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nuova serie
FrancoAngeli
TERRITORIO 80_TERRITORIO 20/03/17 15:42 Pagina 1
ISSN 1825-8689
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nuova serie
80
Te r r ito r io
2017
FrancoAngeli
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Milano
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(University of California-Berkeley, Usa); Ingrid Breckner (Hafen City Universität,
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Usa); Ferran Sagarra Trias (Etsab, Barcelona, Spain); Lu Yongyi (Caup, Shanghai, Cina)
Redazione scientifica: Antonella Bruzzese, Maria Antonietta Clerici, Francesca Cognetti,
Giuliana Costa, Giovanna D’Amia, Andrea Di Franco, Pierfranco Galliani, Laura
Montedoro, Eugenio Morello, Orsina Simona Pierini, Luigi Spinelli
Redazione tecnica: Elena Gorla
Impaginazione: Cristina Bergo
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n. 80 – I trimestre 2017
Finito di stampare nell’aprile 2017
In copertina: Tokyo. Car Sharing elettrico
presso la Fujisawa Smart Town (SST),
fotografia di Francesco Secchi
aperture
7
temi
15
18
23
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40
44
progetti
48
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67
73
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87
spazio aperto
97
111
Metropolitan visions: instant, concrete, and conflict free futures?
Peter Ache
Representing, Communicating and Experiencing Cultural
Environments
edited by Anetta Kepczynska-Walczak
Rise of the Fallen: (New)Ruins Role in Shaping Cultural Understandings
Amos Bar-Eli
Narrating the Cultural Landscape. Tracing the actual significances
of heritage
Gisèle Gantois, Yves Schoonjans
The death and revival of the great textile city
Bartosz M. Walczak
Designing the framework of possibilities for viewer’s activity
Mixed reality and monuments
Rafał Zapłata
Digital Heritage’s Development in Architecture
Thomas W. Maver
Le Corbusier cinquant’anni dopo
Le Corbusier Fifty Years On
a cura di Marco Bovati, Martina Landsberger
Bottoni e Le Corbusier: nel 1949 sul Monte Stella i nodi
vengono al pettine
Bottoni and Le Corbusier: the day of reckoning arrives in 1949
on Monte Stella, Milan
Giancarlo Consonni, Graziella Tonon
Le Corbusier e i luoghi della produzione nella città industriale
Le Corbusier and Production sites in the Industrial City
Silvia Bodei
Le Corbusier al Primo Convegno Internazionale sulle
Proporzioni nelle Arti, Milano 1951
Le Corbusier at the First International Conference on Proportions
in the Arts, Milan, 1951
Anna Chiara Cimoli, Fulvio Irace
27 agosto 1965: la pubblicistica italiana di architettura
commemora Le Corbusier
August 27th 1965: Italian Architecture Journalists
Commemorate Le Corbusier
Andrea Oldani
Dalla geometria dei cristalli alla matematica della natura.
Le Corbusier negli scritti di Ernesto N.Rogers
From the Geometry of Crystals to the Mathematics of Nature.
Le Corbusier through the Writings of Ernesto N. Rogers
Marco Bovati
Progettare per analogie: il metodo di Le Corbusier
Design by Analogies: Le Corbusier’s Method
Martina Landsberger
New Methods for Studying Transnational Architecture and
Urbanism: A Primer
Davide Ponzini, Fabio Manfredini
Spazio pubblico e sviluppo urbano sostenibile. L’esperienza
del programma La ciudad amable in Andalusia
Public Spaces and Sustainable Urban Development. The Experience of the La Ciudad Amable Programme in Andalusia
Gaia Redaelli
5
Territorio
La riarticolazione delle politiche abitative in Italia: processi,
soggetti, forme di territorializzazione
Re-structuring of Housing Policy in Italy: Processes, Subjects
and Forms of Territorial Coverage
Ignazio Vinci
Aree interne: un’importante ‘inclinazione’ territoriale per
integrate politiche di coesione
Inland areas: an important territorial ‘slant’ for the definition
of integrated regional cohesion policies
Mauro Francini, Annunziata Palermo, Maria Francesca Viapiana
Un attrezzo che non giudica la sostenibilità dei piani: ecco
cos’è la valutazione ambientale in Lombardia
Environmental assessment in Lombardy: a tool that does not
judge the sustainability of plans
Pier Luigi Paolillo
Verso una nuova fase del processo di valorizzazione del
patrimonio militare italiano?
Are we entering a new phase in the utilisation of Italy’s
military heritage?
Francesco Gastaldi, Federico Camerin
123
132
140
151
recensioni
157
Francesco Gastaldi, Paola Savoldi, Patrizia Romei,
Renzo Riboldazzi, Maria Antonietta Clerici, Angela D’Orazio,
Patrizia Gabellini, Raffaella Gabriella Rizzo, Costanzo Ranci,
Patrizia Tenisci
avventure dello sguardo
176
Francesco Secchi «La visibilità discreta della Smart City»
Francesco Secchi «The moderate visibility of the Smart City»
a cura di Francesco Infussi
english summary
188
Abstracts traduzioni
6
Territorio
Le Corbusier
cinquant’anni dopo
a cura di Marco Bovati*, Martina Landsberger**
*Politecnico di Milano, Dipartimento di Architettura e Studi
Urbani
**Politecnico di Milano, Dipartimento di architettura, ingegneria
delle costruzioni e ambiente costruito
(marco.bovati@polimi.it; martina.landsberger@polimi.it)
L’esposizione dei grandi cartoni disegnati dal maestro svizzero
in occasione della conferenza del giugno 1934 presso il circolo
Filologico di Milano, oggi conservati presso l’Archivio Bottoni del
DAStU, ed esposti nella mostra Le Corbusier tra noi - Le Corbusier,
Milano e il dibattito architettonico, 1934 – 1966 (Triennale XtraPolitecnico di Milano), è stata il motore da cui partire per indagare
i rapporti che la città e il suo ambiente culturale e imprenditoriale
hanno avuto con la figura di Le Corbusier. Gli articoli di questo
servizio intendono proseguire nella ricerca, ampliando lo sguardo
alla cultura italiana e approfondendo alcune questioni specifiche.
Giancarlo Consonni e Graziella Tonon indagano il ruolo giocato da Le Corbusier all’interno dei CIAM, in particolare quello
del 1949 svoltosi a Bergamo, in cui si assiste all’insorgere di
un dissidio fra Piero Bottoni e il maestro francese. Oggetto del
contendere è la costruzione, in atto, del quartiere QT8 che Le
Corbusier, durante un sopralluogo, interpretò come una riproposizione dell’esperienza delle città giardino, quando invece
Bottoni, in un percorso originale, perseguiva il progetto di un
«quartiere giardino» dove sperimentare una nuova sintesi fra
natura e artificio. La momentanea polemica non compromise
tuttavia i buoni rapporti fra Le Corbusier e Bottoni.
Silvia Bodei rivolge la sua attenzione ai progetti per gli spazi e
gli edifici della produzione nel lavoro di Le Corbusier, facendo
riferimento anche all’esperienza avuta in occasione dell’incarico
per la progettazione del Centro di calcolo elettronico Olivetti di
Pregnana Milanese.
L’importanza degli studi corbuseriani sul tema della proporzione che, nel Primo Convegno Internazionale sulle Proporzioni
nelle Arti alla Triennale di Milano nel 1951, avevano trovato un
momento di affermazione internazionale, è affrontato da Anna
Chiara Cimoli e Fulvio Irace.
Andrea Oldani propone una rassegna critica delle reazioni della
cultura architettonica alla scomparsa di Le Corbusier, lette attraverso i numerosi articoli che vengono a lui dedicati dalle riviste
d’architettura italiane.
Marco Bovati prova a leggere la figura di Le Corbusier attraverso le parole e l’interpretazione di Ernesto N. Rogers, che al
primo ha dedicato lezioni, conferenze, editoriali, introduzioni
a cataloghi di mostre e il celebre elogio funebre ‘Le Corbusier
tra noi’, pronunciato alla Facoltà di Architettura del Politecnico
di Milano il 26 maggio 1966.
Infine il testo di Martina Landsberger mette in luce il metodo
progettuale adottato da Le Corbusier in relazione alla questione
dei riferimenti e del rapporto con la storia.
ISSN 1825-8689, ISSNe 2239-6330
I cinquanta anni della morte di
Le Corbusier hanno segnato un
momento importante poiché hanno
coinciso con l’organizzazione di una
serie di eventi il cui obiettivo è stato
sovente quello di provare a tracciare
un bilancio degli studi e delle
riflessioni su una figura complessa
e sfaccettata con cui la cultura
architettonica si confronta da diversi
decenni.
Gli articoli che compongono questo
servizio intendono contribuire a
una riflessione sull’attualità del
pensiero corbuseriano, oltre che
sull’avanzamento degli studi e delle
ricerche in atto, indagando l’eredità
lasciata dal maestro in rapporto
non solo ai temi della relazione con
la cultura architettonica milanese
(oggetto della mostra ‘Le Corbusier
tra noi’, Triennale Xtra-Politecnico
di Milano, giugno-settembre 2015)
ma anche aprendo a questioni più
propriamente teorico-compositive
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Territorio 80, 2017
Le Corbusier entra in mare a Cap Martin
Fonte: © FLC/SIAE, 2017
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Territorio
Bottoni e Le Corbusier:
nel 1949 sul Monte
Stella i nodi vengono al
pettine
Giancarlo Consonni, Graziella Tonon
Politecnico di Milano, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani,
Archivio Piero Bottoni
(giancarlo.consonni@polimi.it; graziella.tonon@polimi.it)
Ciam vs Ciam: il difficile percorso per liberarsi di
riduzioni e semplificazioni
Quando iniziano a frequentare i Ciam, i giovani razionalisti
milanesi e comaschi dispongono di una preparazione assai più
solida in architettura che in urbanistica. Sul primo versante la
ricerca può contare su una dimestichezza con la grande architettura del passato, favorita dalla formazione universitaria, ma
soprattutto coltivata in proprio. In architettura l’apprendimento
profondo della lezione dei maestri modernisti – Walter Gropius
e Le Corbusier in primis –, condotto in piena autonomia, è così
potuto avvenire al di fuori di ogni imitazione superficiale e
approdare a esiti progettuali in cui si manifesta da subito una
grande maturità. In urbanistica e nel disegno urbano, invece, il
percorso è stato assai più tormentato a causa dell’arretratezza
accumulata dall’Italia rispetto alla grande cultura urbanistica
europea otto-novecentesca, prima ancora che dell’assenza al
Politecnico di Milano di ogni insegnamento in questo ambito
fino al 1929.
Così i primi Ciam, per quei giovani, costituiscono l’occasione
per aperture e scoperte in fatto di urbanistica e disegno urbano;
anche se, ben presto, la lezione dei Congressi sarà sottoposta a
verifiche interpretative e progettuali, a contatto con i problemi
concreti di specifici contesti: esperienze di tutto rispetto (se
pure non esenti da errori) da cui prenderà corpo un cammino
originale di avvicinamento alla natura complessa dei fatti urbani
e una nuova, autonoma linfa progettuale.
Ma, all’inizio, su questi temi gli italiani devono imparare a
stare a galla e a orientarsi, essendo subito gettati fra Scilla e
Cariddi, ovvero fra Gropius e Le Corbusier. A partire dal III
Ciam di Bruxelles del 1930 sui «Metodi costruttivi razionali»
si fronteggiano, infatti, due approcci – che possiamo definire
l’uno del metodo l’altro della visione –, frutto, il primo, di un
lavoro corale essenzialmente di matrice tedesco-olandese e, il
secondo, dell’invenzione solitaria di Le Corbusier. Da un lato,
un procedimento analitico avente un’immediata forza didattica
e che, muovendo dal particolare – la cellula abitativa riformata
–, insegue una razionalità negli aggregati sulla base di principi
di igienicità, efficienza e ordine geometrico: l’edificio come
accorpamento di cellule, il quartiere come assemblaggio di edifici, la città come insieme di quartieri; un procedimento che si
riassume nel «lottizzamento razionale» e può contare sulla forza
dimostrativa di realizzazioni esemplari che, nutrite di apporti
sistematici, a cominciare da quelli di Gropius, compongono un
ideale manuale in progress.
ISSN 1825-8689, ISSNe 2239-6330
Nei primi Ciam i giovani razionalisti
italiani vennero subito gettati
fra Scilla e Cariddi, ovvero fra
Gropius (il metodo) e Le Corbusier
(la visione). I fautori del metodo
si misuravano con il problema
dell’espansione insediativa senza
occuparsi della città costruita,
mentre Le Corbusier faceva della
cancellazione della città fino allora
conosciuta il suo obiettivo primo.
Già nel Ciam di Atene del 1933
Fernand Léger ammoniva sui guasti
che sarebbero potuti derivare da
quelle semplificazioni. Al Congresso
di Hoddesdon nel 1951 Piero Bottoni
riprese il discorso di Léger con
argomentazioni più circostanziate.
Un modo per rispondere, a due anni
di distanza, allo scontro fra lui e Le
Corbusier al VII Ciam di Bergamo del
1947 durante la vista al QT8. Se nel
1951 Fernand Léger riconosceva in
Bottoni «l’inventeur de montagnes
e de magnifiques constructions
populaires», il giudizio positivo su
quella esperienza è ribadito nel Ciam
di Dubrovnik del 1956
Parole chiave: Ciam; disegno
urbano; quartiere
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Territorio 80, 2017
Dall’altro, il ciclone Le Corbusier: l’antididatta ammantato di
eroismo, il produttore di sistemi teorici frutto di assiomi concatenati tradotti in disegni accattivanti, l’oratore armato di una
ferrea logica deduttiva scambiata per scientificità, il profeta del
rifacimento ab imis del mondo, pronto a qualsiasi compromesso
con i poteri forti pur di mettere in pratica la sua rivoluzione
urbanistica (linearmente dedotta dalla rivoluzione architettonica che dava per acquisita e di cui si riteneva l’artefice primo).
I due approcci, entrambi frutto di semplificazioni, possedevano
un grado di applicabilità alquanto diverso; come diversa era la
pericolosità, dal momento che i fautori del metodo si misuravano con il problema dell’espansione insediativa senza mettere
le mani sulla città costruita, mentre Le Corbusier faceva della
cancellazione dei tessuti urbani storici, ovvero della città fino
allora conosciuta, il suo obiettivo primo.
Tra i pochi ad avvertire per tempo i guasti prodotti da quelle
semplificazioni c’è Fernand Léger. Invitato al IV Ciam, il grande
artista il 6 agosto 1933 tiene un discorso ai congressisti rivolgendo ai loro lavori «uno sguardo amichevole e critico […]
con la necessaria presa di distanza». Vale la pena riprenderne
alcuni passaggi:
«In piena fase eroica, nascente e creatrice, voi avete spianato
violentemente il terreno. […] Ma ritengo terminata la vostra
epoca eroica, l’epoca calda. Lo sforzo di pulizia è finito. Fermatevi, perché avete passato la linea, l’epoca fredda comincia. […]
Ma la vostra formula vuole estendersi. La parola «urbanistica»
vuole ormai dominare la questione estetica.
Urbanistica è un fatto sociale. Voi entrate in tutt’altro campo,
un ambito in cui le vostre formule pure e radicali avranno da
ingaggiare una lotta. Il dramma per voi comincia esattamente
qui […].
Avete creato un fatto architettonico assolutamente nuovo. Ma
dal punto di vista urbano-sociale, avete esagerato per eccesso
di velocità. […]
Siete condannati a trovare i «valori di ricostituzione». […] Il
problema è essenzialmente umano. […]
Siete partiti a una tale andatura che non avete guardato indietro, dovevate voltarvi. Avreste visto che non siete seguiti. […]
C’è la necessità per uomini come voi di avere dietro di voi e al
vostro fianco uomini che si aspettano qualcosa, c’è la necessità per voi di prenderli in considerazione più attentamente.
Mettetevi i vostri piani in tasca, scendete in strada, ascoltateli
respirare, prendete contatto, tempratevi nella materia prima,
camminate nello stesso fango e nella stessa polvere» (Léger,
19331: 44 e 47, trad. ns).
Le parole di Léger delineano una profezia destinata ad avverarsi.
Pur tra indecisioni e difficoltà, i cinque Ciam del dopoguerra
conosceranno un netto cambiamento di rotta rispetto ai cinque
d’anteguerra, ponendosi proprio alla ricerca di quelli che il
pittore di origini normanne aveva chiamato i «valori di ricostituzione». Infatti, nonostante appena dopo la guerra non si faccia
che mettere in agenda la verifica delle applicazioni della Carta
di Atene (VI Ciam, Bridgewater 1947; VII Ciam, Bergamo 1949),
nelle discussioni congressuali e in quelle preparatorie aumenta
l’interesse per questioni essenziali fino ad allora trascurate: i rapporti di prossimità, le relazioni fra l’architettura e le altre arti, i
valori simbolici, il cuore della città (VIII Ciam, Hoddesdon 1951).
In altri termini, i Ciam del dopoguerra vanno controcorrente,
Dall’alto:
– Le Corbusier e Walter-Gropius al Ciam di
Hoddesdon, 1951. Foto con dedica autografa di
Le Corbusier a Piero Bottoni
Fonte: Archivio Piero Bottoni (Apb)
– Copertina e frontespizio di Manière de
penser l’urbanisme con dedica autografa di Le
Corbusier a Piero Bottoni, 26 luglio 1949.
Fonte: Apb
51
Territorio
ma non alla maniera dell’avanguardia: la corrente che diversi
congressisti – non certo Le Corbusier – si sforzano di rimontare
è quella creata dagli stessi Ciam; e questo perché molti partecipanti vogliono che i Congressi escano dall’astrattezza e affrontino i grandi problemi della Ricostruzione camminando «nello
stesso fango e nella stessa polvere» degli esseri umani in carne
ed ossa, profondamente segnati dalla guerra. Questo sforzo,
seppur in larga parte fallito, riporterà comunque faticosamente
i Ciam nell’alveo della grande urbanistica europea di cui prima
della guerra si erano proposti come liquidatori; ma il percorso
intrapreso si dimostrerà assai difficoltoso per la mancanza di
autocritiche aperte, incompatibili con l’alone mitologico di cui
i Congressi di architettura moderna si erano circondati.
Piero Bottoni è tra coloro che hanno provato a innescare l’autocritica. Al Congresso di Hoddesdon, in un breve scritto presentato il 14 luglio 1951 sotto forma di Constatation et resolution,
il progettista del QT8 sembra riprendere il discorso di Léger con
argomentazioni più circostanziate:
«[…] arrivati a questo punto, occorre che il Ciam, partito da
un’intuizione e da una sensibilità dei problemi umani e sociali,
per merito di questi eminenti architetti, riconosca l’enorme
divario che corre fra le proposizioni teoriche e la realtà delle
concrete realizzazioni concesse a questi membri, siano essi i
più fortunati e meritevoli.
Il Ciam, che ha indicato i diritti umani e civili dell’uomo
teorico, deve dichiarare la sua solidarietà con l’uomo sociale.
[…] deve indicare i fini morali e sociali della sua attività. […]
Occorre affermare che il Ciam ha come scopo primario la
risoluzione di problemi che, nell’ambito dell’architettura e
dell’urbanistica, interessano in ciascun paese il miglioramento
delle condizioni di vita della gran parte della popolazione e
di quella che ne ha maggiormente bisogno; pertanto ogni
progettazione deve, prima di tutto, rispondere a questa necessità […].
Il Ciam deve rendersi interprete […] di tali necessità presso
le autorità, le direzioni tecniche, i ministeri, gli organismi di
ogni sorta a cui spetta la gestione della cosa pubblica. L’autorevolezza conseguita ormai consente e obbliga il Ciam ad
affermare una simile necessità anche in conflitto con questi
organismi, se sarà necessario»2.
Quella di Bottoni non è che una delle testimonianze del malessere serpeggiante nei Ciam del dopoguerra rispetto alla
riduzione della realtà umana all’«uomo teorico». I Congressi
di architettura moderna avevano eletto a riferimento i bisogni
biologici e funzionali di un essere umano astratto, privato della
sua natura di «animale sociale» radicato in una cultura e in uno
spazio specifici, nella convinzione che proprio tali riduzioni
e semplificazioni avrebbero consentito di definire soluzioni
scientifiche universali, valide per ogni contesto. Più che mai
riduzioni e semplificazioni sono tutt’uno con una smisurata
volontà di potenza, che ha in Le Corbusier il campione per
antonomasia. Si può anche formulare l’ipotesi che proprio Le
Corbusier sia il destinatario primo della resolution di Bottoni:
un modo per rispondere, a due anni di distanza, allo scontro
fra lui e il maestro svizzero al VII Ciam di Bergamo del 1949, di
cui diremo più avanti. C’è anche questo; ma il contenuto della
resolution va ben oltre i fatti personali, come del resto poco o
nulla di personale c’era in quello scontro.
Dopo il Congresso di Hoddesdon – sui cui lavori Alfred Roth,
uno dei congressisti più acuti e vigili, in una lettera a Bottoni
esprimeva un giudizio «molto positivo»3 – nei Ciam si assiste al
fallimento del tentativo di arrivare a una Carta dell’Habitat che
costituisse un reale superamento della Carta d’Atene: il cambio
di passo auspicato da Bottoni, come da diversi altri congressisti,
non avverrà.
A 15 mesi dalla morte di Le Corbusier, il 19 novembre 1966, in
una conferenza tenuta a Como in onore di Terragni sul tema
L’urbanistica prima e dopo la Carta d’Atene, Bottoni tornerà sulla
questione con un bilancio a tutto tondo:
«Preoccupati di esercitare le infinite supplenze di scienze esatte
e certamente sperimentatissime alla ricerca di leggi e tecniche
per una dottrina nuova e inesatta come la loro, e quindi ancora terribilmente soggettive, quegli urbanisti [dei Ciam] si
preoccupavano di entrare nei campi e nelle sfere di quelle altre
dottrine e scienze e non altrettanto, come sarebbe stato giusto,
di pensare i limiti della propria dottrina e, meglio ancora, il
rapporto possibile fra intervento urbanistico e architettonico
e intervento sociale: cioè in una parola il rapporto politico di
queste diverse esigenze.
La realtà politica, la grande realtà politica, la realtà vera di un
mondo di massa, disintegrato e reintegrato e trasformato dalle
rivoluzioni e dalle guerre e dalle intercomunicazioni fisiche e
spaziali del pensiero, non fu mai affrontata nella famiglia dei
Ciam forse perché non lo poté o perché ne ebbe paura.
Certo è che questa realtà politica era tabù e non averne
parlato spense la voce dei Ciam: importantissim[i] per quello
che ha[nno] fatto, [sono] scompars[i] per quello che non
ha[nno] fatto»4.
L.C.: l’architetto (sublime) fornisce il lasciapassare
all’urbanista (antiurbano)
Dopo aver tradotto nella macchina da guerra della Ville Radieuse
la convinzione che la città ereditata dalla storia sia un male assoluto da eliminare dalle fondamenta, Le Corbusier è un fiume
in piena che non conosce dubbi e revisioni. Nelle sue intenzioni,
i Ciam, nell’indirizzo che egli riesce a imprimere nella fase che
va dal V Congresso di Parigi del 1937 fino almeno al VII Congresso di Bergamo del 1949, sarebbero dovuti diventare l’ambito
di ratifica e amplificazione di quelle tesi. Funzionale a questo
disegno è anche l’operazione compiuta con la pubblicazione
nel 1943 della cosiddetta Carta d’Atene5. Con questa mossa Le
Corbusier intendeva assicurarsi il ruolo di regista nella ripresa
dei Ciam del dopoguerra: un’aspirazione egemonica che toccherà
il culmine con il VII Ciam di Bergamo del 1949. In quella fase il
maestro svizzero era infatti convinto che la sua linea disponesse
nei congressi della maggioranza assoluta. Confortato, ma in
realtà fuorviato da Josep Lluis Sert, Le Corbusier dava infatti per
scontato l’adesione alle sue tesi delle delegazioni dei paesi latini
(una supposizione che si rivelerà illusoria almeno per quanto
concerne i delegati italiani).
Le Solutions de principe che Le Corbusier presenta a Parigi nel
1937 (Le Corbusier, 1937) sono un succedersi di condanne senza
riserva della città esistente e di proposte di radicale riorganizzazione dell’habitat date come inevitabili sulla base di argomenti
unilaterali: «il grande spreco delle città-giardino»; la necessità di
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Territorio
Dall’alto
– P. Bottoni, E. Cerutti, V. Gandolfi, M. Morini, G. Pollini, M. Pucci, A. Putelli, Progetto del QT8,
gennaio 1947. Modello
Fonte: Apb
– QT8: il comparto sud-ovest in costruzione, estate 1951. Veduta aerea
Fonte: Apb
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Territorio
liberare il suolo dall’«ossificazione» rappresentata dalla proprietà
privata; la condanna della «rue-corridor» e la proposta della quasi
totale riconquista del suolo alla natura (una sorta di ritorno alle
palafitte reso possibile dalla tecnica); la standardizzazione e la
produzione industriale dell’alloggio; ecc.).
A dare sostanza alle Solutions de principe, Le Corbusier presenta un nuovo progetto per la capitale francese. Come già
nel Plan Voisin del 1925, il Plan de Paris del 1937 prevede
demolizioni e ricostruzioni radicali su un’ampia porzione del
centro storico tra il Louvre e Montmartre. Del piano del 1925
ripropone anche l’autostrada urbana sopraelevata che avrebbe
dovuto attraversare Parigi da est a ovest. Come non bastasse,
avanza la proposta di estendere l’operazione di ricostruzione
totale ad altre porzioni della città compatta giudicate insalubri,
con soluzioni che hanno la pretesa dell’esemplarità e della
replicabilità. La furia iconoclasta verso la città esistente non
conosce limiti.
A dare credibilità al Le Corbusier urbanista, e a garantirgli
spazio nei Ciam, è anche la posizione autorevole di Sigfried
Giedion. Nel 1941, in Spazio, tempo ed architettura Sigfried
Giedion trascura di parlare sia del Plan Voisin sia del suo
aggiornamento del 1937. Di quest’ultimo, lo storico e critico
di architettura, segretario e gran pilota dei Ciam, si limita a
illustrare solo un dettaglio: il progetto per l’«hilot insalubre,
n. 6» su cui non ha nulla da ridire; per di più, accoglie positivamente la proposta dell’autostrada che avrebbe dovuto farsi
largo nel corpo della città, definendola «un parallelo dei progetti
di Haussmann, adattato alle esigenze di oggi»6 (Giedion, 1941,
trad. it. 1975: 733).
Rispetto all’opera urbanistica di Le Corbusier, Giedion si barcamena tra l’ammirazione per le proposte radicali di ridefinizione
dell’habitat e la consapevolezza che «la conoscenza tecnica non è
stata ancora riassorbita e umanizzata da un sentimento equivalente». Riconosce che ciò che chiamiamo realtà è il campo dello
scatenarsi di un’«energia» e di un «potere esterno» che «non
sono che vani tentativi di affrontare i multilaterali e complessi
problemi del giorno per mezzo di una spietata semplificazione»
(Giedion, 1941, trad. it. 1975: 733, sottolineature ns.), ma non
vede che proprio la «spietata semplificazione» è il tratto distintivo di larga parte delle elaborazioni dei Ciam, di quelle di Le
Corbusier in primo luogo: un approccio e una forma mentis che
per molto tempo impedì ai Ciam di cogliere tratti essenziali della
cultura della città, che pure – e qui sta la contraddizione –, tra
un’illustrazione e l’altra dei progetti modernisti, Giedion nel
pieno della seconda guerra mondiale non manca di richiamare:
«[La città] è il risultato di molte culture differenziate, in molti
diversi periodi. Il problema della sua vita o morte non può essere risolto semplicemente sulla base di esperienze o condizioni
attuali. La città non può essere condannata alla distruzione
per il solo fatto che dall’epoca dell’industrializzazione ne è
stato fatto mal uso o perché la sua intera organizzazione è
stata sopraffatta dall’invadenza di una scoperta meccanica,
l’automobile (Giedion, 1941, trad. it. 1975: 712-713)».
