A tutti coloro che ci sono, che ci sono stati
e che ci saranno sempre…
1
2
Un bubbolìo lontano…
Rosseggia l’orizzonte,
come affocato, a mare:
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un’ala di gabbiano.
G. Pascoli, Temporale, Myricae
Quando, all’alba, dall’ombra
s’affaccia,
discende le lucide scale
e vanisce; ecco dietro la traccia
d’un fievole sibilo d’ale,
io la inseguo per monti, per piani,
nel mare, nel cielo: già in cuore
io la vedo, già tendo le mani,
già tengo la gloria e l’amore.
Ahi! ma solo al tramonto m’appare,
su l’orlo dell’ombra lontano,
e mi sembra in silenzio accennare
lontano, lontano, lontano.
La via fatta, il trascorso dolore,
m’accenna col tacito dito:
improvvisa, con lieve stridore,
discende al silenzio infinito.
G. Pascoli, La felicità, Myricae
3
4
Indice
Introduzione………………………………………………………….......
7
Capitolo Primo – Verso la fenomenologia…………………………........
1.1 Il Cartesio di Husserl, un primo fenomenologo………………………
1.1.1 Lo scenario………………………………………………………….
1.1.2 Husserl e il «doute» di Cartesio…………………………………….
1.1.3 L’«auto-fraintendimento» di Cartesio………………………………
1.2 Gli sviluppi del problema gnoseologico fra l’empirismo inglese e la
filosofia trascendentale di Kant…………………………………………...
1.2.1 La crisi del razionalismo e l’empirismo inglese…………………….
1.2.2 La filosofia trascendentale di Kant………………………………….
1.3 La conoscenza delle «cose stesse». Considerazioni attorno al metodo
fenomenologico…………………………………………………………...
1.3.1 La gnoseologia nel secondo Ottocento e la posizione di Franz
Brentano…………………………………………………………………...
1.3.2 La costruzione della fenomenologia husserliana……………………
11
11
11
14
19
Capitolo Secondo – La fenomenologia fra psicologismo e
logicismo………………………………………………………………….
2.1 Fenomenologia e psicologia a confronto……………………………...
2.1.1 Lo scenario………………………………………………………….
2.1.2 La fenomenologia come un’epistemologia………………………….
2.2 Logica, fenomenologia e psicologismo……………………………….
2.2.1 Fenomenologia e logica: lo statuto degli enti matematici…………..
2.2.2 La logica come «dottrina della scienza»…………………………….
2.2.3 Husserl, Frege e la logica…………………………………………...
Capitolo Terzo – L’ultimo Husserl: il problema delle scienze
europee…………………………………………………………………….
3.1 La crisi del sapere scientifico europeo………………………………..
Nota al lettore……………………………………………………………..
3.1.1 Lo scenario………………………………………………………….
3.1.2 Il Rinascimento dimenticato………………………………………...
3.1.3 Questione di fallimenti……………………………………………...
3.1.4 Un’onesta assunzione di responsabilità……………………………..
3.2 Dalla riforma della matematica alla fenomenologia del
Lebenswelt………………………………………………………………...
3.2.1 «La natura è un libro scritto in lingua matematica». Galileo e la
genesi del metodo scientifico……………………………………………..
3.2.2 Mondo naturale e matematica formale. Quale distanza?....................
3.2.3 Fenomenologia dell’esperienza scientifica: il Lebenswelt come
chiave di ristabilimento del senso della ricerca scientifica………………..
3.2.4 La prima riduzione fenomenologica………………………………...
23
23
28
33
33
36
47
47
47
50
54
54
60
66
73
73
73
75
75
78
82
83
83
88
90
92
5
3.2.5 La seconda riduzione fenomenologica: la «fenomenologia
trascendentale
del
mondo
della
vita»
e
il
paradosso
dell’intersoggettività……………………………………………………… 94
Conclusione………………………………………………………………
99
Bibliografia………………………………………………………………. 101
Sitografia…………………………………………………………………
103
Indice dei nomi…………………………………………………………... 105
Ringraziamenti…………………………………………………………... 107
6
Introduzione
L’argomento principale di questo lavoro, come suggerisce il suo titolo, è il
metodo fenomenologico inaugurato da Edmund Husserl, indiscusso maestro del
Novecento che si pone a cavallo di più discipline, fra le quali meritano sicura menzione
la filosofia, la matematica e la psicologia. Ho deciso di approfondire questo autore e il
suo pensiero a causa di diversi fattori che, combinatisi, hanno fatto sorgere in me questa
decisione: la mia grande passione per la logica e per la filosofia della matematica unita
alla volontà di conoscere sempre meglio e sempre più a fondo le cose del mondo che mi
sta attorno – che è un tratto tipico della mia persona – sono stati sicuramente i motivi
determinanti. In effetti, credo proprio che Husserl abbia avuto una grossa influenza su di
me e sul mio modo di essere: la costruzione del metodo fenomenologico evidenzia una
grande volontà di ricerca sulla realtà che non si fermi alla superficie delle cose, e una
insaziabile curiosità per tutto ciò che accade nel mondo vivo e attivo che ci circonda.
Questo metodo, assai versatile, si è dimostrato efficace per condurre anche un’analisi su
temi più astratti rispetto alla conoscenza delle cose del mondo; ed un esempio valido
sono alcuni dei suoi lavori più decisivi, per citarne alcuni la Filosofia dell’aritmetica
(1891), opera d’esordio, e le Ricerche logiche (1901), più avanzate. In questi testi il
filosofo di Prossnitz affronta questioni assolutamente calde e bollenti per l’epoca, quali
lo statuto degli enti aritmetici, la definizione dei fondamenti dell’aritmetica, la verifica
delle possibilità del continuo, la definizione di numero ed i rapporti che intercorrono fra
la scienza logica e la nuova psicologia.
A livello formale, questo lavoro si presenta suddiviso in tre capitoli, ognuno – a livello
contenutistico – indipendente ed autonomo rispetto agli altri. Il criterio che seguirò nella
presentazione dei temi salienti dell’elaborato privilegia, come è naturale, il fil rouge
dell’argomentazione husserliana; presentata tramite l’accesso diretto ad alcuni
frammenti delle opere del maestro, per dare rilievo alla “viva voce” dell’autore, in modo
che sia Husserl stesso a guidarci alla scoperta dei tratti più semplici e più ostici del suo
pensiero; oppure attraverso la mediazione delle ricerche effettuate da specialisti del
settore, al fine di rendere la trattazione il più scientificamente puntuale e per chiarire a
dovere alcune zone dell’argomentare husserliano che possono presentare particolari
7
difficoltà o non essere di immediata interpretazione. Presento ora, capitolo per capitolo,
le peculiarità di ciascuno, così da fornire un “piano dell’opera” chiaro ed esauriente.
Il primo capitolo affronta il tema della costituzione del metodo fenomenologico di
Husserl attraverso un excursus storico che lo stesso autore delinea nella sua opera del
1935, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Viene toccato
ampiamente il tema del confronto che Husserl sostiene con Descartes, il quale per
primo, nel corso della storia della filosofia, ha inaugurato un metodo, quello del dubbio,
molto simile all’epoché husserliana; seppur fallimentare a giudizio del filosofo moravo.
Successivamente, verrà presentato il confronto fra la nozione di «intenzionalità»
elaborata da Franz Brentano, “maestro filosofico di Husserl” e quella elaborata dal
nostro autore, giungendo infine a trattare della costituzione effettiva della
fenomenologia con l’aiuto del volume I delle Idee per una fenomenologia pura e per
una filosofia fenomenologica.
Il secondo capitolo si concentra, invece, sull’analisi dei rapporti che sussistono fra la
fenomenologia, la psicologia e la logica, cercando di ricostruire, seppur in uno spazio
limitato, il dibattito che nei primi del Novecento teneva vivo l’interesse dei principali
esponenti della cultura internazionale. Uno spazio più largo sarà dedicato allo studio
della possibilità della fenomenologia di essere un’epistemologia, sviluppando i temi
della Crisi delle scienze europee, e della logica come «dottrina della scienza». Da
ultimo, verrà presentato un confronto fra l’elaborazione filosofica, relativamente alla
logica ed all’aritmetica, operata da Edmund Husserl e dal suo contemporaneo fondatore
della filosofia analitica, Gottlob Frege.
Infine, lo spazio del terzo capitolo è dedicato alla trattazione e alla discussione del tema
presente nell’ultimo lavoro del maestro, La crisi delle scienze europee, per l’appunto.
Attraverso la presentazione e l’analisi della prima parte dell’opera, verrà ricostruito –
sempre fedeli alla prospettiva husserliana – il percorso che ha portato la scienza a
crescere e ad evolversi nel tempo, sino ad entrare in crisi nel Novecento. Saranno presi
in considerazione i periodi d’oro della scienza, il Rinascimento e l’Età Moderna, sarà
presentata la figura di Galilei come quella dello scienziato che Husserl ha ritenuto il
vero e proprio fondatore del modo moderno, matematico, del fare scienza. Per
8
concludere verrà proposta la soluzione husserliana alla crisi delle scienze, che è la
fenomenologia del Lebenswelt, del mondo-della-vita.
9
10
Capitolo Primo
Verso la fenomenologia
1.1 Il Cartesio di Husserl, un primo fenomenologo
1.1.1 Lo scenario
Sebbene possa sembrare strano e ragionevolmente decontestualizzato rispetto alle
periodizzazioni ordinarie della storia della filosofia considerare Cartesio come un
fenomenologo, in questa prima parte del lavoro mi propongo di ripercorrere la lettura
che Edmund Husserl dà del pensiero di questo autore, che egli considera di
fondamentale importanza nel percorso di costruzione della fenomenologia; in quanto la
concezione filosofica che emerge dai suoi lavori, il soggettivismo cartesiano, è stata di
portata dirompente nel corso della storia del pensiero.1. Lo stesso Husserl non manca di
riconoscere questa valenza al pensiero del francese; ponendolo come un continuo
soggetto di confronto in diverse sue opere, una delle quali porta – non casualmente – il
titolo di Meditazioni cartesiane. Nei Discorsi parigini2 Husserl si esprime così a
proposito di Cartesio:
[Nessun filosofo del passato] ha contribuito in modo così decisivo al senso della
fenomenologia come il maggior pensatore francese, Renato Cartesio3.
Possiamo dire che è per un “fraintendimento” di Cartesio che si pongono le basi per
l’elaborazione della fenomenologia in chiave husserliana: se la sua filosofia era
finalizzata alla fondazione di un obiettivismo razionalistico, l’esito al quale approda è la
creazione un vero e proprio soggettivismo trascendentale; ovvero si arriva alla posizione
opposta rispetto a quella oggettivistica, producendo un clima favorevole alla nascita
1
Chiaramente, non è possibile parlare di Cartesio come di un filosofo appartenente tout court alla scuola
della fenomenologia, in primo luogo perché fra egli e i fenomenologi vi è una considerevole distanza
temporale, in secondo luogo poiché la filosofia cartesiana non arriva ai risultati della fenomenologia
husserliana: il pensiero di Cartesio permette di pervenire ad una coscienza empirica, quello di Husserl ad
una coscienza trascendentale.
2
I Discorsi parigini sono due conferenze tenute da Husserl a Parigi il 23 e il 25 febbraio 1929.
3
E. HUSSERL, Discorsi parigini in Meditazioni cartesiane, a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 2002, p.
3
11
della fenomenologia. È chiaro il grande valore che per Husserl ha la filosofia di
Cartesio: insufficiente rispetto al compito che originariamente si era ripromessa –
ovvero la fondazione salda di un rigido obiettivismo filosofico fondato però sul
soggetto, sull’ego – gli permette di intravvedere nella storia del pensiero le tracce da
seguire per elaborare la propria innovativa concezione filosofica. Rimane centrale,
dunque, l’eredità consegnata al pensiero da questo autore, tant’è vero che in una delle
opere husserliane più celebri e mature, La crisi delle scienze europee e la
fenomenologia trascendentale4 (1935), l’autore si riferisce in questi termini alla
filosofia moderna e, in particolare, a Cartesio:
Come tutte le idee storiche che promuovono grandi sviluppi, quelle della nuova
matematica, della nuova scienza, della nuova filosofia vivono nella coscienza delle
personalità che fungono appunto da portatori del loro sviluppo […]. Tutto ciò va
tenuto presente quando si parla della potenza di quella nuova idea della filosofia
che agisce attraverso tutta l’epoca moderna, attraverso tutte le scienze e attraverso
l’educazione, di quell’idea che è stata colta e relativamente circoscritta per la prima
volta da Cartesio. Ma non soltanto grazie all’inaugurazione di quest’idea Cartesio
è diventato il progenitore dell’epoca moderna5.
Non è difficile cogliere la stima e il giudizio lusinghiero che viene attribuito a Cartesio:
secondo Husserl, egli è il «progenitore dell’epoca moderna», vale a dire la figura che
più di tutte ha forgiato e ha plasmato questa epoca storica. Questo grande pensatore ha
compreso alla perfezione lo spirito del modernismo, la Weltanschauung che si stava
costruendo fra Cinquecento e Seicento, in merito alla quale è bene spendere alcune
considerazioni. L’evento che in quegli anni detiene la maggiore rilevanza significativa è
la rivoluzione scientifica, che inaugura una modalità completamente rinnovata
attraverso cui esperire la realtà. Il paradigma scientifico moderno, che verrà consacrato
da alcuni grandi nomi quali Copernico, Galileo e Newton6 si basa su una nuova forma
di scientificità e matematizzazione della realtà che si realizza, in prima battuta,
nell’ambito della scienza naturale. L’occhio dell’uomo moderno guarda al mondo
attorno a sé con il piglio scrutatore del nuovo scienziato che cerca di trovare la chiave di
volta dei misteri della natura, provando a inquadrarlo all’interno di leggi generali di tipo
4
Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in originale
E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura di E. Paci, tr. it. di
E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 2008, pp. 102-103
6
Per ottenere un inquadramento soddisfacente del periodo e degli autori trattati si rimanda al testo di E.
GIANNETTO, Saggi di Storie del Pensiero Scientifico, Sestante edizioni, Bergamo 2009, capp. 11 e 12
5
12
matematico che ne descrivano la struttura generale. L’intera natura è compresa nei
termini di calcolo matematico, anatomia e fisiologia. Nel periodo moderno fa la sua
comparsa la tecnica moderna, fortemente distanziata dalla techne greca o medievale:
l’obiettivo della tecnica moderna è l’uso vero e proprio della natura, per il fine della
scoperta scientifica si legittima l’impiego di strumenti tecnici, costruiti grazie a
conoscenze fisico-matematiche, violenti ed invasivi nei confronti del mondo naturale.
Non vi è cura per la natura, né tantomeno rispetto per essa come per una natura viva 7:
occorre non lasciare sconosciuto nemmeno un suo angolo recondito. Tutto l’universo
deve poter essere compreso a partire da uno schematismo legislativo (di tipo
matematico) che permetta all’uomo di assicurarsi una posizione nel mondo dalla quale
dominarlo con fermezza. Quella moderna è un’epoca che, come fanno notare sia
l’Husserl della Crisi delle scienze europee che il secondo Heidegger di Sentieri
interrotti, ha perduto l’intrinseco significato del mondo e della sua essenza per dedicarsi
esclusivamente all’elaborazione di una dottrina esatta della sua comprensione: Husserl
reclama per la scienza l’esigenza di ritornare allo studio del Lebenswelt, cioè della realtà
intesa come mondo-della-vita, ovvero una riconduzione del paradigma tecnicoscientifico alla filosofia in modo tale che l’operato di quest’ultima disciplina consenta
alla scienza di recuperare il senso autentico del suo studio; Heidegger, in Sentieri
interrotti, usa l’espressione «epoca dell’immagine del mondo»8 per descrivere la visione
idealizzata della realtà che la scienza moderna si crea, un’immagine di questa non
corrispondente al mondo reale, che viene modellata sulla base di una concezione della
natura che non tiene in considerazione il suo essere physis, materia vivente, ma la
7
Mi riferisco alla concezione antica della natura come physis, ovvero come una totalità viva e in
movimento, dotata di leggi e statuti suoi propri; all’interno della quale tutto trova un ordine e trova un
posto, incluso l’uomo.
8
L’epoca dell’immagine del mondo (Die Zeit des Weltsbildes, in originale) è un saggio del 1938 di Martin
Heidegger contenuto in Sentieri interrotti (Holzwege). In queste pagine Heidegger produce un’analisi
originale sulla scienza moderna, intesa come creatrice di un’immagine del mondo: in altre parole il
Seicento, secolo che vede la tecnica trionfare come modello gnoseologico di spiegazione ed
interpretazione dei fenomeni naturali, costruirebbe l’immagine di una natura governata da leggi
intelligibili di tipo fisico-matematico, la cui comprensione è alla portata di chiunque vi si accosti in modo
razionale. Tuttavia, questa costruzione cognitiva perde la specificità e l’Essere della natura: essa è solo
una res extensa pronta da studiare ma non più una potenza vivente da rispettare e da vivere
autenticamente. La critica di Heidegger alla scienza moderna è più pervasiva, e ripropone i temi classici
del secondo Heidegger: non solo l’epoca moderna avrebbe perso il valore della natura come physis, ma
avrebbe anche settorializzato e parcellizzato i campi di studio, frammentando il sapere in tanti rami,
perdendo così un punto di vista unitario sulla conoscenza (a tal proposito si vedano, dello stesso autore,
anche i pensieri contenuti in Che cos’è metafisica? del 1929).
13
intende solo come estensione materiale comprensibile in termini geometrici ed
algebrici. È intuitivo comprendere, alla luce di queste prospettive, come il pensiero di
Cartesio, Copernico, Galileo e Newton si adatti perfettamente a questo orizzonte
culturale. Nel presentare questo pensatore farò riferimento a due opere, il Discorso sul
metodo (1637) e le Meditazioni metafisiche (1641), quest’ultima di fondamentale
importanza rispetto alla successiva filosofia di Husserl. Non mi dilungherò
particolarmente sul Discorso per lasciare più spazio alle Meditazioni, con le quali il
filosofo moravo si confronterà sia nella Crisi delle scienze europee che nella sua
«Antrittsrede»9, Fenomenologia e teoria della conoscenza 10, presentata all’Università di
Friburgo in Brisgovia.
1.1.2 Husserl e il «doute11» di Cartesio
Il Discorso del 163712 presenta alcune linee guida del pensiero cartesiano che
saranno riprese in maniera più profonda ed articolata nel testo del 1641. Viene
presentato il percorso metodologico che porta Cartesio ad una ricostruzione completa
del proprio bagaglio conoscitivo in seguito alla esplicitata necessità di sospendere il
giudizio sulla certezza di ciò che si conosce del mondo. Ascoltiamo la “viva voce”
dell’autore:
Infatti, mi trovai gravato da tanti dubbi ed errori che mi sembrava di non avere
tratto altro beneficio cercando di istruirmi, se non la consapevolezza sempre più
chiara della mia ignoranza. Eppure ero in una delle più celebri scuole d’Europa,
dove pensavo dovessero trovarsi uomini dotti, se mai ve ne fossero in qualche
angolo della terra13.
Le conoscenze ottenute a La Flèche, «una delle più celebri scuole d’Europa», orgoglio
della formazione gesuitica, sono proprio le prime a necessitare di essere poste in dubbio,
La Antrittsrede è una prolusione ufficiale che si tiene allo scopo di segnare l’ingresso formale di un
docente nel corpo accademico di un’università. La Antrittsrede di Husserl porta il titolo di
Fenomenologia e teoria della conoscenza ed è stata discussa il 9 febbraio 1916, quando il filosofo
moravo divenne professore ordinario di filosofia presso l’università di Friburgo in Brisgovia (la stessa in
cui insegnò il suo allievo Martin Heidegger).
10
Phänomenologie und Erkentnnistheorie, in originale
11
Dal francese, «dubbio»
12
Oggi concepito come testo a sé stante è in realtà inteso da Cartesio come un saggio introduttivo di
carattere metodologico a tre suoi scritti: la Diottrica, la Geometria e le Meteore.
13
R. DESCARTES, Discorso sul metodo, a cura di G. Gori, tr. it. di M. Barsi e di A. Preda, BUR, Milano
2011, p. 17
9
14
a dover essere completamente riverificate. Cartesio sostiene che, fin quando si è
fanciulli, in tenera età, è del tutto normale credere completamente alle conoscenze
imposte da genitori ed insegnanti; siccome l’infanzia non vede una consapevolezza
chiara e distinta dell’autonomia della mente dal corpo ma coglie queste due sostanze
come un tutto unitario, il bambino non è in grado di porsi autonomamente una domanda
stringente circa la validità del proprio complesso di conoscenze. Il mondo è percepito da
lui come un luogo sicuro, reso ancora più certo e sicuro dalle regole che gli adulti gli
suggeriscono. Quando sopraggiunge l’età della maturità, però, si rende necessario
acquisire una graduale autonomia rispetto alle informazioni conoscitive ottenute
acriticamente, lasciando campo libero al cogito, all’attività del pensiero, in modo tale
che vi sia una valutazione oggettiva delle conoscenze operata sulla base di un metodo di
certificazione razionale e scientifico14. Questo metodo è descritto con cura nel Discorso.
Occorre, insomma, scrollarsi di dosso le antiche credenze, farne una completa tabula
rasa; concedersi (con attenzione) all’antico scetticismo di Pirrone15 per il quale non vi è
nulla che possa sfuggire alla morsa inesorabile del dubbio. Prima di analizzare il
Cartesio delle Meditazioni, mi sembra doveroso ascoltare il “parere” di Husserl circa il
concetto cartesiano del dubbio, in modo da comprendere le possibili analogie fra il
procedere cartesiano e quello husserliano in merito all’elaborazione di una nuova teoria
della conoscenza:
In questa situazione [di rifondazione delle conoscenze], è inevitabile che egli
[Cartesio], come chiunque voglia diventare seriamente filosofo, cominci con una
specie di epoché scettica, che pone in questione l’universo di tutte le sue precedenti
convinzioni, che evita di usarle in un modo qualsiasi nei giudizi, che sospende
qualsiasi presa di posizione rispetto alla loro validità o non-validità. Ogni filosofo,
almeno una volta nella vita, deve procedere così, e se non l’ha fatto […] bisogna
che lo faccia16.
Da queste parole mi sembra evidente la grande sintonia che vi è fra i due filosofi a
livello metodologico, e mi sembra sempre più valida la tesi per cui sia possibile istituire
un paragone di buona somiglianza fra il doute di Cartesio e l’epoché di Husserl. Dico
somiglianza perché non vi è una totale identificazione: sono entrambi atteggiamenti
14
F. BONICALZI, A tempo e luogo, Jaca Book, Milano 1998, pp. 18 e segg.
Ci si riferisce allo scetticismo radicale di Pirrone di Elide, al quale si contrappone, secondo l’analisi di
Richard Popkin contenuta in R. H. POPKIN, Storia dello scetticismo, tr. it. di R. Rini, Mondadori, Milano
2008, uno «scetticismo moderato» ravvisabile soprattutto nella filosofia di David Hume.
16
E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee…, op. cit., p. 104
15
15
psichici che esigono di «mettere fra parentesi» la realtà al fine di conseguirne una
conoscenza più perspicua, ma i risultati a cui giungono sono ben diversi, e nel prosieguo
del lavoro si avrà modo di comprendere sia il punto di vista cartesiano che quello
husserliano. Volendo concentrarsi ora sulle Meditazioni, occorre dire che le prime due si
agganciano del tutto al tema del dubbio e della certificazione della conoscenza: nella
Prima Meditazione Cartesio presenta il dubbio come modo del pensiero che deve
necessariamente porsi rispetto alle conoscenze dell’infanzia: abbiamo già accennato al
carattere instabile ed insicuro che esse possiedono. Se di esse devo per forza di cose
dubitare, non posso essere tantomeno sicuro della conoscenza che mi proviene dai sensi:
è esperienza comune che i sensi alcune volte ingannano mostrando come veri dei
fenomeni totalmente illusori; per questo Cartesio li chiama sens trompeurs, sensi
ingannatori. Ma può darsi che viviamo in un sogno, in una realtà completamente
inconsistente dove tutto appare illusione. Addirittura, e questo è un punto estremo del
procedimento del dubitare, può essere che Dio non abbia mai creato nessuna Terra,
nessun cielo, nessuna realtà; e che pure le verità matematiche (che sono idee innate)
siano false:
Ora, chi può assicurarmi che questo Dio non abbia fatto in modo che non vi sia
nessuna terra, nessun cielo, nessun corpo esteso, nessuna figura, nessuna
grandezza, nessun luogo e che io tuttavia senta tutte queste e tutto ciò mi sembri
esistere non diversamente da come lo vedo17?
