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• 2017 80 2017 80 nuova serie FrancoAngeli TERRITORIO 80_TERRITORIO 20/03/17 15:42 Pagina 1 ISSN 1825-8689 € 18,50 ii (R23. 2017.80) FrancoAngeli s.r.l., Viale Monza, 106, 20127 Milano - Poste Italiane Spa - Sped. in Abb. Post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano - I trimestre 2017 L’opera, comprese tutte le sue parti, è tutelata dalla legge sui diritti d’autore. Sono vietate e sanzionate (se non espressamente autorizzate) la riproduzione in ogni modo e forma (comprese le fotocopie, la scansione, la memorizzazione elettronica) e la comunicazione (ivi inclusi a titolo esemplificativo ma non esaustivo: la distribuzione, l’adattamento, la traduzione e la rielaborazione, anche a mezzo di canali digitali interattivi e con qualsiasi modalità attualmente nota od in futuro sviluppata). 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Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale, possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali (www.clearedi.org; e-mail autorizzazioni@clearedi.org). nuova serie 80 Te r r ito r io 2017 FrancoAngeli Rivista trimestrale del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Politecnico di Milano Direttore responsabile: Stefano Angeli Direttore: Gabriele Pasqui Amministrazione, distribuzione FrancoAngeli, v.le Monza 106, 20127 Milano, casella postale 17175, 20100 Milano, tel. 022837141 Co-direttori: Bertrando Bonfantini, Francesco Infussi Comitato scientifico internazionale: Werner Bätzing (Universität Erlangen-Nurnberg, Germany); Marc Bonneville (Université Lumière Lyon 2, France); Peter C. Bosselmann (University of California-Berkeley, Usa); Ingrid Breckner (Hafen City Universität, Germany); Mario Carpo (Ecole Nationale Supérieure, Paris La Villette, France); Jo Coenen (TU Delft, The Netherlands); Charlotte Harris (Kingston University, London, UK); Nuno Portas (Universitade do Porto, Portogallo); Frederick Steiner (University of Texas at Austin, Usa); Ferran Sagarra Trias (Etsab, Barcelona, Spain); Lu Yongyi (Caup, Shanghai, Cina) Redazione scientifica: Antonella Bruzzese, Maria Antonietta Clerici, Francesca Cognetti, Giuliana Costa, Giovanna D’Amia, Andrea Di Franco, Pierfranco Galliani, Laura Montedoro, Eugenio Morello, Orsina Simona Pierini, Luigi Spinelli Redazione tecnica: Elena Gorla Impaginazione: Cristina Bergo Progetto grafico: 46xy Studio La corrispondenza alla direzione e alla redazione va indirizzata presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, via Bonardi 3, 20133 Milano (mail: redazioneterritorio@polimi.it) Gli articoli pubblicati su Territorio sono preliminarmente sottoposti ad un processo di double blind review Territorio è accreditata dall’ANVUR per la classe A delle riviste scientifiche dell’area 08 Ingegneria Civile e Architettura (febbraio 2014) Territorio è inserita nel database Scopus (marzo 2012) source record ID 21100206248 Territorio è accreditata ERIH Plus European Reference Index for the Humanities Territorio registra su CrossRef le indicazioni bibliografiche Pubblicare su Territorio La redazione utilizza la piattaforma OJS per la gestione del referaggio dei saggi da pubblicare. 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Car Sharing elettrico presso la Fujisawa Smart Town (SST), fotografia di Francesco Secchi aperture 7 temi 15 18 23 30 40 44 progetti 48 50 58 67 73 79 87 spazio aperto 97 111 Metropolitan visions: instant, concrete, and conflict free futures? Peter Ache Representing, Communicating and Experiencing Cultural Environments edited by Anetta Kepczynska-Walczak Rise of the Fallen: (New)Ruins Role in Shaping Cultural Understandings Amos Bar-Eli Narrating the Cultural Landscape. Tracing the actual significances of heritage Gisèle Gantois, Yves Schoonjans The death and revival of the great textile city Bartosz M. Walczak Designing the framework of possibilities for viewer’s activity Mixed reality and monuments Rafał Zapłata Digital Heritage’s Development in Architecture Thomas W. Maver Le Corbusier cinquant’anni dopo Le Corbusier Fifty Years On a cura di Marco Bovati, Martina Landsberger Bottoni e Le Corbusier: nel 1949 sul Monte Stella i nodi vengono al pettine Bottoni and Le Corbusier: the day of reckoning arrives in 1949 on Monte Stella, Milan Giancarlo Consonni, Graziella Tonon Le Corbusier e i luoghi della produzione nella città industriale Le Corbusier and Production sites in the Industrial City Silvia Bodei Le Corbusier al Primo Convegno Internazionale sulle Proporzioni nelle Arti, Milano 1951 Le Corbusier at the First International Conference on Proportions in the Arts, Milan, 1951 Anna Chiara Cimoli, Fulvio Irace 27 agosto 1965: la pubblicistica italiana di architettura commemora Le Corbusier August 27th 1965: Italian Architecture Journalists Commemorate Le Corbusier Andrea Oldani Dalla geometria dei cristalli alla matematica della natura. Le Corbusier negli scritti di Ernesto N.Rogers From the Geometry of Crystals to the Mathematics of Nature. Le Corbusier through the Writings of Ernesto N. Rogers Marco Bovati Progettare per analogie: il metodo di Le Corbusier Design by Analogies: Le Corbusier’s Method Martina Landsberger New Methods for Studying Transnational Architecture and Urbanism: A Primer Davide Ponzini, Fabio Manfredini Spazio pubblico e sviluppo urbano sostenibile. L’esperienza del programma La ciudad amable in Andalusia Public Spaces and Sustainable Urban Development. The Experience of the La Ciudad Amable Programme in Andalusia Gaia Redaelli 5 Territorio La riarticolazione delle politiche abitative in Italia: processi, soggetti, forme di territorializzazione Re-structuring of Housing Policy in Italy: Processes, Subjects and Forms of Territorial Coverage Ignazio Vinci Aree interne: un’importante ‘inclinazione’ territoriale per integrate politiche di coesione Inland areas: an important territorial ‘slant’ for the definition of integrated regional cohesion policies Mauro Francini, Annunziata Palermo, Maria Francesca Viapiana Un attrezzo che non giudica la sostenibilità dei piani: ecco cos’è la valutazione ambientale in Lombardia Environmental assessment in Lombardy: a tool that does not judge the sustainability of plans Pier Luigi Paolillo Verso una nuova fase del processo di valorizzazione del patrimonio militare italiano? Are we entering a new phase in the utilisation of Italy’s military heritage? Francesco Gastaldi, Federico Camerin 123 132 140 151 recensioni 157 Francesco Gastaldi, Paola Savoldi, Patrizia Romei, Renzo Riboldazzi, Maria Antonietta Clerici, Angela D’Orazio, Patrizia Gabellini, Raffaella Gabriella Rizzo, Costanzo Ranci, Patrizia Tenisci avventure dello sguardo 176 Francesco Secchi «La visibilità discreta della Smart City» Francesco Secchi «The moderate visibility of the Smart City» a cura di Francesco Infussi english summary 188 Abstracts traduzioni 6 Territorio Le Corbusier cinquant’anni dopo a cura di Marco Bovati*, Martina Landsberger** *Politecnico di Milano, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani **Politecnico di Milano, Dipartimento di architettura, ingegneria delle costruzioni e ambiente costruito (marco.bovati@polimi.it; martina.landsberger@polimi.it) L’esposizione dei grandi cartoni disegnati dal maestro svizzero in occasione della conferenza del giugno 1934 presso il circolo Filologico di Milano, oggi conservati presso l’Archivio Bottoni del DAStU, ed esposti nella mostra Le Corbusier tra noi - Le Corbusier, Milano e il dibattito architettonico, 1934 – 1966 (Triennale XtraPolitecnico di Milano), è stata il motore da cui partire per indagare i rapporti che la città e il suo ambiente culturale e imprenditoriale hanno avuto con la figura di Le Corbusier. Gli articoli di questo servizio intendono proseguire nella ricerca, ampliando lo sguardo alla cultura italiana e approfondendo alcune questioni specifiche. Giancarlo Consonni e Graziella Tonon indagano il ruolo giocato da Le Corbusier all’interno dei CIAM, in particolare quello del 1949 svoltosi a Bergamo, in cui si assiste all’insorgere di un dissidio fra Piero Bottoni e il maestro francese. Oggetto del contendere è la costruzione, in atto, del quartiere QT8 che Le Corbusier, durante un sopralluogo, interpretò come una riproposizione dell’esperienza delle città giardino, quando invece Bottoni, in un percorso originale, perseguiva il progetto di un «quartiere giardino» dove sperimentare una nuova sintesi fra natura e artificio. La momentanea polemica non compromise tuttavia i buoni rapporti fra Le Corbusier e Bottoni. Silvia Bodei rivolge la sua attenzione ai progetti per gli spazi e gli edifici della produzione nel lavoro di Le Corbusier, facendo riferimento anche all’esperienza avuta in occasione dell’incarico per la progettazione del Centro di calcolo elettronico Olivetti di Pregnana Milanese. L’importanza degli studi corbuseriani sul tema della proporzione che, nel Primo Convegno Internazionale sulle Proporzioni nelle Arti alla Triennale di Milano nel 1951, avevano trovato un momento di affermazione internazionale, è affrontato da Anna Chiara Cimoli e Fulvio Irace. Andrea Oldani propone una rassegna critica delle reazioni della cultura architettonica alla scomparsa di Le Corbusier, lette attraverso i numerosi articoli che vengono a lui dedicati dalle riviste d’architettura italiane. Marco Bovati prova a leggere la figura di Le Corbusier attraverso le parole e l’interpretazione di Ernesto N. Rogers, che al primo ha dedicato lezioni, conferenze, editoriali, introduzioni a cataloghi di mostre e il celebre elogio funebre ‘Le Corbusier tra noi’, pronunciato alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano il 26 maggio 1966. Infine il testo di Martina Landsberger mette in luce il metodo progettuale adottato da Le Corbusier in relazione alla questione dei riferimenti e del rapporto con la storia. ISSN 1825-8689, ISSNe 2239-6330 I cinquanta anni della morte di Le Corbusier hanno segnato un momento importante poiché hanno coinciso con l’organizzazione di una serie di eventi il cui obiettivo è stato sovente quello di provare a tracciare un bilancio degli studi e delle riflessioni su una figura complessa e sfaccettata con cui la cultura architettonica si confronta da diversi decenni. Gli articoli che compongono questo servizio intendono contribuire a una riflessione sull’attualità del pensiero corbuseriano, oltre che sull’avanzamento degli studi e delle ricerche in atto, indagando l’eredità lasciata dal maestro in rapporto non solo ai temi della relazione con la cultura architettonica milanese (oggetto della mostra ‘Le Corbusier tra noi’, Triennale Xtra-Politecnico di Milano, giugno-settembre 2015) ma anche aprendo a questioni più propriamente teorico-compositive 48 Territorio 80, 2017 Le Corbusier entra in mare a Cap Martin Fonte: © FLC/SIAE, 2017 49 Territorio Bottoni e Le Corbusier: nel 1949 sul Monte Stella i nodi vengono al pettine Giancarlo Consonni, Graziella Tonon Politecnico di Milano, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Archivio Piero Bottoni (giancarlo.consonni@polimi.it; graziella.tonon@polimi.it) Ciam vs Ciam: il difficile percorso per liberarsi di riduzioni e semplificazioni Quando iniziano a frequentare i Ciam, i giovani razionalisti milanesi e comaschi dispongono di una preparazione assai più solida in architettura che in urbanistica. Sul primo versante la ricerca può contare su una dimestichezza con la grande architettura del passato, favorita dalla formazione universitaria, ma soprattutto coltivata in proprio. In architettura l’apprendimento profondo della lezione dei maestri modernisti – Walter Gropius e Le Corbusier in primis –, condotto in piena autonomia, è così potuto avvenire al di fuori di ogni imitazione superficiale e approdare a esiti progettuali in cui si manifesta da subito una grande maturità. In urbanistica e nel disegno urbano, invece, il percorso è stato assai più tormentato a causa dell’arretratezza accumulata dall’Italia rispetto alla grande cultura urbanistica europea otto-novecentesca, prima ancora che dell’assenza al Politecnico di Milano di ogni insegnamento in questo ambito fino al 1929. Così i primi Ciam, per quei giovani, costituiscono l’occasione per aperture e scoperte in fatto di urbanistica e disegno urbano; anche se, ben presto, la lezione dei Congressi sarà sottoposta a verifiche interpretative e progettuali, a contatto con i problemi concreti di specifici contesti: esperienze di tutto rispetto (se pure non esenti da errori) da cui prenderà corpo un cammino originale di avvicinamento alla natura complessa dei fatti urbani e una nuova, autonoma linfa progettuale. Ma, all’inizio, su questi temi gli italiani devono imparare a stare a galla e a orientarsi, essendo subito gettati fra Scilla e Cariddi, ovvero fra Gropius e Le Corbusier. A partire dal III Ciam di Bruxelles del 1930 sui «Metodi costruttivi razionali» si fronteggiano, infatti, due approcci – che possiamo definire l’uno del metodo l’altro della visione –, frutto, il primo, di un lavoro corale essenzialmente di matrice tedesco-olandese e, il secondo, dell’invenzione solitaria di Le Corbusier. Da un lato, un procedimento analitico avente un’immediata forza didattica e che, muovendo dal particolare – la cellula abitativa riformata –, insegue una razionalità negli aggregati sulla base di principi di igienicità, efficienza e ordine geometrico: l’edificio come accorpamento di cellule, il quartiere come assemblaggio di edifici, la città come insieme di quartieri; un procedimento che si riassume nel «lottizzamento razionale» e può contare sulla forza dimostrativa di realizzazioni esemplari che, nutrite di apporti sistematici, a cominciare da quelli di Gropius, compongono un ideale manuale in progress. ISSN 1825-8689, ISSNe 2239-6330 Nei primi Ciam i giovani razionalisti italiani vennero subito gettati fra Scilla e Cariddi, ovvero fra Gropius (il metodo) e Le Corbusier (la visione). I fautori del metodo si misuravano con il problema dell’espansione insediativa senza occuparsi della città costruita, mentre Le Corbusier faceva della cancellazione della città fino allora conosciuta il suo obiettivo primo. Già nel Ciam di Atene del 1933 Fernand Léger ammoniva sui guasti che sarebbero potuti derivare da quelle semplificazioni. Al Congresso di Hoddesdon nel 1951 Piero Bottoni riprese il discorso di Léger con argomentazioni più circostanziate. Un modo per rispondere, a due anni di distanza, allo scontro fra lui e Le Corbusier al VII Ciam di Bergamo del 1947 durante la vista al QT8. Se nel 1951 Fernand Léger riconosceva in Bottoni «l’inventeur de montagnes e de magnifiques constructions populaires», il giudizio positivo su quella esperienza è ribadito nel Ciam di Dubrovnik del 1956 Parole chiave: Ciam; disegno urbano; quartiere 50 Territorio 80, 2017 Dall’altro, il ciclone Le Corbusier: l’antididatta ammantato di eroismo, il produttore di sistemi teorici frutto di assiomi concatenati tradotti in disegni accattivanti, l’oratore armato di una ferrea logica deduttiva scambiata per scientificità, il profeta del rifacimento ab imis del mondo, pronto a qualsiasi compromesso con i poteri forti pur di mettere in pratica la sua rivoluzione urbanistica (linearmente dedotta dalla rivoluzione architettonica che dava per acquisita e di cui si riteneva l’artefice primo). I due approcci, entrambi frutto di semplificazioni, possedevano un grado di applicabilità alquanto diverso; come diversa era la pericolosità, dal momento che i fautori del metodo si misuravano con il problema dell’espansione insediativa senza mettere le mani sulla città costruita, mentre Le Corbusier faceva della cancellazione dei tessuti urbani storici, ovvero della città fino allora conosciuta, il suo obiettivo primo. Tra i pochi ad avvertire per tempo i guasti prodotti da quelle semplificazioni c’è Fernand Léger. Invitato al IV Ciam, il grande artista il 6 agosto 1933 tiene un discorso ai congressisti rivolgendo ai loro lavori «uno sguardo amichevole e critico […] con la necessaria presa di distanza». Vale la pena riprenderne alcuni passaggi: «In piena fase eroica, nascente e creatrice, voi avete spianato violentemente il terreno. […] Ma ritengo terminata la vostra epoca eroica, l’epoca calda. Lo sforzo di pulizia è finito. Fermatevi, perché avete passato la linea, l’epoca fredda comincia. […] Ma la vostra formula vuole estendersi. La parola «urbanistica» vuole ormai dominare la questione estetica. Urbanistica è un fatto sociale. Voi entrate in tutt’altro campo, un ambito in cui le vostre formule pure e radicali avranno da ingaggiare una lotta. Il dramma per voi comincia esattamente qui […]. Avete creato un fatto architettonico assolutamente nuovo. Ma dal punto di vista urbano-sociale, avete esagerato per eccesso di velocità. […] Siete condannati a trovare i «valori di ricostituzione». […] Il problema è essenzialmente umano. […] Siete partiti a una tale andatura che non avete guardato indietro, dovevate voltarvi. Avreste visto che non siete seguiti. […] C’è la necessità per uomini come voi di avere dietro di voi e al vostro fianco uomini che si aspettano qualcosa, c’è la necessità per voi di prenderli in considerazione più attentamente. Mettetevi i vostri piani in tasca, scendete in strada, ascoltateli respirare, prendete contatto, tempratevi nella materia prima, camminate nello stesso fango e nella stessa polvere» (Léger, 19331: 44 e 47, trad. ns). Le parole di Léger delineano una profezia destinata ad avverarsi. Pur tra indecisioni e difficoltà, i cinque Ciam del dopoguerra conosceranno un netto cambiamento di rotta rispetto ai cinque d’anteguerra, ponendosi proprio alla ricerca di quelli che il pittore di origini normanne aveva chiamato i «valori di ricostituzione». Infatti, nonostante appena dopo la guerra non si faccia che mettere in agenda la verifica delle applicazioni della Carta di Atene (VI Ciam, Bridgewater 1947; VII Ciam, Bergamo 1949), nelle discussioni congressuali e in quelle preparatorie aumenta l’interesse per questioni essenziali fino ad allora trascurate: i rapporti di prossimità, le relazioni fra l’architettura e le altre arti, i valori simbolici, il cuore della città (VIII Ciam, Hoddesdon 1951). In altri termini, i Ciam del dopoguerra vanno controcorrente, Dall’alto: – Le Corbusier e Walter-Gropius al Ciam di Hoddesdon, 1951. Foto con dedica autografa di Le Corbusier a Piero Bottoni Fonte: Archivio Piero Bottoni (Apb) – Copertina e frontespizio di Manière de penser l’urbanisme con dedica autografa di Le Corbusier a Piero Bottoni, 26 luglio 1949. Fonte: Apb 51 Territorio ma non alla maniera dell’avanguardia: la corrente che diversi congressisti – non certo Le Corbusier – si sforzano di rimontare è quella creata dagli stessi Ciam; e questo perché molti partecipanti vogliono che i Congressi escano dall’astrattezza e affrontino i grandi problemi della Ricostruzione camminando «nello stesso fango e nella stessa polvere» degli esseri umani in carne ed ossa, profondamente segnati dalla guerra. Questo sforzo, seppur in larga parte fallito, riporterà comunque faticosamente i Ciam nell’alveo della grande urbanistica europea di cui prima della guerra si erano proposti come liquidatori; ma il percorso intrapreso si dimostrerà assai difficoltoso per la mancanza di autocritiche aperte, incompatibili con l’alone mitologico di cui i Congressi di architettura moderna si erano circondati. Piero Bottoni è tra coloro che hanno provato a innescare l’autocritica. Al Congresso di Hoddesdon, in un breve scritto presentato il 14 luglio 1951 sotto forma di Constatation et resolution, il progettista del QT8 sembra riprendere il discorso di Léger con argomentazioni più circostanziate: «[…] arrivati a questo punto, occorre che il Ciam, partito da un’intuizione e da una sensibilità dei problemi umani e sociali, per merito di questi eminenti architetti, riconosca l’enorme divario che corre fra le proposizioni teoriche e la realtà delle concrete realizzazioni concesse a questi membri, siano essi i più fortunati e meritevoli. Il Ciam, che ha indicato i diritti umani e civili dell’uomo teorico, deve dichiarare la sua solidarietà con l’uomo sociale. […] deve indicare i fini morali e sociali della sua attività. […] Occorre affermare che il Ciam ha come scopo primario la risoluzione di problemi che, nell’ambito dell’architettura e dell’urbanistica, interessano in ciascun paese il miglioramento delle condizioni di vita della gran parte della popolazione e di quella che ne ha maggiormente bisogno; pertanto ogni progettazione deve, prima di tutto, rispondere a questa necessità […]. Il Ciam deve rendersi interprete […] di tali necessità presso le autorità, le direzioni tecniche, i ministeri, gli organismi di ogni sorta a cui spetta la gestione della cosa pubblica. L’autorevolezza conseguita ormai consente e obbliga il Ciam ad affermare una simile necessità anche in conflitto con questi organismi, se sarà necessario»2. Quella di Bottoni non è che una delle testimonianze del malessere serpeggiante nei Ciam del dopoguerra rispetto alla riduzione della realtà umana all’«uomo teorico». I Congressi di architettura moderna avevano eletto a riferimento i bisogni biologici e funzionali di un essere umano astratto, privato della sua natura di «animale sociale» radicato in una cultura e in uno spazio specifici, nella convinzione che proprio tali riduzioni e semplificazioni avrebbero consentito di definire soluzioni scientifiche universali, valide per ogni contesto. Più che mai riduzioni e semplificazioni sono tutt’uno con una smisurata volontà di potenza, che ha in Le Corbusier il campione per antonomasia. Si può anche formulare l’ipotesi che proprio Le Corbusier sia il destinatario primo della resolution di Bottoni: un modo per rispondere, a due anni di distanza, allo scontro fra lui e il maestro svizzero al VII Ciam di Bergamo del 1949, di cui diremo più avanti. C’è anche questo; ma il contenuto della resolution va ben oltre i fatti personali, come del resto poco o nulla di personale c’era in quello scontro. Dopo il Congresso di Hoddesdon – sui cui lavori Alfred Roth, uno dei congressisti più acuti e vigili, in una lettera a Bottoni esprimeva un giudizio «molto positivo»3 – nei Ciam si assiste al fallimento del tentativo di arrivare a una Carta dell’Habitat che costituisse un reale superamento della Carta d’Atene: il cambio di passo auspicato da Bottoni, come da diversi altri congressisti, non avverrà. A 15 mesi dalla morte di Le Corbusier, il 19 novembre 1966, in una conferenza tenuta a Como in onore di Terragni sul tema L’urbanistica prima e dopo la Carta d’Atene, Bottoni tornerà sulla questione con un bilancio a tutto tondo: «Preoccupati di esercitare le infinite supplenze di scienze esatte e certamente sperimentatissime alla ricerca di leggi e tecniche per una dottrina nuova e inesatta come la loro, e quindi ancora terribilmente soggettive, quegli urbanisti [dei Ciam] si preoccupavano di entrare nei campi e nelle sfere di quelle altre dottrine e scienze e non altrettanto, come sarebbe stato giusto, di pensare i limiti della propria dottrina e, meglio ancora, il rapporto possibile fra intervento urbanistico e architettonico e intervento sociale: cioè in una parola il rapporto politico di queste diverse esigenze. La realtà politica, la grande realtà politica, la realtà vera di un mondo di massa, disintegrato e reintegrato e trasformato dalle rivoluzioni e dalle guerre e dalle intercomunicazioni fisiche e spaziali del pensiero, non fu mai affrontata nella famiglia dei Ciam forse perché non lo poté o perché ne ebbe paura. Certo è che questa realtà politica era tabù e non averne parlato spense la voce dei Ciam: importantissim[i] per quello che ha[nno] fatto, [sono] scompars[i] per quello che non ha[nno] fatto»4. L.C.: l’architetto (sublime) fornisce il lasciapassare all’urbanista (antiurbano) Dopo aver tradotto nella macchina da guerra della Ville Radieuse la convinzione che la città ereditata dalla storia sia un male assoluto da eliminare dalle fondamenta, Le Corbusier è un fiume in piena che non conosce dubbi e revisioni. Nelle sue intenzioni, i Ciam, nell’indirizzo che egli riesce a imprimere nella fase che va dal V Congresso di Parigi del 1937 fino almeno al VII Congresso di Bergamo del 1949, sarebbero dovuti diventare l’ambito di ratifica e amplificazione di quelle tesi. Funzionale a questo disegno è anche l’operazione compiuta con la pubblicazione nel 1943 della cosiddetta Carta d’Atene5. Con questa mossa Le Corbusier intendeva assicurarsi il ruolo di regista nella ripresa dei Ciam del dopoguerra: un’aspirazione egemonica che toccherà il culmine con il VII Ciam di Bergamo del 1949. In quella fase il maestro svizzero era infatti convinto che la sua linea disponesse nei congressi della maggioranza assoluta. Confortato, ma in realtà fuorviato da Josep Lluis Sert, Le Corbusier dava infatti per scontato l’adesione alle sue tesi delle delegazioni dei paesi latini (una supposizione che si rivelerà illusoria almeno per quanto concerne i delegati italiani). Le Solutions de principe che Le Corbusier presenta a Parigi nel 1937 (Le Corbusier, 1937) sono un succedersi di condanne senza riserva della città esistente e di proposte di radicale riorganizzazione dell’habitat date come inevitabili sulla base di argomenti unilaterali: «il grande spreco delle città-giardino»; la necessità di 52 Territorio Dall’alto – P. Bottoni, E. Cerutti, V. Gandolfi, M. Morini, G. Pollini, M. Pucci, A. Putelli, Progetto del QT8, gennaio 1947. Modello Fonte: Apb – QT8: il comparto sud-ovest in costruzione, estate 1951. Veduta aerea Fonte: Apb 53 Territorio liberare il suolo dall’«ossificazione» rappresentata dalla proprietà privata; la condanna della «rue-corridor» e la proposta della quasi totale riconquista del suolo alla natura (una sorta di ritorno alle palafitte reso possibile dalla tecnica); la standardizzazione e la produzione industriale dell’alloggio; ecc.). A dare sostanza alle Solutions de principe, Le Corbusier presenta un nuovo progetto per la capitale francese. Come già nel Plan Voisin del 1925, il Plan de Paris del 1937 prevede demolizioni e ricostruzioni radicali su un’ampia porzione del centro storico tra il Louvre e Montmartre. Del piano del 1925 ripropone anche l’autostrada urbana sopraelevata che avrebbe dovuto attraversare Parigi da est a ovest. Come non bastasse, avanza la proposta di estendere l’operazione di ricostruzione totale ad altre porzioni della città compatta giudicate insalubri, con soluzioni che hanno la pretesa dell’esemplarità e della replicabilità. La furia iconoclasta verso la città esistente non conosce limiti. A dare credibilità al Le Corbusier urbanista, e a garantirgli spazio nei Ciam, è anche la posizione autorevole di Sigfried Giedion. Nel 1941, in Spazio, tempo ed architettura Sigfried Giedion trascura di parlare sia del Plan Voisin sia del suo aggiornamento del 1937. Di quest’ultimo, lo storico e critico di architettura, segretario e gran pilota dei Ciam, si limita a illustrare solo un dettaglio: il progetto per l’«hilot insalubre, n. 6» su cui non ha nulla da ridire; per di più, accoglie positivamente la proposta dell’autostrada che avrebbe dovuto farsi largo nel corpo della città, definendola «un parallelo dei progetti di Haussmann, adattato alle esigenze di oggi»6 (Giedion, 1941, trad. it. 1975: 733). Rispetto all’opera urbanistica di Le Corbusier, Giedion si barcamena tra l’ammirazione per le proposte radicali di ridefinizione dell’habitat e la consapevolezza che «la conoscenza tecnica non è stata ancora riassorbita e umanizzata da un sentimento equivalente». Riconosce che ciò che chiamiamo realtà è il campo dello scatenarsi di un’«energia» e di un «potere esterno» che «non sono che vani tentativi di affrontare i multilaterali e complessi problemi del giorno per mezzo di una spietata semplificazione» (Giedion, 1941, trad. it. 1975: 733, sottolineature ns.), ma non vede che proprio la «spietata semplificazione» è il tratto distintivo di larga parte delle elaborazioni