Sarebbero bastate queste considerazioni a mettere fuori gioco
le proposte urbanistiche di Le Corbusier. Ma invano si cercherà
nell’opera di Giedion una coerenza in tal senso. Anzi: riferendosi
a Haussmann, il segretario dei Ciam fa proprio, alla lettera, uno
dei punti cruciali da cui procedono le proposte urbanistiche di
Le Corbusier: la condanna a morte della strada corridoio:
«Nel nostro periodo sono necessari atti ancora più eroici: La
prima cosa da fare è abolire la con il suo rigido allineamento
di edifici e la sua mescolanza di traffico, di pedoni e di case.
La costituzione essenziale della città contemporanea esige la
restituzione della libertà a tutti e tre gli elementi: al traffico,
ai pedoni e ai quartieri residenziali e industriali. Soltanto una
netta separazione può realizzare questa libertà».
Tutto questo per dire che, se fuori dei Ciam non sono mancate
critiche coeve ai progetti urbanistici dell’autore della Ville
Radieuse, il Le Corbusier architetto (di indiscusso valore) ha
fornito al Le Corbusier urbanista una sorta di lasciapassare che
gli consentiva di avanzare le proposte più dirompenti (per non
dire altro) e di presentarsi, ancora dopo il dramma della guerra,
come un maître à penser in grado di condizionare, quando non
di orientare, il percorso dei Ciam.
Sintomatico di questa capacità di seduzione è il volume Le Corbusier
che nel 1945 Giancarlo De Carlo cura per i tipi di Rosa e Ballo (Le
Corbusier, 1945): nella sua prima pubblicazione di rilievo, colui
che sarà tra i contestatori dei Ciam con il TeamX, ben all’aldilà
dell’intento di dare vita a «un documentario a carattere divulgativo»
(Le Corbusier, 1945: 10) di fatto rendeva un omaggio al Le
Corbusier teorico senza distinguere fra architettura e urbanistica:
un riconoscimento incondizionato, nonostante l’imbastitura di
un timido contraddittorio fra chi aderiva entusiasticamente e chi
avanzava riserve sull’opera del maestro svizzero.
La verifica della realtà: lo sfaldarsi del disegno egemonico
di L.C. al VII Ciam di Bergamo del 1949
Tutto era stato predisposto da Le Corbusier perché il Ciam del
1949 sancisse il trionfo delle sue proposte urbanistiche. Ma al
Congresso di Bergamo Le Corbusier entra papa ed esce cardinale:
nulla va nel senso sperato. La Grille ([Le Corbusier], s.d. [1948]),
da lui ideata per consentire la rapida comparabilità dei 28 casi
studio, si rivela ben presto un ostacolo a valutazioni di merito e
alla crescita di un confronto reale e fecondo. Le conclusioni del
Congresso, poi, andranno in tutt’altra direzione a testimoniare
di un sostanziale rifiuto delle tesi che, anche in questo caso,
L.C si era premurato di predisporre. Sollecitato dal Conseil
national économique, Le Corbusier aveva appena messo a punto
una sorta di Carta dell’habitat francese; lo scritto, apparso con
il titolo L’habitation moderne sulla rivista «Population» (Le
Corbusier, 19487), era stato distribuito ai partecipanti al VII Ciam
di Bergamo nella speranza che ne facessero la base del nuovo
manifesto operativo dei Ciam, in linea con la Carta d’Atene.
La tesi programmatica centrale de L’habitation moderne era
uno sviluppo delle Solutions de principe del 1937: l’assoluta
necessità di passare dalla città giardino orizzontale alla città
giardino verticale. Nulla di nuovo rispetto alla Ville Radieuse,
se non che la realizzazione in corso dell’Unité d’habitation di
Marsiglia dava concretezza a quella tesi. Era quella «l’unità di
abitazione conforme» che, se replicata in un «parco immenso
pieno di sole, di spazio e di verde», avrebbe dato vita a una «città
verde» (Le Corbusier, 1948: 425):
«Ci siamo applicati ostinatamente per venticinque anni, abbiamo incessantemente rinnovato e messo a punto le nostre
proposte di unità di abitazione, abbiamo risolto questioni
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Territorio
particolari per Parigi, per le colonie, per l’estero. Dappertutto
abbiamo fatto passi avanti sul piano teorico. È la Francia che,
nel mondo, qui troppo ricco, là troppo povero, fa oggi il gesto
coraggioso affidando l’incarico di un lavoro di Stato di questa
importanza su un tema gravido di conseguenze. ‘L’esperimento
di Marsiglia’, come lo si chiama, se riuscisse, aprirebbe le porte
all’urbanistica moderna e alle sue conseguenze.
La costruzione di Marsiglia, vilipesa da molti, è osservata
all’estero con enorme interesse: si tratta infatti della maniera
di vivere dell’uomo della civilizzazione macchinista» (Le Corbusier, 1948: 431, trad. ns.).
Ma quello che doveva essere l’asso nella manica, l’Unité di Marsiglia, a Bergamo non ebbe affatto l’entusiastica adesione che il
suo autore sperava. L’habitation moderne non figlierà la Carta
dell’habitat dei Ciam. L’auspicato sviluppo della Carta d’Atene
non solo non vide la luce nel Congresso di Bergamo: non uscirà
nemmeno da quelli successivi, nonostante il tema venga nuovamente affrontato, in particolare a Dubrovnik nel 1956.
E qui veniamo allo scontro con Bottoni: un contrasto per nulla
premeditato, se si tiene presente che è avvenuto appena due giorni
dopo l’apposizione al volume Manière de penser l’urbanisme (Le
Corbusier, 1946) della seguente dedica: «Pour Bottoni sempre!
Comp [? Compagnons] CIAM depuis 1929 et nous sommes
toujours d’accord et ami Le Corbusier 26 juillet 49»8.
La dedica potrebbe suonare come una captatio benevolentiæ,
funzionale a ottenere consenso al disegno egemonico di cui si è
detto; ma può anche esser vista come la conferma del riconoscimento che Le Corbusier rendeva, nello stesso volume, all’«azione
largamente feconda dei Ciam a Milano» (Le Corbusier, 1946:
37). Certo: nello scontro può aver pesato, come sostiene Paolo
Nicoloso (Nicoloso, 2012: 297-312), il clima non favorevole che
a Bergamo Le Corbusier, con grande sorpresa, aveva avvertito
fin dai primi giorni. Ma a entrare in campo è proprio la tesi
programmatica de L’habitation moderne, quella su cui in quel
momento Le Corbusier giocava il tutto per tutto. I termini del
contrasto, così come il suo concreto verificarsi, sono ben restituiti
da Nestorio Sacchi, testimone diretto dell’accaduto:
«Il divario di opinioni sui concetti di città verticale o città
orizzontale vide a Milano uno scontro tra Piero Bottoni e Le
Corbusier durante la visita dei congressisti al quartiere QT8
a San Siro. […]
[Il QT8] si stava realizzando sulla base di un progetto urbanistico che prevedeva, a seconda delle diverse forme di finanziamento e delle necessità dell’utenza, vari tipi di edificazione
che passavano dal grande edificio residenziale a nove piani,
alle case unifamiliari ed alle case a quattro piani realizzate con
vari metodi di prefabbricazione.
Saliti al culmine della collina artificiale ricavata con l’accumulo
dei detriti derivati dagli edifici di Milano distrutti dai
bombardamenti, visto dall’alto il quartiere in costruzione e
ascoltate le illustrazioni di Bottoni, Le Corbusier espresse una
critica brutale sul piano urbanistico […]» (Sacchi, 1988: 72).
Altri testimoni diretti hanno confermano la ricostruzione di
Sacchi. Tra questi Marco Zanuso che, in un’intervista rilasciata
a Enrico Valeriani del 1994, ricorda: «Quello di Bergamo è stato
un congresso molto vivace, con un Le Corbusier molto arrabbiato» (Valeriani, 1994, ora in Valeriani, 2012: 129). Zanuso
doveva ricordare benissimo quanto accaduto sul Monte Stella in
Dall’alto:
- Fernand Léger e Piero Bottoni sul Monte Stella
in costruzione, 1951
Fonte: Apb
- Copertina e frontespizio de Les Constructeurs con
dedica autografa di Léger a Piero Bottoni, 1951
Fonte: Apb
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Territorio
costruzione, dal momento che a scatenare le critiche del maestro
svizzero furono le prime realizzazioni del QT8 – le casette per
reduci dislocate nel comparto nord-occidentale del quartiere –
di cui egli era uno dei 24 progettisti9. Alla base della presa di
posizione di Le Corbusier c’era però un fraintendimento: non si
era in presenza di un inizio di città giardino, bensì, come dirà
in seguito lo stesso Bottoni, di un «quartiere giardino», dove
semmai, a ben vedere, si stava mettendo in atto una sintesi originale tra la lezione di Gropius e quella dello stesso Le Corbusier.
Bottoni avrà modo di illustrare gli elementi caratterizzanti il
progetto in progress del QT8 in una conferenza tenuta alla Scuola
dei Ciam di Venezia nell’ottobre 1952:
«È la prima volta, credo che nel progetto di un quartiere si
cerca di modificare sensibilmente la natura. Si tratta di un
problema molto importante per Milano. A Milano non esiste
del panorama. […] Nel QT8 ho cercato di costruire un secondo
e un terzo piano: ciò che appare in un luogo dove c’è un
fiume che attraversa un quartiere: lì si è creato la montagna e
il lago. Vi faccio notare che queste due realtà rientrano nello
spirito di sperimentazione del quartiere che è un quartiere del
tutto speciale destinato a sperimentazioni […] necessarie […]
a ottenere dati chiari per la sperimentazione di determinati
problemi edilizi in Italia. C’è una zona del quartiere che è
destinata alla sperimentazione della prefabbricazione […]. In
un’altra zona si sono sperimentate case in serie con planimetrie
differenti. Si è creato un campo giochi per i bambini che è il
solo esistente a Milano. È incredibile ma è così.
Passando dalle questioni di architettura agli elementi del
panorama che sorge lentamente, illustro qualche aspetto di
questo panorama: al fondo della strada principale si comincia
a vedere un elemento che è la collina che si sta costruendo.
[Essa] formerà naturalmente un elemento destinato a fare
da sfondo panoramico, di decoro del quartiere, ma anche un
elemento fondamentale per la città»10.
Va detto che le difficoltà e la lentezza incontrate nella realizzazione
del quartiere hanno fatto la fortuna del QT8 e di Bottoni in quanto,
consentendo provvidenziali aggiustamenti di tiro (Tonon, 2005:
34-103), hanno rafforzato il carattere sperimentale che l’impresa
voleva avere fin dal suo concepimento. Oltre alle sperimentazioni
relative alle soluzioni tipologiche e ai metodi costruttivi, il punto
più alto a cui l’esperimento è pervenuto è l’integrazione del
disegno urbano con l’architettura del paesaggio. È qui, oltretutto,
che Bottoni è potuto andare fino in fondo nell’obiettivo che si
proponeva: fondere razionalismo e organicismo.
Certo: nel 1949, da quanto si poteva scorgere dal Monte Stella in
costruzione, tutto questo si presentava ancora allo stato larvale;
ma, a un occhio attento e non prevenuto che si fosse avvalso
anche della documentazione fornita ai congressisti (le tavole
del progetto d’assieme e il filmato sui primi grandi lavori di
sistemazione del suolo), il senso di quanto si stava realizzando
non sarebbe sfuggito.
Non si saprà mai se Le Corbusier non vide o non volle vedere;
o se, come non è da escludere, nel suo giudizio pesasse l’irritazione per non essere stato chiamato a questa impresa, dopo che
tra i membri del Ciam era circolata la voce che il QT8 sarebbe
stato un nuovo Weissenhof e dopo che in effetti lo stesso Bottoni
si era attivato per avere la collaborazione di figure prestigiose
dell’architettura moderna, a cominciare da Le Corbusier.
Lo scontro del 28 luglio del 1949 non portò comunque alla
rottura di una lunga amicizia, fatta anche di scambi fecondi
(Archivio Bottoni, 1983; Consonni, 2010: 188-199; Consonni,
2012: 279-285; Consonni, Tonon, 2016: 13-23): vari fatti e più
di un documento conservato nell’Archivio Bottoni lo attestano.
Nell’autunno del 1953 Le Corbusier inviava a Bottoni la stampa
di un suo manifesto in cui in calce a un disegno tripartito si legge:
«Il faut se battre contre des moulins! Il faut renverser Troie…
Il faut être cheval de fiacre, tous les jours!
Bon courage! votre L-C. 6 octobre 53»11.
Era un inno al lavoro paziente, ma preceduto da un elogio dell’utopia. Dieci anni dopo, il 6 febbraio 1963, a Firenze, sull’Albo dei
visitatori illustri di Palazzo Vecchio il maestro svizzero annoterà:
«Le grandi cose non sono che l’addizione di piccole cose. Ogni
piccola cosa è una grande cosa» (La Pira, 1963). Evidentemente
il tempo dell’impazienza anche per lui era tramontato. Sono
parole che potrebbero essere poste a epigrafe del QT8: senza un
simile atteggiamento e la tenacia straordinaria del suo regista,
il QT8 non sarebbe mai esistito.
Non solo la stima e l’affetto personale di Bottoni per Le Corbusier
non vennero mai meno: saldo era il riconoscimento del debito
che lui e la sua generazione avevano per il grande architetto.
Nel 1968 in occasione del Convegno su «L’eredità di Terragni»
promosso da Bruno Zevi, Bottoni così si esprimeva a proposito
dell’autore di Vers une architecture:
«E benché col tempo tutto si attenui a contatto con le dure
realtà della vita, restano ancora queste idealità espresse da
questo uomo straordinario, da questo genio che abbiamo
tanto conosciuto e amato; che aveva saputo dare a tutto questo
movimento di cultura architettonica un tale afflato di poesia
da riuscire ad attirare attorno a sé l’interesse generale di tutti i
giovani che in quel momento si avvicinavano all’architettura»
(Bottoni, 1969).
Quanto al QT8, il dissenso di Le Corbusier fu ampiamente compensato dall’interesse mostrato da Richard Neutra, da Walter
Gropius, da Alfred Roth e da diverse altri eminenti architetti che
si recarono in visita al quartiere. Nell’ottobre del 1951 Bottoni
incasserà persino l’interesse di Roberto Rossellini, sollecitato
dal Monte Stella.
Sempre nel 1951 particolare significato ebbe poi la visita al
quartiere di Fernand Léger che, nella dedica di una copia de
Les Constructeurs così esprimeva il suo apprezzamento: «a
Bottoni l’inventeur de montagnes e de magnifiques constructions populaires» (Léger, 195112). Un giudizio tutt’altro che di
circostanza e che, alla luce del Discorso agli architetti del 1933,
assume grande peso.
Quanto al Ciam, il pieno riconoscimento del valore del lavoro
compiuto al QT8 e nel progetto del Gallaratese (non realizzato)
venne con il Congresso di Dubrovnik del 1956. Così si esprimeva
la Commissione B.7 presieduta da Georges Candilis:
«nel piano di Milano 1947-1953 […] l’applicazione della carta
d’Atene, presa in senso stretto, non ha dato risultati positivi.
Per la ragione che troppo spesso non essendo rispettata la continuità dell’abitato, gli abitanti dei nuovi quartieri si sentono
isolati in un nucleo costituito da un’unica componente sociale.
Così ‘confinati’, essi non partecipano più alla vita attiva della
società; anche quando il loro nuovo habitat rispetta i dati es56
Territorio
senziali: sole - spazio - verde [il riferimento a Le Corbusier è
smaccato, quanto indicativo, n.d.a.].
Quelle persone preferiscono vivere nei loro antichi ambienti
socialmente più vitali.
Nella revisione del piano di Milano, Bottoni ha tenuto conto
di nuovi fattori. Avendo a riferimento la composizione dei
quartieri italiani più vitali, tanto del passato che del presente,
ha liberato il carattere lineare dei loro ‘cuori’, promuovendo la
partecipazione libera e attiva del settore privato a integrazione
del programma statale e comunale»13.
Note
1. È significativo che il testo venga ripubblicato in Italia a parecchi
anni di distanza, prima con il titolo «Discorso agli architetti», Casabella
Continuità, a. XIX, 207, settembre-ottobre 1955: 69-70, e poi, col titolo
«Léger ad Atene», Spazio e Società, a. XXI, 81, gennaio-marzo 1998: 10-15.
2. Ciam 8, Commission 6. Consta[ta]tion et resolution (presenté par
Bottoni). Archivio Piero Bottoni (d’ora in poi APB), Documenti scritti.
11.10. Enti, istituzioni, manifestazioni. Trad. ns.
3. Lettera di A. Roth a Piero Bottoni del 27 luglio 1951. APB,
Corrispondenza.
4. P. Bottoni, L’urbanistica prima e dopo la carta d’Atene, Trascrizione
parziale della conferenza tenuta a Como il 19 novembre 1966,
Dattiloscritto in APB, Documenti scritti. Conferenze, interventi e lezioni
di P. Bottoni, p. 7, poi ripreso quasi integralmente nella Prolusione al
corso [di Urbanistica II] tenuta il 22 novembre 1966, ora in Bottoni P.,
1995: 448-456.
5. Quella che passa per essere la Carta d’Atene è in realtà una spiegazione
e un commento alle Constatazioni e alle Conclusioni del IV Ciam del
1933: un lavoro esegetico messo a punto sotto la guida di Le Corbusier
e raccolto in Le groupe Ciam-France, 1943. Ciò è peraltro esplicitamente
dichiarato nello stesso volume a p. 51 e a p. 237.
6. E, poco più avanti, prosegue: «Mentre stava trasformando Parigi,
Haussmann osservò una volta con amarezza che non c’erano allora
architetti all’altezza dei ‘temps nouveaux’. Nella Parigi contemporanea la
situazione sembra rovesciata: ci sono architetti, ma non amministratori
all’altezza, come era stato Haussmann, delle possibilità e dei bisogni del
tempo» (Giedion, 1941, trad. it. 1975: 735).
7. Lo scritto era introdotto da Alfred Sauvy, demografo, economista e
sociologo che dirigeva la rivista.
8. La copia con la dedica è conservata in APB, DAStU, Politecnico di
Milano.
9. A firmare il progetto di quegli edifici sono gli architetti Ildo Avetta,
Luisa Castiglioni, Ezio Cerutti, Paolo Chessa, Ciro Cicconcelli, Giancarlo
De Carlo, Vittorio Gandolfi, Eugenio Gentili Tedeschi, Vico Magistretti,
Roberto Menghi, Giovanni Monet, Augusto Romano, Maurizio Sacripanti,
Ettore Sottsass se., Ettore Sottsass jr., Mario Tedeschi, Mario Tevarotto,
Vittoriano Viganò, Carlo Villa, Marco Zanuso, e gli ingegneri: Luigi Musso,
Aldo Putelli e Giovanni Romano.
10. P. Bottoni, Urbanistica attuale in Italia, Conferenza alla Scuola Ciam
di Venezia, ottobre 1952, Manoscritto. APB, Scritti editi e inediti di Piero
Bottoni, pp. 17 e 18. Trad. ns.
11. Il manifesto è conservato in APB.
12. La copia del volumetto con la dedica è conservata nella biblioteca
di APB.
13. Ciam X Lapad, août 1956. Rapport de la commission B.7. Rapporteur:
Candilis, Bottoni [aggiunto a mano], Chemineau, Azagury, Riou,
Waltenspuhl, Gandziarek, J. M. Honegger, Michel, Blomstedt, Bresseleers,
Stranik, Mauri fils, De Vries, Biass, Minitch, Iten, De Lima. APB,
Documenti scritti. 11.10. Enti, istituzioni, manifestazioni. Trad. ns.
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e lo sviluppo dell’architettura italiana 1943-1968» tenutosi a Como il
14-15 settembre 1968]. L’architettura. Cronache e storia, XV, 163: 9,
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57
Territorio
Le Corbusier e i luoghi
della produzione nella
città industriale
Silvia Bodei
Dipartimento di Ingegneria civile, ambientale e Architettura,
Università degli studi di Cagliari
(silviabodei@unica.it)
In Les trois établissements humains (Le Corbusier, 1945, 1959),
saggio elaborato con gli amici dell’ASCORAL nel 1945, a proposito del nuovo modello urbano presentato nella pubblicazione
Le Corbusier scrive: «Nelle amarezze di questi primi cento
anni di macchinismo il lavoro ha, talvolta, talmente oscurato
luoghi e coscienze che esso, e tutto ciò che lo accompagna, è
stato considerato come una dura prova: lavoro-castigo, lavororiscatto, lavoro, insomma, disumano. Risalendo dagli effetti
alle cause, l’ASCORAL scorge, al contrario, nell’architettura e
nell’urbanistica, gli strumenti materiali attraverso i quali l’ordine
e lo slancio creativo potranno regnare negli atti umani e ciò,
appunto, attraverso il lavoro, azione permanente del quotidiano
e della vita» (Le Corbusier, 1959; ed. it. 1967: 83)1.
Per lui e per il gruppo di studiosi l’esercizio dell’intelletto e
lo ‘slancio creativo’ devono essere infatti parte essenziale del
lavoro dell’uomo, anche di quello operaio. All’interno dello
stabilimento industriale occorre allora creare le condizioni più
favorevoli per supportare e mantenere in equilibrio il ritmo
biologico naturale dei lavoratori2. La vitalità e naturalità umana
è però messa in crisi dai meccanismi ripetitivi di produzione.
L’introduzione dell’organizzazione ‘scientifica’ del lavoro,
taylorista3 e fordista4, ha poi trasformato il corpo del lavoratore
in un organismo completamente dipendente dalla macchina,
frazionabile e utilizzabile nelle sue diverse parti in base alle
mansioni assegnate dal ciclo produttivo (Crosas, 1995).
In linea con queste idee il nuovo modello urbano dei ‘tre stabilimenti umani’, che aspira all’armonia e sintonia con il ritmo
‘naturale’, è costituito da tre unità: ‘l’unità di gestione agricola’,
dove si svolge il lavoro del contadino, la ‘città lineare industriale’,
destinata a quello operaio, e la ‘città radiocentrica’ dei commerci
e servizi. Ogni attività ha infatti esigenze e peculiarità sue proprie, e non esiste sostanziale confusione tra le diverse tipologie di
occupazioni. L’urbanistica pertanto deve tendere a delineare un
‘ordine’ nel territorio, «una biologia che tenga conto della natura
del territorio in cui sorgeranno [gli insediamenti umani] e della
natura degli uomini che la animeranno. […] Avremo così una
linea generale di condotta applicabile ad una civiltà del lavoro
che entra, dopo il tumulto della crisi attuale, nel suo secondo
ciclo, tendente ad aprirsi ad un’età di armonia» (Le Corbusier,
1959; ed. it. 1967: 93).
La città ‘lineare industriale’ deve svilupparsi lungo le vie di
comunicazione per inserirsi più facilmente all’interno del movimento rapido e circolare dei prodotti, mentre la fabbrica, collocata a metà strada fra città e campagna, si trasforma in Fabbrica
ISSN 1825-8689, ISSNe 2239-6330
Nella lunga attività progettuale di
Le Corbusier le esperienze legate
a edifici e spazi destinati alla
produzione sono significative, ma
non numerose. Si tratta di progetti
isolati, e quasi mai realizzati, riuscì
a costruire infatti in tutta la sua
carriera solo la Manifattura Duval a
Saint-Dié (1946-51). La progettazione
e la riflessione teorica sulle forme
e strutture di queste architetture
lo portano ad approfondire
i meccanismi e i problemi
dell’organizzazione degli ambienti
di lavoro sino a trovare le soluzioni
più adeguate, che poi confluiranno
nella definizione del modello di
Fabbrica verde da lui teorizzato
nel saggio Les trois établissements
humains (1945). L’articolo ripercorre
alcuni aspetti dei progetti e del
pensiero dell’architetto sui luoghi
della produzione, continuamente
alimentati da riferimenti culturali
e architettonici ancora oggi molto
attuali, allo scopo di cogliere i tratti
più significativi, legati a un’idea di
funzionamento del lavoro alternativa
ai ritmi meccanici della catena di
montaggio e a misura d’uomo
Parole chiave: industria; spazi del
lavoro; urbanistica
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Territorio 80, 2017
verde, perché capace di ricreare al suo interno un ambiente ‘sano’
e organizzato secondo «una biologia delle circolazioni, della
composizione degli edifici e della sua efficienza», che «ricrea di
nuovo attorno al lavoro le condizioni di natura», e si contrappone
in questo modo alla «Fabbrica nera […] dei primi cento anni
dell’era macchinista» (Le Corbusier, 1959; ed. it. 1967: 113). Per
illustrarla concretamente prende come esempio il suo progetto
di stabilimento per tremila operai, destinato alla produzione di
armi da guerra, da realizzare a Mountiers-Rozeille, vicino ad
Aubusson. La costruzione, commissionatagli dal ministro degli
armamenti Raoul Dautry nel 1940, venne iniziata, ma subito
bloccata in seguito all’armistizio franco-tedesco del 22 giugno
1940. La fabbrica verde di Aubusson si pone come conclusione e
sintesi di un lungo percorso ideativo, elaborato negli anni da Le
Corbusier, per individuare e creare un modello di stabilimento
industriale dotato di una struttura efficiente e funzionale alla
produzione, ma capace nello stesso tempo di rispettare i ritmi
vitali dei lavoratori e mitigare così il duro e deterministico sistema di produzione taylorista.
Le esperienze precedenti di progettazione di edifici e spazi
industriali sono poco numerose, ma alcune molto significative.
Negli anni ‘10 Le Corbusier era entrato in contatto con il mondo
dell’industria, lavorando prima nello studio di Peter Behrens a
Berlino, poi con la Società A.E.G e infine come amministratore
di una fabbrica di mattoni in calcestruzzo vicino a Parigi.
Tra i suoi lavori di quegli anni troviamo i progetti di tre mattatoi nella campagna francese, a Challuy (1917-19), Garchizy
(1918) e Bordeaux (1918). Si tratta di incarichi commissionati
dalla nuova Société Nouvelle du Froid Industriel e dalla Société
d’application du béton armé (SABA) (Ragot, Dion, 1997: 29-31).
Pur non realizzati la loro progettazione permette al giovane architetto di misurarsi con la gestione del circuito di produzione
industriale e la sua organizzazione produttiva, che lui interpreta
in chiave funzionalista. Dal punto di vista strutturale Jeanneret
sceglie di applicare la struttura Domino, da lui già utilizzata per
la progettazione delle ‘case in serie’, massima espressione della
standardizzazione industriale applicata all’edilizia. La circolazione dei prodotti e delle merci è poi tra le questioni principali
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Territorio
A pagina 59:
Fig.1 – Mattatoio a Challuy (1917-19), assonometria
Fonte: ©FLC/SIAE, 2017
In questa pagina:
Fig. 2 – Mattatoio a Garchizy (1918), assonometria
Fonte: ©FLC/SIAE, 2017
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Territorio
affrontate nei progetti. A Challuy immagina uno stabilimento
articolato in vari corpi di fabbrica, attraversati da un lungo
condotto trasversale che si snoda dall’ingresso sino all’area di
spedizione, collegato poi esternamente alla strada e alla ferrovia
adiacenti. Un disegno assonometrico dettagliato mette in risalto
il percorso principale e le sue diramazioni, e mostra alcuni corpi
di fabbrica con la definizione dei prospetti, che ricordano le
grandi fabbriche contemporanee realizzate da Peter Behrens e
da Walter Gropius in Germania (fig. 1). Il progetto di Garchizy,
una località ad una decina di chilometri da Challuy, e quello
di Bordeaux sono concepiti anch’essi con un rigoroso studio
funzionale dei percorsi, ma la soluzione è diversa: un percorso
principale attraversa centralmente un unico edificio parallelepipedo, al cui interno si concentrano tutte le funzioni (fig. 2).
Nel 1926 a Pessac, all’interno del quartiere costruito per l’industriale Henri Frugès Le Corbusier aveva progettato una piccola
manifattura di tappeti, che per motivi economici non verrà anche
questo realizzato. Nel contratto firmato con il committente era
previsto infatti un fabbricato, formato dal sistema di campate
5x5 m che scandisce la struttura delle case del quartiere, con
all’interno un laboratorio per la tessitura, una sala per l’esposizione dei tappeti a doppia altezza e illuminata dall’alto e sui lati,
una vetrina espositiva, l’abitazione del caposquadra e della sua
famiglia, e nel cortile infine una zona per il lavaggio dei tessuti.