Tuttavia Dio è buono e non può necessariamente permettere che io viva in un mondo
d’inganni. Nessuno vieta a Cartesio di supporre, tramite un’altra finzione, l’esistenza del
malin Génie, un Genio maligno che mi svia durante il processo di conoscenza della
realtà. Sarà importante, pertanto, trovare un argomento di assicurazione gnoseologica
talmente certo da resistere anche all’ipotesi scettica del dubbio metodico ed iperbolico.
Occorre valutare adeguatamente, anche in rapporto alla costituzione della successiva
fenomenologia, la portata del dubbio e dell’epoché per Cartesio; mettendo in risalto il
fatto che non si tratta assolutamente di un’aderenza incondizionata alle tesi pirroniane,
per le quali vi è una completa assenza della verità oggettiva, peraltro avversate anche
dallo stesso Husserl:
17
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in OFL II, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 74
16
Si contesta che la ragione sia l’organo della conoscenza di verità valide
oggettivamente e, come in Protagora, si dà lo scettro a una sensibilità senza valore.
Ci sono solo verità sensibili, quindi meramente relative al soggetto […]. Ovvero,
per ogni proposizione si possono contemporaneamente trovare ragioni teoretiche
che la dimostrano e ragioni ugualmente stringenti che la confutano18.
Lo scetticismo conduce ad una deriva ben poco utile dal punto di vista sia della
tradizionale teoria della conoscenza cartesiana che da quello della fenomenologia, in
quanto afferma l’impossibilità di ritrovare la verità nella datità dei fenomeni; non
costituisce nemmeno un punto di partenza interessante per colui che si propone di
rifondare il complesso delle proprie conoscenze. Per questo motivo, seguendo la scia di
Cartesio, anche Husserl preferisce allontanarsi dallo scetticismo puro durante
l’elaborazione del proprio metodo fenomenologico. Il dubbio di Cartesio impone di non
accettare acriticamente ciò che viene filtrato dai sensi, e qui risiede la sua fecondità;
nonostante che Husserl riconosca benissimo questa novità, manca però di sottolineare
come il giudizio di inattendibilità sulla conoscenza sensibile del mondo derivi
primariamente da Copernico, che mostra come falso ciò che appare evidente ai sensi,
ovvero il moto del Sole:
Quest’«epoché cartesiana» è in realtà di un radicalismo inaudito, perché investe
espressamente non soltanto la validità di tutte le precedenti scienze, persino della
matematica che pure pretende a un’esigenza apodittica, ma anche […] di tutto il
mondo, dato in un’ovvietà inindagata […]. Si può dire che per la prima volta il
grado inferiore di qualsiasi conoscenza obiettiva […] di tutte le scienze «del»
mondo, viene posto in discussione dal punto di vista della «critica della
conoscenza»: viene messa cioè in discussione l’esperienza nel senso usuale,
l’esperienza «sensibile» - e correlativamente il mondo stesso19.
In effetti, sono proprio gli obiettivi di Cartesio e degli scettici ad essere completamente
differenti; ancora Husserl, nella sua Crisi delle scienze europee, ci ricorda che «lo
scetticismo antico […] contesta e nega l’episteme, cioè la conoscenza scientifica
dell’essente-in-sé, ma non riesce ad andare al di là di un agnosticismo, del rifiuto delle
sustruzioni razionali operate da una «filosofia» la quale, con le sue presunte verità-in-sé,
ammette e crede di raggiungere un in-sé razionale»20. Cartesio, al contrario, non è
assolutamente
interessato
alla
distruzione
dell’obiettivismo
gnoseologico,
18
E. HUSSERL, Fenomenologia e teoria della conoscenza, a cura di P. Volonté, Bompiani, Milano 2012,
p. 63
19
E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee…, op. cit. p. 104
20
Ibidem, p. 105
17
semplicemente ritiene necessario porre in dubbio ogni conoscenza al fine di
comprovarne sino in fondo il suo statuto epistemologico. Per questo il dubbio di
Cartesio è così radicale e profondo. Esiste solo una certezza, discussa nella Seconda
meditazione, in questo mare di dubbi: la certezza che io esisto in quanto penso, idea
consacrata nella famosa massima del cogito, ergo sum. Per Cartesio è possibile
esprimersi attraverso il pronome personale “io” – garante di una propria posizione nel
mondo – proprio in quanto esso deriva il suo significato dall’esistenza reale, chiara e
distinta di una sostanza ontologicamente data ed indipendente dalla realtà corporea che
è la mente, la «cosa pensante», la res cogitans. È proprio così, «per pensare è necessario
esistere21», e «questa verità era così salda e certa che tutte le più stravaganti
supposizioni degli Scettici non avrebbero potuta farla crollare22». Io esisto in quanto
penso, il mio corpo – in quanto res extensa – sostanza non pensante, è un accidente
accessorio forse neanche esistente. Però, accanto a questa certezza molto metafisica
dell’esistenza del mio io ricercata attraverso il ricorso alla garanzia del pensiero, occorre
porre una certezza che ancora non c’è: quella in merito all’esistenza reale del mondo
esterno, al fine di far crollare qualsiasi possibilità di vivere in un’illusione o in un
sogno. Sarà sempre compito delle Meditazioni assicurare l’esistenza della realtà esterna:
primariamente occorre dimostrare l’esistenza di Dio, la cui idea è innata in noi e non è
né avventizia né fattizia. Diverse sono le dimostrazioni cartesiane dell’esistenza di Dio,
ma qui basta ricordare che l’idea di Dio è innata nell’uomo in quanto non sarebbe nelle
facoltà umane di produrre un’idea che superi, in quanto a perfezione, la causa che l’ha
generata23. Una volta ottenuto Dio, il resto viene da sé: se Dio è la somma delle
perfezioni, e ciò ne implica l’esistenza24 per forza di cose, non è ingannatore, né
maligno né fautore del nostro male e della nostra rovina; allora può venire considerato
come il garante dell’esistenza della realtà esterna al mio io e, contemporaneamente,
21
R. DESCARTES, Discorso del metodo, op. cit., p. 83
Ibidem, pp. 79-81
23
Per comprendere appieno il senso di questa dimostrazione occorre ricordare che, per Cartesio, ancora
molto legato alla filosofia scolastica, la causa di un’idea (anche le idee innate hanno una causa, come tutto
ciò che accade) deve possedere lo stesso (o superiore) grado di realtà formale quanto è quello della realtà
oggettiva dell’idea (ricordando che la realtà oggettiva di un’idea è il contenuto della stessa mentre la
realtà formale designa ciò che esiste realmente). Per cui, applicando questo principio all’idea di Dio, non
è possibile che un uomo costruisca un’idea come quella di Dio in modo autonomo, in quanto Dio va
pensato come la somma di tutte le perfezioni (onnipotente+onnisciente+infinitamente buono…). La realtà
oggettiva di Dio è, appunto, la perfezione. La perfezione però, come abbiamo ricordato poc’anzi, è Dio
stesso. Essendo Dio l’ente perfetto, significa che Egli è anche la causa stessa dell’idea di perfezione.
24
Altra dimostrazione a posteriori dell’esistenza di Dio contenuta nelle Meditazioni metafisiche.
22
18
della possibilità che ho di conoscerla in maniera effettiva. La conoscenza obiettiva,
ovvero fondata su un principio metodico e razionale (benedetto e certificato da Dio),
sembra ora essere del tutto salva. In effetti per Cartesio lo è a tutti gli effetti. Inoltre, è
proprio a partire da me, da me stesso come sostanza pensante ed intelligente che si dà la
conoscenza della realtà: Cartesio è così giunto alla fondazione di una posizione
filosofica inedita: in altre parole vi è un soggetto, attività assoluta ed universale di
conoscenza, che è in grado di conoscere la realtà, la res extensa, a partire da uno stile
metodologico di tipo scientifico che è reso possibile dall’attività cognitiva della res
cogitans. Specialmente da Kant in poi, non ci sarà più spazio per un’oggettività
incontrovertibile della conoscenza, perché tutto è riportato e ricondotto all’interno delle
possibilità gnoseologiche del soggetto; questo aspetto diventerà quello qualificativo
dell’età moderna, contraddistinguendola dalle età che la precedono e che la seguono.
Sebbene Husserl consideri il dubbio cartesiano come un irrinunciabile punto di
partenza, occorre introdurre la critica che Husserl muove all’epoché cartesiana del
dubbio; per mostrare in che senso il progetto del pensatore francese lo lascia, per così
dire, insoddisfatto: sarà necessario parlare di quello che lo stesso Husserl chiama
l’«auto-fraintendimento» di Cartesio, ampiamente discusso sia nella già più volte citata
opera del 1935, la Crisi delle scienze europee, che nel testo del 1916, Fenomenologia e
teoria della conoscenza. A partire da questi testi si analizzerà la problematicità della
posizione “fenomenologica” di Cartesio che – lungi dal permettergli un accesso puro
alla datità dei fenomeni – lo disorienta in modo fatale proprio con il concetto del
dubbio, asse portante dell’intera scepsi cartesiana.
1.1.3 L’«auto-fraintendimento» di Cartesio
Come si è avuto modo di constatare più sopra, Cartesio è stato unico nel suo
genere nel rivolgersi all’evidenza dei fenomeni come chiave d’accesso all’elaborazione
di una teoria della conoscenza. Husserl gli riconosce questo come primato, ed è
doveroso verificare se vi siano alcune falle nel procedere della sua argomentazione. E la
sua morsa critica le mette in luce e le condensa nell’espressione che dà il titolo a questo
paragrafo. Si tratta proprio di un «auto-fraintendimento» nel vero senso della parola:
Cartesio ha elaborato un impianto teorico che, ad un certo punto, secondo Husserl, gli è
19
sfuggito di mano e si è irrimediabilmente ritorto contro di lui, facendogli fraintendere
alcune conclusioni alle quali – molto probabilmente – sarebbe potuto pervenire. È
risaputo, ed è anche richiamato nel paragrafo precedente, che l’intero impianto della
filosofia cartesiana è ancorato al concetto di doute, di dubbio, che permette la possibilità
d’istituire un’analogia con la successiva epoché husserliana. Ritroviamo la formulazione
di questo concetto, e lo abbiamo già visto sia nel Discorso del ’37 che nelle Meditazioni
metafisiche del ’41; addirittura in queste ultime il dubbio viene portato alle sue estreme
conseguenze diventando persino «metodico» e universale, esteso a tutto ciò che
costituisce il nostro mondo. Seguendo l’impianto argomentativo delle Meditazioni (e
anche del Discorso) si nota come Cartesio avverta forte la necessità di una certezza, di
un punto d’ancoraggio: viene assicurata l’esistenza di Dio, che garantisce circa la realtà
del mondo esterno (e, contemporaneamente, si acquisisce la sicurezza in merito al
carattere assiomatico della geometria)25; viene inoltre ottenuta la certezza dell’esistenza
del cogito, dell’io, per mezzo dell’attività del pensiero. Ma proprio a quest’altezza del
filosofare di Cartesio cominciano a sorgere i primi problemi, immediatamente compresi
da Husserl: ormai certo di ciò che gli era fondamentale per poter rifondare la
conoscenza (cogito e realtà esterna):
Egli non aveva spinto a fondo l’originale radicalismo del suo pensiero, dal fatto che
egli non aveva sottoposto realmente all’epoché (non aveva messo «tra parentesi»)
tutti i suoi pregiudizi, il mondo nel suo complesso; tutto proteso verso la sua meta,
egli non riuscì a cogliere proprio l’essenziale, ciò che egli aveva attinto scoprendo
l’«ego» dell’epoché, e non riuscì quindi a svolgere, rifacendosi puramente ad esso,
un αυ ά ζε filosofico26.
Occorre comprendere bene questo passaggio al fine di inquadrare il problema: Husserl
fa notare come Cartesio manchi di aver sottoposto al giudizio del dubbio (o, se si
preferisce, dell’epoché) l’intero complesso delle sue convinzioni e dei suoi pregiudizi e,
per questo motivo, manchi di cogliere l’aspetto veritativo essenziale della totalità dei
fenomeni che gli si danno. Un abbaglio particolare di Cartesio lo registriamo in
25
Le leggi della geometria (e della matematica), per Cartesio, sono idee innate, ovvero già predisposte da
Dio all’interno della mente di ciascun individuo. Esse hanno un carattere apodittico in quanto provengono
direttamente dalla volontà divina, la quale le ha decise, ordinate e costituite in un modo perfetto che
potrebbe modificarsi solo in seguito ad una modificazione della stessa volontà di Dio. Per questo motivo
la geometria è assiomatica (e non sottoposta al vaglio del dubbio), così come assiomatico è l’«io penso»,
il cogito. Sarà proprio in virtù del non aver sottoposto l’intera geometria classica alla prova del dubbio –
in quanto assiomatica – e quindi anche il cogito, che Cartesio pone le basi per auto-fraintendersi.
26
E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee…, op. cit. p. 107
20
relazione alla struttura del cogito, e questo è anche il punto d’interesse maggioritario per
Husserl. Avendo posto l’esistenza dell’io come un assioma, è impossibile discutere
ulteriormente in merito: l’argomento del cogito gli appare una certezza incrollabile,
sebbene sia stato dedotto solo ed esclusivamente per via di pensiero. Se però il mondo
esterno è incerto o comunque dubitabile mentre il cogito, che comunque è parte del
mondo, non lo è, allora significa che vi è un qualche cortocircuito nel procedere
cartesiano, e infatti una parte dell’analisi husserliana in Idee I mette in chiaro che «non
possiamo nello stesso tempo mettere in dubbio e tenere per certa la stessa materia di
essere»27. Questa acuta frase spiega come Cartesio non abbia dubitato nemmeno della
stessa costituzione del cogito. E questa mancanza è gravosa, poiché sancisce il ricadere
del pensiero cartesiano in una sfera di semplice ed ingenuo empirismo che l’epoché
avrebbe dovuto evitare28. A questo punto, Husserl riesce a vedere un Cartesio alle prese
con un cogito scoperto mediante una “primitiva” epoché fenomenologica che gli
consente sì di poter affermare l’esistenza di un “io pensante” a tutti gli effetti ma che,
nel contempo, lo interroga in modo stringente: di che io parli, forse dell’io del corpo? O
forse di una facoltà intellettuale condivisa da ogni uomo? Nelle Meditazioni metafisiche
Cartesio crede di eludere il problema rispondendo che «l’io viene così a determinarsi
come mens sive animus sive intellectus»29. Il pensatore francese, nonostante abbia dato
forma ad una teoria della conoscenza basata sull’evidenza, è rimasto completamente
intrappolato nel suo stesso concetto di dubbio:
Il tentativo di «dubbio universale», scriveva Husserl, deve essere condotto fino alle
sue estreme conseguenze […] E questo equivale a dire che, se poniamo in crisi la
validità della realtà del mondo, non possiamo considerare valida allo stesso tempo
la realtà dell’io, come tale30.
Ecco perché Cartesio si è frainteso: non è stato più in grado di rendere conto della
propria scoperta dell’io, del cogito, proprio perché non lo ha sottoposto al vaglio
dell’epoché. Ciò che doveva essere studiato in quanto cogito è invece stato relegato ad
un piano psicologistico-individualistico, che ne ha completamente svalutato la portata
gnoseologica. Avviandomi verso la conclusione, non posso tacere l’altro punto
27
E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica , a cura di V. Costa,
Einaudi, Torino 2002, vol. I, p. 69
28
E HUSSERL, La crisi delle scienze europee..., op. cit. p. 108
29
Ibidem, p. 107
30
A. ALLEGRA, G. MARCHETTI, Le forme dell’oggetto. Percorsi della rappresentazione nella filosofia
moderna, Morlacchi, Perugia 2007, p. 14
21
essenziale, per Husserl, rispetto al fraintendimento di Cartesio: il forte interesse per
l’obiettivismo che approda alla costituzione di una filosofia di stampo soggettivistico. Il
pensatore francese è, come si è detto ancora, il fondatore di una «filosofia di genere
completamente diverso»31 che si incarica di risolvere un problema di immane difficoltà,
che sarà ripreso anche da Kant; ovvero di come sia possibile che le formazioni razionali
prodotte nella ragione dopo la percezione sensibile diano luogo ad una conoscenza
valida in modo oggettivo. Si tratta di voler fondare l’oggettivismo sul soggettivismo, la
contraddittorietà di questo problema non ha eguali in filosofia. Cartesio avrebbe potuto
sganciarsi dalla enorme aporia che stava tentando di risolvere se avesse rinunciato
all’obiettivismo, ma gli era impossibile: «la mens, che nell’epoché stava dapprima per
sé e fungeva da terreno assoluto di conoscenza per la fondazione delle scienze obiettive
(in termini universali: della filosofia), sembrava insieme fondata in essa stessa, cioè
nella psicologia»32. Gli era impossibile perché la garanzia dell’obiettività era stata
radicata da lui in se stessa, nella certezza autoevidente del pensiero soggettivo, dello
stesso pensiero-che-pensa:
A causa di questo autofraintendimento, tutto il sistema cartesiano, secondo
Husserl, appare “metafisico”, ossia dogmatico. Il suo fondamento in un principio
che è stato assunto come vero e, quindi, considerato come una verità assoluta,
senza essere valutato correttamente, lo ha portato ad una concezione errata del
dubbio e, soprattutto, ad una arbitraria fondazione della conoscenza della realtà
esterna33.
Cartesio, in modo poco avveduto, ha fondato la certezza del cogito come un fatto
apodittico (e pertanto indiscutibile) e ha preteso assumere a verità ciò che il cogito
pensa: sum cogitans: ego cogito – cogitata qua cogitata. È il cogito a fondare il senso e
il significato della realtà circostante in quanto sono le funzioni mentali del soggetto a
modellare e costruire la realtà per garantire una conoscenza il più obiettiva possibile. Il
fraintendimento cartesiano del ruolo del cogito (lo ricordo, non indagato in quanto
cogito ma indagato solo in quanto certezza psicologica e soggettiva) ha fatto sì che:
31
Ibidem, p. 109
Ibidem, p. 110
33
A. ALLEGRA, G. MARCHETTI, Le forme dell’oggetto…, op. cit., p. 15
32
22
Descartes abbia finito per trascurare quella verità prima per cui l’oggetto, il
fenomeno, ovvero ciò che “ci appare” nella sua trascendenza, è costituito
immanentemente nella coscienza.34
A partire da questa osservazione che denuncia un’insufficienza gnoseologica del
pensiero di Cartesio secondo le indagini compiute da Husserl, nel prossimo paragrafo
mi concentrerò sugli sviluppi del problema gnoseologico, prendendo in esame la lettura
husserliana dell’empirismo inglese e della filosofia trascendentale di Kant; per poi
giungere finalmente alla descrizione del metodo fenomenologico vero e proprio.
1.2 Gli sviluppi del problema gnoseologico fra l’empirismo inglese e la
filosofia trascendentale di Kant
1.2.1
La crisi del razionalismo e l’empirismo inglese
Il cammino in direzione della formulazione dell’atteggiamento fenomenologico
husserliano rispetto alla teoria della conoscenza procede prendendo in esame quei
pensatori successivi a Cartesio che hanno inaugurato prospettive innovative rispetto al
problema gnoseologico consacrato dal pensatore francese. Una tappa obbligata per
l’Husserl della Crisi delle scienze europee è, per forza di cose, l’empirismo inglese; che
porta al definitivo tramonto del razionalismo cartesiano:
[Attraverso l’empirismo inglese] si abbandona l’autentico metodo cartesiano, lo si
spoglia del suo senso genuino trasponendolo sul piano della conoscenza naturale
(natürlichen Bewußtseins), per la quale il mondo, e nel mondo il proprio io, sono
pre-dati35.
In altre parole si riparte di nuovo dal metodo cartesiano ma con una consapevolezza
differente, ossia che in alcune parti pecca d’insufficienza esplicativa. La lettura
husserliana della filosofia moderna ci consegna nuovamente l’«auto-fraintendimento» di
Cartesio come movente fondamentale della crisi del razionalismo nel Seicento avanzato.
Per cui ripercorro brevemente alcuni punti cruciali in merito che dovrebbero già essere
34
35
Ivi, p. 15
E. HUSSERL, Fenomenologia…, op. cit., p. 99
23
risultati chiari dalla chiusa del paragrafo precedente: nella Prima meditazione Cartesio
pone il doute come metodo generale del filosofare, rivoluzionando di molto la
gnoseologia grazie all’introduzione di un programma filosofico orientato all’evidenza
ma profondamente radicato nelle possibilità mentali del soggetto. Le basi di una
filosofia che consideri l’esperienza come un dato di fatto da cui possa partire la
conoscenza e non come un mero e sterile fatto psicologico sembrerebbero poste con
saldezza. Tuttavia, nella Seconda meditazione, fa la sua comparsa il cogito che, talmente
certo di sé e così radicalmente fondato nella sua autocertificazione psicologica (ovvero
nel pensiero) non viene sottoposto al vaglio dell’epoché appena inaugurata; secondo
Husserl questo produce l’«auto-fraintendimento» di Cartesio, ossia la tendenza all’aver
sospeso il giudizio sul mondo intero ma non sull’io, non rendendosi conto che
anch’esso è parte integrante del mondo. Si inaugura, invece, una filosofia soggettivistica
che relega l’esperienza a pura immagine mentale che appare spoglia di un valore
oggettivo, a meno che non vi sia Dio a garantire e a certificare la validità dell’immagine
mentale. Secondo l’interpretazione storiografica della storia della filosofia risalente ad
Hegel, potremmo considerare John Locke il capostipite della scuola dell’empirismo
inglese36. Questa interpretazione può non risultare pienamente soddisfacente per due
motivi: il primo riguarda il fatto che la tradizione empiristica inglese aveva già visto
degli esponenti in Bacone e in Hobbes, il secondo perché Locke non può essere definito
un empirista a tutti gli effetti. Questo filosofo è imbevuto di razionalismo, il programma
filosofico del Saggio sull’intelletto umano (1690) consiste nella costruzione di un
pensiero che fonde assieme l’istanza razionale con quella empirica. Già nell’Epistola al
lettore che precede il Saggio, Locke definisce chiaramente che è necessario esaminare
la teoria della conoscenza umana a partire dal problema della sua genesi originaria, che
lui ritrova specificatamente nell’esperienza: non possono esistere idee innate, e
l’argomento dei bambini e degli idioti sembra ben sostenere la sua tesi37. I dati sensibili
ci forniscono una quantità di informazioni sugli oggetti del mondo esterno che verranno
rielaborate dalle facoltà della nostra mente (da qui si capisce l’appello lockeano
36
M. MORI, Storia della filosofia moderna, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 112
Chi sostiene l’innatismo, fra questi anche Cartesio, ritiene che vi siano alcune verità non negoziabili
sulle quali qualsiasi individuo sarebbe stato d’accordo (basti pensare che il Discorso del 1637 si apre con
un’ “invocazione” al buon senso). Al contrario, gli avversari di questa posizione, fra cui Locke, vogliono
dimostrare che non è così: un bambino piccolo od un idiota non sarà in grado di superare il test della
verità proposto dagli innatisti. In un caso, l’individuo non è ancora sufficientemente maturo; nell’altro è
impossibilitato da alcuni deficit.