dei Ciam, di quelle di Le Corbusier in primo luogo: un approccio e una forma mentis che per molto tempo impedì ai Ciam di cogliere tratti essenziali della cultura della città, che pure – e qui sta la contraddizione –, tra un’illustrazione e l’altra dei progetti modernisti, Giedion nel pieno della seconda guerra mondiale non manca di richiamare: «[La città] è il risultato di molte culture differenziate, in molti diversi periodi. Il problema della sua vita o morte non può essere risolto semplicemente sulla base di esperienze o condizioni attuali. La città non può essere condannata alla distruzione per il solo fatto che dall’epoca dell’industrializzazione ne è stato fatto mal uso o perché la sua intera organizzazione è stata sopraffatta dall’invadenza di una scoperta meccanica, l’automobile (Giedion, 1941, trad. it. 1975: 712-713)». Sarebbero bastate queste considerazioni a mettere fuori gioco le proposte urbanistiche di Le Corbusier. Ma invano si cercherà nell’opera di Giedion una coerenza in tal senso. Anzi: riferendosi a Haussmann, il segretario dei Ciam fa proprio, alla lettera, uno dei punti cruciali da cui procedono le proposte urbanistiche di Le Corbusier: la condanna a morte della strada corridoio: «Nel nostro periodo sono necessari atti ancora più eroici: La prima cosa da fare è abolire la con il suo rigido allineamento di edifici e la sua mescolanza di traffico, di pedoni e di case. La costituzione essenziale della città contemporanea esige la restituzione della libertà a tutti e tre gli elementi: al traffico, ai pedoni e ai quartieri residenziali e industriali. Soltanto una netta separazione può realizzare questa libertà». Tutto questo per dire che, se fuori dei Ciam non sono mancate critiche coeve ai progetti urbanistici dell’autore della Ville Radieuse, il Le Corbusier architetto (di indiscusso valore) ha fornito al Le Corbusier urbanista una sorta di lasciapassare che gli consentiva di avanzare le proposte più dirompenti (per non dire altro) e di presentarsi, ancora dopo il dramma della guerra, come un maître à penser in grado di condizionare, quando non di orientare, il percorso dei Ciam. Sintomatico di questa capacità di seduzione è il volume Le Corbusier che nel 1945 Giancarlo De Carlo cura per i tipi di Rosa e Ballo (Le Corbusier, 1945): nella sua prima pubblicazione di rilievo, colui che sarà tra i contestatori dei Ciam con il TeamX, ben all’aldilà dell’intento di dare vita a «un documentario a carattere divulgativo» (Le Corbusier, 1945: 10) di fatto rendeva un omaggio al Le Corbusier teorico senza distinguere fra architettura e urbanistica: un riconoscimento incondizionato, nonostante l’imbastitura di un timido contraddittorio fra chi aderiva entusiasticamente e chi avanzava riserve sull’opera del maestro svizzero. La verifica della realtà: lo sfaldarsi del disegno egemonico di L.C. al VII Ciam di Bergamo del 1949 Tutto era stato predisposto da Le Corbusier perché il Ciam del 1949 sancisse il trionfo delle sue proposte urbanistiche. Ma al Congresso di Bergamo Le Corbusier entra papa ed esce cardinale: nulla va nel senso sperato. La Grille ([Le Corbusier], s.d. [1948]), da lui ideata per consentire la rapida comparabilità dei 28 casi studio, si rivela ben presto un ostacolo a valutazioni di merito e alla crescita di un confronto reale e fecondo. Le conclusioni del Congresso, poi, andranno in tutt’altra direzione a testimoniare di un sostanziale rifiuto delle tesi che, anche in questo caso, L.C si era premurato di predisporre. Sollecitato dal Conseil national économique, Le Corbusier aveva appena messo a punto una sorta di Carta dell’habitat francese; lo scritto, apparso con il titolo L’habitation moderne sulla rivista «Population» (Le Corbusier, 19487), era stato distribuito ai partecipanti al VII Ciam di Bergamo nella speranza che ne facessero la base del nuovo manifesto operativo dei Ciam, in linea con la Carta d’Atene. La tesi programmatica centrale de L’habitation moderne era uno sviluppo delle Solutions de principe del 1937: l’assoluta necessità di passare dalla città giardino orizzontale alla città giardino verticale. Nulla di nuovo rispetto alla Ville Radieuse, se non che la realizzazione in corso dell’Unité d’habitation di Marsiglia dava concretezza a quella tesi. Era quella «l’unità di abitazione conforme» che, se replicata in un «parco immenso pieno di sole, di spazio e di verde», avrebbe dato vita a una «città verde» (Le Corbusier, 1948: 425): «Ci siamo applicati ostinatamente per venticinque anni, abbiamo incessantemente rinnovato e messo a punto le nostre proposte di unità di abitazione, abbiamo risolto questioni 54 Territorio particolari per Parigi, per le colonie, per l’estero. Dappertutto abbiamo fatto passi avanti sul piano teorico. È la Francia che, nel mondo, qui troppo ricco, là troppo povero, fa oggi il gesto coraggioso affidando l’incarico di un lavoro di Stato di questa importanza su un tema gravido di conseguenze. ‘L’esperimento di Marsiglia’, come lo si chiama, se riuscisse, aprirebbe le porte all’urbanistica moderna e alle sue conseguenze. La costruzione di Marsiglia, vilipesa da molti, è osservata all’estero con enorme interesse: si tratta infatti della maniera di vivere dell’uomo della civilizzazione macchinista» (Le Corbusier, 1948: 431, trad. ns.). Ma quello che doveva essere l’asso nella manica, l’Unité di Marsiglia, a Bergamo non ebbe affatto l’entusiastica adesione che il suo autore sperava. L’habitation moderne non figlierà la Carta dell’habitat dei Ciam. L’auspicato sviluppo della Carta d’Atene non solo non vide la luce nel Congresso di Bergamo: non uscirà nemmeno da quelli successivi, nonostante il tema venga nuovamente affrontato, in particolare a Dubrovnik nel 1956. E qui veniamo allo scontro con Bottoni: un contrasto per nulla premeditato, se si tiene presente che è avvenuto appena due giorni dopo l’apposizione al volume Manière de penser l’urbanisme (Le Corbusier, 1946) della seguente dedica: «Pour Bottoni sempre! Comp [? Compagnons] CIAM depuis 1929 et nous sommes toujours d’accord et ami Le Corbusier 26 juillet 49»8. La dedica potrebbe suonare come una captatio benevolentiæ, funzionale a ottenere consenso al disegno egemonico di cui si è detto; ma può anche esser vista come la conferma del riconoscimento che Le Corbusier rendeva, nello stesso volume, all’«azione largamente feconda dei Ciam a Milano» (Le Corbusier, 1946: 37). Certo: nello scontro può aver pesato, come sostiene Paolo Nicoloso (Nicoloso, 2012: 297-312), il clima non favorevole che a Bergamo Le Corbusier, con grande sorpresa, aveva avvertito fin dai primi giorni. Ma a entrare in campo è proprio la tesi programmatica de L’habitation moderne, quella su cui in quel momento Le Corbusier giocava il tutto per tutto. I termini del contrasto, così come il suo concreto verificarsi, sono ben restituiti da Nestorio Sacchi, testimone diretto dell’accaduto: «Il divario di opinioni sui concetti di città verticale o città orizzontale vide a Milano uno scontro tra Piero Bottoni e Le Corbusier durante la visita dei congressisti al quartiere QT8 a San Siro. […] [Il QT8] si stava realizzando sulla base di un progetto urbanistico che prevedeva, a seconda delle diverse forme di finanziamento e delle necessità dell’utenza, vari tipi di edificazione che passavano dal grande edificio residenziale a nove piani, alle case unifamiliari ed alle case a quattro piani realizzate con vari metodi di prefabbricazione. Saliti al culmine della collina artificiale ricavata con l’accumulo dei detriti derivati dagli edifici di Milano distrutti dai bombardamenti, visto dall’alto il quartiere in costruzione e ascoltate le illustrazioni di Bottoni, Le Corbusier espresse una critica brutale sul piano urbanistico […]» (Sacchi, 1988: 72). Altri testimoni diretti hanno confermano la ricostruzione di Sacchi. Tra questi Marco Zanuso che, in un’intervista rilasciata a Enrico Valeriani del 1994, ricorda: «Quello di Bergamo è stato un congresso molto vivace, con un Le Corbusier molto arrabbiato» (Valeriani, 1994, ora in Valeriani, 2012: 129). Zanuso doveva ricordare benissimo quanto accaduto sul Monte Stella in Dall’alto: - Fernand Léger e Piero Bottoni sul Monte Stella in costruzione, 1951 Fonte: Apb - Copertina e frontespizio de Les Constructeurs con dedica autografa di Léger a Piero Bottoni, 1951 Fonte: Apb 55 Territorio costruzione, dal momento che a scatenare le critiche del maestro svizzero furono le prime realizzazioni del QT8 – le casette per reduci dislocate nel comparto nord-occidentale del quartiere – di cui egli era uno dei 24 progettisti9. Alla base della presa di posizione di Le Corbusier c’era però un fraintendimento: non si era in presenza di un inizio di città giardino, bensì, come dirà in seguito lo stesso Bottoni, di un «quartiere giardino», dove semmai, a ben vedere, si stava mettendo in atto una sintesi originale tra la lezione di Gropius e quella dello stesso Le Corbusier. Bottoni avrà modo di illustrare gli elementi caratterizzanti il progetto in progress del QT8 in una conferenza tenuta alla Scuola dei Ciam di Venezia nell’ottobre 1952: «È la prima volta, credo che nel progetto di un quartiere si cerca di modificare sensibilmente la natura. Si tratta di un problema molto importante per Milano. A Milano non esiste del panorama. […] Nel QT8 ho cercato di costruire un secondo e un terzo piano: ciò che appare in un luogo dove c’è un fiume che attraversa un quartiere: lì si è creato la montagna e il lago. Vi faccio notare che queste due realtà rientrano nello spirito di sperimentazione del quartiere che è un quartiere del tutto speciale destinato a sperimentazioni […] necessarie […] a ottenere dati chiari per la sperimentazione di determinati problemi edilizi in Italia. C’è una zona del quartiere che è destinata alla sperimentazione della prefabbricazione […]. In un’altra zona si sono sperimentate case in serie con planimetrie differenti. Si è creato un campo giochi per i bambini che è il solo esistente a Milano. È incredibile ma è così. Passando dalle questioni di architettura agli elementi del panorama che sorge lentamente, illustro qualche aspetto di questo panorama: al fondo della strada principale si comincia a vedere un elemento che è la collina che si sta costruendo. [Essa] formerà naturalmente un elemento destinato a fare da sfondo panoramico, di decoro del quartiere, ma anche un elemento fondamentale per la città»10. Va detto che le difficoltà e la lentezza incontrate nella realizzazione del quartiere hanno fatto la fortuna del QT8 e di Bottoni in quanto, consentendo provvidenziali aggiustamenti di tiro (Tonon, 2005: 34-103), hanno rafforzato il carattere sperimentale che l’impresa voleva avere fin dal suo concepimento. Oltre alle sperimentazioni relative alle soluzioni tipologiche e ai metodi costruttivi, il punto più alto a cui l’esperimento è pervenuto è l’integrazione del disegno urbano con l’architettura del paesaggio. È qui, oltretutto, che Bottoni è potuto andare fino in fondo nell’obiettivo che si proponeva: fondere razionalismo e organicismo. Certo: nel 1949, da quanto si poteva scorgere dal Monte Stella in costruzione, tutto questo si presentava ancora allo stato larvale; ma, a un occhio attento e non prevenuto che si fosse avvalso anche della documentazione fornita ai congressisti (le tavole del progetto d’assieme e il filmato sui primi grandi lavori di sistemazione del suolo), il senso di quanto si stava realizzando non sarebbe sfuggito. Non si saprà mai se Le Corbusier non vide o non volle vedere; o se, come non è da escludere, nel suo giudizio pesasse l’irritazione per non essere stato chiamato a questa impresa, dopo che tra i membri del Ciam era circolata la voce che il QT8 sarebbe stato un nuovo Weissenhof e dopo che in effetti lo stesso Bottoni si era attivato per avere la collaborazione di figure prestigiose dell’architettura moderna, a cominciare da Le Corbusier. Lo scontro del 28 luglio del 1949 non portò comunque alla rottura di una lunga amicizia, fatta anche di scambi fecondi (Archivio Bottoni, 1983; Consonni, 2010: 188-199; Consonni, 2012: 279-285; Consonni, Tonon, 2016: 13-23): vari fatti e più di un documento conservato nell’Archivio Bottoni lo attestano. Nell’autunno del 1953 Le Corbusier inviava a Bottoni la stampa di un suo manifesto in cui in calce a un disegno tripartito si legge: «Il faut se battre contre des moulins! Il faut renverser Troie… Il faut être cheval de fiacre, tous les jours! Bon courage! votre L-C. 6 octobre 53»11. Era un inno al lavoro paziente, ma preceduto da un elogio dell’utopia. Dieci anni dopo, il 6 febbraio 1963, a Firenze, sull’Albo dei visitatori illustri di Palazzo Vecchio il maestro svizzero annoterà: «Le grandi cose non sono che l’addizione di piccole cose. Ogni piccola cosa è una grande cosa» (La Pira, 1963). Evidentemente il tempo dell’impazienza anche per lui era tramontato. Sono parole che potrebbero essere poste a epigrafe del QT8: senza un simile atteggiamento e la tenacia straordinaria del suo regista, il QT8 non sarebbe mai esistito. Non solo la stima e l’affetto personale di Bottoni per Le Corbusier non vennero mai meno: saldo era il riconoscimento del debito che lui e la sua generazione avevano per il grande architetto. Nel 1968 in occasione del Convegno su «L’eredità di Terragni» promosso da Bruno Zevi, Bottoni così si esprimeva a proposito dell’autore di Vers une architecture: «E benché col tempo tutto si attenui a contatto con le dure realtà della vita, restano ancora queste idealità espresse da questo uomo straordinario, da questo genio che abbiamo tanto conosciuto e amato; che aveva saputo dare a tutto questo movimento di cultura architettonica un tale afflato di poesia da riuscire ad attirare attorno a sé l’interesse generale di tutti i giovani che in quel momento si avvicinavano all’architettura» (Bottoni, 1969). Quanto al QT8, il dissenso di Le Corbusier fu ampiamente compensato dall’interesse mostrato da Richard Neutra, da Walter Gropius, da Alfred Roth e da diverse altri eminenti architetti che si recarono in visita al quartiere. Nell’ottobre del 1951 Bottoni incasserà persino l’interesse di Roberto Rossellini, sollecitato dal Monte Stella. Sempre nel 1951 particolare significato ebbe poi la visita al quartiere di Fernand Léger che, nella dedica di una copia de Les Constructeurs così esprimeva il suo apprezzamento: «a Bottoni l’inventeur de montagnes e de magnifiques constructions populaires» (Léger, 195112). Un giudizio tutt’altro che di circostanza e che, alla luce del Discorso agli architetti del 1933, assume grande peso. Quanto al Ciam, il pieno riconoscimento del valore del lavoro compiuto al QT8 e nel progetto del Gallaratese (non realizzato) venne con il Congresso di Dubrovnik del 1956. Così si esprimeva la Commissione B.7 presieduta da Georges Candilis: «nel piano di Milano 1947-1953 […] l’applicazione della carta d’Atene, presa in senso stretto, non ha dato risultati positivi. Per la ragione che troppo spesso non essendo rispettata la continuità dell’abitato, gli abitanti dei nuovi quartieri si sentono isolati in un nucleo costituito da un’unica componente sociale. Così ‘confinati’, essi non partecipano più alla vita attiva della società; anche quando il loro nuovo habitat rispetta i dati es56 Territorio senziali: sole - spazio - verde [il riferimento a Le Corbusier è smaccato, quanto indicativo, n.d.a.]. Quelle persone preferiscono vivere nei loro antichi ambienti socialmente più vitali. Nella revisione del piano di Milano, Bottoni ha tenuto conto di nuovi fattori. Avendo a riferimento la composizione dei quartieri italiani più vitali, tanto del passato che del presente, ha liberato il carattere lineare dei loro ‘cuori’, promuovendo la partecipazione libera e attiva del settore privato a integrazione del programma statale e comunale»13. Note 1. È significativo che il testo venga ripubblicato in Italia a parecchi anni di distanza, prima con il titolo «Discorso agli architetti», Casabella Continuità, a. XIX, 207, settembre-ottobre 1955: 69-70, e poi, col titolo «Léger ad Atene», Spazio e Società, a. XXI, 81, gennaio-marzo 1998: 10-15. 2. Ciam 8, Commission 6. Consta[ta]tion et resolution (presenté par Bottoni). Archivio Piero Bottoni (d’ora in poi APB), Documenti scritti. 11.10. Enti, istituzioni, manifestazioni. Trad. ns. 3. Lettera di A. Roth a Piero Bottoni del 27 luglio 1951. APB, Corrispondenza. 4. P. Bottoni, L’urbanistica prima e dopo la carta d’Atene, Trascrizione parziale della conferenza tenuta a Como il 19 novembre 1966, Dattiloscritto in APB, Documenti scritti. Conferenze, interventi e lezioni di P. Bottoni, p. 7, poi ripreso quasi integralmente nella Prolusione al corso [di Urbanistica II] tenuta il 22 novembre 1966, ora in Bottoni P., 1995: 448-456. 5. Quella che passa per essere la Carta d’Atene è in realtà una spiegazione e un commento alle Constatazioni e alle Conclusioni del IV Ciam del 1933: un lavoro esegetico messo a punto sotto la guida di Le Corbusier e raccolto in Le groupe Ciam-France, 1943. Ciò è peraltro esplicitamente dichiarato nello stesso volume a p. 51 e a p. 237. 6. E, poco più avanti, prosegue: «Mentre stava trasformando Parigi, Haussmann osservò una volta con amarezza che non c’erano allora architetti all’altezza dei ‘temps nouveaux’. Nella Parigi contemporanea la situazione sembra rovesciata: ci sono architetti, ma non amministratori all’altezza, come era stato Haussmann, delle possibilità e dei bisogni del tempo» (Giedion, 1941, trad. it. 1975: 735). 7. Lo scritto era introdotto da Alfred Sauvy, demografo, economista e sociologo che dirigeva la rivista. 8. La copia con la dedica è conservata in APB, DAStU, Politecnico di Milano. 9. A firmare il progetto di quegli edifici sono gli architetti Ildo Avetta, Luisa Castiglioni, Ezio Cerutti, Paolo Chessa, Ciro Cicconcelli, Giancarlo De Carlo, Vittorio Gandolfi, Eugenio Gentili Tedeschi, Vico Magistretti, Roberto Menghi, Giovanni Monet, Augusto Romano, Maurizio Sacripanti, Ettore Sottsass se., Ettore Sottsass jr., Mario Tedeschi, Mario Tevarotto, Vittoriano Viganò, Carlo Villa, Marco Zanuso, e gli ingegneri: Luigi Musso, Aldo Putelli e Giovanni Romano. 10. P. Bottoni, Urbanistica attuale in Italia, Conferenza alla Scuola Ciam di Venezia, ottobre 1952, Manoscritto. APB, Scritti editi e inediti di Piero Bottoni, pp. 17 e 18. Trad. ns. 11. Il manifesto è conservato in APB. 12. La copia del volumetto con la dedica è conservata nella biblioteca di APB. 13. Ciam X Lapad, août 1956. Rapport de la commission B.7. Rapporteur: Candilis, Bottoni [aggiunto a mano], Chemineau, Azagury, Riou, Waltenspuhl, Gandziarek, J. M. Honegger, Michel, Blomstedt, Bresseleers, Stranik, Mauri fils, De Vries, Biass, Minitch, Iten, De Lima. APB, Documenti scritti. 11.10. Enti, istituzioni, manifestazioni. Trad. ns. Riferimenti bibliografici Archivio Bottoni, 1983, Le Corbusier «Urbanismo», Milano 1934. Milano: Mazzotta. Bottoni P., 1969, [Primo intervento al Convegno su «L’eredità di Terragni e lo sviluppo dell’architettura italiana 1943-1968» tenutosi a Como il 14-15 settembre 1968]. L’architettura. Cronache e storia, XV, 163: 9, ora anche con il titolo Due testimonianze su Terragni e il Razionalismo italiano, in (Bottoni, 1995: 501-02). Bottoni P., 1995, Una nuova antichissima bellezza. Scritti editi e inediti 1927-1939, a cura di Tonon G.. Roma-Bari: Laterza. Consonni G., 2010, «Conférence à Milan». In: Talamona M. (a cura di), L’Italie de Le Corbusier, XVe Rencontres de la Fondation Le Corbusier. Paris: Editons de La Villette. Consonni G., 2012, «In margine alla conferenza di Milano del 19 giugno 1934». 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Milano: Electa. 57 Territorio Le Corbusier e i luoghi della produzione nella città industriale Silvia Bodei Dipartimento di Ingegneria civile, ambientale e Architettura, Università degli studi di Cagliari (silviabodei@unica.it) In Les trois établissements humains (Le Corbusier, 1945, 1959), saggio elaborato con gli amici dell’ASCORAL nel 1945, a proposito del nuovo modello urbano presentato nella pubblicazione Le Corbusier scrive: «Nelle amarezze di questi primi cento anni di macchinismo il lavoro ha, talvolta, talmente oscurato luoghi e coscienze che esso, e tutto ciò che lo accompagna, è stato considerato come una dura prova: lavoro-castigo, lavororiscatto, lavoro, insomma, disumano. Risalendo dagli effetti alle cause, l’ASCORAL scorge, al contrario, nell’architettura e nell’urbanistica, gli strumenti materiali attraverso i quali l’ordine e lo slancio creativo potranno regnare negli atti umani e ciò, appunto, attraverso il lavoro, azione permanente del quotidiano e della vita» (Le Corbusier, 1959; ed. it. 1967: 83)1. Per lui e per il gruppo di studiosi l’esercizio dell’intelletto e lo ‘slancio creativo’ devono essere infatti parte essenziale del lavoro dell’uomo, anche di quello operaio. All’interno dello stabilimento industriale occorre allora creare le condizioni più favorevoli per supportare e mantenere in equilibrio il ritmo biologico naturale dei lavoratori2. La vitalità e naturalità umana è però messa in crisi dai meccanismi ripetitivi di produzione. L’introduzione dell’organizzazione ‘scientifica’ del lavoro, taylorista3 e fordista4, ha poi trasformato il corpo del lavoratore in un organismo completamente dipendente dalla macchina, frazionabile e utilizzabile nelle sue diverse parti in base alle mansioni assegnate dal ciclo produttivo (Crosas, 1995). In linea con queste idee il nuovo modello urbano dei ‘tre stabilimenti umani’, che aspira all’armonia e sintonia con il ritmo ‘naturale’, è costituito da tre unità: ‘l’unità di gestione agricola’, dove si svolge il lavoro del contadino, la ‘città lineare industriale’, destinata a quello operaio, e la ‘città radiocentrica’ dei commerci e servizi. Ogni attività ha infatti esigenze e peculiarità sue proprie, e non esiste sostanziale confusione tra le diverse tipologie di occupazioni. L’urbanistica pertanto deve tendere a delineare un ‘ordine’ nel territorio, «una biologia che tenga conto della natura del territorio in cui sorgeranno [gli insediamenti umani] e della natura degli uomini che la animeranno. […] Avremo così una linea generale di condotta applicabile ad una civiltà del lavoro che entra, dopo il tumulto della crisi attuale, nel suo secondo ciclo, tendente ad aprirsi ad un’età di armonia» (Le Corbusier, 1959; ed. it. 1967: 93). La città ‘lineare industriale’ deve svilupparsi lungo le vie di comunicazione per inserirsi più facilmente all’interno del movimento rapido e circolare dei prodotti, mentre la fabbrica, collocata a metà strada fra città e campagna, si trasforma in Fabbrica ISSN 1825-8689, ISSNe 2239-6330 Nella lunga attività progettuale di Le Corbusier le esperienze legate a edifici e spazi destinati alla produzione sono significative, ma non numerose. Si tratta di progetti isolati, e quasi mai realizzati, riuscì a costruire infatti in tutta la sua carriera solo la Manifattura Duval a Saint-Dié (1946-51). La progettazione e la riflessione teorica sulle forme e strutture di queste architetture lo portano ad approfondire i meccanismi e i problemi dell’organizzazione degli ambienti di lavoro sino a trovare le soluzioni più adeguate, che poi confluiranno nella definizione del modello di Fabbrica verde da lui teorizzato nel saggio Les trois établissements humains (1945). L’articolo ripercorre alcuni aspetti dei progetti e del pensiero dell’architetto sui luoghi della produzione, continuamente alimentati da riferimenti culturali e architettonici ancora oggi molto attuali, allo scopo di cogliere i tratti più significativi, legati a un’idea di funzionamento del lavoro alternativa ai ritmi meccanici della catena di montaggio e a misura d’uomo Parole chiave: industria; spazi del lavoro; urbanistica 58 Territorio 80, 2017 verde, perché capace di ricreare al suo interno un ambiente ‘sano’ e organizzato secondo «una biologia delle circolazioni, della composizione degli edifici e della sua efficienza», che «ricrea di nuovo attorno al lavoro le condizioni di natura», e si contrappone in questo modo alla «Fabbrica nera […] dei primi cento anni dell’era macchinista» (Le Corbusier, 1959; ed. it. 1967: 113). Per illustrarla concretamente prende come esempio il suo progetto di stabilimento per tremila operai, destinato alla produzione di armi da guerra, da realizzare a Mountiers-Rozeille, vicino ad Aubusson. La costruzione, commissionatagli dal ministro degli armamenti Raoul Dautry nel 1940, venne iniziata, ma subito bloccata in seguito all’armistizio franco-tedesco del 22 giugno 1940. La fabbrica verde di Aubusson si pone come conclusione e sintesi di un lungo percorso ideativo, elaborato negli anni da Le Corbusier, per individuare e creare un modello di stabilimento industriale dotato di una struttura efficiente e funzionale alla produzione, ma capace nello stesso tempo di rispettare i ritmi vitali dei lavoratori e mitigare così il duro e deterministico sistema di produzione taylorista. Le esperienze precedenti di progettazione di edifici e spazi industriali sono poco numerose, ma alcune molto significative. Negli anni ‘10 Le Corbusier era entrato in contatto con il mondo dell’industria, lavorando prima nello studio di Peter Behrens a Berlino, poi con la Società A.E.G e infine come amministratore di una fabbrica di mattoni in calcestruzzo vicino a Parigi. Tra i suoi lavori di quegli anni troviamo i progetti di tre mattatoi nella campagna francese, a Challuy (1917-19), Garchizy (1918) e Bordeaux (1918). Si tratta di incarichi commissionati dalla nuova Société Nouvelle du Froid Industriel e dalla Société d’application du béton armé (SABA) (Ragot, Dion, 1997: 29-31). Pur non realizzati la loro progettazione permette al giovane architetto di misurarsi con la gestione del circuito di produzione industriale e la sua organizzazione produttiva, che lui interpreta in chiave funzionalista. Dal punto di vista strutturale Jeanneret sceglie di applicare la struttura Domino, da lui già utilizzata per la progettazione delle ‘case in serie’, massima espressione della standardizzazione industriale applicata all’edilizia. La circolazione dei prodotti e delle merci è poi tra le questioni principali 59 Territorio A pagina 59: Fig.1 – Mattatoio a Challuy (1917-19), assonometria Fonte: ©FLC/SIAE, 2017 In questa pagina: Fig. 2 – Mattatoio a Garchizy (1918), assonometria Fonte: ©FLC/SIAE, 2017 60 Territorio affrontate nei progetti. A Challuy immagina uno stabilimento articolato in vari corpi di fabbrica, attraversati da un lungo condotto trasversale che si snoda dall’ingresso sino all’area di spedizione, collegato poi esternamente alla strada e alla ferrovia adiacenti. Un disegno assonometrico dettagliato mette in risalto il percorso principale e le sue diramazioni, e mostra alcuni corpi di fabbrica con la definizione dei prospetti, che ricordano le grandi fabbriche contemporanee realizzate da Peter Behrens e da Walter Gropius in Germania (fig. 1). Il progetto di Garchizy, una località ad una decina di chilometri da Challuy, e quello di Bordeaux sono concepiti anch’essi con un rigoroso studio funzionale dei percorsi, ma la soluzione è diversa: un percorso principale attraversa centralmente un unico edificio parallelepipedo, al cui interno si concentrano tutte le funzioni (fig. 2). Nel 1926 a Pessac, all’interno del quartiere costruito per l’industriale Henri Frugès Le Corbusier aveva progettato una piccola manifattura di tappeti, che per motivi economici non verrà anche questo realizzato. Nel contratto firmato con il committente era previsto infatti un fabbricato, formato dal sistema di campate 5x5 m che scandisce la struttura delle case del quartiere, con all’interno un laboratorio per la tessitura, una sala per l’esposizione dei tappeti a doppia altezza e illuminata dall’alto e sui lati, una vetrina espositiva, l’abitazione del caposquadra e della sua famiglia, e nel cortile infine una zona per il lavaggio dei tessuti. Le Corbusier elabora due varianti del progetto e diversi schizzi mostrano