero anche alle acque, o almeno a parte di esse. L’esistenza di acque appartenenti a uno stato non appare dunque estranea al pensiero islamico, così come l’idea dell’esistenza di un limite posto sull’acqua, ancorché difficile da concettualizzarsi. Infatti su quattro versetti del Corano che parlano di mare, tre parlano anche di una barriera posta da Dio tra le acque dolci e quelle salmastre:163 È Lui che ha lasciato scorrer liberi i due mari, questo dolce fresco, quello salmastro amaro, e ha posto tra di loro una barriera, un insormontabile limite. (25, 53) Colui che ha reso ferma la terra, e che v’ha posto frammezzo scorrenti fiumi, e sopra monti solidi, e che ha diviso d’una barriera i due mari, potrebbe mai esservi accanto a Lui, Dio, un altro Dio? Eppure i più fra loro non sanno! (27, 61) E non sono uguali i due mari, questo dall’acqua potabile, dolce, piacevole a bersi, e quello salato amaro. Ma e dall’uno e dall’altro mangiate carne fresca e ricavate ornamenti che indossate, e vi vedi le navi fendere l’onde alla ricerca di favori da Lui, di che forse sarete grati. (35, 12) Il Signore dei due Occidenti, il Signore dei due Orienti - Qual dunque dei benefici del Signore voi negherete? Lasciò liberi i due mari a che si incontrassero - e v’è una barriera frammezzo che non possono passare - Qual dunque dei benefici del Signore voi negherete? Ne escono perle e coralli - Qual dunque dei benefici del Signore voi negherete? E Sue son le navi che corrono, corrono alte sul mare come vessilli - Qual dunque dei benefici del Signore voi negherete? (55, 17-24) Da quanto esposto sembra quindi di poter affermare che nel pensiero islamico, e quindi anche in quello ottomano, non vi furono preclusioni di principio nel considerare come appartenenti a uno stato le acque di mari interni, comunicanti solo attraverso strette bocche con bacini più vasti, come appunto il Mar Nero, quello di Marmara o l’Adriatico. Così sulla porta imperiale del suo nuovo palazzo fatto costruire a Istanbul Mehmed II fece scrivere:164 Per la grazia di Dio e con la Sua approvazione le fondamenta di questo castello di buon augurio furono gettate e le sue parti solidamente unite assieme per rafforzare la pace e la tranquillità per comando del sultano dei due continenti e l’imperatore dei due mari, ombra di 163 164 res nullius… quando… portano traccia di lavoro umano: se appartengono ad un idolatra o vi sia dubbio, saranno da considerare come tesoro…; se invece appartengono a un Musulmano o ad un protetto… saranno da applicare le regole delle cose smarrite»); p. 413 («cose smarrite…»); p. 421 («rive abbandonate dal mare... al-Qarāfī riferisce la dottrina di Saḥnūn, di Aṣbaġ e di Muṭarrif, i quali ritengono che quando il mare, spostandosi, lascia scoperto un tratto di terra, questi diventi proprietà pubblica (“fay’”, cioè acquisto fatto dall’Erario in via pacifica), come già lo era il mare…»). Il Corano. Cfr. Necipoğlu, Architecture, pp. 34-36. 76 Dio su questo mondo e nel prossimo, il favorito di Dio sui due orizzonti, il monarca dell’orbe terracqueo, il conquistatore del castello di Costantinopoli, il padre della conquista, sultano Mehmed khan, figlio di sultano Murad khan, figlio di sultano Mehmed khan possa Dio rendere eterno il suo Impero ed esaltare la sua residenza su le più lucide stelle del firmamento nel benedetto mese di ramazan dell’anno 883 [nov.-dic. 1478]. Dall’acropoli della città bizantina, la nuova Istanbul, si potevano infatti scorgere i due continenti e i due mari: e la lapide rinvia a un’affermazione di dominio universale, lo stesso predetto a Osman nel suo sogno profetico nella leggenda che trovò codificazione proprio nell’epoca del Conquistatore. Ancora nell’intitulatio (unvan) dei documenti imperiali di Kanûnî Süleyman si legge: “sultano e padişah del Mar Bianco e del Mar Nero, della Rumelia, dell’Anatolia, del Karaman…”, cui i suoi successori aggiunsero il Mar Rosso; i mari erano dunque elemento fondamentale della sovranità ottomana, almeno dalla conquista della città che era stata fondata nel punto della loro congiunzione.165 Anche per quanto riguarda poi l’esistenza di limiti nelle acque del Mediterraneo non vi furono preclusioni. Nel 1403 e nel 1411 i principi Süleyman e Musa accettarono dei limiti non oltrepassabili dalle loro navi da guerra, ma allora l’inferiorità navale ottomana era evidente, tanto che ancora nel 1466, i veneziani pensavano che quaranta galee sottili sarebbero state sufficienti per contenere le navi del sultano. Già pochi anni dopo, però, l’apparire della nuova flotta ottomana sembrava aver trasformato il mare in un bosco, tanti erano gli alberi delle navi, e si cominciava a rimpiangere un vicino passato in cui gli ottomani sapevano solo fuggire davanti alle galee veneziane.166 Nel 1480 alcune acque presso l’isola di Santa Maura appartenevano per metà a Venezia e per metà al sultano. Un altro antico esempio riguarda le acque che si trovano nei pressi dell’isola di Rodi infestate, alla fine del Quattrocento, dai pirati. La tregua conclusa nel 1481 tra il gran maestro Pierre d’Aubusson e il subaşı di Peçin, e poi ribadita l’anno succesivo, previde libertà di navigazione per entrambe le flotte militari nella zona tra Sette Capi e Mileto, nel rispetto però delle coste e delle acque. Ugualmente le licenze di corsa accordate in quegli anni dai cavalieri facevano spesso riferimento a dei limiti (limites et confinia) consuetudinari, entro cui le navi ottomane dovevano essere rispettate. Secondo Nicolas Vatin, i due termini non sarebbero affatto ridondanti ma indicherebbero due zone di mare diverse, la prima situata appunto tra Sette Capi e Mileto, come appare nell’accordo del 1481, oppure tra Castellorizo e Patmo, come sembra indicato in carte posteriori, mentre la seconda era probabilmente il 165 166 Tursun Bey, Târîh-i Ebü’l-feth, pp. 66-67; Gokbilgin, Osmanlı Paleografya, pp. 57-59; Kütükoğlu, Osmanlı belgelerinin dili, pp. 148-149; Kolodziejczyk, Ottoman-Polish Diplomatic Relations, p. 285 (ve Ak Deniz ve Kara Deniz ve Derya-i Kulzumun, 1591, Murad III). Turan, Türkiye-İtalya ilişkileri, pp. 356-370; Tenenti, Il senso del mare, p. 59. 77 canale della genovese isola di Chio.167 Occorre notare come questi limiti vennero per lo più rispettati dalle navi cristiane, ben più numerose e agguerrite di quelle ottomane, anche dopo il 1495, quando le licenze di corsa si fecero sempre più numerose. In quell’anno infatti morì in Italia il principe Cem, fratello di Bayezid II, e l’Occidente perse così un prezioso scudo che per una decina d’anni lo aveva messo al riparo dall’avanzata delle truppe del sultano, troppo interessato a mantenere buoni rapporti con chi teneva il suo rivale in prigionia. Meno informati, per mancanza di documenti, siamo invece sugli attacchi ottomani, anche se si può presumere che, grazie anche al pattugliamento effettuato dalle navi dell’Ordine, i limiti stabiliti venissero per lo più rispettati, pur nei periodi di maggior attività, per esempio negli anni 1493-95, quando cominciarono a far parlare di sé importanti comandanti come Kemal reis, zio del più famoso geografo Piri reis, e poi durante la guerra veneto-ottomana del 1499-1502. 3. Il mare come territorio Quando si studia il diritto del mare un altro punto importante da prendere in esame, al di là dei bacini interni, è l’esistenza o l’ampiezza delle acque territoriali, cioè di quella zona, che sconfina poi nell’alto mare, entro cui si estende la sovranità di uno stato che domina la costa. In generale, a parte casi particolari nell’Europa nutrita di diritto romano ci vollero secoli prima di avvicinare il mare adiacente la costa al territorio dello stato e superare quindi la visione precedente secondo cui il mare sarebbe stato di tutti, oggetto eventualmente solo di imperium e non di dominium da parte delle entità politiche costiere. Occorre attendere Grozio per la teorizzazione di un tale concetto e il 1621 perché per la prima volta in tempo di pace venisse accolta la misura del tiro di cannone per definire l’ampiezza delle acque di uno stato.168 In base agli usi islamici, invece, sembra potersi affermare, come già visto, che potevano esistere, almeno nelle zone costiere, acque appartenenti a uno stato. Su tale zona le autorità locali esercitavano funzioni di controllo. Non è chiaro quale fosse però la loro estensione, anche se intorno al 1154 al-Idrīsī citava espressamente la distanza di sei miglia, come quella entro cui si poteva parlare di avanzata nemica, in quanto a portata dello sguardo della sentinella posta di guardia alla costa andalusa.169 Comunque il punto di vista di partenza fu sempre quello dei combattenti che abitavano ribāṭ di confine, che potevano essere attaccati da nemici da cui dovevano essere pronti a difendersi, non quello di uno stato pacifico che si allargava con le sue propaggini anche sul mare. Anche alcune clausole di privilegi concessi da stati islamici a stati cristiani nel Medioevo fanno pensare all’esistenza di acque considerate di pertinenza di uno stato 167 168 169 Bombaci, Il “Liber Graecus”, p. 301, n. 10; Vatin, L’ordre de Saint-Jean, pp. 115-129. Benvenuti, La frontiera marittima, pp. 16-24. Khalilieh, Islamic Maritime Law, p. 138. 78 islamico. Intorno all’anno 1200, per esempio il comandante almohade dell’esercito in Tunisi fornì un amān agli abitanti di Pisa, in cui si precisava che la protezione concessa era valida dovunque essi fossero capitati, in castelli o spiagge, sulla terra o nel mare dell’Africa propria. Simili espressioni si trovano in un altro amān emesso dal califfo ḥafṣida di Tunisi per il principe di Pisa e Lucca del 1366; invece nel 1397 il suo successore promise nell’accordo di pace che legni della sua capitale non avrebbero attaccato quelli pisani nel caso li avessero incontrati sia sulla superficie del mare che in porto, così come fu poi ribadito nel 1414 e nel 1421.170 4. Geo-politica mediterranea Dopo le prime conquiste l’avanzata ottomana nel Mediterraneo non avvenne in modo caotico ma seguì una logica sua propria, non sempre simile a quella delle conquiste terrestri. Nel periodo di formazione dell’Impero, fu soprattutto il controllo degli stretti ad apparire di vitale importanza.171 Nello stesso periodo i veneziani dominavano con le loro navi una vasta zona di mare posta tra Creta, Scarpanto, Rodi, Tenedo e Negroponte, mentre una miriade di signorie locali formavano nell’Egeo come una barriera a protezione degli stati cristiani. Fu nel 1479, alla fine di una lunga guerra, che le navi di Venezia vennero allontanate quasi completamente dall’Egeo, mentre la città di Valona, passata in mano ottomana, divenne come una vigile sentinella del sultano posta all’ingresso del Golfo.172 Poco dopo, con la sconfitta veneziana del 1503, si aprirono finalmente per gli ottomani le vie di navigazione verso il Mediterraneo occidentale.173 La presa di Rodi, nel 1522, rappresenta un ulteriore passo nella visione geo-politica che gli ottomani ebbero del Mediterraneo. Se nel 1481 già esistevano limiti consolidati che i corsari del sultano e dei Cavalieri dovevano rispettare, dopo il 1495 gli attacchi cristiani si fecero sempre più numerosi. In quell’anno morì il principe Cem e, come già detto, gli stati europei persero, assieme al loro ostaggio, anche una valida difesa contro le velleità di conquista ottomane. Le licenze di corsa rilasciate dall’Ordine si fecero sempre più numerose e si volsero, per lo più rispettando i limiti precedentemente stabiliti, verso le navi che percorrevano la rotta tra Alessandria e Istanbul. Fintanto che l’Egitto rimase terra mamelucca ciò poteva essere fastidioso per gli interessi del sultano, ma non di vitale importanza, come avvenne invece dopo il 1517: conquistato quel regno, Selim I non poteva permettere i continui attacchi su una rotta che univa la sua capitale a quella che si rivelava 170 Amari, I diplomi arabi, pp. 30, n. VII, 117, n. XXXII, 131, n. XXXIV, 146, n. XXXV, 160, n. In alcuni diplomi si sottolinea l’esistenza di paesi marittimi, situati lungo le coste, cfr. pp. 88, n. XXIX (1313), 101, n. XXX (1353). Fleet, Early Turkish Naval Activities, p. 138. Gullino, Le frontiere navali, pp. 51, 105. Hess, Ibero-African Frontier,p. 58; İnalcık, Essays in Ottoman History, pp. 415-445. XXXVI. 171 172 173 79 la più ricca provincia dell’Impero. Dall’Egitto giungeva non solo grano, ma anche denaro e ricchi doni e molti di più ne sarebbero giunti quando l’Impero si ampliò ulteriormente nel Nord-Africa. Lo stesso Selim I, grazie ai cui interessi per l’armata marittima furono possibili le susseguenti conquiste, avrebbe affermato che il Mediterraneo era un unico golfo e che sarebbe stato degno e giusto fosse appartenuto non a così tanti re e reami diversi, bensì ad un unico “stato sublime”. Non a caso, dunque, la conquista di Rodi avvenne nel 1522. In tal modo, all’inizio del suo regno, Solimano il Magnifico si liberava di un “nido di pirati” e rendeva più sicura la rotta che univa Alessandria a Istanbul, rotta sempre più vitale per lo splendore della capitale.174 Se si prende una carta geografica del Mediterraneo ove siano segnate le conquiste ottomane, ci si rende conto di come l’avanzata avvenne in primo luogo in base all’importanza degli obiettivi, non alla loro vicinanza o distanza da Istanbul, principio valido invece per le campagne sulla terraferma, come dimostrato da Rhoads Murphey. Quando si parla infatti di spazi marini bisogna per lo più rinunciare alle categorie che reggono la strategia terrestre e guardare soprattutto al tipo di navi usato, al tempo in cui possono resistere in mare senza toccare terra e alla distanza tra i luoghi dove si può sbarcare e fare rifornimento di acqua e cibo fresco. 175 Dopo le prime conquiste delle isole poste più a nord, l’avanzata del Cinquecento appare forse più legata alle necessità della navigazione propria e altrui che non a una volontà di conquistare sistematicamente tutto il Levante. D’altra parte fu questa stessa logica che sottese per vari secoli le conquiste di Venezia, uno stato conosciuto soprattutto per la sua vocazione marittima e mercantile. Nella prima metà del Cinquecento le fortunate imprese di Hayreddin Barbarossa portarono di colpo vasti territori del Nord-Africa sotto l’egida del sultano, che si trovò quindi a intromettersi su una scala mediterraneana nelle lotte tra imperi e non fu più limitato a una dimensione solo levantina. L’avanzata quindi si ebbe non solo da Est, ma anche da Sud. Alcune isole non vennero però conquistate subito. Cipro, Creta, Tenedo, Cerigo e Cerigotto non vennero toccate, mentre le navi del sultano si spingevano più a Ovest, fino al fallito assedio di Malta (1565). Era come se gli ottomani avessero tentato di divenire padroni dell’intero Mediterraneo prendendo possesso innanzi tutto delle ampie zone meno difese e accerchiando così le grandi isole, e non a caso Imber ha affermato con forza la predominanza della talassocrazia ottomana in questo mare dalla battaglia di Prevesa (1538) a Lepanto (1571):176 una volta impadronitisi di tali zone si poteva procedere alla conquista dei punti chiave, tra cui si doveva porre prima di tutto Malta, che dominava lo stretto tra la Sicilia e la costa del Maghreb; allora ci si sarebbe 174 175 176 Bostan, Osmanlı bahriye teşkilâtı, p. 4; Bellingeri, Il Golfo, p. 14 (bir halic devlet-i âliyye hükminde); Vatin, L’ordre de Saint-Jean, pp. 117-129. Murphy, Ottoman Warfare, p. XIV; Tucci, L’alimentazione, pp. 601, 604, 614. Imber, The navy, pp. 221-282. 80 potuti volgere anche indietro e conquistare con più calma ciò che era stato lasciato alle spalle, secondo una tattica che ricorda quella usata nelle campagne terrestri dai primi ottomani, e anche dai più antichi popoli che i nostri libri di storia chiamano ‘i barbari’: si attaccavano cioè le zone meno difese, trascurando le città protette da alte mura, destinate poi a capitolare una volta che tutto il circostante territorio fosse stato conquistato. Un ulteriore paragone può legare questi due mondi pur così distanti: i primi ottomani erano pochi rispetto alla vastità del territorio che avevano di fronte, così come le flotte che solcano un mare sono poca cosa di fronte all’immensità di una distesa marina. Fu forse più il fallito assedio di Malta a spingere gli ottomani a cambiare la loro strategia mediterranea, piuttosto che la morte del grande Süleyman I (1566) e l’ascesa al trono di pallidi successori. Nonostante in Nord-Africa si riuscisse infine a strappare definitivamente Tunisi agli spagnoli, la nuova geo-strategia non era più rivolta allo scontro di grandi imperi sulle acque del Mediterraneo, ma a quella guerra marginale che si combatté per anni e anni, fatta di attacchi corsari e di rappresaglie, di scontri improvvisi di navi o piccoli convogli, al di là della logica delle grandi squadre navali. La flotta ottomana stessa si disperse nei legni dei reis del Nord-Africa, mentre la galea, pur modificata in parte in base alle nuove tecniche atlantiche, era ancora la nave più diffusa nel Mediterraneo.177 Proprio l’uso continuo di questa imbarcazione, adattissima alla navigazione sottocosta e mediterranea, unito al ripetersi di attacchi pirateschi alle rotte importanti dell’Impero, spinsero gli ottomani a muoversi in una direzione diversa. La rotta più importante da prendere in considerazione era naturalmente quella che univa Alessandria a Istanbul.178 Si trattava di un percorso dedicato al commercio interno, e perciò preso scarsamente in considerazione dagli storici interessati solo alla politica internazionale. Fino a oltre la metà del Cinquecento la flotta ottomana usò offrire protezione soprattutto alle navi e ai convogli; poi si fece un passo avanti e si cercò di proteggere soprattutto la rotta in sé, come dimostra la conquista di Cipro, in una visione più ampia e generale del problema. Se le navi che trasportavano grano e pellegrini unendo l’Egitto a Istanbul erano quindi continuamente attaccate, occorreva allora togliere ai pirati i possibili ancoraggi, impedire che potessero rifornirsi in luoghi sicuri di cibo e acqua. Nello stesso tempo i militari dei porti lungo la costa avevano l’ordine di controllare che le merci giungessero a destinazione e non venissero sbarcate altrove.179 Una galea, mondo popolato da centinaia di uomini rinchiusi in uno spazio angusto, che secondo un detto marinaro prima si sentiva con il naso e poi si scorgeva all’orizzonte, doveva fermarsi possibilmente ogni giorno, o ogni due giorni, per i rifornimenti. I rematori, pur scambiandosi i turni, dovevano riposare e non 177 178 179 Bondioli-Burlet-Zysberg, Oar Mechanics, pp. 172-205; Mangio, Alcune considerazioni, pp. 117-118. Panzac, Commerce at navigation, pp. 195-216. BOA, MD, reg. 72, c. 202. 