Le Corbusier elabora due varianti del progetto e diversi schizzi
mostrano la hall centrale a doppia altezza e lo studio di finestre
e lucernai, inseriti all’interno di una copertura a volte a botte
parallele (fig.4). La scelta di creare uno spazio luminoso e una
zona d’abitazione in un luogo di produzione danno un carattere
accogliente e domestico al progetto, lontano dalla concezione
spaziale dei grandi edifici industriali dell’epoca.
Nel 1929 Le Corbusier riceve infine l’incarico per il progetto di
ricostruzione della casa editrice ‘Draeger et Frères’ a Montrouge,
ma anche questo non sarà mai realizzato. Tra gli aspetti peculiari
della proposta c’è l’introduzione, all’ultimo piano dell’edificio,
di spazi destinati al tempo libero degli operai, riuniti in ‘club’
per la gestione delle diverse aree, tra cui una palestra, dotata
di tapis roulant e un trapezio da acrobata. Importante è poi
l’introduzione della luce naturale negli ambienti interni, che
viene valorizzata inserendo ai piani superiori grandi pannelli
di vetro e vetro-mattone modello ‘Nevada’ di Saint-Gobain,
soluzione che alleggerisce in modo efficace il pavimento e dà
luce al primo piano (fig.3).
Le esperienze di questi anni sono isolate, ma portano Le Corbusier ad affinare le sue riflessioni sui meccanismi industriali
e i problemi sociali e umani legati alla organizzazione degli
ambienti di lavoro. I temi e le soluzioni ideati nei progetti precedenti, in particolare la circolazione studiata in funzione del
legame tra le varie fasi del ciclo produttivo e le nuove funzioni,
l’uso di vetrate, lucernai, e di una struttura prefabbricata e
standardizzata, saranno ripresi e sviluppati nel progetto per la
fabbrica di armi ad Aubusson (1940), modello poi della Fabbrica
verde. Qui la circolazione influenza e ordina in modo strutturale
lo spazio produttivo ed è tutta l’architettura ad essere coinvolta
e influenzata dalla sua organizzazione. Le Corbusier sfrutta
la pendenza del terreno, posto tra fiume e montagna, e crea
un ingresso all’edificio sopraelevato ed una passerella chiusa,
sovrapposta alla copertura delle officine, per la circolazione del
personale, differenziandola dal percorso di ingresso e uscita al
In questa pagina:
Fig. 3 – Casa editrice Draeger et Frères a
Montrouge (1929), sezione
Fonte: ©FLC/SIAE, 2017
A pagina 62:
Fig. 4 – Manifattura Frugès, assonometria, (1926)
Fonte: ©FLC/SIAE, 2017
A pagina 63:
Fig. 5 – Vista della Fabbrica verde.
Fonte: Œuvre complète 1938-1946
Fig. 6 – Disegno di Le Corbusier a Delfi, Voyage
d’Orient, Carnet 3, 1911
Fonte: ©FLC/SIAE, 2017
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Territorio
piano terra del materiale e dei prodotti. Il circuito di fabbricazione si suddivide poi in diverse ramificazioni, a seconda delle
zone e delle fasi di produzione (V1, V2, V3), creando un sistema
continuo che ‹‹riproduce le fasi di un circuito sanguigno›› (Le
Corbusier, 1959; ed. it. 1967: 114). Eliminando i punti di rottura
della catena di produzione e montaggio, si rende in questo modo
più agevole il funzionamento dell’intero meccanismo legandolo al movimento degli operai, in quanto «queste circolazioni
esprimono la più rigida economia. Esse procedono dall’interno
all’esterno, regola che informa la vita stessa» (Le Corbusier,
1959; ed. it. 1967: 113).
L’organizzazione della circolazione interna si lega poi ad uno
studio approfondito dell’illuminazione naturale, attraverso l’utilizzo di lucernai e vetrate, che, aperte verso il verde circostante,
inseriscono un elemento completamente nuovo: la relazione tra
l’edificio e il paesaggio. Tra i numerosi disegni del progetto è
molto interessante una prospettiva dello stabilimento che mostra
le diverse volumetrie immerse nel verde e la vista maestosa
delle Alpi sullo sfondo, perché ci fa individuare il contesto
in cui la fabbrica doveva essere edificata: fuori della città, in
‹‹zone verdi selezionate per l’orientamento e il paesaggio›› (Le
Corbusier, 1959; ed. it. 1967: 113) (fig.5). L’immagine compositiva del disegno si presenta al nostro sguardo come un’eco
di tante altre opere di Le Corbusier, in particolare i progetti e i
numerosi schizzi realizzati nei suoi viaggi, quando con occhio
attento osservava e annotava la realtà che gli stava intorno. Già
durante il viaggio in Oriente (1911) nel suo taccuino il giovane
Jeanneret aveva disegnato monumenti, edifici, rovine, inseriti nel
loro particolare paesaggio. Nella sua visita a Delfi uno schizzo
dell’‘Iskegaon’, posto dietro il tempio di Apollo, rappresenta così
tre parallelepipedi di pietra, segnati da scanalature, con le imponenti montagne del monte Parnaso sullo sfondo, per rimarcare
nel disegno, con lo sguardo dell’architetto-osservatore, la ‘risonanza’ compositiva che si stabilisce fra i tre volumi geometrici
del monumento, contrapposti al profilo irregolare e maestoso
delle montagne all’orizzonte5 (fig.6).
Molti anni dopo nel progettare la Fabbrica verde di Aubusson,
disegna ancora volumetrie squadrate, formate da corpi di
fabbrica parallelepipedi, disposti in parallelo e chiusi da una
copertura a shed, che si confrontano con il profilo sinuoso
delle montagne. Scegliendo di creare un rapporto diretto tra
‘artificiale’ e paesaggio ‘naturale’ sembra così voler integrare
la natura nello spazio architettonico, per rendere gli ambienti
di lavoro più confortevoli e a misura d’uomo. Per la Fabbrica
della ‘città lineare industriale’ Le Corbusier spiega infatti che
«i fabbricati sono disposti secondo le necessità del terreno e le
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Territorio
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Territorio
esigenze della fabbricazione […] grandi vetrate saranno aperte
nelle pareti su di una prospettiva paesaggistica giudiziosamente
preservata o sistemata. Gli spazi tra i fabbricati costituiranno
un insieme armonioso con orizzonti aperti su vaste distese del
cielo» (Le Corbusier, 1959; ed. it. 1967: 115). A scala urbana
poi si ribadisce che lo stabilimento deve essere costruito vicino
alle abitazioni operaie, all’interno di un sistema che si sviluppa
linearmente lungo le vie di comunicazione principali e le vie di
comunicazione delle materie prime (via acqua, terra e rotaie),
facilitando la catena produttiva e gli spostamenti degli stessi
operai durante l’intera giornata, tra casa, lavoro e riposo6.
Sono temi questi molto cari a Le Corbusier e presenti sin dagli
anni ’20 negli scritti e nei suoi progetti urbani. Nel saggio Ville
Contemporaine (1925), immagina un modello di città integrata
all’interno dell’organizzazione taylorista, nella convinzione che
essa possa convivere con i ritmi biologici dell’uomo, scanditi nelle ventiquattro ore dal suo movimento continuo fra abitazione,
lavoro e tempo libero. L’architetto-urbanista cerca di affrontare
il problema ponendo l’accento sulla questione del lavoro perché
la città nasce dall’abitazione, ma questa a sua volta deve essere
coordinata con il luogo dove ciascun cittadino svolge la sua
occupazione, coinvolgendo così l’‘orario di lavoro’, che tende
a prolungarsi, se i mezzi di trasporto non sono efficienti e le
distanze eccessive. In questa città, pensata con un impianto radiocentrico, il lavoro amministrativo ed ‘intellettuale’ si svolge
nel centro della città, nei grattacieli della cité d’affaires, mentre
quello operaio all’interno di stabilimenti industriali periferici,
posti fra il centro urbano e la cité jardin. La popolazione a sua
volta viene classificata sulla base dell’ubicazione del luogo di lavoro e di abitazione ed è definita urbana o suburbana, a seconda
che viva e lavori in centro o in periferia, e infine mista, se lavora
in centro, ma risiede nella cité-jardin. La soluzione possibile è
quella di ‹‹diminuire le distanze e concentrare il lavoro accelerando il suo ritmo››, spiega Le Corbusier, perchè in questo modo
aumenta la produttività, scandita dalle macchine (della catena
di montaggio e anche dei trasporti), e si salvaguarda meglio il
ritmo biologico del lavoratore. Facendo sue idee già molto diffuse
negli ambienti intellettuali e scientifici di quegli anni precisa che
il tempo prima speso negli spostamenti può essere così utilizzato
per il ‘riposo’ e lo ‘sport’ (Le Corbusier, 1925).
Si tratta di un’idea di armonia ‘organica’, quella proposta nella
Ville Contemporaine (1925), che viene alcuni anni dopo ulteriormente articolata nella Ville Radieuse (1930), il nuovo modello
di città la cui «essenza è l’abitazione», formata dalla Ville Verte
residenziale, dove «il terreno destinato allo sport si trova sotto
casa», e i luoghi di lavoro, facilmente raggiungibili con i trasporti pubblici, sono posti ai bordi della città. Nel nuovo modello
viene dunque immaginata da una parte la cité d’affaires, vicina
alle villes satellites destinate all’amministrazione e al governo,
e all’estremità opposta la zona industriale per le manifatture,
imprese e industria pesante. «Noi lavoriamo per vivere. Non
viviamo per lavorare», scrive Le Corbusier in questo saggio,
aggiungendo che necessariamente «avremo delle ore libere» (Le
Corbusier, 1935: 115).
È solo nella città «lineare industriale» del Trois établissements
humains (1945) che la fabbrica diventa Fabbrica verde, dove il
verde, il paesaggio, la circolazione e gli spazi devono essere legati
e in relazione al funzionamento ‘biologico’ del lavoro, lontano
dai ritmi meccanici della catena di produzione. Una concezione a
cui Le Corbusier giunge, come già visto, dopo un lungo percorso
ventennale di studio e di progettazione, alimentato da riferimenti
culturali e architettonici che infine acquista forma architettonica
nel progetto di Aubusson, uno stabilimento che riprende strutture
compositive fluide ed ‘organiche’ più che meccaniche.
Ma alcuni anni dopo Le Corbusier riesce finalmente a realizzare
il suo unico progetto di stabilimento industriale, costruendo la
Manifattura Duval a St-Dié (1946-51). L’opera gli viene commissionata da un amico, l’ingegnere Jean-Jacques Duval, che
dà ampia libertà all’architetto nella progettazione. L’edificio,
formato da un volume parallelepipedo di tre piani e di circa
3000 mq, viene progettato e costruito applicando rigorosamente
i cinque punti dell’architettura: al piano terra i pilotis strutturano
l’edificio e lo sopraelevano; il toit-jardin sovrasta la copertura
e si lega alla zona degli uffici; la façade libre formata da grandi
vetrate riprende la soluzione della fenêtre en longeur; mentre
il plan libre all’interno garantisce una grande flessibilità nella
distribuzione (fig.9). Il tratto più rilevante dell’opera è costituito
infine dall’inserimento di grandi brise-soleil a tripla altezza nella
facciata esposta a sud-est, studiati in modo tale che possano
schermare la luce diretta all’interno, per non disturbare il lavoro
degli operai ed evitare l’esposizione dei tessuti ai raggi solari
(fig.7). La modulazione dei brise-soleil e della vetrata retrostante,
insieme alla scansione dei pilotis, pensati seguendo le proporzioni del Modulor, creano un’armonia e un ritmo inaspettati.
Come spiega lo stesso imprenditore Duval: ‹‹[…] questi tre ritmi
verticali, su diversi piani, offrono all’osservatore a ogni passo
(sia all’interno che all’esterno) la sorpresa di una composizione
mutevole. Una specie di fuga a tre voci con infinite variazioni,
che ebbe l’effetto imprevisto di ritardare di molti mesi il permesso di costruzione, perché l’architetto capo di Saint-Dié (che si
diceva musicista) non arrivò mai a capirla›› (Duval, 1957: 51).
Dieci anni dopo la costruzione della manifattura Duval Le Corbusier si misurerà con la stesura di un grande e complesso progetto
di stabilimento industriale come il Centro di calcolo elettronico
Olivetti di Rho (1960-64), l’innovativa fabbrica di 90.000 mq che
purtroppo non sarà mai realizzata. Le Corbusier, fedele al suo
modello di Fabbrica verde, progetterà per la Società di Ivrea una
costruzione industriale ‘a misura d’uomo’, attenta agli aspetti
legati alla salubrità dell’aria, all’illuminazione e alla presenza
del verde all’interno (fig.8). Ne sono un esempio i numerosi
studi, da lui fatti durante la lunga elaborazione del progetto,
sull’esposizione solare o la decisione di realizzare un grande
toit-jardin, sovrapposto alla copertura della zona di produzione,
che lega il volume al paesaggio circostante. Per incentivare e
favorire lo ‹‹slancio creativo intellettuale›› (Le Corbusier, 1959;
ed. it. 1967: 83) dei lavoratori, connaturato anch’esso alla vita,
progetta poi un ‘laboratoire merveilleux’, un ‘couvent de l’électronique’ (Taylor, 1976), come sottolinea Roberto Olivetti, ‹‹dove
la ricerca, lo studio e la creazione sono gli elementi primari del
nostro lavoro, dall’ideazione del prototipo al prodotto finito››7.
Secondo la politica olivettiana e le idee dell’ASCORAL vengono
creati inoltre all’interno dello stabilimento spazi per il riposo
e il tempo libero (un museo, una biblioteca, servizi sociali,
etc.), e lo stesso Le Corbusier alla firma del contratto impone la
costruzione dentro lo stabilimento del Museo dell’Elettronica
audiovisuale, fruibile dai ‹‹visitatori, ingegneri, lavoratori e
impiegati››8. La circolazione delle persone e dei prodotti è anche qui un elemento centrale: parte dall’esterno e attraversa in
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Territorio
Fig. 7 – Facciata a sud-est con i brise-soleil della Manifattura Duval a St-Dié (1946-51)
Fonte: Œuvre complète 1946-1952
Fig. 8 – Progetto per il Centro di calcolo elettronico Olivetti (1960-64), modello
Fonte: Œuvre complète 1957-1965
Fig. 9 – Manifattura Duval a St-Dié, pianta e sezione della struttura, (1946-51)
Fonte: ©FLC/SIAE, 2017
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Territorio
modo continuo ed ‘organico’ l’interno del Centro Olivetti, ed è
valorizzata da un sistema di areazione e illuminazione (data da
lucernai e vetrate filtrate dai brise-soleil), che garantiscono un
ambiente ‘naturale’, in movimento ‘dall’interno verso l’esterno’.
L’idea che principalmente sembra dare forma al progetto è quella
di un’industria costruita come un grande organismo architettonico integrato nel paesaggio e dinamico. Perché, come aveva
sottolineato nella descrizione del modello di Fabbrica verde,
‹‹sole, spazio e verde, porteranno qui … le influenze cosmiche,
la risposta al respiro dei polmoni, la virtù dell’aria, come la
presenza di quell’ambiente naturale che accompagnò la lunga
e minuta elaborazione dell’essere umano›› (Le Corbusier, 1959;
ed. it. 1967: 114).
geometria che sorgeranno i templi e i palazzi: è in essa che si trovano
le prove della volontà, il potere. I preti e i tiranni mostrano la loro forza
ponendo come base dell’architettura la geometria». In questo caso l’‘eco’
che si crea fra gli elementi della composizione genera unità e la geometria
dell’architettura in primo piano si contrappone e relaziona con il profilo
irregolare e maestoso della topografia circostante. (Le Corbusier, 1928).
6. Un progetto simile era stato già elaborato da Le Corbusier nel 1935,
su incarico dell’industriale Jan Bat’a, per il Piano regolatore della Valle
di Zlín in Cecoslovacchia, dove era presente l’articolazione delle fabbriche lungo le tre principali infrastrutture viarie e seguendo la topografia
del territorio.
7. Lettera, datata 18 aprile 1962, inviata da Roberto Olivetti a Le Corbusier. FLC M2-8-58/59.
8. Contratto datato il 20 ottobre 1961, stipulato fra Le Corbusier e Roberto
Olivetti. FLC M2-8-40/46.
Note
Riferimenti bibliografici
1. Introduzione al capitolo ‘Etica del lavoro’. All’edizione del 1945 segue
nel 1959 una seconda edizione, in parte rivisitata, a cui si fa principalmente riferimento nel testo (Le Corbusier, 1945, 1959; ed. it. 1967).
2. Già Karl Marx nel Capitale (1867) scrive «Il lavoro alla macchina intacca
in misura estrema il sistema nervoso, sopprime l’azione semplice dei
muscoli e confisca ogni libera attività fisica e mentale. La stessa facilità
del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacché la macchina non libera
dal lavoro l’operaio, ma toglie il contenuto al suo lavoro». (Marx, 1857;
trad. it. 1970: 129).
3. Frederick W. Taylor (1856- 1915) promuove, a partire dai primi anni
’80 del XIX secolo, una riforma della fabbrica finalizzata ad aumentare
la produttività ed efficienza del sistema attraverso la riorganizzazione e
l’inasprimento del lavoro operaio. Il suo metodo, denominato ‘Scientific
Management’ (W. Taylor, 1911), si basa su un sistema di analisi ‘scientifiche’ dei ritmi e tempi di esecuzione del lavoro che sostituisce l’operaio
professionale con l’operaio massa, non qualificato e poco organizzato,
la cui specializzazione funzionale lo rende esclusivamente una parte
accessoria della macchina e del corpo collettivo della fabbrica.
4. Le idee tayloriste vennero successivamente applicate da Henry Ford
(1863-1947) nel suo stabilimento di Highland a Detroit, non più solo
alle persone, ma direttamente ai macchinari, rivoluzionando così completamente il sistema di produzione. Con l’introduzione della catena di
montaggio viene infatti annullata completamente l’autonomia dell’operaio, riducendo i suoi movimenti alla ripetizione di azioni semplici
completamente vincolate al ritmo della macchina e del rullo.
5. Lo stesso schizzo si ritrova successivamente nel capitolo intitolato
Thèse del saggio Une maison, un palais (1928), scelto per spiegare il
potere dell’ordine della geometria sulla natura circostante in architettura.
Dice infatti che «dominando i golfi e le valli, a Delfi, questi tre cubi di
pietra, testimonianze violente e pure, parlano del sublime. È dunque sulla
Crosas J., 1995, Cuerpo y Maquina. Organización y economía del cuerpo
en la época de las vanguardias. Barcelona: Tesi di dottorato, Universidad
Politécnica de Cataluña.
Duval J.J., 1957, «Le Corbusier vivant». Spazio e Società, 8: 51.
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Le Corbusier, 1928, Une maison, un palais. Paris: Collection de L’Esprit
Nouveau.
Le Corbusier, 1935, La Ville Radieuse, éléments d’une doctrine d’urbanisme pour l’équipement de la civilisation machiniste. Paris: Éditions
Vincent Fréal.
Le Corbusier, 1937, Œuvre complète 1910-1929. Zürich: Girsberger.
Le Corbusier, 1938, Œuvre complète 1934-1938. Zurich: Girsberger.
Le Corbusier et. al., 1945, Les trois établissements humains. Paris: Donöel.
Le Corbusier et son Atelier de la rue de Sèvres 35, 1957, Œuvre complète
1952-1957. Zurich: Girsberger.
Le Corbusier, 1965, Œuvre complète 1957-1965. Zurich: Les Éd. D’Architecture.
Le Corbusier, 1959, L’urbanisme des trois établissements humains. Paris:
Édition de Minuit (trad. it. 1957, L’urbanistica dei tre insediamenti
umani. Milano: ETAS KOMPASS).
Marx K., 1857, Das Capital, Band I (2) (trad. it., 1970 Il Capitale, Libro
I (2). Roma: Editori Riuniti).
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Paris: Groupe Moniteur.
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Publishers Incorporated.
Taylor B.B., 1976, «L’usine comme couvent». L’architecture d’aujourd’hui,
188: 69-71.
Žaknić I., 2010, «Usine Claude & Duval, 1945». In: (DVD), Fondation Le
Corbusier, Box 3, V.9, Echelle-1, Shinjuku-ku, Tokyo, 2010.
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Territorio
Le Corbusier al Primo
Convegno Internazionale
sulle Proporzioni nelle
Arti, Milano 1951
Anna Chiara Cimoli*, Fulvio Irace**
* Ricercatrice indipendente
**Politecnico di Milano, Dipartimento di Design
(annachiara.cimoli@gmail.com; fulvio.irace@polimi.it)
Nel settembre 1951, la Triennale
di Milano fu il teatro di una
performance d’eccezione, con
Le Corbusier nel ruolo di un
protagonista. Il tema in discussione
riguardava le proporzioni nelle
arti e il discussant di primo piano
era Rudolf Wittkower. Se, per lo
storico, l’ordine matematico doveva
continuare a essere alla base
dell’arte, per Le Corbusier tutti i
corollari del sapere esoterico celati
dentro la questione della ‘divina’
proporzione erano ormai cose morte:
contro i ‘miracoli della geometria’,
propone la nuova idea dello ‘spazio
indicibile’. Il convegno naufraga
sulle sue stesse premesse; ma la
teatralizzazione delle opzioni mette
in luce il disagio dell’architettura a
fronte di ogni rigidità normativa:
l’impossibilità di una teoria che
non tenga conto della realtà del
corpo, dunque del grottesco e della
materialità come fondamenti della
ricerca
Parole chiave: divina proporzione;
modulor; IX Triennale
ISSN 1825-8689, ISSNe 2239-6330
Babele a Milano
Dal Rinascimento a Le Corbusier, dall’homo ad circulum et ad
quadratum al Modulor, dalle proporzioni albertiane a quelle
espresse nella ricerca sulla coordinazione modulare: ma con le
macerie di una guerra ancora per le strade, un’identità nazionale
tutta da riprogettare e una frattura quasi decennale negli studi.
Questa la sfida ambiziosa del Primo Convegno Internazionale
sulle Proporzioni nelle Arti, svoltosi alla Triennale di Milano
dal 27 al 29 settembre 19511.
Portare al centro, far convergere, chiamare a raccolta intorno a
un tema, pur nella pluralità delle voci e degli stili: tale lo sforzo
degli organizzatori, che con incredibile tenacia riescono a far
sedere allo stesso tavolo matematici e filosofi, storici dell’arte e
architetti, artisti e ingegneri. Ma fu dialogo o Babele? Lo sguardo
dei promotori portava già in sé, in modo affatto inespresso, il
germe della differenza, se non dell’incomunicabilità.
Carla Marzoli, proprietaria e animatrice della libreria La Bibliofila di via Manzoni, è una self-made woman: competente, capace
di attirare la stima e la simpatia dell’intelligentjia milanese,
amata dagli architetti della seconda generazione del moderno –
che da lei acquistano volumi altrove introvabili – è una donna
libera, mossa non già da ragionamenti strategici e accademici
quanto da intime convinzioni culturali. La proporzione, per lei
così sensibile al contemporaneo, va letta principalmente in una
chiave di profondità storica che trova nella trattatistica classica
il proprio punto di riferimento.
Ivan Matteo Lombardo, suo interlocutore alla Triennale, di cui
era presidente, è un uomo d’azione: conscio della necessità di
parlare al presente, a un presente in via di frenetica industrializzazione, tesse i fili di una trama complessa, attenta alle alte
rappresentanze ma inclusiva di tutti i bei nomi dell’architettura
contemporanea. Dopo l’episodio della Triennale del 1949, in
cui era stato presentato il quartiere Q8 e in cui si era discusso
della nuova dimensione dell’abitare all’indomani della guerra,
la volontà è ora quella di inserirsi attivamente, da protagonisti,
nella riflessione sui nuovi modi e tempi del progetto.
Il singolare tandem Marzoli-Lombardo prende le mosse da un
episodio in apparenza minore, ma in realtà denso di suggestioni culturali e ricco di conseguenze concrete. La Triennale del
1951, qualche mese prima del convegno, era stata teatro di una
piccola esposizione allestita al piano nobile: la Mostra di Studi
sulle Proporzioni, curata dalla stessa Carla Marzoli e allestita dal
giovane architetto Francesco Gnecchi-Ruscone2. La mostra voleva
offrire una panoramica degli studi condotti dall’antichità fino
67
Territorio 80, 2017
ad allora, e aveva il proprio nucleo negli splendidi volumi – fra
cui molti manoscritti – in parte provenienti dalla Bibliofila, in
parte prestati dalle più importanti biblioteche italiane ed europee, idealmente ripartiti nei capitoli ‘Gli studi e le proporzioni
dall’antichità al Settecento’, e ‘Gli studi sulle proporzioni nella
modernità’. L’organizzazione nelle vetrine, tuttavia, non seguiva
una scansione cronologica ma tematica: nella prima teca, per
esempio, testi di Erodoto, Diodoro Siculo e Giamblico Calcidense
convivevano con le teorie di Ernst Moessel (Die Proportion in
Antike und Mittelalter, 1931) e di Jay Hambidge (Dynamic Symmetry. The Greek Vase, 1948). Oltre ai testi fondanti (Vitruvio,
Dürer, Vesalio, Alberti, Filarete, Piero della Francesca) ampio
spazio era dedicato a quella fitta corrente di studi nata negli anni
dieci del Novecento e ancora vitale al momento della mostra.
Ecco qui preannunciati, attraverso i loro studi, molti dei partecipanti al futuro convegno: Hans Kayser (di cui sono esposte diverse
opere, fra cui Harmonia plantarum, 1943, e Ein harmonikaler
Teilungskanon, 1946), Andreas Speiser (Die mathematische
Denkweise, 1932), Salvatore Caronia Roberti (Introduzione allo
studio della composizione architettonica, 1949), Rudolf Wittkower
(Architectural Principles in the Age of Humanism, 1949), James
Ackerman (Gothic Theory of Architecture at the Cathedral of Milan,
in ‘The Art Bulletin’, 1949), Charles Funck-Hellet (Composition
et nombre d’or dans les oeuvres peintes de la Reinaissance, 1950,
e De la proportion. L’equerre des maîtres d’oeuvre, 1951), Eva Tea
(La proporzione nelle arti figurative, 1945), Matila Ghyka (Esthétique des proportions dans la nature et dans les arts, 1927; Le
nombre d’or, 1931 e The Geometry of Art and Life, 1946), Georges
Vantongerloo (Problems of Contemporary Art, 1948).
Ai volumi si affiancavano qua e là stampe fotografiche (la scala
a tenaglia di Leonardo, gli schemi proporzionali dei vasi greci di
Hambidge, le proporzioni del corpo femminile di Dürer, fino a
opere contemporanee come il Monumento ai Caduti nei Campi
di Concentramento di Belgiojoso, Peressutti e Rogers e Punti
nel piano di Kandinsky); naturalia (cristalli di quarzo e pirite);
opere d’arte (due pannelli intarsiati di Cristoforo da Lendinara,
la scultura Concavo-convesso di Bruno Munari); partiture musicali (di Arnold Schönberg, Anton Webern, Alban Berg, Luigi
Dallapiccola e Riccardo Malipiero) fino all’affondo nell’attualità
costituito dal pannello dedicato al Modulor.
Facciamo ora un passo indietro. La mostra era nata con
la consulenza a distanza – ma vigile e attenta – di Rudolf
Wittkower, il cui recente Architectural Principles in the Age of
Humanism (1949, tradotto in Italia nel 1964) era già divenuto
un classico. Il grande storico dell’architettura aveva suggerito
alla Marzoli, andata a trovarlo appositamente a Londra, un
approccio lineare, insieme cronologico e tematico, di grande
evidenza didattica. Per rafforzare l’aspetto illustrativo aveva
anche proposto il prestito di una serie di pannelli impaginati
dai suoi studenti del Warburg Institute. La proposta era stata
gentilmente declinata dalla curatrice attraverso GnecchiRuscone: «Non intendiamo organizzare la mostra in senso
cronologico, ma evidenziare i modi di affrontare il problema
nei vari periodi, parallelamente o in sequenza nel campo
dell’arte, dell’architettura, dell’astronomia, della matematica,
della musica, della fisica, della biologia, eccetera. Non
vogliamo compiere questa analisi attraverso pannelli didattici
ma esponendo testi e opere originali [...]. Penso dunque che
rinunceremo all’offerta di esporre i pannelli preparati dai Suoi
Dall’alto:
– Rudolf Wittkower durante la sua presentazione
Fonte: Archivio Storico La Triennale di Milano
– Le Corbusier con Max Bill e la moglie Bina
Spoerri
Fonte: Archivio Storico La Triennale di Milano
A pagina 69:
– Le Corbusier durante la sua presentazione
Fonte: Archivio Storico La Triennale di Milano
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Territorio
studenti, che Lei ha gentilmente fatto alla signora Marzoli»3.