la hall centrale a doppia altezza e lo studio di finestre e lucernai, inseriti all’interno di una copertura a volte a botte parallele (fig.4). La scelta di creare uno spazio luminoso e una zona d’abitazione in un luogo di produzione danno un carattere accogliente e domestico al progetto, lontano dalla concezione spaziale dei grandi edifici industriali dell’epoca. Nel 1929 Le Corbusier riceve infine l’incarico per il progetto di ricostruzione della casa editrice ‘Draeger et Frères’ a Montrouge, ma anche questo non sarà mai realizzato. Tra gli aspetti peculiari della proposta c’è l’introduzione, all’ultimo piano dell’edificio, di spazi destinati al tempo libero degli operai, riuniti in ‘club’ per la gestione delle diverse aree, tra cui una palestra, dotata di tapis roulant e un trapezio da acrobata. Importante è poi l’introduzione della luce naturale negli ambienti interni, che viene valorizzata inserendo ai piani superiori grandi pannelli di vetro e vetro-mattone modello ‘Nevada’ di Saint-Gobain, soluzione che alleggerisce in modo efficace il pavimento e dà luce al primo piano (fig.3). Le esperienze di questi anni sono isolate, ma portano Le Corbusier ad affinare le sue riflessioni sui meccanismi industriali e i problemi sociali e umani legati alla organizzazione degli ambienti di lavoro. I temi e le soluzioni ideati nei progetti precedenti, in particolare la circolazione studiata in funzione del legame tra le varie fasi del ciclo produttivo e le nuove funzioni, l’uso di vetrate, lucernai, e di una struttura prefabbricata e standardizzata, saranno ripresi e sviluppati nel progetto per la fabbrica di armi ad Aubusson (1940), modello poi della Fabbrica verde. Qui la circolazione influenza e ordina in modo strutturale lo spazio produttivo ed è tutta l’architettura ad essere coinvolta e influenzata dalla sua organizzazione. Le Corbusier sfrutta la pendenza del terreno, posto tra fiume e montagna, e crea un ingresso all’edificio sopraelevato ed una passerella chiusa, sovrapposta alla copertura delle officine, per la circolazione del personale, differenziandola dal percorso di ingresso e uscita al In questa pagina: Fig. 3 – Casa editrice Draeger et Frères a Montrouge (1929), sezione Fonte: ©FLC/SIAE, 2017 A pagina 62: Fig. 4 – Manifattura Frugès, assonometria, (1926) Fonte: ©FLC/SIAE, 2017 A pagina 63: Fig. 5 – Vista della Fabbrica verde. Fonte: Œuvre complète 1938-1946 Fig. 6 – Disegno di Le Corbusier a Delfi, Voyage d’Orient, Carnet 3, 1911 Fonte: ©FLC/SIAE, 2017 61 Territorio piano terra del materiale e dei prodotti. Il circuito di fabbricazione si suddivide poi in diverse ramificazioni, a seconda delle zone e delle fasi di produzione (V1, V2, V3), creando un sistema continuo che ‹‹riproduce le fasi di un circuito sanguigno›› (Le Corbusier, 1959; ed. it. 1967: 114). Eliminando i punti di rottura della catena di produzione e montaggio, si rende in questo modo più agevole il funzionamento dell’intero meccanismo legandolo al movimento degli operai, in quanto «queste circolazioni esprimono la più rigida economia. Esse procedono dall’interno all’esterno, regola che informa la vita stessa» (Le Corbusier, 1959; ed. it. 1967: 113). L’organizzazione della circolazione interna si lega poi ad uno studio approfondito dell’illuminazione naturale, attraverso l’utilizzo di lucernai e vetrate, che, aperte verso il verde circostante, inseriscono un elemento completamente nuovo: la relazione tra l’edificio e il paesaggio. Tra i numerosi disegni del progetto è molto interessante una prospettiva dello stabilimento che mostra le diverse volumetrie immerse nel verde e la vista maestosa delle Alpi sullo sfondo, perché ci fa individuare il contesto in cui la fabbrica doveva essere edificata: fuori della città, in ‹‹zone verdi selezionate per l’orientamento e il paesaggio›› (Le Corbusier, 1959; ed. it. 1967: 113) (fig.5). L’immagine compositiva del disegno si presenta al nostro sguardo come un’eco di tante altre opere di Le Corbusier, in particolare i progetti e i numerosi schizzi realizzati nei suoi viaggi, quando con occhio attento osservava e annotava la realtà che gli stava intorno. Già durante il viaggio in Oriente (1911) nel suo taccuino il giovane Jeanneret aveva disegnato monumenti, edifici, rovine, inseriti nel loro particolare paesaggio. Nella sua visita a Delfi uno schizzo dell’‘Iskegaon’, posto dietro il tempio di Apollo, rappresenta così tre parallelepipedi di pietra, segnati da scanalature, con le imponenti montagne del monte Parnaso sullo sfondo, per rimarcare nel disegno, con lo sguardo dell’architetto-osservatore, la ‘risonanza’ compositiva che si stabilisce fra i tre volumi geometrici del monumento, contrapposti al profilo irregolare e maestoso delle montagne all’orizzonte5 (fig.6). Molti anni dopo nel progettare la Fabbrica verde di Aubusson, disegna ancora volumetrie squadrate, formate da corpi di fabbrica parallelepipedi, disposti in parallelo e chiusi da una copertura a shed, che si confrontano con il profilo sinuoso delle montagne. Scegliendo di creare un rapporto diretto tra ‘artificiale’ e paesaggio ‘naturale’ sembra così voler integrare la natura nello spazio architettonico, per rendere gli ambienti di lavoro più confortevoli e a misura d’uomo. Per la Fabbrica della ‘città lineare industriale’ Le Corbusier spiega infatti che «i fabbricati sono disposti secondo le necessità del terreno e le 62 Territorio 63 Territorio esigenze della fabbricazione […] grandi vetrate saranno aperte nelle pareti su di una prospettiva paesaggistica giudiziosamente preservata o sistemata. Gli spazi tra i fabbricati costituiranno un insieme armonioso con orizzonti aperti su vaste distese del cielo» (Le Corbusier, 1959; ed. it. 1967: 115). A scala urbana poi si ribadisce che lo stabilimento deve essere costruito vicino alle abitazioni operaie, all’interno di un sistema che si sviluppa linearmente lungo le vie di comunicazione principali e le vie di comunicazione delle materie prime (via acqua, terra e rotaie), facilitando la catena produttiva e gli spostamenti degli stessi operai durante l’intera giornata, tra casa, lavoro e riposo6. Sono temi questi molto cari a Le Corbusier e presenti sin dagli anni ’20 negli scritti e nei suoi progetti urbani. Nel saggio Ville Contemporaine (1925), immagina un modello di città integrata all’interno dell’organizzazione taylorista, nella convinzione che essa possa convivere con i ritmi biologici dell’uomo, scanditi nelle ventiquattro ore dal suo movimento continuo fra abitazione, lavoro e tempo libero. L’architetto-urbanista cerca di affrontare il problema ponendo l’accento sulla questione del lavoro perché la città nasce dall’abitazione, ma questa a sua volta deve essere coordinata con il luogo dove ciascun cittadino svolge la sua occupazione, coinvolgendo così l’‘orario di lavoro’, che tende a prolungarsi, se i mezzi di trasporto non sono efficienti e le distanze eccessive. In questa città, pensata con un impianto radiocentrico, il lavoro amministrativo ed ‘intellettuale’ si svolge nel centro della città, nei grattacieli della cité d’affaires, mentre quello operaio all’interno di stabilimenti industriali periferici, posti fra il centro urbano e la cité jardin. La popolazione a sua volta viene classificata sulla base dell’ubicazione del luogo di lavoro e di abitazione ed è definita urbana o suburbana, a seconda che viva e lavori in centro o in periferia, e infine mista, se lavora in centro, ma risiede nella cité-jardin. La soluzione possibile è quella di ‹‹diminuire le distanze e concentrare il lavoro accelerando il suo ritmo››, spiega Le Corbusier, perchè in questo modo aumenta la produttività, scandita dalle macchine (della catena di montaggio e anche dei trasporti), e si salvaguarda meglio il ritmo biologico del lavoratore. Facendo sue idee già molto diffuse negli ambienti intellettuali e scientifici di quegli anni precisa che il tempo prima speso negli spostamenti può essere così utilizzato per il ‘riposo’ e lo ‘sport’ (Le Corbusier, 1925). Si tratta di un’idea di armonia ‘organica’, quella proposta nella Ville Contemporaine (1925), che viene alcuni anni dopo ulteriormente articolata nella Ville Radieuse (1930), il nuovo modello di città la cui «essenza è l’abitazione», formata dalla Ville Verte residenziale, dove «il terreno destinato allo sport si trova sotto casa», e i luoghi di lavoro, facilmente raggiungibili con i trasporti pubblici, sono posti ai bordi della città. Nel nuovo modello viene dunque immaginata da una parte la cité d’affaires, vicina alle villes satellites destinate all’amministrazione e al governo, e all’estremità opposta la zona industriale per le manifatture, imprese e industria pesante. «Noi lavoriamo per vivere. Non viviamo per lavorare», scrive Le Corbusier in questo saggio, aggiungendo che necessariamente «avremo delle ore libere» (Le Corbusier, 1935: 115). È solo nella città «lineare industriale» del Trois établissements humains (1945) che la fabbrica diventa Fabbrica verde, dove il verde, il paesaggio, la circolazione e gli spazi devono essere legati e in relazione al funzionamento ‘biologico’ del lavoro, lontano dai ritmi meccanici della catena di produzione. Una concezione a cui Le Corbusier giunge, come già visto, dopo un lungo percorso ventennale di studio e di progettazione, alimentato da riferimenti culturali e architettonici che infine acquista forma architettonica nel progetto di Aubusson, uno stabilimento che riprende strutture compositive fluide ed ‘organiche’ più che meccaniche. Ma alcuni anni dopo Le Corbusier riesce finalmente a realizzare il suo unico progetto di stabilimento industriale, costruendo la Manifattura Duval a St-Dié (1946-51). L’opera gli viene commissionata da un amico, l’ingegnere Jean-Jacques Duval, che dà ampia libertà all’architetto nella progettazione. L’edificio, formato da un volume parallelepipedo di tre piani e di circa 3000 mq, viene progettato e costruito applicando rigorosamente i cinque punti dell’architettura: al piano terra i pilotis strutturano l’edificio e lo sopraelevano; il toit-jardin sovrasta la copertura e si lega alla zona degli uffici; la façade libre formata da grandi vetrate riprende la soluzione della fenêtre en longeur; mentre il plan libre all’interno garantisce una grande flessibilità nella distribuzione (fig.9). Il tratto più rilevante dell’opera è costituito infine dall’inserimento di grandi brise-soleil a tripla altezza nella facciata esposta a sud-est, studiati in modo tale che possano schermare la luce diretta all’interno, per non disturbare il lavoro degli operai ed evitare l’esposizione dei tessuti ai raggi solari (fig.7). La modulazione dei brise-soleil e della vetrata retrostante, insieme alla scansione dei pilotis, pensati seguendo le proporzioni del Modulor, creano un’armonia e un ritmo inaspettati. Come spiega lo stesso imprenditore Duval: ‹‹[…] questi tre ritmi verticali, su diversi piani, offrono all’osservatore a ogni passo (sia all’interno che all’esterno) la sorpresa di una composizione mutevole. Una specie di fuga a tre voci con infinite variazioni, che ebbe l’effetto imprevisto di ritardare di molti mesi il permesso di costruzione, perché l’architetto capo di Saint-Dié (che si diceva musicista) non arrivò mai a capirla›› (Duval, 1957: 51). Dieci anni dopo la costruzione della manifattura Duval Le Corbusier si misurerà con la stesura di un grande e complesso progetto di stabilimento industriale come il Centro di calcolo elettronico Olivetti di Rho (1960-64), l’innovativa fabbrica di 90.000 mq che purtroppo non sarà mai realizzata. Le Corbusier, fedele al suo modello di Fabbrica verde, progetterà per la Società di Ivrea una costruzione industriale ‘a misura d’uomo’, attenta agli aspetti legati alla salubrità dell’aria, all’illuminazione e alla presenza del verde all’interno (fig.8). Ne sono un esempio i numerosi studi, da lui fatti durante la lunga elaborazione del progetto, sull’esposizione solare o la decisione di realizzare un grande toit-jardin, sovrapposto alla copertura della zona di produzione, che lega il volume al paesaggio circostante. Per incentivare e favorire lo ‹‹slancio creativo intellettuale›› (Le Corbusier, 1959; ed. it. 1967: 83) dei lavoratori, connaturato anch’esso alla vita, progetta poi un ‘laboratoire merveilleux’, un ‘couvent de l’électronique’ (Taylor, 1976), come sottolinea Roberto Olivetti, ‹‹dove la ricerca, lo studio e la creazione sono gli elementi primari del nostro lavoro, dall’ideazione del prototipo al prodotto finito››7. Secondo la politica olivettiana e le idee dell’ASCORAL vengono creati inoltre all’interno dello stabilimento spazi per il riposo e il tempo libero (un museo, una biblioteca, servizi sociali, etc.), e lo stesso Le Corbusier alla firma del contratto impone la costruzione dentro lo stabilimento del Museo dell’Elettronica audiovisuale, fruibile dai ‹‹visitatori, ingegneri, lavoratori e impiegati››8. La circolazione delle persone e dei prodotti è anche qui un elemento centrale: parte dall’esterno e attraversa in 64 Territorio Fig. 7 – Facciata a sud-est con i brise-soleil della Manifattura Duval a St-Dié (1946-51) Fonte: Œuvre complète 1946-1952 Fig. 8 – Progetto per il Centro di calcolo elettronico Olivetti (1960-64), modello Fonte: Œuvre complète 1957-1965 Fig. 9 – Manifattura Duval a St-Dié, pianta e sezione della struttura, (1946-51) Fonte: ©FLC/SIAE, 2017 65 Territorio modo continuo ed ‘organico’ l’interno del Centro Olivetti, ed è valorizzata da un sistema di areazione e illuminazione (data da lucernai e vetrate filtrate dai brise-soleil), che garantiscono un ambiente ‘naturale’, in movimento ‘dall’interno verso l’esterno’. L’idea che principalmente sembra dare forma al progetto è quella di un’industria costruita come un grande organismo architettonico integrato nel paesaggio e dinamico. Perché, come aveva sottolineato nella descrizione del modello di Fabbrica verde, ‹‹sole, spazio e verde, porteranno qui … le influenze cosmiche, la risposta al respiro dei polmoni, la virtù dell’aria, come la presenza di quell’ambiente naturale che accompagnò la lunga e minuta elaborazione dell’essere umano›› (Le Corbusier, 1959; ed. it. 1967: 114). geometria che sorgeranno i templi e i palazzi: è in essa che si trovano le prove della volontà, il potere. I preti e i tiranni mostrano la loro forza ponendo come base dell’architettura la geometria». In questo caso l’‘eco’ che si crea fra gli elementi della composizione genera unità e la geometria dell’architettura in primo piano si contrappone e relaziona con il profilo irregolare e maestoso della topografia circostante. (Le Corbusier, 1928). 6. Un progetto simile era stato già elaborato da Le Corbusier nel 1935, su incarico dell’industriale Jan Bat’a, per il Piano regolatore della Valle di Zlín in Cecoslovacchia, dove era presente l’articolazione delle fabbriche lungo le tre principali infrastrutture viarie e seguendo la topografia del territorio. 7. Lettera, datata 18 aprile 1962, inviata da Roberto Olivetti a Le Corbusier. FLC M2-8-58/59. 8. Contratto datato il 20 ottobre 1961, stipulato fra Le Corbusier e Roberto Olivetti. FLC M2-8-40/46. Note Riferimenti bibliografici 1. Introduzione al capitolo ‘Etica del lavoro’. All’edizione del 1945 segue nel 1959 una seconda edizione, in parte rivisitata, a cui si fa principalmente riferimento nel testo (Le Corbusier, 1945, 1959; ed. it. 1967). 2. Già Karl Marx nel Capitale (1867) scrive «Il lavoro alla macchina intacca in misura estrema il sistema nervoso, sopprime l’azione semplice dei muscoli e confisca ogni libera attività fisica e mentale. La stessa facilità del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacché la macchina non libera dal lavoro l’operaio, ma toglie il contenuto al suo lavoro». (Marx, 1857; trad. it. 1970: 129). 3. Frederick W. Taylor (1856- 1915) promuove, a partire dai primi anni ’80 del XIX secolo, una riforma della fabbrica finalizzata ad aumentare la produttività ed efficienza del sistema attraverso la riorganizzazione e l’inasprimento del lavoro operaio. Il suo metodo, denominato ‘Scientific Management’ (W. Taylor, 1911), si basa su un sistema di analisi ‘scientifiche’ dei ritmi e tempi di esecuzione del lavoro che sostituisce l’operaio professionale con l’operaio massa, non qualificato e poco organizzato, la cui specializzazione funzionale lo rende esclusivamente una parte accessoria della macchina e del corpo collettivo della fabbrica. 4. Le idee tayloriste vennero successivamente applicate da Henry Ford (1863-1947) nel suo stabilimento di Highland a Detroit, non più solo alle persone, ma direttamente ai macchinari, rivoluzionando così completamente il sistema di produzione. Con l’introduzione della catena di montaggio viene infatti annullata completamente l’autonomia dell’operaio, riducendo i suoi movimenti alla ripetizione di azioni semplici completamente vincolate al ritmo della macchina e del rullo. 5. Lo stesso schizzo si ritrova successivamente nel capitolo intitolato Thèse del saggio Une maison, un palais (1928), scelto per spiegare il potere dell’ordine della geometria sulla natura circostante in architettura. Dice infatti che «dominando i golfi e le valli, a Delfi, questi tre cubi di pietra, testimonianze violente e pure, parlano del sublime. È dunque sulla Crosas J., 1995, Cuerpo y Maquina. Organización y economía del cuerpo en la época de las vanguardias. Barcelona: Tesi di dottorato, Universidad Politécnica de Cataluña. Duval J.J., 1957, «Le Corbusier vivant». Spazio e Società, 8: 51. Le Corbusier, 1925, Urbanisme. Paris: Crès. Le Corbusier, 1928, Une maison, un palais. Paris: Collection de L’Esprit Nouveau. Le Corbusier, 1935, La Ville Radieuse, éléments d’une doctrine d’urbanisme pour l’équipement de la civilisation machiniste. Paris: Éditions Vincent Fréal. Le Corbusier, 1937, Œuvre complète 1910-1929. Zürich: Girsberger. Le Corbusier, 1938, Œuvre complète 1934-1938. Zurich: Girsberger. Le Corbusier et. al., 1945, Les trois établissements humains. Paris: Donöel. Le Corbusier et son Atelier de la rue de Sèvres 35, 1957, Œuvre complète 1952-1957. Zurich: Girsberger. Le Corbusier, 1965, Œuvre complète 1957-1965. Zurich: Les Éd. D’Architecture. Le Corbusier, 1959, L’urbanisme des trois établissements humains. Paris: Édition de Minuit (trad. it. 1957, L’urbanistica dei tre insediamenti umani. Milano: ETAS KOMPASS). Marx K., 1857, Das Capital, Band I (2) (trad. it., 1970 Il Capitale, Libro I (2). Roma: Editori Riuniti). Ragot G., Dion M., 1997, Le Corbusier en France. Projets et realizations. Paris: Groupe Moniteur. Taylor W. F., 1911, The Principles of Scientific Management. New York: Publishers Incorporated. Taylor B.B., 1976, «L’usine comme couvent». L’architecture d’aujourd’hui, 188: 69-71. Žaknić I., 2010, «Usine Claude & Duval, 1945». In: (DVD), Fondation Le Corbusier, Box 3, V.9, Echelle-1, Shinjuku-ku, Tokyo, 2010. 66 Territorio Le Corbusier al Primo Convegno Internazionale sulle Proporzioni nelle Arti, Milano 1951 Anna Chiara Cimoli*, Fulvio Irace** * Ricercatrice indipendente **Politecnico di Milano, Dipartimento di Design (annachiara.cimoli@gmail.com; fulvio.irace@polimi.it) Nel settembre 1951, la Triennale di Milano fu il teatro di una performance d’eccezione, con Le Corbusier nel ruolo di un protagonista. Il tema in discussione riguardava le proporzioni nelle arti e il discussant di primo piano era Rudolf Wittkower. Se, per lo storico, l’ordine matematico doveva continuare a essere alla base dell’arte, per Le Corbusier tutti i corollari del sapere esoterico celati dentro la questione della ‘divina’ proporzione erano ormai cose morte: contro i ‘miracoli della geometria’, propone la nuova idea dello ‘spazio indicibile’. Il convegno naufraga sulle sue stesse premesse; ma la teatralizzazione delle opzioni mette in luce il disagio dell’architettura a fronte di ogni rigidità normativa: l’impossibilità di una teoria che non tenga conto della realtà del corpo, dunque del grottesco e della materialità come fondamenti della ricerca Parole chiave: divina proporzione; modulor; IX Triennale ISSN 1825-8689, ISSNe 2239-6330 Babele a Milano Dal Rinascimento a Le Corbusier, dall’homo ad circulum et ad quadratum al Modulor, dalle proporzioni albertiane a quelle espresse nella ricerca sulla coordinazione modulare: ma con le macerie di una guerra ancora per le strade, un’identità nazionale tutta da riprogettare e una frattura quasi decennale negli studi. Questa la sfida ambiziosa del Primo Convegno Internazionale sulle Proporzioni nelle Arti, svoltosi alla Triennale di Milano dal 27 al 29 settembre 19511. Portare al centro, far convergere, chiamare a raccolta intorno a un tema, pur nella pluralità delle voci e degli stili: tale lo sforzo degli organizzatori, che con incredibile tenacia riescono a far sedere allo stesso tavolo matematici e filosofi, storici dell’arte e architetti, artisti e ingegneri. Ma fu dialogo o Babele? Lo sguardo dei promotori portava già in sé, in modo affatto inespresso, il germe della differenza, se non dell’incomunicabilità. Carla Marzoli, proprietaria e animatrice della libreria La Bibliofila di via Manzoni, è una self-made woman: competente, capace di attirare la stima e la simpatia dell’intelligentjia milanese, amata dagli architetti della seconda generazione del moderno – che da lei acquistano volumi altrove introvabili – è una donna libera, mossa non già da ragionamenti strategici e accademici quanto da intime convinzioni culturali. La proporzione, per lei così sensibile al contemporaneo, va letta principalmente in una chiave di profondità storica che trova nella trattatistica classica il proprio punto di riferimento. Ivan Matteo Lombardo, suo interlocutore alla Triennale, di cui era presidente, è un uomo d’azione: conscio della necessità di parlare al presente, a un presente in via di frenetica industrializzazione, tesse i fili di una trama complessa, attenta alle alte rappresentanze ma inclusiva di tutti i bei nomi dell’architettura contemporanea. Dopo l’episodio della Triennale del 1949, in cui era stato presentato il quartiere Q8 e in cui si era discusso della nuova dimensione dell’abitare all’indomani della guerra, la volontà è ora quella di inserirsi attivamente, da protagonisti, nella riflessione sui nuovi modi e tempi del progetto. Il singolare tandem Marzoli-Lombardo prende le mosse da un episodio in apparenza minore, ma in realtà denso di suggestioni culturali e ricco di conseguenze concrete. La Triennale del 1951, qualche mese prima del convegno, era stata teatro di una piccola esposizione allestita al piano nobile: la Mostra di Studi sulle Proporzioni, curata dalla stessa Carla Marzoli e allestita dal giovane architetto Francesco Gnecchi-Ruscone2. La mostra voleva offrire una panoramica degli studi condotti dall’antichità fino 67 Territorio 80, 2017 ad allora, e aveva il proprio nucleo negli splendidi volumi – fra cui molti manoscritti – in parte provenienti dalla Bibliofila, in parte prestati dalle più importanti biblioteche italiane ed europee, idealmente ripartiti nei capitoli ‘Gli studi e le proporzioni dall’antichità al Settecento’, e ‘Gli studi sulle proporzioni nella modernità’. L’organizzazione nelle vetrine, tuttavia, non seguiva una scansione cronologica ma tematica: nella prima teca, per esempio, testi di Erodoto, Diodoro Siculo e Giamblico Calcidense convivevano con le teorie di Ernst Moessel (Die Proportion in Antike und Mittelalter, 1931) e di Jay Hambidge (Dynamic Symmetry. The Greek Vase, 1948). Oltre ai testi fondanti (Vitruvio, Dürer, Vesalio, Alberti, Filarete, Piero della Francesca) ampio spazio era dedicato a quella fitta corrente di studi nata negli anni dieci del Novecento e ancora vitale al momento della mostra. Ecco qui preannunciati, attraverso i loro studi, molti dei partecipanti al futuro convegno: Hans Kayser (di cui sono esposte diverse opere, fra cui Harmonia plantarum, 1943, e Ein harmonikaler Teilungskanon, 1946), Andreas Speiser (Die mathematische Denkweise, 1932), Salvatore Caronia Roberti (Introduzione allo studio della composizione architettonica, 1949), Rudolf Wittkower (Architectural Principles in the Age of Humanism, 1949), James Ackerman (Gothic Theory of Architecture at the Cathedral of Milan, in ‘The Art Bulletin’, 1949), Charles Funck-Hellet (Composition et nombre d’or dans les oeuvres peintes de la Reinaissance, 1950, e De la proportion. L’equerre des maîtres d’oeuvre, 1951), Eva Tea (La proporzione nelle arti figurative, 1945), Matila Ghyka (Esthétique des proportions dans la nature et dans les arts, 1927; Le nombre d’or, 1931 e The Geometry of Art and Life, 1946), Georges Vantongerloo (Problems of Contemporary Art, 1948). Ai volumi si affiancavano qua e là stampe fotografiche (la scala a tenaglia di Leonardo, gli schemi proporzionali dei vasi greci di Hambidge, le proporzioni del corpo femminile di Dürer, fino a opere contemporanee come il Monumento ai Caduti nei Campi di Concentramento di Belgiojoso, Peressutti e Rogers e Punti nel piano di Kandinsky); naturalia (cristalli di quarzo e pirite); opere d’arte (due pannelli intarsiati di Cristoforo da Lendinara, la scultura Concavo-convesso di Bruno Munari); partiture musicali (di Arnold Schönberg, Anton Webern, Alban Berg, Luigi Dallapiccola e Riccardo Malipiero) fino all’affondo nell’attualità costituito dal pannello dedicato al Modulor. Facciamo ora un passo indietro. La mostra era nata con la consulenza a distanza – ma vigile e attenta – di Rudolf Wittkower, il cui recente Architectural Principles in the Age of Humanism (1949, tradotto in Italia nel 1964) era già divenuto un classico. Il grande storico dell’architettura aveva suggerito alla Marzoli, andata a trovarlo appositamente a Londra, un approccio lineare, insieme cronologico e tematico, di grande evidenza didattica. Per rafforzare l’aspetto illustrativo aveva anche proposto il prestito di una serie di pannelli impaginati dai suoi studenti del Warburg Institute. La proposta era stata gentilmente declinata dalla curatrice attraverso GnecchiRuscone: «Non intendiamo organizzare la mostra in senso cronologico, ma evidenziare i modi di affrontare il problema nei vari periodi, parallelamente o in sequenza nel campo dell’arte, dell’architettura, dell’astronomia, della matematica, della musica, della fisica, della biologia, eccetera. Non vogliamo compiere questa analisi attraverso pannelli didattici ma esponendo testi e opere originali [...]. Penso dunque che rinunceremo all’offerta di esporre i pannelli preparati dai Suoi Dall’alto: – Rudolf Wittkower durante la sua presentazione Fonte: Archivio Storico La Triennale di Milano – Le Corbusier con Max Bill e la moglie Bina Spoerri Fonte: Archivio Storico La Triennale di Milano A pagina 69: – Le Corbusier durante la sua presentazione Fonte: Archivio Storico La Triennale di Milano 68 Territorio studenti, che Lei ha gentilmente fatto alla signora Marzoli»3. I pannelli, infatti, avrebbero probabilmente accentuato l’aspetto storico a detrimento dell’affondo nella contemporaneità – qui fatta coincidere con l’opera di Le Corbusier – che stava molto a cuore alla curatrice. Non essendo riuscita a incontrare di persona il maestro svizzero, Carla Marzoli aveva conquistato al suo progetto André Wogenscky, suo collaboratore. Così GnecchiRuscone ne scriveva a Le Corbusier: «Maestro, in occasione della Nona Triennale di Milano, io e la signora Carla Marzoli siamo stati incaricati di organizzare la sezione sullo studio dei problemi della proporzione attraverso i trattati antichi e moderni. La signora Marzoli ha sperato di poterLa incontrare a Parigi per metterLa al corrente delle nostre intenzioni e dei nostri progetti, ma con suo grande dispiacere era ancora assente. Ha comunque parlato con l’architetto Wogenscky, che come certamente saprà si è detto molto interessato alla nostra iniziativa e ci ha assicurato il vostro prezioso appoggio. La Triennale ha messo a nostra disposizione una sala di circa cento metri quadri, in cui verranno esposti manoscritti originali di Vitruvio, Francesco di Giorgio, Filarete [...]