81 potevano mantenere a lungo lo stesso ritmo; solo felici disposizioni dei venti potevano permettere rotte più rapide e solo in circostanze eccezionali si poteva correre il rischio di rimanere in mare più giorni, con il pericolo di vedere esaurite le scorte di cibo e acqua mentre il vento si calmava. Le piccole isole disseminate nel Mediterraneo erano quindi punti strategici di rifornimento per le galee e portare sotto il dominio del sultano quei pochi approdi della parte orientale del bacino che ancora erano cristiani significava togliere punti di ancoraggio ai pirati e corsari cristiani, e quindi allontanare loro e le loro razzie da quelle acque in modo definitivo. Ecco quindi la necessità di conquistare Cipro e, nel secolo seguente, anche Creta, ultimo lembo importante del Dominio da Mar. 5. Il mare dopo Karlowitz e Passarowitz Nutriti di simili premesse gli ottomani non trovarono quindi ostacoli nella concettualizzazione dell’esistenza di acque territoriali e di limiti stabiliti nel mare. Infatti, allo stato attuale degli studi, non sembra che essi si siano posti il problema della loro liceità teorica, ma che le discussioni in proposito abbiano trattato solo casi concreti. Già nel 1614 era considerato antico costume rispettare determinate zone soggette ai veneziani, come ribadì il sultano in un ordine diretto al kapudanpaşa emesso alla metà della luna di rebiyülahır del 1023/21-30 maggio. Nella stessa epoca nel Mediterraneo cominciarono a essere riconosciuti dei limiti. Nel 1697, per esempio, gli stati europei, dopo varie rappresaglie contro cristiani in Terrasanta, si accordarono che i loro corsari si sarebbero tenuti lontani dall’area a ridosso della costa levantina, per cinquanta miglia; per i corsari di Malta la zona interdetta venne ampliata all’Adriatico e alla porzione di Mediteraneo posta a nord di una linea che univa lo stretto di Gibilterra alla Sicilia. Per quanto riguardava invece la Porta, un altro grande ammiraglio, ai primi della luna di rebiyülevvel del 1121 (11-30 maggio 1709) ordinò ai reis della sua flotta e ai reis d’Algeri di scortare due navi venete che erano in viaggio una volta che fossero giunte ai limiti (hudud) delle acque ottomane, anche se non è chiaro per noi dove questi fossero stati stabiliti.180 Fu soprattutto dopo la pace di Karlowitz che vi furono discussioni e accordi tra ottomani e veneziani a proposito di acque marine. Dopo quindici anni di conflitto, i rappresentanti di dogi e sultani si ritrovavano a parlare di confini. Non si trattava più, come era stato alla fine del Quattrocento, di delimitare solo tratti di territorio, per quanto lunghi, ma era ormai desiderio di entrambi gli stati di stabilire un limite continuo, che regolamentasse in modo chiaro le appartenenze dell’uno e dell’altro. Durante le lunghe discussioni che impegnarono Osman ağa con i rappresentanti della Repubblica tra il 1699 e 180 ASVe, Bailo, b. 253, reg. 346, cc. non numerate (anno 1121/1709); b. 332, reg. 250, c. 91 (seconda decade rebiyülahır 1023); Hess, Ottoman North African Provinces, p. 79. 82 il 1701 si arrivò dunque a parlare anche di acque. Nella seconda decade di rebiyülevvel 1113/16-25 agosto 1701, per esempio, un hüccet redatto dal cadì Ahmed, assieme a un temessük emesso dallo stesso Osman, riconobbero che i due commissari si erano accordati affinché, fermo restando il divieto per fregate, caicchi e feluche di corsari e fuorilegge, il tratto di mare tra la terraferma e l’isola di Santa Maura doveva essere considerato di libera navigazione; né uno stato né l’altro avrebbero potuto dunque frapporre impedimenti ai legni che lo attraversavano. Pochi giorni dopo, il primo rebiyülahır 1113/5 settembre 1701 lo stesso Ahmed redasse un lungo documento, sottoscritto poi dal commissario ottomano e dal beylerbeyi di Negroponte İsmail, nel quale tra l’altro si certificava che, di comune accordo, era stato deciso l’utilizzo comune veneto-ottomano del golfo situato presso Lepanto.181 Anche dopo la pace di Passarowitz si continuò a trattare di limiti delle acque, sempre però come continuazione dei confini terrestri e non come problema a sé stante. Questa volta però i due commissari, Osman efendi e Antonio Loredan, arrivati presso il piccolo golfo tra Vonizza e Prevesa, si posero il problema se potevano procedere alla delimitazione anche delle acque del mare e in che modo si doveva considerare, all’interno di uno spazio così ristretto, la portata del tiro di cannone come distanza stabilita ormai generalmente quale limite per le acque territoriali. Al momento tuttavia essi preferirono lasciare la questione in sospeso, rimettendola ai loro superiori, pur facendo redigere dal cadì di Arta, Mehmed, un resoconto delle loro discussioni;182 la questione effettivamente era alquanto delicata: per esempio tirando con il cannone dalla località di Prevesa, che era in mano veneta, verso il mare si raggiungeva un promontorio che era invece ottomano; inoltre esistevano delle peschiere rimaste in possesso dell’Impero durante la guerra, che erano però vicine alla costa appartenente alla Repubblica; infine le navi erano solite passare dove l’acqua era profonda, cercando di evitare i bassi fondali della costa situata sul lato opposto. Non si trattava quindi solo di un mero ampliamento di territorio ma anche di ricavi dovuti alla pesca e alle tasse e dazi che si potevano imporre. La situazione di stallo comunque non poteva essere mantenuta in quanto cominciarono a intensificarsi gli episodi di pirateria da parte di chi cercava di trarre profitto da tale situazione di incertezza. Erano soprattutto le navi di Tunisi che ne traevano vantaggio a danno di quelle venete e la Porta, nella mancanza di un diritto certo a cui appellarsi, trovava difficile reprimere simili comportamenti. L’unica soluzione praticabile, in attesa di un accordo, fu quella di far restituire ai sudditi veneti quanto predato lasciando che i tunisini se ne tornassero liberi alle loro coste. Finalmente agli ultimi della luna di rebiyülahır dell’anno 1132/1-10 marzo 1720, il sultano emise un ordine per i notabili di Tripoli, Tunisi e Algeri informandoli dell’esistenza di un confine entro cui i legni veneti 181 182 Documenti turchi, nn. 1615-1617. Documenti turchi, nn. 1643, 1645. 83 non potevano essere attaccati in quanto in essa avevano vigore gli accordi stipulati dalla Porta con la Repubblica: dando per scontato che l’Adriatico fosse interamente veneziano, esso correva a trenta miglia dalla costa a partire dalla latitudine di Santa Maria di Leuca, all’estremità della Puglia, proseguendo lungo la costa greca, poi sotto Creta, Scarpanto, Rodi e Cipro, e quindi lungo le spiagge di Tripoli di Siria, Beiruth e Saida per giungere sino ad Alessandria d’Egitto. Per motivi commerciali dunque, si confinava il mare per assicurare libertà di transito su quella rotta interna all’impero per cui le armate ottomane avevano combattutto per conquistare Rodi, Cipro e Creta.183 La protesta da parte delle province maghrebine non tardò ad arrivare. Imporre simili limiti significava togliere loro un’importante entrata, su cui si basava la prosperità delle loro città. La pirateria e la corsa infatti alimentavano un tempo le ricchezze e i commerci; non si trattava solo del bottino che si conquistava o degli schiavi che venivano venduti sui mercati maghrebini, ma anche dei possibili riscatti pagati dai parenti rimasti in patria o ancora di carichi e navi che venivano comprati e rivenduti alimentando sia un commercio interno sia estero con la stessa cristianità. Un confine come quello stabilito allora dalla Porta avrebbe invece non solo permesso alle navi venete di raggiungere indisturbate il grande emporio di Alessandria d’Egitto, ma anche avrebbe allentato gli stretti legami che si erano ormai instaurati, in nome di comuni razzie sul mare, tra i maghrebini e i sudditi ottomani di Dulcigno. Mehmed bey d’Algeri e il dey di Tripoli scrissero dunque, di comune accordo, al kapudan paşa, lamentando la terribile situazione in cui un simile limite avrebbe gettato dei sudditi fedeli al sultano e all’islam, che combattevano il ğihād sul mare e proteggevano l’imperiale confine, che era l’argine dei vincenti e il riparo dell’islam. Privati di risorse sufficienti sarebbero certo fuggiti, si sarebbero dati alla pirateria, non avrebbero più difeso l’Impero né contro le bellicose tribù dell’interno del paese né contro gli infedeli.184 6. L’importanza della pesca Con il Settecento, tra le attività che si potevano esercitare in mare, andò acquistando sempre maggior importanza la pesca, effettuata sia in mare aperto, sia coltivando il pesce in spazi recintati. Alle volte fu proprio l’esistenza di peschiere lungo alcune coste nelle zone di confine che causò problemi a una tranquilla convivenza tra veneti e ottomani. Per 183 184 ASVe, Bailo, b. 254, reg. 348, cc. 110-111, 183-186 e 206-207 (lettera del kapudanpaşa Süleyman); cfr. anche reg. 349, cc. 80-82 (s.d., passaporto rilasciato dal kapudan paşa a Rocco Bon, che non sia molestato entro o fuori i confini, hudud, del mare stabiliti dalla Porta); c. 87 (s.d., traduzione in ottomano di memoriale del bailo per nave tunisina che aveva violato i confini del mare); BOA, MD, reg. 129, cc. 207-208. ASVe, Bailo, b. 254, reg. 349, cc. 89-91 (Algeri), 100-102 (Tripoli), primi della luna di rebiyülevvel 1133 (30 gennaio-8 febbraio 1721); Pedani, Spunti, pp. 221-239. 84 esempio subito dopo Passarowitz si ebbero per alcuni anni continue liti a proposito delle acque tra Prevesa e Vonitsa185 e qui si trattava non solo di specchi d’acqua ove pescare, ma anche di dazi pagati dalle navi che li attraversavano. A un certo punto, poco prima della metà del secolo, la Porta concesse alcune acque di questa zona in malikâne a un ağa del luogo, Aziz, che forte di tale concessione impose una tassa su ogni okka [1280 grammi] di pescato e pretese con la forza il pagamento del balzello anche da parte dei legni veneti che pescavano a tratta, che naturalmente ricorsero alla Porta per far valere i propri diritti. Altri problemi nacquero a proposito delle peschiere di Butrinto e di Risano e in seguito per quelle della zona di Corinto. In questa località nel 1744 ufficiali ottomani pretendevano come tassa da tutti coloro che le utilizzavano la metà del pescato, senza considerare se fossero veneti o ottomani. Invece gli accordi con Venezia avevano sempre stabilito solo una tassa del 3% per i sudditi di San Marco.186 La vita dei pescatori in tali zone non era dunque tranquilla anche a causa degli imprevisti, sempre in agguato per tutti coloro che solcano il mare. Alle volte potevano essere presi per pirati, i quali, soprattutto se operavano lungo le coste a poca distanza dalle loro abitazioni, utilizzavano spesso semplici barconi, magari gli stessi che quando non pirateggiavano servivano per lavorare. Le navi, le galee o anche i galeoni erano utilizzati da chi doveva percorrere miglia e miglia prima di conquistare il proprio bottino come gli uomini del Maghreb quando si avventuravano fin nell’Egeo o nell’Adriatico. Ai pescatori poteva dunque capitare di essere assaliti dai pirati delle coste vicine e resi schiavi: nel 1732 ventotto veneti che navigavano nel golfo di Corfù vennero fatti prigionieri addirittura da un uomo della costa che li aveva invitati a mangiare e di cui si erano ingenuamente fidati. Nel 1740 invece un’altra barca, che pescava presso Salonicco, venne catturata da alcuni musulmani che pensavano si trattasse di pirati.187 Altre controversie relative a diritti di pesca videro la Serenissima opporsi anche alla Repubblica di Ragusa, sin dal Quattrocento strettamente legata in politica estera all’Impero Ottomano. Il primo incidente riguardò l’isola di Caccia. Negli anni 1590-92 alcuni uomini dell’isola ragusea di Lagosta cominciarono ad attaccare i pescatori veneti di Lissa e Pellagrosa, accusandoli di pescare fuori dal loro stato. Si trattava dunque di una questione sia di acque che di proprietà dell’isola, appartenente ai ragusei sin dal 1324, quando però ancora la loro città era possesso di Venezia. La Repubblica rispose invocando i propri diritti 185 186 187 ASVe, Bailo, b. 254, reg. 348, cc. 192-196 (ultimi della luna di cemaziyülevvel 1132, 30 marzo-9 aprile 1720), cfr. anche b. 257, reg. 355, cc. 48-61 (1734-35 vari documenti sulla questione). ASVe, Bailo, b. 256, reg. 353, s.n., şaban 1140, 13 marzo-11 aprile 1728; b. 257, reg. 356, cc. 30-32; b. 258, reg. 359, c. 158 (1153, 1740-1741); reg. 360, cc. 38-38v (i’lâm del cadì di Corinto, primi della luna di receb 1157, 10-19 agosto 1744). ASVe, Bailo, b. 256, reg. 354, c. 109; b. 258, reg. 359, cc. 212-213, 331-332. 85 sul Golfo e ricordando che i suoi sudditi pescavano in quelle acque «a fraìma», il che presupponeva una coltivazione del pesce in zone attrezzate, che andavano predisposte con mesi e mesi di anticipo; non si poteva dunque trattare di una nuova zona di pesca scoperta quell’anno, ma di peschiere utilizzate per antica consuetudine. Alla fine ci si accordò sulla libertà di pesca per i sudditi di entrambi gli stati, ma Ragusa, pur vedendo riconosciuti i suoi diritti sull’isola di Caccia, dovette accettare la sovranità veneta sul Golfo, una sovranità che non ammetteva neppure in questo caso l’esistenza di acque costiere appartenenti ad altri stati.188 Più di cento cinquant’anni dopo, nel 1757, l’accordo stabilito per Caccia fu riconvalidato da veneziani e ragusei. Ciò avvenne nonostante che la Repubblica avesse ormai dovuto riconoscere la presenza di altre forze nell’Adriatico, pressata dall’imperatore che nel 1719 aveva creato a Trieste e Fiume un portofranco, e dal papa che nel 1732 aveva fatto lo stesso per Ancona. Il 25 ramazan 1167/16 luglio 1757 due cadì, Mehmed efendi e Ali efendi, emisero un hüccet che certificava il nuovo accordo su dazi, pesca e corallo. Ragusa riconobbe la giurisdizione veneta sul Golfo e si impegnò a pagare un tepsi (vassoio) d’argento, del valore di 20 zecchini, ogni tre anni, al posto dei soliti dazi. Da parte sua Venezia si impegnò a non attaccare i legni ragusei presso la costa e a impedire ai propri sudditi di tagliare legna nel territorio dell’altro stato e di disturbare la raccolta di pesce e corallo.189 Per ironia della sorte, dunque, se la prima testimonianza che attesta l’esistenza di un mare veneziano si trova in un autore arabo, l’ultimo documento che riconosce il dominio della Repubblica sul suo Golfo fu emesso da un’autorità ottomana. 7. L’imposizione di un limite L’ordine emesso nel 1720 dal sultano Ahmed III continuò a essere citato in vari documenti successivi che rimandano espressamente a esso come allo “stabilimento del confine del mare” e nello stesso tempo testimoniano come i levend del Maghreb di solito lo ignorassero. Si è spesso affermato che fino al 1770, e al disastro navale nelle acque di Çeşme, gli ottomani si disinteressarono della flotta, preferendo accordarsi con gli stati europei e lasciando abbastanza libere le province nord-africane, pur senza incoraggiare la loro indipendenza. Queste due tendenze, tuttavia, potevano entrare in conflitto: da una parte infatti il sultano aveva interesse a far rispettare le capitolazioni che concedeva, che prevedevano tra l’altro una navigazione commerciale esente da pericoli nel Mediterraneo orientale, mentre dall’altro i maghrebini vedevano nella corsa contro le navi cristiane un’irrinunciabile fonte di guadagno. 188 189 ASVe, Provveditori alla camera dei confini, b. 246, fasc. “Dalmazia” 1590-1592. ASVe. Provveditori da terra e da mar, b. 595; disp. n. 48 (29 lug. 1754, Francesco Grimani, sindico e inquisitore in Dalmazia). 86 Non a caso spesso si ebbero momenti di tensione soprattutto con gli algerini, che tra tutti erano nel Settecento i più attivi. Nel 1716 per esempio il dey affermò che i suoi uomini avrebbero obbedito agli ordini del sultano solo se questi avesse pagato gli schiavi e riscattato i marinai che erano stati fatti prigionieri; a sua volta la Porta rispose minacciando di impedire agli algerini di reclutare soldati e marinai in Anatolia. In seguito, nel 1723-4, il dey rifiutò un accordo di non aggressione nei riguardi delle navi olandesi che erano sotto la protezione di Istanbul e quattro anni dopo venne rigettato un altro ordine imperiale relativo ora alle navi austriache. Questa volta le minacce vennero attuate; con l’appoggio di una fetva dello şeyhülislam si fermarono gli aiuti finanziari e militari agli algerini, si impedì ai loro legni di entrare nei porti ottomani del Levante, si bloccò il reclutamento anatolico e si fermò addirittura la carovana che portava i pellegrini alla Mecca. In tal modo Algeri fu costretta a cedere e tornare nell’obbedienza della Porta.190 Ancora nel Settecento dunque si applicava alle province nord-africane quella politica che aveva permesso agli ottomani di conservare la loro sovranità nelle zone più esposte e periferiche dei Balcani. Se da una parte il sultano poteva lasciare libere le proprie province per quanto riguardava la politica interna, non poteva però transigere quando si trattava di politica internazionale. Fu il complicarsi della situazione europea che impose agli ottomani di prendere ulteriori provvedimenti. Quando, nella prima metà del Settecento, l’Inghilterra cominciò a vedere minacciati l’equilibrio europeo e la propria posizione nel Mediterraneo e la supremazia commerciale dal nuovo assetto che andava prendendo l’Europa, non poteva che scatenarsi un conflitto, nonostante la politica pacifista seguita fino ad allora dal ministro Robert Walpole. La guerra fu dichiarata alla Spagna in nome del principio della libertà dei mari (1739), ma una controversia dinastica per la successione austriaca determinò l’ampliarsi del conflitto, su posizioni opposte, anche all’Austria e alla Francia. Solo la pace di Aquisgrana del 1748 portò nuovamente l’accordo in Europa, pur senza risolvere i problemi commerciali che avevano originato la guerra. In questo momento il sultano era in pace sia con il re di Francia che con quello di Inghilterra e non poteva scontentare nessuno dei due, né tantomeno danneggiare i propri interessi economici. La scelta che fece, comunicata dal suo gran visir ai rappresentanti europei a Istanbul, fu quella di considerare il Mediterraneo come diviso in due da una linea immaginaria che univa le coste dell’Africa alla Morea. Le navi mercantili avrebbero potuto attraversare pacificamente tale limite, ma quelle da guerra, fossero state inglesi o francesi, sarebbero comunque state attaccate e catturate dalla flotta ottomana, e lo stesso sarebbe accaduto ai legni commerciali che avessero cominciato a farsi guerra tra loro.191 Le acque del Levante mediterraneo si trasformavano quindi, nella mente del legislatore, in un nuovo 190 191 Hess, Ottoman North African Provinces, pp. 76-81. ASVe, Bailo, b. 258, reg. 360, cc. 1-2; Pedani, Spunti, pp. 221-239. 