I pannelli, infatti, avrebbero probabilmente accentuato l’aspetto
storico a detrimento dell’affondo nella contemporaneità – qui
fatta coincidere con l’opera di Le Corbusier – che stava molto a
cuore alla curatrice. Non essendo riuscita a incontrare di persona
il maestro svizzero, Carla Marzoli aveva conquistato al suo
progetto André Wogenscky, suo collaboratore. Così GnecchiRuscone ne scriveva a Le Corbusier:
«Maestro,
in occasione della Nona Triennale di Milano, io e la signora
Carla Marzoli siamo stati incaricati di organizzare la sezione
sullo studio dei problemi della proporzione attraverso i trattati
antichi e moderni.
La signora Marzoli ha sperato di poterLa incontrare a Parigi
per metterLa al corrente delle nostre intenzioni e dei nostri
progetti, ma con suo grande dispiacere era ancora assente.
Ha comunque parlato con l’architetto Wogenscky, che come
certamente saprà si è detto molto interessato alla nostra iniziativa e ci ha assicurato il vostro prezioso appoggio.
La Triennale ha messo a nostra disposizione una sala di circa
cento metri quadri, in cui verranno esposti manoscritti originali
di Vitruvio, Francesco di Giorgio, Filarete [...].
Per quanto riguarda i trattati moderni, vorremmo dare agli
studi sul Modulor l’importanza che compete loro; vorremmo
inoltre esporre un pannello di grandi dimensioni (m. 2,26
per m. 2,26 o ancora di più, fino a un massimo di 5 metri
di altezza). Seguendo il consiglio dell’architetto Wogenscky,
vorremmo chiederLe se sarebbe così gentile da incaricarsi della
progettazione di questo pannello»4.
Ecco dunque giungere a Milano l’architetto srilankese Minnette
de Silva, a cui Le Corbusier demanda l’installazione del pannello.
Qui il Modulor è affiancato – secondo dimensionamenti armonici – a foto dell’Unité d’Habitation di Marsiglia, della cappella
di Ronchamp e della pianta di Chandigarh (Tamborrino, 2003).
Le Modulor, pubblicato nel 1950, costituiva, con il testo di
Wittkower, l’altro termine di confronto ineludibile di quei primi
anni ‘50. Anciens e modernes avevano così ciascuno il proprio
padre putativo. Oltre a queste impegnative pietre di paragone,
tutta una letteratura veniva sviluppandosi in quegli anni: se
James S. Ackerman, con il suo Ars sine Scientia Nihil Est: Gothic
69
Territorio
Theory of Architecture at the Cathedral of Milan del 1949, aveva
offerto una lettura originale dei sistemi di costruzione del duomo
di Milano, Colin Rowe con The Mathematics of the Ideal Villa
del 1947, e poi con Mannerism in Modern Architecture del 1950
aveva gettato le basi per una lettura più raffinata e consapevole
dell’architettura contemporanea. Spazzato il campo dalle interpretazioni estetizzanti e decadenti figlie dell’orfismo di inizio
secolo, e metabolizzate le istanze proporzionali che avevano
nutrito la riflessione dei primi razionalisti, si trattava ora di
portare la storiografia e la cultura del progetto intorno allo stesso
tavolo, a fornire rassicurazioni sull’attualità del tema da trattare.
Fra Wittkower e Le Corbusier: padri scomodi
Ecco così nascere e farsi strada la proposta di un convegno
internazionale in cui sviscerare da diversi punti di vista il tema
dell’armonia e della proporzione, e in cui verificare la possibilità
di una confluenza fra le diverse discipline da questo tema interessate. Il principio di base, lo stesso che anima il Centro Studi della
Triennale, è quello di convogliare il dibattito, favorire la cultura
viva, far parlare le forme. Come scrive Lombardo a Antonio Segni, Ministro dell’Istruzione, invitandolo ad aprire il convegno,
la Triennale «rappresenta la documentazione appassionata ed
appassionante di quanto di meglio si fa [...] in questo campo.
Vorrei dire che in un certo senso è una cattedra permanente sullo
sviluppo del gusto e dei criteri estetici moderni»5.
Wittkower e Le Corbusier sono, nell’agenda degli organizzatori,
le uniche presenze davvero irrinunciabili. Durante l’estate del
1951 Carla Marzoli scrive spesso al primo, a ribadire la centralità
del suo ruolo nell’impaginazione del convegno. In una di queste
lettere, per esempio, si legge: «Inutile dirle che la sua relazione e
la sua presentazione dei problemi e degli scopi del congresso è la
cosa essenziale per l’inquadramento delle altre comunicazioni e
da questo l’importanza che Lei, che ci ha già tanto aiutato, ci aiuti
ancora inviandoci al più presto possibile un riassunto da diramare
agli altri relatori e presidenti, che sulla base di quello potranno
regolare le relazioni e i conseguenti dibattiti. Con questo... siamo
nelle sue mani»6. Parallelamente, Lombardo scrive a Le Corbusier:
«Il Suo Modulor è il perno attorno al quale ruotano tutti i problemi
della proporzione nell’ambito dell’architettura moderna. Poiché
Lei ci ha fatto l’onore di spedirci il pannello del Modulor per la
nostra mostra, è necessario che ci onori anche della Sua partecipazione a questo incontro. Mi permetto di dire ‘è necessario’
perché davvero non riesco a immaginare la giornata dedicata
all’architettura senza la Sua presenza»7.
Wittkower, incaricato di aprire i lavori con una relazione sulle
‘Finalità del convegno’, sembra del tutto in linea con la weltanschauung degli organizzatori. Scrive infatti, tratteggiando le
linee essenziali del suo futuro intervento: «Avevo pensato di dire
qualcosa sull’ordine matematico, [...] e ancora di più, di spiegare
che l’arte è sempre stata espressione di questo ordine; che la
prassi del XIX e anche del XX secolo sembrerebbe quasi contraria
alla natura nella misura in cui il principio dell’ordine è stato
lasciato esclusivamente all’arbitrio del singolo artista; e infine
che questo convegno è un segno positivo di un cambiamento di
attitudine, preparato ormai da qualche tempo da persone come
Le Corbusier»8. All’avvicinarsi della data del convegno, tuttavia,
Wittkower – forse perchè continuamente invitato dagli orga-
nizzatori a sollecitare risposte, tessere rapporti, far pressione a
questo e a quello – annuncia alla Marzoli che non scriverà a Le
Corbusier: «Una lettera da parte mia non avrebbe alcun significato per lui. Penso che la sua presenza abbia soprattutto valore
di propaganda. Detto fra di noi, è un pessimo oratore, e non ha
poi molto da dire. Con tante relazioni eccellenti in programma,
potremmo tutto sommato fare a meno di lui»9.
Man mano che si avvicina l’inizio dei lavori, inizia a emergere
un sottobosco di frizioni, divergenze d’opinione, forze centripete.
C’è chi, come Carlo Ludovico Ragghianti, rifiuta di partecipare
a causa dell’«irrimediabile anacronismo e l’inconsistenza del
problema che viene trattato»10; chi, come Carlo Mollino, accetta
di parlare, ma precisa che «a qualunque estetica si faccia riferimento, la ‘proporzione’ non ha nulla di ‘divino’ e che, a priori,
tutti i pur pregevolissimi studi in merito, e presunte ricerche
di ‘segreti’, e ancor più pretese ‘scoperte’, hanno mero valore
filologico» 11; chi invece, come Lucio Fontana, non vede l’ora di
prendere la parola con un obiettivo ben chiaro: «Nel corso della
conferenza vi voglio convincere che la ‘divina proporzione’ è
evasa dal concetto dell’architettura moderna e futura»12.
Prevedibilmente, viste le premesse, il convegno si trasforma in
palcoscenico di dissonanze, luogo di dissenso, cassa di risonanza
dell’incomunicabilità fra vecchio e nuovo mondo. Le pur molto
autorevoli voci di Charles Funck-Hellet, Cesare Bairati, Adrien
Turel, Gino Severini, Roberto Papini paiono giungere da un
orizzonte ormai inattuale a confronto con le argomentatissime
relazioni di Mollino, Giedion, Fontana, Gardella13.
Siete voi che correte!
Ma il protagonista incontrastato, la vera e unica star è Le Corbusier.
Il suo intervento, cui aveva spianato la strada, nel pomeriggio,
quello sintonico di Ernesto Nathan Rogers, si volge di sera sotto
forma di performance, più che di master-class. Solo sotto le luci del
Teatro dell’Arte, il maestro disegna, argomenta, persuade.
Il tono è carismatico; fluida la cadenza delle parole, che oscilla tra
scienza e biografia, mentre la narrazione si muove tra l’analisi e
la profezia. In una giornata dedicata alle introspezioni della storia
e all’oggettività delle teorie scientifiche, il suo discorso fa piazza
pulita di ogni meccanica credenza nel potere della matematica.
Accanto al ‘miracolo’ dei numeri, fa la sua comparsa l’interdetto
poetico: il talento e l’invenzione. La necessità della poesia evoca la
tensione della creazione; ogni meccanicismo è schivato con cura e
anzi rigettato: oltre i rapporti numerici, contano i ‘rapporti patetici’
e quelli ‘emotivi’. L’‘esaltazione estetica’ irrompe a scompigliare i
calcoli, la misura del corpo avanza i suoi diritti sulle pretese dell’intelletto. «Vi parlerò da artigiano», aveva infatti esordito, in aperta
polemica con la corrente ‘wittkoweriana’ del congresso: «Ieri e oggi
abbiamo intavolato discorsi assai dotti ma spesso fuori dalle realtà
della vita». E per sgombrare il campo da equivoci, dichiara subito
la sua diffidenza verso quel ‘Grande Rinascimento’ che lo storico
inglese aveva posto a fondamento dell’iniziativa della Triennale:
«Sono loro che hanno capovolto l’architettura, sono loro che hanno ucciso l’architettura, in quanto il loro metodo comportava una
concezione del tutto astratta – eventi intellettuali che gli occhi non
vedono mai. Come si può pensare che un occhio occupi il centro
della visione? [...] I progetti disegnati su basi come queste... appartengono a un’epoca che, per l’architettura fu, come dire, mortale. Ho
il coraggio di affermarlo perché è indispensabile farlo, soprattutto
oggi, qui, a questo convegno sulla Divina proporzione».
70
Territorio
Rispolverando l’accento ruskiniano che aveva contraddistinto le
notazioni del suo primo viaggio italiano, dichiara infatti cose ‘morte’ tutti i corollari ‘proporzionali di un sapere esoterico e fuori della
vita: «guardando questi tracciati – confessa – provavo una specie di
angoscia». L’equiparazione del Modulor alla tradizione trattatistica,
se da un lato ne lusinga il legittimo orgoglio, dall’altra lo spinge a
un necessaria distinzione: la proporzione rinascimentale è un’astrazione che sconfina nella metafisica; il Modulor uno strumento
che ha a che fare con la fisica dei corpi. Come tale è soggetto alle
leggi della prova e della sperimentazione: nasce da un’intuizione,
ma si precisa e si affina con l’esperienza e l’osservazione. Procede
con i piedi per terra, tastando le asperità del terreno; si attiene a
«quanto è percepibile con la vista e l’intelletto».
Chi si aspettava il matematico inflessibile, il rigoroso geometra
pronto a usare il Modulor come un metro per misurare il mondo,
dovette restare perplesso; chi si attendeva una conferma delle
leggi armoniche del passato, deluso. Rispetto alla perfezione
intellettuale degli ‘schemi’, Le Corbusier rivendica la natura
dell’uomo che «ha mani per toccare e occhi per vedere», e la
peculiarità della percezione architettonica, che «è multiforme
e ha bisogno di invenzione in ogni sua fase, di qualcosa che
assorba un’intera vita di architetto. Il rischio è che i miracoli
illimitati della geometria e della matematica rimangano privi
di quella concreta verifica che soli i sensi possono assicurare».
Se per storici e matematici la sapienza degli antichi serve a rafforzare l’idea dell’ordine come fondamento dell’estetica, per Le Corbusier l’ordine della poesia è ineliminabile dal mistero dell’opera e
la sua riuscita non può essere spiegata come semplice risultato di
una rigorosa applicazione del metodo: «A stupirci quando l’opera
plastica è realizzata nel migliore dei modi è il fatto che la sua vista
susciti, di colpo, un sentimento ineffabile. Ho battezzato questo
prodotto ‘lo spazio indicibile’, termine che è pieno di suggestione
per chi è disposto ad accoglierne la risonanza emotiva. Quando
le cose sono al punto giusto – la proporzione, il tema, la ragion
d’essere, la fisica interna, le necessità di qualsiasi natura –, quando
l’opera è impeccabilmente al punto giusto in ogni suo dettaglio,
in quel momento compare, a volte, un ‘non-dimensionamento’,
un’illuminazione, un’irradiazione, un’aureola. Lo ‘spazio indicibile’ è proprio questo coronamento delle nostre ricerche: un
passo verso la perfezione. E questo cammino verso la perfezione
ci conduce a uno stato spirituale che è vicino alla trance».
Apollo e la Sibilla convivono nel processo della creazione, così
come i miti mediterranei nelle larghe tavole del suo ultimo
testamento poetico, Le Poème de l’angle droit, dove difformità e
armonia sono le facce speculari del ‘tumulto dell’opera’, cui il
tracciato regolatore fa da mallevadore, anzi da levatrice nell’oscuro parto della creazione. Ecco dunque il maestro scrollarsi di
dosso la polvere fastidiosa di stereotipi riduttivi: la luce della ragione è contemporanea alle tenebre dell’intuizione e l’emergere
del ‘bestiario umano’ (Krustrup, Morgens, 2000: 74) introduce
il tema dell’organico nell’algebra delle proporzioni.
Naturalmente esistono anche altre ragioni a giustificare la
partecipazione così generosa di Le Corbusier: e non tutte così
disinteressate. Alla vigilia del concorso per il Palazzo delle
Nazioni Unite di Parigi egli ha infatti bisogno di raccogliere
testimonianze di una sua ‘umanità’, di una presenza attiva e
partecipe nei luoghi del dibattito, di una preoccupazione per
le vicende della cultura del suo tempo. Ecco, dunque, che
scrive a Carla Marzoli pregandola di assemblare un dossier,
comprensivo di rassegna stampa, sulla sua partecipazione al
convegno, in cui si dimostri una volta per tutte che non è «un
Il Modulor esposto alla Mostra di Studi sulle
Proporzioni
Fonte: Archivio Storico La Triennale di Milano
71
Territorio
uomo senz’anima, senza arte, sprovvisto della benché minima
sensibilità»14.
«Gentile signora,
sono tornato a casa con un’ottima impressione del mio soggiorno
a Milano.
[…] Ripresa l’infaticabile battaglia, eccomi a chiederle di fornirmi una piccola arma utile ad alcune persone di cui le passo un
elenco, inviando loro un commento ‘necessario e sufficiente’ sul
Convegno Internazionale sulla Proporzione nelle Arti di Milano.
Ecco, allora, a chi e come:
1. M. Marie, Ministro dell’Educazione Nazionale, Parigi, 110
rue de Grenelle,
2. M. Claudius Petit, Ministro della Ricostruzione e dell’Urbanistica, avenue du Parc de Passy, Parigi,
3. M. Joxe, direttore delle Relazioni Culturali, Ministero degli
Affari Esteri, 37 quai d’Orsay, Parigi.
Queste tre persone devono prendere delle decisioni fondamentali per l’architettura moderna. Io sono il candidato più serio e
indiscusso, ma da più parti (ambienti accademici) vengo dipinto
come un uomo senz’anima, senz’arte e privo di qualsivoglia
sensibilità.
L’accoglienza che mi è stata tributata a Milano da parte dei
sostenitori della Divina Proporzione dimostra il contrario.
Potrebbe assemblare tre dossier molto chiari? […]
Cara signora Marzoli, lei capisce di che cosa si tratta, e mi scuserà
di comportarmi in modo così libero con voi.
Sarebbe utile, inoltre, segnalare attraverso una documentazione
stringata lo spazio riservato al Modulor di fianco agli artisti
dell’antichità, del Medioevo e del Rinascimento. Ciò potrebbe
essere fatto attraverso ritagli di stampa ben scelti, in cui la parte
utile venga sottolineata a matita rossa».
Tuttavia, al di là del disinibito approccio a caldo, Le Corbusier
dimostrerà di essere attento alle richieste che gli arrivano dalla
Marzoli negli anni che seguono il convegno, quando fra tentativi
di pubblicarne gli atti, spaccature interne, costituzione e scioglimento di gruppi di lavoro (il Comité International d’Études sur les
Proportions dans les Arts, poi Comité International pour l’Étude et
l’Application des Proportions dans les Arts et l’Industrie Contemporains, infine Groupe Symétrie), rimane sempre un interlocutore
cortese e presente, perfino paterno in alcuni passaggi, anche se
invariabilmente distante. La vicenda del convegno sfuma nell’avventura di Chandigarh: la Marzoli, in una lettera che sancisce
la fine tanto del progetto quanto del carteggio, gli promette che
lo andrà a trovare laggiù, finalmente libera dal problema della
proporzione.
Note
1. Il presente contributo è la traduzione in italiano del saggio di Cimoli,
A.C., Irace, F., 2010: 138-147. Il saggio prende le mosse dai materiali
originariamente raccolti in Cimoli, A.C., Irace, F., 2007, a cura di, La divina proporzione. Triennale 1951. Milano: Electa. Lo studio sul convegno
milanese del 1951 è nato dalla catalogazione e dallo studio del fondo
Francesco Gnecchi-Ruscone, conservato presso il C.A.S.V.A. di Milano
(si veda Cimoli, A.C., 2004e si è avvalso della consultazione dell’archivio
della Fondation Le Corbusier di Parigi, che contiene in gran parte materiali
sovrapponibili a quelli conservati dalla Triennale di Milano (qui sono
conservate, in particolare, le fonti relative alla pubblicazione degli atti
del convegno, non presenti in Triennale). Per un ulteriore contributo sul
tema, si veda Cimoli, A.C., e Irace, F., 2013.
2. Uno studio approfondito della vicenda di questa mostra si trova in
Cimoli, A.C., 2007
3. Lettera del 4 aprile 1951, in Archivio Storico Fondazione La Triennale
di Milano, serie ‘IX Triennale’, busta ‘Convegno De divina proportione’
(d’ora in poi ASFTM), sezione ‘Veline azzurre’.
4. Lettera del 4 aprile 1951, in ASFTM, serie ‘IX Triennale’, sezione
‘Veline azzurre’.
5. Lettera del 20 agosto 1951, in ASFTM, fasc. senza titolo.
6. Lettera del 9 agosto 1951, in ASFTM, fald. 2, fasc. ‘Comité International
d’Etudes sur les Proportions dans les Arts’.
7. Lettera del 20 agosto 1951, in ASFTM, fasc. non titolato [T.d.A.]. La
lettera è pubblicata, in qualità di immagine, in Le Corbusier, 1974, Il
Modulor 2, 1955: la parola agli utenti. Mazzotta: Milano, 143.
8. Lettera del 3 settembre, in ASFTM, fald. 1, fasc. ‘Copie lettere e telegrammi’.
9. Lettera del 19 settembre 1951, ibid.
10. Lettera del 29 agosto 1951, ibid.
11. Lettera a Mario Melino del 13 settembre 1951, ibid.
12. Lettera a Carla Marzoli del 12 settembre 1951, ibid.
13. Le giornate di studio sono organizzate in tre panels, ciascuno dei quali
articolato in ‘relazioni’ (interventi più lunghi e approfonditi) e ‘comunicazioni’ (più brevi e agili). Il primo, dedicato a ‘Gli studi sulle proporzioni
nella storia del pensiero e dell’arte’, è presieduto da Sigfried Giedion;
le relazioni sono tenute da Matila Ghyka, James Ackerman e Charles
Funck-Hellet; le comunicazioni da Cesare Bairati, Piero Sanpaolesi, Giusta
Nicco Fasola e Roberto Papini. Il secondo panel si intitola ‘Fondamenti
matematici degli studi sulle proporzioni. Le proporzioni nell’architettura.
Le proporzioni nella tecnica. Le proporzioni nella musica’. Presieduto
al mattino da Rudolf Wittkower e al pomeriggio da Giuseppe Samonà,
vede gli interventi di Andreas Speiser, Hans Kayser, Sigfried Giedion, Pier
Luigi Nervi, Ernesto N. Rogers e le relazioni Gillo Dorfles, Giovanni Ricci,
Adrien Turel, Salvatore Caronia Roberti, Alfred Roth, Mario Labò e Bruno
Zevi. Alla sera si svolge la relazione di Le Corbusier. L’ultimo panel è
‘Della proporzione e dell’intuizione nelle arti’. Le relazioni sono tenute
da Gino Severini, Max Bill e Georges Vantongerloo; le comunicazioni
da Lucio Fontana, Carlo Mollino, Carola Giedion-Welcker, Eva Tea (che
all’ultimo momento non partecipa), Gerbrand Dekker, Ignazio Gardella,
Gino Levi Montalcini e Luigi Cosenza (gli ultimi due, assenti, spediscono
un abstract che viene messo agli atti). La sintesi finale, in assenza di
Wittkower – tornato a Londra per motivi familiari - è affidata a Giedion.
14. Lettera del 4 ottobre 1951, ASFTM, serie ‘IX Triennale’, fald. 1, fasc.
‘Copie lettere e telegrammi’.
Riferimenti bibliografici
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10.2307/3047224.
Cimoli A.C., 2004, L’archivio dell’architetto Francesco Gnecchi-Ruscone
presso il C.A.S.V.A. Milano: Comune di Milano.
Cimoli A.C., 2007, Musei effimeri. Allestimenti in Italia 1949-1963. Milano: il Saggiatore.
Cimoli A.C., Irace F., 2007, a cura di, La divina proporzione. Triennale
1951. Milano: Electa.
Cimoli A.C., Irace F., 2010, De Divina Proportione, in L’Italie de Le Corbusier, atti della XV Rencontre della Fondation Le Corbusier, Editions
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Rowe C., 1947. «The Mathematics of the Ideal Villa». The Architectural
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Tamborrino R., 2003, a cura di, Le Corbusier. Scritti. Torino: Einaudi.
Tordella P.G., 2001, a cura di, Punti di distanza. Saggi sull’architettura e
l’arte d’Occidente. Milano: Electa.
72
Territorio
27 agosto 1965: la
pubblicistica italiana di
architettura commemora
Le Corbusier
Andrea Oldani
Politecnico di Milano, DAStU
(andrea.oldani@polimi.it)
Il 27 agosto del 1965 Le Corbusier
terminava la sua ‘recherche patiente’.
La notizia della morte fece il giro
di tutti i rotocalchi e lasciò attoniti
i sostenitori, inermi all’annuncio
della improvvisa scomparsa. Caduto
il mito era necessario fare qualche
considerazione e si profilava la
possibilità di un improbabile
bilancio rispetto ad una successione
di idee e realizzazioni che ha
elevato il suo artefice a riferimento
assoluto e lo ha iscritto tra la schiera
riconosciuta dei ‘maestri viventi’.
La reazione delle riviste italiane è
un susseguirsi di ricordi, riflessioni,
precisazioni sulla vita e sulle opere.
Il grande ‘eretico’ non c’è più ma
lascia la sua vastissima eredità,
fatta di pensiero, opere e progetti.
Rileggere oggi queste testimonianze
assume nuovo senso, forse non è
ancora tempo di bilanci, l’orizzonte
si è rasserenato, la carica del grande
maestro non si è ancora esaurita
Parole chiave: Le Corbusier; riviste
architettura italiane; commenti morte
ISSN 1825-8689, ISSNe 2239-6330
«Ad aprirci gli occhi fu un libro di Le Corbusier che si intitolava
‘Vers une architecture’, Ci era arrivato attraverso amici di
Parigi. Lo feci vedere ai miei conterranei Pollini e Melotti che
sono di Rovereto. Pollini studiava già architettura a Milano
con Figini. Si innamorarono talmente di quel libro che lo
impararono quasi a memoria. Era veramente un’apertura per
noi! […] Quando vedemmo alcune riproduzioni delle case di Le
Corbusier, diventammo «pazzi». Lanciai uno slogan: «bisogna
portare l’Europa in Italia e l’Italia in Europa»
(Belli, 1987: 17)
Era da poco passato il 1923 e un Le Corbusier poco più che
trentacinquenne iniziava ad interessare la parte più acerba,
sovversiva, desiderosa di cambiamento dell’architettura italiana. Introducendosi, attraverso scritti, progetti e architetture, gli
strumenti che lo avrebbero accompagnato tutta la vita come
straordinari ed indispensabili mezzi di riflessione, produzione
e propaganda, il suo pensiero apriva uno spiraglio che sarebbe
riuscito ad illuminare una cultura architettonica ancora soffocata dai «pasticci di archi e colonne» (Belli, 1987: 17). L’esordio
italiano nel campo della modernità era ancora in embrione ma
si sarebbe avuto di lì a poco quando, con forza, alcuni giovani
irrequieti avrebbero lanciato il loro grido dissonante e, finalmente, portato in Italia l’architettura moderna e Le Corbusier, il loro
baluardo. Nel corso di pochi anni si sarebbe assistito alla nascita
vera e propria del movimento razionalista che, oltre a basarsi
su adesioni isolate, si affermò grazie a numerosi sodalizi legati
al maestro franco-svizzero tra cui spiccano quello di Torino,
guidato da Alberto Sartoris, il ‘gruppo 7’, fondato a Milano e
infine il Gruppo Urbanisti di Roma. Tale comunione d’intenti
fu sancita dalla prima esposizione di architettura razionale del
1928 a Roma che coincise anche con la costituzione del MIAR1 e
che anticiperà di alcuni mesi il primo Congresso Internazionale
di Architettura Moderna (CIAM) a La Sarraz. Evento che sancì
un passo decisivo nell’avvicinare Le Corbusier all’Italia, prima
tramite il ruolo svolto da Sartoris2, poi grazie alla partecipazione
di un nutrito gruppo di architetti italiani all’appuntamento del
1933 ad Atene3. Questi anni segnarono quindi il mutare di una
vicinanza culturale in una forma di sostegno personale e concreto che avrebbe portato, nel 1934, Le Corbusier ad essere presente
personalmente in Italia, invitato dal gruppo di ‘Quadrante’4, a
sancire la sua approvazione del lavoro svolto dai razionalisti
italiani, assolvendo al ruolo di initiateur già sottolineato dalla
73
Territorio 80, 2017
critica5. A partire da questi momenti decisivi le vicende architettoniche italiane procedettero, lungo tutto il periodo fra le due
guerre, in un conflitto tra il monumentalismo piacentiniano e
ricerca del moderno, consumandosi «fra illusioni, entusiasmi,
polemiche, cinismi, compromessi, rigidità e astrazioni» (Ciucci,
1989: 199). Sino a quando, al termine del secondo conflitto,
emersero con vigore tutte le contraddizioni di quel periodo e
una generazione completamente riplasmata fu obbligata ad
impegnarsi in «una difficile dialettica fra il conoscere e l’agire»
(Tafuri, 1982: 5), prodotta da un disorientamento legato al crollo
di ogni certezza.
La difficile opera imposta dalla ricostruzione non allontanò
dal maestro la prima generazione di sostenitori che, seppur in
buona parte mutilata e privata degli animi più fervidi, tra cui «i
migliori»: Terragni e Pagano (Rogers, 1997: 62), si era integrata
con un numero consistente di giovani architetti, pronti ad entrare
in consonanza con il Le Corbusier più maturo. In molti non
esitarono ad accogliere nuovamente il grido del maestro che, già
nel 1941, invitava a ‘guardar lontano’, dopo la guerra, quando
essa ‘lascerà una attrezzatura prodigiosa’, tale per cui ‘l’alloggio
sarà prefabbricato’, diventando ‘l’oggetto del programma più
ampio, più fecondo, più urgente dell’industria’6. Questo invito,
pubblicato da De Carlo nel 1945, è significativo, soprattutto
se letto rispetto ad alcune importanti realizzazioni legate alla
ricostruzione, tra cui assume un significato particolare il QT8
a Milano, proprio perché messo in consonanza con le ipotesi
lecorbuseriane dal suo ideatore, Piero Bottoni e pensato come
banco di prova per la ricerca sulla sperimentazione edilizia e
la prefabbricazione7.