37
24
all’introspezione), la quale riconoscerà in esse qualità primarie e qualità secondarie; le
prime necessariamente inerenti al sostrato dell’oggetto, le seconde meramente
accidentali38. Successivamente, dichiara che l’aspetto trascendente della realtà è però
inconoscibile: la realtà trascendente esiste sicuramente ed è anche razionale, ma non la
si può assolutamente conoscere. Nemmeno il linguaggio della scienza può essere così
perspicuo da potersi permettere una conoscenza certa della sostanza trascendente, e tutto
si risolve nella contingenza, nella probabilità. Husserl spiega che:
La nostra scienza umana si fonda esclusivamente sulle nostre rappresentazioni e
sulle nostre formazioni concettuali, mediante le quali noi possiamo sì trarre
conclusioni riguardanti il trascendente, ma non possiamo, di principio, attingere
vere e proprie rappresentazioni delle cose-in-sé, rappresentazioni che ne esprimano
adeguatamente l’essenza39.
La valutazione finale sull’excursus in merito a Locke è, a mio parere, la seguente: egli si
pregiudica l’accesso alle cose stesse, carissimo alla fenomenologia husserliana. Le basi
per una filosofia soggettivistica ci sono, e degno di nota è anche il richiamo al rivolgere
l’attenzione sull’interiorità della nostra mente, ma la spinta iniziale di questo corpus
filosofico sembra esaurire la sua carica ammettendo di non riuscire a pervenire alla
conoscenza dell’intima verità dei fenomeni. Un altro empirista che Husserl giudica
imprescindibile per la costituzione della fenomenologia è Hume, alfiere di un
empirismo ancora più radicale di quello lockeano. Anch’egli non nasconde che la
formulazione di una teoria della conoscenza debba necessariamente partire
dall’esperienza sensibile, in modo tale da distruggere la metafisica dogmatica sulla
quale poggia il razionalismo. In più, l’empirismo humeano deve intendersi non solo
come una teoria della conoscenza sensibile, ma come una vera e propria teoria della
conoscenza della natura umana che abbia un carattere sistematico40: come ricorda anche
Husserl, «in Hume l’interesse teoretico prevale sull’interesse politico e pratico in
generale, ma il campo specifico dei suoi interessi scientifici è il mondo storico sociale
[…] l’uomo della vita multiforme e attiva nel mondo»41. La teoria della conoscenza che
38
La formulazione della teoria delle qualità primarie e secondarie è di Galileo che si richiama alla
dottrina della scuola atomistica.
39
E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee…, op. cit., p. 114
40
Per sistematico s’intende che l’empirismo di Hume si estende a tutti gli ambiti d’azione dell’uomo:
etico, politico e religioso, per citare alcuni esempi; non è limitato alla sola indagine gnoseologica in senso
stretto.
41
E. HUSSERL, Appendice XIV (al §28), in La crisi delle scienze europee…, op. cit., p. 470
25
ci consegna Hume, sostiene Husserl, si risolve in una serie di «finzioni»: egli differenzia
le percezioni sensibili in due grandi categorie, le «impressioni» e le «idee». Le prime si
generano nel momento in cui l’oggetto percepito è attuale, sono percezioni al massimo
grado, al massimo vigore ed alla massima evidenza; le seconde sono immagini
illanguidite che si conservano nella memoria quando l’impressione sensibile attuale è
svanita. Fra impressioni e idee vi è corrispondenza biunivoca, in quanto si tratta di
percezioni differenti dello stesso materiale empirico penetrate nella mente in due
momenti differenti: la fondatezza conoscitiva di un’idea, per Hume, la si ha solo quando
sia possibile risalire completamente alle impressioni che la determinano; se le
impressioni ne giustificano solo una parte, o non la giustificano proprio, allora
quell’idea non ha significato42. La gnoseologia humeana fa distinzione fra due modalità
conoscitive: le «relazioni fra idee» ed i «dati di fatto». Le prime sono delle verità a
priori, e sono – pertanto – sempre valide, non è possibile sostenerne il contrario43. Le
seconde sono conoscenze delle quali è sempre possibile affermare il contrario, in quanto
basate totalmente sui fatti. Come certificarne la correttezza? Hume stabilisce che sia il
«principio di causalità», che si preoccuperà di criticare a dovere sostituendogli il
«principio di abitudine»44. Sembra più chiaro ora il giudizio di Husserl: la conoscenza
42
M. MORI, Storia della filosofia moderna, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 172
Le seguenti proposizioni sono espressione di «relazioni di idee» secondo Hume:
«2+2=4»
«Il quadrato dell’ipotenusa è uguale alla somma del quadrato dei due cateti»
Sono relazioni di idee in quanto, la prima proposizione è completamente indipendente dall’esperienza,
infatti la nozione di 4 è già contenuta nella scrittura «2+2»; la seconda proposizione, invece, manterrebbe
comunque la sua validità anche ammesso che in natura non esistessero le figure geometriche menzionate.
Una proposizione che esprime un esempio di «dati di fatto» è la seguente:
«Domani sorgerà il sole»
In quanto il fatto che il sole debba necessariamente sorgere ogni giorno non è una necessità contenuta
all’interno dell’idea di sole.
43
44
La critica al principio di causa è uno dei temi salienti della filosofia di Hume, e sorge dalla necessità di
dover trovare una giustificazione necessaria alla connessione causale che dovrebbe certificare le
conoscenze del tipo dei «dati di fatto». La critica di Hume al principio di causa ha una struttura di questo
tipo: il senso comune vorrebbe che, se la palla A colpisce la palla B originariamente ferma, allora la palla
A è stata la causa del moto della B. Se però, dice Hume, ci atteniamo soltanto a ciò che ci consegna
l’esperienza, possiamo fare ben tre osservazioni: 1) che B si sposta solo dopo aver intrattenuto un
rapporto di contiguità spaziale con A; 2) che il movimento di B intrattiene un rapporto di successione
temporale con il movimento di A; 3) sinora c’è sempre stato un rapporto di connessione sistematica fra il
moto di A e il moto di B fra A e B. Tuttavia non possiamo desumere da questa sistematicità una legge di
carattere generale, poiché la nostra esperienza è finita: secondo Hume, per poter elaborare una legge
universale della causa, sarebbe necessario esperire in un tempo infinito tutti i casi analoghi, vedendo se si
mantiene o meno la sistematicità. In altre parole: se nel caso 1 si nota che vale questa legge di
26
di Hume è finzionale in quanto pare non attestare mai la possibilità di una vera e propria
certezza in merito al mondo esterno, del quale viene persino messo in dubbio che vi
valga il principio di la causalità. Scienza e filosofia sembrano dirigersi verso una deriva
che non lascia spazio a nessuna obiettività: uno dei baluardi più resistenti
dell’obiettivismo, ovvero la nozione di causa, è entrato in crisi in maniera irreversibile.
Husserl sostiene, in merito alla gnoseologia humeana, che:
Tutte le categorie dell’obiettività […] nel senso di Hume sono finzioni, come del
resto l’intiera matematica che si presume apodittica. L’origine di questa finzione
può essere spiegata benissimo psicologicamente […] a partire dalle leggi
immanenti delle associazioni e delle relazioni tra le idee. […] Si tratta di complessi
di dati e poi ancora di altri complessi di dati, per quanto regolati, «collegati» l’un
l’altro mediante l’associazione; è appunto questo collegamento che spiega la
possibilità dell’illusione di esperire un’identità45.
E, dopo una tale considerazione, non gli viene sicuramente difficile pensare
all’empirismo humeano come a una filosofia che inaugura una «bancarotta
dell’obiettivismo»46. Con questo termine Husserl intende chiarire che – in uno scenario
filosofico come quello tratteggiato da Hume – non esiste nessuno spazio per poter far
nascere un qualche tipo di razionalismo. Ogni complesso di conoscenza è stato
relativizzato al soggetto, né la fisica né la matematica possono intervenire per fornire
un’assicurazione sulla validità della conoscenza empirica; possiamo essere sempre
vittime di inganni qualora ci affacciamo alla conoscenza del mondo sensibile poiché
non esiste una legge certa della concatenazione dei fenomeni. In questa prospettiva,
Hume stacca pesantemente, separandoli, la natura e l’uomo, impedendo che fra di essi
vi possa sussistere un qualche tipo di interazione razionale; tant’è vero che la
valutazione complessiva di Husserl su questo metodo filosofico è di «irrazionalismo» e
di «solipsismo»: un soggetto di conoscenza completamente disgiunto dagli altri soggetti
e dalla natura si sforza di conoscere quest’ultima, dovendo ammettere l’impossibilità
reale di questo compito e potendo solo concedersi alla possibilità finzionale. E il
filosofo moravo non manca di segnalare che «per quanto sorprendente sia il genio di
conseguenza logica: «
», non è possibile, per Hume, generalizzare al caso n tale
conseguenza, per cui risulta impossibile formulare una legge scientifica universale del tipo:
45
46
E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee…, op. cit., p. 115
Ibidem, p. 115
27
Hume, tanto più deplorevole è il fatto che ad esso non vada accoppiato un ethos
filosofico
corrispondente»47.
L’atteggiamento
super-empiristico
di
Hume
ha
indubbiamente contribuito a porre le basi per lo sviluppo del successivo pensiero
fenomenologico; tuttavia esso è obbligato a dover fare i conti con i problemi che
derivano dalla distruzione dell’obiettivismo: in altre parole, se diviene impossibile
conoscere in maniera certa e sicura la realtà esterna e se la conoscenza viene ridotta a
immagini mentali prive di un principio causale con il mondo effettivamente esistente,
allora l’intero edificio della scienza viene a crollare; con esso cadono anche l’intera
gnoseologia e la speculazione filosofica in merito alla validità e alla correttezza di ciò
che si conosce. Per questo motivo la valutazione di Husserl sull’empirismo humeano è
così dura che pare non lasciare spazio a repliche.
1.2.2
La filosofia trascendentale di Kant
La filosofia di Hume, con il suo carattere radicale, giunge a posizioni molto
vicine allo scetticismo forte. Husserl non manca di esprimere la propria preoccupazione
per l’effetto che una posizione simile ha sul complesso delle scienze esatte, che in quel
periodo si trovano in piena e rapida espansione, annotando che «la loro evidenza e la
loro chiarezza» rischiavano di trasformarsi «in un controsenso incomprensibile»48. La
nostra conoscenza dovrebbe basarsi esclusivamente su immagini slegate le une dalle
altre, le quali svolgono la funzione di essere i tasselli fondamentali per la costruzione
della conoscenza; anche se non possono essere informative più di un granché. Per
Husserl, il fondare la conoscenza del mondo (inteso anche come mondo-vita-azione)49
su una catena di immagini-tipo che non hanno valore essenziale ma solo apparente, in
quanto non possono essere informative a livello certo sulla fetta di realtà cui si
riferiscono, significa voler evitare di raccogliere la dimensione ultima di senso della
realtà che ci circonda. In altre parole, non è possibile cogliere l’essenza dei fenomeni a
partire da una serie di immagini finte ed adattate alle circostanze: questo atteggiamento,
forse esagerando un po’, non permetterebbe la costituzione del metodo fenomenologico.
47
Ibidem, p. 116
Ibidem, p. 117
49
Mondo inteso non solamente come realtà naturale-scientifica ma anche come insieme degli atti
performativi dei singoli individui.
48
28
Per questa ragione Immanuel Kant, nella tarda modernità, avverte l’esigenza di
oltrepassare l’empirismo forte di Hume per introdurre una funzione cognitiva
fondamentale per ridare smalto alla conoscenza, che è la «sintesi», ovvero la
conciliazione fra due istanze – l’istanza sensibile e quella razionale – con l’obiettivo di
ricomporre la frattura gnoseologica che, aperta da Cartesio e espansasi con l’empirismo
inglese, non aveva ancora permesso la costituzione di una teoria della conoscenza
soggettivistica e, allo stesso tempo, la più obiettiva possibile. Seguendo lo schema
introduttivo tradizionale alla riflessione gnoseologica kantiana (seguito peraltro anche
dallo stesso Husserl nella Crisi), si comincerà esaminando quell’espressione ormai
famosa, quella per cui Kant sostiene di essersi risvegliato dal «sonno dogmatico» della
ragione50 grazie al pensiero di Hume. In effetti, al di là delle diatribe storiche su questa
affermazione, è indiscutibile che il pensiero del filosofo scozzese abbia contribuito, in
particolar modo attraverso la critica alla nozione di causalità, a far comprendere a Kant
la limitatezza di un paradigma metafisico-dogmatico rispetto alla conoscenza.
L’insufficienza del puro dogmatismo per la conoscenza è un tema ricorrente in Kant,
che non si trova esplicitato solo nella famosa Prefazione alla Critica della Ragion Pura,
ma che è già presente nell’opera del 1765 dedicata ad Emanuel von Swendeborg51.
Insomma, Kant avverte la necessità di fondare una gnoseologia che travalichi una volta
per tutte le insensatezze e i principi della metafisica che, lungi dall’essere aderente ai
dati di fatto esperibili attraverso la sensibilità, non può nemmeno qualificarsi come una
scienza. Infatti, lo stesso Husserl chiarisce che:
La «rivoluzione teoretica» motivata dall’impulso di Hume non è diretta contro
l’empirismo, bensì contro la mentalità teoretica del razionalismo post-cartesiano, il
cui grande punto d’arrivo è costituito da Leibniz e che aveva trovato la sua forma
50
Nella prefazione ai Prolegomena zu einer jeden kunftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird
auftreten konnen – in italiano Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza
del 1783, «Lo confesso francamente» dichiara Kant «che l’ammonimento di David Hume fu ciò che,
molti anni fa, per primo mi svegliò dal sonno dogmatico». Oggi si dubita della validità storica di questa
affermazione, nel senso che il responsabile della costituzione della gnoseologia kantiana così com’è
presentata nella Critica della Ragion Pura non sarebbe stato il solo Hume; sarebbe invece intervenuta una
serie più complessa di fattori a determinare questa svolta nel pensatore di Königsberg.
51
In quest’opera Kant conduce una polemica contro lo svedese E. von Swendeborg, fautore di un
programma spiritistico che ammetteva la possibilità di certificare l’esistenza delle entità spirituali
attraverso l’uso dei sensi. Kant chiarisce che questo programma di ricerca è falso, in quanto gli spiriti
cadono al di là delle possibilità della nostra sensibilità; ciò che possiamo conoscere coincide con i limiti
stessi della nostra sensibilità. In un certo senso, questo testo si può considerare come una dichiarazione
d’intenti della successiva Critica della Ragion Pura.
29
sistematicamente scolastica, la sua forma più attiva e convincente in Christian
Wolff52.
In effetti sin dagli esordi del suo filosofare Kant si schiera decisamente contro il
pensiero di Wolff, il quale pretendeva di riportare in piena azione il metodo sillogistico
di Aristotele fondando su di esso l’intero edificio della metafisica e della logica;
dimenticandosi completamente dell’esperienza sensibile. Se la filosofia, con la
metafisica e la gnoseologia, si occupa anche di ciò che esiste – come l’ontologia, che è
una diramazione della metafisica – e non solo delle possibilità logiche dell’esistenza
degli oggetti, allora occorre per forza fare riferimento all’esperienza, tanto più se per
Kant l’esistenza di un oggetto x è un dato assoluto, «qualcosa che non è costruibile con
il pensiero, ma dev’essere dato per via extralogica»53. La via attraverso la quale Kant
vuole guidare la gnoseologia è un percorso piuttosto originale, che vede la “fusione”
della prospettiva leibniziana-wolffiana del razionalismo con l’empirismo radicale di
Hume. Un percorso che, allo stesso Kant e ai neokantiani, appare di una validità
praticamente ovvia, ma che è denso di problemi; sollevati soprattutto da Hegel e
dall’idealismo. In breve, la conoscenza è affidata in primo luogo alla percezione
sensibile in quanto unica connessione con il mondo esterno e certificatrice dell’esistenza
dello stesso. Tuttavia, e qui sta il cuore della «rivoluzione copernicana» che questo
filosofo dice di aver introdotto in metafisica, i dati raccolti dagli organi di senso
vengono elaborati e categorizzati dalle progettazioni cognitive di cui sono
universalmente dotate le nostre menti. Viene operata una «sintesi» fra i dati
dell’esperienza sensibile, disordinati e slegati fra di loro e le «forme a-priori» di cui
sono dotati i nostri apparati cognitivi. Tali forme, che non sono altro che costruzioni
cognitive psichiche, organizzano i dati e ne gestiscono i flussi in modo schematico al
fine di produrre i concetti che costituiscono la conoscenza, definiti «concetti
trascendentali»54. In questo modo, secondo Kant, è possibile ottemperare al compito di
dover fondare una teoria della conoscenza obiettiva che, al tempo stesso, non trascuri la
soggettività dell’esperienza sensibile. La fondazione gnoseologica kantiana viene
definita «trascendentale» proprio in quanto la validità e l’universalità della conoscenza
E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee…, op. cit., p. 119
M. MORI, Storia della filosofia moderna, op. cit., p. 225
54
I concetti trascendentali si formano dopo l’intervento delle operazioni dell’intelletto, la seconda sintesi
a priori. Essi verranno organizzati, attraverso la funzione unificatrice dell’io penso, che presiede alla fase
del cosiddetto schematismo trascendentale, in schemi sempre più complessi di conoscenza.
52
53
30
viene demandata alle progettazioni cognitive psichiche, le quali sono – per l’appunto –
trascendentali, ovvero costituite a-priori e in modo identico nella mente di ciascun
individuo. E infatti anche Husserl riconosce il fondazionismo trascendentale della
conoscenza kantiana, affermando che:
Naturalmente diciamo «scientifica» la filosofia trascendentale kantiana perché essa
avanza la pretesa di poter assumere una responsabilità estrema rispetto alle sue
constatazioni e insieme la pretesa a una validità incondizionata per qualsiasi
essere razionalmente pensante […]55.
Questo metodo conoscitivo dà un’assicurazione obiettiva a tutto ciò che è possibile
esperire attraverso i sensi, in quanto è compito delle funzioni cognitive trascendentali
(identiche in ogni psiche) formare concetti di conoscenza che abbiano i dati
dell’esperienza sensibile come oggetto. Quindi, per quanto riguarda i «fenomeni»56, la
conoscenza è attestata su un livello sia empirico che razionale, e Kant limita all’aspetto
fenomenico delle cose del mondo la sfera di conoscenza: se l’esperienza sensibile
occorre per fornire ex post il materiale conoscitivo, le funzioni che presiedono
all’organizzazione di tale materiale sono invece, come si è anticipato, trascendentali e
pre-determinate in modo identico per ciascun soggetto. Kant si impegna a mostrare, e
questo sin dalla Dissertazione del ’ι0, che le forme a-priori dell’esperienza sensibile
sono il tempo e lo spazio. Queste sono delle vere e proprie «intuizioni pure», cioè le
costituenti trascendentali di qualsiasi tipo di esperienza mediata dai sensi. Ogni dato
sensibile è per forza di cose interpretato e categorizzato dalle intuizioni pure di spazio e
tempo. Siccome tutto ciò che è nel novero dell’esperienza sensibile viene sottoposto ad
un processo di spazializzazione e di temporalizzazione, «gli oggetti sono conosciuti non
come sono in sé, ma soltanto come appaiono, ovvero come fenomeni»57. Si era già detto
che i limiti della conoscenza umana, per Kant, coincidono con i limiti della percezione
sensibile (cfr. nota 51): a sostegno di questa ipotesi, il filosofo chiarisce che le sostanze
permanenti, ovvero i costituenti più intimi dei fenomeni che appaiono ai sensi, i
55
E. HUSSERL, Appendice XV (al §28), in La crisi delle scienze europee…, op. cit. pp. 474-475, corsivo
mio
56
Sussiste una distinzione piuttosto netta, in tedesco, fra il termine «Phänomenon» ed il termine
«Erscheinung» che è bene richiamare qui. L’ultimo termine, spesso reso in italiano con il generico
«fenomeno», indica più propriamente un’apparizione chi si dà ai sensi in modo superficiale; senza che
essi si sentano “obbligati” ad indagarne la sua costituzione intima. Il termine «Phänomenon» rimanda
invece ad un qualche cosa che si impone ai nostri sensi, che si staglia di fronte ai nostri occhi e ci chiede
di sospendere il nostro bagaglio di credenze pregresse per riuscire a coglierlo nella sua intimità veritativa.
57
M. MORI, Storia della filosofia moderna, op. cit., p. 231
31
cosiddetti «noumeni», sono invece del tutto inconoscibili ed insondabili da una ragione
umana. In altre parole, l’uomo ha accesso solo all’apparenza dei fenomeni, ma non alla
loro costituzione essenziale. La «cosa in sé» è irraggiungibile per le facoltà conoscitive
umane in quanto occorrerebbe all’uomo la terza sintesi a-priori, quella della ragione,
che permette di cogliere le totalità e le universalità; che è prerogativa esclusiva di Dio.
Questo aspetto della filosofia di Kant, come vedremo nel prossimo paragrafo, verrà
messo completamente in crisi da Husserl; il quale – abolendo la distinzione kantiana fra
i fenomeni e i noumeni – sarà in grado di formulare l’adagio sul quale si costituisce
l’anima della fenomenologia, ovvero «alle cose stesse!». Per cui, la filosofia kantiana
rimane indubbiamente una pietra miliare nel percorso di costruzione del pensiero però,
allo stesso tempo, si rivela anch’essa insufficiente agli scopi husserliani: essa sottopone
a critica il sapere consolidato e la metafisica stessa che lo sorreggeva ma, creando un
supersoggetto di conoscenza, un soggetto trascendentale (o epistemico) che coglie la
realtà oggettuale del mondo attraverso il lavoro delle forme a-priori universalmente
preposte, perde completamente di vista la possibilità di un accesso ai fenomeni nella
loro costituzione ontologica più profonda (alla loro verità), limitandosi alla conoscenza
della loro apparizione come meri dati spaziali e temporali. Per questa ragione, forse con
un filo di preoccupazione, Husserl annota che:
Quanto maggiore è storicamente, per lo sviluppo della filosofia, il significato del
fatto che l’enorme energia della critica kantiana della ragione aveva interrotto il
sonno dogmatico del razionalismo […]; tanto è maggiore il significato della
penosa scoperta che ora esso, il senso d’essere del mondo quotidiano come del
mondo che pretende di essere il mondo della vera realtà scientifica, è diventato un
enigma, completamente incomprensibile58.
E può ben apparirgli penosa come scoperta, alla luce delle teorie fenomenologiche che
verranno presentate nel prossimo paragrafo. Husserl muove anche una critica alle basi
sulle quali poggia la stessa filosofia kantiana che, a suo dire, non sono state indagate ed
approfondite a sufficienza59, tant’è vero che giudica l’opera come «fatta di grandiose ma
confuse intuizioni delle verità più profonde»60. L’occasione per rideterminare il
panorama gnoseologico che Kant ha fratturato introducendo la scissione fra fenomeni e
58
59
E. HUSSERL, Appendice XV (al §28), in La crisi delle scienze europee…, op. cit., p. 479, corsivo mio
Si vedano in merito le pagine dedicate della Crisi delle scienze europee.
60
E. HUSSERL, Fenomenologia…, op. cit., p. 111
32
noumeni sarà in un testo del 1913, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia
fenomenologica, opera dedicata (almeno il I volume) all’esposizione della
fenomenologia e del metodo della «riduzione fenomenologica» quale approccio
sistematico ai fenomeni colti nella loro obiettività trascendentale (in quanto si danno
sempre ad una coscienza pura). Si avrà modo di familiarizzare con questi termini e con
questi concetti nelle pagine a seguire; interamente dedicate all’esposizione del nuovo
metodo gnoseologico di Husserl.
1.3 La conoscenza delle «cose stesse». Considerazioni attorno al
metodo fenomenologico
1.3.1
La gnoseologia nel secondo Ottocento e la posizione di Franz Brentano
A causa di ragioni di spazio e di finalità dello scritto, non è stato possibile
seguire dettagliatamente l’evolversi della problematica filosofica della conoscenza.