87 mare chiuso, completamente appartenente al «custodito Impero» che ancora regnava indiscusso lungo le sue sponde orientali. Non furono però le potenze che ormai da secoli si scontravano sulle acque mediterranee a cambiare radicalmente la posta in gioco e le regole della guerra. Genovesi, veneziani, catalani, seguiti poi da inglesi, francesi, spagnoli, olandesi e, nel Settecento, anche da svedesi e americani, avevano percorso questo mare soprattutto per commerciare; alcuni si erano dedicati anche a un altro tipo di commercio, meno convenzionale, ma proprio per questo ancora più ricco, la corsa e la pirateria; i levend del Maghreb avevano fatto di tale attività la loro principale fonte di reddito, ma anche piccole comunità, come i cavalieri di San Giovanni di Pisa o i cavalieri di Malta avevano saputo mostrarsi altrettanto attivi in questo. Per quasi due secoli, dalla fine dello scontro tra imperi coronato dalla battaglia di Lepanto, fino alla seconda metà del Settecento, il Mediterraneo fu, secondo le parole di Braudel, fuori della grande storia. Le navi che lo percorrevano cercavano solo merci, oppure bottino, che è poi la stessa cosa, solo sotto una visuale un po’ diversa, ed era questa la vocazione più antica di questo mare interno che aveva visto più di uno stato nel suo primo periodo di espansione dedicarsi alla pirateria, per poi preferire attività più tranquille e più lecite e combattere con forza gli ultimi arrivati che allora vi si dedicavano, così come aveva fatto anche Venezia prima e dopo l’anno Mille e, a suo modo, l’Impero Ottomano. Nella seconda metà del Settecento però qualcosa cambiò. Cominciò la Francia a proporre una politica economica più aggressiva; gli stati nord-africani vennero sempre più frequentati; ma fu l’entrata nel Mediterraneo della flotta russa a portare al collasso quella che si poteva ormai definire come il confine marittimo ottomano verso occidente. La guerra russo-ottomana del 1768-74 cambiò molte cose: a questi anni si deve far risalire la codificazione dell’idea di un sultano-califfo detentore di un ascendente religioso su tutto l’orbe islamico: fu questo un nuovo modo di opporsi all’occidente, con le idee anziché con le armi. Al contrarsi delle frontiere terrestri, al ridursi del territorio ottomano a nord-est e al passaggio di popoli musulmani sotto sovrani cristiani si rispondeva in tal modo. Sul mare invece l’avvento dei russi portò una nuova tecnologia e una guerra ben più aggressiva, paragonabile a quella che si era conclusa con il Cinquecento; la loro flotta giunse dal Baltico dopo un lungo periplo di tutta Europa, passando per Gibilterra.192 I russi però, giunti per ultimi nel Mediterraneo, ne sconvolsero quei costumi che si erano ormai sedimentati nei secoli: infatti non erano venuti per commerciare e nemmeno per dedicarsi a corsa o pirateria, ma per sovvertire l’aspetto geo-politico, in definitiva per cambiarne i confini. 192 Gencer, Bahriye’de yapılan ıslâhât hareketleri, pp. 24-26. Esiste comunque una protesta formale, inoltrata al bailo nel 1770, con cui il governo ottomano si lamentava perché Venezia aveva permesso alla flotta russa di passare attraverso canali interni fino all’Adriatico e quindi fino al Levante, redatta da qualche funzionario della Porta, evidentemente poco ferrato in geografia; cfr. Lewis, Europa barbara e infedele, p. 150. 88 VI OLTRE I SEGNI 1. I segni sulle cose Come creare un confine tra popoli o regni appartenenti a grandi pianure, dove non vi sono creste di monti o linee argentee di fiumi? Come riuscire a definire anche qui un limite spaziale e non lasciare ogni cosa preda degli uomini dell’una e dell’altra frontiera? Alcuni popoli nomadi, per i quali il paese era la strada che si percorreva giorno dopo giorno, rigettarono il solco dell’aratro e scelsero di tracciare un segno su quanto loro apparteneva; le mandrie di bestiame vennero spesso marchiate con il simbolo dei proprietari. Zanini l’ha definito un «confine portatile».193 Zone come la steppa sembrano rifiutare i confini tra stati; l’immensità piatta della terra è sempre uguale a se stessa e tutto si mescola e confonde; il confine del proprio spazio vitale deve essere ricostruito e ridefinito ogni giorno. Non si possono erigere palizzate perché domani altra gente sarà in quegli stessi luoghi; l’unico modo per identificare quanto appartiene all’uno o all’altro è renderlo riconoscibile attraverso abiti, segni, simboli conosciuti e riconoscibili da tutti. Il marchio usato per identificare il bestiame ebbe uno sviluppo suo proprio tra genti nel Vicino Oriente. Tamğa, tuğra, tabın ebbero probabilmente in questa funzione la loro origine. La parola tamğa significa marchio,194 segno e poi, per estensione, venne usata per indicare un sigillo. In origine era apposto su bestiame, o beni personali, e a poco a poco servì per indicare determinate tribù e, dopo l’invasione mongola, fece la sua comparsa anche sui documenti, per esempio quelli degli Ak Koyunlu, dell’Orda d’Oro o dei tatari di Crimea. Tamğa si ritrovano anche impressi su monete, oppure nella decorazione dei tappeti o ancora riprodotti come insegne araldiche su stemmi mamelucchi. Come sostenuto da Mayer, alcuni blasoni di quell’epoca, altrimenti incomprensibili, possono essere spiegati proprio attraverso l’uso di simili marchi utilizzati anche in araldica, anche se il loro significato resta altamente oscuro non essendo possibile assimilarli, come molti altri segni 193 194 Zanini, Significati del confine, p. 47. Leiser, Tamgha, pp. 182-183. Esistono anche esempi più vicini a noi: il signum (firma o sigillo) della Lex Wisigothorum si trasformò anche nel segno di confine, mentre in sardo sinnu significa marchio per le bestie e sinnare è l’azione compiuta per marchiare il bestiame; Mastrelli, Riflessi, pp. 789-811. 89 usati nel medesimo contesto, a simboli indicanti una determinata professione. Secondo Maḥmūd al-Kāšġarī la parola tamğa era sinonimo dell’arabo ṭābi‘, impronta, marchio.195 Ghizela Suliteanu ha dimostrato come, presso i tatari Nogay, esistano ed esistessero particolari segni geometrici, usati per marcare l’appartenenza a una determinata famiglia e la discendenza da un avo comune, chimati tabın. Spesso rappresentavano una stilizzazione dell’oggetto cui il nome della stirpe si rapportava ed erano il simbolo sia di un’unità guerriera, sia di un’interdizione territoriale.196 Molto è stato scritto invece sull’origine dei tuğra, i monogrammi sovrani utilizzati non solo dagli ottomani, ma anche da altri popoli come per esempio selgiuchidi, ayyubidi e mamelucchi. Sono stati assimilati a un falcone, uccello totem di alcune tribù turche, oppure a un arco con delle frecce; ancora altri studiosi hanno pensato, per spiegarli, all’impressione della mano di Murad I (1359-89) o hanno ricollegato quel nome alla parola tuğramak, tagliare, o ai tuğ, le code di cavallo simbolo di sovranità nel mondo ottomano. L’ipotesi maggiormente seguita però li vede nati proprio dai segni usati per il bestiame. Maḥmūd elKāšġarī racconta ancora che con un elemento così chiamato erano marchiate le bestie e gli schiavi dei sovrani oğuz.197 2. I segni sulle persone I confini dunque alle volte si possono portare con sé, non solo su ciò che ci appartiene ma anche sulla propria persona, nell’abito o nell’oggetto indossato. Molti racconti di schiavi o prigionieri in fuga insistono proprio sul vestito che contraddistingue il cristiano dal musulmano, o l’abitante del villaggio posto al di qua della linea di confine da quello che risiede dall’altra parte.198 Mutare l’abito, indossare un turbante o gettarlo via, significava 195 196 197 198 Bates - Darley Doran, The Art, p. 387, n. 526; Talbot Rice, I selgiuchidi, pp. 181-183; Mayer, Saracenic Heraldry, pp. 18-19; Maḥmūd el-Kāşġarī, Türk fiiveleri Lügatı, I, p. 321. Suliteanu, Le «tabin», pp. 95-113, in particolare p. 98, dove si dice: «Le tabın est un signe de facture géometrique que les Nogay s’attribuent pour marquer leur appartenance à une même famille et leur descendance d’un ancêtre commun. En tatar, il signifie littéralement «inclinetoi», mais il marque le «respect sacré» ainsi que la «citoyeneté». Y sont apparentés les mots: tabı («trace», «frontiére [avec la nuance de respect de la frontiére]), tabınmaq («prière»), tabıntaşı («pierre tombale» [avec la nuance de respect de l’appartenance gentilice ancestrale]); et on le retrouve dans le proverbe: Tabındın tamagası bolmagan qazaqqa ograr («Celui qui n’a pas de tabın de descendance est païen»). Comme on le voit, le mot tabın n’a pas seulment le sens de «signe», pour lequel d’alleurs les Nogay ont le terme tamga, mais dênote égalment une certaine fonction historique d’éducation morale et une forme d’organisation sociale.»; Karataev, The Seals, pp. 476-488. Cahen, La tuğrā seljukide, pp. 167-172; Wittek, Notes, 18, pp. 310-334; 20, pp. 267-293; Bayramoğlu, Firmans enluminés, pp. 14-36; Babinger, Die Grossherliche Tughra, pp. 3-16.; Umur, Osmanlı, pp. 11-24; Kütükoğlu, Osmanlı belgelerinin dili, pp. 71-75. Cfr. per esempio Osmân Agha, Prisonnier des infedèles, p. 180. 90 allora assumere una diversa identità, politica e anche religiosa, confondersi con la gente del paese attraversato e pertanto anche riuscire a passare inosservati. In società che non conoscevano, o dove cominciava appena a diffondersi, un documento internazionale di identificazione personale come il passaporto, l’abito era un importante elemento identificativo, al pari dell’uso della lingua, parlata correttamente, senza accento, oppure ignorata o balbettata. Osserviamo per esempio i mori in fuga dalla Spagna nel 1609. Costretti ad abbandonare le loro terre e le loro case si riversarono non solo nelle terre musulmane del Nord-Africa ma anche verso altri paesi europei per raggiungere in qualche modo l’Impero Ottomano. Porti come Marsiglia, Livorno o Venezia vennero toccati da questa massa in fuga che poi, molto spesso, se non trovava delle navi su cui imbarcarsi per un paese musulmano, cercava di superare la linea che divideva la cristianità dall’islam nei Balcani. Per fornire loro qualche aiuto giunse a Venezia in quegli stessi anni un inviato ottomano, con lettere imperiali che chiedevano al doge di consentire a questa massa di disperati, una volta giunta ai limiti orientali del suo stato, di mutare liberamente l’abito occidentale usato fino a quel momento come copertura, per vestirsi da musulmani; i rettori veneziani infatti, pensando che fossero cristiani, impedivano loro di attraversare il confine.199 Vari però potevano essere i motivi che spingevano un uomo a indossare un turbante o un abito europeo. Oltre a chi abbandonava un paese dove aveva vissuto un’esperienza di prigionia o schiavitù, vi poteva essere anche chi, proprio per il mestiere che esercitava, abbandonava volontariamente la propria patria per recarsi in terre lontane e diverse, sempre però con la speranza di un ritorno. Si trattava soprattutto di mercanti, ma anche di persone con incarichi ufficiali, spesso di interpreti. Gli inviati diplomatici che ebbero il permesso di travestirsi operavano di solito ai più bassi gradi della scala gerarchica; ciò non significa che le loro missioni non fossero importanti, ma spesso non rivestivano quel carattere di ufficialità richiesto per una grande ambasceria, composta da un notevole numero di persone. Si trattava appunto di messaggeri, segretari o interpreti inviati spesso durante periodi di guerra o tensione internazionale, per non interrompere definitivamente i contatti, e nello stesso tempo non renderli troppo appariscenti. Nei rapporti tra Venezia e la Porta l’esempio più antico rintracciabile sembra essere quello di tre musulmani, Yusuf, Mehmed e Ağa, inviati da Hamza dizdar di Castelnuovo, con lettere credenziali e anche con l’informazione scritta, diretta alla Repubblica, che durante il viaggio si sarebbero vestiti al modo cristiano. Per quanto riguarda invece gli interpreti veneziani che si recavano alla Porta, i salvacondotti imperiali che si conservano risalgono soprattutto al periodo della guerra di Candia: si tratta di lettere del sultano ai 199 Documenti turchi, n. 1190, Pedani, In nome del Gran Signore, pp. 176-178; Temimi, Le Gouvernement Ottoman, pp. 32-42; Temimi, Le passage de morisque, pp. 304-316; Mangio, Echi italiani, pp. 555-568. 91 propri subordinati, che governavano i paesi e i porti lungo la via da percorrersi tra Venezia e Istanbul; con tali documenti li si informava che i latori avevano licenza di girare armati e, nei luoghi pericolosi, di indossare turbante e travestirsi da musulmani. Passare per sudditi del Gran Signore non doveva essere particolarmente difficile per chi, come gli interpreti veneziani, doveva avere una perfetta padronanza del turco parlato, oltre che della lingua scritta, ed era a conoscenza degli usi e costumi ottomani per aver a lungo soggiornato in quell’Impero.200 Non era comunque solo la foggia del vestire, ma anche l’uso di determinati colori a identificare il cristiano o il musulmano. Le vesti del Levante erano in genere colorate, come ricordavano spesso i rinnegati che tornavano in terra cristiana, impressionati da accostamenti azzardati per i loro occhi come il bianco con il rosso, il nero, il verde. Ugualmente stupite apparvero le aristocratiche veneziane di fronte agli abiti vistosi delle nobildonne che nel Seicento dovettero abbandonare la nativa Creta per ritornare nella terra dei loro antichi avi. Nell’Impero Ottomano, per esempio, i colori celeste e giallo erano per lo più riservati ai copricapi di cristiani e degli ebrei; a fine Cinquecento si imposero, anche se per poco tempo, delle particolari e pesanti berrette, gialle per gli ebrei, blu per i cristiani e listate per gli armeni. Fu invece nel 1693 che gli inglesi, presto imitati dagli altri europei, cominciarono a indossare il loro abito nazionale essendo stato loro imposto come segno distintivo di usare solo vesti nere, scarpe (e non zoccoli o pianelle) e anche campanelli; ma in quel periodo il nero era ancora un colore molto di moda in Europa tra le classi sociali più elevate, in quanto tingere in tal modo le stoffe era difficile e costoso e quindi utilizzarle stava a dimostrare grande disponibilità di ricchezze. Fino ad allora gli stranieri a Istanbul avevano in gran parte cercato di mimetizzarsi con la popolazione locale. Oltre che dagli abiti, cristiani e musulmani erano separati anche da un altro segno. Se il battesimo non lascia traccia visibile in chi lo riceve, la circoncisione segna per sempre i corpi degli uomini, ed era inoltre differente per ebrei e musulmani, come non mancavano di osservare i chirurghi convocati dall’Inquisizione. Se il mutare d’abito poteva avere un valore simbolico, quando non era dettato come si è visto da una necessità di sicurezza nel viaggiare; se il taglio di capelli alla turca, cioè lasciando un solo ciuffo in cima alla testa rasata, poteva essere rimediato lasciando ricrescere i capelli per qualche settimana, la circoncisione segnava definitivamente il passaggio all’islam, ed era vista spesso con ripugnanza da chi la affrontava in età adulta, anche per il dolore e il pericolo che la accompagnavano. Bartolomé e Lucile Bennassar descrivono con dovizia di esempi le varie modalità dell’operazione, eseguita in segreto o in pubblico, senza altre particolari cerimonie 200 Bombaci, Il “Liber Graecus”, p. 298, n. 21; Preto, Venezia e i Turchi, pp. 95-115; Lucchetta, La scuola, pp. 19-40; Lucchetta, Lo studio, pp. 479-498; Lucchetta, Un progetto, pp. 1-28; Lucchetta, Una scuola, pp. 21-61; Lucchetta, L’ultimo progetto, pp. 1-43; cfr. Documenti turchi, nn. 1485, 1497, 1499. 92 o seguita da festeggiamenti; notano comunque che alcune circostanze potevano farla ritardare, se non evitare del tutto soprattutto a chi si convertiva in età non più giovane.201 Si trattava comunque di un momento di passaggio, in cui simbolicamente si attraversava il confine ideale che divideva il mondo cristiano da quello islamico. Naturalmente il passaggio inverso era segnato dal battesimo, carico di una simile valenza, anche se non così traumatico sul piano fisico. 3. Turchi e ottomani La circoncisione era dunque per le persone, assieme all’abito indossato, quello che il tamğa o l’insegna araldica era per le cose, cioè l’elemento che consentiva di identificare il gruppo, al di là dello spazio geografico in cui l’individuo, la mandria di bestiame o l’oggetto si trovava. Quando si parla di ambiente mediterraneo la prima grande distinzione che viene in mente è quella basata sulla religione. Da una parte vi era l’Europa, dove la parola “turco” divenne in Età Moderna sinonimo di “musulmano”. “Mi faccio turco”, “vestirsi come un turco”, “fumare”, o “bestemmiare come un turco” divennero espressioni correnti, indicative di un mondo dai contorni imprecisi e sfumati, comunque diverso e altro. Nel Medioevo i musulmani erano spesso indicati con il termine “saraceni”, quando non con quello di “agareni”, da Agar, la schiava di Abramo da cui sarebbero discesi. Poi vi furono altre genti che, avvicinandosi al bacino mediterraneo si convertirono all’islam. I tartari, detti più correttamente tatari, erano in Europa associati all’oltretomba pagano, il Tartaro. Tra loro vi erano i kıpçak (detti anche cumani), che si stabilirono a nord del Mar Nero, e furono chiamati per questo “di Ponente”, mentre gli ilkhanidi di Persia erano tatari “di Levante”. Genericamente “turchi” erano invece, per gli europei sul finire del Medioevo, gli abitanti dei principati di Palatia e Teologo, cui si aggiunsero anche altri gruppi tra cui gli ottomani. Queste genti erano chiamate spesso, nei documenti latini, “teucri”, usando cioè il nome degli antichi Troiani, nella cui zona si erano insediati. Gli ottomani divennero poi i “turchi” per eccellenza e “il Turco”, o “Gran Turco”, era il loro signore, cioè il sultano.202 La distinzione esistente tra le parole turco e ottomano non è tuttavia spesso chiara neppure oggi. Turco è un termine etnico riferito a popolazioni di tale origine, mentre ottomano indicava non solo in generale gli appartenenti a un Impero ma soprattutto la classe dirigente che quello stato governava. Provenienti dalle più diverse province, quando non europei convertiti, i membri di tale gruppo si presentavano come schiavi del sultano, dimentichi dunque della loro origine e dell’etnia di appartenenza, mentre tra i sudditi convivevano turchi, arabi, greci, serbi, croati, berberi, curdi, armeni... 