Il periodo postbellico significò quindi un intensificarsi dei rapporti col maestro, che coincisero con una frequentazione piuttosto
intensa dell’Italia, a partire dagli incontri fondamentali del CIAM
di Bergamo, nel 19498 e della Triennale di Milano nel 19519,
assieme ad un inedito, importante coinvolgimento progettuale
diretto dell’architetto a Milano, con il centro di calcolo Olivetti,
a Bologna, con il progetto della chiesa ed infine a Venezia, con
l’ospedale10, tutte opere sfortunatamente non realizzate.
Dopo poco più di quarant’anni dal lancio provocatorio di Vers
une architecture, il 27 Agosto del 1965, Le Corbusier, nelle acque del Mediterraneo, terminava la sua ‘recherche patiente’. La
notizia della morte improvvisa fece il giro di tutti i rotocalchi e
lasciò attoniti ed impreparati i sostenitori di tutte le generazioni,
affranti ed inermi all’annuncio della sua tragica scomparsa.
Caduto il mito era necessario fare qualche considerazione e si
profilava forse la possibilità di tentare un primo bilancio. Le
Corbusier e la sua architettura avevano superato il dramma
della guerra, assumendo nuovi risvolti e mutando le intenzioni
primigenie. Il fragore che aveva suscitato tra i primi razionalisti
si era attenuato in favore di una successione di consonanze,
meno indirizzate alla necessità di produrre manifesti quanto
a quella di stabilire nuovi paradigmi, impartire un metodo e
stabilire un canone universale per la produzione di forme. Tutto
ciò continuando a sorprendere in un crescendo continuo, sino
all’intensità di Ronchamp, raggiungimento estremo, per alcuni
imperdonabile tradimento ma per i più fedeli sostenitori del
maestro ennesima dimostrazione di un metodo11. Una successione di idee e realizzazioni impressionante che ha elevato il
suo artefice a luogo di riferimento assoluto e lo ha iscritto tra la
schiera riconosciuta dei ‘maestri viventi’.
Ecco allora che lo sconcerto della morte provoca lo smarrimento
e il dubbio. «Nulla è trasmissibile se non il pensiero […]. Legge
della vita: la morte. La natura chiude ogni attività con la morte.
Solo il pensiero, frutto del lavoro, si può trasmettere» (Le Corbusier, 1966/2008: 7). Il maestro non è più vivente, la parabola
si è chiusa e resta la sua traccia come guida per nuove interpretazioni, linea interrotta ma compiuta, impressa indelebilmente,
che l’artefice ormai è impossibilitato a modificare. Il 27 agosto
del 1965 è ‘cambiato il modo di pensare a Le Corbusier’12, il
discorso ha ripreso da un nuovo punto e si è convertito in una
nebulosa che continua ad estendersi. La trama che prima veniva
ordita dal maestro sotto un attento controllo e una regia fatta di
opere, scritti, parole si è interrotta ed è ora disponibile ad essere
vista sotto un’altra luce, fortemente variabile.
Nel corso degli anni il pensiero e l’opera di Le Corbusier sono
stati al centro di una intensa attività di revisione critica e storiografica, orientata ad una continua e viva interrogazione rispetto
al senso della modernità nell’architettura del Ventesimo secolo.
Un corpus notevolissimo di opere teoriche e progettuali è stato
sottoposto ad ogni forma di valutazione, producendo scostamenti, riallineamenti, contrapposizioni, consonanze e assonanze
con le ipotesi originarie formulate dal maestro. Tale processo,
sicuramente positivo, perché indicativo dell’importanza delle
opere e della preminenza culturale del lavoro impostato da Le
Corbusier, ha avuto anche l’effetto di accelerare un processo
di assimilazione e riconoscimento, con la conseguenza di fare
apparire lontani nel tempo la sua figura e le sue proposte. Questa
proliferazione di materiale critico, evidente da decenni, è stata
amplificata ulteriormente dalla ricorrenza stessa dell’anniversario della morte ed è sicuramente destinata a non esaurirsi
perché sempre orientata a rimettere il pensiero del maestro in
azione all’interno di uno sfondo culturale in continua evoluzione. Risulta più complesso invece tentare di rileggere nella
contemporaneità il pensiero di Le Corbusier in rapporto ad una
critica svolta attraverso una pratica operante dell’architettura
fondata sul progetto. Qui gli aspetti originari risultano velati da
una molteplicità di considerazioni che isolano alcune questioni e
rendono difficoltosa l’ipotesi di rileggerne alcuni portati rispetto
alle condizioni del presente.
Non risulta allora anacronistico o fine a se stesso pensare di
risalire alle prime impressioni, formalizzate dalla generazione
che ha convissuto e progettato con Le Corbusier condividendone
lo scenario culturale e gli intenti pratici. Vengono quindi offerti
alla riflessione individuale i pensieri formulati al momento della
sua scomparsa, opportunamente commentati in modo da tentare
di ricavarne alcune chiavi di lettura utili all’oggi e destinate ad
un pubblico che in buona parte vive un rapporto completamente
diverso col maestro appartenendo ad una generazione successiva
che lo ha conosciuto tramite il suo lascito consistente, la frequentazione delle opere, il carico di testimonianze e la copiosità
di documenti critici incentrati sulla sua figura. L’interesse per
il rapporto di Le Corbusier con l’Italia e la volontà di limitare
la ricerca ad un particolare tema ed ambito, ha portato alla
decisione di rintracciare, raccogliere e rileggere criticamente i
testi commemorativi pubblicati dalle maggiori riviste italiane di
architettura del periodo in occasione della scomparsa di Le Corbusier nell’anno successivo alla sua morte. Si tratta certamente
di scritti dal valore eminentemente celebrativo che risentono di
un riflesso emotivo dettato dalla circostanza dell’evento, ma che,
74
Territorio
proprio grazie a queste caratteristiche, esprimono i valori umani
legati alla conoscenza e alla frequentazione diretta del maestro,
aprendo a considerazioni da cui traspare vicinanza piuttosto che
distacco, mostrando un volto di Le Corbusier, per ovvie ragioni,
assente nella produzione critica più rigorosa.
Lo spoglio delle maggiori riviste italiane effettuato relativamente al biennio 1965/66 ha permesso di rintracciare una serie
piuttosto cospicua di contributi, alcuni di scarso rilievo perché
estremamente ridotti o di carattere prettamente redazionale,
altri brevi ma di alto valore critico, assieme ad alcuni di ampio
respiro e peso documentario, contenuti entro saggi sviluppati
in forma estesa, oppure sotto forma di rassegna di punti di vista raccolti nel contesto internazionale. Nel settembre del 1965
Casabella, diretta da Gian Antonio Bernasconi apre il numero
297 con una copertina dedicata al «protagonista della grande
rivoluzione dell’architettura moderna» (Koenig, 1965: 14), in
cui egli appare in una suggestiva immagine del fotografo Tullio
Farabola. Il pezzo critico, dal titolo: «Le Corbusier è morto»,
viene affidato a Giovanni Klaus Koenig, consulente stabile del
gruppo di redazione. Segue, nello stesso mese, Domus (Ponti,
1965) il cui direttore, Gio Ponti, dedica, nel numero 430, un
pensiero di suo pugno al maestro, in quattro lingue, inserendo
nel consueto fascicolo una bandella di tre quarti del formato,
in carta avorio, postuma al completamento del numero, proprio
in corrispondenza di un servizio dedicato ad una delle più celebri opere del maestro che dal quel momento sarebbe rimasta
incompiuta per decenni: la chiesa di Firminy. Segue, sempre in
settembre, L’architettura Cronache e Storia (Zevi, 1965) in cui il
direttore, Bruno Zevi, interviene personalmente nel numero 119,
ricordando le Corbusier. La doppia pagina, di squisita impostazione grafica, propone entro una striscia orizzontale, composta
per successione di fotogrammi, una citazione tratta da Des
Canons, des munitions? (Le Corbusier, 1938), un fotoritratto, un
breve riscontro critico e una fotografia in cui Le Corbusier tocca
il basamento in béton brut dell’Unité d’Habitation di Marsiglia
proprio in corrispondenza del ‘suo’ modulor. A breve distanza
il pensiero alla morte del maestro ricorrerà anche in Edilizia
Moderna (Rogers, 1965), il cui capo redattore, Vittorio Gregotti,
deciderà, nel numero 86, di affidare un pezzo critico dal titolo:
«permanenza di Le Corbusier», ad Ernesto Nathan Rogers, suo
maestro e protagonista della seconda generazione dei CIAM
proprio a fianco di Le Corbusier. Ancora ad ottobre anche L’Architetto (De Fusco, 1965), rivista del Consiglio Nazionale degli
Architetti, propone il suo contributo, affidandosi alle parole di
Renato De Fusco che intitola il suo contributo: «Le Corbusier e
noi». L’anno seguente, la neonata, Ottagono (Veronesi, 1966),
diretta da Sergio Mazza, dedica uno spazio alla morte Le Corbusier nel primo numero della rivista affidandosi al ricordo di
Giulia Veronesi. Seguirà un contributo al di fuori di un intento
celebrativo da parte di Zodiac (Aa. Vv., 1966a), con una serie
di interventi critici tematici dedicati a Le Corbusier nel numero
16, per concludere nuovamente con L’architettura Cronache e
Storia (Aa. Vv., 1966b) che, ad un anno dalla scomparsa di Le
Corbusier, dedica, nel numero 130, una doppia pagina ad una
ampia rassegna di dichiarazioni da parte di architetti di tutto il
mondo, riproponendo una sintesi, in lingua italiana, dei contributi apparsi nelle riviste: Progressive Architecture, RIBA Journal
e L’architecture d’Aujourd’hui.
Scorrendo i testi si va dall’ipotesi di bilancio (Koenig), al ricordo
Riproduzione della copertina di Casabella 297 del
1965 dedicata alla scomparsa di Le Corbusier
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Territorio
personale di un incontro (Veronesi), passando dal tentativo di
ricostruire i rapporti intercorsi con una generazione (De Fusco),
giungendo, tra l’amara sintesi di un momento (Zevi) e la promessa di un futuro possibile (Ponti), all’invito ad una riflessione
più matura e ad una pacata sospensione di giudizio (Rogers).
Il corpus che risulta da questo lavoro di raccolta costituisce un
documento abbastanza variegato ed articolato poiché al suo interno coesistono una serie di approcci, stili, necessità e volontà
critiche diversificate, risultanti in una serie di testi piuttosto
incoerente che è tuttavia capace di restituire alcuni orizzonti
critici comuni e fornire diversi spunti interpretativi in grado di
suggerire alcuni modi che possono risultare di qualche interesse
per riguardare oggi all’esperienza di Le Corbusier.
Ripetute letture hanno suggerito alcuni grandi temi che aprono
ad altrettanti possibili capitoli di approfondimento e critica della
vicenda lecorbuseriana. L’intento non è quello di fornire delle
risposte ma piuttosto, trattandosi di questioni dal carattere prettamente aperto, di stimolare alcune reazioni, approfondimenti e
riflessioni, capaci di riportare l’attenzione dei progettisti su Le
Corbusier e riaprire il dibattito, sfruttando, la possibilità di «modificare accenti nelle valutazioni». Ipotesi avanzata da Rogers,
«non tanto perché si modifichi il personaggio in sé per quello
che ha fatto, ma perché il consorzio degli uomini si muove tutto
quanto e stabilisce nuovi punti di vista per giudicare il passato»
(Rogers, 1965: 2).
Eretico, rivoluzionario, profeta… oppure ultimo umanista?
Una delle parole che ricorre con frequenza in riferimento a Le
Corbusier è l’aggettivo ‘eretico’. Koenig identifica così il maestro
in apertura al suo saggio, costatando la sua dipartita terrena e
comparandolo ad altri due ‘grandi eretici’, Stravinsky e Picasso,
compagni, citando Trotsky, nella battaglia dell’arte moderna.
Allo stesso modo lo apostrofa Zevi parlando della sua morte come
di un evento che ha provocato la perdita della ‘fonte’ dell’eresia,
così, negli altri testi, in diverse occasioni ricorre l’ipotesi sovversiva, senza che venga utilizzato direttamente l’aggettivo. Similmente Paul Rudolph lo definisce ‘rivoluzionario’13, introducendo
una ulteriore sottile sfumatura che mette da parte la dissidenza
in favore di un atteggiamento più moderato e introduce al secondo grande paragone ricorrente. Su un piano completamente
opposto, dal maestro eretico, si giunge all’immagine di un Le
Corbusier operante in senso profetico nell’anticipare questioni in
grado di riscattare pienamente l’architettura da una condizione
di oblio, come anticipatore incompreso e rimasto, a scapito della
sua sapienza, inascoltato dai più. Un ‘maestro instancabile’ che
‘ha visto prima di noi, più chiaramente di tutti noi’ la cui voce
purtroppo ‘risuonava nel deserto’, seguendo una strada orientata
a ‘conquistare il futuro’ in una condizione in cui ‘l’epoca non
era ancora pronta per lui, salvo che come profeta’14.
La domanda che sorge spontanea è se veramente Le Corbusier
sia da considerare come l’eretico che scaturisce dal genio e riforma una tradizione o il profeta che preannuncia i destini di una
umanità. Nasce così un interessante tema di discussione che introduce, facendo riferimento in modo volutamente provocatorio,
ad una questione complessa come quella della totale, presunta
o sospetta ortodossia, uno dei punti cardine della questione
lecorbuseriana, ossia la sua autentica anima rinascimentale, di
mente poliedrica, incapace di fermarsi, sempre costante nell’a-
vanzare. A partire dal richiamo rivoluzionario contenuto nel suo
manifesto-trattato in cui tuona sostenendo in modo perentorio
che ‘gli stili sono una menzogna’, vera e propria affermazione
eretica se rapportata al contesto culturale in cui agiva il giovane
Jeanneret. Le Corbusier, da sapiente osservatore e criticatore
della realtà, ha costantemente cercato di comprendere il mondo
e di fornire una risposta al cambiamento che esso stava subendo, immerso in una «solitudine attiva, sempre proiettata verso
l’esistenza altrui» (Rogers, 1965: 2). Sussiste così l’anima dell’eretico, orientata a ribaltare un ordinamento del mondo, assieme
a quella del profeta che mira a riscattare l’uomo tramite la sua
visione, e sullo sfondo si colloca la mente dell’umanista che,
inconsapevole delle sue capacità molto avanzate, dialoga con
una cultura troppo bloccata perché riesca a seguirlo. «Difficile
(quindi) […] negare a Le Corbusier di essere stato l’ultimo degli
umanisti; colui con il quale si conclude degnamente l’ampio arco
rinascimentale» (Koenig, 1965: 14), difficile negare di esserlo
stato anche nell’immaginario più comune, dedito come fu, tra
pochi, a dedicarsi a tutte le attività tipiche dell’uomo rinascimentale, pittura, scultura, architettura, come ricordato in molti
dei contributi raccolti dalle riviste esaminate.
La natura del pensiero di Le Corbusier ci invita ad una riflessione sullo stato presente dell’architettura in cui, tranne poche
eccezioni, tra cui forse va citato Rem Koolhaas15, mancano
spiriti così abili nel criticare e nell’indicare alcune direzioni,
esprimendo un pensiero che si muove all’unisono con il profilarsi di una cultura, dominata da una nuova forma che nel
caso di Le Corbusier fu il meccanicismo industriale ed oggi la
rivoluzione telematica. Si apre così la possibilità di una riflessione che riguarda, in senso più ampio, il ruolo dell’architetto
come figura centrale nella continua e necessaria opera di modificazione dell’ambiente. Recuperare, in questa direzione, lo
spirito critico, fortemente anarchico ed egualmente propositivo
dell’approccio lecorbuseriano non metterebbe certo al riparo
da scontri, incertezze o probabili fallimenti, ma permetterebbe
all’architettura di riscattarsi da una condizione di stanchezza
che non la rende, se non superficialmente, partecipe del flusso
di cambiamenti che sta investendo la realtà, così come avvenne
nei periodi più significativi della vicenda di Le Corbusier, in cui
l’arte si rinnovò costantemente a partire dalla revisione operata
sui suoi fondamenti. Il testo di De Fusco ha, a proposito, il merito
di sottolineare alcune peculiarità dell’esperienza lecorbuseriana che non vanno certo dimenticate: «universalità, obiettività
e semplicità dei suoi punti di riferimento, […] metodologia
dell’essenziale»; tutte qualità supportate dalla figura, una delle
poche «rimaste tanto salde sulle loro posizioni» adottando un
«metodo […] (che) s’è continuamente scontrato con il potere
economico-amministrativo» (De Fusco, 1965: 21).
Le Corbusier è (veramente) morto?
Profeta oppure eretico, sicuramente umanista, una delle questioni che la quasi totalità degli scritti esaminati mette in campo
è legata alla riflessione sul momento della morte del maestro e
sul tentativo di prefigurare i modi e le qualità di una probabile
sopravvivenza del suo pensiero. Si profila così una possibilità di
continuità che, al di là del perpetuarsi del ricordo di chi aveva sviluppato nei suoi confronti un «affetto sincero», viene individuata
nel suo «testamento di architetto» costituito da pensieri, opere,
76
Territorio
idee. Una somma cospicua, il cui «consuntivo» presentava un
«debito», in parte quantificabile ed in parte ammontante ad una
quota imprecisata di ‘indebitamento’ che solo le «generazioni a
venire» (Rogers, 1965: 1) avrebbero potuto via via stabilire; un
lascito aperto quindi, a parere dei contemporanei di Le Corbusier,
destinato a durare nel tempo. A tal proposito non è secondario
rilevare la consonanza con cui la maggioranza dei testimoni,
chiamati a parlare del maestro, affermano all’unisono l’impossibilità dell’oblio, anzi, auspicano addirittura un ravvedimento
di quanti non ne abbiano ancora compreso la grandezza. Nonostante ciò, già quando il giovane Ciriani si recò a Parigi nel
1964, vivo ancora il maestro, animato dalla passione per ‘Corbu’,
si trovò di fronte ad una giovane cultura francese pervasa dalla
«ignoranza […] in quanto alla cultura del Movimento Moderno»,
che «non aveva capito nulla di quella lezione», sino al punto
che «Le Corbusier (era) persino odiato!» (Miotto, 1996: 7). Segno iniziale di una disaffezione che è esistita ed in parte esiste
tuttora, seppure attenuata. Fenomeno che si è originato proprio
dal paese stesso un cui la fama di Le Corbusier ha avuto inizio,
sintomatico di un atteggiamento di osservazione superficiale che
in pochi anni sarebbe stato destinato a cambiare, anche grazie
allo «storicizzarsi della sua figura» e al «ruotare del punto di
vista degli storici, rotazione che ha permesso la scoperta di nuovi
angoli critici di lettura e di nuove gerarchie» restituendo, come
indicava Vittorio Gregotti nel 1987, in occasione del centenario
della nascita del maestro, l’immagine di «un Le Corbusier più
vicino» (Gregotti, 1987: 2). Oggi, ad oltre cinquant’anni dalla
morte è sicuramente innegabile che lo spirito di Le Corbusier
continui a sopravvivere. Indubbiamente la generazione corrente
non ha ancora finito di raccogliere l’eredità del genio. Molte le
intuizioni non totalmente verificate, molti i progetti non pienamente messi in pratica, molti i modelli falliti, imitati, bistrattati,
rifiutati, che potrebbero essere sottoposti a un riesame critico
tramite la revisione dei principi che li hanno animati a partire
dalla loro reinterpretazione progettuale. Pensando a Le Corbusier in rapporto alla produzione architettonica contemporanea,
bisogna costatare la validità di indicazione di un atteggiamento
e di un metodo che, seppur aggiornato, continua a fare scuola
e ad essere messo a frutto nel progetto, a scapito di un disinteresse più marcato per le soluzioni formali, che sono forse il
carattere più variabile della poetica lecorbuseriana e che, oggi
non suscitano più grande entusiasmo.
Cinquant’anni sono forse insufficienti per dimostrare il successo o l’insuccesso di un intero costrutto teorico e sperimentale,
eppure questo tempo, seppur breve, ha permesso di verificare
come alcune opere abbiano avuto la forza di salvarsi e riscattarsi
da una condizione critica di particolare peso. È il caso della
Unité d’habitation di Firminy che, dopo numerose incertezze,
l’abbandono di una parte di edificio e il rischio concreto di totale chiusura, è stata, di fatto, salvata da una iniziativa partita
dagli abitanti stessi16, segno evidente dell’ambigua valutazione
che nel corso degli anni è stata attribuita a questa architettura
e dimostrazione della complessità dei fenomeni che decretano
il successo o meno di una operazione architettonica, sociale e
culturale di tale portata.
Il lascito consistente di Le Corbusier sottolineato dai commentatori del 1965 consiste inoltre nel suo «testamento di architetto,
i progetti nuovi, da realizzare ancora, a noi affidati» (Ponti,
1965: s.p.). L’espressione scelta da Gio Ponti sembra sottinten-
dere il desiderio che molte delle proposte lasciate incompiute
da Le Corbusier fossero concluse, anche se così non è stato se
non tra molte incertezze. Abbandonato il grandioso progetto
dell’ospedale di Venezia, trattato, con disinvoltura, tredici anni
dopo da Eisenman17 come «struttura sopra il sito dato» (Cassarà, 2005: 98), archeologia mnemonica e substrato culturale,
sono proceduti a fatica i lavori per la chiesa di Firminy, che
proprio Domus pubblicava nello stesso numero in cui annunciava ai suoi lettori la scomparsa di Le Corbusier, una sorta di
testamento spirituale, se vogliamo. Completata nel 2006, dopo
più di quarant’anni dalla morte del suo ideatore, è un edificio
emblematico ed estremamente rappresentativo della difficoltà
che ha contraddistinto la volontà di continuare il lavoro di Le
Corbusier. La realizzazione, affidata al suo allievo e collaboratore José Oubrerie, sin dall’origine coinvolto nel progetto, ha
innescato un acceso dibattito relativo alla legittimità o meno del
completamento18, restituendo un edificio su cui aleggia il dubbio
rispetto a quanto sia o meno il risultato dovuto al maestro o al
suo epigono. Ne emerge il profilo di un Le Corbusier temuto ed
intoccabile, di cui si possono manipolare più le parole, la figura
pubblica, anziché i progetti e le opere. È quanto desumibile anche da un’altra vicenda che assume particolare rilievo rispetto ai
contenuti di questa riflessione, ossia il dibattito e le polemiche
che hanno accompagnato la realizzazione del monastero delle
Clarisse a Ronchamp progettato da Renzo Piano19. Senza entrare
nel merito della bontà o meno delle questioni avanzate a favore
o contro queste realizzazioni, da entrambe le vicende emerge, in
modo diverso ma comparabile, l’immagine di un Le Corbusier
che dal 1965 ad oggi ha percorso una strada molto più lunga
dei cinquant’anni effettivamente trascorsi. Una strada che ha
traghettato la sua esperienza verso l’orizzonte della storia, con il
rischio della museificazione e, conseguentemente, della paralisi.
Tale processo comporta la possibilità che dopo le opere si tendano
a rendere definitive, congelate ed immutabili anche le sue idee,
comprese quelle forse troppo avanzate, idealiste o visionarie,
rispetto all’epoca in cui ha operato il maestro. Provocazioni che
pongono agli architetti delle questioni ancora aperte e quindi
potenzialmente assumibili come tesi per nuove investigazioni
progettuali sperimentali. In questo senso i testi del 1965, frutto
del pensiero di chi aveva conosciuto e aveva lavorato vicino a Le
Corbusier ci restituiscono l’impressione della possibilità di un
contatto più diretto e più umano e la sicurezza della concretezza
di poter tentare di dare continuità ad un pensiero che, aggiornato
ed esposto alle critiche della nostra epoca, può avere ancora la
forza di suggerire un campo aperto di possibilità.
Note
1. Per una ricostruzione più completa delle vicende descritte si può
confrontare con (Ciucci G., 1989).
2. Alberto Sartoris partecipò al primo CIAM e fu tra i firmatari della dichiarazione finale. Egli fece parte anche della Commissione Internazionale per
la Realizzazione del Problema Architettonico Contemporaneo ‘CIRPAC’,
come delegato per la costituzione del gruppo nazionale assieme a Carlo
Enrico Rava. Per un approfondimento del ruolo culturale svolto da Sartoris, confrontare i saggi contenuti nel volume in (Sommella Grossi, 1998).
3. Le vicende legate a questo appuntamento fondamentale e il ruolo dei
protagonisti sono accuratamente descritte in (Mumford, 2002).
4. Le Corbusier fu invitato dai direttori della rivista Pietro Maria Bardi e
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Territorio
Massimo Bontempelli, i discorsi delle due conferenze tenute dal maestro
furono pubblicati nel numero della rivista di maggio del 1934, tradotti da
Guido Fiorini che fu in quegli anni referente italiano a Roma e collaboratore di Le Corbusier. Si confronti in bibliografia: (Talamona, 2012), In
particolare i saggi: ‘Roma 1934’ di M. Talamona e ‘Le Corbusier e Adriano
Olivetti negli anni Trenta’ di G. Ciucci. Si veda anche (Le Corbusier, 2015).
5. Il soggiorno in Italia del 1934 è il primo di una serie di tre viaggi effettuati
da L.C. in Italia negli anni ’30. La ricostruzione di queste vicende, così come
il ruolo di initiateur evidenziato nel testo è esposto in (Talamona, 2012: 250).
6. Il testo da cui è tratta la citazione, estratto e tradotto in lingua italiana
dal libro di Le Corbusier ‘Sur les quatre routes’ (Le Corbusier, 1941), è
stato originariamente pubblicato nella quarta parte della rassegna proposta da Giancarlo De Carlo, significativamente dedicata ai «problemi
della ricostruzione». L’autore rileva come «i brani […] di Le Corbusier
[…] possono servirci di orientamento nell’impostare il problema della
ricostruzione italiana», (De Carlo, 1945).
7. Gli aspetti indicati emergono con chiarezza dalla lettura di (Bottoni, 1954).
8. Per approfondimenti si può confrontare il saggio di P. Nicoloso contenuto in (Talamona, 2012); ed anche il contributo di L. Belgioioso raccolto
da (Denti et al., 1988).
9. Per approfondimenti si possono confrontare (Irace; Cimoli, 2007) e il
saggio di Francesco Gnecchi Ruscone contenuto in (Denti et al., 1988).
10. Le vicende legate a questi progetti sono ampiamente descritte in molta
della letteratura legata a Le Corbusier e alle vicende della architettura
italiana, tuttavia si segnalano: per il caso della Olivetti (Bodei, 2014),
per la chiesa di Bologna il saggio ‘Le Corbusier e l’enigma di Bologna’
(Gresleri et al., 2001); per l’ospedale di Venezia Petrilli, 1999).
11. Una delle prese di posizione più intense in favore del maestro è
quella esposta da Ernesto N. Rogers sulle pagine di Casabella-Continuità
(Rogers, 1955).
12. Questa lettura e modalità di superamento è proposta in (Rogers, 1966).
13. L’intervento di Rudolph è contenuto nell’ampia rassegna pubblicata da
L’architettura Cronache e Storia (Aa.Vv., 1966b) assieme a molti contributi
di autori stranieri raccolti dalla pubblicistica internazionale.
14. Le varie sfumature descrittive sono offerte dalle numerose dichiarazioni contenute in (Aa.Vv., 1966b) e vanno attribuite in ordine di
citazione a: Balthazar Korah, Marcel Lods, Balthazar Korah, Siegfried
Giedion, Balthazar Korah.
15. Questa ipotesi viene avanzata dall’autore nella ‘postfazione 1999’
(Tentori, 1999: 163-165).
16. La vicenda è ben descritta in (Sbriglio, 2004: 224).
17. Ci si riferisce al progetto di Peter Eisenman del 1978 denominato
‘Cannaregio Town Square’, pensato per l’area originariamente destinata
all’ospedale di Venezia.
18. Il dibattito che ha accompagnato il completamento dell’edificio è
efficacemente descritto in (Micotti, 2014).
19. Per una disamina accurata di questa vicenda si confronti (Cohen,
2011).