Tuttavia, questo problema continua ad imporsi con forza e decisione anche nelle epoche
successive a Kant, che vedono, da un lato, un forte interesse a riproporre lo schema
conoscitivo avanzato dal filosofo di Königsberg (si tratta dei cosiddetti «neokantiani»);
mentre dall’altro la progressiva tensione a liberarsi da queste costruzioni teoriche per
ridare slancio ad un soggetto non più «epistemico», ma calato nella realtà del tempo
storico (si tratta, in linea di massima, del programma dell’«idealismo»). Nell’Ottocento,
in particolare nella sua seconda metà, nasce una modalità nuova di affrontare questo
problema, basata interamente sul «chiedersi quali siano i meccanismi e i processi
psicologici attraverso i quali si formano le idee e le associazioni tra idee»61. Questa
posizione porta il nome di «psicologismo», e ritiene che sia possibile risolvere per via
sperimentale questo problema semplicemente studiando la fisiologia delle percezioni,
elementi chiave per la costituzione delle idee e, quindi, dell’apprendimento. All’interno
dei dibattiti psicologistici – che verranno duramente avversati dai logici62 – trova spazio
61
G. CAMBIANO, M. MORI, Storia della filosofia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2014, p. 276
La polemica antipsicologista, come vedremo, ha il suo epigono nel logico tedesco F.L.G. Frege (18481925).
62
33
una posizione sui generis, che è quella dello psicologo e filosofo tedesco Franz
Brentano, il maestro “filosofo” di Husserl63, espressa nella sua opera maggiore del
1874, Psicologia dal punto di vista empirico64. Egli ritiene indebite le analisi
psicologistiche perché studiano i fenomeni psichici in modo mediato o immediato
rispetto ai fenomeni fisici che essi producono. La psicologia sperimentale pretende di
costruire una teoria della visione a partire dagli effetti degli stimoli luminosi sugli
apparati visivi dei volontari, o una teoria dell’udito a partire dai comportamenti
innescati nei volontari a seguito di alcune stimolazioni sonore. Brentano considera
invece la psicologia come una vera e propria scienza dei fenomeni psichici, che coglie
in modo diretto e senza mediazione i suoi oggetti: l’asserto di base dal quale muove la
riflessione di questo autore è che i fenomeni psichici sono radicalmente differenti da
quelli fisici e, pertanto, volerli cogliere così come si coglierebbero i fenomeni fisici
significherebbe rovinarli nella loro essenza di fenomeni psichici. Nell’opera citata
Brentano caratterizza questi ultimi come «atti con i quali la mente è in relazione a un
oggetto»65: la caratteristica peculiare degli atti di coscienza, per Brentano, è la loro
«intenzionalità». Su questo concetto è bene soffermarsi un poco in quanto si tratta di un
punto cruciale della successiva riflessione di Husserl, il quale in parte modificherà
questa nozione. Questo termine fa parte del bagaglio filosofico scolastico 66, e indica il
riferimento di un concetto a qualcosa che è altro da sé. Brentano ne fa uso in
un’accezione particolare, sostenendo che i fenomeni psichici si riferiscono sempre per
forza di cose ad oggetti esterni: si dice che la coscienza è sempre coscienza di qualcosa,
in quanto possiede un correlato oggettivo ben definito. A tal proposito diciamo che:
Il desiderio
rimanda al desiderato
63
In quanto lo studio rigoroso della matematica avvenne a Berlino sotto la guida di C. Weierstrass,
riconosciuto da Husserl come «il suo grande maestro» nell’opera Filosofia dell’aritmetica.
64
In tedesco Psychologie vom empirischen Standpunkt (Lipsia 1874), è l’opera filosofica più importante
di Brentano che ha ispirato la successiva riflessione di Husserl e anche di buona parte della filosofia
analitica novecentesca.
65
G. CAMBIANO, M. MORI, Storia della filosofia contemporanea, op. cit., p. 277
Il primo filosofo a parlare di «intenzionalità» fu l’arabo Avicenna (980-1037), che impiegò questo
termine per rendere conto del rapporto conoscitivo fra una coscienza e un oggetto. Egli, in breve, sostiene
che le scienze – che si occupano della conoscenza degli oggetti – sono riconducibili alle intentiones primo
intellectae, ovvero alle «prime intenzioni»; la logica invece, che si occupa dei processi psichici cognitivi
in se stessi, è riconducibile alle «seconde intenzioni», ossia alle intentiones secundo intellectae. La
tradizione dell’intenzionalità medievale procede con Alberto Magno e San Tommaso d’Aquino, per citare
due grandi figure di tale periodo del pensiero filosofico.
66
34
Il pensiero
Il bello
rimanda al pensato
rimanda alla bellezza
E chiamiamo il desiderato il «correlato» del desiderio, il pensato il correlato del
pensiero e la bellezza il correlato del bello. Come classificare gli atti psichici? Il più
semplice è quello che viene definito come «rappresentazione», che consiste nel
“guardare” un oggetto con gli occhi della mente. Da qui scaturiscono due atti psichici
più complessi che sono quelli del «giudizio» e del «sentimento»: con il giudizio si
costruiscono affermazioni o negazioni dell’oggetto, con il sentimento si afferma l’odio
o l’amore per lo stesso. Il concetto dell’intenzionalità di Brentano presenta anche degli
interessanti risvolti nel campo dell’ontologia in quanto l’autore ritiene che l’oggetto dei
giudizi non sia dissimile dall’oggetto delle rappresentazioni, pertanto un giudizio
semplice come:
«Alcuni ragazzi sono allegri»
Può venire ricondotto al giudizio complesso di carattere esistenziale come:
«Esistono ragazzi allegri»
A causa di questa riconducibilità fra giudizi, dovuta al fatto che gli oggetti di giudizi e
rappresentazioni non sono diversi, si ha che, ciò che differenzia un atto psichico di
giudizio da un altro, è solo ed esclusivamente l’oggetto; in altre parole è il correlato di
tali atti psichici a determinare il contenuto degli atti psichici stessi67. Sarà Alexius von
Meinong, professore a Graz e ricercatore nello stesso ambito di Brentano, a raffinare
ulteriormente la teoria dei giudizi e dei correlati oggettuali di quest’ultimo attraverso la
sua «teoria degli oggetti»68, che non c’è modo di poter trattare diffusamente in queste
67
Il contenuto intenzionale degli atti di coscienza (il loro significato), è determinato solo ed
esclusivamente dai correlati oggettuali ai quali essi rimandano.
68
Meinong distingue fra «contenuto» e «oggetto» di un atto psichico in quanto, spesso, l’oggetto non può
entrare a far parte della mente poiché è un’entità fisica e non psichica. Inoltre, non è sempre detto che
l’oggetto correlato di un atto psichico debba per forza essere un qualcosa che esiste: con la mente
possiamo raffigurarci anche fate, unicorni, triangoli quadrati e fantasticherie del genere. Per cui, se
pensiamo a qualcosa che non esiste lo possiamo certo pensare, ma esso non sarà esattamente il correlato
dell’atto psichico del pensare (in quanto non esiste). Allo scopo di difendere questa prospettiva, Meinong
è costretto a introdurre quattro categorie di giudizio e creare una teoria del significato basata su esse,
anche al fine di garantire una minimale obiettività della conoscenza: il vero (V), il falso (F), il necessario
(□ denominato anche box) e il possibile (◊ denominato anche diamond). Se, ad esempio, ci si chiede quale
sia il significato della seguente proposizione:
35
pagine, ma solo accennare brevemente in nota (cfr. nota 64). È ora tempo, invece, di
discutere gli sviluppi del pensiero di Edmund Husserl alla luce della teoria brentaniana
dell’intenzionalità appena esposta.
1.3.2 La costruzione della fenomenologia husserliana
L’aver messo a tema il pensiero di autori così tanto distanti da Husserl a livello
cronologico è occorso come espediente per preparare il terreno alla trattazione della sua
fenomenologia. Inoltre, l’aver presentato Cartesio, gli empiristi e Kant rimanendo fedeli
alle interpretazioni del loro pensiero fornite da Husserl ha contribuito, mi auguro, a
mettere ulteriormente in luce quanto della loro filosofia sarà da tener buono per la
costruzione del metodo fenomenologico e quanto, al contrario, dovrà essere modificato,
stralciato o corretto. Occorre introdurre la fenomenologia chiarendo immediatamente
che cosa sia e che obiettivo si ponga, e lo si farà nuovamente attraverso la viva voce
dell’autore, che potremo ascoltare da una delle sue opere più importanti in merito, le
Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (1913). Iniziamo
con il chiarire che cosa sia: il nome stesso, «fenomenologia», rimanda all’idea che essa
si possa qualificare come una vaga «scienza dei fenomeni», come potrebbero esserlo
state tante altre filosofie del passato. In realtà l’intento di Husserl nei confronti di questo
nuovo modo del filosofare è radicalmente diverso rispetto a questo significato
superficiale. Eccone, a proposito, una buona definizione:
La fenomenologia pura è quella disciplina che studia le determinazioni essenziali
dei vissuti di coscienza sottostanti agli asserti logici in cui prendono forma le
conoscenze acquisite per esperienza o per ragionamento69.
«Non esiste una montagna d’oro» (A)
Tenendo presente che il significato è, in Meinong, ciò su cui la proposizione verte, allora non è difficile
dire che «è necessario che il significato di (A) è che essa verte su una montagna d’oro». Così sembrerebbe
salvata l’obiettività del conoscere (perché appare incontestabile che il significato di (A) sia
necessariamente il suo «vertere su una montagna d’oro», anche se una montagna d’oro non esiste ma può
solo essere pensata), costruendo, però, un mondo in cui vi siano entità vere e false mescolate a entità
necessarie e possibili. In altre parole, un mondo abbastanza difficile da immaginare!
69
P. VOLONTÉ, La fenomenologia tra psicologia e critica della ragione, saggio introduttivo a E.
HUSSERL, Fenomenologia e teoria della conoscenza, op. cit., p. 9
36
Occorre ancora familiarizzare con il lessico tecnico husserliano ma, nel prosieguo dello
scritto, si avrà modo di comprenderlo a sufficienza. Per ora possiamo limitarci a
considerare la fenomenologia come un vero e proprio metodo, regolamentato da una
rigida disciplina, che ci permette – se correttamente applicato – di pervenire ad una
«conoscenza assoluta sulla base di un fondamento certo»70. In effetti, questo è proprio
l’obiettivo di Husserl, che dovrebbe essere trasparso nel corso della trattazione dei due
paragrafi precedenti: gli autori analizzati più sopra e discussi dallo stesso Husserl in
alcuni suoi volumi hanno contribuito senza dubbio a indirizzare la ricerca filosofica
verso l’obiettivismo ma, a vario titolo, sono risultati insufficienti: chi non ha indagato a
fondo la soggettività, chi ha sottratto alla conoscenza un giudizio universale sul mondo
e chi ha prodotto un percorso gnoseologico ben formato ma si è precluso la possibilità
di giungere al cuore dei fenomeni. Per questo motivo la nuova metodologia inaugurata
da questo pensatore porta il nome di «fenomenologia»: perché essa non vuole solo
essere una scienza dei fenomeni, ma una scienza dell’inseità dei fenomeni, della loro
costituzione come eventi che si danno di continuo ad una coscienza pura, cioè libera da
concetti teorici pregressi, pro-tesa verso di loro. L’appello tipico di Husserl è: «alle cose
stesse!», e questo programma racchiude in sé le linee di massima sulle quali si
costruisce la fenomenologia. Puntare alle cose stesse significa ribaltare il programma
gnoseologico kantiano che dichiara la propria arrendevolezza nei confronti della
conoscenza della cosa in sé, del noumeno. È necessario specificare, pertanto, che il
«fenomeno» di cui si occupa Husserl nei suoi scritti è ben differente da quello kantiano:
per il filosofo di Königsberg, dal momento che il processo della conoscenza era
completamente costruito attorno all’intuizione sensibile, esso diventava il semplice
apparire di un oggetto ai sensi, non era altro che un oggetto di fronte ad un soggetto, e
niente di più; per il filosofo moravo, invece, il fenomeno non è la semplice apparizione
di un oggetto nel mondo, ma è la manifestazione evidente dell’essere di un oggetto a
una coscienza pura. Husserl parla di «fenomeni in carne ed ossa» proprio per
sottolineare una volta di più che il fenomeno non è una rappresentazione psichica
prodotta da forme cognitive trascendentali di un qualcosa di reale, ma è invece l’essenza
del dato reale che si impone alla nostra attenzione, alla nostra coscienza vuota di
pregiudizi e di ostacoli che ne precluderebbero la piena comprensione. Puntare alle cose
70
G. CAMBIANO, M. MORI, Storia della filosofia contemporanea, op. cit. p. 281
37
stesse vuol dire, inoltre, garantirsi un accesso alla costituzione veritativa di ciò che, in
quanto fenomeno, accade nel mondo attraverso una via critica e non immediata. Ancora:
fare fenomenologia equivale a costruire sul serio un sapere obiettivo e rigoroso che, allo
stesso tempo, è «indipendente dalle condizioni contingenti in cui il singolo soggetto lo
apprende»71; vale a dire che il sapere fenomenologico è sì costruito dal soggetto ma,
allo stesso tempo, gode di una propria oggettività che deve solo essere colta dal soggetto
e non giudicata a-priori senza prima aver ridotto il fenomeno in questione a vissuto di
coscienza, cioè a parte integrante della propria esperienza vissuta (Erlebnisse), che è il
bagaglio complessivo delle nostre conoscenze acquisite. È bene segnalare che la
fenomenologia, ossia questo nuovo metodo gnoseologico, è pensata da Husserl come
strutturata in due parti fondamentali: una prima parte detta «fenomenologia pura», che
si occupa di descrivere le esperienze vissute e di “unificarle” a livello di senso nella
sfera della coscienza e una seconda, detta «filosofia fenomenologica», che funziona
come una teoria della conoscenza, stabilendo le condizioni di verità della conoscenza in
generale. Da dove partire per descrivere il cammino di costituzione della
fenomenologia? Seguendo Husserl, occorre cominciare da quello che lui denomina
l’«atteggiamento naturale», legato al fatto che è innegabile che «la conoscenza naturale
sorge con l’esperienza e permane nell’esperienza»72. In particolare, l’«atteggiamento
naturale» fa proprio riferimento al fatto che la costruzione di conoscenza per via
esperienziale è il modo tipico attraverso il quale l’uomo è-nel-mondo: durante la sua
vita quotidiana l’uomo non può fare altro se non fare continua esperienza di qualcosa.
Sebbene questo sia, come abbiamo detto, il modo privilegiato di conoscere dell’uomo
che è-nel-mondo, la conoscenza obiettiva non può assolutamente fondarsi
sull’atteggiamento naturale: esso concepisce la realtà come un insieme di «ovvietà»,
dati di fatto che vanno considerati così come si esperiscono, senza una possibilità di un
sondaggio ulteriore; mentre per Husserl è di primaria importanza, come si accennava
prima, l’assunzione di un atteggiamento critico. Questo coincide con il fatto che ogni
elemento del mondo naturale che «mi è alla mano»73 (Vorhandenheit) non debba essere
dato per scontato, ma è necessario che l’individuo conoscente liberi la propria coscienza
dalle dottrine delle scienze, dai pregiudizi pregressi e dai condizionamenti generici per
71
P. VOLONTÉ, La fenomenologia tra psicologia e critica della ragione, op. cit. p. 13
E. HUSSERL, Idee I, op. cit., p. 13
73
Ibidem, p. 63
72
38
dedicarsi a cogliere il fenomeno nella sua datità, ovvero nella sua oggettività, così come
esso si dà. Questa modalità di comprendere i fenomeni ci è permessa da quella pratica,
che Husserl recupera dallo scetticismo greco, che porta il nome di «epoché». Questo
termine significa «sospensione del giudizio», e sta a significare il dovere di «mettere fra
parentesi» le credenze pregresse per conseguire l’opportunità di addentrarsi nell’in-sé
del fenomeno. In altre parole, l’epoché coincide con la sospensione dell’atteggiamento
naturale:
Noi mettiamo fuori gioco la tesi generale inerente all’essenza dell’atteggiamento
naturale, mettiamo tra parentesi quanto essa abbraccia sotto l’aspetto ontico:
dunque l’intero mondo naturale, che è costantemente «qui per noi», «alla mano», e
che continuerà a permanere come «realtà» per la coscienza, anche se noi decidiamo
di metterlo tra parentesi74.
Il passo tratto dal § 32 di Idee I è sufficientemente chiaro: Husserl ritiene che il primo
bisogno di un fenomenologo sia applicare l’epoché, in modo tale da:
Mettere quindi fuori circuito tutte le scienze che si riferiscono al mondo naturale e,
per quanto mi sembrino solide, per quanto le ammiri, per quanto poco io pensi a
obiettare alcunché, non faccio assolutamente nessun uso di ciò che esse
considerano come valido |. Non mi approprio di nemmeno una delle loro
proposizioni, anche se sono perfettamente evidenti, non ne assumo nessuna e da
nessuna di esse ricavo alcun fondamento […]75.
Potrebbe sembrare che l’epochizzare la realtà possa significare un voler distruggere
l’edificio della conoscenza, provocando la sparizione degli usuali “appigli” attraverso i
quali è possibile orientarsi nel mondo. È una reazione legittima sulle prime, ma che
necessita sicuramente di essere chiarita, soprattutto perché non è questo l’intento della
filosofia di Husserl: mettere da parte i giudizi pregressi delle scienze e le nostre
credenze in merito ai fenomeni ci consente di aprirci una possibilità nuova per
osservarli nel loro valore veritativo più intimo. In effetti, non sappiamo nulla circa la
realtà così come è: «non provato, ma anche non contestato, esso [il mondo come appare
nell’atteggiamento naturale] va messo tra parentesi»76. In modo rigoroso dobbiamo dire
74
Ibidem, p. 71
Ibidem, p. 72
76
Ibidem, p. 73
75
39
che l’appercezione77 naturale – ovvero la conoscenza sensibile ingenua che deriva
dall’atteggiamento naturale – non può fare altro se non attribuire ad un oggetto un senso
naturale, viziato dagli stili di pensiero posseduti dal soggetto; mentre l’appercezione
fenomenologica consente di sospendere il giudizio conoscitivo (soprattutto quello in
merito all’esistenza) e di considerare il fenomeno in quanto fenomeno, cioè come una
manifestazione di un oggetto nel mondo naturale. Avendo discusso delle basi della
fenomenologia, che fonda la propria costituzione sull’epoché, occorre discutere ora del
procedimento attraverso il quale si porta a compimento lo stile gnoseologico della
fenomenologia stessa, che porta il nome di «riduzione fenomenologica». Prima di
addentrarci nell’esame dello stile della riduzione husserliana occorre introdurre il tema
dell’intenzionalità. Già più sopra si è presentata tale nozione in relazione al pensiero del
“maestro filosofico” di Husserl, Franz Brentano, ora è necessario riprenderla per vedere
come essa viene declinata nel pensiero del filosofo moravo. Possiamo senza dubbio
affermare che l’intenzionalità di Husserl è, a tutti gli effetti, un atto, ovvero un
atteggiamento, di tipo psichico. Essa corrisponde ad un’azione ben circoscritta che è
compiuta dalla nostra psiche: è un movimento costitutivo della nostra natura psichica di
soggetti conoscenti. L’intenzionalità direziona l’io psichico verso un fenomeno del
mondo naturale, permettendo, come vedremo fra poco, l’inizio del processo della
riduzione fenomenologica; in quanto l’oggetto naturale diventa, per la coscienza
intenzionata verso di esso, un correlato del mondo esterno. Una volta che
l’intenzionalità ha permesso alla coscienza di raggiungere il fenomeno, serve analizzare
il rapporto che intercorre fra l’oggetto stesso e la coscienza pura, ossia non macchiata
dai pregiudizi e dalle credenze; questo è ciò di cui si occupa la riduzione
fenomenologica. Abbiamo già compreso come l’appercezione naturale di un oggetto sia
poco adeguata al fenomenologo: oltre ad essere affetta da condizionamenti di ogni sorta,
pretende ingenuamente di assumere a tutti i costi l’esistenza di ciò che si percepisce,
escludendo persino qualsiasi ragionamento in merito all’essenza degli oggetti. Ogni
elemento della realtà che ci appare tramite i sensi, dichiara Husserl, è affetto da una
sorta di «adombramento»: vi è intorno una serie di informazioni inaccessibili in prima
istanza che vanno necessariamente indagate, pena il ricadere nell’ingenuità
In Husserl il termine «appercezione» rimanda all’atto di attribuire ad un oggetto conosciuto un senso
rispetto all’ordine naturale del mondo. I significati, tuttavia, potrebbero variare a seconda delle opere e
dei contesti nei quali viene impiegato.
77
40
dell’atteggiamento naturale. I dati empirici non sono mai autoevidenti, rientrano sempre
all’interno di proposizioni sintetiche: ciò che si percepisce viene chiamato da Husserl
«evidenza inadeguata»78, per sottolineare come essa necessiti di ulteriori indagini prima
di venire esentata da qualsiasi dubbio in merito alla sua realtà ed esistenza; Altro
discorso vale per le «evidenze adeguate», ossia ogni affermazione che possa rientrare
all’interno di un giudizio analitico, come la proposizione aritmetica che segue (ma si
potrebbero produrre altrettanti esempi affini in quanto ogni giudizio analitico
rientrerebbe comunque all’interno della categoria delle «evidenze adeguate» proposta
da Husserl):
«1 2 è uguale a 2 1»79
In questo caso si ha a che fare con essenze, già pre-comprese dalla coscienza pura, che
non si relazionano nell’ambito dei fenomeni naturali empirici ma che hanno a che fare
con la trascendenza degli enti matematici. In una situazione come quella della visione di
un paesaggio, che rientra chiaramente all’interno delle cosiddette «evidenze
inadeguate», non abbiamo immediatamente a che fare con essenze di fenomeni, ma con
oggetti in relazione fra di loro che devono essere scandagliati dalla coscienza pura
intenzionata verso di essi mediante l’analisi eidetica80, per far sì che entrino a fare parte
dei vissuti della coscienza. Il procedimento di riduzione, pertanto, si applica
all’atteggiamento naturale a tutto tondo, esso interessa sia la «tesi potenziale», ovvero la
semplice percezione sensibile, che la «tesi giudicativamente esplicita», cioè il giudizio
circa l’esistenza dell’oggetto percepito. Per questo motivo possiamo ben riportare le
parole di uno studioso italiano, Renzo Raggiunti, in merito alla riduzione:
Esso [il procedimento di riduzione] si ispira al dubbio cartesiano, ma in realtà
accetta una sola delle componenti dell’epoché cartesiana, quella che rientra nella
nostra libertà di mettere la tesi stessa «fuori azione [außer Aktion]», «in parentesi»
[...]. La tesi rimane intatta, e tuttavia essa subisce una modificazione: la
sospendiamo, la neutralizziamo nel senso che, attualmente, né l’affermiamo né la
neghiamo81.