201 202 Bennassar-Bennassar, I cristiani di Allah, pp. 320-331. Preto, Venezia e i Turchi, pp. 13-22; Soykut, Image of the “Turk” in Italy, pp. 1-45. 93 Tale distinzione tuttavia non era spesso chiara neppure un tempo. Solo chi aveva però una continua frequentazione con loro, cioè soprattutto l’ambiente mercantile, poteva avere anche idee più precise in proposito. Per esempio nel 1604 una terminazione dei Cinque savi alla mercanzia203 stabilì che le contrattazioni attuate da ‘turchi’, fino a quel momento registrate in un medesimo libro assieme a quelle di tutti gli altri sudditi del sultano, fossero elencate a parte. La comprensione da parte della burocrazia veneziana della distinzione tra sudditi ottomani in generale e gruppi appartenenti a etnie diverse (cioè armeni, greci, bosniaci...) appare qui chiarissima. Anche ai più alti livelli della politica veneziana vi fu chi ebbe chiara la differenza tra turco e ottomano. Un rapido esame su un gruppo di ventotto relazioni di ambasciatori o funzionari veneti scritte tra il Cinque e il Settecento permette di svolgere alcune considerazioni; sono state infatti edite alcuni anni fa, con criteri scientifici moderni, e non con quelli piuttosto approssimativi che caratterizzano le più famose edizioni ottocentesche, nella quali la lingua appare spesso italianizzata e le frasi di più difficile comprensione sostituite con dei puntini. Inoltre queste nuove relazioni, fino allora inedite, sono state tratte dai manoscritti consegnati dagli stessi autori al Collegio della Repubblica, dopo la pubblica lettura, e non su copie, o copie di copie, fatte da amici o persone interessate all’argomento, che sono invece alla base delle edizioni ottocentesche, anche perché allora l’accesso all’Archivio di Stato era difficile per gli studiosi, che dovevano accontentarsi di codici disseminati in varie biblioteche italiane. Scorrendo quindi tale materiale si nota come nella più antica, quella di Andrea Foscolo del 1512 non sia mai citata la parola «ottomano», o «othomano», come si scriveva un tempo, ma si usino solo i termini «turchi» «turchescho» «il Signor Turco» «Turchia». Anche le poche pagine di Tommaso Contarini (1522), di Tommaso Mocenigo (1530) e la lunga relazione di Alvise Renier (1550) danno il medesimo risultato. È solo con Nicolò Michiel (1558) che si comincia a parlare di «casa» e di «signori ottomani», riferendosi però solo alla dinastia. Le relazioni immediatamente seguenti tornano all’uso antico e fu solo con Giacomo Soranzo (1576 e 1584) che termini simili furono ripresi, ma con estrema parsimonia e nella medesima accezione. In tale senso si espressero poi anche Giovanni Correr (1578), Lorenzo Bernardo (1590), Girolamo Cappello (1600) e Ottaviano Bon (1609). In particolare però per Alvise Bonrizzo (1570) si nota che vi erano anche «mori», provenienti però solo da Granada, mentre Correr, Soranzo e Bernardo e poi i loro successori distinsero tra mori, arabi e turchi: «Se parlamo d’Aleppo, et quei contorni, ogn’uno sa che i Mori non vogliono sentir Turchi, et è cosa notissima che gli Arabi, sì della Arabia deserta come felice, l’odiano estremamente, né miglior volontà si ritrova nei Mori 203 Citata in Vercellin, Mercanti turchi, p. 70. 94 del Cairo et d’Alessandria»;204 «Né soli li Cristiani sono da Turchi maltrattati e tirannegiati, gli Arabi e Mori, che pure sono della medesima loro religione, sono di maniera oppressi da Turchi che governano, che ben spesso hanno più tosto voluto sottoporsi al governo delli Spagnoli che de Turchi».205 Per primo, nel 1637, Angelo Alessandri, non a caso solo segretario al servizio del bailo Pietro Foscarini, parlò oltre che di «turchi» in generale, anche di «turchi nativi», oltre che di «Impero Ottomano» e di «Ottomani», dimostrando di aver ben presente che il primo termine poteva essere inteso come termine etnico e che lo stato non era turco, ma ottomano. Le stesse considerazioni valgono anche per Tommaso Tarsia (1683), un interprete veneto che il turco lo conosceva bene e che fu, con le armate di Kara Mustafa, sotto le mura di Vienna nel 1683. In generale sembra che nel Settecento vi sia stata una più corretta comprensione dei termini: Carlo Ruzzini (1706) usò sia «turchi» che «ottomani», ma distinse da loro i «barbareschi»; Vignola (1724), un altro segretario, ebbe chiaro che «turco» è anche termine etnico: «Concorravi a vederlo per le stradde la curiosità di un affollato numero di femine greche, armene, turche e di huomini pure d’ogni nazione»;206 Francesco Gritti (1727) usò quasi esclusivamente «ottomano», mentre Giovanni Donà (1746) dimenticò finalmente e completamente di usare al suo posto la parola “turco”. Gli ultimi rappresentanti della Repubblica alla Porta usarono infine di nuovo ancora entrambi i termini. Al di là di quanto si pensava in Occidente, l’Impero Ottomano continuò a considerarsi un impero multietnico tantoché fu solo con l’arrivo al potere dei Giovani Turchi che questo concetto, sulla scia delle tante rivendicazioni nazionalistiche seguite da continue perdite di territorio, venne accantonato. Uno dei punti del programma del Comitato Unione e Progresso sosteneva il riconoscimento nell’Impero di un solo popolo e di una sola nazionalità, quella ottomana: di conseguenza armeni, greci, albanesi, arabi... dovevano considerarsi solo ottomani, così come i baschi e i bretoni si ritenevano francesi. 4. I franchi In questi ultimi anni la storiografia ha più volte sottolineato che l’idea di crociata, come viene intesa in occidente, fu completamente estranea agli storici arabi dell’epoca che non distinguevano, tra i crociati della prima generazione, i vari gruppi nazionali, ma li etichettavano tutti indistintamente o per la loro religione o per la loro provenienza. Gli altri, i diversi che improvvisamente alla fine del XI secolo attaccarono l’islam erano solo un gruppo di miscredenti, di barbari infedeli, di ḥarbī, cioè abitanti la dār al-ḥarb. La stessa parola kāfir si trasformò praticamente in un sinonimo di cristiano, l’infedele per eccellenza. 204 205 206 Relazioni inedite, p. 237, relazione di Giovanni Correr (1578). Relazioni inedite, pp. 316-317, relazione di Lorenzo Bernardo (1590). Relazioni inedite, p. 866, relazione di Girolamo Vignola (1724). 95 Se proprio li si voleva indentificare con un termine geografico, si chiamavano allora “franchi” (Farānğ).207 Così come in Occidente vi fu per secoli dunque una certa confusione nell’uso dei termini musulmano, arabo, ottomano e turco, così nel Vicino Oriente si perpetuò la medesima imprecisione nell’individuare gli europei, definiti ancora in periodo ottomano in generale tutti «franchi» o «appartenenti alla nazione del Messia». Furono comunque soprattutto i documenti inerenti i rapporti internazionali a testimoniare un primo necessario sforzo di individuazione di gruppi appartenenti a nazioni diverse, pur nell’ambito della cristianità. Se si stringeva un accordo con uno stato estero bisognava poterne riconoscere esattamente i sudditi, e ancor di più se il sovrano musulmano concedeva un salvacondotto generale (amān ‘āmm) a tutti coloro che provenivano da un determinato regno o repubblica. Oltre alle tregue, dunque, stipulate con stati crociati, ormai facilmente distinguibili nel variegato mondo del Levante medievale, si ebbero anche documenti emessi, per esempio da sovrani ayyubidi o mamelucchi, quando non di altri paesi nord-africani, volti a proteggere soprattutto gruppi di mercanti provenienti dall’Occidente. In questo i veneziani, i pisani, i genovesi, i fiorentini, i catalani, erano correttamente indicati come membri di particolari comunità. Di solito i sudditi di San Marco erano chiamati al-banādiqiyyīn mentre alBunduqiyya era la città da cui provenivano, unico caso di un toponimo arabo completamente diverso nel suono, anche se non nell’etimologia, da quello originale.208 Anche per quanto riguarda il mondo ottomano si possono individuare i medesimi due filoni di conoscenza dell’altro, che procedettero parallelamente. Un’indagine condotta sugli elkab (inscriptio) delle lettere imperiali indirizzate a vari sovrani dimostra come per ognuno di loro si riservassero titoli particolari. Due concetti però ritornavano spesso, sia nelle missive per il re di Polonia, che per il doge di Venezia, la zarina di tutte le Russie, il re d’Inghilterra o di Francia, oppure l’imperatore asburgico: tutti erano ‘illustri’ nella nazione (millet) del Messia e arbitri della gente (tayfe) del Nazareno. Se nel Cinquecento millet indicava solo i non-musulmani in generale, ed era quindi privo di quel significato di gruppo strutturato e inserito nell’ordinamento ottomano che assunse poi, tayfe era la banda, la truppa, il gruppo i cui membri avevano caratteri comuni: tüccar tayfesi era dunque l’insieme dei mercanti stranieri. In generale negli ahdname tale parola venne molto più usata di halk, che indicava in teoria invece con più precisione la gente, la nazione, il popolo e anche la folla. Secondo Viorel Panaite proprio gli ahdname permettono di individuare come, tra Cinque e Seicento, si cominciasse a distinguere con sempre maggior precisione tra i sudditi di stati diversi.209 207 208 209 Storici arabi, pp. V-XVI; Piacentini, Le crociate, I, p. 243; II, p. 282. Nallino, Venezia, pp. 111-120. Kütükoğlu, Osmanlı belgelerinin dili, pp. 149-152; Panaite, Ethnicity, pp. 201-212. 96 Con il termine millet, invece, si intese innanzi tutto una comunità confessionale. Subito dopo la presa di Costantinopoli Mehmet II riconobbe come capo della comunità ortodossa il patriarca greco, ma ancora nel Cinquecento non si poteva parlare di un vero e proprio “sistema dei millet”. In quest’epoca i consoli europei erano considerati capi delle rispettive colonie, ma non erano indipendenti, né avevano diritti territoriali o di protezione; solamente quando, col tempo, vennero considerati sostituti degli ambasciatori, allora cominciarono a godere di immunità diplomatica. Questo spiega come spesso allo scoppio delle ostilità veneto-ottomane il bailo poté essere incarcerato: si trattava in effetti di una figura ambigua, che univa le competenze di un console ad alcune funzioni proprie di un ambasciatore. Nei tempi più antichi infine una comunità mercantile straniera nell’Impero, anche se protetta da capitolazioni, era spesso considerata responsabile in solidum per crimini o debiti di un suo membro.210 Fu nel Settecento che i rappresentanti delle comunità divennero veri e propri milletbaşı, cioè alti dignitari dello stato insigniti dell’onore di due code di cavallo, con un ruolo preciso all’interno dell’amministrazione ottomana, con autorità civile e militare, liberi da ingerenze esterne in campo religioso e con competenze fiscali e giudiziarie. Furono al contrario le riforme di metà Ottocento che cercarono di creare uno stato centralizzato, su modello europeo, limitando l’autonomia dei millet e i poteri dittatoriali di patriarchi, rabbini e alti dirigenti con nuove costituzioni e consigli direttivi; davanti alla legge anche coloro che non aderivano all’islam vennero quindi considerati pari ai musulmani. In questo periodo furono proprio le potenze occidentali che sostennero il diffondersi del nazionalismo tra i millet, per poter procedere con l’appoggio delle diverse popolazioni allo smembramento dell’Impero. Soprattutto nelle cronache, l’antica parola “frek” continuò tuttavia a essere usata per indicare tutti gli europei. Come patronimico era usato qualche volta da convertiti, soprattutto se erano divenuti potenti o discendevano da famiglie aristocratiche. Alvise Gritti, il figlio di quell’Andrea che divenne doge, pur essendo rimasto cristiano, allacciò importanti amicizie con i più alti funzionari e fu conosciuto come «Beyoğlu», cioè «figlio del signore», e tale patronimico passò poi a indicare un quartiere di Istanbul. «Bey» era infatti il titolo con cui si indicavano i nobili veneti, ma non era legato a indicare la carica dogale, come qualcuno afferma. Un altro esempio di tale uso lo si ritrova in Selānikī Mustafa efendi che, tra l’altro, racconta anche le vicende di «Mehmed Frenkbeyoğlu», cioè «figlio del signore franco» che fu prima cebecibaşı e poi capo della truppa degli ulufeciyânı yesâr quando questi uccisero la kira Esperanza Malchi; si trattava del rampollo di un’altra 210 İnalcık, The Ottoman State, pp. 190-192. Sui consoli veneti nell’Impero Ottomano, cfr. Faroqhi, The Venetian Presence, pp. 368-384. 97 importante famiglia veneziana, e prima della conversione era conosciuto come Marc’Antonio Querini.211 Con il passare del tempo tuttavia la percezione che si aveva nel mondo ottomano delle differenze tra i vari europei si fece sempre più precisa e si cominciarono allora a coniare anche dei binomi formati da un aggettivo nazionale, seguito da un epiteto ingiurioso, basati anche sull’uso dell’allitterazione. Si ritrovano quindi ingiliz dinsiz (inglese senza religione), fransız cansız (francese senz’anima), engürüs menhûs (ungherese malaugurato), rus ma’kûs (russo perverso), alman biaman (tedesco spietato), e così via.212 211 212 Selânikî Mustafa Efendi, Tarik-i Selânikî, pp. 738, 854. Lewis, Europa barbara e infedele, p. 172. 98 VII ALLA RICERCA DELL’IDENTITÀ 1. Ambasciatori, inviati, diplomatici Accanto a quanti combattevano sulla frontiera o avevano trovato dimora in una zona di confine vi fu anche chi, spinto dai più diversi motivi, passò da un paese all’altro: un tempo non era facile recarsi in uno stato straniero, ma ciò non impedì a militari, ambasciatori, mercanti, studiosi, medici, spie o fuggiaschi di farlo. Innanzi tutto l’instaurarsi di relazioni internazionali impose lo scambio di messaggeri, inviati, ambasciatori. In questo campo occorre ripensare all’assioma storiografico che vuole che nel Medioevo e in Età Moderna tale scambio sia avvennuto tra paesi islamici e cristiani in un’unica direzione, cioè da Occidente verso Oriente. Anche se con minor frequenza inviati di re e sultani raggiunsero dalle spiagge del Nord Africa e del Levante le capitali europee. Per esempio, il primo inviato ottomano giunse a Venezia nel 1384 e molti altri lo seguirono, quasi uno all’anno nel corso del Cinquecento. Altri giunsero da Tunisi, dall’Egitto mamelucco, dalla Persia, dal khanato di Crimea e infine, nel Settecento anche da Tripoli di Barberia. Nella sala delle Quattro Porte a Palazzo Ducale a Venezia un grande quadro testimonia ancora l’arrivo di inviati del sophì di Persia, all’inizio del Seicento, mentre i tappeti e altri doni che portarono sono ancora conservati, parte a San Marco e parte al Museo Correr.213 Di solito un ambasciatore era seguito da un folto gruppo di persone che doveva aiutarlo nella sua missione e renderla più sfarzosa, in modo da dimostrare anche l’importanza del sovrano che rappresentava. Vi erano segretari, interpreti, servitori, alle volte anche cartografi o medici, ma a questi si univano spesso sia letterati o scienziati, desiderosi di conoscere paesi nuovi, sia giovani che sarebbero stati un giorno loro stessi ambasciatori o cancellieri, e che dunque approfittavano dell’occasione per imparare il mestiere. Per quanto riguarda Venezia, nella prima metà del Cinquecento il seguito di un inviato ottomano si mantenne sulle venti persone per poi calare dopo la guerra di Cipro, quando un seguito di dieci persone poteva già dirsi numeroso. In altre circostanze, però, i gruppi erano davvero imponenti, anche di centinaia di persone, compresa magari la banda 213 Arazzi, pp. 62, 60-70, 72-74. 99 musicale per impressionare ancora di più. Così Kara Mehmed pascià si recò a Vienna nel 1665 con una scorta di ben centocinquanta persone.214 Un simile corteo non poteva certo attuare di nascosto il passaggio di un confine né ciò era richiesto. Al contrario i diplomatici godevano di una particolare protezione e un’offesa loro recata significava un reato di lesa maestà nei confronti del sovrano che li aveva inviati. Qualche volta ciò significava consapevolmente una dichiarazione di guerra, come accadde quando Vlad IV di Valacchia ordinò di conficcare tre chiodi nel turbante dei messi del sultano nel 1461.215 La protezione di un ambasciatore e del suo seguito si attuava per mezzo di lettere emesse sia dal sovrano che lo inviava sia da chi lo riceveva. Così alcune delle missive ufficiali ottomane della seconda metà del Quattrocento, che ancora si conservano a Venezia, sono proprio dei documenti che servivano ad accreditare un inviato o anche un ambasciatore, chiamato già a quest’epoca elçi, o in greco apokrysarion.216 Ugualmente gli ambasciatori o i baili veneziani consegnavano lettere del doge che li accreditava come suoi rappresentanti. Di solito era indicato il nome dell’inviato, la sua qualità e, per lo più genericamente, il motivo della missione. Una discrepanza tra quanto scritto e l’individuo che si presentava era prontamente rilevata in quanto non mancarono casi di impostori che si presentarono come inviati per essere spesati per qualche tempo e poi sparire con le somme o i regali loro assegnati dal governo ospitante. Quando partiva, l’inviato aveva dunque con sé una o più credenziali, emesse dal suo sovrano, o anche da altri importanti funzionari, per esempio nel caso dell’Impero Ottomano dal gran visir o da qualche altro membro del divan. Gli inviati ottomani a Venezia, che prima della partenza visitavano d’uso il bailo veneziano, ricevevano da lui un’ulteriore missiva che certificava al doge la loro qualità.217 Oltre a queste però un diplomatico doveva avere anche delle lettere per i comandanti delle località estere che avrebbe dovuto attraversare per giungere alla residenza del sovrano presso cui era accreditato. Se le prime erano però nominali, cioè indicavano solo lui quale rappresentante ufficiale, le seconde dovevano fornire protezione anche al suo seguito. In ambito islamico, esempi di salvacondotti si trovano anche nell’opera di alQalqašandī, autore di un manuale di cancelleria dell’epoca mamelucca; egli inserisce nella categoria della corrispondenza pubblica (mukātabāt ‘āmma), cioè lettere inviate a vari 214 215 216 217 Pedani, In nome del Gran Signore, pp. 54-55, Lewis, Europa barbara e infedele, p. 103. Babinger, Maometto, p. 218. Pedani, In nome del Gran Signore, pp. 8-9. La prassi venne poi estesa alle altre sedi diplomatiche presenti nell’Impero Ottomano e resa valida per tutti i sudditi che si recavano all’estero; venne abolita e sostituita dal passaporto solo con l’istituzione del Ministero degli Affari Esteri (Vekālet-i Hariciye) nel 1836; cfr. Zakia, The Reforms of Sultan Mahmud II, p. 424. 