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78
Territorio
Dalla geometria dei
cristalli alla matematica
della natura.
Le Corbusier negli scritti
di Ernesto N. Rogers
Marco Bovati
Politecnico di Milano, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani
(marco.bovati@polimi.it)
Il 26 maggio 1966 alla Facoltà di
Architettura del Politecnico di Milano
Ernesto Nathan Rogers pronunciava
un discorso commemorativo
dedicato a Le Corbusier scomparso
l’anno precedente (Cap Martin,
27 agosto 1965); l’elogio funebre,
intitolato ‘Le Corbusier tra noi’,
veniva pubblicato nello stesso anno
dalle edizioni All’insegna del pesce
d’oro di Milano, fondate da Vanni
Scheiwiller.
Rimandando a scritti precedenti,
ma anche alle lezioni universitarie
sui maestri del moderno, il testo
rappresenta una sorta di mappa
concettuale dello sviluppo logico
e temporale dell’interpretazione
rogersiana del maestro svizzero.
La sua rilettura a cinquant’anni di
distanza ha suggerito un percorso
di approfondimento dell’originale
pensiero di Rogers su Le Corbusier,
fatto di ammirazione e di stima,
non esente da qualche critica e
animato da quell’atteggiamento
‘anticelebrativo’ che egli riservava
all’insegnamento dei maestri
Parole chiave: Ernesto N. Rogers;
elogio funebre; Le Corbusier
ISSN 1825-8689, ISSNe 2239-6330
«E senza che egli perda nulla del suo carattere moralistico,
catartico e missionario, le sue opere più recenti sembrano
appartenere meno ai cieli rarefatti dai quali parevano discendere,
per diventare sempre più prodotti della terra; non hanno
rinunciato alla complessità delle strutture e alla loro immagine
matematica, proprio perché anche la natura è tutta composta
di strutture complesse e matematiche: vorrei dire che, invece di
cristalli, sono ormai dei fiori rigogliosi e dal profumo penetrante»
Ernesto N. Rogers1
Premessa
Il 26 maggio 1966 alla Facoltà di Architettura del Politecnico di
Milano Ernesto Nathan Rogers pronunciava un discorso commemorativo dedicato a Le Corbusier scomparso l’anno precedente
(Cap Martin, 27 agosto 1965); l’elogio funebre, intitolato ‘Le
Corbusier tra noi’, veniva pubblicato nello stesso anno dalle
edizioni All’insegna del pesce d’oro di Milano, fondate da Vanni
Scheiwiller.
Le parole di Rogers rappresentano una vera e propria sintesi del
pensiero sul maestro svizzero. Esse contengono infatti, oltre ad
alcune parti inedite, numerosi passi tratti da suoi precedenti
articoli ed editoriali. Rogers non si limita alla commemorazione
del ‘genio’ corbuseriano, ma opera una ricomposizione di temi e
interpretazioni, facendo coesistere in un unico testo il commosso
ricordo personale, la commemorazione delle gesta e del profilo
artistico e la propria interpretazione, non senza confrontare tutto
ciò con alcuni punti fermi del proprio pensiero critico.
Rimandando a scritti antecedenti, ma anche alle lezioni universitarie sui maestri del moderno, il testo rappresenta una sorta
di mappa concettuale dello sviluppo logico e temporale dell’interpretazione rogersiana del maestro svizzero, suggerendo un
possibile percorso di approfondimento dell’originale pensiero
di Rogers su Le Corbusier.
Questioni metodologiche e fonti
Cosa significa parlare di Le Corbusier attraverso gli scritti di Rogers? Si tratta di un testo sul primo, sul secondo o su entrambi?
Perché, con tanti autori che hanno scritto del maestro svizzero,
è utile rivolgersi proprio a Rogers?
Innanzi tutto è opportuno chiarire che si tratta inevitabilmente
di un testo su entrambi. Trattare di un autore a partire da testi
critici altrui e non – o non solo – dalle opere e dagli scritti del
79
Territorio 80, 2017
primo, è possibile ed ha senso purché si chiarisca da subito la
parzialità del punto di vista, in qualche modo già orientato,
dal quale si osserva l’argomento affrontato. Anzi, purché tale
parzialità sia assunta come elemento strategico per l’individuazione di tratti di originalità della lettura indagata e consenta di
ricondurre alla personalità dell’autore o al particolare momento
storico, specifici aspetti tematici e/o metodologici. Parlare di
Le Corbusier attraverso Rogers, significa dunque parlare della
cultura architettonica italiana e milanese di quel periodo.
Per quale ragione si ritiene utile questa posizione e perché
proprio a partire dagli scritti e dalle parole di Rogers, è quanto
cercheremo di chiarire. Rogers e il suo punto di vista risultano
centrali nel comprendere, per analogie e differenze, come è stata
letta e interpretata la figura di Le Corbusier da una parte della
cultura architettonica italiana, in una precisa fase storica che
ha coinciso con l’ultimo periodo della sua attività e con i primi
anni seguenti alla morte. L’interpretazione rogersiana è da un
lato una delle più autorevoli sulle quali si è formata più di una
generazione di architetti cresciuti alla scuola di architettura di
Milano ed ‘educati’ dalle riviste dirette dallo stesso Rogers2;
dall’altro essa riverbera di un importante movimento di idee
nato in Italia, che per un paio di decenni ha saputo catturare
le attenzioni internazionali, influenzando le riflessioni di non
pochi settori della cultura architettonica e animando uno dei
momenti più fecondi del dibattito architettonico del dopoguerra;
forse l’ultima stagione che ha riconosciuto uno status ai ‘maestri’
del modernismo, dichiarando il debito profondo nei confronti
di quel movimento di cui, al contempo, iniziava a mettere in
discussione dall’interno gli assunti principali.
La relazione complessa e articolata tra Ernesto Nathan Rogers e
Le Corbusier si è espressa su molteplici livelli. Il primo è quello
dei rapporti diretti e delle frequentazioni avvenute nel corso dei
congressi internazionali, dei convegni e delle visite reciproche.
Questo primo livello si riverbera nei loro carteggi dai quali, oltre
ai toni basati su rispetto e stima reciproca e su un’ammirazione
da parte di Rogers per il ruolo di maestro che riconosceva a Le
Corbusier, emergono naturalmente altri temi legati al loro lavoro, alle occasioni di frequentazione (CIAM, Commissione per il
Palazzo UNESCO di Parigi), all’organizzazione della mostra di
Milano del 1959; soprattutto numerosi sono gli scambi relativi
ai materiali (testi e immagini) di progetti di Le Corbusier che
Rogers desidera ospitare su Domus e Casabella; a queste pubblicazioni – che vengono sempre puntualmente trasmesse a Le
Corbusier – spesso questi risponde congratulandosi3. Infine vi è
un terzo livello, per così dire indiretto, del rapporto, rappresentato dagli scritti che il primo dedica al secondo, dalle relazioni
a convegni e dalle lezioni universitarie che hanno come oggetto
il lavoro del maestro svizzero.
Un panorama assai vasto quello della relazione tra i due, per
il quale è parso opportuno definire una strategia di approccio
la quale, non potendo investire l’intero l’arco rappresentato dai
loro numerosi scambi, si è orientata ad individuare un punto
di ingresso in quel complesso intreccio di rapporti, individuato
negli scritti di Rogers, a partire dal quale si ritiene possibile
lasciar trasparire la complessità e l’estensione del rapporto,
ancorché se ne approfondisca un aspetto specifico.
La rilettura che nell’elogio funebre Rogers opera dei suoi precedenti scritti, e in generale l’interpretazione che offre di Le Corbusier, contribuiscono infatti a fornirne una visione articolata e
ricca; ciò ha suggerito di ripercorrere i testi dai quali l’elogio ha
tratto i passaggi più significativi, scoprendo che a tale ricchezza
si affianca un punto di vista a volte critico – in parte assente
dall’elogio del maggio 1966 – e sempre libero di evidenziare le
contraddizioni e le antinomie presenti nel pensiero e nell’opera
del maestro svizzero, che Rogers prova a risolvere con un’interpretazione originale.
L’esito della presente indagine guidata da ‘Le Corbusier tra
noi’, va dunque oltre i contenuti presenti nell’elogio funebre.
A fianco di una riflessione sui temi posti dal testo si è tentato
di ordinare schematicamente gli scritti che Rogers dedica a Le
Corbusier (Fig. 1), attraverso una comparazione diagrammatica
che evidenzia ‘riprese’ e rielaborazioni e le mette in rapporto
con le date di pubblicazione. Il quadro è piuttosto intrecciato,
alcuni scritti compaiono più volte con titoli diversi e poche
differenze nei contenuti, altri ricompaiono in forma ridotta in
altre occasioni4. Le lezioni di Rogers del 1964 e 1965, infine,
costituiscono di fatto una sorta di assemblaggio esteso del pensiero rogersiano su Le Corbusier Per queste ragioni la presente
lettura critica si è prevalentemente basata su di esse, oltre che
sulla commemorazione del 1966.
Tre argomenti principali e alcuni temi trasversali
Si è provato ad articolare il discorso rogersiano a partire da tre
grandi questioni che, da un lato, mostrano una coerenza di
approccio fondata sull’analisi delle opere, sull’interpretazione
del pensiero e sull’accostamento della personalità di Le Corbusier con i grandi protagonisti della storia dell’architettura, in
particolare del Rinascimento italiano; dall’altro lato consentono
l’emergere di alcuni temi trasversali che riallacciano la visione
rogersiana ai principali temi del dibattito architettonico di quegli anni, animato grazie anche al contributo di Rogers stesso e
dell’ambiente culturale milanese.
Il primo argomento è espresso dall’osservatorio specifico che
Rogers sceglie per raccontare Le Corbusier, quello che l’architetto
italiano definisce la maison de l’homme, ovvero l’insieme della
ricerca progettuale corbuseriana sull’abitazione, unifamiliare
prima e collettiva poi, che viene considerata nel suo modificarsi
attraverso il tempo – dalle ville puriste all’Unité di Marsiglia che
Rogers definisce «il primo Palazzo che gli uomini innalzano, non
per il principe, ma per il cittadino qualsiasi» – con l’esplicito
intento di sostenere la tesi secondo la quale, a dispetto della
varietà della sua produzione architettonica, vi è una coerenza di
fondo che in Le Corbusier va colta primariamente osservandone
l’intera opera nell’arco del suo sviluppo temporale.
L’originale lettura di Rogers procede dalle prime abitazioni fino
ai progetti più recenti; lo sguardo non intende essere cronologico in senso storiografico, bensì ‘storico-pragmatico’, come egli
stesso lo definisce, dove la sequenza temporale rappresenta una
guida alla comprensione di un processo creativo e dialettico che
si svolge nel tempo ma che, in particolare per Le Corbusier, si
comprende pienamente solo per sintesi provvisorie.
A conferma di ciò, un ulteriore elemento di originalità è costituito
dalla selezione delle opere scelte da Rogers. In una stagione nella
quale si assisteva ad un acceso dibattito sul presunto ‘tradimento’
dei dogmi modernisti che Le Corbusier avrebbe perpetrato con
le sue opere più recenti – in Italia in particolare ricordiamo la
posizione di Argan che a proposito di Ronchamp parla di ‘sban-
80
Territorio
CATALOGHI DI
ESPOSIZIONI
1954
EDITORIALI
ED ARTICOLI
LEZIONI
UNIVERSITARIE
CONFERENZE
ED ATTI
INTERVISTE
RACCOLTE DI SCRITTI
"Sintesi di Le
Corbusier",
Villa Olmo, Como
1955
"Il metodo di LC e la
forma della Ch. de
Ronchamp",
Casabella, 207
(settembre/ottobre)
1956
"L'architettura moderna
dopo la generazione dei
maestri", Casabella, 211
(giugno/luglio)
"L'architettura moderna
dopo la generazione dei
maestri",
Berkeley (maggio)
1957
"L'architettura
moderna dopo ...",
Esperienza
dell'architettura,
Einaudi, p. 190
1958
"Il metodo di LC e
la forma della
...",Esperienza
dell'architettura,
Einaudi, p. 169
1959
1960
"Il sogno ad occhi
aperti di Le Corbusier",
Casabella, 274
(gennaio)
1961
"Villa, townhouse and
Unité: the Utopian
spectrum",
Columbia Univ.
1962
1963
"Prima lezione/
Seconda lezione/
Lezione del 30
aprile 1965",
Facoltà di
Architettura del
Politecnico di
Milano
1964
Intervista di G. E.
Simonetti a Rogers,
Marcatrè 16-17-18 pp.
330-332
27 agosto
morte di
Le Corbusier
1965
"Le Corbusier:
l'Esprit Nouveau",
Cassina, Milano
1966
"Permanenza di
Le Corbusier",
Edilizia Moderna
n. 86
"Soñar con los ojos
abiertos", La Torre (Univ.
di Porto Rico),
n. 52
"Le Corbusier tra
noi", Milano, 26
maggio /
Scheiwiller
1967
"Le Corbusier",
Editoriali di
architettura,
Einaudi, p. 42
1968
Intervista di G. E.
Simonetti a Rogers,
Editoriali di architettura,
Einaudi, p. 46
07 novembre
morte di
E. N. Rogers
1969
1970
"Villa, townhouse and
Unité: the Utopian
spectrum", ed. Da
Capo, New York
Fig. 1 – Ordinamento diagrammatico degli scritti rogersiani su Le Corbusier.
Questo diagramma rappresenta un tentativo di ordinamento schematico degli scritti di Rogers, realizzato attraverso una
comparazione che evidenzia ‘riprese’ e rielaborazioni (le frecce) tra i diversi tipi di testo (le fasce verticali) e le mette
in rapporto con le date di pubblicazione, scandite dal tratteggio orizzontale; in questa cornice emergono come nodi
significativi la data della commemorazione e le date di morte dei due protagonisti. Il quadro è complesso: oltre ai testi
originali e alle rielaborazioni, alcuni scritti compaiono diverse volte col medesimo titolo o con titoli diversi e poche
differenze nei contenuti, altri ricompaiono in forma ridotta in altre occasioni. Se la commemorazione rappresenta una
sintesi densa e complessa, le lezioni del 1964 e del 1965 costituiscono una sorta di assemblaggio esteso del pensiero
rogersiano su Le Corbusier
Fonte: elaborazione dell’autore
81
Territorio
Fig. 2 – Lettera di Le Corbusier ai BBPR del 23 febbraio 1953, nella quale si loda il progetto per
la Torre Velasca; l’opera è identificata attraverso il nominativo della Società ‘RICE’ (Ricostruzione
Comparti Edilizi Spa) che aveva incaricato lo studio milanese della progettazione e realizzazione
della torre
Fonte: ©FLC/SIAE, 2017
Fig. 3 – Lettera di Le Corbusier a Rogers del 18 febbraio 1964, nella quale Le Corbusier si felicita
per il titolo e per lo stile dello scritto ‘Il sogno ad occhi aperti di Le Corbusier’, pubblicato sul
numero 274 del 1961 di Casabella
Fonte: ©FLC/SIAE, 2017
damento ideologico’ e abiura del moderno (Argan, Rogers, 1956)
– l’attenzione di Rogers si caratterizza per un atteggiamento di
tipo inclusivo, segnato dall’idea di ‘continuità’, e orientato a
leggere nelle opere selezionate un principio di coerenza e una
serie di temi che gli sono più vicini. Egli infatti non si concentra
esclusivamente sul Corbu ‘purista’ o su quello ‘brutalista’, ma
abbraccia un arco temporale e espressivo assai vasto; inoltre,
trattando opere come la Villa ‘Le Sextant’ (Les Mathes, Francia, 1935), l’insediamento Roq e Rob (Roquebrune-Cap-Martin,
Francia 1949, non realizzato), la Maison de week-end (La CelleSaint-Cloud, Francia 1934) e le Maisons Jaoul (Neuilly-sur-Seine,
Francia 1951), Rogers intende sottolinearne il carattere quasi
‘regionalista’, riconducendo – in certo qual modo – l’opera corbuseriana sul terreno propriamente rogersiano delle preesistenze
ambientali. Oltre a ciò assume un rilievo significativo il peso
che Rogers assegna alle questioni climatiche quando racconta
delle case in India (Maison Sarabhai, Ahmedabad 1955; Maison
Shodhan, Ahmedabad 1956), di Chandigarh così come della Griglia climatica; ciò viene fatto non senza sottolineare la necessità
della relazione dialettica tra il «clima dell’ambiente naturale,
che poteva essere interpretato razionalmente» e il clima «dello
specifico ambiente culturale». Rogers evidenzia in questo modo
un particolare aspetto del profilo culturale corbuseriano: non
più un progettista alla ricerca di una soluzione standardizzata ai
problemi «dell’uomo indeterminato» – che egli individua nel Le
Corbusier degli anni ’20 e degli anni ’30 – ma intenzionato ad
approfondire le «radici dell’uomo caratterizzato dal suo clima»,
non solo naturale ma anche culturale.
Dietro questa lettura si intravede l’idea rogersiana secondo la
quale il Movimento Moderno non è più da considerarsi un «prodotto acritico […] separato dal flusso della Storia», bensì l’oggetto
di quella che Luca Molinari definisce una rilettura storiografica
82
Territorio
Fig. 4 – Lettera di Ernesto N. Rogers a Le Corbusier del 1 aprile 1965, nella quale Rogers
comunica a Le Corbusier la notizia
del suo licenziamento da direttore di Casabella, lo ringrazia per l’incoraggiamento e per avergli
consentito di pubblicare, ‘con priorità’, le sue opere più importanti; la lettera resterà senza risposta
a causa della morte di Le Corbusier avvenuta poche settimane dopo.
Fonte: ©FLC/SIAE, 2017
operata da Giedion e dallo stesso Rogers, finalizzata a «radicare
questa esperienza […] ad una tradizione occidentale, umanista
riconoscibile e alle identità dei luoghi che l’hanno generata.»
(Molinari, 1997: 25)
Questo smarcamento dagli ideali del periodo delle avanguardie
emerge in quegli anni anche dalle parole dello stesso Le Corbusier quando, per esempio, proprio durante una visita in Italia in
occasione del VII CIAM (Bergamo, 24-29 luglio 1949), si reca a
Como a commemorare la figura di Terragni. In quell’occasione
egli dirà: «Il funzionalismo non è che una protesta momentanea
che ha avuto un senso una volta e che è servito agli architetti
ad imparare di nuovo la loro ortografia, l’ortografia del loro
mestiere; e, immediatamente dopo, le strade dell’immaginazione
erano aperte per chi le sapeva prendere e arrivare allo scopo»5.
Il secondo argomento concerne l’interpretazione della complessità e della ricchezza della personalità di Le Corbusier, di cui
Rogers, pur in quadro di grade ammirazione, non rinuncia ad
evidenziare quelle che egli ritiene essere le principali contraddizioni, non risparmiando qualche critica.
Due passaggi paiono centrali nel ragionamento di Rogers.
Il primo è un tentativo di offrire una parziale esegesi filosofica
di Le Corbusier. L’argomentazione ruota attorno alla relazione
dialettica tra una ‘tendenza cartesiana’ e una opposta «tendenza pragmatica di vedere le cose in sé». Secondo Rogers questa
tensione, in apparente contrasto filosofico, si risolve nel costante
tentativo, operato da Le Corbusier, di adattare la ‘ragione chiara’ ai diversi temi progettuali di volta in volta affrontati. Ciò è
espresso compiutamente – nella sua opera realizzata – dal contrasto tra l’estetica purista e la visione macchinista del mondo
e – nell’interpretazione del suo pensiero – in quella che Rogers
identifica come evoluzione delle idee corbusieriane di ‘uomo’
e di ‘spazio’: il primo visto inizialmente come ‘uomo assoluto’
83
Territorio
– in coerenza con gli assunti del modernismo e degli anni delle
avanguardie – e in seguito sempre più come ‘individuo’ – in
maggiore sintonia con le mutazioni avvenute nel dopoguerra; il
secondo – lo spazio – concepito nelle prime opere come ‘entità
fisica’ e, nella seconda parte della sua produzione architettonica,
come ‘entità geografica’6.
Il secondo passaggio è rappresentato dal tentativo di leggere le
ragioni profonde del pensiero e dell’opera di Le Corbusier; questa lettura, secondo l’interpretazione rogersiana, sembrerebbe
in grado di ‘risolvere’ il senso della apparente contraddittorietà
espressa dal carattere eterogeneo della sua produzione architettonica, attraverso il «superamento […] intuitivo delle schematizzazioni cui è dal suo cartesianesimo ricorrentemente condotto»;
proprio da qui emergerebbe l’unitarietà della figura di Le Corbusier, ovvero il suo operare per «un’architettura redentrice della
condizione umana». Questa misura della coerenza e dell’unità
dell’opera di Le Corbusier, che Rogers definisce ‘costanza del
fine’, opererebbe dunque da sintesi tra il continuo alternarsi
di tensione verso l’utopia e necessità del riconoscimento della
realtà storica, fornendo un ‘legante’ tra le diverse esperienze
del suo lavoro nell’arco del tempo. Il senso profondo della
funzione redentrice dell’architettura corbuseriana si esprime
inoltre, secondo Rogers, in una costante critica verso la società, i suoi «compromessi, l’utilitarismo gretto, la mancanza di
coraggio», cui Le Corbusier contrappone una sorta di «fiducia
religiosa nelle possibilità redentrici dell’ordine, dell’armonia,
dell’indipendenza necessaria a perseguire tali scopi», in quella
che Rogers definisce una sfida donchisciottesca nella quale l’arte
sarebbe la sua Dulcinea7.
Il superamento che Rogers intravede non cancella però le
contraddizioni poiché – analogamente a quanto detto sopra a
proposito della dialettica tra tendenza cartesiana e tendenza
pragmatica – la risoluzione delle antinomie avverrebbe «nella
realtà concreta della vita», «nell’esperienza concreta» del suo
lavoro ed attraverso la sua «straordinaria capacità di rinnovamento» (Rogers, 1966).
Il terzo argomento è rappresentato dal parallelo che Rogers
istituisce tra modernità e Rinascimento e tra i rispettivi ‘maestri’, nell’ambito del quale Le Corbusier è messo in rapporto
in particolare con Michelangelo e con Leonardo. Questo tema
è presente sia nell’elogio funebre che, in forma estesa, nelle
lezioni, ed è un’argomentazione in qualche modo necessaria
ad affermare una precisa idea rogersiana di storia come evoluzione aperta, pragmatica e priva di dogmatismi: «come […]
un problema che si ripropone a nuove esperienze, le quali
richiedono il contributo della responsabilità creatrice di ognuno di noi». Compito che però non si può assolvere senza una
«critica attiva […] che penetra nei contenuti da cui le singole
forme sono germinate, per elaborare nuovi contenuti e nuove
forme». È in questa cornice che Rogers costruisce una corrispondenza tra le multiformi personalità di Le Corbusier e di
Michelangelo, accomunati da una creatività ricca ed applicata a
diverse forme di espressione, tutte finalizzate alla ‘sintesi delle
arti maggiori’ e concorrenti a costituire un quadro complesso.
Parimenti istituisce un rapporto tra gli ideali e l’impostazione
dei problemi che animano la modernità e quelli che caratterizzavano il Rinascimento, il quale, secondo Rogers, «non
partiva da stimoli di natura diversa». L’originalità e, in qualche
modo, la natura eversiva del suo ragionamento, emergono se
consideriamo, come ci ricorda Rogers stesso, che proprio quel
Rinascimento che lui scomoda per parlare di modernismo e
di Le Corbusier, era «combattuto e più spesso disprezzato»
dai maestri del moderno, così come il suo insegnamento e,
più in generale, quello della storia8. Appare pertanto evidente
il tentativo di Rogers di ‘riabilitare’ tali temi agli occhi dei
maestri del moderno, instaurando un principio di continuità,
ancorché dialettica e relativa, tra momenti distanti tra loro ma
accomunati da problemi di natura simile che si ripropongono
in tempi diversi, caratterizzandosi per la necessità di avere
risposte diversificate e specifiche per ogni epoca.
Il tema è stato già richiamato tra gli altri da Ezio Bonfanti,
nel saggio del 1973 dal titolo «Rogers e i ‘maestri’», il quale
assegna ai ‘ruoli analoghi’ che Rogers immagina per i maestri
del moderno associandoli a quelli rinascimentali, il compito
di rappresentare una sostanziale autonomia e una diversità
che, seppur in forma complementare, contraddice l’idea di una
premessa disciplinare comune tra i protagonisti della stagione
modernista; in luogo di ciò parla infatti di compiti diversi che
si compongono «come le tessere di un mosaico» (Bonfanti,
2003: 323)9.
Bonfanti, allievo di Rogers, vede questa interpretazione come
la messa in evidenza, da parte di Rogers, un elemento di crisi
e di contraddizione del modernismo funzionalista gropiusiano. Si può forse affermare che, avvicinando Le Corbusier a
Michelangelo, Rogers confermi la sua impostazione aperta e
antidogmatica della storia, smentendo la «concezione di una
impersonale, ‘scientifica’ consecutio dalla posizione dei problemi alla loro soluzione in artefatti ‘oggettivi’» (Bonfanti, 2003:
322) ed affermando, invece, l’importanza e le conseguenze
sul piano metodologico, dell’azione della singola personalità
creativa, o meglio, della «particolare poetica e […] linguaggio
figurativo onde ognuno di questi artisti ha espresso il proprio
stile personale»10.
Vi sono poi alcuni temi trasversali cui è opportuno accennare
seppur brevemente, sia perché emergono ripetutamente in diversi
scritti, anche a distanza di tempo, sia perché alcuni di questi
costituiscono elementi di riconoscibilità dei cardini del pensiero
rogersiano; infine poiché rappresentano, in qualche caso, punti
di vista originali sulla figura e sull’opera di Le Corbusier.
Fulcro del pensiero di Rogers è il tema della storia, cui si è già
accennato in precedenza, che nella interpretazione dialettica
dell’architetto milanese diventa lo strumento concettuale che
consente di interpretare e risolvere nella tensione tra teoria e pratica, le contraddizioni e le antinomie della figura di Le Corbusier.
A questo si affianca la questione delle preesistenze ambientali:
insieme al primo fanno da supporto alla principale critica che
Rogers muove nei confronti del maestro svizzero, quella relativa al Plan Voisin. Qui Rogers è esplicito nel definire un errore
l’idea di mantenere alcuni monumenti di Parigi, inseriti nella
struttura del piano e liberati del tessuto storico circostante; ciò
poiché secondo la sua impostazione culturale un monumento
acquisisce senso anche e soprattutto dalla relazione con il luogo, che contribuisce a formare quell’«alone che viene […] dalle
preesistenze».
Questo tema fa parte di una più generale critica di Le Corbusier
urbanista che invece lo stesso Rogers aveva difeso, o almeno
non aveva attaccato come altri avevano fatto qualche anno
prima a Bergamo (Nicoloso, 2012: 297-312), e che, proprio
84
Territorio
a partire dal VII CIAM (Bergamo, 24-29 luglio 1949), aveva
conosciuto un numero consistente di prese di distanza.
La seconda critica esplicita è relativa al metodo compositivo
che, facendo uso degli ‘schemi’ ordinatori come strumento di
controllo, genera un diagramma che potrebbe rappresentare
un limite per il progettista. A questo gli contrappone il modo di
lavorare di Mies che «nelle sue costruzioni, sempre armoniche,
non usa mai alcun tipo di verifica».
Rogers poi non risparmia severi giudizi nei confronti della critica
e dei pedissequi imitatori di Le Corbusier e stigmatizza errori
e malintesi nell’interpretazione della sua figura: per esempio
quando si riferisce ai tentativi di «ridurre i sostantivi con aggettivi qualificativi, parlando della sua pittura ‘scultorica’ o
della sua scultura ‘pittorica’», travisando il senso profondo delle
molteplici espressioni che concorrono al «formarsi ed esprimersi
d’una sola, inscindibile personalità artistica». Oppure quando
riporta la descrizione che la critica offre di Le Corbusier come
‘costruttore di forme astratte’ o, al contrario, come ‘funambolo
fantasista’, mancando di cogliere l’unità delle antinomie in
quella che Rogers considera la sintesi creativa della sua opera.
Inoltre quando rimprovera gli imitatori che ne copiano le forme
ipostatizzando e trasformando in leggi universali alcuni postulati
che lo stesso Le Corbusier modifica, supera o elimina negli anni.