. Per quanto riguarda i trattati moderni, vorremmo dare agli studi sul Modulor l’importanza che compete loro; vorremmo inoltre esporre un pannello di grandi dimensioni (m. 2,26 per m. 2,26 o ancora di più, fino a un massimo di 5 metri di altezza). Seguendo il consiglio dell’architetto Wogenscky, vorremmo chiederLe se sarebbe così gentile da incaricarsi della progettazione di questo pannello»4. Ecco dunque giungere a Milano l’architetto srilankese Minnette de Silva, a cui Le Corbusier demanda l’installazione del pannello. Qui il Modulor è affiancato – secondo dimensionamenti armonici – a foto dell’Unité d’Habitation di Marsiglia, della cappella di Ronchamp e della pianta di Chandigarh (Tamborrino, 2003). Le Modulor, pubblicato nel 1950, costituiva, con il testo di Wittkower, l’altro termine di confronto ineludibile di quei primi anni ‘50. Anciens e modernes avevano così ciascuno il proprio padre putativo. Oltre a queste impegnative pietre di paragone, tutta una letteratura veniva sviluppandosi in quegli anni: se James S. Ackerman, con il suo Ars sine Scientia Nihil Est: Gothic 69 Territorio Theory of Architecture at the Cathedral of Milan del 1949, aveva offerto una lettura originale dei sistemi di costruzione del duomo di Milano, Colin Rowe con The Mathematics of the Ideal Villa del 1947, e poi con Mannerism in Modern Architecture del 1950 aveva gettato le basi per una lettura più raffinata e consapevole dell’architettura contemporanea. Spazzato il campo dalle interpretazioni estetizzanti e decadenti figlie dell’orfismo di inizio secolo, e metabolizzate le istanze proporzionali che avevano nutrito la riflessione dei primi razionalisti, si trattava ora di portare la storiografia e la cultura del progetto intorno allo stesso tavolo, a fornire rassicurazioni sull’attualità del tema da trattare. Fra Wittkower e Le Corbusier: padri scomodi Ecco così nascere e farsi strada la proposta di un convegno internazionale in cui sviscerare da diversi punti di vista il tema dell’armonia e della proporzione, e in cui verificare la possibilità di una confluenza fra le diverse discipline da questo tema interessate. Il principio di base, lo stesso che anima il Centro Studi della Triennale, è quello di convogliare il dibattito, favorire la cultura viva, far parlare le forme. Come scrive Lombardo a Antonio Segni, Ministro dell’Istruzione, invitandolo ad aprire il convegno, la Triennale «rappresenta la documentazione appassionata ed appassionante di quanto di meglio si fa [...] in questo campo. Vorrei dire che in un certo senso è una cattedra permanente sullo sviluppo del gusto e dei criteri estetici moderni»5. Wittkower e Le Corbusier sono, nell’agenda degli organizzatori, le uniche presenze davvero irrinunciabili. Durante l’estate del 1951 Carla Marzoli scrive spesso al primo, a ribadire la centralità del suo ruolo nell’impaginazione del convegno. In una di queste lettere, per esempio, si legge: «Inutile dirle che la sua relazione e la sua presentazione dei problemi e degli scopi del congresso è la cosa essenziale per l’inquadramento delle altre comunicazioni e da questo l’importanza che Lei, che ci ha già tanto aiutato, ci aiuti ancora inviandoci al più presto possibile un riassunto da diramare agli altri relatori e presidenti, che sulla base di quello potranno regolare le relazioni e i conseguenti dibattiti. Con questo... siamo nelle sue mani»6. Parallelamente, Lombardo scrive a Le Corbusier: «Il Suo Modulor è il perno attorno al quale ruotano tutti i problemi della proporzione nell’ambito dell’architettura moderna. Poiché Lei ci ha fatto l’onore di spedirci il pannello del Modulor per la nostra mostra, è necessario che ci onori anche della Sua partecipazione a questo incontro. Mi permetto di dire ‘è necessario’ perché davvero non riesco a immaginare la giornata dedicata all’architettura senza la Sua presenza»7. Wittkower, incaricato di aprire i lavori con una relazione sulle ‘Finalità del convegno’, sembra del tutto in linea con la weltanschauung degli organizzatori. Scrive infatti, tratteggiando le linee essenziali del suo futuro intervento: «Avevo pensato di dire qualcosa sull’ordine matematico, [...] e ancora di più, di spiegare che l’arte è sempre stata espressione di questo ordine; che la prassi del XIX e anche del XX secolo sembrerebbe quasi contraria alla natura nella misura in cui il principio dell’ordine è stato lasciato esclusivamente all’arbitrio del singolo artista; e infine che questo convegno è un segno positivo di un cambiamento di attitudine, preparato ormai da qualche tempo da persone come Le Corbusier»8. All’avvicinarsi della data del convegno, tuttavia, Wittkower – forse perchè continuamente invitato dagli orga- nizzatori a sollecitare risposte, tessere rapporti, far pressione a questo e a quello – annuncia alla Marzoli che non scriverà a Le Corbusier: «Una lettera da parte mia non avrebbe alcun significato per lui. Penso che la sua presenza abbia soprattutto valore di propaganda. Detto fra di noi, è un pessimo oratore, e non ha poi molto da dire. Con tante relazioni eccellenti in programma, potremmo tutto sommato fare a meno di lui»9. Man mano che si avvicina l’inizio dei lavori, inizia a emergere un sottobosco di frizioni, divergenze d’opinione, forze centripete. C’è chi, come Carlo Ludovico Ragghianti, rifiuta di partecipare a causa dell’«irrimediabile anacronismo e l’inconsistenza del problema che viene trattato»10; chi, come Carlo Mollino, accetta di parlare, ma precisa che «a qualunque estetica si faccia riferimento, la ‘proporzione’ non ha nulla di ‘divino’ e che, a priori, tutti i pur pregevolissimi studi in merito, e presunte ricerche di ‘segreti’, e ancor più pretese ‘scoperte’, hanno mero valore filologico» 11; chi invece, come Lucio Fontana, non vede l’ora di prendere la parola con un obiettivo ben chiaro: «Nel corso della conferenza vi voglio convincere che la ‘divina proporzione’ è evasa dal concetto dell’architettura moderna e futura»12. Prevedibilmente, viste le premesse, il convegno si trasforma in palcoscenico di dissonanze, luogo di dissenso, cassa di risonanza dell’incomunicabilità fra vecchio e nuovo mondo. Le pur molto autorevoli voci di Charles Funck-Hellet, Cesare Bairati, Adrien Turel, Gino Severini, Roberto Papini paiono giungere da un orizzonte ormai inattuale a confronto con le argomentatissime relazioni di Mollino, Giedion, Fontana, Gardella13. Siete voi che correte! Ma il protagonista incontrastato, la vera e unica star è Le Corbusier. Il suo intervento, cui aveva spianato la strada, nel pomeriggio, quello sintonico di Ernesto Nathan Rogers, si volge di sera sotto forma di performance, più che di master-class. Solo sotto le luci del Teatro dell’Arte, il maestro disegna, argomenta, persuade. Il tono è carismatico; fluida la cadenza delle parole, che oscilla tra scienza e biografia, mentre la narrazione si muove tra l’analisi e la profezia. In una giornata dedicata alle introspezioni della storia e all’oggettività delle teorie scientifiche, il suo discorso fa piazza pulita di ogni meccanica credenza nel potere della matematica. Accanto al ‘miracolo’ dei numeri, fa la sua comparsa l’interdetto poetico: il talento e l’invenzione. La necessità della poesia evoca la tensione della creazione; ogni meccanicismo è schivato con cura e anzi rigettato: oltre i rapporti numerici, contano i ‘rapporti patetici’ e quelli ‘emotivi’. L’‘esaltazione estetica’ irrompe a scompigliare i calcoli, la misura del corpo avanza i suoi diritti sulle pretese dell’intelletto. «Vi parlerò da artigiano», aveva infatti esordito, in aperta polemica con la corrente ‘wittkoweriana’ del congresso: «Ieri e oggi abbiamo intavolato discorsi assai dotti ma spesso fuori dalle realtà della vita». E per sgombrare il campo da equivoci, dichiara subito la sua diffidenza verso quel ‘Grande Rinascimento’ che lo storico inglese aveva posto a fondamento dell’iniziativa della Triennale: «Sono loro che hanno capovolto l’architettura, sono loro che hanno ucciso l’architettura, in quanto il loro metodo comportava una concezione del tutto astratta – eventi intellettuali che gli occhi non vedono mai. Come si può pensare che un occhio occupi il centro della visione? [...] I progetti disegnati su basi come queste... appartengono a un’epoca che, per l’architettura fu, come dire, mortale. Ho il coraggio di affermarlo perché è indispensabile farlo, soprattutto oggi, qui, a questo convegno sulla Divina proporzione». 70 Territorio Rispolverando l’accento ruskiniano che aveva contraddistinto le notazioni del suo primo viaggio italiano, dichiara infatti cose ‘morte’ tutti i corollari ‘proporzionali di un sapere esoterico e fuori della vita: «guardando questi tracciati – confessa – provavo una specie di angoscia». L’equiparazione del Modulor alla tradizione trattatistica, se da un lato ne lusinga il legittimo orgoglio, dall’altra lo spinge a un necessaria distinzione: la proporzione rinascimentale è un’astrazione che sconfina nella metafisica; il Modulor uno strumento che ha a che fare con la fisica dei corpi. Come tale è soggetto alle leggi della prova e della sperimentazione: nasce da un’intuizione, ma si precisa e si affina con l’esperienza e l’osservazione. Procede con i piedi per terra, tastando le asperità del terreno; si attiene a «quanto è percepibile con la vista e l’intelletto». Chi si aspettava il matematico inflessibile, il rigoroso geometra pronto a usare il Modulor come un metro per misurare il mondo, dovette restare perplesso; chi si attendeva una conferma delle leggi armoniche del passato, deluso. Rispetto alla perfezione intellettuale degli ‘schemi’, Le Corbusier rivendica la natura dell’uomo che «ha mani per toccare e occhi per vedere», e la peculiarità della percezione architettonica, che «è multiforme e ha bisogno di invenzione in ogni sua fase, di qualcosa che assorba un’intera vita di architetto. Il rischio è che i miracoli illimitati della geometria e della matematica rimangano privi di quella concreta verifica che soli i sensi possono assicurare». Se per storici e matematici la sapienza degli antichi serve a rafforzare l’idea dell’ordine come fondamento dell’estetica, per Le Corbusier l’ordine della poesia è ineliminabile dal mistero dell’opera e la sua riuscita non può essere spiegata come semplice risultato di una rigorosa applicazione del metodo: «A stupirci quando l’opera plastica è realizzata nel migliore dei modi è il fatto che la sua vista susciti, di colpo, un sentimento ineffabile. Ho battezzato questo prodotto ‘lo spazio indicibile’, termine che è pieno di suggestione per chi è disposto ad accoglierne la risonanza emotiva. Quando le cose sono al punto giusto – la proporzione, il tema, la ragion d’essere, la fisica interna, le necessità di qualsiasi natura –, quando l’opera è impeccabilmente al punto giusto in ogni suo dettaglio, in quel momento compare, a volte, un ‘non-dimensionamento’, un’illuminazione, un’irradiazione, un’aureola. Lo ‘spazio indicibile’ è proprio questo coronamento delle nostre ricerche: un passo verso la perfezione. E questo cammino verso la perfezione ci conduce a uno stato spirituale che è vicino alla trance». Apollo e la Sibilla convivono nel processo della creazione, così come i miti mediterranei nelle larghe tavole del suo ultimo testamento poetico, Le Poème de l’angle droit, dove difformità e armonia sono le facce speculari del ‘tumulto dell’opera’, cui il tracciato regolatore fa da mallevadore, anzi da levatrice nell’oscuro parto della creazione. Ecco dunque il maestro scrollarsi di dosso la polvere fastidiosa di stereotipi riduttivi: la luce della ragione è contemporanea alle tenebre dell’intuizione e l’emergere del ‘bestiario umano’ (Krustrup, Morgens, 2000: 74) introduce il tema dell’organico nell’algebra delle proporzioni. Naturalmente esistono anche altre ragioni a giustificare la partecipazione così generosa di Le Corbusier: e non tutte così disinteressate. Alla vigilia del concorso per il Palazzo delle Nazioni Unite di Parigi egli ha infatti bisogno di raccogliere testimonianze di una sua ‘umanità’, di una presenza attiva e partecipe nei luoghi del dibattito, di una preoccupazione per le vicende della cultura del suo tempo. Ecco, dunque, che scrive a Carla Marzoli pregandola di assemblare un dossier, comprensivo di rassegna stampa, sulla sua partecipazione al convegno, in cui si dimostri una volta per tutte che non è «un Il Modulor esposto alla Mostra di Studi sulle Proporzioni Fonte: Archivio Storico La Triennale di Milano 71 Territorio uomo senz’anima, senza arte, sprovvisto della benché minima sensibilità»14. «Gentile signora, sono tornato a casa con un’ottima impressione del mio soggiorno a Milano. […] Ripresa l’infaticabile battaglia, eccomi a chiederle di fornirmi una piccola arma utile ad alcune persone di cui le passo un elenco, inviando loro un commento ‘necessario e sufficiente’ sul Convegno Internazionale sulla Proporzione nelle Arti di Milano. Ecco, allora, a chi e come: 1. M. Marie, Ministro dell’Educazione Nazionale, Parigi, 110 rue de Grenelle, 2. M. Claudius Petit, Ministro della Ricostruzione e dell’Urbanistica, avenue du Parc de Passy, Parigi, 3. M. Joxe, direttore delle Relazioni Culturali, Ministero degli Affari Esteri, 37 quai d’Orsay, Parigi. Queste tre persone devono prendere delle decisioni fondamentali per l’architettura moderna. Io sono il candidato più serio e indiscusso, ma da più parti (ambienti accademici) vengo dipinto come un uomo senz’anima, senz’arte e privo di qualsivoglia sensibilità. L’accoglienza che mi è stata tributata a Milano da parte dei sostenitori della Divina Proporzione dimostra il contrario. Potrebbe assemblare tre dossier molto chiari? […] Cara signora Marzoli, lei capisce di che cosa si tratta, e mi scuserà di comportarmi in modo così libero con voi. Sarebbe utile, inoltre, segnalare attraverso una documentazione stringata lo spazio riservato al Modulor di fianco agli artisti dell’antichità, del Medioevo e del Rinascimento. Ciò potrebbe essere fatto attraverso ritagli di stampa ben scelti, in cui la parte utile venga sottolineata a matita rossa». Tuttavia, al di là del disinibito approccio a caldo, Le Corbusier dimostrerà di essere attento alle richieste che gli arrivano dalla Marzoli negli anni che seguono il convegno, quando fra tentativi di pubblicarne gli atti, spaccature interne, costituzione e scioglimento di gruppi di lavoro (il Comité International d’Études sur les Proportions dans les Arts, poi Comité International pour l’Étude et l’Application des Proportions dans les Arts et l’Industrie Contemporains, infine Groupe Symétrie), rimane sempre un interlocutore cortese e presente, perfino paterno in alcuni passaggi, anche se invariabilmente distante. La vicenda del convegno sfuma nell’avventura di Chandigarh: la Marzoli, in una lettera che sancisce la fine tanto del progetto quanto del carteggio, gli promette che lo andrà a trovare laggiù, finalmente libera dal problema della proporzione. Note 1. Il presente contributo è la traduzione in italiano del saggio di Cimoli, A.C., Irace, F., 2010: 138-147. Il saggio prende le mosse dai materiali originariamente raccolti in Cimoli, A.C., Irace, F., 2007, a cura di, La divina proporzione. Triennale 1951. Milano: Electa. Lo studio sul convegno milanese del 1951 è nato dalla catalogazione e dallo studio del fondo Francesco Gnecchi-Ruscone, conservato presso il C.A.S.V.A. di Milano (si veda Cimoli, A.C., 2004e si è avvalso della consultazione dell’archivio della Fondation Le Corbusier di Parigi, che contiene in gran parte materiali sovrapponibili a quelli conservati dalla Triennale di Milano (qui sono conservate, in particolare, le fonti relative alla pubblicazione degli atti del convegno, non presenti in Triennale). Per un ulteriore contributo sul tema, si veda Cimoli, A.C., e Irace, F., 2013. 2. Uno studio approfondito della vicenda di questa mostra si trova in Cimoli, A.C., 2007 3. Lettera del 4 aprile 1951, in Archivio Storico Fondazione La Triennale di Milano, serie ‘IX Triennale’, busta ‘Convegno De divina proportione’ (d’ora in poi ASFTM), sezione ‘Veline azzurre’. 4. Lettera del 4 aprile 1951, in ASFTM, serie ‘IX Triennale’, sezione ‘Veline azzurre’. 5. Lettera del 20 agosto 1951, in ASFTM, fasc. senza titolo. 6. Lettera del 9 agosto 1951, in ASFTM, fald. 2, fasc. ‘Comité International d’Etudes sur les Proportions dans les Arts’. 7. Lettera del 20 agosto 1951, in ASFTM, fasc. non titolato [T.d.A.]. La lettera è pubblicata, in qualità di immagine, in Le Corbusier, 1974, Il Modulor 2, 1955: la parola agli utenti. Mazzotta: Milano, 143. 8. Lettera del 3 settembre, in ASFTM, fald. 1, fasc. ‘Copie lettere e telegrammi’. 9. Lettera del 19 settembre 1951, ibid. 10. Lettera del 29 agosto 1951, ibid. 11. Lettera a Mario Melino del 13 settembre 1951, ibid. 12. Lettera a Carla Marzoli del 12 settembre 1951, ibid. 13. Le giornate di studio sono organizzate in tre panels, ciascuno dei quali articolato in ‘relazioni’ (interventi più lunghi e approfonditi) e ‘comunicazioni’ (più brevi e agili). Il primo, dedicato a ‘Gli studi sulle proporzioni nella storia del pensiero e dell’arte’, è presieduto da Sigfried Giedion; le relazioni sono tenute da Matila Ghyka, James Ackerman e Charles Funck-Hellet; le comunicazioni da Cesare Bairati, Piero Sanpaolesi, Giusta Nicco Fasola e Roberto Papini. Il secondo panel si intitola ‘Fondamenti matematici degli studi sulle proporzioni. Le proporzioni nell’architettura. Le proporzioni nella tecnica. Le proporzioni nella musica’. Presieduto al mattino da Rudolf Wittkower e al pomeriggio da Giuseppe Samonà, vede gli interventi di Andreas Speiser, Hans Kayser, Sigfried Giedion, Pier Luigi Nervi, Ernesto N. Rogers e le relazioni Gillo Dorfles, Giovanni Ricci, Adrien Turel, Salvatore Caronia Roberti, Alfred Roth, Mario Labò e Bruno Zevi. Alla sera si svolge la relazione di Le Corbusier. L’ultimo panel è ‘Della proporzione e dell’intuizione nelle arti’. Le relazioni sono tenute da Gino Severini, Max Bill e Georges Vantongerloo; le comunicazioni da Lucio Fontana, Carlo Mollino, Carola Giedion-Welcker, Eva Tea (che all’ultimo momento non partecipa), Gerbrand Dekker, Ignazio Gardella, Gino Levi Montalcini e Luigi Cosenza (gli ultimi due, assenti, spediscono un abstract che viene messo agli atti). La sintesi finale, in assenza di Wittkower – tornato a Londra per motivi familiari - è affidata a Giedion. 14. Lettera del 4 ottobre 1951, ASFTM, serie ‘IX Triennale’, fald. 1, fasc. ‘Copie lettere e telegrammi’. Riferimenti bibliografici Ackerman J. 1949, «Ars sine Scientia Nihil Est: Gothic Theory of Architecture at the Cathedral of Milan». The Art Bullettin, 31: 84-111. Doi: 10.2307/3047224. Cimoli A.C., 2004, L’archivio dell’architetto Francesco Gnecchi-Ruscone presso il C.A.S.V.A. Milano: Comune di Milano. Cimoli A.C., 2007, Musei effimeri. Allestimenti in Italia 1949-1963. Milano: il Saggiatore. Cimoli A.C., Irace F., 2007, a cura di, La divina proporzione. Triennale 1951. Milano: Electa. Cimoli A.C., Irace F., 2010, De Divina Proportione, in L’Italie de Le Corbusier, atti della XV Rencontre della Fondation Le Corbusier, Editions de la Villette, Paris. Cimoli A.C., Irace F., 2013, «Triennial 1951: Post-War Reconstruction and ‘Divine Proportion’». Nexus Network Journal, vol. 15, 1: 3-14. Doi: 10.1007/s00004-012-0132-6. Rowe C., 1947. «The Mathematics of the Ideal Villa». The Architectural Review, 101: 101-104. Rowe C., 1950. «Mannerism in Modern Architecture». The Architectural Review, 107: 289-299. Tamborrino R., 2003, a cura di, Le Corbusier. Scritti. Torino: Einaudi. Tordella P.G., 2001, a cura di, Punti di distanza. Saggi sull’architettura e l’arte d’Occidente. Milano: Electa. 72 Territorio 27 agosto 1965: la pubblicistica italiana di architettura commemora Le Corbusier Andrea Oldani Politecnico di Milano, DAStU (andrea.oldani@polimi.it) Il 27 agosto del 1965 Le Corbusier terminava la sua ‘recherche patiente’. La notizia della morte fece il giro di tutti i rotocalchi e lasciò attoniti i sostenitori, inermi all’annuncio della improvvisa scomparsa. Caduto il mito era necessario fare qualche considerazione e si profilava la possibilità di un improbabile bilancio rispetto ad una successione di idee e realizzazioni che ha elevato il suo artefice a riferimento assoluto e lo ha iscritto tra la schiera riconosciuta dei ‘maestri viventi’. La reazione delle riviste italiane è un susseguirsi di ricordi, riflessioni, precisazioni sulla vita e sulle opere. Il grande ‘eretico’ non c’è più ma lascia la sua vastissima eredità, fatta di pensiero, opere e progetti. Rileggere oggi queste testimonianze assume nuovo senso, forse non è ancora tempo di bilanci, l’orizzonte si è rasserenato, la carica del grande maestro non si è ancora esaurita Parole chiave: Le Corbusier; riviste architettura italiane; commenti morte ISSN 1825-8689, ISSNe 2239-6330 «Ad aprirci gli occhi fu un libro di Le Corbusier che si intitolava ‘Vers une architecture’, Ci era arrivato attraverso amici di Parigi. Lo feci vedere ai miei conterranei Pollini e Melotti che sono di Rovereto. Pollini studiava già architettura a Milano con Figini. Si innamorarono talmente di quel libro che lo impararono quasi a memoria. Era veramente un’apertura per noi! […] Quando vedemmo alcune riproduzioni delle case di Le Corbusier, diventammo «pazzi». Lanciai uno slogan: «bisogna portare l’Europa in Italia e l’Italia in Europa» (Belli, 1987: 17) Era da poco passato il 1923 e un Le Corbusier poco più che trentacinquenne iniziava ad interessare la parte più acerba, sovversiva, desiderosa di cambiamento dell’architettura italiana. Introducendosi, attraverso scritti, progetti e architetture, gli strumenti che lo avrebbero accompagnato tutta la vita come straordinari ed indispensabili mezzi di riflessione, produzione e propaganda, il suo pensiero apriva uno spiraglio che sarebbe riuscito ad illuminare una cultura architettonica ancora soffocata dai «pasticci di archi e colonne» (Belli, 1987: 17). L’esordio italiano nel campo della modernità era ancora in embrione ma si sarebbe avuto di lì a poco quando, con forza, alcuni giovani irrequieti avrebbero lanciato il loro grido dissonante e, finalmente, portato in Italia l’architettura moderna e Le Corbusier, il loro baluardo. Nel corso di pochi anni si sarebbe assistito alla nascita vera e propria del movimento razionalista che, oltre a basarsi su adesioni isolate, si affermò grazie a numerosi sodalizi legati al maestro franco-svizzero tra cui spiccano quello di Torino, guidato da Alberto Sartoris, il ‘gruppo 7’, fondato a Milano e infine il Gruppo Urbanisti di Roma. Tale comunione d’intenti fu sancita dalla prima esposizione di architettura razionale del 1928 a Roma che coincise anche con la costituzione del MIAR1 e che anticiperà di alcuni mesi il primo Congresso Internazionale di Architettura Moderna (CIAM) a La Sarraz. Evento che sancì un passo decisivo nell’avvicinare Le Corbusier all’Italia, prima tramite il ruolo svolto da Sartoris2, poi grazie alla partecipazione di un nutrito gruppo di architetti italiani all’appuntamento del 1933 ad Atene3. Questi anni segnarono quindi il mutare di una vicinanza culturale in una forma di sostegno personale e concreto che avrebbe portato, nel 1934, Le Corbusier ad essere presente personalmente in Italia, invitato dal gruppo di ‘Quadrante’4, a sancire la sua approvazione del lavoro svolto dai razionalisti italiani, assolvendo al ruolo di initiateur già sottolineato dalla 73 Territorio 80, 2017 critica5. A partire da questi momenti decisivi le vicende architettoniche italiane procedettero, lungo tutto il periodo fra le due guerre, in un conflitto tra il monumentalismo piacentiniano e ricerca del moderno, consumandosi «fra illusioni, entusiasmi, polemiche, cinismi, compromessi, rigidità e astrazioni» (Ciucci, 1989: 199). Sino a quando, al termine del secondo conflitto, emersero con vigore tutte le contraddizioni di quel periodo e una generazione completamente riplasmata fu obbligata ad impegnarsi in «una difficile dialettica fra il conoscere e l’agire» (Tafuri, 1982: 5), prodotta da un disorientamento legato al crollo di ogni certezza. La difficile opera imposta dalla ricostruzione non allontanò dal maestro la prima generazione di sostenitori che, seppur in buona parte mutilata e privata degli animi più fervidi, tra cui «i migliori»: Terragni e Pagano (Rogers, 1997: 62), si era integrata con un numero consistente di giovani architetti, pronti ad entrare in consonanza con il Le Corbusier più maturo. In molti non esitarono ad accogliere nuovamente il grido del maestro che, già nel 1941, invitava a ‘guardar lontano’, dopo la guerra, quando essa ‘lascerà una attrezzatura prodigiosa’, tale per cui ‘l’alloggio sarà prefabbricato’, diventando ‘l’oggetto del programma più ampio, più fecondo, più urgente dell’industria’6. Questo invito, pubblicato da De Carlo nel 1945, è significativo, soprattutto se letto rispetto ad alcune importanti realizzazioni legate alla ricostruzione, tra cui assume un significato particolare il QT8 a Milano, proprio perché messo in consonanza con le ipotesi lecorbuseriane dal suo ideatore, Piero Bottoni e pensato come banco di prova per la ricerca sulla sperimentazione edilizia e la prefabbricazione7. Il periodo postbellico significò quindi un intensificarsi dei rapporti col maestro, che coincisero con una frequentazione piuttosto intensa dell’Italia, a partire dagli incontri fondamentali del CIAM di Bergamo, nel 19498 e della Triennale di Milano nel 19519, assieme ad un inedito, importante coinvolgimento progettuale diretto dell’architetto a Milano, con il centro di calcolo Olivetti, a Bologna, con il progetto della chiesa ed infine a Venezia, con l’ospedale10, tutte opere sfortunatamente non realizzate. Dopo poco più di quarant’anni dal lancio provocatorio di Vers une architecture, il 27 Agosto del 1965, Le Corbusier, nelle acque del Mediterraneo, terminava la sua ‘recherche patiente’. La notizia della morte improvvisa fece il giro di tutti i rotocalchi e lasciò attoniti ed impreparati i sostenitori di tutte le generazioni, affranti ed inermi all’annuncio della sua tragica scomparsa. Caduto il mito era necessario fare qualche considerazione e si profilava forse la possibilità di tentare un primo bilancio. Le Corbusier e la sua architettura avevano superato il dramma della guerra, assumendo nuovi risvolti e mutando le intenzioni primigenie. Il fragore che aveva suscitato tra i primi razionalisti si era attenuato in favore di una successione di consonanze, meno indirizzate alla necessità di produrre manifesti quanto a quella di stabilire nuovi paradigmi, impartire un metodo e stabilire un canone universale per la produzione di forme. Tutto ciò continuando a sorprendere in un crescendo continuo, sino all’intensità di Ronchamp, raggiungimento estremo, per alcuni imperdonabile tradimento ma per i più fedeli sostenitori del maestro ennesima dimostrazione di un metodo11. Una successione di idee e realizzazioni impressionante che ha elevato il suo artefice a luogo di riferimento assoluto e lo ha iscritto tra la schiera riconosciuta dei ‘maestri viventi’. Ecco allora che lo sconcerto della morte provoca lo smarrimento e il dubbio. «Nulla è trasmissibile se non il pensiero […]. Legge della vita: la morte. La natura chiude ogni attività con la morte. Solo il pensiero, frutto del lavoro, si può trasmettere» (Le Corbusier, 1966/2008: 7). Il maestro non è più vivente, la parabola si è chiusa e resta la sua traccia come guida per nuove interpretazioni, linea interrotta ma compiuta, impressa indelebilmente, che l’artefice ormai è impossibilitato a modificare. Il 27 agosto del 1965 è ‘cambiato il modo di pensare a Le Corbusier’12, il discorso ha ripreso da un nuovo punto e si è convertito in una nebulosa che continua ad estendersi. La trama che prima veniva ordita dal maestro sotto un attento controllo e una regia fatta di opere, scritti, parole si è interrotta ed è ora disponibile ad essere vista sotto un’altra luce, fortemente variabile. Nel corso degli