100 destinatari contemporaneamente, un decreto poco usato in Egitto ma di origine turca, detto barliġ (pl. barāliġ), spiegando con un esempio il suo uso: nel 729 (1328-1329) Timur Buġā, inviato degli ilkhanidi di Persia, giunto in Egitto mostrò al sultano Muḥammad b. Qalāwūn il suo documento e ne ottenne uno corrispondente in modo da aver libero transito nei paesi che avrebbe attraversato al ritorno. Sempre al-Qalqašandī spiega che, quando l’ambasciatore di un re arrivava ai confini del regno mamelucco, il governatore della regione doveva scrivere immediatamente al sovrano per informarlo della visita.218 Nel caso di due stati limitrofi il viaggio era di solito abbastanza semplice in quanto si potevano far pervenire all’inviato degli ordini del sovrano ai propri subordinati con cui si imponeva loro di ben trattarlo lungo il tragitto. Numerosi sono, per esempio, i documenti sultaniali che impongono ai sangiacchi, cadì, dizdar di fortezze e altri ufficiali delle località che si trovano sulla via tra Venezia e Istanbul di proteggere un ambasciatore veneto e il suo seguito: se la via seguita era quella marittima allora il documento era rivolto solo a coloro che stavano sulla costa, invece se l’inviato seguiva la via Egnatia, o un altro itinerario parallelo dall’Adriatico attraverso i Balcani, allora l’ordine era indirizzato alle autorità che stavano lungo la strada che univa le due capitali.219 Nel caso di uno scambio di ambasciatori tra stati che non confinavano, o che non erano separati dal mare, occorreva pensare anche a delle lettere per i signori dei paesi che avrebbero dovuto attraversare. Questi potevano fornire un’ulteriore protezione ufficiale all’inviato. Ancora una volta a Venezia si conservano vari name-i hümayun, oppure lettere di visir che certificano di contatti diplomatici con la Francia, e altri paesi. Per esempio già nel 1483 İskender passò per la città lagunare diretto a Parigi; lo seguirono sulla stessa via Kasım e Martino (1487), Mahmud bey (1570), il çeşnegir Hasan ağa (1581), il müteferrika e dragomanno Ali (1581),220 Hasan ağa (1583), il müteferrika Mustafa ağa (1597) e infine un dragomanno e un giannizzero nel 1652. Furono invece accreditati presso l’imperatore nel 1483 il subaşı Hüseyin e nel 1497 un altro anonimo inviato; il kapıcıbaşı Mustafa ağa, che passò nel 1490, era invece diretto a Roma, mentre Mustafa dei Cordovani nel 1574 era in viaggio per Firenze. Naturalmente un ambasciatore faceva meglio a evitare gli stati che erano in guerra con il suo sovrano, anche a costo di compiere ampi giri. Lo riscontrò a proprie spese l’inviato che, diretto a Parigi, si trovò proprio a Venezia nel momento in cui il sultano aprì le ostilità con la Repubblica per l’isola di Cipro. Se il latore ufficiale della dichiarazione di 218 219 220 al-Qalqašandī, Ṣubḥ, IV, pp. 58-59; VII, pp. 229-231. Cfr. per esempio Documenti turchi, nn. 417 (1539), 475 (1542); ASVe, Bailo, b. 250, reg. 332, c. 93, (1614 per il bailo Nani, il çavuş Huseyin e il dragomanno Gianesino Salvago); reg. 334, c. 49 (1622 dic.-1623 gen., per l’ambasciatore Simone Contarini); b. 251, reg. 335, c. 32 (1625, per Simone Contarini). Con lettere del sultano e di Siyavuş pascià al doge, cfr. Documenti turchi, nn. 893, 896. 101 guerra, il çavuş Kubad, poté tornare immediatamente in patria protetto dall’immunità diplomatica, non altrettanto poté fare Mahmud che non era stato accreditato presso il doge, ma che aveva solo una richiesta di transito: tenuto rinchiuso prima nella sua abitazione nell’isola della Giudecca e poi trasferito nel castello di San Felice a Verona attese tre anni prima di poter rimettere piede in patria.221 Se questo fu l’unico caso di un ambasciatore ottomano incarcerato in tempo di ostilità, più volte invece i baili veneziani accreditati alla Porta dovettero subire una simile sorte, soprattutto nel periodo più antico; a questo proposito occorrerebbe però approfondire cosa gli ottomani pensassero realmente della qualità diplomatica di una tale figura; abituati ad ambasciatori che si recavano in un paese straniero solo per la durata della loro missione, si trovavano di fronte a un diplomatico residente che per di più aveva molte competenze in fatto di commerci, di tasse e di giurisdizione sui sudditi del suo sovrano, simile al responsabile di un millet, o a quegli ambasciatori ragusei che, incaricati di portare il tributo della loro città, erano poi trattenuti, quasi ostaggi, fino all’arrivo del tributo successivo. Anche nel viaggio di ritorno il rappresentante diplomatico portava con sé delle lettere ufficiali. Egli aveva cioè il permesso che il sovrano presso cui era stato accreditato gli concedeva per ripartire; senza tale documento non avrebbe potuto lasciare il paese.222 Nel Settecento assieme alla lettera imperiale al bailo o all’ambasciatore veneziano veniva d’uso consegnata anche una missiva del gran visir. Spesso poi l’inviato che ritornava era accompagnato da qualche militare o interprete dell’altro stato almeno sino al confine, o a qualche importante centro da cui avrebbe poi proseguito il viaggio in sicurezza. Nel 1633, per esempio, Mehmed ağa venne inviato sino a Venezia dal pascià di Buda per accompagnare l’ambasciatore del re di Svezia alla Porta.223 Fu soprattutto in questo secolo che si moltiplicarono le scorte militari, quando il deteriorarsi della situazione internazionale, unito a un minor controllo esercitato dagli ottomani nelle loro province, rendeva il tragitto più pericoloso. Non solo ambasciatori e importanti personaggi della gerarchia statale furono comunque incaricati di missioni all’estero ma anche persone meno note. Tra questi abbondarono soprattutto gli interpreti, che potevano muoversi a loro agio in un paese straniero di cui parlavano come i nativi la lingua. Tra gli inviati ottomani che giunsero a 221 222 223 Pedani, In nome del Gran Signore, pp. 163-164. Molti esempi di documenti ottomani emessi per ambasciatori veneziani, cfr. per esempio Documenti turchi, nn. 6, 27, 44, 1863, 1867, 1869, 1881-1883, 1887, 1889, 1895, 1897, 18991900, 1901, 1903, 1905, 1908, 1924, 1926, 1939, 1941, 1946, 1948, 1954, 1956, 1961, 1964, 1968, 1970, 1972, 1974, 1980, 1982, 1984, 1986. Da notare come nel Settecento le recredenziali emesse dal sultano siano sempre accompagnate da una lettera simile emessa in nome del gran visir. Documenti turchi, nn. 1436, 1439. 102 Venezia tra la fine del Quattrocento e la guerra di Cipro vi furono tutti coloro che ricoprirono la carica di dragomanno del divan imperiale (divan-i hümayun tercümanı) e precisamente Ali bey bin Abdullah, Yunus bey bin Abderrahman, İbrahim bey (Joachim Strasz) e Mahmud. Per quanto riguarda invece gli interpreti veneziani, questi furono inviati soprattutto in momenti di alta tensione internazionale e infatti gli ordini del sultano che essi recavano con sé come protezione indirizzati agli ufficiali ottomani, spesso consentivano loro di prendere abiti turchi, indossare il turbante bianco e girare armati.224 Anche nella madrepatria, però, gli interpreti svolgevano una funzione importante in quanto erano il tramite ufficiale tra gli stranieri che arrivavano e i loro concittadini. 2. I mercanti Quando i sistemi di identificazione personale non erano ancora particolarmente raffinati era soprattutto l’essere inseriti in un gruppo che permetteva di viaggiare con maggior sicurezza e essere accolti senza troppa paura, anche perché spesso era l’intero gruppo a pagare le conseguenze o a utilizzare la rappresaglia nel caso fossero avvenuti dei fatti spiacevoli e non fossero state stabilite, mediante accordi internazionali, altre forme di tutela. Ampiamente documentati sono i molti episodi in cui nel Medioevo mercanti europei in paesi islamici furono chiamati a rispondere, quasi fossero in solidum, nel caso di problemi creati da uno di loro. Come si è visto, furono forse proprio gli ottomani, con la creazione del “sistema dei millet”, a portare alla sua estrema accezione l’idea della comunità, non più straniera, ma diversa per religione o etnia, eppure armoniosamente inserita nell’Impero. Non a caso proprio nella religione musulmana è già teorizzata l’esistenza di sudditi dello stato islamico diversi per religione e quindi formanti una classe a sé, quella dei dimmī, soggetta a obblighi particolari. Molti degli accordi internazionali stipulati tra paesi islamici ed europei servirono a proteggere mercanti e mercanzie soprattutto nel caso di stati che non avessero confini comuni e per i quali una guerra per occupare militarmente la terra dell’altro fosse molto improbabile. In particolare i vari sovrani che si succedettero sul trono d’Egitto, dagli ayyubidi ai mamelucchi, scelsero la forma del salvacondotto generale (amān ‘āmm) per fornire protezione ai mercanti stranieri. In tal caso un veneziano che si recava, per esempio, ad Alessandria d’Egitto per commercio non aveva bisogno di altro documento di protezione in quanto era la sua stessa comunità che certificava per lui, e in definitiva anche per la sua onestà. Abitare nello stesso fondaco, utilizzare lo stesso bagno, la stessa chiesa e lo stesso forno, faceva veramente di tutti i veneziani un gruppo compatto, sotto la guida del loro console. E così accadeva anche per i genovesi, i pisani o i catalani. 224 Cfr. per esempio ASVe, Bailo, b. 250, reg. 331, c. 12 (1595, ai sangiacchi e cadì dalla Porta a Clissa e viceversa, per Gianesino Salvago). 103 L’influsso degli amān ‘āmm egiziani fu talmente forte che quando Selim I conquistò l’Egitto fece proprio il punto di vista dei sovrani che aveva sconfitto riguardo alla propria autorità rispetto alle comunità straniere. Anche se non poté modificare, se non occasionalmente, la struttura degli ahdname emessi per stati con cui vi era stata una lunga frequentazione, tuttavia il suo tentativo fu quello di trasformarli in qualcosa di diverso. Furono i suoi epigoni, dalla fine del Cinquecento in poi, che portarono alle estreme conseguenze tale impostazione concettuale concedendo a Francia, Inghilterra e Olanda non più accordi internazionali bilaterali, ma dei veri e propri berat. Se i mercanti europei erano dunque protetti dalle capitolazioni, e soprattutto dalla compattezza della comunità di cui facevano parte, diverso fu il caso dei mercanti ottomani in terra cristiana. Innanzi tutto si trattava di persone di etnie e religioni diverse, pur essendo accomunate tutte dall’essere sudditi del sultano. Questo voleva dire che la comunità che si formava all’estero poteva anche non essere unita ma travagliata da liti e incomprensioni, dovute anche all’uso di lingue diverse. Inoltre essi usavano fermarsi solo per il periodo necessario ai traffici; non era pensabile per un musulmano trasferirsi definitivamente o crearsi una famiglia in un paese cristiano a meno di non abbandonare la propria religione, mentre al contrario, proprio grazie al concetto di dimma, era legalmente possibile per gli infedeli andare a vivere in un impero islamico senza per questo dover abbracciare l’islam. Per quanto riguarda Venezia è possibile rintracciare la presenza di mercanti ottomani in città sin dal Quattrocento. Se le prime notizie sono necessariamente sporadiche, quelle dei due secoli seguenti son ben altrimenti numerose. Si conoscono le zone da loro frequentate e dove per lo più abitavano. Si ha notizia di procure, contratti, vendite e acquisti, e soprattutto liti; esistono anche per il periodo che va dal 1631 fino alla fine del Settecento i certificati di morte di quanti finirono i loro giorni in città. L’istituzione del Fondaco dei Turchi, avvenuta nel 1621, non risolse completamente il problema dell’abitazione in quanto alcuni continuarono a gravitare soprattutto nelle parrocchie di San Martino e San Pietro di Castello, particolarmente frequentate da stranieri come greci o dalmati. Si trattò soprattutto di persone provenienti dalla Bosnia e dall’Albania, ma alcuni vennero anche dall’Anatolia, soprattutto dalla zona di Bursa, come sostiene Kafadar quando scopre uno sviluppo dell’attività mercantile ottomana a Venezia tra la fine del Cinquecento e del secolo successivo. 225 Come gli ambasciatori della Porta, così anche i mercanti usavano compiere il viaggio per lo più via terra sino a una città della costa adriatica e quindi usufruire di un passaggio o su un’imbarcazione veneta o su un legno ottomano. Se non avevano passato i giorni stabiliti in un lazzaretto di qualche città dello Stato da Mar, una volta giunti a Venezia venivano trattenuti per un periodo di varie settimane al lazzaretto, in modo da 225 Lucchetta, Turchi morti a Venezia, pp. 133-146; Kafadar, A Death in Venice, p. 198. 104 poter controllare la loro salute. Era questo che interessava principalmente allo stato, non la loro onestà come commercianti o la loro solvibilità, e infatti non veniva richiesto loro alcun documento che ne certificasse l’identità ma solo la salute.226 I mercanti ottomani erano protetti non solo dalla reciprocità di trattamento, garantita dalle capitolazioni, ma anche dalle leggi veneziane. Non avevano però a Venezia un console cui appoggiarsi, come invece accadeva in altre città dello Stato da Mar, dove sudditi veneti furono eletti dai ‘turchi’ per proteggere i loro interessi in loco, e vennero quindi ufficialmente riconosciuti prima dallo stato veneto, che cercò di farne dei propri funzionari, e poi, verso la metà del Settecento, dallo stesso sultano con un berat di nomina.227 Alcuni sudditi ottomani fecero il viaggio e poi risiedettero in città con la protezione di documenti ufficiali emessi dalla Porta che li accreditavano, non come ambasciatori, ma proprio come mercanti. In alcuni casi si trattò di vere e proprie missioni ufficiali, volte però non allo stabilimento di rapporti internazionali, ma all’acquisto di generi voluttuari per la corte, spesso in occasione di particolari festività; gli inviati sono allora definiti alle volte anche come “mercanti di corte” e l’accoglienza loro tributata non è dissimile da quella usata per altri inviati ufficiali. D’altronde il mercato di Rialto, così come la casa del bailo a Istanbul, era considerato dalla Porta come il luogo dove ci si poteva approvvigionare di qualsiasi oggetto, dai drappi di seta o velluto, agli occhiali e ai cannocchiali, quando non anche ai libri in caratteri arabi.228 Anche importanti personaggi della compagine governativa ottomana inviarono alle volte loro uomini a Venezia per acquisti; in tal caso era prassi consolidata accompagnarli con una lettera di presentazione in cui si specificava il loro nome e il motivo del viaggio: così fecero per esempio nel 1560 il beylerbeyi d’Egitto, Ali pascià, per due ebrei, entrambi di nome ·ayyīm, nel 1561 il sangiacco di Clissa, Mehmed, per il suo kâhya Süleyman, nel 1563 il nazır del sangiaccato di Bosnia ed Erzegovina, Mehmed, a nome del sangiacco Mustafa bey Malkovich, cugino del secondo visir, per il suo uomo Mustafa çelebi. Anche i mercanti potevano alle volte ottenere di travestirsi da turchi nei luoghi pericolosi; ne è testimonianza un ordine per i cadì dei sangiaccati di Aydın e Saruhan e di Smirne emesso nel 1608 a favore di Emanuele Negroponte.229 226 227 228 229 Moracchiello, Lazzaretti, pp. 819-836; D’Alberton Vitale, Tra sanità e commercio, pp. 253288. ASVe, Mercanzia, 2ª s., b. 44, fasc. 102, parte 3ª, c. 51. Cfr. per esempio Turan, Venedik, doc. IV; Documenti turchi, nn. 991-992; Fabris, Artisanat et culture, pp. 51-60. ASVe, LST, filza II, c. 66, 82, 131, cfr. anche c. 64 (1554, lo stesso Ali scrive a favore del commesso del mercante ebreo Samuele Cohen); Bailo, b. 250, reg. 331, c. 145. 105 Tra i mercanti furono soprattutto gli ebrei che riuscirono a ottenere name-i hümayun in loro favore indirizzati al doge. Un documento simile fu concesso nel 1585 a Giacobbe Castiel, che però lo presentò dopo una decina d’anni come se si fosse trattato di una raccomandazione per un suo stabilimento definitivo in città, fiducioso della scarsa conoscenza della lingua ottomana. Facilmente scoperto dagli interpreti dello stato, dovette fare ammenda di quanto aveva falsamente affermato. Un altro esempio di salvacondotto sultaniale, emesso questa volta a favore di una donna, Grazia, e di suo figlio, risale al 1569 ed è indirizzato, non al doge, ma ai cadì sulla strada da Venezia a Istanbul. Più che mercanti però, si trattò spesso nel caso di ebrei, di persone in fuga da Spagna e Portogallo dove la situazione si andava facendo per loro sempre più critica, che avevano parenti o amici a Istanbul che potevano presentare arz al sultano e pagare le relative tasse per ottenere i documenti di protezione. Tale fu il caso di Ezibona e delle sue figlie, imparentate con la vedova di Giovanni Miches, che passarono per Venezia nel 1580, e anche quello di Alvaro Mendez, a favore del quale fu emessa nel 1584 una lettera in cui Murad III dichiarava che egli era stato chiamato ufficialmente a Istanbul e per questo chiedeva di accompagnarlo da Venezia a Ragusa.230 I sudditi ottomani a Venezia non formarono dunque una comunità compatta, non abitarono sempre negli stessi edifici ed erano privi di un rappresentante ufficiale. Importante è quindi capire chi certificava la loro identità, o almeno solvibilità, alla loro controparte commerciale. In questo caso bisogna prendere in esame il ruolo svolto dagli intermediari nella città lagunare. Si trattava di un corpo di funzionari, riconosciuti dallo stato, non di persone raccogliticce operanti al di fuori di ogni regola. Le prime notizie dell’esistenza di sanseri de turchi, come erano allora chiamati quelli specializzati con tale clientela, risalgono al 15 dicembre 1534; di fronte ai cattivi comportamenti tenuti da persone non autorizzate che si intromettevano negli affari dei sudditi ottomani, «sì mercanti come oratori et altri de la dita nation che vengono in questa città», venne stabilito che simili contratti si sarebbero potuti stringere solo alla presenza di Girolamo Civran, interprete per la lingua greca e turca e notaio della cancelleria ducale.231 230 231 ASVe, LST, filza I, c. 76, cfr. anche cc. 78, 80, 81, 83, 85, 87 (1585 lettere di varie autorità ottomane a vari destinatari cristiani e musulmani in favore di Mosé Sarfati per proteggere il suo viaggio fino a Istanbul); Documenti turchi, nn. 931, 1064-65, 1067. Wittek, A letter of Murad III, pp. 381-383 (trascrizione e trad. del documento del 1580, pubblicato in un catalogo antiquario di Istanbul; questo era originariamente la c. 42 della filza VIII, della serie LST, conservata presso l’ASVe; oggi di tale filza si conserva solo la copertina e qualche foglio iniziale; il resto evidentemente venne sottratto e venduto sul mercato antiquario più di cinquant’anni fa. ASVe, CN, reg. 22, cc. 153v-154. Sull’importanza degli interpreti nelle transazioni economiche effettuate nell’Impero Ottomano, cfr. Çiçek, Interpreters, pp. 1-15. 