Questo fa dire a Rogers che i punti essenziali della espressività
corbuseriana non sono da considerarsi una formula magica da
applicare meccanicamente, ma un ‘pentagramma’ che consente
di comporre qualsiasi musica. Emerge in questa argomentazione
e nella figura del pentagramma il tema più generale dell’insegnamento dei maestri che Rogers vorrebbe liberare dalle pratiche
di pedissequa imitazione; in questo quadro il pentagramma
rappresenta una griglia metodologica disponibile alle diverse
esigenze espressive.
Infine compare spesso un tema rilevante che riguarda il ridimensionamento del ruolo della ragione in Le Corbusier e, per
converso, l’interesse che egli mostra per la natura. La frase di
Le Corbusier che, a tale proposito, Rogers cita più spesso è:
«amare ciò che è giusto e ciò che è sensibile, inventivo, vario.
La ragione è una guida, niente di più», dove la ragione appare
intesa come un mezzo piuttosto che un fine. Le ricerche sul
numero e sulla proporzione si contrappongono ad un interesse
verso l’elemento naturale, espresso nei carnet di viaggio ricchi di
osservazioni naturalistiche, che Rogers, nell’ennesimo tentativo
di legittimare una interpretazione di Le Corbusier non ridotta
ai paradigmi del razionalismo cartesiano ma aperta a cogliere
le novità presenti nelle sue opere più recenti (Ronchamp viene
conclusa nel 1955, il Padigione Philips è del 1958, il progetto
non realizzato per la chiesa di Bologna è del 1962), non esita a
paragonare agli appunti di Leonardo da Vinci.
Considerazioni conclusive
Rogers ci offre una visione complessa e ricca, per certi versi
più equilibrata di quanto non possa apparire da alcune recenti
radicalizzazioni. Una lettura calata nel proprio tempo, nel quale
si assiste ad una radicale messa in discussione dei principi del
modernismo, rispetto ai quali Rogers – pur essendo uno dei protagonisti e animatori di quella stagione – assume una posizione
precisa, segnata dall’idea di ‘continuità’.
Come è noto egli è, infatti, uno dei principali attori della prima
revisione del pensiero moderno in architettura che avviene nel
dopoguerra, operazione che ne ha messo in discussione molti
punti cardine, alcuni dei quali introdotti dallo stesso Le Corbusier. Dunque è un commentatore coinvolto, in qualche modo ‘di
parte’, che alterna una sincera ammirazione del genio corbuseriano a qualche critica, con l’evidente intenzione di legittimare
alcuni nuclei teorici del proprio pensiero individuandoli nell’opera del maestro, in piena coerenza proprio con quel principio
di ‘continuità’ che è naturalmente uno di quei punti fermi.
Il quadro articolato che emerge da questa interpretazione, lucida
e in parte assolutoria, è anche una maniera per parlare ai suoi
contemporanei. Nella lettura di Rogers infatti è presente più di un
contenuto rivolto a chi lo ascolta a lezione e ne legge gli scritti.
Tra questi uno emerge esplicitamente come centrale: la lezione
dei maestri non è da imitare nello stile ma da assimilare dal punto
di vista del metodo e del significato, in piena coerenza con la sua
concezione di storia. In ciò vi è anche un messaggio che va oltre
lo specifico momento storico e che solleva la questione del rapporto tra insegnamento dell’architettura ed eredità dei maestri,
argomento che Rogers ha molto a cuore. Un insegnamento che
egli intende fatto di lettura critica, antistilistica e anticelebrativa
dei riferimenti, che siano contemporanei, del recente passato o
appartenenti ad una storia più antica. Una modalità di lettura
critica che conserva una sua validità poiché permette di imparare
dalla grande architettura di ogni tempo, consentendo di ereditare
cultura, principi e contenuti progettuali, superando la questione
della mera imitazione stilistica e celebrativa.
«Genio», «il più grande architetto […] da due o tre secoli a questa
parte», «quello che si può direttamente paragonare ai maestri
del Rinascimento», «simile a Michelangelo» ma anche ingenuo,
presuntuoso, scostante, queste alcune delle parole impiegate per
raccontare Le Corbusier.
Il punto di vista di Rogers non è naturalmente quello dello storico
ma di colui che guarda alla storia da progettista militante e da
critico del proprio tempo, che conosce direttamente l’oggetto
delle sue riflessioni e che parla ad un uditorio fatto di studenti
e architetti ai quali egli ritiene debbano interessare le questioni
progettuali.
Rogers ne parla dunque come di un uomo che conosce personalmente e che considera non privo di difetti di coerenza e di
carattere. Un uomo che, nelle sue parole, appare tormentato
e sottovalutato anche dalle persone a lui più vicine11. Eppure,
malgrado ciò, un uomo la cui grandezza non sembra riducibile né viene ridimensionata dagli eventi avversi, un uomo che
attraverso la sua vita e in particolare la sua creatività, è stato
in grado di operare una sintesi altissima tra estetica ‘purista
e cartesiana’ e tecnica, o meglio ‘estetica della tecnica’ e del
macchinismo; traguardo che Rogers riconosce a Le Corbusier
e a nessun altro.
L’immagine che ci viene restituita è figlia di una impostazione
lucida e consapevole, per quanto in sostanza bonaria, libera
da una visione manichea e acritica ma piuttosto inserita in
una concezione dialettica della storia. Un’immagine, inoltre, scevra dalle contrapposizioni tra quelli che Fulvio Irace
definisce «thuriféraires’ e contempteurs» (Irace, 2015: 27) in
quanto – paradossalmente – più matura di quella che emerge
dal contrasto tra l’«ammirazione incondizionata» (Irace, 2015:
27) e la denigrazione tout court, rinfocolata da alcune recenti
pubblicazioni12.
85
Territorio
Note
1. Ernesto N. Rogers, lezione dedicata a Le Corbusier, nell’ambito del
corso di Storia dell’arte e storia e stili dell’architettura, Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, a.a. 1964-65, lezione 12. Le lezioni
di Rogers sono raccolte e trascritte in: (Maffioletti, 2009), precedute da
una breve introduzione generale e accompagnate da note esplicative.
Quando non diversamente specificato, il virgolettato di Rogers è tratto
dalle lezioni dedicate a Le Corbusier e pubblicate nello stesso volume
alle pagine 159-185.
2. Rogers ha diretto Domus da gennaio del 1946 a dicembre del 1947 e
Casabella dal n. 199 del 1953 al n. 295 del 1965.
3. Oltre alle numerose occasioni nelle quali Rogers esprime grande ammirazione per le opere di Le Corbusier, vi è un caso nel quale Le Corbusier
scrive a Belgiojoso, Peressutti e Rogers, apprezzando la seconda versione
del progetto per la Torre Velasca (lettera del 23 febbraio 1953 – Archives
FLC R3 1 114 – dove si cita la società RICE quale riferimento del progetto,
Fig. 2. Inoltre in una lettera del 18 febbraio 1964 (Archives FLC R3 1 241,
Fig. 3) Le Corbusier si felicita con Rogers per il titolo e per lo stile di (Rogers, 1961) parlando di ‘Littérature Rogérique’ basata sulle contraddizioni
dialettiche. L’ultima lettera a Le Corbusier, che resta senza risposta, è del
1 aprile 1965, qui Rogers gli comunica il suo licenziamento da direttore
di Casabella (Archives FLC R3 1 249, Fig. 4).
4. Ai fini della presente ricerca, e nel tentativo di sistematizzazione proposta nella tabella in fig. 1, sono stati di grande aiuto i lavori di alcuni
autori che nel recente passato hanno raccolto e ristampato gli scritti di
Rogers. Si fa riferimento al contributo di Luca Molinari (1997) e alle pubblicazioni curate da Serena Maffioletti, in particolare le note orientative
pubblicate in calce al testo dell’elogio funebre (Maffioletti, 2010: 925-927).
5. Dal testo del discorso di Le Corbusier alla commemorazione di Giuseppe
Terragni, pubblicato in ‘L’Architettura. Cronache e storia’, n. 153, luglio
1968, p. 146. Citato in (Nicoloso, 2012: 297-312).
6. Scrive Rogers: «nella sua attività […] v’è un certo contrasto, o per lo
meno una certa mistura, tra l’epoca macchinista e il purismo nel vedere
il mondo (soprattutto nella prima parte delle opere) come qualche cosa
di assoluto – l’uomo e non l’umanità o meglio l’umanità e non gli uomini
singoli, la terra e non il paesaggio – e pertanto indeterminato dal punto
di vista concreto; tale modo di vedere via via si è evoluto, sempre più si è
avvicinato all’uomo come essere, come essere individuale, e vieppiù si è
avvicinato allo spazio non come entità fisica ma come entità geografica»
(Maffioletti, 2009: 178-179); e ancora: «L’idea del mondo che nelle opere
giovanili tendeva a sublimarsi nel Purismo, nell’assolto matematico e
nell’identificazione astratta tra individuo e umanità generalizzata diventa
sempre più calorosa e, direi, più affettuosa e sensuale; così, non solo
agendo in pratica ma anche in teoria, questo uomo d’eccezione pare
avvicinarsi sempre più ai suoi simili, cercando di interpretarne le più
precise caratteristiche» (Maffioletti, 2009: 166-167), inoltre si veda la
citazione in exergo.
7. «Talvolta vi è – riconosciamolo pure – una candida, toccante sfida
donchisciottesca: l’arte è la sua Dulcinea» (Maffioletti, 2009: 167).
8. Nella prolusione al corso di Storia dell’architettura moderna, tenuto da
Ernesto N. Rogers tra il 1964 e il 1965 (Rogers, Semerani, 1999), Rogers
polemizza a distanza con Wright e con il suo disprezzo per la storia,
ricordando invece l’importanza del suo insegnamento.
9. Scrive Ezio Bonfanti: «Questo apparirà con estrema chiarezza […]
nella serie di lezioni (e degli articoli, nati sempre dalla sedimentazione
di lunghi cicli di lezioni) dedicate ai ‘maestri’ uno per uno: essi stanno
insieme […] non come le diverse facce di uno stesso poliedro, ma come
le tessere di un mosaico: l’architettura moderna è fatta essenzialmente
dal loro contributo non perché siano uguali – o diversi epifenomeni di
un’uguaglianza – ma perché e nella misura in cui sono diversi».
10. (Rogers, 1956 in Bonfanti 2001).
11. Significativo è l’aneddoto della madre di Le Corbusier raccontato da
Rogers «Andai a visitarla con molti allievi quando ero internato a Vevey;
suonai alla porta e nessuno aprì; poi incontrai Madame Jeanneret e le
dissi che volevo vedere la sua casa. Mi disse: «Io non sto in quella casa;
cosa vuole, si sta malissimo». Questa è la madre di Le Corbusier, il quale
ha avuto il destino di avere moglie, madre e amici che hanno sempre
detratto la sua grandezza.» (Maffioletti, 2009: 181).
12. Si fa riferimento a recenti pubblicazioni citate in (Irace, 2015: Chaslin,
2015; Perelman, 2015; de Jarcy, 2015).
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86
Territorio
Progettare per analogie:
il metodo di
Le Corbusier
Martina Landsberger
Politecnico di Milano, Dipartimento di architettura, ingegneria
delle costruzioni e ambiente costruito
(martina.landsberger@polimi.it)
Il significato della parola analogia,
secondo il dizionario della lingua
italiana, è quello di somiglianza
o equivalenza di proporzioni,
caratteristiche, funzioni, forma,
struttura. Costruire analogie, o
pensare per analogie, significa
attingere all’esperienza e alle
conoscenze acquisite e rinnovare
il pensiero adeguandolo a una
nuova realtà. Questa è la modalità
conoscitiva che contraddistingue
ognuno dei saperi dell’uomo, non
escludendo quello progettuale,
anch’esso di tipo razionale.
Le Corbusier, fra i maestri
dell’architettura moderna, è colui
che con più chiarezza – come
testimoniato dai suoi scritti –
fa proprio questo metodo della
conoscenza. Attraverso l’analisi
di alcuni progetti del maestro
francese – Maison Citrohan,
Unitè d’Habitation, Convento
de la Tourette – il contributo
intende mettere in luce questa sua
specifica metodologia conoscitiva e
progettuale
Parole chiave: analogia; storia;
tipologia
ISSN 1825-8689, ISSNe 2239-6330
Il 27 maggio di tre anni fa l’Università di Bologna conferiva
una laurea honoris causa a Douglas Richard Hofstadter1 che,
nell’occasione, pronunciava una ‘lezione dottorale’ riferita al
tema dell’analogia nella sua relazione con il sistema conoscitivo2. Obiettivo di Hofstadter era dimostrare come l’analogia
sia elemento costitutivo del pensiero e come, di conseguenza,
contraddistingua qualsiasi atto di tipo conoscitivo. Le analogie,
dunque, non sono una rarità ma, al contrario, ‘eventi ipercomuni e anzi onnipresenti’ in grado di garantire all’uomo un
‘orientamento’ nel mondo. L’analogia, aggiungeva: «[…] consiste
principalmente nella percezione rapidissima di importanti, ma
spesso nascosti, elementi comuni tra due situazioni – anzi tra
due strutture mentali. Una di queste due strutture mentali è appena stata costruita, e rappresenta una nuova circostanza nella
nostra vita […]. L’altra struttura mentale è vecchia, nel senso
che esisteva già nel nostro cervello […]. In una parola, dunque,
un’analogia adeguata permette a una persona […] di associare
una cosa nuova a un concetto già esistente, cioè di trattare qualcosa di fresco e non conosciuto come se fosse familiare […]».
A conclusione della sua lectio magistralis, Hofstadter tornava
a rimarcare la precipua prerogativa dell’analogia consistente
nella facoltà di mettere in relazione la novità con quanto già
sperimentato consentendo, all’uomo, di ‘orientarsi nel presente’.
È proprio quest’ultima affermazione quella da cui intendo partire in quanto credo che in essa si sintetizzi il senso del lavoro
dell’architetto in genere, e, in particolare, l’atteggiamento di Le
Corbusier nei confronti del progetto. L’assunto da cui intendo
prendere le mosse è, infatti, che il progetto di architettura debba
essere inteso come un percorso conoscitivo volto alla ricerca di
una risposta adeguata a un problema particolare.
L’evolversi dell’architettura nel corso della storia dimostra come,
individuato un tema, un problema, – la costruzione della casa,
oppure quella del luogo della preghiera o di riunione di una
collettività, per esempio – ogni epoca abbia cercato di definirne
la forma, per così dire, stabile. In quest’operazione la conoscenza
di quanto avvenuto precedentemente, la sua critica e messa in
discussione, ha sempre giocato un ruolo fondamentale garantendo quei continui progressi della conoscenza che appaiono ben
documentati per esempio da Auguste Choisy nella sua Histoire
de l’Architecture pubblicata a Parigi nel 18993.
Anche l’opera di Le Corbusier, sia teorica che progettuale (tenendo presente che la prima determina la seconda e viceversa)
appare costruita a partire dalla volontà di conoscenza di ciò che
è già stato, dall’interpretazione, cioè, della storia4 (Etlin, 1987).
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Territorio 80, 2017
È Le Corbusier stesso a testimoniare questa sua propensione in
una lettera del 1925 indirizzata a Paul Valéry. Scrive il maestro
francese: «[…] L’esperienza della purezza non può neppure aver
principio se non la si introduce con gli esempi svariati attinti dal
passato […]». Si tratta di una sorta di dichiarazione di intenti su
cui si fonderà la maggior parte dei suoi progetti. Infatti, come
affermato nei suoi scritti e nei Carnets, la conoscenza delle
culture e delle tradizioni architettoniche acquisite nel corso dei
suoi diversi viaggi in Europa, occupa un posto di primo piano
nell’elaborazione del suo processo progettuale.
Il progetto, però, non può accontentarsi di attingere dal passato
acriticamente: la conoscenza del tema, infatti, non può che rappresentare il punto di partenza di un’indagine più approfondita
che, per compiersi, deve, necessariamente, confrontarsi con
l’epoca e il contesto culturale in cui si sviluppa, nell’ottica di
proporne una propria interpretazione. È proprio questa modalità
di lettura del processo conoscitivo a determinare la comparsa
del procedimento analogico.
Secondo il dizionario della lingua italiana il significato della
parola analogia è quello di «somiglianza o equivalenza di proporzioni, caratteristiche, funzioni, forma, struttura». La parola,
di derivazione greca, si compone infatti di ἀνα, prefisso che fra i
suoi diversi significati accompagnato dalla parola λόγον assume
quello di ‘in proporzione’ e, appunto, da λόγος, discorso, parola,
proporzione5. Facendo riferimento, al suo significato etimologico,
pensare per analogie significa dunque «abbandonare il processo
logico che lega cause ed effetti secondo rigorose relazioni lineari,
e andarsene a spasso per l’universo delle possibilità in cerca di
somiglianze» (Testa, 2015).
Sono proprio le somiglianze quelle che Le Corbusier ricerca
affrontando, per esempio, il progetto della Maison Citrohan,
uno dei tipi di casa su cui continuerà a tornare nel corso della
sua attività volta alla messa a punto della definizione di un
possibile nuovo modo di abitare. Scrive a questo proposito in
Precisions: «[…] studio le celebri vecchie case dell’architettura
della Fiandra; ne disegno uno schema; scopro che si tratta di case
di vetro: del XV e del XVI secolo […]», (Le Corbusier, 1979:111).
La tipologia di casa osservata dal maestro francese è quella che
caratterizza la costruzione della città gotica europea e che è
possibile ritrovare anche a Parigi nelle case atelier ottocentesche, abitazioni a schiera di origine medievale, adattate a nuove
esigenze di lavoro e trasformate in case di artisti. In questi
esempi una grande parete di vetro definisce la principale fonte
di illuminazione dell’atelier la cui organizzazione interna si basa
sulla costruzione di uno spazio a doppia altezza a piano terra
diviso in due da un soppalco adibito a zona letto o a deposito6.
Della casa gotica tipica della città medievale europea, Le Corbusier riprende i caratteri fondamentali: innanzitutto la costruzione
in profondità e il fronte stretto quasi completamente finestrato;
poi, il doppio affaccio che permette la realizzazione di due
prospetti costruiti secondo gerarchie differenti: una grande
parete vetrata affacciata sul verde – il giardino che sostituisce
l’orto medievale – a rappresentare i locali di soggiorno e della
vita collettiva della casa, e un fronte, prospettante su strada,
composto da aperture di dimensioni minori, in corrispondenza
dei locali della vita privata (camere da letto); i due muri portanti sviluppati nel senso della profondità del corpo di fabbrica,
praticamente ciechi su cui si appoggiano gli elementi della
distribuzione verticale; ed infine, la costruzione in altezza che
In questa pagina:
– Lubecca, costruzione del quartiere centrale della città
Fonte: Gruber K., 1985, Forme et caractère de la ville allemande.
Bruxelles: Archives de l’Architecture moderne,
Nella pagina successiva:
– Le Corbusier, quartiere moderno Frugès a Pessac, Bordeaux, 1925.
Fonte: ©FLC/SIAE, 2017
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Territorio
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Territorio
permette di far corrispondere, a ogni piano, una specifica destinazione funzionale. Questi elementi, sempre riconoscibili nel
tipo della casa gotica, possono essere riproposti per realizzare
un luogo dove «si sta bene»7. Essi costituiscono la base per
l’ideazione di un nuovo progetto di casa in cui il legame con il
tipo originario resti sempre leggibile e in cui le nuove forme si
rendano possibili grazie alla rappresentazione di una specifica
idea di abitare che, necessariamente, si deve confrontare con le
esigenze dettate dalla contemporaneità.
La Maison Citrohan, in quest’ottica, rappresenta uno dei tipi
tramite cui costruire la città moderna. Essa, infatti, è in grado di
garantire, e realizzare, quella relazione necessaria fra costruito e
natura che Le Corbusier persegue con ossessione in tutti i propri
progetti. In ognuna delle sue differenti versioni8 il rapporto con la
natura è, infatti, elemento determinante: il giardino nel caso della
Maison Guiette ad Anversa (1926), la collina del Weissenhof a
Stoccarda (1927), o ancora il mare nel caso dello studio per una
casa sul bordo del mare, fino ad arrivare, a metà degli anni ’40, al
progetto per l’Unité d’Habitation: una grande unità residenziale
con più di 300 appartamenti costruito a Marsiglia. In questo ultimo progetto Le Corbusier ricorre al procedimento analogico per
proporre un edificio in cui, analogamente a quanto accade nella
città gotica, piccole case unifamiliari a schiera (i singoli appartamenti), specializzate nella loro distribuzione funzionale delle
parti di cui si compongono e sviluppate nel senso della profondità
del corpo di fabbrica, vengono sovrapposte l’una all’altra su più
piani. L’accessibilità di ogni appartamento avviene tramite una
strada interna – rue corridor – presente ogni due livelli.
Anche in questo caso ciò che interessa a Le Corbusier è individuare
un principio in grado di rappresentare un possibile modo di abitare
la città in rapporto con la natura. Il progetto, infatti, si fonda sulla
possibilità di garantire a ogni singolo appartamento un doppio
affaccio aperto sul verde che prende forma nella realizzazione di
due logge con carattere differente, a seconda che sul paesaggio
affacci la zona della vita collettiva della casa oppure quella dei
locali della vita privata. Nel primo caso la loggia a doppia altezza
ripropone in facciata la sezione del soggiorno, nel secondo, invece,
un’altezza semplice diviene il mezzo attraverso cui rappresentare
sul prospetto l’affaccio delle camere da letto.
Il principio alla base del progetto dell’Unité d’Habitation è analogo a quello della casa gotica, come pure a quello della Maison
Citrohan; il carattere, la forma, e l’idea di città cui fa riferimento –
una città costruita attraverso il rapporto che grandi edifici isolati
composti in un ‘mare verde’ intessono, fra di loro, a distanza
– invece, ne determina la grande differenza. È ancora una volta
il procedimento analogico a permettere l’individuazione, in un
caso particolare, di quei principi generali riproponibili in quanto
reinterpretabili secondo le esigenze della contemporaneità. Le
Corbusier riconosce, dunque, gli elementi che caratterizzano
questa particolare tipologia edilizia e li aggiorna conformemente
alle esigenze della sua quotidianità e alla sua particolare idea di
costruzione della città moderna.
Il metodo attuato dal maestro francese consente di evidenziare
come, affinché il procedimento analogico si realizzi, non sia
sufficiente garantire esclusivamente un rapporto di somiglianza,
ma come invece sia necessario l’intervento del ‘momento critico’ – la parola critica, in questo caso, è da intendersi secondo
il suo significato etimologico: dal verbo greco κρίνω, scegliere
–, atto che attribuisce al progettista la facoltà di scegliere quali
Eugene Viollet-le-Duc, progetto di casa su lotto
profondo, da Entretiens sur l’Architecture, Morel,
Paris, 1863-1872
Fonte: Viollet-Le-Duc, 1986, Entretiens sur
l’architecture. Bruxelles: Mardaga
90
Territorio
Le Corbusier, Maison Guiette ad Anversa, 1926
Fonte: ©FLC/SIAE, 2017
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Territorio
elementi del modello confermare e quali, invece, porre in secondo piano o, addirittura, eliminare.
Il tema del ‘momento critico’ trova una sua precisa definizione
in quanto espresso dal filosofo Ezio Melandri che, in L’analogia,
la proporzione, la simmetria, dimostra come nel processo analogico siano presenti due diverse circostanze fra loro opposte:
la trasgressione – elemento in grado di esprimere l’innovazione
rispetto a quanto già pensato in «forme regolari» – e «il controllo
delle regolarità discorsive». Il controllo opera in senso opposto alla
trasgressione cercando di eliminare qualunque irregolarità e di
«riformulare l’altro, il nuovo, in termini d’identità o di equivalenza
con quanto già noto, accettato, canonico». Il processo analogico
si attua nel momento in cui questi due termini interagiscono.
«La molla della trasgressione – scrive Melandri – è l’intelligenza
intesa quale atto creativo, innovatore; il controllo spetta invece
alla cultura intesa come atto critico». L’analogia risulta quindi
dalla interazione di due figure, ‘il trasgressore e il controllore’,
impegnate in una sorta di gioco costituito da una serie di partite
che risultano infinite in quanto il trasgressore può solamente
prevalere ma mai vincere. Una eventuale vittoria del controllore,
invece, determinerebbe la conclusione del gioco e, di conseguenza, la fine del processo conoscitivo a suo fondamento. «[…] La
trasgressione – continua Melandri – è non solo un momento
essenziale della dinamica analogica, ma l’atto che ne fonda la
possibilità trascendentale in quanto autonomo movimento del
pensiero. È un atto arbitrario, stravagante e licenzioso. Questo
atto può essere fine a se stesso […] ma può anche esserci una
trasgressione controllata, calcolata, motivata da una strategia e allora è mezzo per un fine diverso […]», (Melandri, 1974: 11 e ss.).
La «molla della trasgressione» introdotta da Melandri, nel caso
del progetto per l’Unité d’Habitation si ritrova nell’utilizzo del
tipo della casa gotica unifamiliare costruita in profondità e nella
sua sovrapposizione su più piani, a costruire un grande edificio
in linea per appartamenti.
È forse, però, il progetto per il Convento de la Tourette (19571960) realizzato a Eveaux sur l’Arbresle, nei pressi di Lione, a
rappresentare con maggiore chiarezza il tema della ‘trasgressione’. Anche in questo caso si tratta di affrontare il problema della
costruzione di una casa comune, un luogo dove una comunità
possa condividere spazi e momenti della vita e, allo stesso tempo,
abbia la possibilità di isolarsi nel silenzio e nella pace.
In una lettera datata 28 luglio 1953 Padre Couturier – il committente del progetto – suggerisce a Le Corbusier i principi su cui
si costruisce un convento, principi che il maestro francese ha
potuto sperimentare visitando, in gioventù, la Certosa di Ema a
Firenze, il Monte Athos, ecc.
«Carissimo Amico – scrive Couturier – spero abbia potuto recarsi
al Thoronet […]. Mi sembra che in esso vi sia l’essenza stessa di
ciò che deve essere un monastero di non importa quale epoca,
poiché gli uomini dediti al silenzio, al raccoglimento e alla meditazione nella vita in comune non cambiano molto con il passare
del tempo. Secondo la pianta tradizionale, Lei dovrà prevedere
intorno al chiostro tre grandi volumi: quello della chiesa, quello
del refettorio e, sul terzo lato il capitolo; infine, sul quarto lato, due
grandi sale per le riunioni. Al primo piano, una grande biblioteca.
Il resto della costruzione comprenderà le celle […]».
Nel convento, come nella casa gotica e nel suo analogo della
Maison Citrohan, la relazione fra luoghi con destinazioni fun-
Convento di Le Thoronet, pianta
Fonte: Gresleri G., Gresleri Gl., 2001, Le Corbusier:
il programma liturgico. Bologna: Compositori
92
Territorio
Le Corbusier, Convento di Sainte Marie de la
Tourette, Eveaux, 1957-1960
Fonte: ©FLC/SIAE, 2017
93
Territorio
Vista dell’Acropoli di Atene
Fonte: foto dell’autore
zionali differenti è uno degli elementi determinanti. Le celle
dell’abitazione privata dei monaci si contrappongono alla costruzione dei grandi luoghi della vita collettiva: l’aula della chiesa,
il refettorio, i luoghi dello studio, lo spazio aperto del chiostro
lungo il quale si compone il sistema distributivo dell’edificio. Il
convento tradizionale, quindi, altro non è che un grande edificio
introverso costruito in relazione a una corte chiusa, elemento
fondamentale dal punto di vista della rappresentazione del tipo.
Nell’affrontare il progetto de La Tourette Le Corbusier si affida
ancora una volta al procedimento analogico che, da un lato gli
permette l’identificazione del principio compositivo generale,
dall’altro l’attuazione di alcune ‘trasgressioni’ utili ad aggiornare
il tema nella definizione di un nuovo edificio contemporaneo
ma pur sempre riconoscibile dalla collettività.
Il Convento de la Tourette si compone di un grande volume a C
– a corte – distribuito su più livelli. Ai piani inferiori si trovano
tutte le funzioni collettive e a quelli superiori, di coronamento
dell’edificio, le celle private dei monaci. A nord il volume dell’aula della chiesa chiude la corte definendone il lato mancante.