anni il pensiero e l’opera di Le Corbusier sono stati al centro di una intensa attività di revisione critica e storiografica, orientata ad una continua e viva interrogazione rispetto al senso della modernità nell’architettura del Ventesimo secolo. Un corpus notevolissimo di opere teoriche e progettuali è stato sottoposto ad ogni forma di valutazione, producendo scostamenti, riallineamenti, contrapposizioni, consonanze e assonanze con le ipotesi originarie formulate dal maestro. Tale processo, sicuramente positivo, perché indicativo dell’importanza delle opere e della preminenza culturale del lavoro impostato da Le Corbusier, ha avuto anche l’effetto di accelerare un processo di assimilazione e riconoscimento, con la conseguenza di fare apparire lontani nel tempo la sua figura e le sue proposte. Questa proliferazione di materiale critico, evidente da decenni, è stata amplificata ulteriormente dalla ricorrenza stessa dell’anniversario della morte ed è sicuramente destinata a non esaurirsi perché sempre orientata a rimettere il pensiero del maestro in azione all’interno di uno sfondo culturale in continua evoluzione. Risulta più complesso invece tentare di rileggere nella contemporaneità il pensiero di Le Corbusier in rapporto ad una critica svolta attraverso una pratica operante dell’architettura fondata sul progetto. Qui gli aspetti originari risultano velati da una molteplicità di considerazioni che isolano alcune questioni e rendono difficoltosa l’ipotesi di rileggerne alcuni portati rispetto alle condizioni del presente. Non risulta allora anacronistico o fine a se stesso pensare di risalire alle prime impressioni, formalizzate dalla generazione che ha convissuto e progettato con Le Corbusier condividendone lo scenario culturale e gli intenti pratici. Vengono quindi offerti alla riflessione individuale i pensieri formulati al momento della sua scomparsa, opportunamente commentati in modo da tentare di ricavarne alcune chiavi di lettura utili all’oggi e destinate ad un pubblico che in buona parte vive un rapporto completamente diverso col maestro appartenendo ad una generazione successiva che lo ha conosciuto tramite il suo lascito consistente, la frequentazione delle opere, il carico di testimonianze e la copiosità di documenti critici incentrati sulla sua figura. L’interesse per il rapporto di Le Corbusier con l’Italia e la volontà di limitare la ricerca ad un particolare tema ed ambito, ha portato alla decisione di rintracciare, raccogliere e rileggere criticamente i testi commemorativi pubblicati dalle maggiori riviste italiane di architettura del periodo in occasione della scomparsa di Le Corbusier nell’anno successivo alla sua morte. Si tratta certamente di scritti dal valore eminentemente celebrativo che risentono di un riflesso emotivo dettato dalla circostanza dell’evento, ma che, 74 Territorio proprio grazie a queste caratteristiche, esprimono i valori umani legati alla conoscenza e alla frequentazione diretta del maestro, aprendo a considerazioni da cui traspare vicinanza piuttosto che distacco, mostrando un volto di Le Corbusier, per ovvie ragioni, assente nella produzione critica più rigorosa. Lo spoglio delle maggiori riviste italiane effettuato relativamente al biennio 1965/66 ha permesso di rintracciare una serie piuttosto cospicua di contributi, alcuni di scarso rilievo perché estremamente ridotti o di carattere prettamente redazionale, altri brevi ma di alto valore critico, assieme ad alcuni di ampio respiro e peso documentario, contenuti entro saggi sviluppati in forma estesa, oppure sotto forma di rassegna di punti di vista raccolti nel contesto internazionale. Nel settembre del 1965 Casabella, diretta da Gian Antonio Bernasconi apre il numero 297 con una copertina dedicata al «protagonista della grande rivoluzione dell’architettura moderna» (Koenig, 1965: 14), in cui egli appare in una suggestiva immagine del fotografo Tullio Farabola. Il pezzo critico, dal titolo: «Le Corbusier è morto», viene affidato a Giovanni Klaus Koenig, consulente stabile del gruppo di redazione. Segue, nello stesso mese, Domus (Ponti, 1965) il cui direttore, Gio Ponti, dedica, nel numero 430, un pensiero di suo pugno al maestro, in quattro lingue, inserendo nel consueto fascicolo una bandella di tre quarti del formato, in carta avorio, postuma al completamento del numero, proprio in corrispondenza di un servizio dedicato ad una delle più celebri opere del maestro che dal quel momento sarebbe rimasta incompiuta per decenni: la chiesa di Firminy. Segue, sempre in settembre, L’architettura Cronache e Storia (Zevi, 1965) in cui il direttore, Bruno Zevi, interviene personalmente nel numero 119, ricordando le Corbusier. La doppia pagina, di squisita impostazione grafica, propone entro una striscia orizzontale, composta per successione di fotogrammi, una citazione tratta da Des Canons, des munitions? (Le Corbusier, 1938), un fotoritratto, un breve riscontro critico e una fotografia in cui Le Corbusier tocca il basamento in béton brut dell’Unité d’Habitation di Marsiglia proprio in corrispondenza del ‘suo’ modulor. A breve distanza il pensiero alla morte del maestro ricorrerà anche in Edilizia Moderna (Rogers, 1965), il cui capo redattore, Vittorio Gregotti, deciderà, nel numero 86, di affidare un pezzo critico dal titolo: «permanenza di Le Corbusier», ad Ernesto Nathan Rogers, suo maestro e protagonista della seconda generazione dei CIAM proprio a fianco di Le Corbusier. Ancora ad ottobre anche L’Architetto (De Fusco, 1965), rivista del Consiglio Nazionale degli Architetti, propone il suo contributo, affidandosi alle parole di Renato De Fusco che intitola il suo contributo: «Le Corbusier e noi». L’anno seguente, la neonata, Ottagono (Veronesi, 1966), diretta da Sergio Mazza, dedica uno spazio alla morte Le Corbusier nel primo numero della rivista affidandosi al ricordo di Giulia Veronesi. Seguirà un contributo al di fuori di un intento celebrativo da parte di Zodiac (Aa. Vv., 1966a), con una serie di interventi critici tematici dedicati a Le Corbusier nel numero 16, per concludere nuovamente con L’architettura Cronache e Storia (Aa. Vv., 1966b) che, ad un anno dalla scomparsa di Le Corbusier, dedica, nel numero 130, una doppia pagina ad una ampia rassegna di dichiarazioni da parte di architetti di tutto il mondo, riproponendo una sintesi, in lingua italiana, dei contributi apparsi nelle riviste: Progressive Architecture, RIBA Journal e L’architecture d’Aujourd’hui. Scorrendo i testi si va dall’ipotesi di bilancio (Koenig), al ricordo Riproduzione della copertina di Casabella 297 del 1965 dedicata alla scomparsa di Le Corbusier 75 Territorio personale di un incontro (Veronesi), passando dal tentativo di ricostruire i rapporti intercorsi con una generazione (De Fusco), giungendo, tra l’amara sintesi di un momento (Zevi) e la promessa di un futuro possibile (Ponti), all’invito ad una riflessione più matura e ad una pacata sospensione di giudizio (Rogers). Il corpus che risulta da questo lavoro di raccolta costituisce un documento abbastanza variegato ed articolato poiché al suo interno coesistono una serie di approcci, stili, necessità e volontà critiche diversificate, risultanti in una serie di testi piuttosto incoerente che è tuttavia capace di restituire alcuni orizzonti critici comuni e fornire diversi spunti interpretativi in grado di suggerire alcuni modi che possono risultare di qualche interesse per riguardare oggi all’esperienza di Le Corbusier. Ripetute letture hanno suggerito alcuni grandi temi che aprono ad altrettanti possibili capitoli di approfondimento e critica della vicenda lecorbuseriana. L’intento non è quello di fornire delle risposte ma piuttosto, trattandosi di questioni dal carattere prettamente aperto, di stimolare alcune reazioni, approfondimenti e riflessioni, capaci di riportare l’attenzione dei progettisti su Le Corbusier e riaprire il dibattito, sfruttando, la possibilità di «modificare accenti nelle valutazioni». Ipotesi avanzata da Rogers, «non tanto perché si modifichi il personaggio in sé per quello che ha fatto, ma perché il consorzio degli uomini si muove tutto quanto e stabilisce nuovi punti di vista per giudicare il passato» (Rogers, 1965: 2). Eretico, rivoluzionario, profeta… oppure ultimo umanista? Una delle parole che ricorre con frequenza in riferimento a Le Corbusier è l’aggettivo ‘eretico’. Koenig identifica così il maestro in apertura al suo saggio, costatando la sua dipartita terrena e comparandolo ad altri due ‘grandi eretici’, Stravinsky e Picasso, compagni, citando Trotsky, nella battaglia dell’arte moderna. Allo stesso modo lo apostrofa Zevi parlando della sua morte come di un evento che ha provocato la perdita della ‘fonte’ dell’eresia, così, negli altri testi, in diverse occasioni ricorre l’ipotesi sovversiva, senza che venga utilizzato direttamente l’aggettivo. Similmente Paul Rudolph lo definisce ‘rivoluzionario’13, introducendo una ulteriore sottile sfumatura che mette da parte la dissidenza in favore di un atteggiamento più moderato e introduce al secondo grande paragone ricorrente. Su un piano completamente opposto, dal maestro eretico, si giunge all’immagine di un Le Corbusier operante in senso profetico nell’anticipare questioni in grado di riscattare pienamente l’architettura da una condizione di oblio, come anticipatore incompreso e rimasto, a scapito della sua sapienza, inascoltato dai più. Un ‘maestro instancabile’ che ‘ha visto prima di noi, più chiaramente di tutti noi’ la cui voce purtroppo ‘risuonava nel deserto’, seguendo una strada orientata a ‘conquistare il futuro’ in una condizione in cui ‘l’epoca non era ancora pronta per lui, salvo che come profeta’14. La domanda che sorge spontanea è se veramente Le Corbusier sia da considerare come l’eretico che scaturisce dal genio e riforma una tradizione o il profeta che preannuncia i destini di una umanità. Nasce così un interessante tema di discussione che introduce, facendo riferimento in modo volutamente provocatorio, ad una questione complessa come quella della totale, presunta o sospetta ortodossia, uno dei punti cardine della questione lecorbuseriana, ossia la sua autentica anima rinascimentale, di mente poliedrica, incapace di fermarsi, sempre costante nell’a- vanzare. A partire dal richiamo rivoluzionario contenuto nel suo manifesto-trattato in cui tuona sostenendo in modo perentorio che ‘gli stili sono una menzogna’, vera e propria affermazione eretica se rapportata al contesto culturale in cui agiva il giovane Jeanneret. Le Corbusier, da sapiente osservatore e criticatore della realtà, ha costantemente cercato di comprendere il mondo e di fornire una risposta al cambiamento che esso stava subendo, immerso in una «solitudine attiva, sempre proiettata verso l’esistenza altrui» (Rogers, 1965: 2). Sussiste così l’anima dell’eretico, orientata a ribaltare un ordinamento del mondo, assieme a quella del profeta che mira a riscattare l’uomo tramite la sua visione, e sullo sfondo si colloca la mente dell’umanista che, inconsapevole delle sue capacità molto avanzate, dialoga con una cultura troppo bloccata perché riesca a seguirlo. «Difficile (quindi) […] negare a Le Corbusier di essere stato l’ultimo degli umanisti; colui con il quale si conclude degnamente l’ampio arco rinascimentale» (Koenig, 1965: 14), difficile negare di esserlo stato anche nell’immaginario più comune, dedito come fu, tra pochi, a dedicarsi a tutte le attività tipiche dell’uomo rinascimentale, pittura, scultura, architettura, come ricordato in molti dei contributi raccolti dalle riviste esaminate. La natura del pensiero di Le Corbusier ci invita ad una riflessione sullo stato presente dell’architettura in cui, tranne poche eccezioni, tra cui forse va citato Rem Koolhaas15, mancano spiriti così abili nel criticare e nell’indicare alcune direzioni, esprimendo un pensiero che si muove all’unisono con il profilarsi di una cultura, dominata da una nuova forma che nel caso di Le Corbusier fu il meccanicismo industriale ed oggi la rivoluzione telematica. Si apre così la possibilità di una riflessione che riguarda, in senso più ampio, il ruolo dell’architetto come figura centrale nella continua e necessaria opera di modificazione dell’ambiente. Recuperare, in questa direzione, lo spirito critico, fortemente anarchico ed egualmente propositivo dell’approccio lecorbuseriano non metterebbe certo al riparo da scontri, incertezze o probabili fallimenti, ma permetterebbe all’architettura di riscattarsi da una condizione di stanchezza che non la rende, se non superficialmente, partecipe del flusso di cambiamenti che sta investendo la realtà, così come avvenne nei periodi più significativi della vicenda di Le Corbusier, in cui l’arte si rinnovò costantemente a partire dalla revisione operata sui suoi fondamenti. Il testo di De Fusco ha, a proposito, il merito di sottolineare alcune peculiarità dell’esperienza lecorbuseriana che non vanno certo dimenticate: «universalità, obiettività e semplicità dei suoi punti di riferimento, […] metodologia dell’essenziale»; tutte qualità supportate dalla figura, una delle poche «rimaste tanto salde sulle loro posizioni» adottando un «metodo […] (che) s’è continuamente scontrato con il potere economico-amministrativo» (De Fusco, 1965: 21). Le Corbusier è (veramente) morto? Profeta oppure eretico, sicuramente umanista, una delle questioni che la quasi totalità degli scritti esaminati mette in campo è legata alla riflessione sul momento della morte del maestro e sul tentativo di prefigurare i modi e le qualità di una probabile sopravvivenza del suo pensiero. Si profila così una possibilità di continuità che, al di là del perpetuarsi del ricordo di chi aveva sviluppato nei suoi confronti un «affetto sincero», viene individuata nel suo «testamento di architetto» costituito da pensieri, opere, 76 Territorio idee. Una somma cospicua, il cui «consuntivo» presentava un «debito», in parte quantificabile ed in parte ammontante ad una quota imprecisata di ‘indebitamento’ che solo le «generazioni a venire» (Rogers, 1965: 1) avrebbero potuto via via stabilire; un lascito aperto quindi, a parere dei contemporanei di Le Corbusier, destinato a durare nel tempo. A tal proposito non è secondario rilevare la consonanza con cui la maggioranza dei testimoni, chiamati a parlare del maestro, affermano all’unisono l’impossibilità dell’oblio, anzi, auspicano addirittura un ravvedimento di quanti non ne abbiano ancora compreso la grandezza. Nonostante ciò, già quando il giovane Ciriani si recò a Parigi nel 1964, vivo ancora il maestro, animato dalla passione per ‘Corbu’, si trovò di fronte ad una giovane cultura francese pervasa dalla «ignoranza […] in quanto alla cultura del Movimento Moderno», che «non aveva capito nulla di quella lezione», sino al punto che «Le Corbusier (era) persino odiato!» (Miotto, 1996: 7). Segno iniziale di una disaffezione che è esistita ed in parte esiste tuttora, seppure attenuata. Fenomeno che si è originato proprio dal paese stesso un cui la fama di Le Corbusier ha avuto inizio, sintomatico di un atteggiamento di osservazione superficiale che in pochi anni sarebbe stato destinato a cambiare, anche grazie allo «storicizzarsi della sua figura» e al «ruotare del punto di vista degli storici, rotazione che ha permesso la scoperta di nuovi angoli critici di lettura e di nuove gerarchie» restituendo, come indicava Vittorio Gregotti nel 1987, in occasione del centenario della nascita del maestro, l’immagine di «un Le Corbusier più vicino» (Gregotti, 1987: 2). Oggi, ad oltre cinquant’anni dalla morte è sicuramente innegabile che lo spirito di Le Corbusier continui a sopravvivere. Indubbiamente la generazione corrente non ha ancora finito di raccogliere l’eredità del genio. Molte le intuizioni non totalmente verificate, molti i progetti non pienamente messi in pratica, molti i modelli falliti, imitati, bistrattati, rifiutati, che potrebbero essere sottoposti a un riesame critico tramite la revisione dei principi che li hanno animati a partire dalla loro reinterpretazione progettuale. Pensando a Le Corbusier in rapporto alla produzione architettonica contemporanea, bisogna costatare la validità di indicazione di un atteggiamento e di un metodo che, seppur aggiornato, continua a fare scuola e ad essere messo a frutto nel progetto, a scapito di un disinteresse più marcato per le soluzioni formali, che sono forse il carattere più variabile della poetica lecorbuseriana e che, oggi non suscitano più grande entusiasmo. Cinquant’anni sono forse insufficienti per dimostrare il successo o l’insuccesso di un intero costrutto teorico e sperimentale, eppure questo tempo, seppur breve, ha permesso di verificare come alcune opere abbiano avuto la forza di salvarsi e riscattarsi da una condizione critica di particolare peso. È il caso della Unité d’habitation di Firminy che, dopo numerose incertezze, l’abbandono di una parte di edificio e il rischio concreto di totale chiusura, è stata, di fatto, salvata da una iniziativa partita dagli abitanti stessi16, segno evidente dell’ambigua valutazione che nel corso degli anni è stata attribuita a questa architettura e dimostrazione della complessità dei fenomeni che decretano il successo o meno di una operazione architettonica, sociale e culturale di tale portata. Il lascito consistente di Le Corbusier sottolineato dai commentatori del 1965 consiste inoltre nel suo «testamento di architetto, i progetti nuovi, da realizzare ancora, a noi affidati» (Ponti, 1965: s.p.). L’espressione scelta da Gio Ponti sembra sottinten- dere il desiderio che molte delle proposte lasciate incompiute da Le Corbusier fossero concluse, anche se così non è stato se non tra molte incertezze. Abbandonato il grandioso progetto dell’ospedale di Venezia, trattato, con disinvoltura, tredici anni dopo da Eisenman17 come «struttura sopra il sito dato» (Cassarà, 2005: 98), archeologia mnemonica e substrato culturale, sono proceduti a fatica i lavori per la chiesa di Firminy, che proprio Domus pubblicava nello stesso numero in cui annunciava ai suoi lettori la scomparsa di Le Corbusier, una sorta di testamento spirituale, se vogliamo. Completata nel 2006, dopo più di quarant’anni dalla morte del suo ideatore, è un edificio emblematico ed estremamente rappresentativo della difficoltà che ha contraddistinto la volontà di continuare il lavoro di Le Corbusier. La realizzazione, affidata al suo allievo e collaboratore José Oubrerie, sin dall’origine coinvolto nel progetto, ha innescato un acceso dibattito relativo alla legittimità o meno del completamento18, restituendo un edificio su cui aleggia il dubbio rispetto a quanto sia o meno il risultato dovuto al maestro o al suo epigono. Ne emerge il profilo di un Le Corbusier temuto ed intoccabile, di cui si possono manipolare più le parole, la figura pubblica, anziché i progetti e le opere. È quanto desumibile anche da un’altra vicenda che assume particolare rilievo rispetto ai contenuti di questa riflessione, ossia il dibattito e le polemiche che hanno accompagnato la realizzazione del monastero delle Clarisse a Ronchamp progettato da Renzo Piano19. Senza entrare nel merito della bontà o meno delle questioni avanzate a favore o contro queste realizzazioni, da entrambe le vicende emerge, in modo diverso ma comparabile, l’immagine di un Le Corbusier che dal 1965 ad oggi ha percorso una strada molto più lunga dei cinquant’anni effettivamente trascorsi. Una strada che ha traghettato la sua esperienza verso l’orizzonte della storia, con il rischio della museificazione e, conseguentemente, della paralisi. Tale processo comporta la possibilità che dopo le opere si tendano a rendere definitive, congelate ed immutabili anche le sue idee, comprese quelle forse troppo avanzate, idealiste o visionarie, rispetto all’epoca in cui ha operato il maestro. Provocazioni che pongono agli architetti delle questioni ancora aperte e quindi potenzialmente assumibili come tesi per nuove investigazioni progettuali sperimentali. In questo senso i testi del 1965, frutto del pensiero di chi aveva conosciuto e aveva lavorato vicino a Le Corbusier ci restituiscono l’impressione della possibilità di un contatto più diretto e più umano e la sicurezza della concretezza di poter tentare di dare continuità ad un pensiero che, aggiornato ed esposto alle critiche della nostra epoca, può avere ancora la forza di suggerire un campo aperto di possibilità. Note 1. Per una ricostruzione più completa delle vicende descritte si può confrontare con (Ciucci G., 1989). 2. Alberto Sartoris partecipò al primo CIAM e fu tra i firmatari della dichiarazione finale. Egli fece parte anche della Commissione Internazionale per la Realizzazione del Problema Architettonico Contemporaneo ‘CIRPAC’, come delegato per la costituzione del gruppo nazionale assieme a Carlo Enrico Rava. Per un approfondimento del ruolo culturale svolto da Sartoris, confrontare i saggi contenuti nel volume in (Sommella Grossi, 1998). 3. Le vicende legate a questo appuntamento fondamentale e il ruolo dei protagonisti sono accuratamente descritte in (Mumford, 2002). 4. Le Corbusier fu invitato dai direttori della rivista Pietro Maria Bardi e 77 Territorio Massimo Bontempelli, i discorsi delle due conferenze tenute dal maestro furono pubblicati nel numero della rivista di maggio del 1934, tradotti da Guido Fiorini che fu in quegli anni referente italiano a Roma e collaboratore di Le Corbusier. Si confronti in bibliografia: (Talamona, 2012), In particolare i saggi: ‘Roma 1934’ di M. Talamona e ‘Le Corbusier e Adriano Olivetti negli anni Trenta’ di G. Ciucci. Si veda anche (Le Corbusier, 2015). 5. Il soggiorno in Italia del 1934 è il primo di una serie di tre viaggi effettuati da L.C. in Italia negli anni ’30. La ricostruzione di queste vicende, così come il ruolo di initiateur evidenziato nel testo è esposto in (Talamona, 2012: 250). 6. Il testo da cui è tratta la citazione, estratto e tradotto in lingua italiana dal libro di Le Corbusier ‘Sur les quatre routes’ (Le Corbusier, 1941), è stato originariamente pubblicato nella quarta parte della rassegna proposta da Giancarlo De Carlo, significativamente dedicata ai «problemi della ricostruzione». L’autore rileva come «i brani […] di Le Corbusier […] possono servirci di orientamento nell’impostare il problema della ricostruzione italiana», (De Carlo, 1945). 7. Gli aspetti indicati emergono con chiarezza dalla lettura di (Bottoni, 1954). 8. Per approfondimenti si può confrontare il saggio di P. Nicoloso contenuto in (Talamona, 2012); ed anche il contributo di L. Belgioioso raccolto da (Denti et al., 1988). 9. Per approfondimenti si possono confrontare (Irace; Cimoli, 2007) e il saggio di Francesco Gnecchi Ruscone contenuto in (Denti et al., 1988). 10. Le vicende legate a questi progetti sono ampiamente descritte in molta della letteratura legata a Le Corbusier e alle vicende della architettura italiana, tuttavia si segnalano: per il caso della Olivetti (Bodei, 2014), per la chiesa di Bologna il saggio ‘Le Corbusier e l’enigma di Bologna’ (Gresleri et al., 2001); per l’ospedale di Venezia Petrilli, 1999). 11. Una delle prese di posizione più intense in favore del maestro è quella esposta da Ernesto N. Rogers sulle pagine di Casabella-Continuità (Rogers, 1955). 12. Questa lettura e modalità di superamento è proposta in (Rogers, 1966). 13. L’intervento di Rudolph è contenuto nell’ampia rassegna pubblicata da L’architettura Cronache e Storia (Aa.Vv., 1966b) assieme a molti contributi di autori stranieri raccolti dalla pubblicistica internazionale. 14. Le varie sfumature descrittive sono offerte dalle numerose dichiarazioni contenute in (Aa.Vv., 1966b) e vanno attribuite in ordine di citazione a: Balthazar Korah, Marcel Lods, Balthazar Korah, Siegfried Giedion, Balthazar Korah. 15. Questa ipotesi viene avanzata dall’autore nella ‘postfazione 1999’ (Tentori, 1999: 163-165). 16. La vicenda è ben descritta in (Sbriglio, 2004: 224). 17. Ci si riferisce al progetto di Peter Eisenman del 1978 denominato ‘Cannaregio Town Square’, pensato per l’area originariamente destinata all’ospedale di Venezia. 18. Il dibattito che ha accompagnato il completamento dell’edificio è efficacemente descritto in (Micotti, 2014). 19. Per una disamina accurata di questa vicenda si confronti (Cohen, 2011). Riferimenti bibliografici Aa.Vv., 1966a, Zodiac, 16. Milano: Edizioni di Comunità. Aa.Vv., 1966b, «LC a un anno dalla morte». L’architettura Cronache e Storia, 130: 262-63. Roma: Etas Kompass. Belli C., 1987, «Le Corbusier, l’Italia e il Gruppo 7». Domus, 687: 17-22. Bodei S., 2014, Le Corbusier e Olivetti. La Usine Verte per il Centro di calcolo elettronico. Macerata: Quodlibet Studio. Bottoni P., 1954, Il quartiere sperimentale della Triennale di Milano: Q.T.8. Milano: Editoriale Domus. Cassarà S., 2005, a cura di, Peter Eisenman, Contropiede. Milano: Skira. Ciucci G., 1989, Gli Architetti e il fascismo. Architettura e città, 19221944. Torino: Einaudi. Cohen J.L., 2011, a cura di, Manières de penser Ronchamp. Paris : Fondation Le Corbusier, Éditions de la Villette. De Carlo G., 1945, Le Corbusier. Milano: Rosa e Ballo Editori. Riedizione: Paris T., Cristallo V. , 2015, a cura di. Roma: Rdesignpress De Fusco R., 1965, «Le Corbusier e noi». L’architetto, 10: 19-21. Roma: Consiglio Nazionale degli Architetti. Denti G., Savio A., Calzà G., 1988, a cura di, Le Corbusier in Italia. Milano: CLUP. Gregotti V., 1987, «Un Le Corbusier più vicino». Casabella, 531/32: 2-3. Gresleri G., Gresleri Gl., 2001, a cura di, Le Corbusier. 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Sommella Grossi M., 1998, a cura di, Alberto Sartoris, L’immagine razionalista, 1917-1943. Milano: Electa. Tafuri M., 1982, Storia dell’architettura italiana 1944-1985. Torino: Einaudi. Talamona M., 2012, a cura di, L’Italia di Le Corbusier. Catalogo della mostra. Milano: Electa. Tentori F., 1999, Vita e opere di Le Corbusier. Bari: Laterza. Veronesi G., 1966, «Un’ora con Le Corbusier». Ottagono, 1: 31-34. Milano: CO.P.IN.A. Zevi B., 1965, «In morte di Le Corbusier». L’architettura Cronache e Storia, 119: s.p.. Roma: Etas Kompass. 