106 Mancato di vita Girolamo Civran nel 1550, venne sostituito da Michele Membré.232 Nel giro però di qualche decina d’anni, a riprova dell’aumento della presenza ottomana a Venezia già ipotizzato da Kafadar, si cominciarono ad affidare «sansarie ordinarie solo con turchi», cioè il titolo di intromettitore ufficiale solamente con i mercanti ottomani, a persone che conoscevano la lingua e che però dovevano comunque pagare una tassa a Membré pur non utilizzandolo come interprete. Il primo fu forse, nel 1561, un veneziano, Michele Summa di Santo, che era stato fatto schiavo, venduto e rivenduto, aveva rinnegato, era tornato in città dopo nove anni e mezzo e vedeva nell’utilizzo della lingua e delle conoscenze della schiavitù un mezzo per sopravvivere. Altri lo imitarono, come nello stesso 1561 Simone armeno che abitava a Venezia da ventotto anni e poi, nel 1571, Filippo Emmanuel di Cipro, nipote di Membré, già schiavo a Istanbul e ammesso alla sensaria, data la situazione, nonostante non avesse abitato in città per dieci anni come stabiliva la legge.233 Al tempo di Membré vi erano dunque sanseri ordinari che, pur non conoscendo la lingua turca e dovendo quindi utilizzare l’interprete ufficiale, si erano comunque specializzati, anche se in modo non esclusivo, in contrattazioni con mercanti ottomani. Accanto a loro operavano anche persone che, proprio grazie alle loro abilità linguistiche e alle vicende della loro vita passata, avevano avuto il permesso di esercitare la sansaria, ma solo per i sudditi della Porta. Da quanto detto si evince che era dunque l’interprete ufficiale della Repubblica, come Civran e poi Membré, oppure chi aveva ottenuto il diritto di esercitare «solo con turchi» proprio grazie alle sue conoscenze, a fornire al contraente quelle assicurazioni di affidabilità e solvibilità che erano alla base di ogni scambio commerciale corretto. In un’epoca in cui mancava il documento di identificazione personale, accanto al denaro contante e alle lettere di cambio, era soprattutto il rapporto interpersonale ad avere valore, le conoscenze che si potevano vantare anche relative ad amici di amici o a compaesani, e infine la fama che in certi ambienti correva rapidamente di bocca in bocca. 3. Schiavi in fuga Accanto a chi aveva fatto della frontiera la propria dimora vi fu anche chi vi si tratteneva solo per il tempo necessario ad attraversarla. Si trattò spesso di persone che avevano deciso di abbandonare patria e fede o di chi, al contrario, voleva ritornare alla propria casa dopo un periodo di prigionia o schiavitù in terra straniera. Molto spesso i prigionieri di guerra, che 232 233 ASVe, CN, reg. 27, c. 86v; su questo interprete cfr. Membré, Relazione di Persia, pp. XI-LXX; Membré, Mission, pp. VII-XXVIII. ASVe, CN, reg. 33, cc. 39, 62v; reg. 39, c. 17v; reg. 40, c. 166v; cfr. anche filze 39, 48. Riguardo ad altri sensali, cfr. Vercellin, Mecanti turchi a Venezia, pp. 243-276; Dal Borgo, Neo-convertiti, pp. 163-165. 107 avrebbero dovuto essere restituiti alla cessazione delle ostilità come dicono la maggior parte degli accordi tra stati cristiani e Impero Ottomano, vennero trattenuti come schiavi da chi non aveva alcuna intenzione di perdere una mano d’opera a costo zero. Diversa fu invece la situazione sul fronte persiano dove altri musulmani, sia pure sciiti, non potevano certo essere fatti schiavi. Alcuni padroni arrivarono ad affermare che non si trattava di persone catturate in guerra ma di schiavi comprati e venduti, oppure di figli di schiavi. Le capitolazioni veneto-ottomane stabilirono sempre, tra le loro clausole, lo scambio reciproco dei prigionieri. Ciò significava che nello stato di Venezia, in tempo di pace, almeno ufficialmente, non potevano esistere sudditi del Gran Signore in schiavitù; inoltre la Repubblica imponeva ai suoi capitani di liberare e restituire ai turchi anche i musulmani che venivano trovati prigionieri su legni di corsari o pirati cristiani; ugualmente la Porta doveva restituire i veneti catturati in battaglia, pur rifiutando spesso di liberare quelli che erano stati fatti schiavi in circostanze diverse.234 Durante le guerre invece, come per esempio la lunga guerra di Candia o quella che terminò con la pace di Karlowitz, i rematori musulmani erano numerosi sulle galee marciane che necessitavano di un numero altissimo di rematori, anche 150 in una trireme cui si dovevano unire militari, ufficiali e marinai; la situazione degli schiavi era terribile, con una mortalità altissima, e quindi dovevano essere spesso sostituiti. Nei periodi di pace, invece, se vi furono musulmani al remo sulle galee o a servizio nei palazzi veneziani ciò avvenne in segreto: i capitani delle galee, anche di quelle appartenenti allo stato, li tenevano nascosti, cercando in ogni modo di evitare i controlli, oppure li annotavano tra i defunti a bordo; in tal modo si avevano a basso costo persone per un lavoro massacrante, sempre più spesso disdegnato dai rematori liberi, i cosiddetti “buonavoglia”.235 Comunque, sia durante che dopo la cessazione delle ostilità, chi poteva si dava alla fuga nella speranza di tornare alla propria patria. Si trattava di gente disperata, spesso senza denaro, facile preda di imbroglioni e truffatori che, con la promessa di traghettarli al di là di un fiume o di farli passare per zone pericolose, carpiva loro tutto ciò che possedevano. Il sofferto racconto delle peregrinazioni di Osman ağa di Temesvar236 fornisce una chiara immagine di quanto tali viaggi fossero pericolosi, di quanto la disperazione spesso seguisse alla speranza, di quanto cattivi potessero essere gli uomini verso i propri simili. La sete di guadagno passava sopra ogni considerazione morale o religiosa, e solo chi disponeva di molto denaro e altrettanta furbizia poteva sperare di sopravvivere e riuscire nel proprio intento. I veneziani non erano migliori dei turchi in questo: per due volte Osman ağa ne incontrò nei suoi viaggi tra i Balcani e Vienna e per due volte si trattava di mercanti di 234 235 236 Zug Tucci, Venezia e i prigionieri, p. 51; Faroqhi, Subjects of the Sultan, p. 90; Bono, Schiavi musulmani, pp. 450-460. Lo Basso, Schiavi, forzati e buonevoglie, p. 204. Documenti turchi, n. 198; Osmân Agha de Temechvar, Prisonnier des infedèles, pp. 145-201. 108 schiavi, che compravano uomini per rifornire di rematori le galee della Serenissima. Si era alla fine del Seicento, quando di schiavitù in Europa ormai si parla poco, eppure esisteva ancora, anche in Italia, come ha dimostrato il recente volume di Salvatore Bono sugli schiavi musulmani. Dal Sud Italia la via di fuga più rapida prevedeva il passaggio via mare verso il Maghreb. Nel Mediterraneo esistevano isole, come Giannutri, e ancor di più Lampedusa, che potevano fornire ricovero ai fuggitivi. Per la seconda esisteva anche un tacito accordo tra cristiani e musulmani per cui si lasciavano provviste e denari per chi ne avesse avuto necessità in una caverna dove si trovavano sia un altare dedicato alla Madonna sia la türbe di un marabutto. Una leggenda racconta che nell’isola abbia abitato anche un eremita che si prendeva cura di accendere ogni notte un lume per indicare la via dell’isola e che si presentava come musulmano ai musulmani e cristiano ai cristiani, tanto che parlare in Sicilia del «romito di Lampedusa» significa ancor oggi indicare una persona con una doppia fede.237 Un’altra via di fuga per uno schiavo musulmano poteva essere rappresentata dalle terre della Repubblica di Venezia, unico stato italiano a confinare direttamente con l’Impero Ottomano; inoltre, come già detto, gli accordi di pace con la Porta imponevano ai veneziani di rispettare ed eventualmente aiutare i musulmani fuggiaschi di qualsiasi condizione. Se degli schiavi musulmani si sa comunque poco, e rari sono i racconti delle loro disavventure come quelle di Osman ağa, maggiori notizie si hanno sui cristiani in fuga, sia grazie agli archivi dell’Inquisizione, sempre pronta a controllare chi poteva aver abiurato alla fede, come dimostrano i libri di Bartolomé e Lucille Bennassar e di Lucetta Scaraffia, sia per i racconti che alcuni di loro hanno lasciato, che si trasformarono ben presto in un genere letterario diffuso e apprezzato con topoi come la cattura, la schiavitù e il ritorno in libertà. Tra i più famosi esempi di questa narrativa si ritrova un episodio del Don Chisciotte il cui autore, Miguel de Cervantes, fu realmente ad Algeri, schiavo del comandante di quella piazza, il rinnegato veneziano Venedikli Hasan pascià. Esemplare di tale letteratura può essere considerata anche la pseudobiografia di Andres Laguna, summa di molti altri racconti sull’argomento, che descrive le peripezie di un giovane spagnolo che sarebbe stato catturato nel 1552 al largo dell’isola di Ponza, costretto al remo e che quindi, dopo essersi inventato la professione di medico, sarebbe riuscito a fuggire passando per Monte Athos, le isole dell’arcipelago greco e raggiungendo quindi la Sicilia. 238 Se nella giurisprudenza occidentale la fuga di uno schiavo si configurava come un reato di furto, anche se di se stessi, molte volte sudditi ottomani accusavano i loro exschiavi cristiani, che avevano già raggiunto le terre di Venezia, di aver sottratto loro beni o 237 238 Scaraffia, Rinnegati, pp.15-18; Bono, Schiavi musulmani, pp. 463, 468. Fabris, Hasan, pp. 51-66; Laguna, Avventure. 109 denari in modo che venissero perseguiti anche lì dalla giustizia in base a quanto stabilito dagli accordi di pace. Tali lamentele diedero spesso luogo a infiniti contenziosi tra le autorità confinarie, e qualche volta coinvolsero anche l’autorità centrale. Un firmano del 1533, per esempio, indirizzato dal sultano al sangiacco e ai cadì di Morea stabilisce l’infondatezza delle accuse rivolte da alcuni sudditi turchi a ex-schiavi veneti, liberati dal capitano generale da mar da una galeotta barbaresca.239 Uno schiavo in fuga non aveva di solito documenti da utilizzare che lo proteggessero durante il viaggio. Qualche volta però qualcuno cercava di fornire loro una protezione ufficiale. Lo fecero per esempio i rappresentanti veneziani a Costantinopoli, ma non sempre la cosa andò a buon fine. Per esempio nel 1574 il bailo Antonio Tiepolo ne fece fuggire alcuni su una nave veneta dove però vennero ripresi da emissari della Porta, che trovarono loro addosso anche una lettera con il sigillo del rappresentante della Repubblica. Nel caso invece si trattasse di schiavi liberati allora era la Porta stessa a fornire loro dei documenti indirizzati alle autorità ottomane che certificavano il fatto che stavano tornando in patria.240 Pure le donne, anche se in minor numero degli uomini in quanto avevano meno occasioni di essere catturate, vissero in schiavitù presso padroni cristiani o ottomani e anch’esse, se poterono, spesso tentarono la fuga. Nella suo pericoloso ma felice viaggio di ritorno verso la patria, Osman ağa portò con sé anche un amico, Mehmed, due donne musulmane e una bimba di tre o quattro anni. Ancora, un documento del 1559 parla di una madre e due figlie catturate in Ungheria che nel 1559 riuscirono, da Clissa, a rifugiarsi nella città veneta di Traù. Nello stesso anno Franceschina Zorzi Michiel, la madre veneziana di quello che sarebbe diventato il più famoso capo degli eunuchi bianchi del Serraglio di fine Cinquecento, Gazanfer, venne catturata, con i suoi quattro figli, su una nave che attraversava l’Adriatico; ella non poté salvare i due maschi, che vennero portati nel palazzo imperiale di Istanbul, ma solo le due femmine con cui riuscì dopo varie peregrinazioni a tornare a Venezia.241 4. Altri mezzi di identificazione Quando si leggono opere biografiche di persone che compirono lunghi viaggi dall’Oriente all’Occidente o viceversa, ciò che colpisce è il fatto che lo straniero veniva visto con diffidenza dalla popolazione dei paesi attraversati e ancora di più dagli abitanti delle zone di confine. Il documento di un’alta autorità indirizzato a funzionari dei paesi lungo la via 239 240 241 Documenti turchi, n. 291. ASVe, LST, filza III, c. 40; Bailo, b. 251, reg. 334, c. 6 (1621, per sette veneziani liberati, già catturati da Abaza Mahmud). Osmân Agha de Temechvar, Prisonnier des infedèles, pp. 143-144, 193; Pedani, Veneziani a Costantinopoli, pp. 67-84; Pedani, Safiye’s Household, pp. 9-32; Documenti turchi, n. 749. 110 non era obbligatorio anche se poteva certamente appianare alcune difficoltà. In quelli emessi dalla Porta di solito si precisavano solo il nome e la qualità della persona che li recava, e alle volte un suo generico itinerario o altre informazioni come, per esempio, se procedeva in segreto e se era armato; non vi erano invece descrizioni fisiche che permettessero di identificare con certezza la persona. Di norma simili documenti erano rilasciati a favore di chi viaggiava per conto dell’uno o dell’altro stato ma, come già visto, in qualche caso anche a privati cittadini che si recavano in terra straniera per commerciare, per motivi religiosi, per raggiungere i propri parenti o altro.242 Tra coloro che svolgevano un servizio pubblico bisogna collocare però anche i corrieri e i portalettere, indicando con il primo termine coloro che erano stipendiati da uno stato e con il secondo chi invece perseguiva tale attività agli ordini di compagnie private, oppure per i comuni cittadini. Il servizio postale, considerato come prerogativa sovrana, era già diffuso nell’Egitto musulmano sin dal 659/1260-61, quando venne organizzato dal sultano Baybars. Nel periodo più splendido dell’Impero Mamelucco, quando i confini dello stato erano quasi invalicabili da chi non era autorizzato, gli incaricati del servizio postale erano numerosi: essi utilizzavano dei documenti che certificavano la loro qualità; alQalqašandī, descrivendo i mukātabāt, inserisce in tale categoria i passaporti āwrāq alğawāz o āwrāq al-t฀arīq (sing. waraqah) utilizzati dai corrieri per avere libero transito, che certificavano l’identità.243 Accanto alla carta però esistevano anche altri contrassegni che permettevano all’incaricato di essere facilmente riconoscibile, magari da lontano. Si trattava di marchi di riconoscimento, di cuoio argentato o dorato, simili a monete ma grandi come il palmo della mano, legati al collo con una cordicella o un foulard di seta gialla e tenuti normalmente sotto i vestiti, anche se da dietro pendeva un grosso fiocco molto visibile, utile anche per ricevere subito il cambio dei cavalli alle stazioni di posta. Una volta tornati al Cairo i corrieri dovevano restituire alla cancelleria (dīwān al-inšā’) il marchio di cuoio che, essendo coniato anch’esso dalle zecche di stato, era concettualmente legato al diritto sovrano di battere moneta.244 La posta ottomana discendeva da quella esistente negli antichi stati islamici e mongoli. Sin dai tempi di Mehmed II vi erano messaggeri di stato (ulak o tatar) il cui compito era quello di tenere i contatti tra la Porta e le autorità provinciali; comunque il servizio era utilizzato anche per raccogliere informazioni dalle zone di frontiera. I privati 242 243 244 ASVe, LST, filza IV, c. 106 (1591, il kapıağası Gazanfer per la madre che da Venezia deve raggiungerlo a Istanbul), filza V, c. 131 (1593, Abdi alaybeyi inviato a Venezia dal beylerbeyi di Bosnia per Luca Stagner interprete); Bailo, b. 259, reg. 361, cc. 126-127 (1747, per Antonio Becich che si reca in Valacchia); Documenti turchi, n. 401, (1537, rilasciato per Giovanni Soranzo parente dell’ambasciatore veneto che si reca da Istanbul a Gerusalemme). al-Qalqašandī, Ṣubḥ, VII, pp. 231-233. al-Qalqašandī, Ṣubḥ, XIV, pp. 366-372; Sauvaget, La poste, pp. 20, 44-49. 