78
E. HUSSERL, Idee I, op. cit. sez. IV, cap. II
Ivi
80
Analisi delle essenze
81
R. RAGGIUNTI, Introduzione a Husserl, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 43
79
41
Arrivati qui, siamo alle soglie del procedimento di riduzione, che per ora ha
semplicemente operato quel che già avevamo introdotto, vale a dire la sospensione del
giudizio in merito alla tesi naturale. Serve ora dare uno sguardo ad una sorta di
paradosso che è indispensabile risolvere per poter procedere nell’esplorazione della
fenomenologia: il soggetto che presiede a questo primo stadio della riduzione (la
sospensione del giudizio) è un io-nel-mondo, un soggetto naturale, in altre parole, un
«io psicologico». Non potrebbe essere altrimenti, se l’io non fosse nel mondo non
esisterebbero le percezioni e, di conseguenza, nemmeno la fenomenologia. Tuttavia ci si
accorge immediatamente che siamo di fronte a un paradosso: com’è possibile che il
significato della riduzione fenomenologica si esaurisca nell’io mondano e naturale,
quando il bersaglio polemico della riduzione stessa è proprio l’atteggiamento naturale e
ogni suo derivato? Vi è un passaggio che la riduzione fenomenologica deve compiere
per realizzarsi genuinamente, che è il suo costituirsi sul piano trascendentale; a tal
proposito si parla di «fenomenologia trascendentale». Per fare questo, bisogna
recuperare lo statuto dell’io puro. La costituzione trascendentale della fenomenologia «è
l’analisi degli atti o operazioni che la coscienza compie in direzione dell’oggetto»,
svolta «da un io puro che non è nel mondo, ma è il fondamento assoluto […] del senso
di qualsiasi fenomeno e, perciò, anche del mondo»82. In questo senso la riduzione
acquisisce un valore completamente nuovo perché cambia il punto di partenza: non più
l’io psicologico che è del e nel mondo, ma l’io puro, ovvero l’io filosofico, il quale
garantisce l’accesso ai fenomeni compresi dalla coscienza proprio solamente in quanto
fenomeni. La riduzione neutralizza qualsiasi fenomeno, persino la stessa coscienza può
essere neutralizzata e ridotta: ciò che rimane dopo il procedimento di neutralizzazione
della coscienza è quello cui Husserl dà il nome di «residuo fenomenologico». Questo
residuato, questo “precipitato di coscienza”, non è altro che la coscienza trascendentale,
l’io puro, che è «la funzione originaria e universale della coscienza che costituisce il
mondo»83. Eccoci arrivati all’essenza della fenomenologia, l’analisi dell’essenza dei
fenomeni a partire dalla funzione della coscienza pura. La fenomenologia stessa viene
definita da Husserl, al pari della matematica pura e della logica pura, come una «scienza
eidetica», cioè una «scienza delle essenze»: essa, al contrario delle discipline empiriche,
ha la possibilità di accedere alle essenze universali e necessarie senza doversi fermare ai
82
83
Ibidem, p. 45
G. CAMBIANO, M. MORI, Storia della filosofia contemporanea, op. cit. p. 283
42
vincoli dello spazio e del tempo. Infatti, alle già discusse «intuizioni sensibili» di
kantiana memoria, Husserl contrappone la cosiddetta «intuizione categoriale», che
permette alla coscienza pura di in-tuire, cioè di distinguere immediatamente le essenze
di ciò che l’intenzionalità raggiunge. Se i confini fisici degli oggetti si danno
esclusivamente per adombramenti e per conoscenza prospettica (intesa come somma di
adombramenti successivi), poiché non possiamo cogliere con i meri sensi un oggetto
fisico nella sua totalità84, l’essenza dello stesso, al contrario, si dà alla coscienza pura
nella sua completa totalità; cosicché in un oggetto determinato del mondo naturale,
poniamo, ad esempio un albero, non si vede – con gli “occhi della coscienza” – il
singolo albero, bensì l’essenza dell’albero, ciò che permette ad un albero di essere un
albero. L’essenza è a tutti gli effetti l’oggetto dell’intuizione categoriale:
L’essenza (eidos) è un oggetto di nuova specie. Come ciò che è dato nell’intuizione
di qualcosa di individuale o intuizione empirica | è un oggetto individuale, così ciò
che è dato nell’intuizione eidetica 85è un’essenza pura86.
La coscienza pura è la base di partenza per qualsiasi gnoseologia, e per questo motivo
Husserl tiene a precisare che il mondo, la realtà che ci circonda, ha senso solo in quanto
correlato riferito alla coscienza: ogni vissuto di coscienza, cioè ogni appercezione che è
“entrata” – dopo essere stata stata ridotta – nella sfera della coscienza, consta di due
qualificazioni, una soggettiva ed una oggettiva. L’aspetto soggettivo, che prende il
nome di «noesi» è l’atto intenzionale attraverso cui il fenomeno si qualifica come
vissuto di coscienza in quanto è o percepito, o avvertito, o rammemorato; l’aspetto
oggettivo, che ha il nome di «noema», è il «correlato della coscienza ma considerato
precisamente come costituito nella coscienza»87. Nel noema si raccoglie l’insieme degli
oggetti naturali intenzionati dalla coscienza nella pluralità delle loro differenze
specifiche attraverso cui essi si mostrano ad una coscienza, che sono le differenziazioni
regionali, sulla base delle quali si costituiscono le «ontologie regionali» che
rappresentano le complessive unità di generi di un oggetto concreto dato88. Ogni regione
ontologica materiale possiede, chiaramente, le sue essenze regionali (cioè specifiche di
84
Anche per il fatto banale che, inevitabilmente, una parte di un oggetto fisico si dà ai nostri sensi mentre
un’altra rimane nascosta. Di una scatola, ad esempio, riusciamo a vedere solo il lato che sta di fronte a
noi, ma il lato ad esso opposto ci è invisibile sino a quando non ruotiamo la scatola.
85
Sinonimo per «intuizione categoriale»
86
E. HUSSERL, Idee I, op. cit., p. 17
87
R. RAGGIUNTI, Introduzione a Husserl, op. cit., p. 45
88
Per cui l’ontologia regionale è lo studio di ciò che esiste e dei generi sommi che lo costituiscono
43
una determinata regione del fenomeno) che occorrono per caratterizzarlo nella sua
totalità: la fenomenologia è quindi la possibilità di poter cogliere le essenze regionali di
un oggetto così come si danno alla coscienza, in flussi, cioè in una varietà di dati che si
presentano a questa senza che però le singole essenze vengano sommate le une alle altre
dalla coscienza stabilendo una dottrina fissa89 di ciò che esiste; ma facendo sì che si
costituisca la realtà obiettiva a partire dal lavoro epochizzante della coscienza pura.
Forti di queste considerazioni possiamo concepire la differenza che di fatto sussiste fra
intenzionalità brentaniana e intenzionalità husserliana: quest’ultima, direzionando la
coscienza verso i fenomeni e permettendole di astrarne la costituzione eidetica
attraverso il metodo della riduzione, assicura alla fenomenologia di poterli studiare in
quanto fenomeni e di acquisire uno sguardo obiettivo sul mondo che non perde la
specificità di ogni singolo oggetto; al contrario l’intenzionalità di Brentano funziona da
battistrada ma non giunge alla profondità cui la spinge Husserl: il maestro coglie il
valore altissimo che essa ha per la gnoseologia ma non tematizza un atteggiamento
(come quello della fenomenologia) che consenta all’intenzionalità di diventare la base
per una vera e propria rivoluzione nel campo della teoria della conoscenza. Per
Brentano i fenomeni sono ancora immanenti alla coscienza e non sono considerati come
correlati oggettivi degli oggetti esterni, sono ancora concepiti secondo quella che
Husserl chiamerebbe la «tesi dell’atteggiamento naturale». È facile comprendere come
l’intenzionalità brentaniana sia ferma un gradino sotto quella husserliana: sebbene
anch’essa si fondi sull’idea che la coscienza lavori con i correlati degli oggetti che
l’intenzionalità raggiunge (cfr. pp. 33-36), non tematizza il lavoro sulle essenze tipico
del suo allievo e, di conseguenza, nemmeno l’esistenza di una coscienza pura che
conosca i fenomeni non per adombramenti ma nella loro totalità, tutti d’un pezzo.
Possiamo inoltre concludere con un aggettivo che descrive bene l’atteggiamento del
fenomenologo nei confronti del mondo naturale: disinteressato. Colui che esercita la
fenomenologia, assicura Husserl in Idee I, non lo fa per interesse né tantomeno per un
tornaconto personale. Lo fa perché crede fermamente che questo metodo sia il migliore
fra quelli esistenti per accostarsi alla conoscenza della realtà. Lo sguardo del
La differenza fra l’ontologia tradizionale e l’ontologia regionale della fenomenologia trascendentale è
che la prima stabilisce delle rigide categorie all’interno delle quali comprendere e studiare l’esistente,
mentre la seconda lascia che le varie essenze regionali si diano alla coscienza pura come vissuti
intenzionati e questa coglierà nella sua totalità l’esistente (in quanto la coscienza pura opera sul piano
trascendentale e non su quello immanente) grazie al processo conoscitivo della riduzione.
89
44
fenomenologo è disinteressato nel senso che tutto scruta e tutto osserva con quel
medesimo “occhio clinico” che gli permetterà di discernere l’ontologia degli oggetti e di
apprezzarne la loro intima differenza, la loro naturale unicità e specificità. Ecco che,
così, l’annosa querelle sull’obiettivismo sembra giungere ad un epilogo, trovando
un’interessante via di soluzione: la fenomenologia garantisce la centralità del soggetto
di conoscenza in quanto l’esperienza sensibile viene posta come base inequivocabile ed
irrinunciabile della conoscenza; allo stesso tempo, tuttavia, si assicura di determinare
una conoscenza obiettiva attraverso l’osservazione dei fenomeni così per come essi
sono, concentrandosi sull’aspetto della loro essenza, mettendo al bando qualsiasi
condizionamento che potrebbe inficiare l’esito della conoscenza autentica della realtà
naturale. Il dubbio di cartesiana memoria riappare nel corso della fenomenologia in una
veste a mio parere più convincente a livello gnoseologico: non più un meccanismo
metodico insterilito dalla sua assoluta certezza fondata nell’autoevidenza dell’esistenza
di un io mentale, ma un metodo di riduzione fenomenologica che implica il silenzio
delle teorie per lasciar sì che siano i fenomeni a dischiudersi alla coscienza per ciò che
essi sono, per come essi sono costituiti. In ultima analisi è possibile ritenere la
fenomenologia husserliana una vera e propria rivoluzione gnoseologica: superando il
metodo della psicologia empirica, che si accosta allo studio dei fenomeni come dati di
fatto per certi versi preconfezionati e regolati da leggi rigidissime formulate dalle
scienze competenti in materia, essa si garantisce non solo la possibilità di un accesso più
consistente alla verità dei fenomeni, ma anche la possibilità di istituire quella che Paolo
Volonté, nel suo saggio introduttivo a Fenomenologia e teoria della conoscenza,
chiama «critica della ragione»90. Husserl, in primo luogo, studia e analizza le strutture
conoscitive umane sottoponendole ad un’analisi rigorosa e critica, appunto; in secondo
luogo si dedica a stabilire quali sono le modalità attraverso cui si possa stabilire un
accordo fra le potenzialità che egli individua nelle strutture gnoseologiche (la visione
d’essenze) e la realtà esterna: nasce così la possibilità di un nuovo accordo fra res et
intellectus, basato sulla correlazione fra oggetto e vissuto di coscienza, che garantisce il
dischiudersi di una possibilità decisamente nuova di accostarsi alla conoscenza della
realtà. Viene a cadere il soggetto trascendentale kantiano dotato di forme a-priori
trascendentali: Husserl crea veri e propri oggetti trascendentali, che sono i vissuti di
Si fa riferimento al titolo dello stesso già citato saggio introduttivo, che è, per l’appunto La
fenomenologia tra psicologia e critica della ragione.
90
45
coscienza sorti
sulla base dell’apprensione degli
oggetti
reali. Senza più
condizionamenti e restrizioni di qualsiasi sorta, la coscienza può dedicarsi
all’osservazione dell’essere dei fenomeni cogliendolo come elemento privilegiato di
indagine e di conoscenza. La rivoluzione gnoseologica husserliana, quindi, sta proprio
in questo: nell’essere riuscita a proporre una modalità innovativa di accostarsi alla
realtà, scoprendola da un punto di vista obiettivo senza però rinunciare alla componente
imprescindibile della propria soggettività irripetibile ed attiva.
46
Capitolo Secondo
La fenomenologia fra psicologismo e logicismo
2.1 Fenomenologia e psicologia a confronto
2.1.1 Lo scenario
L’obiettivo fondamentale del metodo fenomenologico presentato da Husserl è il
raggiungimento della conoscenza oggettiva della realtà partendo dalle possibilità
psichiche di un soggetto la cui coscienza è intenzionata verso un fenomeno della realtà.
La fenomenologia nasce con lo scopo specifico di fornire un’obiettività nella
conoscenza, e si costituisce attorno a un solido apparato di disamina delle potenzialità
della ragione e della coscienza, pervenendo alla convinzione che solo una coscienza
pura è in grado di contenere in sé le possibilità di una conoscenza fenomenologica della
realtà. Come, però, fa notare Volonté nel suo saggio La fenomenologia tra psicologia e
critica della ragione, la fenomenologia è nata in un periodo in cui la psicologia stava
costituendosi come scienza del comportamento e della conoscenza umana e, per questo
motivo, «molti psicologi avevano col tempo occupato le cattedre universitarie di
filosofia»91. Ciò significa che la fenomenologia, in quanto teoria della conoscenza,
venne intesa immediatamente come un’altra delle tante teorie psicologistiche della
conoscenza e, a causa di questo fatto, gli storici avversari dello psicologismo non
potevano certamente guardare benevolmente al nuovo metodo gnoseologico di Husserl,
che era stato, fra l’altro, vecchio allievo di Carl Stumpf, titolare di un laboratorio di
psicologia sperimentale a Berlino, con il quale aveva conseguito l’abilitazione92. Non
stupisce che il filosofo moravo, dato questo clima intellettuale, senta forte la necessità di
difendere con energia l’originalità delle proprie costruzioni rispetto allo psicologismo
ormai da tempo invalso nel panorama accademico tedesco; il tono con il quale porta
avanti la difesa dell’autonomia della fenomenologia dallo psicologismo è a tratti
91
92
P. VOLONTÉ, La fenomenologia…, op. cit., p. 11
Ivi
47
volutamente aspro e polemico, allo scopo di cancellare qualsiasi residuo di dubbio che
avrebbe potuto rimanere nonostante i saggi e gli articoli destinati a questo compito.
Husserl ribadisce più di una volta che la logica, essendo una scienza esclusivamente
razionale, è del tutto incompatibile con i dati empirici che provengono dalle percezioni:
la logica ha a che fare unicamente con la sfera della coscienza, della razionalità pura.
Essendo però il clima tedesco dominato, come abbiamo visto, dalla tendenza
psicologistica, la voce di Husserl ha forse rimbombato a vuoto, inascoltata. Perciò, egli
reagisce attraverso la redazione dell’articolo La filosofia come scienza rigorosa e il
saggio introduttivo alle Ricerche logiche, Prolegomeni a una logica pura; nei quali si
sforza di ribadire il campo d’azione filosofico della fenomenologia e di rivendicare
l’autonomia della logica dalla psicologia. Nel 1911, sulla rivista «Logos», compare un
articolo firmato da Husserl dal titolo La filosofia come scienza rigorosa 93. Nello spazio
di questo scritto, egli tratta del rapporto che intercorre fra la conoscenza filosofica e
quella scientifica, del rapporto che sussiste fra la filosofia e la scienza positiva. Sempre
Volonté rileva che la rivista sulla quale viene pubblicato l’articolo di Husserl è sorta
grazie al gruppo dei neokantiani del Baden94; per questo Husserl è in un certo senso
obbligato a scrivere l’opera pensandola indirizzata a un pubblico neokantiano, che ha
una particolare concezione della filosofia:
La filosofia deve essere, per i neokantiani, anzitutto purificazione del sapere e
definizione dei criteri in base a cui esso diviene sapere sicuro, oggettivo,
«scientifico» nel senso dell’antica episteme95.
La concezione della scienza come episteme sarà lo sfondo sul quale prende forma
l’articolo del 1911; in questo senso è possibile allora che da una parte stia la scienza
come costruzione solida di un sapere certo ed inequivocabile (episteme, appunto), e
dall’altra la filosofia nelle vesti di una «episteme-logia», come la chiama Volonté,
ovvero di una esaminatrice ferrea delle tesi della scienza e delle loro condizioni di
validità. Questo è il rapporto che, a giudizio di Husserl, deve esserci fra scienza e
filosofia: proposizione di tesi (episteme) – valutazione di tesi (filosofia come
epistemologia). Tuttavia Husserl afferma lapidariamente che «la filosofia non ha saputo
93
Philosophie als strenge Wissenschaft, in originale
In particolare grazie al contributo di Rickert e Simmel
95
P. VOLONTÉ, La fenomenologia…, op. cit., p. 13
94
48
dare soddisfazione in alcuna epoca»96 in quanto all’essere una scienza rigorosa, e
fornisce il metodo attraverso il quale sia possibile giungere finalmente ad una sua
fondazione rigorosa. Innanzitutto, Husserl individua due linee di tendenza che la
filosofia del suo tempo gli sembra seguire: una prima è quella del naturalismo positivo,
ovvero l’idea per cui sia possibile ridurre tutte le conoscenze a leggi psicologiche e
scientifiche che diventano anche la chiave per mezzo della quale studiare la natura
umana97; una seconda è, invece, «quella perseguita, in particolare in Germania, dallo
storicismo originatosi da Dilthey»98 per cui una conoscenza, per essere certa, non deve
necessariamente sottostare alle teorie e agli strumenti della scienza naturale, ma possa
godere comunque di un proprio statuto di certezza come, ad esempio, avviene per la
storia, che si qualifica come certa senza dover necessariamente “fare un torto” al proprio
oggetto di studio per richiamarsi al metodo scientifico. Dopodiché, nell’articolo citato,
muove un’energica critica sia al naturalismo positivo che allo storicismo: nessuna di
queste due posizioni serve a rendere la filosofia una scienza rigorosa, perché ognuna si
arrocca su una posizione diametralmente opposta rispetto all’altra e non vi è né dialogo
né circolazione di idee. In entrambe le posizioni, il sapere è «contingente e
condizionato, per nulla carico di quella oggettività a cui aspirerebbe»99: per quanto
riguarda il naturalismo, Husserl sostiene che si contraddica con se stesso in quanto
pretende di voler fondare una conoscenza rigorosa basandola su dati empirici che non
sono per nulla obiettivi; lo storicismo, invece, opererebbe un’«assolutizzazione della
vita empirica dello spirito»100, ovvero accampa la pretesa di fondare la certezza della
conoscenza sulle presunte evidenze dello spirito della storia. Qual è, giunti a questo
punto, il metodo suggerito da Husserl per assicurare la filosofia come scienza rigorosa e
per ottenere una conoscenza la più certa possibile? La risposta risiede nell’impiego del
proprio metodo fenomenologico, del quale ora esamineremo i rapporti con la
psicologia; al fine di verificare se la fenomenologia di Husserl possa a tutti gli effetti
caratterizzarsi come una scienza rigorosa ed assumere il carattere di epistemo-logia che
si accennava più sopra.
96
E. HUSSERL, La filosofia come scienza rigorosa, tr. it. di C. Sinigaglia, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 35
Se la filosofia avesse fatto propri i caratteri della psicologia empirica positiva, secondo il naturalismo
positivo, essa sarebbe diventata una vera e propria scienza rigorosa.
98
P. VOLONTÉ, La fenomenologia…, op. cit. p. 14
99
Ibidem, p. 15
100
Ivi
97
49
2.1.2 La fenomenologia come un’epistemologia
La critica che Husserl muove alle tendenze naturalistiche e storicistiche è serrata e
pare non ammettere repliche. La perentorietà delle sue osservazioni riguarda entrambi i
paradigmi, ma possiamo assolutamente dire che il tono maggiormente polemico è
senz’altro rivolto contro il naturalismo e lo psicologismo, per una ragione essenziale che
riporto qui. Egli ritiene semplicemente assurda l’idea in base alla quale si possano
fondare la filosofia e la teoria della conoscenza sulla psicologia. Questa posizione, che
viene chiamata «naturwissenschaftliche Erkenntnistheorie», ovvero «teoria della
conoscenza basata sulle scienze della natura», è valutata da Husserl come un vero e
proprio «controsenso»101, in quanto non è possibile aspirare alla costruzione di una
filosofia rigorosa se essa è fondata su discipline che si basano completamente su dati
empirici – e quindi contingenti – dai quali non è possibile, ovviamente, dedurre leggi
generali universalmente valide:
L’errore più evidente di una simile concezione sta per Husserl nel non aver
riconosciuto che nessuna scienza di dati di fatto, ivi inclusa la psicologia, può
divenire fondamento di discipline che, come molte tra quelle filosofiche (per
esempio la logica pura), hanno per oggetto principi e leggi generali, norme valide a
priori. Questo perché da nessun fatto empirico, che in quanto tale è per definizione
contingente, si può desumere una norma valida universalmente102.
In quest’ottica, occorre rivedere del tutto le modalità di approccio ai problemi di teoria
della conoscenza, e convincersi del fatto che, all’atteggiamento naturale (cioè empirico)
delle discipline scientifiche naturali, va sostituito un punto di vista critico rispetto ai
fenomeni. Questa inversione di tendenza, come specifica Volonté, ma come è
immediato comprendere, corrisponde completamente al progetto della fenomenologia
husserliana. Bisogna notare che sia la psicologia che la fenomenologia si occupano
dello stesso oggetto di studio sebbene da due prospettive evidentemente differenti, che
determinano la distanza che si detrmina fra queste discipline. Entrambe portano avanti
lo studio degli atti psichici, dei vissuti di coscienza; ma la fenomenologia si concentra
sui vissuti di coscienza che si danno alla conoscenza come «esperienza immanente», la
psicologia su quelli che si danno nei termini di un’«esperienza trascendente»103:
101
E. HUSSERL, La filosofia come scienza rigorosa, op. cit., p. 51
P. VOLONTÉ, La fenomenologia…, op. cit., p. 17, corsivo mio
103
E. HUSSERL, La filosofia come scienza rigorosa, op. cit., pp. 65-72
102
50
l’attitudine della scienza psicologica non è quella di considerare i vissuti di coscienza a
partire da un loro studio genetico, cioè di come si formano all’interno della coscienza e
di come si articolano nei rapporti con essa; bensì essa si concentra su una loro analisi
esterna, trattandoli alla stregua di “dati di fatto” svincolati da un sostrato che li ha
originati e che dà loro significato all’interno di una globalità. La differenza che si ha fra
l’esperienza immanente e l’esperienza trascendente è la medesima che Husserl istituisce
nel suo articolo del 1911 fra la «fenomenologia della coscienza» e la «scienza naturale
della coscienza»: gli oggetti dell’«esperienza immanente» sono i vissuti puri di
coscienza, e si danno nella loro datità completa in un’esperienza sola; gli oggetti
dell’«esperienza trascendente», invece, si costituiscono alla coscienza che li conosce per
adombramenti e per visioni prospettiche successive che, idealmente sommate nella
coscienza, restituiscono la conoscenza globale dell’oggetto104. Posta la differenza che
abbiamo discusso finora, per Husserl è naturale che si eriga una barriera fra la
fenomenologia pura e la psicologia, sperimentale o razionale che sia. E la barriera che
demarca il confine fra fenomenologia e psicologia permette a Husserl di definire una
caratteristica particolare propria della fenomenologia, che è la «Wesensanschauung», la
«visione d’essenza»: la fenomenologia, essendo una scienza eidetica, ha a che fare con i
vissuti di coscienza che non sono oggetti dell’esperienza sensibile, ma sono i fenomeni,
le loro essenze effettive. Se gli ambiti della fenomenologia e della psicologia sono così
separati e così distanti l’uno dall’altro (per la fenomenologia fenomeni, per la psicologia
oggetti del mondo naturale), come può essere che la fenomenologia sia stata intesa
come una deriva dello psicologismo? Lo stesso Husserl ci invita a prestare attenzione a
non confondersi: «tutto sta ora nel non confondere ciò che tende a confondersi, nel
tenerlo distinto e concettualmente separato»105; ciò che non va confuso è proprio
l’atteggiamento fenomenologico-critico con l’atteggiamento psicologistico-naturale, e
sempre Volonté non manca di far notare come siano stati vittime di questa confusione
proprio gli psicologisti che, non analizzando adeguatamente il campo d’azione della
L’esempio addotto da Volonté nel suo saggio per spiegare la conoscenza prospettica per adombramenti
di Husserl mi sembra particolarmente efficace, e lo riporto qui: «Per conoscere bene una casa le giro
intorno, sommando così nella mia esperienza di casa una serie di visioni prospettiche successive da
diversi punti di vista. Ma non posso girare intorno alla mia attuale percezione della casa da questo punto
di vista. La casa è oggetto di una percezione prospettica (trascendente, cioè soggetta alle condizioni dello
spazio e del tempo oggettivi), la percezione della casa è oggetto di una seconda percezione (riflessione),
che tuttavia non è né può essere prospettica (percezione immanente).» cfr. p. 19
105
E. HUSSERL, Fenomenologia…, op. cit. p. 157
104
51
fenomenologia rispetto a quello dello scienze naturali, hanno assimilato il primo al
secondo, producendo un vero e proprio fraintendimento. Al chiarimento analitico delle
differenze sussistenti fra le due discipline in gioco, Husserl, nel saggio Fenomenologia
e teoria della conoscenza, che costituisce, come abbiamo già detto, la sua Antrittsrede
all’Università di Friburgo, vuole proporre l’apparato teorico che gli possa permettere di
far assurgere la fenomenologia ad ambito privilegiato all’interno del quale possano
costruirsi sia una teoria della conoscenza che un’epistemologia. Infatti Husserl scrive
che:
Accanto alla coscienza psicologica che appercepisce naturalmente c’è – di questo
dovremo ora occuparci – una coscienza «pura»: pura rispetto a ogni oggettivazione
psicologica. E c’è un’appercezione pura, fenomenologico-trascendentale, nella
quale la coscienza pura giunge a datità106.