78 Territorio Dalla geometria dei cristalli alla matematica della natura. Le Corbusier negli scritti di Ernesto N. Rogers Marco Bovati Politecnico di Milano, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani (marco.bovati@polimi.it) Il 26 maggio 1966 alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano Ernesto Nathan Rogers pronunciava un discorso commemorativo dedicato a Le Corbusier scomparso l’anno precedente (Cap Martin, 27 agosto 1965); l’elogio funebre, intitolato ‘Le Corbusier tra noi’, veniva pubblicato nello stesso anno dalle edizioni All’insegna del pesce d’oro di Milano, fondate da Vanni Scheiwiller. Rimandando a scritti precedenti, ma anche alle lezioni universitarie sui maestri del moderno, il testo rappresenta una sorta di mappa concettuale dello sviluppo logico e temporale dell’interpretazione rogersiana del maestro svizzero. La sua rilettura a cinquant’anni di distanza ha suggerito un percorso di approfondimento dell’originale pensiero di Rogers su Le Corbusier, fatto di ammirazione e di stima, non esente da qualche critica e animato da quell’atteggiamento ‘anticelebrativo’ che egli riservava all’insegnamento dei maestri Parole chiave: Ernesto N. Rogers; elogio funebre; Le Corbusier ISSN 1825-8689, ISSNe 2239-6330 «E senza che egli perda nulla del suo carattere moralistico, catartico e missionario, le sue opere più recenti sembrano appartenere meno ai cieli rarefatti dai quali parevano discendere, per diventare sempre più prodotti della terra; non hanno rinunciato alla complessità delle strutture e alla loro immagine matematica, proprio perché anche la natura è tutta composta di strutture complesse e matematiche: vorrei dire che, invece di cristalli, sono ormai dei fiori rigogliosi e dal profumo penetrante» Ernesto N. Rogers1 Premessa Il 26 maggio 1966 alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano Ernesto Nathan Rogers pronunciava un discorso commemorativo dedicato a Le Corbusier scomparso l’anno precedente (Cap Martin, 27 agosto 1965); l’elogio funebre, intitolato ‘Le Corbusier tra noi’, veniva pubblicato nello stesso anno dalle edizioni All’insegna del pesce d’oro di Milano, fondate da Vanni Scheiwiller. Le parole di Rogers rappresentano una vera e propria sintesi del pensiero sul maestro svizzero. Esse contengono infatti, oltre ad alcune parti inedite, numerosi passi tratti da suoi precedenti articoli ed editoriali. Rogers non si limita alla commemorazione del ‘genio’ corbuseriano, ma opera una ricomposizione di temi e interpretazioni, facendo coesistere in un unico testo il commosso ricordo personale, la commemorazione delle gesta e del profilo artistico e la propria interpretazione, non senza confrontare tutto ciò con alcuni punti fermi del proprio pensiero critico. Rimandando a scritti antecedenti, ma anche alle lezioni universitarie sui maestri del moderno, il testo rappresenta una sorta di mappa concettuale dello sviluppo logico e temporale dell’interpretazione rogersiana del maestro svizzero, suggerendo un possibile percorso di approfondimento dell’originale pensiero di Rogers su Le Corbusier. Questioni metodologiche e fonti Cosa significa parlare di Le Corbusier attraverso gli scritti di Rogers? Si tratta di un testo sul primo, sul secondo o su entrambi? Perché, con tanti autori che hanno scritto del maestro svizzero, è utile rivolgersi proprio a Rogers? Innanzi tutto è opportuno chiarire che si tratta inevitabilmente di un testo su entrambi. Trattare di un autore a partire da testi critici altrui e non – o non solo – dalle opere e dagli scritti del 79 Territorio 80, 2017 primo, è possibile ed ha senso purché si chiarisca da subito la parzialità del punto di vista, in qualche modo già orientato, dal quale si osserva l’argomento affrontato. Anzi, purché tale parzialità sia assunta come elemento strategico per l’individuazione di tratti di originalità della lettura indagata e consenta di ricondurre alla personalità dell’autore o al particolare momento storico, specifici aspetti tematici e/o metodologici. Parlare di Le Corbusier attraverso Rogers, significa dunque parlare della cultura architettonica italiana e milanese di quel periodo. Per quale ragione si ritiene utile questa posizione e perché proprio a partire dagli scritti e dalle parole di Rogers, è quanto cercheremo di chiarire. Rogers e il suo punto di vista risultano centrali nel comprendere, per analogie e differenze, come è stata letta e interpretata la figura di Le Corbusier da una parte della cultura architettonica italiana, in una precisa fase storica che ha coinciso con l’ultimo periodo della sua attività e con i primi anni seguenti alla morte. L’interpretazione rogersiana è da un lato una delle più autorevoli sulle quali si è formata più di una generazione di architetti cresciuti alla scuola di architettura di Milano ed ‘educati’ dalle riviste dirette dallo stesso Rogers2; dall’altro essa riverbera di un importante movimento di idee nato in Italia, che per un paio di decenni ha saputo catturare le attenzioni internazionali, influenzando le riflessioni di non pochi settori della cultura architettonica e animando uno dei momenti più fecondi del dibattito architettonico del dopoguerra; forse l’ultima stagione che ha riconosciuto uno status ai ‘maestri’ del modernismo, dichiarando il debito profondo nei confronti di quel movimento di cui, al contempo, iniziava a mettere in discussione dall’interno gli assunti principali. La relazione complessa e articolata tra Ernesto Nathan Rogers e Le Corbusier si è espressa su molteplici livelli. Il primo è quello dei rapporti diretti e delle frequentazioni avvenute nel corso dei congressi internazionali, dei convegni e delle visite reciproche. Questo primo livello si riverbera nei loro carteggi dai quali, oltre ai toni basati su rispetto e stima reciproca e su un’ammirazione da parte di Rogers per il ruolo di maestro che riconosceva a Le Corbusier, emergono naturalmente altri temi legati al loro lavoro, alle occasioni di frequentazione (CIAM, Commissione per il Palazzo UNESCO di Parigi), all’organizzazione della mostra di Milano del 1959; soprattutto numerosi sono gli scambi relativi ai materiali (testi e immagini) di progetti di Le Corbusier che Rogers desidera ospitare su Domus e Casabella; a queste pubblicazioni – che vengono sempre puntualmente trasmesse a Le Corbusier – spesso questi risponde congratulandosi3. Infine vi è un terzo livello, per così dire indiretto, del rapporto, rappresentato dagli scritti che il primo dedica al secondo, dalle relazioni a convegni e dalle lezioni universitarie che hanno come oggetto il lavoro del maestro svizzero. Un panorama assai vasto quello della relazione tra i due, per il quale è parso opportuno definire una strategia di approccio la quale, non potendo investire l’intero l’arco rappresentato dai loro numerosi scambi, si è orientata ad individuare un punto di ingresso in quel complesso intreccio di rapporti, individuato negli scritti di Rogers, a partire dal quale si ritiene possibile lasciar trasparire la complessità e l’estensione del rapporto, ancorché se ne approfondisca un aspetto specifico. La rilettura che nell’elogio funebre Rogers opera dei suoi precedenti scritti, e in generale l’interpretazione che offre di Le Corbusier, contribuiscono infatti a fornirne una visione articolata e ricca; ciò ha suggerito di ripercorrere i testi dai quali l’elogio ha tratto i passaggi più significativi, scoprendo che a tale ricchezza si affianca un punto di vista a volte critico – in parte assente dall’elogio del maggio 1966 – e sempre libero di evidenziare le contraddizioni e le antinomie presenti nel pensiero e nell’opera del maestro svizzero, che Rogers prova a risolvere con un’interpretazione originale. L’esito della presente indagine guidata da ‘Le Corbusier tra noi’, va dunque oltre i contenuti presenti nell’elogio funebre. A fianco di una riflessione sui temi posti dal testo si è tentato di ordinare schematicamente gli scritti che Rogers dedica a Le Corbusier (Fig. 1), attraverso una comparazione diagrammatica che evidenzia ‘riprese’ e rielaborazioni e le mette in rapporto con le date di pubblicazione. Il quadro è piuttosto intrecciato, alcuni scritti compaiono più volte con titoli diversi e poche differenze nei contenuti, altri ricompaiono in forma ridotta in altre occasioni4. Le lezioni di Rogers del 1964 e 1965, infine, costituiscono di fatto una sorta di assemblaggio esteso del pensiero rogersiano su Le Corbusier Per queste ragioni la presente lettura critica si è prevalentemente basata su di esse, oltre che sulla commemorazione del 1966. Tre argomenti principali e alcuni temi trasversali Si è provato ad articolare il discorso rogersiano a partire da tre grandi questioni che, da un lato, mostrano una coerenza di approccio fondata sull’analisi delle opere, sull’interpretazione del pensiero e sull’accostamento della personalità di Le Corbusier con i grandi protagonisti della storia dell’architettura, in particolare del Rinascimento italiano; dall’altro lato consentono l’emergere di alcuni temi trasversali che riallacciano la visione rogersiana ai principali temi del dibattito architettonico di quegli anni, animato grazie anche al contributo di Rogers stesso e dell’ambiente culturale milanese. Il primo argomento è espresso dall’osservatorio specifico che Rogers sceglie per raccontare Le Corbusier, quello che l’architetto italiano definisce la maison de l’homme, ovvero l’insieme della ricerca progettuale corbuseriana sull’abitazione, unifamiliare prima e collettiva poi, che viene considerata nel suo modificarsi attraverso il tempo – dalle ville puriste all’Unité di Marsiglia che Rogers definisce «il primo Palazzo che gli uomini innalzano, non per il principe, ma per il cittadino qualsiasi» – con l’esplicito intento di sostenere la tesi secondo la quale, a dispetto della varietà della sua produzione architettonica, vi è una coerenza di fondo che in Le Corbusier va colta primariamente osservandone l’intera opera nell’arco del suo sviluppo temporale. L’originale lettura di Rogers procede dalle prime abitazioni fino ai progetti più recenti; lo sguardo non intende essere cronologico in senso storiografico, bensì ‘storico-pragmatico’, come egli stesso lo definisce, dove la sequenza temporale rappresenta una guida alla comprensione di un processo creativo e dialettico che si svolge nel tempo ma che, in particolare per Le Corbusier, si comprende pienamente solo per sintesi provvisorie. A conferma di ciò, un ulteriore elemento di originalità è costituito dalla selezione delle opere scelte da Rogers. In una stagione nella quale si assisteva ad un acceso dibattito sul presunto ‘tradimento’ dei dogmi modernisti che Le Corbusier avrebbe perpetrato con le sue opere più recenti – in Italia in particolare ricordiamo la posizione di Argan che a proposito di Ronchamp parla di ‘sban- 80 Territorio CATALOGHI DI ESPOSIZIONI 1954 EDITORIALI ED ARTICOLI LEZIONI UNIVERSITARIE CONFERENZE ED ATTI INTERVISTE RACCOLTE DI SCRITTI "Sintesi di Le Corbusier", Villa Olmo, Como 1955 "Il metodo di LC e la forma della Ch. de Ronchamp", Casabella, 207 (settembre/ottobre) 1956 "L'architettura moderna dopo la generazione dei maestri", Casabella, 211 (giugno/luglio) "L'architettura moderna dopo la generazione dei maestri", Berkeley (maggio) 1957 "L'architettura moderna dopo ...", Esperienza dell'architettura, Einaudi, p. 190 1958 "Il metodo di LC e la forma della ...",Esperienza dell'architettura, Einaudi, p. 169 1959 1960 "Il sogno ad occhi aperti di Le Corbusier", Casabella, 274 (gennaio) 1961 "Villa, townhouse and Unité: the Utopian spectrum", Columbia Univ. 1962 1963 "Prima lezione/ Seconda lezione/ Lezione del 30 aprile 1965", Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano 1964 Intervista di G. E. Simonetti a Rogers, Marcatrè 16-17-18 pp. 330-332 27 agosto morte di Le Corbusier 1965 "Le Corbusier: l'Esprit Nouveau", Cassina, Milano 1966 "Permanenza di Le Corbusier", Edilizia Moderna n. 86 "Soñar con los ojos abiertos", La Torre (Univ. di Porto Rico), n. 52 "Le Corbusier tra noi", Milano, 26 maggio / Scheiwiller 1967 "Le Corbusier", Editoriali di architettura, Einaudi, p. 42 1968 Intervista di G. E. Simonetti a Rogers, Editoriali di architettura, Einaudi, p. 46 07 novembre morte di E. N. Rogers 1969 1970 "Villa, townhouse and Unité: the Utopian spectrum", ed. Da Capo, New York Fig. 1 – Ordinamento diagrammatico degli scritti rogersiani su Le Corbusier. Questo diagramma rappresenta un tentativo di ordinamento schematico degli scritti di Rogers, realizzato attraverso una comparazione che evidenzia ‘riprese’ e rielaborazioni (le frecce) tra i diversi tipi di testo (le fasce verticali) e le mette in rapporto con le date di pubblicazione, scandite dal tratteggio orizzontale; in questa cornice emergono come nodi significativi la data della commemorazione e le date di morte dei due protagonisti. Il quadro è complesso: oltre ai testi originali e alle rielaborazioni, alcuni scritti compaiono diverse volte col medesimo titolo o con titoli diversi e poche differenze nei contenuti, altri ricompaiono in forma ridotta in altre occasioni. Se la commemorazione rappresenta una sintesi densa e complessa, le lezioni del 1964 e del 1965 costituiscono una sorta di assemblaggio esteso del pensiero rogersiano su Le Corbusier Fonte: elaborazione dell’autore 81 Territorio Fig. 2 – Lettera di Le Corbusier ai BBPR del 23 febbraio 1953, nella quale si loda il progetto per la Torre Velasca; l’opera è identificata attraverso il nominativo della Società ‘RICE’ (Ricostruzione Comparti Edilizi Spa) che aveva incaricato lo studio milanese della progettazione e realizzazione della torre Fonte: ©FLC/SIAE, 2017 Fig. 3 – Lettera di Le Corbusier a Rogers del 18 febbraio 1964, nella quale Le Corbusier si felicita per il titolo e per lo stile dello scritto ‘Il sogno ad occhi aperti di Le Corbusier’, pubblicato sul numero 274 del 1961 di Casabella Fonte: ©FLC/SIAE, 2017 damento ideologico’ e abiura del moderno (Argan, Rogers, 1956) – l’attenzione di Rogers si caratterizza per un atteggiamento di tipo inclusivo, segnato dall’idea di ‘continuità’, e orientato a leggere nelle opere selezionate un principio di coerenza e una serie di temi che gli sono più vicini. Egli infatti non si concentra esclusivamente sul Corbu ‘purista’ o su quello ‘brutalista’, ma abbraccia un arco temporale e espressivo assai vasto; inoltre, trattando opere come la Villa ‘Le Sextant’ (Les Mathes, Francia, 1935), l’insediamento Roq e Rob (Roquebrune-Cap-Martin, Francia 1949, non realizzato), la Maison de week-end (La CelleSaint-Cloud, Francia 1934) e le Maisons Jaoul (Neuilly-sur-Seine, Francia 1951), Rogers intende sottolinearne il carattere quasi ‘regionalista’, riconducendo – in certo qual modo – l’opera corbuseriana sul terreno propriamente rogersiano delle preesistenze ambientali. Oltre a ciò assume un rilievo significativo il peso che Rogers assegna alle questioni climatiche quando racconta delle case in India (Maison Sarabhai, Ahmedabad 1955; Maison Shodhan, Ahmedabad 1956), di Chandigarh così come della Griglia climatica; ciò viene fatto non senza sottolineare la necessità della relazione dialettica tra il «clima dell’ambiente naturale, che poteva essere interpretato razionalmente» e il clima «dello specifico ambiente culturale». Rogers evidenzia in questo modo un particolare aspetto del profilo culturale corbuseriano: non più un progettista alla ricerca di una soluzione standardizzata ai problemi «dell’uomo indeterminato» – che egli individua nel Le Corbusier degli anni ’20 e degli anni ’30 – ma intenzionato ad approfondire le «radici dell’uomo caratterizzato dal suo clima», non solo naturale ma anche culturale. Dietro questa lettura si intravede l’idea rogersiana secondo la quale il Movimento Moderno non è più da considerarsi un «prodotto acritico […] separato dal flusso della Storia», bensì l’oggetto di quella che Luca Molinari definisce una rilettura storiografica 82 Territorio Fig. 4 – Lettera di Ernesto N. Rogers a Le Corbusier del 1 aprile 1965, nella quale Rogers comunica a Le Corbusier la notizia del suo licenziamento da direttore di Casabella, lo ringrazia per l’incoraggiamento e per avergli consentito di pubblicare, ‘con priorità’, le sue opere più importanti; la lettera resterà senza risposta a causa della morte di Le Corbusier avvenuta poche settimane dopo. Fonte: ©FLC/SIAE, 2017 operata da Giedion e dallo stesso Rogers, finalizzata a «radicare questa esperienza […] ad una tradizione occidentale, umanista riconoscibile e alle identità dei luoghi che l’hanno generata.» (Molinari, 1997: 25) Questo smarcamento dagli ideali del periodo delle avanguardie emerge in quegli anni anche dalle parole dello stesso Le Corbusier quando, per esempio, proprio durante una visita in Italia in occasione del VII CIAM (Bergamo, 24-29 luglio 1949), si reca a Como a commemorare la figura di Terragni. In quell’occasione egli dirà: «Il funzionalismo non è che una protesta momentanea che ha avuto un senso una volta e che è servito agli architetti ad imparare di nuovo la loro ortografia, l’ortografia del loro mestiere; e, immediatamente dopo, le strade dell’immaginazione erano aperte per chi le sapeva prendere e arrivare allo scopo»5. Il secondo argomento concerne l’interpretazione della complessità e della ricchezza della personalità di Le Corbusier, di cui Rogers, pur in quadro di grade ammirazione, non rinuncia ad evidenziare quelle che egli ritiene essere le principali contraddizioni, non risparmiando qualche critica. Due passaggi paiono centrali nel ragionamento di Rogers. Il primo è un tentativo di offrire una parziale esegesi filosofica di Le Corbusier. L’argomentazione ruota attorno alla relazione dialettica tra una ‘tendenza cartesiana’ e una opposta «tendenza pragmatica di vedere le cose in sé». Secondo Rogers questa tensione, in apparente contrasto filosofico, si risolve nel costante tentativo, operato da Le Corbusier, di adattare la ‘ragione chiara’ ai diversi temi progettuali di volta in volta affrontati. Ciò è espresso compiutamente – nella sua opera realizzata – dal contrasto tra l’estetica purista e la visione macchinista del mondo e – nell’interpretazione del suo pensiero – in quella che Rogers identifica come evoluzione delle idee corbusieriane di ‘uomo’ e di ‘spazio’: il primo visto inizialmente come ‘uomo assoluto’ 83 Territorio – in coerenza con gli assunti del modernismo e degli anni delle avanguardie – e in seguito sempre più come ‘individuo’ – in maggiore sintonia con le mutazioni avvenute nel dopoguerra; il secondo – lo spazio – concepito nelle prime opere come ‘entità fisica’ e, nella seconda parte della sua produzione architettonica, come ‘entità geografica’6. Il secondo passaggio è rappresentato dal tentativo di leggere le ragioni profonde del pensiero e dell’opera di Le Corbusier; questa lettura, secondo l’interpretazione rogersiana, sembrerebbe in grado di ‘risolvere’ il senso della apparente contraddittorietà espressa dal carattere eterogeneo della sua produzione architettonica, attraverso il «superamento […] intuitivo delle schematizzazioni cui è dal suo cartesianesimo ricorrentemente condotto»; proprio da qui emergerebbe l’unitarietà della figura di Le Corbusier, ovvero il suo operare per «un’architettura redentrice della condizione umana». Questa misura della coerenza e dell’unità dell’opera di Le Corbusier, che Rogers definisce ‘costanza del fine’, opererebbe dunque da sintesi tra il continuo alternarsi di tensione verso l’utopia e necessità del riconoscimento della realtà storica, fornendo un ‘legante’ tra le diverse esperienze del suo lavoro nell’arco del tempo. Il senso profondo della funzione redentrice dell’architettura corbuseriana si esprime inoltre, secondo Rogers, in una costante critica verso la società, i suoi «compromessi, l’utilitarismo gretto, la mancanza di coraggio», cui Le Corbusier contrappone una sorta di «fiducia religiosa nelle possibilità redentrici dell’ordine, dell’armonia, dell’indipendenza necessaria a perseguire tali scopi», in quella che Rogers definisce una sfida donchisciottesca nella quale l’arte sarebbe la sua Dulcinea7. Il superamento che Rogers intravede non cancella però le contraddizioni poiché – analogamente a quanto detto sopra a proposito della dialettica tra tendenza cartesiana e tendenza pragmatica – la risoluzione delle antinomie avverrebbe «nella realtà concreta della vita», «nell’esperienza concreta» del suo lavoro ed attraverso la sua «straordinaria capacità di rinnovamento» (Rogers, 1966). Il terzo argomento è rappresentato dal parallelo che Rogers istituisce tra modernità e Rinascimento e tra i rispettivi ‘maestri’, nell’ambito del quale Le Corbusier è messo in rapporto in particolare con Michelangelo e con Leonardo. Questo tema è presente sia nell’elogio funebre che, in forma estesa, nelle lezioni, ed è un’argomentazione in qualche modo necessaria ad affermare una precisa idea rogersiana di storia come evoluzione aperta, pragmatica e priva di dogmatismi: «come […] un problema che si ripropone a nuove esperienze, le quali richiedono il contributo della responsabilità creatrice di ognuno di noi». Compito che però non si può assolvere senza una «critica attiva […] che penetra nei contenuti da cui le singole forme sono germinate, per elaborare nuovi contenuti e nuove forme». È in questa cornice che Rogers costruisce una corrispondenza tra le multiformi personalità di Le Corbusier e di Michelangelo, accomunati da una creatività ricca ed applicata a diverse forme di espressione, tutte finalizzate alla ‘sintesi delle arti maggiori’ e concorrenti a costituire un quadro complesso. Parimenti istituisce un rapporto tra gli ideali e l’impostazione dei problemi che animano la modernità e quelli che caratterizzavano il Rinascimento, il quale, secondo Rogers, «non partiva da stimoli di natura diversa». L’originalità e, in qualche modo, la natura eversiva del suo ragionamento, emergono se consideriamo, come ci ricorda Rogers stesso, che proprio quel Rinascimento che lui scomoda per parlare di modernismo e di Le Corbusier, era «combattuto e più spesso disprezzato» dai maestri del moderno, così come il suo insegnamento e, più in generale, quello della storia8. Appare pertanto evidente il tentativo di Rogers di ‘riabilitare’ tali temi agli occhi dei maestri del moderno, instaurando un principio di continuità, ancorché dialettica e relativa, tra momenti distanti tra loro ma accomunati da problemi di natura simile che si ripropongono in tempi diversi, caratterizzandosi per la necessità di avere risposte diversificate e specifiche per ogni epoca. Il tema è stato già richiamato tra gli altri da Ezio Bonfanti, nel saggio del 1973 dal titolo «Rogers e i ‘maestri’», il quale assegna ai ‘ruoli analoghi’ che Rogers immagina per i maestri del moderno associandoli a quelli rinascimentali, il compito di rappresentare una sostanziale autonomia e una diversità che, seppur in forma complementare, contraddice l’idea di una premessa disciplinare comune tra i protagonisti della stagione modernista; in luogo di ciò parla infatti di compiti diversi che si compongono «come le tessere di un mosaico» (Bonfanti, 2003: 323)9. Bonfanti, allievo di Rogers, vede questa interpretazione come la messa in evidenza, da parte di Rogers, un elemento di crisi e di contraddizione del modernismo funzionalista gropiusiano. Si può forse affermare che, avvicinando Le Corbusier a Michelangelo, Rogers confermi la sua impostazione aperta e antidogmatica della storia, smentendo la «concezione di una impersonale, ‘scientifica’ consecutio dalla posizione dei problemi alla loro soluzione in artefatti ‘oggettivi’» (Bonfanti, 2003: 322) ed affermando, invece, l’importanza e le conseguenze sul piano metodologico, dell’azione della singola personalità creativa, o meglio, della «particolare poetica e […] linguaggio figurativo onde ognuno di questi artisti ha espresso il proprio stile personale»10. Vi sono poi alcuni temi trasversali cui è opportuno accennare seppur brevemente, sia perché emergono ripetutamente in diversi scritti, anche a distanza di tempo, sia perché alcuni di questi costituiscono elementi di riconoscibilità dei cardini del pensiero rogersiano; infine poiché rappresentano, in qualche caso, punti di vista originali sulla figura e sull’opera di Le Corbusier. Fulcro del pensiero di Rogers è il tema della storia, cui si è già accennato in precedenza, che nella interpretazione dialettica dell’architetto milanese diventa lo strumento concettuale che consente di interpretare e risolvere nella tensione tra teoria e pratica, le contraddizioni e le antinomie della figura di Le Corbusier. A questo si affianca la questione delle preesistenze ambientali: insieme al primo fanno da supporto alla principale critica che Rogers muove nei confronti del maestro svizzero, quella relativa al Plan Voisin. Qui Rogers è esplicito nel definire un errore l’idea di mantenere alcuni monumenti di Parigi, inseriti nella struttura del piano e liberati del tessuto storico circostante; ciò poiché secondo la sua impostazione culturale un monumento acquisisce senso anche e soprattutto dalla relazione con il luogo, che contribuisce a formare quell’«alone che viene […] dalle preesistenze». Questo tema fa parte di una più generale critica di Le Corbusier urbanista che invece lo stesso Rogers aveva difeso, o almeno non aveva attaccato come altri avevano fatto qualche anno prima a Bergamo (Nicoloso, 2012: 297-312), e che, proprio 84 Territorio a partire dal VII CIAM (Bergamo, 24-29 luglio 1949), aveva conosciuto un numero consistente di prese di distanza. La seconda critica esplicita è relativa al metodo compositivo che, facendo uso degli ‘schemi’ ordinatori come strumento di controllo, genera un diagramma che potrebbe rappresentare un limite per il progettista. A questo gli contrappone il modo di lavorare di Mies che «nelle sue costruzioni, sempre armoniche, non usa mai alcun tipo di verifica». Rogers poi non risparmia severi giudizi nei confronti della critica e dei pedissequi imitatori di Le Corbusier e stigmatizza errori e malintesi nell’interpretazione della sua figura: per esempio quando si riferisce ai tentativi di «ridurre i sostantivi con aggettivi qualificativi, parlando della sua pittura ‘scultorica’ o della sua scultura ‘pittorica’», travisando il senso profondo delle molteplici espressioni che concorrono al «formarsi ed esprimersi d’una sola, inscindibile personalità artistica». Oppure quando riporta la descrizione che la critica offre di Le Corbusier come ‘costruttore di forme astratte’ o, al contrario, come ‘funambolo fantasista’, mancando di cogliere l’unità delle antinomie in quella che Rogers considera la sintesi creativa della sua opera. Inoltre quando rimprovera gli imitatori che ne copiano le forme ipostatizzando e trasformando in leggi universali alcuni postulati che lo stesso Le Corbusier modifica, supera o elimina negli anni. Questo fa dire a Rogers che i punti essenziali della espressività corbuseriana non sono da considerarsi una formula magica da applicare meccanicamente, ma un ‘pentagramma’ che consente di comporre qualsiasi musica. Emerge in questa argomentazione e nella figura del pentagramma il tema più generale dell’insegnamento dei maestri che Rogers vorrebbe liberare dalle pratiche di pedissequa imitazione; in questo quadro il pentagramma rappresenta una griglia metodologica disponibile alle diverse esigenze espressive. Infine compare spesso un tema rilevante che riguarda il ridimensionamento del ruolo della ragione in Le Corbusier e, per converso, l’interesse che egli mostra per la natura. La frase di Le Corbusier che, a tale proposito, Rogers cita più spesso è: «amare ciò che è giusto e ciò che è sensibile, inventivo, vario. La ragione è una guida, niente di più», dove la ragione appare intesa come un mezzo piuttosto che un fine. Le ricerche sul numero e sulla proporzione si contrappongono ad un interesse verso l’elemento naturale, espresso nei carnet di viaggio ricchi di osservazioni naturalistiche, che Rogers, nell’ennesimo tentativo di legittimare una interpretazione di Le Corbusier non ridotta ai paradigmi del razionalismo cartesiano ma aperta a cogliere le novità presenti nelle sue opere più recenti (Ronchamp viene conclusa nel 1955, il Padigione Philips è del 1958, il progetto non realizzato per la chiesa di Bologna è del 1962), non esita a paragonare agli appunti di Leonardo da Vinci. Considerazioni conclusive Rogers ci offre una visione complessa e ricca, per certi versi più equilibrata di quanto non possa apparire da alcune recenti radicalizzazioni. Una lettura calata nel proprio tempo, nel quale si assiste ad una radicale messa in discussione dei principi del modernismo, rispetto ai quali Rogers – pur essendo uno dei protagonisti e animatori di quella stagione – assume una posizione precisa, segnata dall’idea di ‘continuità’. Come è noto egli è, infatti, uno dei principali attori della prima revisione del pensiero moderno in architettura che avviene nel dopoguerra, operazione che ne ha messo in discussione molti punti cardine, alcuni dei quali introdotti dallo stesso Le Corbusier. Dunque è un commentatore coinvolto, in qualche modo ‘di parte’, che alterna una sincera ammirazione del genio corbuseriano a qualche critica, con l’evidente intenzione di legittimare alcuni nuclei teorici del proprio pensiero individuandoli nell’opera del maestro, in piena coerenza proprio con quel principio di ‘continuità’ che è naturalmente uno di quei punti fermi. Il quadro articolato che emerge da questa interpretazione, lucida e in parte assolutoria, è anche una maniera per parlare ai suoi contemporanei. Nella lettura di Rogers infatti è presente più di un contenuto rivolto a chi lo ascolta a lezione e ne legge gli scritti. Tra questi uno emerge esplicitamente come centrale: la lezione dei maestri non è da imitare nello stile ma da assimilare dal punto di vista del metodo e del significato, in piena coerenza con la sua concezione di storia. In ciò vi è anche un messaggio che va oltre lo specifico momento storico e che solleva la questione del rapporto tra insegnamento dell’architettura ed eredità dei maestri, argomento che Rogers ha molto a cuore. Un insegnamento che egli intende fatto di lettura critica, antistilistica e anticelebrativa dei riferimenti, che siano contemporanei, del recente passato o appartenenti ad una storia più antica. Una modalità di lettura critica che conserva una sua validità poiché permette di imparare dalla grande architettura di ogni tempo, consentendo di ereditare cultura, principi e contenuti progettuali, superando la questione della mera imitazione stilistica e celebrativa. «Genio», «il più grande architetto […] da due o tre secoli a questa parte», «quello che si può direttamente paragonare ai maestri del Rinascimento», «simile a Michelangelo» ma anche ingenuo, presuntuoso, scostante, queste alcune delle parole impiegate per raccontare Le Corbusier. Il punto di vista di Rogers non è naturalmente quello dello storico ma di colui che guarda alla storia da progettista militante e da critico del proprio tempo, che conosce direttamente l’oggetto delle sue riflessioni e che parla ad un uditorio fatto di studenti e architetti ai quali egli ritiene debbano interessare le questioni progettuali. Rogers ne parla dunque come di un uomo che conosce personalmente e che considera non privo di difetti di coerenza e di carattere. Un uomo che, nelle sue parole, appare tormentato e sottovalutato anche dalle persone a lui più vicine11. Eppure, malgrado ciò, un uomo la cui grandezza non sembra riducibile né viene ridimensionata dagli eventi avversi, un uomo che attraverso la sua vita e in particolare la sua creatività, è stato in grado di operare una sintesi altissima tra estetica ‘purista e cartesiana’ e tecnica, o meglio ‘estetica della tecnica’ e del macchinismo; traguardo che Rogers riconosce a Le Corbusier e a nessun altro. L’immagine che ci viene restituita è figlia di una impostazione lucida e consapevole, per quanto in sostanza bonaria, libera da una visione manichea e acritica ma piuttosto inserita in una concezione dialettica della storia. Un’immagine, inoltre, scevra dalle contrapposizioni tra quelli che Fulvio Irace definisce «thuriféraires’ e contempteurs» (Irace, 2015: 27) in quanto – paradossalmente – più matura di quella che emerge dal contrasto tra l’«ammirazione incondizionata» (Irace, 2015: 27) e la denigrazione tout court, rinfocolata da alcune recenti pubblicazioni12. 