111 usavano invece per la loro corrispondenza o vettori occasionali (emanetçi) o persone pagate (sai). Si trattava soprattutto di una posta a cavallo, per cui si usavano menzilhane (stazioni di posta) e han per il cambio delle cavalcature, mentre scorte di giannizzeri aiutavano la sicurezza.245 Come visto, il nome di qualche misura di lunghezza ottomana era concettualmente legato al servizio postale. Quando gli ulak erano utilizzati per invii di missive ufficiali all’estero allora si scrivevano anche per loro lettere di accreditamento che specificavano la loro qualità e il motivo della loro missione, così come era la prassi per gli inviati diplomatici. La posta veneziana da e per Istanbul usò per secoli solo corrieri e messaggeri che andavano a piedi; anche qui vi era un servizio operato dallo stato assieme ad altre reti di trasmissione gestite da e per privati. Le persone che si dedicavano a tale attività erano di solito o schiavoni o sudditi ottomani del Montenegro. A questo proposito un episodio, avvenuto nel 1590, causò fiere proteste da parte del bailo, il cui arz alla Porta determinò un name-i hümayun, per il sangiacco di Scutari, con cui si imponeva al cadì di quella località di revocare l’ordine da lui dato agli uomini del Montenegro di non servire più la Serenissima. Si ha notizia che già intorno al 1524-26 venne emesso un documento imperiale per fornire loro protezione a quanti esercitavano tale mestiere, ma in molti periodi di tensione internazionale, quando portare lettere per i veneziani voleva dire rischiare la vita, i messi dovevano procedere nascostamente e non avevano quindi lettere che certificassero la loro professione, né delle autorità veneziane né tantomeno di quelle ottomane.246 Anche altri stati utilizzarono propri servizi postali. Per esempio sin dal 1514 la Polonia e l’Impero Ottomano assicuravano reciprocità di trattamento agli “ambasciatori, mercanti e nunzi” e, in tale clausola, poi ripresa negli ahdname successivi, alcune traduzioni in italiano facevano rientrare anche i corrieri; per quanto riguarda la Francia nel 1542 il sultano chiese al doge di lasciare libero transito ai messi ufficiali da e per quel paese.247 Alle volte nei documenti imperiali rivolti a certificare la qualità delle persone si trovano anche permessi di esportazione per merci proibite. Riguardano soprattutto cavalli, di solito consegnati come dono a qualche ambasciatore che tornava in patria. Da notare come anche i passaporti per le navi contevano la clausola che esse potevano toccare i porti ottomani, a meno che non avessero imbarcato merci proibite come armi o cavalli.248 245 246 247 248 Stein, Ottoman Ambassador, pp. 219-312. ASVe, Bailo, b. 250, reg. 330, cc. 18a-b; De Zanche, I vettori, pp. 19-43; De Zanche, Tra Costantinopoli e Venezia, pp. 33-71; Fedele, Un enigma di storia postale, pp. 5-17. Cfr. Kolodziejczyk, Ottoman-Polish Diplomatic Relations, p. 217; Documenti turchi, n. 486. ASVe, Bailo, b. 251, reg. 335, c. 32 (1625, per Simone Contarini, con cavallo di pregio dono del sultano); b. 252, reg. 343, c. 37 (1593). 112 Interessante notare come, per quanto riguarda l’Egitto mamelucco, potevano venir emessi anche delle specie di salvacondotti soprattutto a protezione di chi non aveva obbedito a qualche ordine e quindi temeva una punizione, anche se in teoria, da un punto di vista islamico, i salvacondotti per i musulmani (amānāt li-ahl al-Islām), non dovevano esistere in quando questi potevano viaggiare sicuri entro la dār al-Islām, Si trattava più precisamente di una specie di certificazione di amnistia, come per esempio il dafn, il cui nome indica il celare qualcosa, e precisamente i peccati, un tipo di documento comunque non più in uso da tempo già all’inizio del Quattrocento. Nel regno mamelucco esistettero anche i ṭarḥānīyāt, cioè lettere di libertà, che venivano consegnati al momento del pensionamento con o senza paga, soprattutto a funzionari statali “signori della spada”, come per esempio gli emiri, ma in qualche caso, anche a qualche impiegato tra i “signori della penna”. Tali lettere consentivano di stabilirsi o viaggiare ovunque avessero voluto entro i confini dello stato.249 Per terminare un discorso sui mezzi di identificazione personale utilizzati un tempo non si può fare a meno di citarne uno certo molto efficace, ma più macabro e drastico, e comunque utilizzabile solo in casi particolari, cioè quando ci si voleva accertare che un reo condannato in contumacia, o un nemico dello stato, fosse stato veramente eliminato. Vi fu qualche caso anche a Venezia. Qualche cacciatore di taglie, dopo aver ucciso, inviò al Consiglio dei Dieci la testa spiccata dal busto in modo da poter riscuotere quanto era stato promesso.250 Più diffusa fu certo tale pratica nell’Impero Ottomano: addirittura sul muro esterno del Topkapı vi sono ancora delle nicchie dove venivano poste le teste dei malfattori giustiziati e non fu raro il caso di simili macabri trofei inviati in gran numero come munifico dono al sultano da comandanti e militari.251 La testa di un capo persiano, forse del famoso Alâüdevvle per alcune fonti veneziane ma non per quelle ottomane, giunse anche in dono al doge all’inizio del Cinquecento da parte del sultano.252 Un tempo era infatti piuttosto difficile poter rappresentare efficacemente l’aspetto di una persona in uno scritto, a parte la descrizione di qualche segno particolare; per identificare un uomo con sicurezza sarebbe stato necessario almeno un ritratto. Infatti a un simile espediente ricorse, per esempio, il sultano Bayezid, nonostante la sua riprovazione per le immagini: egli inviò in dono al duca di Mantova due quadri raffiguranti uno il 249 250 251 252 al-Qalqašandī, Ṣubḥ, XIII, pp. 48-53, 352-355. Fabris, Il dottor Girolamo Fasaneo, pp. 105-118. Cfr. per esempio ASVe, LST, filza IV, cc. 79-80 (senza data, circa 1583, Hasan ağa, racconta di un attacco ottomano nei pressi di Zara e dell’invio a Istanbul delle teste di dodici persone uccise). Sanudo, I diarii, XXII, col. 460, 462, 465; İdrîs-i Bidlîsî, Selim şah-nâme, p. 250. 113 principe Cem e l’altro un inviato del sultano mamelucco che lo proteggeva; ma in questo caso si trattava probabilmente dell’organizzazione di un attentato in Italia.253 5. Il fronte sanitario Nel 1348 si diffuse in tutta Europa un’epidemia di peste, una malattia epidemica che doveva poi ricomparirvi periodicamente per più di tre secoli. Posta a est dell’Adriatico Ragusa fu la prima città a istituire una forma di quarantena nel 1377, circa vent’anni dopo essersi sottratta alla sovranità di Venezia. Nel giro di pochi anni fu imitata da numerosi altri stati. Nel 1423 anche il Comune Veneciarum cominciò a vietare sistematicamente i contatti con le zone a rischio. A Venezia l’ospedale destinato ad accogliere gli appestati assolse poi anche la funzione di luogo di quarantena per gli stranieri provenienti da paesi infetti, finché dal 1471 venne sostituito in quest’ultima funzione da un nuovo complesso. La quarantena era obbligatoria sia per i mercanti che per le mercanzie, tanto che già all’inizio del Cinquecento si diceva in città che il Lazzaretto Nuovo funzionava anche come dogana da mar e, qualche volta, anche come dogana da terra; era proprio in tale luogo che si instaurava il primo contatto tra i mercanti e gli interpreti e gli intromettitori che li avrebbero poi seguiti nelle loro contrattazioni. Il lazzaretto era dunque anche un luogo di incontro in cui i mercanti, pur di malavoglia, stringevano amicizie e conoscenze tra loro e con alcuni rappresentanti ufficiali dello stato veneto.254 Tra i compiti delle autorità dello Stato da Mar vi era anche quello di informare tempestivamente il governo centrale di possibili focolai di epidemie, in modo che potessero essere immediatamente sospesi i contatti normali con quei luoghi, mentre speciali lasciapassare, le fedi di sanità, erano usate in terra e in mare per controllare la provenienza dei viaggiatori e dei carichi: controfirmati ai vari posti di controllo, tali documenti dovevano essere presentati all’arrivo a Venezia.255 In questo caso dunque la discriminante di identificazione non era per lo stato quella relativa all’individuo in sé, o alla sua qualità o professione, ma la zona da cui proveniva per poterne controllare lo stato di salute. La pratica del lazzaretto venne utilizzata anche in alcuni paesi islamici, almeno nel Settecento. Vi sono testimonianze che in quel secolo ne esisteva uno a Tunisi nel quale venivano trattenute le merci e le persone provenienti da navi in cui si era manifestato il morbo. Altri paesi del Nord-Africa non furono così rapidi nell’adottare misure di prevenzione per le malattie infettive. Comunque almeno alcuni porti marocchini poterono utilizzare le rigorosissime quarantene imposte nei porti iberici. Quando si temeva una possibile diffusione del contagio anche in Marocco non vi erano ammesse navi, provenienti dalle zone a rischio, se non con la fede di sanità spagnola. Quando però il pericolo 253 254 255 Pedani, In nome del Gran Signore, p. 111. Preto, Le grandi paure, pp. 177-192. Palmer, L’azione della Repubblica, pp. 103-110. 114 diminuiva allora alle volte si ricorreva all’uso locale di confinare uomini e merci in aperta campagna limitatamente a qualche giorno. Se in quest’epoca in generale nelle province ottomane erano comunque ancora soprattutto i consoli stranieri a cercare di convincere indifferenti pascià a prendere in considerazione il fronte sanitario, già all’inizio del secolo seguente i governatori stessi dell’Impero cominciarono a preoccuparsi direttamente della diffusione del contagio. Queste iniziative risultarono dettate dalle circostanze, furono abbandonate dubito dopo aver raggiunto i primi risultati e non la remissione del flagello, ebbero quindi un’efficacia limitata e non vi fu coordinamento tra le varie amministrazioni locali; i metodi per combattere le epidemie tuttavia furono quelli utilizzati in Europa e, quando qualche energico governatore venne imitato dai pascià delle zone limitrofe, la peste, pur senza sparire, cominciò lentamente ad arretrare anche nell’Impero.256 Venezia, porta dell’Oriente, si sentì più esposta di altri stati al contagio che arrivava da Est. La linea di confine che da Cattaro in poi divideva il suo territorio da quello musulmano si trasformò poco alla volta in un cordone sanitario che separava due zone dove la virulenza e il contagio dell’epidemia avevano valenze diverse. Spesso lasciarsi alle spalle il territorio cristiano era vissuto come un’entrata all’inferno, non per motivi religiosi bensì sanitari: ci si lasciava alle spalle un paese nel quale venivano già applicati con rigore gli accorgimenti che la scienza e l’esperienza avevano individuato come sistemi utili per ridurre, se non debellare, la propagazione del miasma, per entrare nel regno della morte. L’osservanza dei cordoni sanitari divenne via via più rigorosa: non ci si poteva permettere di fare preferenze né per il nobile né per il ricco; tutti gli uomini, le bestie e financo le merci erano ormai considerati possibile veicolo di infezione. Anche la posta poteva trasmettere la peste, per cui veniva spesso affumicata in modo che la forza del fuoco la purificasse, o “profumata” con olio di oliva e bacche di ginepro, o ancora trasportata in cassette catramate, ritenendo che, con questi accorgimenti, il morbo non si diffondesse. Il rigore veneziano in materia sanitaria venne, anche se con un certo ritardo, imitato da altri stati confinanti con l’Impero Ottomano, e per questo più esposti al contagio. Nel 1770 lo stato austriaco utilizzò a questo scopo una struttura esistente, quella del Militärgrenze, cioè la fascia di territorio larga da 15 a 20 chilometri e lunga più di mille, dall’Adriatico ai limiti della Bukovina e della Moldavia, che ricorda la struttura del limes romano e che era stata creata dopo la pace di Karlowitz. In tale zona la struttura militare e quella sanitaria vennero a sovrapporsi e a operare congiuntamente, mentre la paura dell’invasione militare lasciava il posto al timore della diffusione di epidemie.257 256 257 Ciammaichella, Il ‘Giornale istorico’, pp. 21-23; Speziale, Oltre la peste, pp. 207-212, 252256; Arribas Palau, Los hermanos Chiappe, pp. 813-869; Panzac, La peste, pp. 452-454. De Zanche, Tra Costantinopoli e Venezia, pp. 104-109; Selmi, Il Magistrato di Sanità, pp. 2838; Panzac, Politique sanitaire, pp. 87-108. 115 116 CONCLUSIONE Un tema come quello del passaggio dalla frontiera al confine può essere affrontato da molteplici angolature: può rivolgersi al passato, al mondo antico; può coinvolgere la terra, il mare e persino il cielo; può dispiegarsi in resoconti da histoire événementielle; può limitarsi alla micro-storia, può infine inserirsi in un discorso più ampio di rapporti economici o sociali, fino a sfociare nella geo-politica e nell’attualità, nelle guerre che oggi si stanno combattendo e nelle paci che faticosamente si vorrebbero concludere. Si tratta dunque di un tema complesso che, in una monografia, può essere affrontato solo da un limitato punto di vista per non correre il rischio di dispendersi in discorsi troppo generali. Lo scopo di queste pagine è stato dunque quello di prenderne in considerazione alcuni elementi basilari nell’ambito dei rapporti istauratisi tra il mondo musulmano e quello cristiano sullo scorcio del Medioevo e quindi in Età Moderna. Se già esiste una ricca produzione relativa alla frontiera di al-Andalus e al continuo arretrare, nella penisola iberica, dei limiti posti per separare i regni mori da quelli cristiani, non altrettanto può dirsi per le frontiere tra i paesi musulmani e l’Europa in Età Moderna. La storiografia ottomanistica dell’ultimo secolo è stata fortemente influenzata dal concetto di frontiera, ma solo rispetto ai primi secoli di un impero che poi, al massimo della sua espansione, venne a dominare quasi tutto l’orbe islamico. Considerare l’avanzata di Osman e dei suoi primi successori solo come un ğihād, o trovarvi anche altre motivazioni, significò schierarsi con una scuola precisa di pensiero. Per fortuna oggi le posizioni si sono molto ammorbidite ed è possibile scegliere quanto di positivo vi può essere in ciascuna di esse, senza dimenticare il pragmatismo che caratterizzò sempre il comportamento ottomano. Poco invece è stato scritto sulla frontiera di questo impero in Età Moderna e sul suo successivo trasformarsi in un confine. Quasi venticinque anni fa comparve un volume di Andrew C. Hess relativo ai contatti che ebbero luogo nell’Africa del Nord tra sudditi del sultano e del re di Spagna. Alcuni saggi di Rifa'at Ali Abou El-Haj su quanto avvenne ai tempi della pace di Karlowitz risalgono invece a circa trent’anni fa. Solo la pubblicazione degli atti di alcuni convegni tenutisi in questi ultimissimi tempi dimostrano lo svilupparsi di un certo interesse per questo tema, anche se in tale campo la storiografia ripropone spesso ancora idee preconcette che è difficile accantonare. Solo la frequentazione assidua dei documenti permette invece di fornire basi concrete a ipotesi nuove. In questo volume si è dunque partiti dai termini usati, sia in Europa che nel mondo arabo-turco, per indicare i concetti di frontiera e confine e altre entità ad essi correlate, cercando di precisare le diverse sfumature che li contraddistinguevano. Comprendere esattamente i punti di vista diversi è infatti il punto di partenza imprescindibile per ogni successivo discorso. Si è quindi passati a considerare il concetto di frontiera da un punto di 117 vista storiografico, ripercorrendo a grandi linee la diatriba storiografica nata a questo proposito nel Novecento. Il passo successivo è stato quello di prendere in considerazione gli accordi di pace stipulati tra alcuni paesi islamici ed europei. Ciò ha permesso di notare come la vicinanza o la lontananza tra due contraenti abbia influenzato il tipo di accordo stipulato: se i due stati avevano confini terrestri comuni allora il tipo di documento prescelto da parte islamica derivava di solito dalla tregua (hudna), se invece non li avevano allora si poteva ricorrere al salvacondotto (amān). Le persone e le società esistenti un tempo lungo la frontiera fra cristianità e islam, sia terrestre che marittima, hanno fornito un ulteriore campo di ricerca, per indagare il quale si è fatto soprattutto ricorso alla storia dei rapporti tra la Repubblica di Venezia e l’Impero Ottomano, certamente e ampiamente esemplificativa di certi tipi di contatti istauratisi in zone simili nel corso dei secoli. Uno studio delle vicende della pirateria e della corsa nell’Adriatico hanno inoltre permesso di individuare stretti legami, fino ad oggi lasciati nell’ombra, tra le genti del Maghreb e i sudditi ottomani dell’Albania. Dopo aver studiato il tema della frontiera, si è quindi passati a considerare il passaggio al confine. Poche monografie hanno trattato fino ad oggi questo argomento; eppure lo stabilimento di una linea comune a due stati, attuato di norma dopo la stipula di accordi bilaterali, rappresenta per la sua stessa natura il coronamento della pace e il materiale riconoscimento del diritto dell’altro stato ad esistere come entità indipendente. Nei rapporti tra cristianità e islam l’esistenza di confini comuni segnò il superamento di una logica puramente bellica e l’accettazione dell’esistenza di entità diverse, con cui si poteva vivere in pace. Da qui l’importanza di chiarezza negli accordi relativi a una linea confinaria. Uno studio accurato dei documenti relativi ai rapporti tra la Repubblica e l’Impero ha consentito di superare la teoria che gli ottomani avessero accettato l’idea di un confine a Occidente solo dopo la pace di Karlowitz. Tratti di delimitazione esistettero già sin dalla seconda metà del Quattrocento, quando l’impero dei sultani era ormai a contatto diretto con stati dotati di un notevole potenziale bellico. Nel corso dei secoli mutò invece la prassi utilizzata per tali accordi: nei tempi più antichi era il sultano a emettere un documento di ratifica definitiva, che alle volte poteva anche in parte modificare quanto era stato deciso lontano dalla capitale. Con il Cinquecento, invece, si cominciò ad avvallare quanto stabilito nelle varie località dalle commissioni bilaterali composte da diplomatici e tecnici, tanto che alla fine furono considerati sufficienti gli atti emessi da tali organi, mentre il decreto sultaniale a conclusione dei lavori venne considerato solo una reliquia del passato. Ciò che cambiò ai tempi di Karlowitz non furono tanto le idee ottomane sulla possibilità di un confine con stati cristiani quanto l’estensione di questo, delimitante ora anche la zona a ridosso del vicino Impero asburgico. L’indagine relativa alla prassi utilizzata per stabilire un confine spinge quindi a indagare anche quali tipi di società vennero a crearsi da una parte e dall’altra di esso. Se vi furono violenze e incomprensioni, non mancarono anche tentativi di accordo attuati, pur in un ambito spazialmente limitato, da persone diverse per religione e stato. Di particolare 118 interesse fu la divisione della terra, sia da un punto di vista fiscale che di proprietà, che non sempre coincise con il limite imposto dagli stati. Anche il mare fu per molti secoli una frontiera. Su un elemento liquido è impossibile porre cippi o mete e distinguere ciò che appartiene all’uno o all’altro stato. Eppure convenzioni comuni vennero scelte per porre anche qui dei limiti. Nel modo di considerare l’appartenenza delle acque marine la giurisprudenza europea, nutrita di diritto romano, non coincise con le idee vigenti in terra d’islam. Per gli uni il mare era un bene di