Detto altrimenti, significa che la fenomenologia rappresenta «la prima realizzazione
significativa e compiuta di una teoria della conoscenza rettamente intesa»107, ovvero la
prima elaborazione del progetto di una gnoseologia non pensata come una teoria
aggrappata al terreno instabile della psicologia positiva, ma come una teoria pura, ossia
una teoria della datità dei fenomeni e non dei dati di fatto. Per rimarcare questo aspetto
di purezza della teoria fenomenologica Husserl aggiunge che:
Tutti i problemi gnoseologici radicali sono fenomenologici, e tutti i restanti
problemi che si possono definire gnoseologici, inclusi quelli della corretta
«interpretazione» della natura fattuale e dei risultati delle sue scienze,
presuppongono i problemi gnoseologici puri108.
Allora, se le cose stanno così, anche il problema gnoseologico per eccellenza che, come
fa giustamente notare Volonté, è insito nella domanda «come è possibile la
conoscenza?», deve poter sottostare ad un’indagine fenomenologica, per dirsi
veramente radicale. E volendolo analizzare in chiave fenomenologica, significa
comprendere che:
E. HUSSERL, Fenomenologia…, op. cit., p. 161
P. VOLONTÉ, La fenomenologia…, op. cit., p. 37
108
E. HUSSERL, Fenomenologia..., op.cit., p. 235
106
107
52
Il problema è dato qui dalla piena comprensione della correlazione tra la realtà
naturale veramente esistente in generale (la natura nella sua concezione più ampia)
e la coscienza pura in generale in cui essa si costituisce conoscitivamente109.
Comprendere la correlazione fra realtà naturale e coscienza pura significa chiedersi se è
legittimo – cioè giustificabile in modo razionale – (e a quali condizioni) che, attraverso
una realtà di fenomeni, si possa costituire per noi un mondo fatto di oggetti naturali. In
altre parole, com’è possibile che i correlati degli oggetti materiali alla coscienza pura
corrispondano effettivamente agli oggetti di cui sono i correlati? Vale la pena di restare
aderenti alle argomentazioni di Husserl per cercare di comprendere questo tema: se il
problema gnoseologico riguarda l’adeguatezza tra oggetto e correlato, in una teoria
come quella fenomenologica in cui l’atteggiamento naturale viene sospeso per «mettere
fra parentesi» la realtà esterna, il senso radicale del problema della conoscenza non sarà
solo l’adeguatezza fra oggetto e correlato, ma anche l’adeguatezza della conoscenza con
se stessa e con la sua razionalità. Ancora una volta le parole di Volonté, che riprende un
passaggio delle husserliane Idee I, possono aiutare a comprendere più esaurientemente:
Per Husserl il «problema della ragione» consiste nella questione di «che cosa
propriamente significhi la “pretesa” della coscienza di “riferirsi” realmente e
“validamente” a un elemento oggettivo»110.
In che senso possiamo dire che è “valido” e “razionale” che il vissuto di coscienza
correlato dell’oggetto naturale
,
gli corrisponde appieno? Se il problema diventa
questo, allora la fenomenologia si è “trasformata” in una vera e propria critica (cioè
disamina) della ragione, del suo funzionamento e delle sue potenzialità: non si
accontenta solamente di capire come avviene il procedimento del conoscere, ma si
preoccupa di valutare se vi è una correttezza ed una razionalità non solo nel rapporto
oggetto-correlato, ma anche nel rapporto fra la conoscenza e la razionalità dei vissuti di
coscienza che le si danno. Proprio per questo ulteriore compito che la fenomenologia
porta con sé possiamo affermare che essa «diviene qualcosa in più di una teoria della
conoscenza […], la fenomenologia assume ora anche il carattere di una vera e propria
epistemologia»111. Secondo Volonté, Husserl ha spinto “fino in fondo” il compito
demandato alla fenomenologia come teoria della conoscenza, nel senso che l’ha
109
Ibidem, p. 241
P. VOLONTÉ, La fenomenologia…, op. cit., p. 39
111
Ibidem, p. 40
110
53
costituita come un sapere in grado di comprovare la razionalità e l’obiettività della
conoscenza; consentendole di poter modellare una scienza che, sostiene lo studioso,
abbia i caratteri dell’episteme greca: un complesso di conoscenze stabile fondato sulla
loro stessa certezza:
Una teoria della conoscenza che vada fino in fondo al proprio compito, una teoria
della conoscenza fenomenologica, non potrà dunque che culminare in una
epistemologia, intesa non come filosofia delle scienze positive […], ma appunto
come dottrina della scientificità del sapere scientifico, o come teoria delle
condizioni di possibilità di un’episteme112.
Riformulando, si può sostenere che l’epistemologia fenomenologica inaugurata da
Husserl sia una vera e propria metascienza, in quanto permette alla scienza la riflessione
sui propri strumenti e metodi che, altrimenti, essa non condurrebbe mai, in quanto
ritenuta estranea ai propri compiti. Avendo chiarito i compiti e le potenzialità della
fenomenologia come teoria della conoscenza, possiamo ora esaminare i rapporti
intercorrenti fra la fenomenologia e la logica, altro argomento assai caro a tanta parte
della produzione husserliana.
2.2 Logica, fenomenologia e psicologismo
2.2.1 Fenomenologia e logica: lo statuto degli enti matematici
Husserl incomincia ad occuparsi di questioni logiche e fenomenologiche già a
partire dalla sua prima opera, la Filosofia dell’aritmetica113 del 1891, nella quale si
propone di dar conto di come si conoscano generalmente le entità matematiche,
problematiche a causa del loro statuto ontologico piuttosto controverso114. Le usuali
112
Ibidem, pp. 40-41
Philosophie der Arithmetik, in originale
114
La polemica, se così la si vuole chiamare, sta in questi termini: gli enti matematici sono entità reali
oppure sono idee mentali e, in quanto tali, differenti da persona a persona? E se fosse così, come
difendere l’universalità della matematica? Tuttavia, la questione dei fondamenti dell’aritmetica ricapitola
una serie di prospettive differenti sugli statuti della disciplina, le più importanti delle quali rispondono ai
nomi di intuizionismo, formalismo e logicismo. Di seguito un breve accenno di ciascuna concezione. La
concezione intuizionistica, la matematica e la logica sono intimamente basate su una serie di codici
operazionali validi che non consentono, a partire da essi, l’elaborazione intuitiva di costruzioni logiche
via via sempre più complesse. Per cui, la matematica sarebbe un sistema di metodologie applicative in se
113
54
modalità psicologistiche di approccio a questo problema a cavallo fra epistemologia ed
ontologia non sono mai apparse soddisfacenti a questo autore, in quanto esse si sono
rifiutate di considerare l’evidenza che la matematica ha uno statuto indipendente dalle
contingenze empiriche: fondare la conoscenza degli enti matematici su presupposti
empirici equivarrebbe a negare alla matematica il suo status di disciplina dai contenuti e
dai metodi universalmente validi per relativizzarla al sentire personale di ciascun
individuo. Il problema dello statuto ontologico degli enti matematici non era, all’epoca,
avvertito dal solo Husserl, ma era invece un argomento di costante e continua riflessione
accademica che coinvolgeva a più livelli diversi studiosi; in particolare psicologi,
filosofi, matematici e logici: alcuni nomi importanti in queste ricerche sono sicuramente
quelli di J.S. Mill, C. von Sigwart e G. Frege. Sebbene nel suo lavoro del 1891 Husserl
abbia voluto applicare il metodo fenomenologico dell’intenzionalità agli enti matematici
per coglierne la loro costituzione essenziale, al fine di togliere valore a qualsiasi
interpretazione psicologistica del loro statuto, secondo alcune voci della critica del
tempo, in particolare secondo quella di Frege, egli non sarebbe stato in grado di
condurre un’analisi scevra dallo psicologismo; producendo considerazioni sulla
falsariga di quelle che voleva eliminare. È necessario, quindi, esaminare il metodo
operativo di Husserl rispetto ai concetti matematici, verificando quali sono le
conseguenze derivanti da una tale modalità d’analisi. Seguendo le considerazioni
proposte in merito dal già citato Renzo Raggiunti, occorre innanzitutto definire l’intento
principale della ricerca husserliana in merito agli enti aritmetici:
Nella Filosofia dell’aritmetica lo Husserl fa una analisi degli atti psichici che sono
in correlazione con alcuni concetti elementari dell’aritmetica. È convinto che non
stesse ineccepibili, dalle quali derivano le altre operazioni complesse (es. dall’operatore
«moltiplicazione» deriva l’operatore complesso «elevamento a potenza»). Il formalismo aritmetico vede
alcuni esponenti di spicco, come D. Hilbert, H. Hankel e C.J. Thomæ. Questa concezione, specie per
come è stata intesa da Hankel e da Thomæ, ritiene che lo scopo principale dell’aritmetica sia saper
manipolare correttamente segni, simboli ed operatori: non importa interrogarsi esplicitamente né sul loro
significato né sul loro valore epistemologico. Ciò che conta è saperli usare per quello che formalmente
sono ritenuti valere e significare. Al formalismo logico-aritmetico si contrappone un’altra corrente
importante, quella del logicismo, portata avanti dalla speculazione del logico G.W.F. Frege. Secondo
l’ipotesi logicista, le assunzioni formaliste sono assurde, in quanto si precludono del tutto la possibilità di
conoscere gli statuti epistemologici della disciplina matematica: ancor prima di imparare una tecnica di
utilizzo degli strumenti aritmetici, occorre definirne e conoscerne il significato, stabilito sulla base della
certezza delle leggi logiche. Solo dopo che la logica avrà chiarito il terreno su cui poggia l’edificio
dell’intera matematica sarà possibile utilizzare i simboli e operare con essi secondo regole e schemi
prefissati.
55
vi sia altro modo per spiegare la formazione di tali concetti che quello di definire
quel tipo di operazioni soggettive che ne stanno a fondamento115.
Husserl è convinto che, del problema degli enti matematici, non si possa dare solo ed
esclusivamente una risposta su un piano logico, una legge normativa che definisca
perfettamente “che cosa è” un concetto matematico, ma che sia necessario considerare
anche la disposizione psichica dell’individuo verso l’ente stesso: è l’atto intenzionale
della coscienza che permette di direzionarla verso di esso e di conoscerlo nella sua
inseità. Già questo aspetto verrà valutato da Frege come una grave ed indebita
concessione allo psicologismo. La prima entità che Husserl si propone di indagare è il
concetto più elementare dell’intera matematica, ma non il meno controverso, che è
quello di numero. È bene segnalare che, in Husserl:
Il presupposto dello studio del concetto di numero [condotto da Husserl] consiste
nel ritenere che esso non possa prescindere dall’analisi del processo del contare e
delle attività intenzionali, simboliche e intuitive coinvolte fin dall’esperienza
ordinaria che comunemente se ne ha116.
L’analisi fenomenologica del concetto di numero è invero piuttosto complessa, come fa
notare Raggiunti, a causa della difficoltà dell’apparato teorico di tipo matematico sulla
quale si fonda117: infatti Husserl tenderà, in Filosofia dell’aritmetica, a non parlare di
«numero», ma di «aggregato» (Inbegriff) come concetto elementare e basale in
matematica. Un aggregato è il semplice essere-insieme di più oggetti reali o fantastici,
senza che essi debbano necessariamente intrattenere delle relazioni di somiglianza
contenutistica l’uno con l’altro; infatti «una delle condizioni formali che rende possibile
il costituirsi di un aggregato è che ogni elemento di esso si presenti distinto dagli
altri»118. Egli sostiene che la formazione di un aggregato nella coscienza di un soggetto
è un fattore dipendente esclusivamente da un’operazione di carattere psicologico che
viene denominata «collegamento collettivo» (kollektive Verbindung): esso permette di
poter connettere fra di loro i molteplici elementi costituenti un aggregato in modo tale
che si formi un intero. Un atteggiamento fondamentale della coscienza è, oltre
all’intenzionalità che le ha permesso di dirigersi sulla costituzione essenziale degli
115
R. RAGGIUNTI, Introduzione a Husserl, op. cit., p. 9
C. CALÌ in www.recensionifilosofiche.it/crono/2003-04/husserl.htm
117
Husserl si rifà alla teoria delle funzioni (che non è riportata qui) di Carl Weierstrass, suo maestro di
matematica a Berlino
118
R. RAGGIUNTI, Introduzione a Husserl, op. cit., p. 10
116
56
aggregati, quello del «notare» (bemerken): questo modo della coscienza le consente di
astrarre tutti gli elementi connessi tramite il collegamento collettivo, rendendo oggetto
d’intenzionalità i collegamenti nell’aggregato. È così possibile cominciare a comparare
più aggregati (intesi come collegamenti fra elementi), dalla loro comparazione discende
un altro concetto fondamentale della matematica che è quello della «molteplicità»
(Vielheit/Mannigfaltigkeit); ossia tutto ciò che compare in successione all’unità119, e che
è definita come il concetto di insieme il più indeterminato possibile. Il «numero» (Zahl),
invece, determina la quantità della molteplicità, al fine di determinarne la varietà120;
anche Husserl accetta di buon grado di porre a fondamento della sua analisi del numero
l’idea euclidea per la quale il numero è una «molteplicità d’unità». Dunque possiamo
dire, alla luce di quanto esposto finora, che l’aggregato è un concetto generale, di cui la
molteplicità e il numero sono casi particolari (la prima come successione collegata di
elementi in un aggregato, il secondo come fattore determinante della quantità degli
elementi)121. È doveroso, a questo punto, introdurre il problema della teoria degli
insiemi: come abbiamo visto, nella Filosofia dell’aritmetica, Husserl utilizza termini
come «aggregato», «insieme» e «molteplicità» per dare una veste teorica rigorosa anche
dal punto di vista terminologico alla propria teoria dei numeri. Questi termini, molto
tecnici ed altamente specifici, vanno però contestualizzati all’interno della costruzione
teorica che li raccoglie, che è la cosiddetta «teoria degli insiemi», elaborata da Georg
Cantor a partire dal 1890. L’idea centrale della teoria cantoriana, ovvero che due
insiemi hanno la stessa cardinalità (cioè la stessa numerosità di elementi) se è possibile
far corrispondere biunivocamente ad ogni elemento dell’insieme A un elemento
dell’insieme B, è ripresa anche da Husserl nella definizione del concetto di numero e di
quantità (ancora una volta intesa come numerosità): l’«aggregato» (Inbegriff), definito
come l’effettiva unione di più concetti fra loro, colto come «molteplicità»
(Vielheit/Mannigfaltigkeit) dall’intenzionalità grazie allo strumento del «collegamento
collettivo» (kollektive Verbindung), acquisisce una determinazione quantitativa nel
Cfr. cap. 3, § 4 di E. HUSSERL, Filosofia dell’aritmetica, tr. it. e a cura di G. Leghissa, Bompiani,
Milano 2001, p. 116)
120
Sempre Calì fa notare che per determinare di che varietà sia una molteplicità serve ricorrere al
concetto di numero: la molteplicità non è altro che una successione continua di elementi (qualcosa,
qualcosa, qualcosa, qualcosa…) omogenei o disomogenei fra di loro. Il numero determina la quantità
degli oggetti, definendo la tipologia dell’insieme molteplicità in questione.
121
R. RAGGIUNTI, Introduzione a Husserl, op. cit. p. 10
119
57
momento in cui il «numero» (Zahl) determina la varietà122 di un insieme “collegando”
idealmente la quantità degli elementi di un aggregato con la numerosità espressa da se
stesso in quanto concetto. Vi è dunque una sorta di confusione fra i termini: se Husserl
stesso sostiene, agli esordi di Filosofia dell’aritmetica, che
i termini «aggregato»
(Inbegriff) – appartenente al proprio lessico teorico – e «insieme» (Menge) –
appartenente al lessico teorico di Cantor – possono essere utilizzati come se fossero
sinonimi, bisogna però tener sempre presente qual è l’obiettivo finale delle ricerche di
Husserl in merito alla teoria matematica degli insiemi; il rischio, se no, sarebbe quello
di ritenere la costruzione teorica husserliana esattamente identica a quella cantoriana
salvo per delle accorte sostituzioni a livello di lessico specifico. Perciò è opportuno
sottolineare che, in tedesco, il significato primario di Inbegriff, che abbiamo detto
essere, per Husserl, il concetto a fondamento dell’intera matematica, non è tanto
«aggregato», quanto «essenza, quintessenza». Il filosofo moravo è interessato, infatti, a
elaborare un’interpretazione eidetica della teoria degli insiemi di Cantor: attraverso il
concetto dell’Inbegriff egli vuole richiamare l’attenzione sulle proprietà eidetiche, cioè
essenziali di un insieme, reinterpretando in chiave fenomenologica la teoria del collega
Cantor. Così non acquisisce più molta importanza l’estensionalità, ossia l’enumerazione
degli elementi di più insiemi al fine di verificare la possibilità di creazione di un
rapporto biunivoco fra di essi, ma l’intensionalità, cioè l’espressione della legge logica,
numerica e quantitativa che racchiude l’essenza (e l’esistenza) di un aggregato-insieme.
Supponiamo di voler rappresentare l’insieme dei numeri naturali pari (P) e dei numeri
naturali dispari (D), al fine di verificare la loro equipotenza, ovvero la loro
equinumerosità. Secondo lo stile estensionale di Cantor, poco adatto a mettere in risalto
le proprietà essenziali degli enti matematici, dovremmo rappresentare racchiusi in una
parentesi tutti gli elementi che compongono i due insiemi:
Lo stile intensionale di Husserl, molto più sintetico ed espressivo, si concentra sulla
ricerca della legge che presiede la costituzione dell’insieme, ossia sull’espressione
122
58
Cioè la sua numerosità
logica che racchiude in modo completo ed esaustivo la qualità essenziale dell’insieme
considerato. Per cui, relativamente ai casi già presentati, avremo che:
In questo modo, l’essenza e l’esistenza stessa degli insiemi è sinteticamente data in una
legge ben visibile e scritta, per qualunque caso sostituibile a m si voglia ricercare. Alla
luce delle seguenti constatazioni di filosofia della matematica e di analisi
fenomenologica della teoria degli insiemi, possiamo ritornare alla domanda cruciale:
cosa è dunque il numero, per Husserl? Non è più un concetto dal dubbio statuto
ontologico, ma è invece un’entità che, come fa notare Carmelo Calì nella sua
recensione, non può prescindere dalle sue applicazioni pratiche (è la domanda
«quanto?» che ci permette di poter definire la tipologia di una molteplicità), e infatti
Husserl aveva stabilito che la propria teoria del numero non potesse lasciar da parte
l’uso comune che se ne fa; allo stesso tempo, però, il numero non può essere ridotto al
suo campo d’utilizzo normalmente inteso, poiché esso occorre – a livello teoretico,
concettuale – per definire il genere di un estensione concettuale come quella di
molteplicità. «Il numero per Husserl», come scrive Raggiunti, «è una molteplicità
determinata»123. Sebbene sia un atto psicologico (il già citato «collegamento collettivo»)
a determinare la genesi di un aggregato, il piano su cui Husserl si muove è poi di tipo
logico-matematico124, ed esclude la possibilità che condizionamenti empirici come lo
spazio e il tempo possano concorrere a costruire l’ontologia degli enti matematici;
semmai essi concorrono a questo, ma non ne sono la causa. Il tempo è definito come
una «pre-condizione» per la formazione dei concetti matematici perché ne consente
l’apparizione, ma non ne è un carattere ontologicamente costitutivo:
Tempo e spazio possono essere considerati come condizioni psicologiche del
formarsi di un aggregato, ma non ne sono la causa. In questo senso, il tempo può
essere definito come una «condizione psicologica preliminare» per la formazione
123
Ibidem, p. 12
Deve essere sottolineata una differenza essenziale fra la metodologia brentaniana e quella husserliana
in senso stretto: Brentano inaugura il concetto di intenzionalità ma lo mette in gioco su un versante
psicologico-naturalistico, presentando l’oggetto intenzionale come un oggetto empirico; Husserl invece si
distacca marcatamente dall’operatività del maestro, presentando l’oggetto come inquadrato all’interno di
una struttura logico-matematica.
124
59
dei concetti elementari dell’aritmetica, «come puro e semplice sfondo della loro
apparizione»125.
Questo estratto chiarisce che le determinazioni contingenti dello spazio e del tempo non
sono sufficienti alla definizione dello statuto degli enti aritmetici: l’analisi
fenomenologica in merito deve sì partire dal numero considerato nella sua applicazione
quotidiana, ma la sua applicabilità empirica non basta a poterne definire l’essenza.
Occorre quella che lo studioso italiano denomina una «sintesi intellettuale», ovvero il
posizionamento dell’indagine sullo statuto ontologico dei concetti matematici su un
piano coscienziale che sia in grado di poterne chiarire la costituzione essenziale
effettiva: si ha quindi a che fare con un soggetto conoscente degli enti aritmetici che
supera, va oltre le barriere poste dagli oggetti empirici, qualificandosi – sempre secondo
l’annotazione di Raggiunti – come un «Io trascendentale kantiano», un soggetto
epistemico universale di conoscenza. Bisogna rilevare che il procedimento
fenomenologico di conoscenza del concetto di numero, qui comunque semplificato, non
soddisferà in modo pieno Husserl; il quale sarà convinto che – nonostante l’obiettività
che dovrebbe garantire tale approccio – sia necessario ridefinire la ricerca, poiché
l’atteggiamento psicologico (numerabilità, contabilità, uso quotidiano) da lui ammesso
nella propria teoria dei numeri gli sembra aver sbilanciato troppo l’indagine su un piano
personalistico, a scapito dell’oggettività e della rigorosità che dovrebbero attenere alle
entità matematiche. Nel prossimo paragrafo esamineremo l’evolversi del problema della
logica in Husserl, considerando la svolta che egli inaugura nelle Ricerche logiche,
distanziandosi dalle tendenze psicologistiche di Filosofia dell’aritmetica per ribadire
con più forza l’autonomia delle proprie fondazioni fenomenologiche dalla psicologia.
2.2.2 La logica come «dottrina della scienza»
Lo studio della disciplina logica fu particolarmente fecondo nel periodo a
cavallo fra Ottocento e Novecento: i veloci progressi delle scienze in generale e, in
particolare, di quelle geometriche e matematiche, imposero anche alla logica di
“mettersi in discussione” e di riformularsi nei suoi intenti e nei suoi metodi dopo la
lapidaria e settecentesca considerazione di Kant per la quale «la logica formale,
125
60
R. RAGGIUNTI, Introduzione a Husserl, op. cit. p. 13
concepita come esplicazione delle leggi naturali del pensiero, deve essere considerata
una scienza che più nulla ha da dire»126. La difficoltà maggiore quando si parla di logica
è, però, riuscire a darne una definizione e cercare di stabilire con certezza e con
chiarezza il fine che essa deve perseguire; essere superficiali su questo aspetto significa
compromettere la propria analisi e, soprattutto, produrre contraddizioni e controsensi
che – se non immediatamente visibili – si palesano via via nel corso della ricerca. Nei
suoi Prolegomeni a una logica pura 127, che occupano il primo libro delle Ricerche
logiche, Husserl prova a definire la logica e il suo campo d’azione in controtendenza
rispetto alla direzione che gli studi sul tema stavano prendendo in quell’epoca. Egli
riconosce che vi sono tre «indirizzi» principali attorno ai quali si coagulano le
considerazioni logiche: l’indirizzo psicologico, l’indirizzo formale e quello metafisico.