85 Territorio Note 1. Ernesto N. Rogers, lezione dedicata a Le Corbusier, nell’ambito del corso di Storia dell’arte e storia e stili dell’architettura, Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, a.a. 1964-65, lezione 12. Le lezioni di Rogers sono raccolte e trascritte in: (Maffioletti, 2009), precedute da una breve introduzione generale e accompagnate da note esplicative. Quando non diversamente specificato, il virgolettato di Rogers è tratto dalle lezioni dedicate a Le Corbusier e pubblicate nello stesso volume alle pagine 159-185. 2. Rogers ha diretto Domus da gennaio del 1946 a dicembre del 1947 e Casabella dal n. 199 del 1953 al n. 295 del 1965. 3. Oltre alle numerose occasioni nelle quali Rogers esprime grande ammirazione per le opere di Le Corbusier, vi è un caso nel quale Le Corbusier scrive a Belgiojoso, Peressutti e Rogers, apprezzando la seconda versione del progetto per la Torre Velasca (lettera del 23 febbraio 1953 – Archives FLC R3 1 114 – dove si cita la società RICE quale riferimento del progetto, Fig. 2. Inoltre in una lettera del 18 febbraio 1964 (Archives FLC R3 1 241, Fig. 3) Le Corbusier si felicita con Rogers per il titolo e per lo stile di (Rogers, 1961) parlando di ‘Littérature Rogérique’ basata sulle contraddizioni dialettiche. L’ultima lettera a Le Corbusier, che resta senza risposta, è del 1 aprile 1965, qui Rogers gli comunica il suo licenziamento da direttore di Casabella (Archives FLC R3 1 249, Fig. 4). 4. Ai fini della presente ricerca, e nel tentativo di sistematizzazione proposta nella tabella in fig. 1, sono stati di grande aiuto i lavori di alcuni autori che nel recente passato hanno raccolto e ristampato gli scritti di Rogers. Si fa riferimento al contributo di Luca Molinari (1997) e alle pubblicazioni curate da Serena Maffioletti, in particolare le note orientative pubblicate in calce al testo dell’elogio funebre (Maffioletti, 2010: 925-927). 5. Dal testo del discorso di Le Corbusier alla commemorazione di Giuseppe Terragni, pubblicato in ‘L’Architettura. Cronache e storia’, n. 153, luglio 1968, p. 146. Citato in (Nicoloso, 2012: 297-312). 6. Scrive Rogers: «nella sua attività […] v’è un certo contrasto, o per lo meno una certa mistura, tra l’epoca macchinista e il purismo nel vedere il mondo (soprattutto nella prima parte delle opere) come qualche cosa di assoluto – l’uomo e non l’umanità o meglio l’umanità e non gli uomini singoli, la terra e non il paesaggio – e pertanto indeterminato dal punto di vista concreto; tale modo di vedere via via si è evoluto, sempre più si è avvicinato all’uomo come essere, come essere individuale, e vieppiù si è avvicinato allo spazio non come entità fisica ma come entità geografica» (Maffioletti, 2009: 178-179); e ancora: «L’idea del mondo che nelle opere giovanili tendeva a sublimarsi nel Purismo, nell’assolto matematico e nell’identificazione astratta tra individuo e umanità generalizzata diventa sempre più calorosa e, direi, più affettuosa e sensuale; così, non solo agendo in pratica ma anche in teoria, questo uomo d’eccezione pare avvicinarsi sempre più ai suoi simili, cercando di interpretarne le più precise caratteristiche» (Maffioletti, 2009: 166-167), inoltre si veda la citazione in exergo. 7. «Talvolta vi è – riconosciamolo pure – una candida, toccante sfida donchisciottesca: l’arte è la sua Dulcinea» (Maffioletti, 2009: 167). 8. Nella prolusione al corso di Storia dell’architettura moderna, tenuto da Ernesto N. Rogers tra il 1964 e il 1965 (Rogers, Semerani, 1999), Rogers polemizza a distanza con Wright e con il suo disprezzo per la storia, ricordando invece l’importanza del suo insegnamento. 9. Scrive Ezio Bonfanti: «Questo apparirà con estrema chiarezza […] nella serie di lezioni (e degli articoli, nati sempre dalla sedimentazione di lunghi cicli di lezioni) dedicate ai ‘maestri’ uno per uno: essi stanno insieme […] non come le diverse facce di uno stesso poliedro, ma come le tessere di un mosaico: l’architettura moderna è fatta essenzialmente dal loro contributo non perché siano uguali – o diversi epifenomeni di un’uguaglianza – ma perché e nella misura in cui sono diversi». 10. (Rogers, 1956 in Bonfanti 2001). 11. Significativo è l’aneddoto della madre di Le Corbusier raccontato da Rogers «Andai a visitarla con molti allievi quando ero internato a Vevey; suonai alla porta e nessuno aprì; poi incontrai Madame Jeanneret e le dissi che volevo vedere la sua casa. Mi disse: «Io non sto in quella casa; cosa vuole, si sta malissimo». Questa è la madre di Le Corbusier, il quale ha avuto il destino di avere moglie, madre e amici che hanno sempre detratto la sua grandezza.» (Maffioletti, 2009: 181). 12. Si fa riferimento a recenti pubblicazioni citate in (Irace, 2015: Chaslin, 2015; Perelman, 2015; de Jarcy, 2015). Riferimenti bibliografici Argan G. C., Rogers E. N., 1956, «Dibattito su alcuni argomenti morali dell’architettura». Casabella, 209. Baglione C., 2012, a cura di, Ernesto Nathan Rogers 1909-1969. Milano: Franco Angeli. Bonfanti E., 2001, «Rogers e i ‘maestri’». In: Bonfanti E., Nuovo e moderno in architettura, a cura di, Biraghi M., Sabatino M.. Milano: Bruno Mondadori, 319-328. 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Le Corbusier, fra i maestri dell’architettura moderna, è colui che con più chiarezza – come testimoniato dai suoi scritti – fa proprio questo metodo della conoscenza. Attraverso l’analisi di alcuni progetti del maestro francese – Maison Citrohan, Unitè d’Habitation, Convento de la Tourette – il contributo intende mettere in luce questa sua specifica metodologia conoscitiva e progettuale Parole chiave: analogia; storia; tipologia ISSN 1825-8689, ISSNe 2239-6330 Il 27 maggio di tre anni fa l’Università di Bologna conferiva una laurea honoris causa a Douglas Richard Hofstadter1 che, nell’occasione, pronunciava una ‘lezione dottorale’ riferita al tema dell’analogia nella sua relazione con il sistema conoscitivo2. Obiettivo di Hofstadter era dimostrare come l’analogia sia elemento costitutivo del pensiero e come, di conseguenza, contraddistingua qualsiasi atto di tipo conoscitivo. Le analogie, dunque, non sono una rarità ma, al contrario, ‘eventi ipercomuni e anzi onnipresenti’ in grado di garantire all’uomo un ‘orientamento’ nel mondo. L’analogia, aggiungeva: «[…] consiste principalmente nella percezione rapidissima di importanti, ma spesso nascosti, elementi comuni tra due situazioni – anzi tra due strutture mentali. Una di queste due strutture mentali è appena stata costruita, e rappresenta una nuova circostanza nella nostra vita […]. L’altra struttura mentale è vecchia, nel senso che esisteva già nel nostro cervello […]. In una parola, dunque, un’analogia adeguata permette a una persona […] di associare una cosa nuova a un concetto già esistente, cioè di trattare qualcosa di fresco e non conosciuto come se fosse familiare […]». A conclusione della sua lectio magistralis, Hofstadter tornava a rimarcare la precipua prerogativa dell’analogia consistente nella facoltà di mettere in relazione la novità con quanto già sperimentato consentendo, all’uomo, di ‘orientarsi nel presente’. È proprio quest’ultima affermazione quella da cui intendo partire in quanto credo che in essa si sintetizzi il senso del lavoro dell’architetto in genere, e, in particolare, l’atteggiamento di Le Corbusier nei confronti del progetto. L’assunto da cui intendo prendere le mosse è, infatti, che il progetto di architettura debba essere inteso come un percorso conoscitivo volto alla ricerca di una risposta adeguata a un problema particolare. L’evolversi dell’architettura nel corso della storia dimostra come, individuato un tema, un problema, – la costruzione della casa, oppure quella del luogo della preghiera o di riunione di una collettività, per esempio – ogni epoca abbia cercato di definirne la forma, per così dire, stabile. In quest’operazione la conoscenza di quanto avvenuto precedentemente, la sua critica e messa in discussione, ha sempre giocato un ruolo fondamentale garantendo quei continui progressi della conoscenza che appaiono ben documentati per esempio da Auguste Choisy nella sua Histoire de l’Architecture pubblicata a Parigi nel 18993. Anche l’opera di Le Corbusier, sia teorica che progettuale (tenendo presente che la prima determina la seconda e viceversa) appare costruita a partire dalla volontà di conoscenza di ciò che è già stato, dall’interpretazione, cioè, della storia4 (Etlin, 1987). 87 Territorio 80, 2017 È Le Corbusier stesso a testimoniare questa sua propensione in una lettera del 1925 indirizzata a Paul Valéry. Scrive il maestro francese: «[…] L’esperienza della purezza non può neppure aver principio se non la si introduce con gli esempi svariati attinti dal passato […]». Si tratta di una sorta di dichiarazione di intenti su cui si fonderà la maggior parte dei suoi progetti. Infatti, come affermato nei suoi scritti e nei Carnets, la conoscenza delle culture e delle tradizioni architettoniche acquisite nel corso dei suoi diversi viaggi in Europa, occupa un posto di primo piano nell’elaborazione del suo processo progettuale. Il progetto, però, non può accontentarsi di attingere dal passato acriticamente: la conoscenza del tema, infatti, non può che rappresentare il punto di partenza di un’indagine più approfondita che, per compiersi, deve, necessariamente, confrontarsi con l’epoca e il contesto culturale in cui si sviluppa, nell’ottica di proporne una propria interpretazione. È proprio questa modalità di lettura del processo conoscitivo a determinare la comparsa del procedimento analogico. Secondo il dizionario della lingua italiana il significato della parola analogia è quello di «somiglianza o equivalenza di proporzioni, caratteristiche, funzioni, forma, struttura». La parola, di derivazione greca, si compone infatti di ἀνα, prefisso che fra i suoi diversi significati accompagnato dalla parola λόγον assume quello di ‘in proporzione’ e, appunto, da λόγος, discorso, parola, proporzione5. Facendo riferimento, al suo significato etimologico, pensare per analogie significa dunque «abbandonare il processo logico che lega cause ed effetti secondo rigorose relazioni lineari, e andarsene a spasso per l’universo delle possibilità in cerca di somiglianze» (Testa, 2015). Sono proprio le somiglianze quelle che Le Corbusier ricerca affrontando, per esempio, il progetto della Maison Citrohan, uno dei tipi di casa su cui continuerà a tornare nel corso della sua attività volta alla messa a punto della definizione di un possibile nuovo modo di abitare. Scrive a questo proposito in Precisions: «[…] studio le celebri vecchie case dell’architettura della Fiandra; ne disegno uno schema; scopro che si tratta di case di vetro: del XV e del XVI secolo […]», (Le Corbusier, 1979:111). La tipologia di casa osservata dal maestro francese è quella che caratterizza la costruzione della città gotica europea e che è possibile ritrovare anche a Parigi nelle case atelier ottocentesche, abitazioni a schiera di origine medievale, adattate a nuove esigenze di lavoro e trasformate in case di artisti. In questi esempi una grande parete di vetro definisce la principale fonte di illuminazione dell’atelier la cui organizzazione interna si basa sulla costruzione di uno spazio a doppia altezza a piano terra diviso in due da un soppalco adibito a zona letto o a deposito6. Della casa gotica tipica della città medievale europea, Le Corbusier riprende i caratteri fondamentali: innanzitutto la costruzione in profondità e il fronte stretto quasi completamente finestrato; poi, il doppio affaccio che permette la realizzazione di due prospetti costruiti secondo gerarchie differenti: una grande parete vetrata affacciata sul verde – il giardino che sostituisce l’orto medievale – a rappresentare i locali di soggiorno e della vita collettiva della casa, e un fronte, prospettante su strada, composto da aperture di dimensioni minori, in corrispondenza dei locali della vita privata (camere da letto); i due muri portanti sviluppati nel senso della profondità del corpo di fabbrica, praticamente ciechi su cui si appoggiano gli elementi della distribuzione verticale; ed infine, la costruzione in altezza che In questa pagina: – Lubecca, costruzione del quartiere centrale della città Fonte: Gruber K., 1985, Forme et caractère de la ville allemande. Bruxelles: Archives de l’Architecture moderne, Nella pagina successiva: – Le Corbusier, quartiere moderno Frugès a Pessac, Bordeaux, 1925. Fonte: ©FLC/SIAE, 2017 88 Territorio 89 Territorio permette di far corrispondere, a ogni piano, una specifica destinazione funzionale. Questi elementi, sempre riconoscibili nel tipo della casa gotica, possono essere riproposti per realizzare un luogo dove «si sta bene»7. Essi costituiscono la base per l’ideazione di un nuovo progetto di casa in cui il legame con il tipo originario resti sempre leggibile e in cui le nuove forme si rendano possibili grazie alla rappresentazione di una specifica idea di abitare che, necessariamente, si deve confrontare con le esigenze dettate dalla contemporaneità. La Maison Citrohan, in quest’ottica, rappresenta uno dei tipi tramite cui costruire la città moderna. Essa, infatti, è in grado di garantire, e realizzare, quella relazione necessaria fra costruito e natura che Le Corbusier persegue con ossessione in tutti i propri progetti. In ognuna delle sue differenti versioni8 il rapporto con la natura è, infatti, elemento determinante: il giardino nel caso della Maison Guiette ad Anversa (1926), la collina del Weissenhof a Stoccarda (1927), o ancora il mare nel caso dello studio per una casa sul bordo del mare, fino ad arrivare, a metà degli anni ’40, al progetto per l’Unité d’Habitation: una grande unità residenziale con più di 300 appartamenti costruito a Marsiglia. In questo ultimo progetto Le Corbusier ricorre al procedimento analogico per proporre un edificio in cui, analogamente a quanto accade nella città gotica, piccole case unifamiliari a schiera (i singoli appartamenti), specializzate nella loro distribuzione funzionale delle parti di cui si compongono e sviluppate nel senso della profondità del corpo di fabbrica, vengono sovrapposte l’una all’altra su più piani. L’accessibilità di ogni appartamento avviene tramite una strada interna – rue corridor – presente ogni due livelli. Anche in questo caso ciò che interessa a Le Corbusier è individuare un principio in grado di rappresentare un possibile modo di abitare la città in rapporto con la natura. Il progetto, infatti, si fonda sulla possibilità di garantire a ogni singolo appartamento un doppio affaccio aperto sul verde che prende forma nella realizzazione di due logge con carattere differente, a seconda che sul paesaggio affacci la zona della vita collettiva della casa oppure quella dei locali della vita privata. Nel primo caso la loggia a doppia altezza ripropone in facciata la sezione del soggiorno, nel secondo, invece, un’altezza semplice diviene il mezzo attraverso cui rappresentare sul prospetto l’affaccio delle camere da letto. Il principio alla base del progetto dell’Unité d’Habitation è analogo a quello della casa gotica, come pure a quello della Maison Citrohan; il carattere, la forma, e l’idea di città cui fa riferimento – una città costruita attraverso il rapporto che grandi edifici isolati composti in un ‘mare verde’ intessono, fra di loro, a distanza – invece, ne determina la grande differenza. È ancora una volta il procedimento analogico a permettere l’individuazione, in un caso particolare, di quei principi generali riproponibili in quanto reinterpretabili secondo le esigenze della contemporaneità. Le Corbusier riconosce, dunque, gli elementi che caratterizzano questa particolare tipologia edilizia e li aggiorna conformemente alle esigenze della sua quotidianità e alla sua particolare idea di costruzione della città moderna. Il metodo attuato dal maestro francese consente di evidenziare come, affinché il procedimento analogico si realizzi, non sia sufficiente garantire esclusivamente un rapporto di somiglianza, ma come invece sia necessario l’intervento del ‘momento critico’ – la parola critica, in questo caso, è da intendersi secondo il suo significato etimologico: dal verbo greco κρίνω, scegliere –, atto che attribuisce al progettista la facoltà di scegliere quali Eugene Viollet-le-Duc, progetto di casa su lotto profondo, da Entretiens sur l’Architecture, Morel, Paris, 1863-1872 Fonte: Viollet-Le-Duc, 1986, Entretiens sur l’architecture. Bruxelles: Mardaga 90 Territorio Le Corbusier, Maison Guiette ad Anversa, 1926 Fonte: ©FLC/SIAE, 2017 91 Territorio elementi del modello confermare e quali, invece, porre in secondo piano o, addirittura, eliminare. Il tema del ‘momento critico’ trova una sua precisa definizione in quanto espresso dal filosofo Ezio Melandri che, in L’analogia, la proporzione, la simmetria, dimostra come nel processo analogico siano presenti due diverse circostanze fra loro opposte: la trasgressione – elemento in grado di esprimere l’innovazione rispetto a quanto già pensato in «forme regolari» – e «il controllo delle regolarità discorsive». Il controllo opera in senso opposto alla trasgressione cercando di eliminare qualunque irregolarità e di «riformulare l’altro, il nuovo, in termini d’identità o di equivalenza con quanto già noto, accettato, canonico». Il processo analogico si attua nel momento in cui questi due termini interagiscono. «La molla della trasgressione – scrive Melandri – è l’intelligenza intesa quale atto creativo, innovatore; il controllo spetta invece alla cultura intesa come atto critico». L’analogia risulta quindi dalla interazione di due figure, ‘il trasgressore e il controllore’, impegnate in una sorta di gioco costituito da una serie di partite che risultano infinite in quanto il trasgressore può solamente prevalere ma mai vincere. Una eventuale vittoria del controllore, invece, determinerebbe la conclusione del gioco e, di conseguenza, la fine del processo conoscitivo a suo fondamento. «[…] La trasgressione – continua Melandri – è non solo un momento essenziale della dinamica analogica, ma l’atto che ne fonda la possibilità trascendentale in quanto autonomo movimento del pensiero. È un atto arbitrario, stravagante e licenzioso. Questo atto può essere fine a se stesso […] ma può anche esserci una trasgressione controllata, calcolata, motivata da una strategia e allora è mezzo per un fine diverso […]», (Melandri, 1974: 11 e ss.). La «molla della trasgressione» introdotta da Melandri, nel caso del progetto per l’Unité d’Habitation si ritrova nell’utilizzo del tipo della casa gotica unifamiliare costruita in profondità e nella sua sovrapposizione su più piani, a costruire un grande edificio in linea per appartamenti. È forse, però, il progetto per il Convento de la Tourette (19571960) realizzato a Eveaux sur l’Arbresle, nei pressi di Lione, a rappresentare con maggiore chiarezza il tema della ‘trasgressione’. Anche in questo caso si tratta di affrontare il problema della costruzione di una casa comune, un luogo dove una comunità possa condividere spazi e momenti della vita e, allo stesso tempo, abbia la possibilità di isolarsi nel silenzio e nella pace. In una lettera datata 28 luglio 1953 Padre Couturier – il committente del progetto – suggerisce a Le Corbusier i principi su cui si costruisce un convento, principi che il maestro francese ha potuto sperimentare visitando, in gioventù, la Certosa di Ema a Firenze, il Monte Athos, ecc. «Carissimo Amico – scrive Couturier – spero abbia potuto recarsi al Thoronet […]. Mi sembra che in esso vi sia l’essenza stessa di ciò che deve essere un monastero di non importa quale epoca, poiché gli uomini dediti al silenzio, al raccoglimento e alla meditazione nella vita in comune non cambiano molto con il passare del tempo. Secondo la pianta tradizionale, Lei dovrà prevedere intorno al chiostro tre grandi volumi: quello della chiesa, quello del refettorio e, sul terzo lato il capitolo; infine, sul quarto lato, due grandi sale per le riunioni. Al primo piano, una grande biblioteca. Il resto della costruzione comprenderà le celle […]». Nel convento, come nella casa gotica e nel suo analogo della Maison Citrohan, la relazione fra luoghi con destinazioni fun- Convento di Le Thoronet, pianta Fonte: Gresleri G., Gresleri Gl., 2001, Le Corbusier: il programma liturgico. Bologna: Compositori 92 Territorio Le Corbusier, Convento di Sainte Marie de la Tourette, Eveaux, 1957-1960 Fonte: ©FLC/SIAE, 2017 93 Territorio Vista dell’Acropoli di Atene Fonte: foto dell’autore zionali differenti è uno degli elementi determinanti. Le celle dell’abitazione privata dei monaci si contrappongono alla costruzione dei grandi luoghi della vita collettiva: l’aula della chiesa, il refettorio, i luoghi dello studio, lo spazio aperto del chiostro lungo il quale si compone il sistema distributivo dell’edificio. Il convento tradizionale, quindi, altro non è che un grande edificio introverso costruito in relazione a una corte chiusa, elemento fondamentale dal punto di vista della rappresentazione del tipo. Nell’affrontare il progetto de La Tourette Le Corbusier si affida ancora una volta al procedimento analogico che, da un lato gli permette l’identificazione del principio compositivo generale, dall’altro l’attuazione di alcune ‘trasgressioni’ utili ad aggiornare il tema nella definizione di un nuovo edificio contemporaneo ma pur sempre riconoscibile dalla collettività. Il Convento de la Tourette si compone di un grande volume a C – a corte – distribuito su più livelli. Ai piani inferiori si trovano tutte le funzioni collettive e a quelli superiori, di coronamento dell’edificio, le celle private dei monaci. A nord il volume dell’aula della chiesa chiude la corte definendone il lato mancante. Ciò che distingue la Tourette da qualsiasi convento precedente è la sua estroversione. Diversamente dagli esempi della storia, Le Corbusier – trasgredendo al tipo originario – sceglie di aprire il convento verso il paesaggio ma non rinuncia al tipo che lo ha reso riconoscibile nel corso della storia. La Tourette è ancora un edificio a corte, ma la corte ha perso il suo significato originario di luogo della rappresentazione della composizione. Tutte le parti del convento, sia che accolgano le attività collettive, che quelle della vita privata, si rivolgono verso la natura circostante, guardano all’esterno, invertendo un principio fino ad allora consolidato. Solamente l’aula della chiesa, ben radicata a terra dato il suo carattere di luogo del raccoglimento, si presenta come un volume introverso, chiuso totalmente verso l’esterno e – simbolicamente – rivolto verso il cielo. L’utilizzo del procedimento analogico contraddistingue tutta 94 Territorio Le Cobusier, La Cheminée, 1918 Fonte: ©FLC/SIAE, 2017 l’opera di Le Corbusier che sappiamo aver esplorato diversi ambiti artistici. La conoscenza delle città della storia e di quelle di più recente formazione, come ad esempio le città americane che visita negli anni Trenta in occasione di alcune conferenze, sono determinanti nella costruzione del suo progetto di Urbanismo. Senza il riferimento al reticolo delle griglie e quadricule delle città americane non è infatti, possibile comprendere il progetto della Ville Contemporaine pour trois millions d’habitants9 la cui forma è determinata da un reticolo di strade che si incrociano ad angolo retto con al centro il sistema dei grattacieli destinati alle attività terziarie. Questa trova una sua relazione con il piano di Penn per Philadelphia in cui, analogamente, la zona monumentale è pensata al centro di una griglia regolare di strade. Anche il tipo del redent che contraddistingue il progetto della Ville Radieuse individua come proprio riferimento un edificio della storia e cioè il palazzo del Louvre a Parigi. Il redent viene introdotto da Le Corbusier per comporre i blocchi in linea della residenza della nuova città. Questi, nella loro particolare modalità di disposizione sul suolo, determinano ampie corti su cui ogni singola abitazione ha la possibilità di affacciare. Anche il Palazzo del Louvre si costruisce attraverso la composizione di grandi corti, di misure e profondità diverse, l’una in rapporto con l’altra. Le Corbusier, come si può constatare da un disegno pubblicato in La Ville Radieuse, guarda al Louvre riconoscendone proprio questa specifica qualità, il fatto cioè di essere pensato come una grande casa costruita in rapporto con lo spazio aperto e naturale delle diverse corti/giardino su cui prospetta. La conoscenza delle culture artistiche e architettoniche della storia tornano, ogni volta reinterpretate, in moltissimi dei progetti del maestro francese; in alcuni casi il legame è indicato esplicitamente: per esempio il progetto per il Palais des Soviets (1931) a Mosca trova una analogia con la composizione del Campo dei Miracoli di Pisa; o ancora, il progetto di Villa Savoye e il principio della promenade architecturale che la contraddistingue, guarda al modo 95 Territorio di intendere la costruzione della città da parte della cultura araba11; in altri casi il riferimento è intuibile, come accade nel progetto per gli Immeubles Villas che, ancora una volta, ragionano sulla relazione che intercorre fra la costruzione dello spazio pubblico e quello privato proprio degli edifici delle Certose (Certosa di Ema). Questo stesso approccio metodologico Le Corbusier lo utilizza anche costruendo i propri testi teorici – pensiamo per esempio a Verso un’architettura e alle analogie introdotte per mettere in relazione l’architettura e la macchina (Colquhoun, 1993) – come pure alcune sue opere pittoriche. Nel 1918 dipingendo il suo primo quadro dal titolo La Cheminée, di fianco a due libri posti ‘di piatto’ Le Corbusier mette in scena un cubo illuminato, appoggiando il tutto sulla mensola di un camino. Il cubo non è un cubo qualunque ma, secondo quanto lo stesso Le Corbusier dirà molti anni più tardi, intende istituire una analogia con il Partenone e la composizione dell’Acropoli: «Spazio, luce, intensità di composizione. A dire il vero dietro tutto ciò sta l’Acropoli» (citato in Lucan, 1988). Il processo analogico attuato in questo specifico caso riguarda il procedimento compositivo, la capacità cioè di mettere in relazione oggetti differenti secondo una particolare logica che Le Corbusier ritrova nella costruzione dell’Acropoli i cui templi e monumenti, intessendo relazioni a distanza, rendono possibile la definizione di una composizione unitaria. L’analogia, come si è visto nelle definizioni più sopra riportate allo scopo di approfondire di volta in volta ulteriori aspetti del concetto, è il punto di partenza di qualsiasi processo conoscitivo. Questo, attingendo alle esperienze e conoscenze acquisite, rende possibile, e sicuro, il rinnovamento del pensiero nell’ottica della costruzione di una nuova realtà condivisibile. Citando le belle parole di Alberto Savinio, è possibile, dunque, concludere che: «L’analogia è una forma di sicurtà. Serve a convincerci che il terreno è sodo […] e noi non rischiamo di incamminarci nel vuoto. L’analogia è una forma di civismo, di socievolezza letteraria. Guai se ci mancasse intorno il tessuto delle analogie. […] Nel lavoro di composizione, quasi ogni immagine di persona o di cosa viene fuori accompagnata naturalmente da un come: il tale è come, la tale cosa è come. Poi molti come la revisione li elimina per ragioni di nettezza, snellezza, eleganza di periodo; ma l’analogia rimane sotto la pelle della pagina», (Savinio, 1984: 366). 