tutti, liberamente usufruibile, per gli altri invece era più facile applicarvi quanto stabilito per la terra, considerarlo in certi casi proprietà del principe, oppure anche porvi dei limiti pur convenzionali. Fu proprio questo secondo punto di vista che venne poi generalmente accolto dagli stati moderni, pur forse inconsapevoli di una possibile e remota ascendenza islamica. Un limite dunque poteva essere imposto convenzionalmente anche sul mare: prima si ricorse di solito alla distanza dalla costa indicata dalla gittata del tiro di cannone; in un secondo tempo si arrivò a vere e proprie spartizioni di più ampi spazi. Ancora una volta i dirigenti ottomani si dimostrarono pragmaticamente consci dei nuovi sviluppi istituendo, già nella prima metà del Settecento, anche se unilateralmente, una confinazione marittima individuata, in un primo tempo, a poca distanza dalla costa, e in seguito attraversante il mare aperto. Uno studio del punto di vista geo-politico ottomano permette di rilevare l’importanza economica della rotta che univa Istanbul ad Alessandria d’Egitto. Se in antico, prima della conquista del regno mamelucco da parte di Selim I, si trattava di una via internazionale, in seguito però essa divenne, all’inizio dell’Età Moderna, una rotta interna all’Impero. In un primo tempo dunque i sultani cercarono di difendere innanzi tutto le proprie navi dalla minaccia di pirati e corsari, attuando nel contempo un tentativo di conquistare l’intero bacino mediterraneo prendendo possesso solo di ampi spazi poco difesi e lasciando per un’ondata successiva di conquiste le piazzaforti e le zone troppo munite. Fu soprattutto il fallito assedio di Malta che rivoluzionò tale visione geo-politica, spingendo i sultani a difendere la rotta Istanbul-Alessandria e quindi a eliminare i nidi di pirati che ancora esistevano in alcune isole del Mediterraneo orientale. In questa logica si devono intendere le guerre combattute per la conquista di Cipro e poi anche di Creta, ultimi brandelli dell’impero veneziano nei mari del Levante. Un confine però non è solo quello che si traccia con un solco sul terreno. Un confine può essere anche altro, per esempio ciò che separa due modi di vivere e pensare. Ecco quindi l’importanza degli elementi che permettono di identificare chi è diverso per cultura, provenienza, religione e che pure si trova a passare nel territorio altrui. Diversamente dalla frontiera, zona vista da un unico punto di osservazione e intesa come luogo dove si combatte e un contenedente avanza mentre l’altro arretra, la linea di confine serve a separare in modo più duraturo e pacifico. In generale non si tratta però di un limite invalicabile. Varie categorie di persone poterono attraversarlo. Ne consegue l’importanza dei sistemi di identificazione, nei tempi più antichi volti soprattutto ad individuare 119 l’appartenenza a un determinato gruppo ma poi, con il procedere dell’Età Moderna, sempre più tesi a identificare la persona in sé, come individuo unico, diverso da chi proveniva dalla stessa zona, condivideva un’identica professione o professava la medesima religione. In questo lento processo il proliferare di malattie epidemiche, che conobbero una notevole recrudescenza, spinse gli stati europei ad attuare un controllo sempre più rigoroso sulla provenienza di persone, animali e anche cose da zone potenzialmente più esposte al contagio, come appunto le terre musulmane in generale e ottomane in particolare. Il viaggio inverso venne invece spesso vissuto come una sorta di discesa agli inferi, proprio per motivi sanitari. Con la nascita di documenti di identificazione personale, il discorso sul passaggio dalla frontiera al confine può considerarsi concluso. Un lento sviluppo cominciato, relativamente ai rapporti tra cristianità e islam, nel Medioevo aveva dunque portato a esiti che sarebbero rimasti stabili a lungo. Solamente la nascita di nuovi strumenti tecnici consente oggi di imporre nuovi confini; questi non sono più legati allo spazio, bensì coinvolgono l'immagine che si propone, di sé e degli altri, e soprattutto il modo di vivere e concepire il tempo. 120 FONTI E BIBLIOGRAFIA FONTI ASVe Archivio di Stato di Venezia Arsenale Provveditori e patroni all’Arsenale Bailo Bailo in Constantinopoli CN Collegio, Notatorio Comm. Commemoriali Confini Provveditori alla camera dei confini CXM Consiglio di Dieci, Misti EP Collegio, Esposizioni principi Grimani Archivio privato Grimani ai Servi LST Lettere e scritture turchesche Mercanzia Cinque savi alla mercanzia PTM Provveditori da Terra e da Mar SDC Senato, Deliberazioni Costantinopoli SM Senato, Mar BOA MD MM İstanbul, Başbakanlık Osmanlı Arşivi Mühimme Defteri Maliyeden Müdevver Defterler BIBLIOGRAFIA R.A. 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On the other hand the idea of an active expansion frontier dominated Ottoman historiography since its appearance as a separate academic discipline nearly a century ago: the so-called “theory of the Holy War”, which considered the gaza as the unique basis for the Ottoman expansion of the origin, was discussed, accepted and lastly also refused. On the contrary, few essays have been written about the Ottoman border in the Modern Age: when and how it was created, how it developed and which documents were produced to establish it. Only in these last years in some congresses and meetings scholars have begun to discuss about this theme, even if most of them still think that Ottomans accepted the idea of a demarcated frontier only at the instance of Habsburgs and their allies, in the treaties signed at Karlowitz in 1699. Documents recently discovered give evidence that a real border already existed at the end of the fifteenth century, at least in some regions of the Empire. The first chapter of this book deals with the words used both in Europe and in the Islamic world to express the idea of frontier, boder, boundary and other related concepts. Frontier, taġr, limes, have not exactly the same meaning, as well as border, ḥadd, sınır, hudud; munāṣafa refers to a country under a double sovereignty; according to some Islamic scholars the dār al-ṣulḥ is a land which belongs neither to the abode of Islam nor to the abode of war; ƒazw and gaza hint to the war fought against the infedels in the frontier areas, while militärgrenze was the word used for the region of the Habsburg Empire nearest to the Ottoman country. The second chapter deals with the concept of frontier in general. It begins with a brief summary of the historiographical diatribe about the idea of the early Ottoman state as a gazi state. Then, the analysis of some elements of Christian-Muslim agreements leads to the hypothesis that the peace-documents issued by an Islamic ruler varied according to the proximity of the other state: if the two countries were neighbouring, an armistice-type document was issued, if not, a general safe-conduct-type was used. A further field of research is represented by the relationships which had place in a frontier region; about this subject, several examples are provided by the contacts between the subjects of the Republic of Venice and those of the Ottoman Empire. For many centuries the sea too was considered only a frontier, crossed by ships of corsairs, pirats, 135 levends and regular fleets. A research about the Adriatic, let us discover the existence of fast ties between the seamen of the Maghreb and those of Ottoman Albania. To accept the idea of a border with another country meant also to recognize the right of the other to exist. This was the final and finest achievement of a peace agreement. In the Muslim-Christian relations, the creation of common borders meant that both rulers had overcome a pure military logic and had accepted the possibility of living in peace with an infidel state. In the third chapter the author describes how a land-border was usually established. The first Ottoman border with a Christian state seems to have been that with the Republic of Venice, first in Mora then in the Adriatic zone. The most ancient documents about this subject date back to the end of the fifteenth century, that is to say at least two centuries before the Karlowitz agreements. During this period the idea that Ottoman rulers had of a border did not change, while the praxis which was used to established it changed little by little. In the fifteenth century, after the establishment of the border-line, the sultan himself issued a document called sınırname or hududname to regulate the matter. In the following periods, the discussions in the border country became more and more important than those in Istanbul. In the most ancient times the decisions were taken only by the sultan’s representative, but then they had to be discussed by the diplomats of the two states; the chancellors and kadıs who accompanied them had to issue official partial documents and, in the end, a general one; in the seventeenth-eighteenth centuries the hüccet issued by the Ottoman kadı was considered enough while the hududname became a relic of the past. At the time of the Karlowitz agreements, Ottoman had had already common borders with the Republic of Venice for two centuries. After 1699 only the extension of the border-line changed; it was no longer limited to some zones, or to the whole Ottoman-Venetian border, but comprehended also the Habsburg one. The small archives of some Venetian officials encharged of establishing the borderline with the Ottoman Empire give many important informations about the problems which might arise during such diplomatic gatherings: how to sign the place either with heaps of stones or carving a rock or a tree; which frontier castles had to be destroyed; what to do if a land had been usurped just after the peace; how to consider the water of a river or the ridge of a mountain; which linear measures had to be chosen; how to deal in a polite manner with the opposite commission; lastly, what did it happen in 1699-1700 when the delegations which met near the town of Otton were not two but three and had to established the point where the Venetain, Habsburg and Ottoman states had to meet? This time the four commissari (two Ottoman, one Venetian and one for the Empire) chose the top of the mount Debello Brdo as the point where the three states met, but the Venetian government refused to accept this decision which was against its interests and preserved its right on the nearby territory; for this reason the so-called “triplex confinium” remained in a place where the three state actually did not meet at all. 136 The fourth chapter deals with the society which lived in a border region. Many examples show how people used to fight, to steal cattle and lands, to pay sometimes taxes to both rulers, but also to trade and to find a peaceful way of living together. The fifth chapter deals with the Mediterranean. For a long time, since at least ibn Haldūn’s times, this sea was considered only a series of water enclosures devided by larger or narrower straits: the Black Sea and the Adriatic Sea were two of them. In general the European and the Muslim had different opinions about the possession of the sea: the former thought that it belonged to all the people and no sovereign could presume to rule over it; the latter thought that it could belong to a prince. However, some rulers behaved according to their own ideas; so for centuries the Republic of Venice considered the Adriatic as its own Gulf. The Ottoman sultan did not reject the idea that the Black Sea and part of the Mediterranean belonged to his own empire. However, in this field, the Ottoman geopolitical strategy changed, above all during the sixteenth century: in the first half of the century, the Ottomans thought it was possible to conquer the whole Mediterranean taking possession in advance of its wider, even if weaker, part and only in a second time of the most fortified zones. After the unsuccessful attempt to take Malta, they began to conquer the islands and places which have been left behind with the idea of becoming in this way the lords of the whole Eastern Mediterranean. If till this moment they had tried to guard the commercial ships which went from Istanbul to Egypt, now they began to watch over the route itself which united the most rich province of the Empire with the capital. For centuries Ottomans accepted also the idea that it was possible to devide the waters of a gulf, or a channel, or also a fishing-pond, between two states. They behaved in this way with the knights of Rodes as well as with the Republic of Venice. In a period of relaxed relations with the Maghreb provinces, the peace agreements of Karlowitz and Passarowitz obliged the sultans to establish limits also on the sea waters to prevent the leveds from attacking European ships and mar the existing peace. First they established a line which proceeded thirty miles far from the imperial coast, where the Venetian ships could sail in safety. Then they devided the Mediterranean into two parts by means of an imaginary line: levends, as well as French and English war-ships, could not cross it either to attack merchant ships or to fight one against the other. A border is not only a line established on the ground. It may be also everything which devides two different ways of thinking and living. In this logic the elements used to identify “the other” become more and more important. The sixth and the seventh chapters deal with the means used to recognise a foreigner and the persons who crossed a border. Signs were put on things, but also human bodies might be signed for ever; the behaviour was also another important element which devided the subjects of a ruler from those of another; also the way of imagining “the other” varied according to the centuries, above all as far as Christians and Muslims were concerned. A border was usually crossed by several categories of persons: there were for instance ambassadors and diplomatic envoys usually protected by letters of their sovereign and often accompanied by a large retinue: they were 137 sent not only from European rulers but also from Islamic ones, as for instance the Mamluks of Egypt or the Ottomans. Then, there were those who travelled for trade and we may note that Muslim merchants in Venice were more than scholars usually think: in this city they not only had a warehose of their own, at least since 1621, but they had also a cemetery near that of Jews and Protestants, and a special dock for their ships. Lastly slaves too could cross the border to reach a land of freedom. Muslims fled from Christian countries, Christians from Muslim lands, but their wandering and sufferings were often the same. The development of the means used to identify a group or a person are also of great interest. Apart from ambassadors and other very important men, in the Middle Ages, a state usually wanted to identify first of all the category to which a single individual belonged. A merchant was recognized and accepted by other merchants or by the brokers of the market he had reached; these persons could answer for him, but for the authorities of a border region he was only a merchant who went from one state to the other; in the same way, a flying slave was only a person to put again in chains or to help to gain freedom, above all if he had money with him. After the great plague of the fourteenth century, little by little, documents of personal identity were required to cross a border: European states began to create a sanitary border to protect their countrymen and documents of identity were produced not only for persons but also for the cattle, while lugagges and envelops too were considered possible means for the propagation of the plague. In the same period, to cross the border to reach the Ottoman Empire was often considered as a kind of descent to hell, just for sanitary reasons. With the appearance of new documents of personal identification the study of the passage from the concept of frontier to that of border may be considered complete. A slow development which, in the sphere of Christian-Muslim relations, had begun in the Middle Ages, had finally reached long-lasting results. Nowadays, the existence of new technical devices allows us to create also new borders; they are no longer linked with the idea of space but with the image an individual offers of himself as well as with the way of living and consider our time and that of others. 138 INDICE DEL VOLUME I II I TERMINI 1. Confronti, p. 3 2. Frontiera, p. 4 Munāṣafa, p. 8 6. Dār al-ṣulḥ, p. 9 hudud, p. 12 9. Ġazw e gaza, p. 13 3 3. Taġr, p. 5 4. Limes, p. 7 5. 7. Confine, p. 10 8. Ḥadd, sınır, 10. Militärgrenze, p. 15 LA FRONTIERA 17 1. La frontiera: simbolo e mito, p. 17 2. Gli accordi di pace e la frontiera, p. 20 3. La società della frontiera, p. 22 4. Il mare come frontiera, p. 25 5. La gente del mare: corsari, pirati e altri, p. 27 6. La frontiera marittima: il caso della pirateria veneta, p. 29 7. La frontiera marittima ottomana, p. 31 8. La frontiera del mare: considerazioni conclusive, p. 36 III CONFINI DI TERRA 39 1. Come si costruisce un confine, p. 39 2. La creazione di una prassi, p. 42 3. Segnare lo spazio, p. 44 4. Fortezze di confine, p. 46 5. La terra contesa, p. 49 6. Fiumi e monti, p. 51 7. Misurare lo spazio e il tempo, p. 52 8. Incontri di commissari, p. 54 9. Il triplice confine, p. 55 IV VIVERE SUL CONFINE 59 1. Una società di confine, p. 59 p. 64 4. La terra divisa, p. 68 V 2. I commerci, p. 60 3. Sconfinamenti e violenze, 5. Gentilezze di confine, p. 71 CONFINI DI MARE 73 1. Il Golfo: un mare interno, p. 73 2. Una barriera nel mare, p. 75 3. Il mare come territorio, p. 78 4. Geo-politica mediterranea, p. 79 5. Il mare dopo Karlowitz e Passarowitz, p. 82 6. L’importanza della pesca, p. 84 7. L’imposizione di un limite, p. 86 VI OLTRE I SEGNI 1. I segni sulle cose, p. 89 p. 93 4. I franchi, p. 95 VII 89 2. I segni sulle persone, p. 90 3. Turchi e ottomani, ALLA RICERCA DELL’IDENTITÀ 1. Ambasciatori, inviati, diplomatici, p. 99 2. I mercanti, p. 103 3. Schiavi in fuga, p. 107 4. Altri mezzi di identificazione, p. 110 5. Il fronte sanitario, p. 114 139 99 VIII CONCLUSIONE 117 BIBLIOGRAFIA 121 SUMMARY 135 QSA Studi e testi 5 ________________________________________________________________________________ Arti Grafiche Venete srl – Venezia/Quarto d'Altino – Settembre 2002 140