In particolar modo «il primo ha decisamente ottenuto la prevalenza, sia per il numero
che per l’importanza dei suoi esponenti»128: ciò significa che la tendenza prevalente
negli anni fra XIX e XX secolo è quella di intendere la logica da un punto di vista
psicologico, ovvero come se essa fosse una «branca» della psicologia che si occupa di
studiare il funzionamento dei meccanismi psichici che permettono il ragionamento.
Come accennato più sopra, l’intento di Husserl in quest’opera sarà quello di distanziarsi
il più possibile dalle ricerche psicologistiche, anche a costo di dover rinnegare alcune
posizioni tendenti alla psicologia che sono ravvisabili nella Filosofia dell’aritmetica del
1891. Acutamente, Husserl non manca di far notare che, sebbene la maggior parte degli
studi ruoti intorno al filone psicologistico:
Anche nel campo della logica psicologica, dove vi è il massimo fervore di studi,
troviamo un’unità di convinzioni solo in rapporto alla delimitazione della
disciplina, ai suoi fini e metodi essenziali; ma in rapporto alle teorie presentate […]
non si potrà dire eccessiva l’applicazione del detto bellum omnium contra
omnes129.
La generale impossibilità di trovare un accordo sullo statuto di questa disciplina persino
all’interno dello stesso filone di ricerca muove in questo filosofo il desiderio di
esaminare alle fondamenta l’edificio della logica: l’esito al quale arriverà nei
126
E. GATTICO, J.B. GRIZE, La costruzione del discorso quotidiano. Storia della logica naturale, Bruno
Mondadori, Milano 2007, p. 86
127
Prolegomena zur reinen Logik, in originale
128
E. HUSSERL, Prolegomeni a una logica pura in Ricerche logiche I, a cura di G. Piana, Il Saggiatore,
Milano 1988, p. 23
129
Ibidem, p. 24
61
Prolegomeni, e che riporto in questo sottoparagrafo rimanendo fedele alla sua
argomentazione, sarà completamente nuovo rispetto ai risultati degli studi dei suoi
contemporanei. Il filosofo moravo sente immediatamente la necessità di dare una
definizione certa e chiara del «campo di studio» che attiene alla logica, per evitare
quella «confusione fra campi» che sorge mescolando all’interno di una stessa disciplina
elementi e metodi afferenti a più discipline, provocando problemi che gli appaiono
estremamente gravi:
Fissazione di fini privi di validità; fedeltà verso metodi che sono per principio
assurdi, in quanto incommensurabili con i veri oggetti della disciplina; confusione
tra i livelli logici, in modo tale che teorie e principi veramente fondamentali, spesso
nei travestimenti più strani, si presentano come momenti apparentemente marginali
o come conseguenze provvisorie tra argomentazioni di tutt’altro genere, ecc.130
Se delimitare il «campo di studio» della logica ci preserva dal compiere errori e
fraintendimenti e dal portare la disciplina a concentrarsi su questioni che non le
attengono specificatamente, per riuscire in questa operazione, sostiene Husserl, è
necessario porsi alcune domande preliminari che riguardano – appunto – la
delimitazione del campo d’azione della logica. Queste occupano il § 3 dell’introduzione
ai Prolegomeni, e vengono chiamate «questioni controverse» perché, se non affrontate
adeguatamente, non permettono di arrivare a capo di questo compito. A livello
argomentativo, Husserl si dedica primariamente a chiarire quali sono le «questioni
controverse» e, in seconda istanza, porta avanti una disamina delle basi teoretiche della
logica; per approdare, infine, alla sua conquista teorica che è, come annunciato dal titolo
di questa parte del lavoro, la fondazione della logica come dottrina regolativa della
scienza in generale. Le domande preliminari tradizionali che hanno a che fare con la
definizione del campo d’interesse della logica sono formulate da Husserl in quattro
proposizioni interrogative che sondano, ciascuna, un aspetto differente che deve essere
tenuto in considerazione nell’intento di risolvere l’annoso problema che è stato esposto.
Occorre chiedersi:
1. La logica è una disciplina teoretica o pratica, una «tecnologia» (Kunstlehre)?
2. È una scienza indipendente dalle altre scienze, e in particolare dalla psicologia
o dalla metafisica?
130
62
Ivi
3. È una disciplina formale, cioè che ha a che fare con le «mere forme della
conoscenza» oppure deve prendere in considerazione anche la loro «materia»?
4. Ha il carattere di una disciplina a priori e dimostrativa oppure quello di una
disciplina empirica e induttiva?131
Senza prendere in esame qui, per ragioni di spazio e di finalità dello scritto, le varie
modalità d’intendere la logica che si sono susseguite nella storia fra i vari autori, è
sufficiente chiarire che Husserl vuole dar credito alla logica intesa come una tecnologia.
Questo significa che, per questo autore, la logica ha una valenza applicativa, un compito
pratico che deve svolgere rispetto ad un campo preciso, che – finalmente viene
determinato – è quello del sapere scientifico. Husserl incomincia con alcune
considerazioni preliminari in merito alla scienza, che descrive come un complesso di
conoscenze generali e particolari condiviso dagli uomini e che si incrementa grazie al
contributo fornito dai singoli. Essa è quindi un sistema che deve presentarsi certo e
fondato in se stesso così da rendersi prossimo alla verità dei fenomeni che descrive, del
resto è abbastanza ovvio affermare che «la scienza tende al sapere»132. Come essere
certi, però, che la scienza produca un sapere effettivo, che vi sia coerenza fra le tesi che
essa presenta e che, fra un ragionamento e l’altro, vi sia continuità? Occorre l’intervento
di una disciplina nuova, una «scienza della scienza», una «dottrina della scienza»
(Wissenschaftslehre)133 che abbia il compito di essere la “legislatrice” della scienza; in
altre parole, la «dottrina della scienza» deve disporre le norme entro le quali la scienza
si deve muovere per essere tale, cioè un complesso di conoscenze stabile e ben fondato.
Egli demanda questo compito alla logica che, nella sua concezione, acquisisce uno
statuto, come esposto sopra, normativo: la logica detta le norme all’interno delle quali
devono prendere forma i contenuti della scienza, perché:
La scienza vuole essere il mezzo per conquistare al nostro sapere il regno della
verità, e ciò nella misura più ampia possibile; ma il regno della verità non è un caos
disordinato; in esso domina l’unità della legge; e perciò anche la ricerca,
l’esposizione delle verità deve essere sistematica, deve rispecchiare i loro nessi
sistematici ed utilizzarle come stati successivi e progressivi, in modo da poter
penetrare […] in regioni sempre più elevate del regno della verità134.
131
Ibidem, p. 27
Ibidem, p. 32
133
Ibidem, p. 31
134
Ibidem, p. 34
132
63
In particolar modo la logica, per permettere alla scienza di raggiungere tali obiettivi,
deve vagliare – secondo Husserl – l’autenticità dei nessi che tengono legate le
proposizioni della scienza: è come se vi fossero delle proposizioni fondanti (che
vengono denominate dal filosofo moravo «fondazioni») sulle quali se ne costruiscono
altre sfruttando nessi logici, e su di esse se ne costruiscono altre ancora e così via nella
progressione del sapere. È per forza di cose compito della logica verificare se vi siano
delle falle nella concatenazione fra fondazioni e teorie successive: se non vi fossero dei
procedimenti ordinati, razionali e deducibili a governare il susseguirsi delle proposizioni
di una scienza, essa decadrebbe sotto i colpi di contraddizioni continue che si
presentano di volta in volta. In una scienza, nessuna proposizione si trova indipendente
da un’altra, non ne esiste una che possa rimanere autonoma rispetto al complesso
teorico che la fonda: ognuna si trova collegata e connessa all’altra e la validità o
l’invalidità di una si ripercuote sull’intero edificio della scienza. È come se vi fosse un
effetto a cascata: se vi è una falla nella teoria
, allora anche le teorie
,
…
– che,
di per sé, possono essere corrette – prima o dopo ne risentiranno135. Le «fondazioni»
devono, pertanto, soddisfare alcune norme stabilite dalla logica per poter essere genuine
ed autentiche a tutti gli effetti: devono essere, in primo luogo, strutture fisse ed
epistemologicamente ben fondate affinché sia possibile costruire su di esse proposizioni
accessorie, devono essere fra di loro non contradditorie e ben armonizzate e devono
lasciar intendere l’ordine e la struttura razionale che regolamenta i rapporti fra le
proposizioni accessorie formulate su di esse. La logica, operativamente, si assicura che
a livello formale le norme che regolano fondazioni e proposizioni accessorie vengano
mantenute. Nel § 7 del primo capitolo dei Prolegomeni, Husserl ci fornisce un esempio
pratico del compito che è demandato alla logica: egli ci chiede di considerare i due casi
che espongo più sotto e, infine, di analizzare le conclusioni che trae sulla struttura
formale degli enunciati in gioco. Nel primo caso, abbiamo a che fare con un problema
riguardante un triangolo ABC, al quale viene applicato il teorema che dice che ogni
triangolo che abbia lati uguali ha angoli uguali. Se il triangolo ABC in questione ha lati
uguali, allora possiamo dire che:
135
Questa concezione della scienza verrà ripresa, alla metà del XX secolo, dal filosofo statunitense
W.V.O. Quine nel suo saggio Due dogmi dell’empirismo (in W.V.O. Quine, Il problema del significato,
tr. it. di E. Mistretta, Ubaldini, Roma 2006, pp. 20-44) in cui presenta la metafora della scienza come un
«campo di forze».
64
«ogni triangolo che ha lati uguali ha angoli uguali; il triangolo ABC ha lati
uguali, quindi ha angoli uguali»
Nel secondo caso ci chiediamo se il numero 364 sia pari o meno e, applicando un
teorema noto136, concludiamo che:
«se ogni numero del sistema decimale che termina con cifra pari è un numero
pari; 364 è un numero del sistema decimale che termina con cifra pari, perciò è
un numero pari»
Confrontando queste due fondazioni, ovvero queste due proposizioni scientifiche di
base, costruite a loro volta sulla scorta di altre fondazioni (cioè i due teoremi sulle quali
si basano), Husserl è in grado di dire che:
Notiamo subito che queste fondazioni hanno qualcosa in comune, una struttura
interna dello stesso genere che noi possiamo esprimere con chiarezza nella «forma
inferenziale»: ogni A è B, X è A X è B137.
Ciò significa che, se è possibile trovare una legge generale comune a una molteplicità di
fondazioni (nel nostro caso la forma inferenziale citata da Husserl) e se questa legge è
valida, allora è giustificato tutto il complesso di proposizioni che verrà a diramarsi a
partire da tali fondazioni. Ecco perché è fondamentale, secondo questo filosofo, che la
logica svolga il compito di «dottrina della scienza»: se non vi fosse una disciplina
regolamentativa del sapere scientifico esso mancherebbe del tutto di formalità, si
ridurrebbe ad una quantità di nozioni private di una veste logica che le contenga.
Tuttavia, come è facile immaginare, se venisse meno la formalità rispetto al sapere,
qualsiasi conoscenza sarebbe disancorata rispetto all’altra e il rischio principale sarebbe
quello che la scienza in generale fosse privata di connessioni fra teorie. E questo
sarebbe il completo fallimento del progetto del sapere scientifico. Proprio assegnando
un compito potremmo dire «epistemologico» alla logica, Husserl prende le distanze
dallo psicologismo logico in voga al suo tempo: lungi dall’essere una scienza del
ragionamento, la logica husserliana si viene qualificando come una disciplina
tecnologica e normativa. Tecnologica perché, vale la pena ricordarlo, si applica in modo
pratico ad una situazione reale, funziona come la téchne greca, in questo caso una vera e
136
137
Il teorema in virtù del quale un numero del sistema decimale con cifra finale pari è un numero pari
E. HUSSERL, Prolegomeni a una logica pura, op. cit., p. 37
65
propria arte della certificazione della conoscenza scientifica; e normativa perché,
dispensando regole formali, assicura alla scienza quell’essere un’episteme, ossia un
sapere autentico, certo e saldo. L’analisi, a questo punto, si concentrerà sulla querelle
Husserl-Frege in merito alla logica ed allo psicologismo.
2.2.3 Husserl, Frege e la logica
La Filosofia dell’aritmetica, come abbiamo visto nel sottoparagrafo 2.2.1, è il
tentativo attraverso il quale Husserl cerca di definire l’ontologia degli enti matematici
attraverso un metodo rigoroso, universale e valido; il metodo fenomenologico, appunto.
Era stato fatto notare come la deriva delle analisi di Husserl fosse, in ultima istanza, di
tipo psicologistico: egli aveva affermato che non era possibile descrivere l’insorgere di
tali enti prescindendo da un atto squisitamente psicologico a cui aveva dato il nome di
«collegamento
collettivo».
L’impostazione
fenomenologica
della
sua
analisi,
interamente giocata sul ruolo cardine assegnato all’intenzionalità, lasciava tradire che
l’indirizzo di Husserl in merito alle questioni logiche e di filosofia della matematica
fosse proprio quello psicologistico. Tre anni dopo la pubblicazione di Filosofia
dell’aritmetica, nel 1894, Gottlob Frege, filosofo, logico e matematico di Gottinga,
scrisse un articolo intitolato Edmund Husserls Philosophie der Arithmetik, contenuto
nella Zeitschrift für Philosophie und Philosophische Kritik138, nel quale si scagliava
duramente contro il lavoro di Husserl, sostenendone la poca pregnanza a livello
matematico e rimproverandogli le eccessive concessioni allo psicologismo. Secondo
Frege era inammissibile che le questioni aritmetico-matematiche e logiche venissero
mescolate a quelle psicologiche: la logica e la matematica sono discipline che
funzionano in un modo differente rispetto alla psicologia, il loro statuto epistemologico
è totalmente differente, pertanto non è possibile che vi sia una qualche comunicazione
fra questi campi del sapere. Husserl, da una parte, affermava la necessità di chiarificare
lo statuto degli enti matematici attraverso la psicologia, poiché una legge logica non è in
grado di esaurire la costituzione fenomenologica di tali enti; dall’altra Frege brandiva la
bandiera dell’antipsicologismo affermando che la logica non ha nulla a che spartire con
La filosofia dell’aritmetica di Edmund Husserl in Rivista di filosofia e critica filosofica, a cura di H.
Siebeck, J. Volkelt, R. Falkenberg, L. Busse, Voigtländer Verlag, Leipzig 1905, copia conservata nella
digital library della University of Michigan, full catalog record: MARCXML
138
66
la psicologia. Uno degli obiettivi fondamentali di Frege era l’indagine delle fondamenta
dell’intero edificio dell’aritmetica: per troppo tempo questo problema era stato eluso,
ma occorreva, a suo giudizio, che esso venisse finalmente affrontato. Il logico di
Gottinga si propone di utilizzare proprio la logica e la rigida formalità per illuminare
una volta per tutto l’oscuro terreno sul quale poggia la matematica. Gli intenti fregeani
non sono poi così dissimili da quelli di Husserl: anch’egli si appresta ad analizzare il
concetto di numero, il concetto di unità, di molteplicità, di operatore matematico e altri.
La certezza che lo guida, però, è che:
Al fine di escludere malintesi e di evitare che siano cancellati i confini tra la
psicologia e la logica, assegno alla logica il compito di individuare le leggi
dell’esser vero, e non quelle del ritener vero o del pensare. Nelle leggi dell’esser
vero si dispiegherà il significato della parola «vero»139.
In questo senso, la logica è la disciplina che stabilisce la verità scientifica di una
conoscenza, è la disciplina che stabilisce le condizioni affinché si abbia la verità.
Proprio perché la logica è la disciplina che è preposta all’individuazione delle
condizioni in cui si dà il vero e in cui si dà il falso deve essere separata da ciò che ha a
che fare con la psicologia. Quest’ultima ha uno statuto normativo definito dalla
comunità, dalla società; le leggi della logica, invece, sono completamente indipendenti
dalle convenzioni sociali. Sono leggi universalmente valide che non spiegano come sia
possibile conoscere, come sosteneva Husserl nel 1891, ma solo a quali condizioni un
enunciato possa essere definito vero oppure falso. Nel suo lavoro, Husserl si era
preoccupato principalmente di spiegare come insorgessero le nozioni aritmetiche
all’interno della coscienza degli individui, e l’unico modo che aveva per determinarlo
era introdurre la nozione dal carattere ambiguo dell’intenzionalità, la sola che potesse
indagare la costituzione della coscienza in apprensione verso le entità matematiche. Per
cui, possiamo dire che accanto alla nozione di numero, il filosofo moravo avesse posto
anche la nozione relativa a come la coscienza è in grado di pensare al numero. Secondo
Frege questa modalità è profondamente errata:
Una descrizione dei processi mentali che precedono l’enunciazione di un giudizio
numerico, non può mai, anche se esatta, sostituire una vera determinazione del
139
F.L.G. Frege, Il pensiero. Una ricerca logica, in Ricerche logiche, a cura di M. Di Francesco, Guerini
e Associati, Milano 1999, p. 44
67
concetto di numero, non potremo mai invocarla per la dimostrazione di qualche
teorema, né apprenderemo da essa alcuna proprietà dei numeri140.
Il numero, come qualsiasi altro concetto attinente la matematica, non può entrare – a
giudizio di Frege – all’interno di nessuna descrizione psicologica. Infatti «occorre
sapere che cosa sia il mare del Nord, non come sorga la nozione di mare del Nord»141;
in altre parole, occorre sapere che cosa sia un concetto, non come sorga. L’attacco
fregeano a Husserl fu piuttosto severo, e prese di mira l’intento, la base stessa della
Filosofia dell’aritmetica. Da parte di Husserl vi fu, in seguito, una rinuncia ad occuparsi
di questioni riguardanti l’aritmetica, la sua attenzione si concentrò primariamente
sull’elaborazione del metodo fenomenologico e sull’elaborazione del progetto di una
fenomenologia come teoria della conoscenza che fosse supportata da un saldo
fondamento logico142. Da parte di Frege le ricerche logiche e matematiche
continuarono, ma subirono una decisiva battuta d’arresto quando il logico inglese
Bertrand Russell gli segnalò l’antinomia del concetto di classe143, che lo obbligò a
F.L.G. Frege, I fondamenti dell’aritmetica, tr. it. di L. Geymonat e di C. Mangione, in Logica e
aritmetica, Bollati Boringhieri, Torino 1965, p. 255
141
Esempio tratto sempre dai Fondamenti dell’aritmetica
142
A questo compito assolveranno le sue Ricerche logiche
143
Riporto l’antinomia in quanto è di interessante rilievo sia per la filosofia che per la logica: In una
lettera del 1902 Russell fa notare a Frege che la sua elaborazione della matematica basata sulla logica, che
utilizzava la teoria degli insiemi di Cantor, andava incontro ad un paradosso che la metteva in seria
difficoltà. Secondo la teoria degli insiemi è possibile creare insiemi che abbiano caratteristiche del tutto
arbitrarie, per cui è possibile creare l’insieme degli insiemi che appartengono a se stessi (
) e
l’insieme degli insiemi che non appartengono a se stessi (
x). Se diciamo che R è l’insieme di tutti
gli insiemi che non appartengono a se stessi è legittimo chiedersi se R appartenga o meno a se stesso. Se R
appartiene a se stesso allora non può appartenere a se stesso e, viceversa, se R non appartiene a se stesso,
allora appartiene a se stesso. Il paradosso è che R appartiene a se stesso se e solo se non appartiene a se
stesso, per cui l’insieme degli insiemi che non appartengono a se stessi appartiene a se stesso se e solo se
non appartiene a se stesso:
140
Il logico italiano Carlo Cellucci riformalizza il paradosso di Russell nel suo volume La filosofia della
matematica del Novecento (Laterza 2003), ripresentandolo al lettore di oggi in forma comunque rigorosa
avvalendosi anche dell’aiuto della formalizzazione logica fregeana. Di seguito è riportata la trasposizione
del famoso paradosso del 1902: l’appartenenza di un x all’insieme R è definita come:
(1)
Occorre ora dimostrare che, se l’insieme R è estensione del concetto F, per esempio, allora R contiene
come suoi membri tutti e solo quegli oggetti x che cadono sotto F’:
(2)
68
rivedere completamente il suo progetto di fondazione della matematica sulla logica e
sulla teoria degli insiemi di Cantor. Le opere maggiori di Frege, come la
Begriffsschritt144 ed i Gründlagen der Arithmetik145, contrariamente alle sue speranze,
ricevettero ben poca attenzione da parte del grande pubblico e, paradossalmente, anche
dal pubblico specialistico: la difficoltà dell’argomento delle opere, l’utilizzo di una
simbologia rigida e non immediatamente accessibile a chiunque e il carattere
rivoluzionario del suo pensiero resero i suoi lavori talmente impegnativi da analizzare e
da comprendere che non incontrarono plauso immediato. Per cui Frege, dovendo
incassare una relativa disfatta nel 1879 con la Begriffsschritt e nel 1884 con i
Gründlagen scrisse, sotto la guida e sotto il consiglio del suo maestro Abbe, diversi
articoli chiarificatori del proprio pensiero e della propria concezione logicista
dell’aritmetica e della logica. Nel novero di questi articoli si contano alcuni lavori
importanti come Sinn und Bedeutung146 (1891) e Der Gedanke. Eine logische
Untersuchung147 (1919). Dopo che, come è stato già accennato precedentemente,
l’intervento di Russell smorzò definitivamente la già scarsa eco che registrarono i suoi
volumi, Frege evitò di pubblicare nuovamente testi di filosofia della matematica che
pensava avrebbero potuto avere un buon successo: si dedicò comunque a questioni di
logica e anche di fisica, lasciando in eredità al figlio i suoi pensieri che aveva raccolto
sino alla morte sopraggiunta il 26 luglio 1925. In riferimento alla querelle che si sta
Saltiamo la dimostrazione della (2), dalla quale si conclude, ovviamente, che – per soddisfare quanto
scritto – deve valere che:
(3)
.
Ora abbiamo definito l’insieme degli oggetti che appartengono all’insieme R, ponendo la condizione che,
per appartenervi, debbano cadere sotto l’estensione del concetto F’, che indica gli insiemi che
appartengono a se stessi. Ora indichiamo con la seguente scrittura un’altra estensione del concetto di
insieme, in particolare la dicitura ‘x non appartiene a a se stesso’, ottenendo:
(4)
.
Se nell’espressione (2) sostituiamo a F la scrittura che descrive la nuova situazione
, ovvero che che l’oggetto x appartiene all’insieme R se e solo se non appartiene a se stesso, otteniamo
come conseguenza che l’insieme R degli insiemi che appartengono a se stessi appartiene a se stesso se e
solo se non appartiene a se stesso, ovvero ricaviamo:
(5)
che è un’evidente contraddizione.
144
In italiano: Ideografia
145
In italiano: I fondamenti dell’aritmetica
146
In italiano: Senso e significato
147
In italiano: Il pensiero. Una ricerca logica
69
analizzando in queste pagine, Raggiunti non manca di far notare un aspetto interessante
che sembra essere, in un certo senso, sfuggito al Frege critico di Husserl. Lo studioso
italiano (ma non è il solo a sostenere questa idea) ritiene che l’accusa di psicologismo
all’Husserl della Filosofia dell’aritmetica sia stata «troppo generica e troppo
drastica»148, vale a dire, riporta Raggiunti, che Frege si sarebbe limitato ad una critica
superficiale senza considerare più di tanto le ragioni reali in virtù delle quali Husserl
avesse adottato una prospettiva psicologico-intenzionale nella sua opera:
Il Frege sembra non accorgersi che lo psicologismo dello Husserl non può
confondersi con quello psicologismo, di tipo strettamente empiristico e
naturalistico, che misconosce la validità oggettiva e la necessità ideale dei concetti
matematici e delle leggi logiche149.