4. Cfr. l’articolo di Richard Etlin, A paradoxical avant-garde. Le Corbusier’s villas of the 1920s, pubblicato in ‘Architectural Review’, n. 1079, giugno 1987 in cui l’autore si sofferma sulle modalità di interpretazione di temi e principi compositivi desunti dall’antichità da parte di Le Corbusier riferendosi in particolare ai progetti di case degli anni Venti. Rispetto al tema della conoscenza della storia da parte di Le Corbusier si ricorda che la Fondation Le Corbusier conserva i dieci volumi del Dictionnaire de l’Architecture di Viollet-Le-Duc acquistati dal maestro il 1 agosto 1908 e i due volumi dell’Histoire de l’Architecture di Choisy datati Natale 1913. Entrambe le opere riportano annotazioni e commenti autografi di Le Corbusier. 5. Per la definizione etimologica della parola analogia si veda Lorenzo Rocci, Vocabolario Greco Italiano. Roma: Società Editrice Dante Alighieri, e Ottorino Piangiani, Vocabolario Etimologico della Lingua italiana. Genova: Edizioni Polaris, 1993. 6. È interessante a questo proposito riportare una breve citazione tratta da Une maison, un palais in cui Le Corbusier affronta la questione della tipologia e dell’importanza del suo studio progettando. «In architettura – scrive – non esiste nulla di spontaneo, ma piuttosto un lungo e minuzioso condizionamento: i tipi si stabiliscono secondo ragioni profonde, sono ‘riserve’ di architettura; osserviamoli attentamente. È tramite i tipi che noi faremo delle nostre case dei palazzi». 7. «Un locale assai stretto ma profondo, circa quattro volte più lungo che largo, e in proporzione molto alto: la metà posteriore era divisa in altezza da una sala a balcone, aperta davanti come i soppalchi degli studi di artisti parigini; vi si accedeva da una scala a chiocciola; la luce entrava da una grande vetrata che occupava tutta la facciata [...] l’altezza del soffitto principale dava libertà allo sguardo, e i soffitti bassi della galleria e della parte corrispondente del piano terreno, creavano degli angoli piacevolmente intimi [...]. Ci si stava bene. Pensammo che una villa disposta con un principio analogo sarebbe stata gradevole [...]» ricorda Amédée Ozenfant (Tentori, De Simoni, 1987). 8. Diversamente dalla casa gotica, la Maison Citrohan si costruisce isolata, salvo poi essere realizzata mediante accostamenti e sovrapposizioni a costituire il corpo della residenza dell’Unité d’Habitation. 9. La lettura di Urbanisme permette di verificare la buona conoscenza di Le Corbusier della tradizione urbana americana documentata dalla pubblicazione di numerose immagini relative alle città di New York, Minneapolis e Washington. Xavier Monteys sostiene inoltre un debito di Le Corbusier nei confronti di Taut e del suo progetto per la Stadkrone. 10. «L’architecture arabe nous donne un enseignement précieux. Elle s’apprécie à la marche, avec le pied; c’est en marchant en se deplaçant que l’on voit se développer les ordonnances de l’architecture. C’est un principe contraire à l’architecture baroque qui est conçues sur le papier, autour d’un point fixe théorique. Je préfère l’enseignement de l’architecture arabe» (Le Corbusier et Pierre Jeanneret, 1935: 28). Riferimenti bibliografici Note 1. Douglas Richard Hofstadter insegna all’Università dell’Indiana occupandosi in particolar modo di intelligenza artificiale, scienze cognitive e filosofia della mente. La casa editrice Adelphi ha pubblicato la traduzione italiana del suo più famoso saggio Gödel, Escher, Bach: an Eternal Golden Braid. New York: Basic Books, l979 (Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante. Milano: Adelphi, 1984). 2. Il testo completo dell’intervento di Douglas Hofstadter è consultabile sul sito di Education 2.0, all’indirizzo http://www.educationduepuntozero. it/speciali/pdf/speciale_agosto2013.pdf 3. L’Histoire de l’Architecture di Auguste Choisy, riservando una particolare attenzione al tema della costruzione, si costruisce a partire dalla volontà di dimostrare come ogni civiltà abbia preso forma a partire da quella precedente. In questo senso quindi, il concetto di ‘novità’ in Choisy non esiste, al contrario, i temi dell’architettura, nel corso del tempo, si presentano sempre uguali a se stessi trovando, di volta in volta, una forma adeguata di rappresentazione delle necessità definite dalla specifica contemporaneità. Choisy A., 1899, Histoire de l’Architecture. Paris: Gauthiers-Villars. Colquhoun A., 1989, Architettura moderna e storia. Roma-Bari: Laterza. Colquhoun A., 1993, «Il significato di Le Corbusier». In: Brooks H. A. (a cura di), Le Corbusier 1887-1965, Milano: Electa. Etlin R., 1987, «A paradoxical avant-garde. Le Corbusier’s villas of the 1920s». Architectural Review, 1079: 6-87. Le Corbusier, 1925, Urbanisme. Paris: G. Crès et C. Le Corbusier, 1928, Une maison, un palais. Paris: Les édition G. Crès et C. Le Corbusier et Pierre Jeanneret, 1935, Œuvre complète de 1929-1934. Zurich: Les Éditions d’Architecture. Le Corbusier, 1979, Precisazioni sullo stato attuale dell’architettura e dell’urbanistica. Roma-Bari: Laterza. Lucan J., 1988, Le Corbusier enciclopedia. Milano: Electa. Melandri E., 1974, L’analogia, la proporzione, la simmetria. Milano: ISEDI. Monteys X., 1996, La gran máquina. La ciudad en Le Corbusier. Barcelona: Ediciones del Serbal. Tentori F., De Simone R., 1987, Le Corbusier. Roma: Laterza. Savinio A., 1984, Ascolto il tuo cuore città. Milano: Adelphi. Viollet-Le-Duc E., 1863-72, Entretiens sur l’architecture. Paris: Morel. 96 Territorio Abstracts Metropolitan visions: instant, concrete, and conflict free futures? Peter Ache (p. 7) Exercises formulating visions for future development are frequently seen as ‘utopistic’ in the sense of non-consequential. But, visions can be ‘experiments in dialectical utopianism’ following Lefebvre. In trying to understand vision making, more than thirty documents from European cities and regions were analysed. First, a couple of formal dimensions will be presented. Second, the treatment of time will be looked at: in terms of time invested by actors and processes; in terms of ambitions, intended actions, and vision horizons. Third, conflict is notoriously absent from the processes. Accepting the idea of strife, we might discuss whether we are losing an important lever to create different futures? The final appeal is to intensify the en-visioning of metropolitan regions, to be able to manage those complex entities of a future planetary urban society. Keywords: strategic spatial planning, visions, future, strife Representing, Communicating and Experiencing Cultural Environments, edited by Anetta Kepczynska-Walczak (p. 15) The aim of the paper is to introduce the problematics of representing, communicating and experiencing cultural environments in order to respond to the questions of translation of the past to the present in different processes such as preservation, communication, design, sense of belonging or the application of digital tools in heritage domain. This special section of Territorio review is meant to reflect the mission of the European Architectural Envisioning Association in terms of communication and exchange of experience, experimentation and research in the field of envisioning built heritage Keywords: cultural heritage; heritage perception; communication of heritage Rise of the Fallen: (New) Ruins Role in Shaping Cultural Understandings, Amos Bar-Eli (p. 18) Ruins capture our imagination, mysterious, full of hints to a past long gone, and future abundant with potential. During the several past decades the ruination process has greatly accelerated, turning industrial complexes, cities, and even regions into abounded ruins. This phenomenon has brought about a similar swell in the ways ruins are used, discussed, re-presented, and understood. The paper evaluates the characteristics of (new) ruins and decipher their unique atmosphere, and ambiguous values. The paper explores the abstract architectural values of (new)ruins and their more conceptual attributes. This is delivered by a theoretical process which brings together side by side historical precedents, literary observations, and varied case-study examples. By reinterpreting (new)ruins as a ‘NonComplete’ condition the paper suggests their role in shaping cultural understandings Keywords: (new)ruins; non-complete; architectural heritage Narrating the Cultural Landscape. Tracing the actual significances of heritage, Gisèle Gantois, Yves Schoonjans (p. 23) Current developments such as the changing vision on heritage from an exclusive ‘substantial’ to a more anthropological perspective and the changing meaning of it from a top-down to a bottom-up ‘right to heritage’ imply a shift in heritage paradigms. A renewed reflection on heritage research and an interdisciplinary approach are required. The roles of architects are redefined responding to this shift. With this paper we want to share possible designerly ways of detecting, unveiling and mapping the actual significances of built heritage to develop a more inclusive understanding of the value of it to come to socially better and socially better accepted projects of restoration and reuse. The more hidden relationship of immovable heritage with its multi-layered context is explored, combining existing methods and tools out of other disciplines with the skills of the architect leading to spatial narratives Keywords: heritage; spatial narration; narrative maps The death and revival of the great textile city, Bartosz M. Walczak (p. 30) The city of Lodz, its urban layout, architectural appearance and socio-economical condition are results of a particular development process, which is exceptional as compared with evolution of other large European cities. The unique urban environment gives the city strong identity. It is however still a challenge to use these spatial and architectural qualities to establish emotional bonds among local community with. The successful re-use of industrial buildings have helped in this matter. The next step is to use this approach in large scale renewal of the Lodz city centre. It seems of crucial importance, since if residents like their own city, accept local heritage, fill the historical space with new ideals and narrations, then the city will be attractive for them and visitors alike. Keywords: Industrial heritage; Identity; Urban regeneration 188 Territorio Designing the framework of possibilities for viewer’s activity. Mixed reality and monuments, Rafał Zapłata (p. 40) The article focuses on the issue of designing in relation to modern-day exhibitions of monuments in situ. The generally described presentations of cultural heritage are referred mainly to the so called augmented-mixed reality. Designing in the era of electronic technologies is treated as a process leading to e.g. shaping the framework of possibility for viewer’s activity. Another issue discussed in this text are the effects of designing – both conscious and unconscious. Keywords: Designing new media; Monuments in situ; Mixed reality Digital Heritage’s Development in Architecture, Thomas W. Maver (p. 44) The intention of this paper is to chart, with examples and illustrations, the evolution of the application of the emerging information and communication technologies to our understanding of our wonderful built patrimony. It focuses on two phases of this evolution: the earlier development of 3D CAAD modelling and multimedia and the later development of laser scanning. It discusses and compares the application of these phases and concludes with a view on the importance of digital patrimony. Keywords: Computer aided design; multimedia; laser scanning Le Corbusier Fifty Years On, edited by Marco Bovati, Martina Landsberger (p. 48) Reflections on the Le Corbusier tra noi exhibition, Milan, 2015 The 50-year anniversary of Le Corbusier’s death marked an important moment, coinciding with the organisation of a series of events whose aims was, in many cases, to draw up an overview of the studies and commentaries on this complex and multi-faceted figure against whom architectural culture has been measuring itself for several decades. The articles that comprise this service aim to contribute to a reflection on the currentness of Le Corbusier’s thinking, as well as on the progress of ongoing studies and research, by investigating the master’s legacy with regard not only to the issues of his relationship with Milanese architectural culture - the subject of the Le Corbusier tra noi (Le Corbusier among us) exhibition organized by Triennale Xtra and Politecnico di Milano (June-September 2015) - but also by raising more strictly theoretical and compositional questions. Bottoni and Le Corbusier: the day of reckoning arrives in 1949 on Monte Stella, Milan, Giancarlo Consonni, Graziella Tonon (p. 50) During the first CIAM conferences, young Italian Rationalists suddenly found themselves between a rock and a hard place, or rather between Gropius (the method) and Le Corbusier (the vision). Advocates of the method tackled the problem of population expansion without concerning themselves with the built city, while Le Corbusier made his primary objective erasing the city as it had hitherto been known. As early as the Athens CIAM of 1933, Fernand Léger warned of the breakdowns that could result from such simplifications. At the Hoddesdon Conference in 1951, Piero Bottoni took up Léger’s point using more detailed arguments, his way of responding, two years later, to the clash between himself and Le Corbusier at the VII CIAM in Bergamo, 1947, during the conception of the QT8 district of Milan. In 1951, Fernand Léger saw in Bottoni ‘the inventor of mountains and magnificent popular buildings’, and his positive verdict on that experience would be reaffirmed at the Dubrovnik CIAM of 1956. Keywords: CIAM; Urban Design; district Le Corbusier and Production sites in the Industrial City, Silvia Bodei (p. 58) The experiences linked to buildings and spaces created for production on Le Corbusier’s extensive résumé as a planner are significant, yet not numerous. Indeed, these are isolated projects, rarely brought to fruition, and, in his entire career, he succeeded only in building the Duval Factory in Saint-Dié (1946-51). Planning and theoretical reflection on the forms and structures of these buildings led Le Corbusier to a closer examination of the mechanisms and problems associated with the organisation of working environments and to identify the most appropriate solutions, which later came together in his definition of a ‘green factory’ model, theorised in the essay, Les trois établissements humains (1945). This article looks back at certain aspects of the architect’s plans and ideas relating to production sites, consistently supported by cultural and architectural references that remain highly current, in order to capture the most significant items linked to a concept of work as functioning on a human scale as opposed to at the mechanical rhythms of the production line. Keywords: industry; work spaces; urban planning Le Corbusier at the First International Conference on Proportions in the Arts, Milan, 1951, Anna Chiara Cimoli, Fulvio Irace (p. 67) In September 1951, with the war now over, the Triennale di Milano provided the theatre for a stellar performance by an especially charismatic actor: Le Corbusier. The topic for discussion concerned proportions in the arts, and the primary speaker was Rudolf Wittkower, whose theories were influencing the debate on reconstruction. In the historian’s view, mathematical order should remain the basis for art while, according to Le Corbusier, all corollaries of esoteric knowledge concealed within the question of the ‘divine’ proportion were now ‘dead’ things, suitable only for academics and historians like Wittkower himself. To everyone’s surprise, Le Corbusier, arguing against the ‘miracles of geometry’, put forward the new idea of ‘indescribable space’, opening the door for the art to ‘illumination’, to a state ‘akin to trance’. The Conference foundered on its own premises, yet the theatrical presentation of the options shone a spotlight on the discomfort of architecture with all regulatory rigidity; the impossibility, in other words, of a theory that failed to consider the reality of the body and therefore of the grotesque and materiality as foundations for research. Keywords: divine proportion; Modulor; IX Triennale August 27th 1965: Italian Architecture Journalists Commemorate Le Corbusier, Andrea Oldani (p. 73) On August 27th 1965, Le Corbusier’s ‘patient research’ came to an end. The news of his death appeared in all the magazines, leaving his supporters stunned and helpless at the report of his sudden demise. With the legend fallen, some comments were needed, and the possibility was discussed of drawing up an 189 Territorio improbable overview of the succession of ideas and creations that had elevated their author to a place of absolute authority, among the ranks of recognised ‘living masters’. The Italian magazines responded with a series of memories, reflections, and elucidations on his life and works. The great ‘heretic’ was no more, but he had left an immense legacy of ideas, creations and plans. Re-read today, these testimonies take on new meaning, and perhaps the time has not yet come for stock-taking; the horizon has brightened and the resources of the great master are not yet depleted. Keywords: Le Corbusier; death commentary; Italian architecture magazines From the Geometry of Crystals to the Mathematics of Nature. Le Corbusier through the Writings of Ernesto N. Rogers, Marco Bovati (p. 79) On May 26th 1966, at the Politecnico di Milano’s Faculty of Architecture, Ernesto Nathan Rogers gave a commemorative speech dedicated to Le Corbusier, who had passed away the previous year (Cap Martin, August 27th 1965). The eulogy, entitled, Le Cobusier tra noi (Le Corbusier among us), was published that same year by the publisher All’insegna del pesce d’oro, of Milan, founded by Vanni Scheiwiller. Referring to his earlier writings and also to his university lectures on the masters of Modernism, this piece constitutes a kind of conceptual map of the logical and temporal development of Rogers’ interpretation of the Swiss master. Re-reading it fifty years later inspired an exploration of Rogers’ original thoughts on Le Corbusier, built on admiration and esteem - though not without a few criticisms - and enlivened by that ‘anti-celebratory’ regard in which he held the masters. Keywords: Ernesto N. Rogers; eulogy; Le Corbusier Design by Analogies: Le Corbusier’s Method, Martina Landsberger (p. 87) According to the Italian dictionary, the word ‘analogy’ means similarity or equivalence of proportions, characteristics, functions, form or structure. To build analogies, or to think in analogies, is to draw on experiences and knowledge gained and renew the idea by adapting it to a new reality. This cognitive method applies to all human learning, not excluding the field of design, which nature is also rational. Of all the masters of modern architecture, Le Corbusier was the one who adopted this method of learning with greatest clarity, as his writings frequently testify. Through analysis of some of his projects (Maison Citrohan, the Unitès d’Habitation and the Monastery of La Tourette), this contribution aims to highlight his specific learning and planning methodology. Keywords: analogy; history; typology New Methods for Studying Transnational Architecture and Urbanism: A Primer, Davide Ponzini, Fabio Manfredini (p. 97) Thanks to new technological advancements and due to global economic arrangements, today architectural firms simultaneously practice in multiple countries. Extremely complex projects, such as iconic museums or tall skyscrapers are often awarded to architects who are internationally known. The role and contribution of such architectural and urban projects in contemporary cities have been heatedly debated in both scholarly and public arenas for quite some time now. Nonetheless no one has collected systematic evidence regarding the magnitude of transnational projects, their histories and geographical trajectories, the strategies of multinational design firms and how cities plan such projects. This paper provides an early account of ongoing research activities for constituting the first spatial database dedicated to mapping transnational projects and to developing qualitative and quantitative methods. Keywords: spatial analysis; transnational urbanism; transnational architecture Public Spaces and Sustainable Urban Development. The Experience of the La Ciudad Amable Programme in Andalusia, Gaia Redaelli (p. 111) Today, public spaces constitute one of the keys to urban development, together with social integration and sustainability, in a European city model. The recent protests in Spain’s squares have reinterpreted these as a place for social debate and the right to the city. The Europa 20/20 guidelines were designed to promote sustainable urban policies for reducing carbon emissions, largely due to mobility in public spaces. The experience of the La Ciudad Amable programme, promoted by the Regional Government of Andalusia in conjunction with the local authorities, created a new cultural paradigm in a country featuring an expansion model necessitating a move «from speculation to the culture of renovation», starting with the regeneration of public spaces as a place for the collective and the sustainability of the contemporary city. Keywords: public spaces; right to the city; sustainable urban development Re-structuring of Housing Policy in Italy: Processes, Subjects and Forms of Territorial Coverage, Ignazio Vinci (p. 123) This article provides a critical interpretation of the metamorphosis of housing policy in Italy over the last two decades under the influence of several processes: the reduction of the role of the State in the provision of public housing; the effect of the crisis on the welfare of urban communities and the capacity of local government to deliver effective urban policies; the most recent process of institutional rescaling, leading to a controversial reallocation of powers in several key sectors for local development, including housing policy. In the final section of the work, five main policy dimensions are identified (house, neighborhood, community, individual, system) with the aim of exploring the changing directions of housing policy in terms of paradigms, tools and territorialisation. Keywords: housing policy; urban question; Italy Inland areas: an important territorial ‘slant’ for the definition of integrated regional cohesion policies, Mauro Francini, Annunziata Palermo, Maria Francesca Viapiana (p. 132) In the Europe 2020 Strategy, the territorial dimension is an issue of particular interest which is also reflected in national and regional policy documents of the ‘Strategy for internal areas’. These areas, regarded as the productive paradigm of the green economy, are placed at the center of a new model of sustainable economic development. In this regard, we present the first results of a research project with the aim of identifying appropriate development interventions on one of 190 Territorio project-prototype areas of the Region of Calabria (follower territories), through the delineation of ‘good practices’ of the territories defined as a front- runners, or rather positive ‘experience bringers’ on issues that characterize some of the local development objectives. Such practices may be integrated with processes of participation and co-designing of actions provided for within the action Plans. Environmental assessment in Lombardy: a tool that does not judge the sustainability of plans, Pier Luigi Paolillo (p. 140) In Lombardy, the SEA plan, at all its levels and in all its forms, has undergone widespread dissemination throughout the entire regional area. Many municipalities, having endorsed Agenda 2000, have begun publishing their Reports on the state of the environment. Bearing in mind the high expectations to which the SEA is responding, this article attempts to provide an overall review of the tool’s implementation in Lombardy. Virtuous urban planning through selective, determining, binary and unequivocal SEAs, and therefore good choices for the Region as a whole? The reality is very different. A comparison, using multidimensional analysis, of all the scoping documents of SEAs drawn up by the municipalities of Lombardy reveals a disappointing picture. This is the umpteenth regulatory debacle in the face of today’s incoherent empiricism: the impossibility of introducing a selective, determining, binary and unequivocal SEA. Keywords: SEA; multidimensional analysis; Lombardy Are we entering a new phase in the utilisation of Italy’s military heritage?, Francesco Gastaldi, Federico Camerin (p. 151) Despite a long process, many Italian municipalities are still failing to utilise their heritage of abandoned public buildings as an opportunity for regeneration and urban development. The continual changing of objectives and tools at national level has created illusions and frustrations with institutional and economic players at local level, resulting in a condition of perpetual uncertainty. The Renzi government, however, appears to be heralding a trend reversal towards greater effectiveness in bringing about concrete opportunities to utilise former military areas and buildings. The updating of three memoranda of understanding for Milan, Turin and Rome at the end of 2014 and the innovative handling of the former Arsenal of Pavia through the signing of an operating agreement pursuant to the so-called ‘Unlock Italy’ (Sblocca Italia) decree of 2015 are part of an attempt to overcome problems of coordination between players and of relationship with urban planning tools. Keywords: decommissioned military buildings; public premises; urban regeneration 191 Territorio