Ciò che distingue la Tourette da qualsiasi convento precedente è
la sua estroversione. Diversamente dagli esempi della storia, Le
Corbusier – trasgredendo al tipo originario – sceglie di aprire il
convento verso il paesaggio ma non rinuncia al tipo che lo ha
reso riconoscibile nel corso della storia. La Tourette è ancora un
edificio a corte, ma la corte ha perso il suo significato originario
di luogo della rappresentazione della composizione. Tutte le
parti del convento, sia che accolgano le attività collettive, che
quelle della vita privata, si rivolgono verso la natura circostante, guardano all’esterno, invertendo un principio fino ad allora
consolidato. Solamente l’aula della chiesa, ben radicata a terra
dato il suo carattere di luogo del raccoglimento, si presenta
come un volume introverso, chiuso totalmente verso l’esterno
e – simbolicamente – rivolto verso il cielo.
L’utilizzo del procedimento analogico contraddistingue tutta
94
Territorio
Le Cobusier, La Cheminée, 1918
Fonte: ©FLC/SIAE, 2017
l’opera di Le Corbusier che sappiamo aver esplorato diversi
ambiti artistici. La conoscenza delle città della storia e di quelle di
più recente formazione, come ad esempio le città americane che
visita negli anni Trenta in occasione di alcune conferenze, sono
determinanti nella costruzione del suo progetto di Urbanismo.
Senza il riferimento al reticolo delle griglie e quadricule delle città
americane non è infatti, possibile comprendere il progetto della
Ville Contemporaine pour trois millions d’habitants9 la cui forma
è determinata da un reticolo di strade che si incrociano ad angolo
retto con al centro il sistema dei grattacieli destinati alle attività
terziarie. Questa trova una sua relazione con il piano di Penn
per Philadelphia in cui, analogamente, la zona monumentale è
pensata al centro di una griglia regolare di strade. Anche il tipo
del redent che contraddistingue il progetto della Ville Radieuse
individua come proprio riferimento un edificio della storia e
cioè il palazzo del Louvre a Parigi. Il redent viene introdotto
da Le Corbusier per comporre i blocchi in linea della residenza
della nuova città. Questi, nella loro particolare modalità di
disposizione sul suolo, determinano ampie corti su cui ogni
singola abitazione ha la possibilità di affacciare. Anche il Palazzo
del Louvre si costruisce attraverso la composizione di grandi
corti, di misure e profondità diverse, l’una in rapporto con l’altra.
Le Corbusier, come si può constatare da un disegno pubblicato
in La Ville Radieuse, guarda al Louvre riconoscendone proprio
questa specifica qualità, il fatto cioè di essere pensato come una
grande casa costruita in rapporto con lo spazio aperto e naturale
delle diverse corti/giardino su cui prospetta.
La conoscenza delle culture artistiche e architettoniche della storia
tornano, ogni volta reinterpretate, in moltissimi dei progetti del
maestro francese; in alcuni casi il legame è indicato esplicitamente: per esempio il progetto per il Palais des Soviets (1931) a Mosca
trova una analogia con la composizione del Campo dei Miracoli
di Pisa; o ancora, il progetto di Villa Savoye e il principio della
promenade architecturale che la contraddistingue, guarda al modo
95
Territorio
di intendere la costruzione della città da parte della cultura araba11;
in altri casi il riferimento è intuibile, come accade nel progetto
per gli Immeubles Villas che, ancora una volta, ragionano sulla
relazione che intercorre fra la costruzione dello spazio pubblico e
quello privato proprio degli edifici delle Certose (Certosa di Ema).
Questo stesso approccio metodologico Le Corbusier lo utilizza
anche costruendo i propri testi teorici – pensiamo per esempio
a Verso un’architettura e alle analogie introdotte per mettere in
relazione l’architettura e la macchina (Colquhoun, 1993) – come
pure alcune sue opere pittoriche.
Nel 1918 dipingendo il suo primo quadro dal titolo La Cheminée,
di fianco a due libri posti ‘di piatto’ Le Corbusier mette in scena
un cubo illuminato, appoggiando il tutto sulla mensola di un
camino. Il cubo non è un cubo qualunque ma, secondo quanto
lo stesso Le Corbusier dirà molti anni più tardi, intende istituire
una analogia con il Partenone e la composizione dell’Acropoli:
«Spazio, luce, intensità di composizione. A dire il vero dietro
tutto ciò sta l’Acropoli» (citato in Lucan, 1988). Il processo analogico attuato in questo specifico caso riguarda il procedimento
compositivo, la capacità cioè di mettere in relazione oggetti
differenti secondo una particolare logica che Le Corbusier ritrova nella costruzione dell’Acropoli i cui templi e monumenti,
intessendo relazioni a distanza, rendono possibile la definizione
di una composizione unitaria.
L’analogia, come si è visto nelle definizioni più sopra riportate
allo scopo di approfondire di volta in volta ulteriori aspetti del
concetto, è il punto di partenza di qualsiasi processo conoscitivo.
Questo, attingendo alle esperienze e conoscenze acquisite, rende
possibile, e sicuro, il rinnovamento del pensiero nell’ottica della
costruzione di una nuova realtà condivisibile. Citando le belle
parole di Alberto Savinio, è possibile, dunque, concludere che:
«L’analogia è una forma di sicurtà. Serve a convincerci che il terreno è sodo […] e noi non rischiamo di incamminarci nel vuoto.
L’analogia è una forma di civismo, di socievolezza letteraria. Guai
se ci mancasse intorno il tessuto delle analogie. […] Nel lavoro
di composizione, quasi ogni immagine di persona o di cosa viene
fuori accompagnata naturalmente da un come: il tale è come, la
tale cosa è come. Poi molti come la revisione li elimina per ragioni
di nettezza, snellezza, eleganza di periodo; ma l’analogia rimane
sotto la pelle della pagina», (Savinio, 1984: 366).
4. Cfr. l’articolo di Richard Etlin, A paradoxical avant-garde. Le Corbusier’s
villas of the 1920s, pubblicato in ‘Architectural Review’, n. 1079, giugno
1987 in cui l’autore si sofferma sulle modalità di interpretazione di temi
e principi compositivi desunti dall’antichità da parte di Le Corbusier
riferendosi in particolare ai progetti di case degli anni Venti. Rispetto al
tema della conoscenza della storia da parte di Le Corbusier si ricorda che
la Fondation Le Corbusier conserva i dieci volumi del Dictionnaire de l’Architecture di Viollet-Le-Duc acquistati dal maestro il 1 agosto 1908 e i due
volumi dell’Histoire de l’Architecture di Choisy datati Natale 1913. Entrambe
le opere riportano annotazioni e commenti autografi di Le Corbusier.
5. Per la definizione etimologica della parola analogia si veda Lorenzo
Rocci, Vocabolario Greco Italiano. Roma: Società Editrice Dante Alighieri, e Ottorino Piangiani, Vocabolario Etimologico della Lingua italiana.
Genova: Edizioni Polaris, 1993.
6. È interessante a questo proposito riportare una breve citazione tratta
da Une maison, un palais in cui Le Corbusier affronta la questione della
tipologia e dell’importanza del suo studio progettando. «In architettura –
scrive – non esiste nulla di spontaneo, ma piuttosto un lungo e minuzioso
condizionamento: i tipi si stabiliscono secondo ragioni profonde, sono
‘riserve’ di architettura; osserviamoli attentamente. È tramite i tipi che
noi faremo delle nostre case dei palazzi».
7. «Un locale assai stretto ma profondo, circa quattro volte più lungo
che largo, e in proporzione molto alto: la metà posteriore era divisa in
altezza da una sala a balcone, aperta davanti come i soppalchi degli studi
di artisti parigini; vi si accedeva da una scala a chiocciola; la luce entrava
da una grande vetrata che occupava tutta la facciata [...] l’altezza del
soffitto principale dava libertà allo sguardo, e i soffitti bassi della galleria
e della parte corrispondente del piano terreno, creavano degli angoli
piacevolmente intimi [...]. Ci si stava bene. Pensammo che una villa
disposta con un principio analogo sarebbe stata gradevole [...]» ricorda
Amédée Ozenfant (Tentori, De Simoni, 1987).
8. Diversamente dalla casa gotica, la Maison Citrohan si costruisce isolata,
salvo poi essere realizzata mediante accostamenti e sovrapposizioni a
costituire il corpo della residenza dell’Unité d’Habitation.
9. La lettura di Urbanisme permette di verificare la buona conoscenza
di Le Corbusier della tradizione urbana americana documentata dalla
pubblicazione di numerose immagini relative alle città di New York,
Minneapolis e Washington. Xavier Monteys sostiene inoltre un debito di
Le Corbusier nei confronti di Taut e del suo progetto per la Stadkrone.
10. «L’architecture arabe nous donne un enseignement précieux. Elle
s’apprécie à la marche, avec le pied; c’est en marchant en se deplaçant
que l’on voit se développer les ordonnances de l’architecture. C’est un
principe contraire à l’architecture baroque qui est conçues sur le papier,
autour d’un point fixe théorique. Je préfère l’enseignement de l’architecture arabe» (Le Corbusier et Pierre Jeanneret, 1935: 28).
Riferimenti bibliografici
Note
1. Douglas Richard Hofstadter insegna all’Università dell’Indiana occupandosi in particolar modo di intelligenza artificiale, scienze cognitive e
filosofia della mente. La casa editrice Adelphi ha pubblicato la traduzione
italiana del suo più famoso saggio Gödel, Escher, Bach: an Eternal Golden Braid. New York: Basic Books, l979 (Gödel, Escher, Bach: un’eterna
ghirlanda brillante. Milano: Adelphi, 1984).
2. Il testo completo dell’intervento di Douglas Hofstadter è consultabile sul
sito di Education 2.0, all’indirizzo http://www.educationduepuntozero.
it/speciali/pdf/speciale_agosto2013.pdf
3. L’Histoire de l’Architecture di Auguste Choisy, riservando una particolare attenzione al tema della costruzione, si costruisce a partire dalla
volontà di dimostrare come ogni civiltà abbia preso forma a partire da
quella precedente. In questo senso quindi, il concetto di ‘novità’ in
Choisy non esiste, al contrario, i temi dell’architettura, nel corso del
tempo, si presentano sempre uguali a se stessi trovando, di volta in
volta, una forma adeguata di rappresentazione delle necessità definite
dalla specifica contemporaneità.
Choisy A., 1899, Histoire de l’Architecture. Paris: Gauthiers-Villars.
Colquhoun A., 1989, Architettura moderna e storia. Roma-Bari: Laterza.
Colquhoun A., 1993, «Il significato di Le Corbusier». In: Brooks H. A. (a
cura di), Le Corbusier 1887-1965, Milano: Electa.
Etlin R., 1987, «A paradoxical avant-garde. Le Corbusier’s villas of the
1920s». Architectural Review, 1079: 6-87.
Le Corbusier, 1925, Urbanisme. Paris: G. Crès et C.
Le Corbusier, 1928, Une maison, un palais. Paris: Les édition G. Crès et C.
Le Corbusier et Pierre Jeanneret, 1935, Œuvre complète de 1929-1934.
Zurich: Les Éditions d’Architecture.
Le Corbusier, 1979, Precisazioni sullo stato attuale dell’architettura e
dell’urbanistica. Roma-Bari: Laterza.
Lucan J., 1988, Le Corbusier enciclopedia. Milano: Electa.
Melandri E., 1974, L’analogia, la proporzione, la simmetria. Milano: ISEDI.
Monteys X., 1996, La gran máquina. La ciudad en Le Corbusier. Barcelona:
Ediciones del Serbal.
Tentori F., De Simone R., 1987, Le Corbusier. Roma: Laterza.
Savinio A., 1984, Ascolto il tuo cuore città. Milano: Adelphi.
Viollet-Le-Duc E., 1863-72, Entretiens sur l’architecture. Paris: Morel.
96
Territorio
Abstracts
Metropolitan visions: instant, concrete, and conflict free
futures? Peter Ache (p. 7)
Exercises formulating visions for future development are
frequently seen as ‘utopistic’ in the sense of non-consequential.
But, visions can be ‘experiments in dialectical utopianism’
following Lefebvre. In trying to understand vision making,
more than thirty documents from European cities and regions
were analysed. First, a couple of formal dimensions will be
presented. Second, the treatment of time will be looked at:
in terms of time invested by actors and processes; in terms of
ambitions, intended actions, and vision horizons. Third, conflict
is notoriously absent from the processes. Accepting the idea of
strife, we might discuss whether we are losing an important
lever to create different futures? The final appeal is to intensify
the en-visioning of metropolitan regions, to be able to manage
those complex entities of a future planetary urban society.
Keywords: strategic spatial planning, visions, future, strife
Representing, Communicating and Experiencing Cultural
Environments, edited by Anetta Kepczynska-Walczak (p. 15)
The aim of the paper is to introduce the problematics of
representing, communicating and experiencing cultural
environments in order to respond to the questions of translation
of the past to the present in different processes such as
preservation, communication, design, sense of belonging or the
application of digital tools in heritage domain.
This special section of Territorio review is meant to reflect the
mission of the European Architectural Envisioning Association
in terms of communication and exchange of experience,
experimentation and research in the field of envisioning built
heritage
Keywords: cultural heritage; heritage perception; communication of heritage
Rise of the Fallen: (New) Ruins Role in Shaping Cultural
Understandings, Amos Bar-Eli (p. 18)
Ruins capture our imagination, mysterious, full of hints to a
past long gone, and future abundant with potential. During the
several past decades the ruination process has greatly accelerated,
turning industrial complexes, cities, and even regions into
abounded ruins. This phenomenon has brought about a similar
swell in the ways ruins are used, discussed, re-presented, and
understood. The paper evaluates the characteristics of (new)
ruins and decipher their unique atmosphere, and ambiguous
values. The paper explores the abstract architectural values
of (new)ruins and their more conceptual attributes. This is
delivered by a theoretical process which brings together side
by side historical precedents, literary observations, and varied
case-study examples. By reinterpreting (new)ruins as a ‘NonComplete’ condition the paper suggests their role in shaping
cultural understandings
Keywords: (new)ruins; non-complete; architectural heritage
Narrating the Cultural Landscape. Tracing the actual significances of heritage, Gisèle Gantois, Yves Schoonjans (p. 23)
Current developments such as the changing vision on heritage
from an exclusive ‘substantial’ to a more anthropological
perspective and the changing meaning of it from a top-down
to a bottom-up ‘right to heritage’ imply a shift in heritage
paradigms. A renewed reflection on heritage research and an
interdisciplinary approach are required. The roles of architects
are redefined responding to this shift. With this paper we want
to share possible designerly ways of detecting, unveiling and
mapping the actual significances of built heritage to develop
a more inclusive understanding of the value of it to come to
socially better and socially better accepted projects of restoration
and reuse. The more hidden relationship of immovable heritage
with its multi-layered context is explored, combining existing
methods and tools out of other disciplines with the skills of the
architect leading to spatial narratives
Keywords: heritage; spatial narration; narrative maps
The death and revival of the great textile city, Bartosz M.
Walczak (p. 30)
The city of Lodz, its urban layout, architectural appearance
and socio-economical condition are results of a particular
development process, which is exceptional as compared with
evolution of other large European cities. The unique urban
environment gives the city strong identity. It is however still
a challenge to use these spatial and architectural qualities to
establish emotional bonds among local community with. The
successful re-use of industrial buildings have helped in this
matter. The next step is to use this approach in large scale
renewal of the Lodz city centre. It seems of crucial importance,
since if residents like their own city, accept local heritage, fill
the historical space with new ideals and narrations, then the
city will be attractive for them and visitors alike.
Keywords: Industrial heritage; Identity; Urban regeneration
188
Territorio
Designing the framework of possibilities for viewer’s activity.
Mixed reality and monuments, Rafał Zapłata (p. 40)
The article focuses on the issue of designing in relation to
modern-day exhibitions of monuments in situ. The generally
described presentations of cultural heritage are referred mainly
to the so called augmented-mixed reality. Designing in the era
of electronic technologies is treated as a process leading to
e.g. shaping the framework of possibility for viewer’s activity.
Another issue discussed in this text are the effects of designing
– both conscious and unconscious.
Keywords: Designing new media; Monuments in situ; Mixed
reality
Digital Heritage’s Development in Architecture, Thomas
W. Maver (p. 44)
The intention of this paper is to chart, with examples and
illustrations, the evolution of the application of the emerging
information and communication technologies to our
understanding of our wonderful built patrimony. It focuses on
two phases of this evolution: the earlier development of 3D
CAAD modelling and multimedia and the later development
of laser scanning. It discusses and compares the application
of these phases and concludes with a view on the importance
of digital patrimony.
Keywords: Computer aided design; multimedia; laser scanning
Le Corbusier Fifty Years On, edited by Marco Bovati, Martina
Landsberger (p. 48)
Reflections on the Le Corbusier tra noi exhibition, Milan, 2015
The 50-year anniversary of Le Corbusier’s death marked an
important moment, coinciding with the organisation of a
series of events whose aims was, in many cases, to draw up an
overview of the studies and commentaries on this complex and
multi-faceted figure against whom architectural culture has been
measuring itself for several decades.
The articles that comprise this service aim to contribute to a
reflection on the currentness of Le Corbusier’s thinking, as
well as on the progress of ongoing studies and research, by
investigating the master’s legacy with regard not only to the
issues of his relationship with Milanese architectural culture
- the subject of the Le Corbusier tra noi (Le Corbusier among
us) exhibition organized by Triennale Xtra and Politecnico di
Milano (June-September 2015) - but also by raising more strictly
theoretical and compositional questions.
Bottoni and Le Corbusier: the day of reckoning arrives in 1949 on
Monte Stella, Milan, Giancarlo Consonni, Graziella Tonon (p. 50)
During the first CIAM conferences, young Italian Rationalists
suddenly found themselves between a rock and a hard place,
or rather between Gropius (the method) and Le Corbusier
(the vision). Advocates of the method tackled the problem of
population expansion without concerning themselves with
the built city, while Le Corbusier made his primary objective
erasing the city as it had hitherto been known.
As early as the Athens CIAM of 1933, Fernand Léger warned
of the breakdowns that could result from such simplifications.
At the Hoddesdon Conference in 1951, Piero Bottoni took up
Léger’s point using more detailed arguments, his way of responding, two years later, to the clash between himself and
Le Corbusier at the VII CIAM in Bergamo, 1947, during the
conception of the QT8 district of Milan. In 1951, Fernand Léger
saw in Bottoni ‘the inventor of mountains and magnificent
popular buildings’, and his positive verdict on that experience
would be reaffirmed at the Dubrovnik CIAM of 1956.
Keywords: CIAM; Urban Design; district
Le Corbusier and Production sites in the Industrial City,
Silvia Bodei (p. 58)
The experiences linked to buildings and spaces created for
production on Le Corbusier’s extensive résumé as a planner are
significant, yet not numerous. Indeed, these are isolated projects,
rarely brought to fruition, and, in his entire career, he succeeded only in building the Duval Factory in Saint-Dié (1946-51).
Planning and theoretical reflection on the forms and structures
of these buildings led Le Corbusier to a closer examination of
the mechanisms and problems associated with the organisation
of working environments and to identify the most appropriate
solutions, which later came together in his definition of a ‘green
factory’ model, theorised in the essay, Les trois établissements
humains (1945). This article looks back at certain aspects of the
architect’s plans and ideas relating to production sites, consistently supported by cultural and architectural references that remain
highly current, in order to capture the most significant items
linked to a concept of work as functioning on a human scale as
opposed to at the mechanical rhythms of the production line.
Keywords: industry; work spaces; urban planning
Le Corbusier at the First International Conference on Proportions
in the Arts, Milan, 1951, Anna Chiara Cimoli, Fulvio Irace (p. 67)
In September 1951, with the war now over, the Triennale di
Milano provided the theatre for a stellar performance by an especially charismatic actor: Le Corbusier. The topic for discussion
concerned proportions in the arts, and the primary speaker was
Rudolf Wittkower, whose theories were influencing the debate
on reconstruction.
In the historian’s view, mathematical order should remain the
basis for art while, according to Le Corbusier, all corollaries of
esoteric knowledge concealed within the question of the ‘divine’
proportion were now ‘dead’ things, suitable only for academics
and historians like Wittkower himself. To everyone’s surprise,
Le Corbusier, arguing against the ‘miracles of geometry’, put
forward the new idea of ‘indescribable space’, opening the door
for the art to ‘illumination’, to a state ‘akin to trance’.
The Conference foundered on its own premises, yet the theatrical
presentation of the options shone a spotlight on the discomfort
of architecture with all regulatory rigidity; the impossibility,
in other words, of a theory that failed to consider the reality
of the body and therefore of the grotesque and materiality as
foundations for research.
Keywords: divine proportion; Modulor; IX Triennale
August 27th 1965: Italian Architecture Journalists Commemorate Le Corbusier, Andrea Oldani (p. 73)
On August 27th 1965, Le Corbusier’s ‘patient research’ came to
an end. The news of his death appeared in all the magazines,
leaving his supporters stunned and helpless at the report of his
sudden demise. With the legend fallen, some comments were
needed, and the possibility was discussed of drawing up an
189
Territorio
improbable overview of the succession of ideas and creations
that had elevated their author to a place of absolute authority,
among the ranks of recognised ‘living masters’. The Italian
magazines responded with a series of memories, reflections, and
elucidations on his life and works. The great ‘heretic’ was no
more, but he had left an immense legacy of ideas, creations and
plans. Re-read today, these testimonies take on new meaning,
and perhaps the time has not yet come for stock-taking; the
horizon has brightened and the resources of the great master
are not yet depleted.
Keywords: Le Corbusier; death commentary; Italian architecture
magazines
From the Geometry of Crystals to the Mathematics of Nature. Le Corbusier through the Writings of Ernesto N. Rogers,
Marco Bovati (p. 79)
On May 26th 1966, at the Politecnico di Milano’s Faculty of
Architecture, Ernesto Nathan Rogers gave a commemorative
speech dedicated to Le Corbusier, who had passed away the
previous year (Cap Martin, August 27th 1965). The eulogy,
entitled, Le Cobusier tra noi (Le Corbusier among us), was
published that same year by the publisher All’insegna del pesce
d’oro, of Milan, founded by Vanni Scheiwiller.
Referring to his earlier writings and also to his university lectures
on the masters of Modernism, this piece constitutes a kind of
conceptual map of the logical and temporal development of
Rogers’ interpretation of the Swiss master.
Re-reading it fifty years later inspired an exploration of Rogers’
original thoughts on Le Corbusier, built on admiration and
esteem - though not without a few criticisms - and enlivened
by that ‘anti-celebratory’ regard in which he held the masters.
Keywords: Ernesto N. Rogers; eulogy; Le Corbusier
Design by Analogies: Le Corbusier’s Method, Martina Landsberger
(p. 87)
According to the Italian dictionary, the word ‘analogy’ means
similarity or equivalence of proportions, characteristics,
functions, form or structure. To build analogies, or to think in
analogies, is to draw on experiences and knowledge gained and
renew the idea by adapting it to a new reality. This cognitive
method applies to all human learning, not excluding the field
of design, which nature is also rational.
Of all the masters of modern architecture, Le Corbusier was the
one who adopted this method of learning with greatest clarity,
as his writings frequently testify. Through analysis of some of
his projects (Maison Citrohan, the Unitès d’Habitation and the
Monastery of La Tourette), this contribution aims to highlight
his specific learning and planning methodology.
Keywords: analogy; history; typology
New Methods for Studying Transnational Architecture and
Urbanism: A Primer, Davide Ponzini, Fabio Manfredini (p. 97)
Thanks to new technological advancements and due to
global economic arrangements, today architectural firms
simultaneously practice in multiple countries. Extremely
complex projects, such as iconic museums or tall skyscrapers
are often awarded to architects who are internationally known.
The role and contribution of such architectural and urban
projects in contemporary cities have been heatedly debated
in both scholarly and public arenas for quite some time now.
Nonetheless no one has collected systematic evidence regarding
the magnitude of transnational projects, their histories and
geographical trajectories, the strategies of multinational design
firms and how cities plan such projects. This paper provides an
early account of ongoing research activities for constituting the
first spatial database dedicated to mapping transnational projects
and to developing qualitative and quantitative methods.
Keywords: spatial analysis; transnational urbanism; transnational architecture
Public Spaces and Sustainable Urban Development. The Experience of the La Ciudad Amable Programme in Andalusia,
Gaia Redaelli (p. 111)
Today, public spaces constitute one of the keys to urban
development, together with social integration and sustainability,
in a European city model. The recent protests in Spain’s
squares have reinterpreted these as a place for social debate
and the right to the city. The Europa 20/20 guidelines were
designed to promote sustainable urban policies for reducing
carbon emissions, largely due to mobility in public spaces. The
experience of the La Ciudad Amable programme, promoted by
the Regional Government of Andalusia in conjunction with the
local authorities, created a new cultural paradigm in a country
featuring an expansion model necessitating a move «from
speculation to the culture of renovation», starting with the
regeneration of public spaces as a place for the collective and
the sustainability of the contemporary city.
Keywords: public spaces; right to the city; sustainable urban
development
Re-structuring of Housing Policy in Italy: Processes, Subjects
and Forms of Territorial Coverage, Ignazio Vinci (p. 123)
This article provides a critical interpretation of the metamorphosis
of housing policy in Italy over the last two decades under the
influence of several processes: the reduction of the role of
the State in the provision of public housing; the effect of the
crisis on the welfare of urban communities and the capacity
of local government to deliver effective urban policies; the
most recent process of institutional rescaling, leading to a
controversial reallocation of powers in several key sectors for
local development, including housing policy. In the final section
of the work, five main policy dimensions are identified (house,
neighborhood, community, individual, system) with the aim of
exploring the changing directions of housing policy in terms of
paradigms, tools and territorialisation.
Keywords: housing policy; urban question; Italy
Inland areas: an important territorial ‘slant’ for the definition
of integrated regional cohesion policies, Mauro Francini, Annunziata Palermo, Maria Francesca Viapiana (p. 132)
In the Europe 2020 Strategy, the territorial dimension is an
issue of particular interest which is also reflected in national
and regional policy documents of the ‘Strategy for internal
areas’. These areas, regarded as the productive paradigm of
the green economy, are placed at the center of a new model
of sustainable economic development. In this regard, we
present the first results of a research project with the aim of
identifying appropriate development interventions on one of
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project-prototype areas of the Region of Calabria (follower
territories), through the delineation of ‘good practices’ of
the territories defined as a front- runners, or rather positive
‘experience bringers’ on issues that characterize some of the
local development objectives. Such practices may be integrated
with processes of participation and co-designing of actions
provided for within the action Plans.
Environmental assessment in Lombardy: a tool that does not
judge the sustainability of plans, Pier Luigi Paolillo (p. 140)
In Lombardy, the SEA plan, at all its levels and in all its forms,
has undergone widespread dissemination throughout the
entire regional area. Many municipalities, having endorsed
Agenda 2000, have begun publishing their Reports on the state
of the environment. Bearing in mind the high expectations to
which the SEA is responding, this article attempts to provide
an overall review of the tool’s implementation in Lombardy.
Virtuous urban planning through selective, determining, binary and unequivocal SEAs, and therefore good choices for the
Region as a whole? The reality is very different. A comparison,
using multidimensional analysis, of all the scoping documents
of SEAs drawn up by the municipalities of Lombardy reveals
a disappointing picture. This is the umpteenth regulatory
debacle in the face of today’s incoherent empiricism: the
impossibility of introducing a selective, determining, binary
and unequivocal SEA.
Keywords: SEA; multidimensional analysis; Lombardy
Are we entering a new phase in the utilisation of Italy’s
military heritage?, Francesco Gastaldi, Federico Camerin (p. 151)
Despite a long process, many Italian municipalities are still
failing to utilise their heritage of abandoned public buildings
as an opportunity for regeneration and urban development. The
continual changing of objectives and tools at national level has
created illusions and frustrations with institutional and economic players at local level, resulting in a condition of perpetual
uncertainty. The Renzi government, however, appears to be heralding a trend reversal towards greater effectiveness in bringing
about concrete opportunities to utilise former military areas and
buildings. The updating of three memoranda of understanding
for Milan, Turin and Rome at the end of 2014 and the innovative
handling of the former Arsenal of Pavia through the signing of
an operating agreement pursuant to the so-called ‘Unlock Italy’
(Sblocca Italia) decree of 2015 are part of an attempt to overcome
problems of coordination between players and of relationship
with urban planning tools.
Keywords: decommissioned military buildings; public premises;
urban regeneration
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