Raggiunti spiega in maniera più precisa le ragioni che hanno mosso Husserl nella
direzione dello psicologismo nella sua opera del 1891: chiarisce che non era
auspicabile, secondo il filosofo moravo, che gli enti logici dell’aritmetica fossero entità
necessarie ed ideali «sospese nel vuoto». Esse dovevano per forza di cose dover
intrattenere dei legami con le funzioni cognitive e psichiche del soggetto, e per questo
motivo l’analisi viene condotta anche su un piano psicologico; ma, tuttavia, lo statuto
dei concetti matematici acquisisce una qualificazione logica comunque imprescindibile,
che viene però analizzata in relazione alle modalità psicologiche con le quali il soggetto
vi si rapporta. La critica ha spesso parlato di un «platonismo» husserliano, cioè la
tendenza a relegare le entità logico-matematiche in un “mondo a parte”, in un
“iperuranio” svincolato dalla realtà sensibile, che si ravviserebbe, in special modo, nei
Prolegomeni, nei quali vi è un fortissima inversione di tendenza rispetto alle accennate
posizioni psicologistiche. Tuttavia mi sembra fondamentale riportare quanto Raggiunti
dica in merito al tema del platonismo in Husserl: egli riconosce che «fin dal 1891
l’esigenza antiplatonica è indubbiamente viva in Husserl»150, intendendo che nella
Filosofia dell’aritmetica Husserl adotta un punto di vista psicologico in merito al tema
dell’ontologia degli enti matematici. Però – e qui risiede il “fraintendimento” che
Raggiunti imputa al Frege critico di Husserl – è proprio alla luce della tendenza
148
R. RAGGIUNTI, Introduzione a Husserl, op. cit. p. 15
Ibidem, p. 16
150
Ibidem, pp. 16-17
149
70
antiplatonica dell’opera del 1891 che dovrebbe venir inteso il tanto controverso
psicologismo husserliano:
Il cosiddetto psicologismo della Filosofia dell’aritmetica deve essere considerato
in questa prospettiva dell’antiplatonismo. […] Il carattere di necessità e idealità
degli oggetti della logica e della matematica, in questa prospettiva, non poteva
essere tale che per il soggetto, e in virtù delle operazioni [psichiche] del soggetto.
Ma tale riconoscimento implica che l’oggetto rinvia al suo correlato intenzionale,
che è il soggetto o coscienza151.
Questo significa il progetto teorico di Filosofia dell’aritmetica non poteva essere altro
che tendente a questo particolare psicologismo non naturalistico: d’altronde, se la teoria
husserliana della coscienza fa perno sulla fenomenologia come Wesensanschauung,
ossia come «scienza d’essenze», era logico che Husserl dovesse indagare l’essenza degli
enti matematici in quanto fenomeni che si danno come correlati ad una coscienza pura.
E, per questo motivo, era impossibile non prendere in considerazione il modo
psicologico attraverso cui la coscienza si rapporti a tali entità.
151
Ibidem, p. 17
71
72
Capitolo Terzo
L’ultimo Husserl: il problema delle scienze europee
3.1 La crisi del sapere scientifico europeo
Nota al lettore
Questo primo paragrafo del Capitolo Terzo si occupa di illustrare la ricostruzione
storica della scienza che Husserl propone nel suo testo del 1935, La crisi delle scienze
europee e la fenomenologia trascendentale. La trattazione sarà, come al solito,
completamente aderente al procedere dell’esposizione husserliana. In particolar modo,
però, non si discuterà assolutamente della validità o dell’invalidità della consapevolezza
storica della sua visione: ci si limiterà ad offrire un quadro esaustivo del pensiero
scientifico del maestro; riportando le sue argomentazioni ed esplicitando adeguatamente
i passaggi che potrebbero risultare di comprensione meno immediata.
3.1.1 Lo scenario
«Esiste veramente una crisi delle scienze, malgrado i loro continui successi?»,
questa domanda è il titolo del paragrafo d’apertura della Crisi delle scienze europee e la
fenomenologia trascendentale, testo pubblicato postumo, già citato, in cui Husserl
intende condurre un’attenta disamina del sapere scientifico allo scopo di trarne un
bilancio complessivo e verificare l’incidenza che esso ha avuto sul globale complesso di
conoscenze dell’umanità. Il lavoro che Husserl si propone in quest’ultima opera è
indubbiamente complesso ed è di importanza estrema per l’intera storia della cultura, ed
è reso possibile dallo sguardo attento e non superficiale con il quale egli osserva e
interpreta i cambiamenti che hanno percorso e percorrono il suo tempo. A livello
cronologico ci troviamo nei primi anni trenta del Novecento, nel 1935 per l’esattezza, in
un’Europa ancora sconvolta dagli esiti della Grande Guerra e in balìa di un clima
politico fortemente instabile. È semplice constatare come – soprattutto in relazione alla
Grande Guerra – vi siano stati enormi passi avanti nel campo della scienza e della
tecnologia, discipline che, gradualmente, hanno accresciuto considerevolmente e
73
intensamente le loro possibilità e le loro conoscenze. Il destino della scienza è
l’accrescimento delle proprie conoscenze e del proprio raggio d’azione: giunta ad un
certo obiettivo e guadagnato una teoria, lo scienziato sa bene che – potenzialmente – la
speculazione scientifica è infinita. Possono essere continuamente elaborate nuove teorie,
nuove scoperte, contribuendo all’incremento della conoscenza scientifica. Nonostante
l’inarrestabilità che sembra dominare gli scienziati e le teorie scientifiche, alcune volte è
bene fare il punto della situazione e riflettere sulle produzioni della scienza, al fine di
verificare se esse possono realmente contribuire al bene dell’umanità oppure stiano
assumendo derive pericolose che è prudente arrestare in tempo. A questo sono dedicate
le pagine del testo in questione, e Husserl vuole concedersi del tempo e dello spazio per
ragionare da filosofo sulla scientificizzazione della realtà che vede inesorabile compiersi
di fronte ai suoi occhi. Egli stesso afferma che:
Tuttavia, può darsi che ci vengano incontro motivi che ci inducano a sottoporre a
una critica seria e peraltro estremamente necessaria la scientificità di tutte le
scienze, pena pertanto rinunciare al primo senso della loro scientificità, quel senso
che è inattaccabile data la legittimità delle sue operazioni metodiche152.
Senza voler pretendere di attaccare il metodo delle scienze e il «primo senso» in cui una
scienza si dice scientifica, cioè il suo procedere attraverso metodologie matematiche di
misura, confronto e relazione fra grandezze, Husserl si pone semplicemente l’obiettivo
di sondare il significato e l’orizzonte ultimo di azione delle scienze contemporanee.
Detto altrimenti, si propone di verificare quanto il panorama complessivo delle scienze
naturali del suo tempo contribuisca ad effettivi incrementi in termini di benessere e
conoscenza per l’umanità. Alcune considerazioni preliminari in merito lasciano
intendere che il giudizio husserliano non sarà né positivo né poco severo:
Il rivolgimento dell’atteggiamento generale [nei confronti delle scienze] del
pubblico fu inevitabile, specialmente dopo la guerra, e sappiamo che nella più
recente generazione esso si è trasformato addirittura in uno stato d’animo ostile.
Nella miseria della nostra vita – si sente dire – questa scienza non ha niente da
dirci153.
In effetti, come continua a far notare il filosofo, la scienza sembra aver completamente
dimenticato l’esistenza di una dimensione esistenziale dell’uomo il quale, in un’epoca
152
153
74
E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee…, op. cit., pp. 34-35
Ibidem, p. 35
travagliata quale è l’inizio del Novecento, non manca di porsi domande sempre più
insistenti in relazione al senso e alla finalità della sua vita. Aggrappata a un paradigma
sempre più asettico ed elusivo della sfera propriamente umana della realtà e degli
uomini, la scienza progredisce: ma quanto può rendere ragione dell’essenza
dell’umanità e del fine e del destino ultimo della sua ricerca? Niente, perché «la mera
scienza di fatti non ha nulla da dirci a questo proposito»154. Ottima come metodo di
analisi e spiegazione di fatti isolati, la scienza contemporanea – sempre più specializzata
e settorializzata – si trova impossibilitata nel compito di pronunciarsi sulla globalità
della realtà circostante ed è incapace di venire incontro alle esigenze più umane della
società. Nel prossimo sottoparagrafo, sempre rimanendo fedeli al procedere delle
argomentazioni di Husserl, verranno presentate le cause che hanno portato, a suo
giudizio, in crisi il sapere scientifico; per giungere poi ad esporre la sua soluzione al
problema, racchiusa all’interno di un’unica parola: Lebenswelt, ovvero mondo-dellavita, orizzonte di origine e di destinazione di qualunque scoperta scientifica.
3.1.2 Il Rinascimento dimenticato
Il giudizio di Husserl sulla condizione delle scienze positive a lui contemporanee,
le «mere scienze di fatti», è piuttosto critico e deciso: queste scienze, come si è detto più
sopra, sono del tutto prive di risposta alle domande ed ai bisogni “più umani” degli
uomini. Fisse esclusivamente sul loro ambito di ricerca, non riescono a volgere lo
sguardo sopra il loro orizzonte e a farsi le portavoce del benessere anche spirituale
dell’umanità. Husserl chiarisce, però, che questa condizione – che tratteggia una
situazione particolarmente critica e molto poco ottimistica – è tipica solo della scienza
novecentesca: vi sono state epoche nelle quali la scienza era materia ben diversa da
quella che era comunemente intesa negli ambienti accademici del suo tempo. In questi
tempi ormai andati, il rigido obiettivismo scientifico non era l’unico scopo e
fondamento della conoscenza scientifica; la speculazione scientifica non era
semplicemente ridotta a misurazioni e formulazione di equazioni adatte a descrivere al
meglio lo stato di cose che lo scienziato manovrava davanti a suoi occhi. Con un poco
(forse) di nostalgia, il filosofo moravo annota che:
154
Ibidem, p. 36
75
Non sempre gli interrogativi specificamente umani sono stati banditi dal regno
della scienza e non sempre ne sono state misconosciute le intime relazioni con tutte
le scienze, anche con quelle che (come le scienze naturali) non hanno come tema
l’uomo155.
Questi “anni d’oro della scienza”, che Husserl descrive nelle prime pagine della Crisi
delle scienze europee, sono quelli dell’epoca rinascimentale, come ci informa nel § 3
del primo capitolo del suddetto testo. Egli descrive l’epoca rinascimentale come il
periodo nel quale l’umanità si libera dall’eredità medievale, fondata su un universo
valoriale riconducibile all’autorità della Chiesa e alla concordia fra istituzione civile e
spirituale, per «plasmare se stessa in piena libertà»156: essa si dà un nuovo codice di
valori, un nuovo ordine civile ed un nuovo ordine morale. Nell’umanità dei tempi
classici, greci e latini, oscurati negli anni medievali dall’imporsi dell’auctoritas biblica,
il Rinascimento vede l’esempio ideale di società: libera, indipendente da vincoli e
costrizioni imposte, capace di orientare se stessa ponendo l’uomo come «misura di tutte
le cose». Husserl si spiega così:
Che cosa considera essenziale [l’uomo rinascimentale] dell’uomo antico? Dopo
qualche esitazione, nient’altro che la forma «filosofica» dell’esistenza: la capacità
di dare liberamente a se stessa, a tutta la propria vita, regole fondate sulla pura
ragione, tratte dalla filosofia. La prima cosa è la teoresi filosofica157.
L’aspetto che egli considera fondamentale rispetto alla rifondazione culturale operata
dal Rinascimento è l’ampio spazio che viene concesso alla filosofia e alla speculazione
teoretica: in effetti, servendosi delle dottrine filosofiche degli antichi e esercitandosi nel
pensiero e nella riflessione sulla realtà circostante, gli uomini di quell’epoca hanno
elaborato una nuova concezione di se stessi, rivoluzionaria se paragonata a quella di
qualche decennio prima. Husserl sottolinea come, servendosi del metodo della teoresi
filosofica, i rinascimentali siano stati in grado di far cadere le dimensioni miticomagiche medievali, di elaborare una «considerazione razionale del mondo»158, ossia non
più filtrata dalle strette maglie dell’autorità, di scoprire un télos che è razionalmente
rinvenibile in qualsiasi aspetto del reale e di pervenire ad una concezione di uomo quale
soggetto attivo nel mondo, vero attore in prima persona della propria formazione e della
155
Ivi
Ibidem, p. 37
157
Ivi
158
Ivi
156
76
propria autodeterminazione. Il filosofo moravo, in queste pagine della Crisi delle
scienze europee, insiste particolarmente sul concetto di «libera ragione», espressione
che compare insistentemente nel testo: essa sottolinea una volta di più il carattere di
emancipazione che l’uomo e la conoscenza avevano sperimentato in quest’epoca nuova,
descritta dallo stesso Husserl come una radicale inversione di tendenza rispetto alla
tradizione medievale. Quando la ragione è libera, e quindi si può ragionare e pensare
secondo stili personali non necessariamente conformi alle prescrizioni di testi ed
istituzioni, la società comincia a modificarsi pian piano, l’uomo acquisisce
un’autonomia crescente e pure la conoscenza diviene passo passo più estrosa, creativa e
– in una parola – davvero innovativa rispetto al pensiero del passato. In questo clima,
sorge una nuova concezione di filosofia, che Husserl descrive come una «scienza
onnicomprensiva», cioè una «scienza della totalità dell’essere»159. Egli fa notare come,
quando accade che il pensiero teoretico si sviluppi in modo energico, sia impossibile
arrestarne la corsa; ed il risultato che si produce è la riconduzione di ogni scienza e di
ogni conoscenza a tale pensiero universale. Nella prima età moderna, in epoca
rinascimentale, Husserl vede chiaramente la filosofia, quale scienza dell’essere, rivestire
di sé ogni altra scienza, la quale affina e dà un senso alla propria metodologia nel sapere
filosofico. Ciò equivale a dire che nella scienza, nella storia e, più in generale, nella vita
vi è una teleologia che merita di essere studiata e che vale la pena scoprire: la filosofia
come datrice di senso permette all’uomo di far sì che la propria ricerca, resa possibile
dalla propria abilità e qualità intellettuale, non si riduca ad un semplice risultato
individuale, ma diventi condivisa all’interno di un bagaglio conoscitivo-esperienziale
più ampio, universale. Inoltre, il senso della conoscenza si ricapitolava in maniera
logica all’interno delle giustificazioni fornite dal sapere filosofico, formando una
conoscenza non contradditoria e sempre valida, in qualunque applicazione:
Un’unica costruzione [gnoseologica] procedente all’infinito, di generazione in
generazione, e costituita da verità definitive e teoreticamente connesse doveva
dunque recare una soluzione a tutti i problemi possibili – ai problemi di fatto come
ai problemi razionali, ai problemi della temporalità come ai problemi
dell’eternità160.
159
160
Ibidem, p. 38
Ivi
77
Bastano queste poche righe per chiarire la portata vasta e universale della gnoseologia
rinascimentale: l’intera conoscenza riportata e rapportata alla totalità dell’universo
umano, al complesso dei suoi bisogni, dei suoi problemi, delle sue necessità non solo
più specificatamente scientifiche, ma anche umane e sociali.
3.1.3 Questione di fallimenti
La scienza e la conoscenza che stanno sotto gli occhi di Husserl, non è difficile
immaginarlo, sono ben lontane dal cavalcare questi ideali e dal fare proprie le tesi
rinascimentali. Con l’avanzare delle epoche avanzano anche le mentalità e, di
conseguenza, anche il modo di far scienza si vede necessariamente costretto a cambiare
prospettive.
Non
necessariamente
un
cambiamento
va
nella
direzione
del
miglioramento, o comunque non è detto che debba riscontrare il favore unanime: Di
fronte alla scienza a lui contemporanea, Husserl non assume un atteggiamento
conciliante; la sua avversione al paradigma dominante è talmente accesa che si spinge a
giudicarlo fallimentare. Le tendenze novecentesche del sapere scientifico avevano
spinto quest’ultimo verso il positivismo, e anche la filosofia vi si era adeguata 161: il
logicismo e l’adeguamento della filosofia alla scienza avevano scardinato con forza le
sue riflessioni dalla totalità dell’essere. Lontana dallo svolgere il compito di una scienza
onnicomprensiva, un’ermeneutica del mondo e della vita, la filosofia positivistica si
stava sforzando di comprendere settori sempre più specialistici del mondo, si stava
sempre più concentrando su questioni specifiche dimenticandosi di assumere uno
sguardo generale sulla realtà circostante. Dimentico dell’uomo come soggetto
conoscente, il positivismo è unicamente interessato alla validità logica del conoscere, a
che esso rispetti le prescrizioni che la scienza logica ha stabilito e ha sancito. Le
speculazioni sull’Essere, sulla natura intesa come flusso vivo e sull’uomo come essere
intelligente calato in questa realtà erano completamente fuori luogo. L’esigenza della
161
La filosofia di stampo positivistico nasce dalla riflessione dei componenti del Circolo di Vienna,
un’importante associazione culturale costituitasi nella capitale austriaca nel 1929. La riflessione del
Circolo di Vienna, che annovera alcune figure centrali del Novecento come Carnap, Popper e Kuhn, si
concentra prevalentemente sulla possibilità di accordo della filosofia con le scienze matematiche e
fisiche. Il connubio fra filosofia e scienza dà origine, nei primi anni del XX secolo, alla filosofia di
stampo analitico, la quale si pone il dichiarato obiettivo di conformarsi in modo sempre più perfetto alla
scienza ed al suo metodo.
78
scienza positivistica è di tipo obiettivo: misurare, conoscere, configurare nuove
conoscenze conseguite attraverso il lavoro delle equazioni, sempre più numerose e
multifunzione, e della tecnica. Husserl non manca di far notare come questo tipo di
scienza, oltremodo obiettivizzata e tecnicizzata, sia una mera costruzione teorica, una
serie di dottrine che hanno acquistato rigore perché logicamente formalizzate, ma che
possono descrivere la realtà fino a un certo punto: la loro esigenza è di semplificare il
mondo reale per farlo rientrare in un’equazione. Non è importante cogliere la
complessità della costruzione del mondo esterno, è sufficiente semplificarlo al fine di
poterlo dominare scientificamente. È abbastanza evidente che questo processo, sebbene
sembri essere di grande ausilio alla crescita della conoscenza, provoca un distacco
pesante dello scienziato in quanto uomo dalla realtà; egli mancherà di percepirla nella
sua singolarità e nella sua unicità poiché, in fin dei conti, la logica e la scienza positiva
non cercano di assumere un atteggiamento individualistico, ma di universalizzare le
leggi (anche in modo, a volte, brutale), per avere la possibilità di padroneggiare una
serie sempre più ampia di fenomeni, formalizzandole attraverso metodi specifici. Per
offrire un esempio pratico e semplice del metodo di formulazione di leggi
generalissime, basti considerare questo esempio: una situazione concreta complessa in
cui si vuole studiare se è la norma che dalla condizione A si passi alla condizione B. Lo
scienziato positivista cerca induttivamente conferme a questa conseguenza logica,
annotando i risultati delle situazioni sperimentali che egli stesso, semplificando la
dinamica degli eventi, ha riprodotto in un laboratorio sicuro. Poniamo che i risultati
siano i seguenti:
1)
nel 97% dei casi
2)
nel 3% dei casi
Posto che il 3% dei casi sfavorevoli può essere dovuto a condizioni non pienamente
soddisfatte nel laboratorio a causa di impossibilità pratiche, se esiste un’equazione che
descrive facilmente il passaggio da A a B, è possibile trascurare completamente le
variabili che hanno portato a non far verificare il processo in esame. Fingendo che
l’equazione sia stata trovata con successo dal ricercatore e che abbia confermato il dato
del caso 1, allora è possibile concludere che vale sempre che
. All’uomo
79
di scienza non importa né considerare l’intima singolarità né di A né di B, né tantomeno
di considerare il valore unico ed irripetibile di ciascuna condizione sperimentale e, a
maggior ragione, di istituire una differenza fra ciò che è realtà e ciò che è riproduzione
laboratoriale, fra ciò che è realtà reale e ciò che è, invece, teoria ideale (in quanto non
ontologicamente reale) dei fatti del mondo. Alla lunga, l’assunzione di tale
atteggiamento semplificatorio e dimentico della specificità della natura e del mondo,
porta verso uno svuotamento del vero significato dell’esistenza: a un’apparentemente
smisurata crescita del dominio della conoscenza si accompagna un inevitabile
incremento delle domande ultime (o prime) di senso che l’uomo continua a porsi su se
stesso e sull’evento della vita, che – evidentemente – non si sopporta di restringere in
formule matematiche e in equazioni preconfezionate. Husserl è nuovamente lapidario:
Ma anche i ricercatori ricolmi di spiriti filosofici e perciò fondamentalmente
interessati ai supremi problemi metafisici, avvertirono un sentimento sempre più
inquietante di fallimento; un sentimento che in essi aveva motivi più profondi per
quanto oscuri, una protesta sempre più chiara contro l’ammissione, profondamente
radicata, delle ovvietà dell’ideale dominante162.
In effetti, è proprio una questione di fallimenti: per Husserl la scienza contemporanea è
fallimentare rispetto a quelli che dovrebbero essere i suoi compiti specifici perché ha
dimenticato il senso intimo di se stessa: è come se la scienza non “sapesse” più “fare la
scienza”, e avesse dimenticato quali sono gli obiettivi che dovrebbe permettere di
conseguire all’umanità. Potrebbe sembrare che l’amarezza di Husserl rispetto al
paradigma positivistico voglia coincidere con un’esclusiva rivalutazione della
metafisica e delle scienze dello spirito, cioè con una necessità di focalizzare l’attenzione
unicamente sulle questioni finalistiche e di senso per non dedicarsi ai lavori delle
scienze di fatto. Questa non è, tuttavia, la prospettiva del filosofo moravo, il quale – con
molta onestà – riconosce sia l’inattaccabilità pratica del metodo positivo delle scienze di
fatto che lo statuto delle questioni metafisiche relative alla ricerca scientifica. Anzi,
dichiara che la possibilità della fondazione di una metafisica scientifica è intimamente
legata al sussistere delle scienze positive, ma precisa che la loro unione deve darsi
solamente all’interno della filosofia, che lavora in qualità di sapere unificante 163. Il
fallimento della scienza contemporanea, dunque, è formulabile nei termini di un
162
163
80
E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee…, op. cit., p. 40
Ibidem, p. 41
distacco progressivo della scienza dei dati di fatto (scienza positivistica) dalla metafisica
e, come conseguenza, dal sapere filosofico unificante donatore di senso e
teleologicamente orientato. Compito della filosofia universale era trovare l’unità ai vari
settori dell’essere, la ragione aveva il compito di determinare l’essere, studiarne le
caratteristiche e elaborare un’ontologia regionale descrittiva della sua conformazione e
delle sue diramazioni. Se la ragione viene meno al proprio compito metafisico poiché
ritenuto superfluo e privo di valore per una scienza unicamente basata su risultati
calcolistici e sperimentali, allora viene meno la filosofia. E, siccome da sempre le
scienze moderne sono state fortemente unite, come abbiamo visto, nella filosofia; da ciò
consegue che viene necessariamente meno anche la scienza. Il venire meno della
scienza rispetto ai suoi compiti conoscitivi e giustificativi corrisponde, come è intuitivo
comprendere, alla sua profonda crisi; la crisi delle scienze europee che sono
inesorabilmente viste crollare alle fondamenta dagli occhi allarmati di Edmund Husserl.
Le stesse parole con le quali egli descrive questa situazione sono dense di
preoccupazione, e suonano quasi come un appello all’umanità intera affinché prenda
completa coscienza della situazione critica del sapere scientifico che, per forza di cose,
ha anche ripercussioni su di lei:
La crisi della filosofia equivale a una crisi di tutte le scienze moderne in quanto
diramazioni dell’universalità filosofica; essa diventa una crisi, dapprima latente e
poi sempre più chiaramente evidente, dell’umanità europea, del significato
complessivo della sua vita culturale, della sua complessiva «esistenza»164.
Una crisi culturale di dimensioni europee, originatasi da una falla apertasi nella
concezione del sapere filosofico e scientifico, la quale ha provocato una separazione
netta degli ambiti filosofico-metafisico e scientifico, non può non destare l’attenzione
degli uomini di cultura europei. Essi devono sentirsi chiamati in prima persona a
studiare e comprendere le ragioni di una tale circostanza, la cui emergenza è evidente e
trasversale a più ambiti del sapere.
164
Ivi, pp. 41-42
81
3.1.4 Un’onesta assunzione di responsabilità
Di fronte ad una crisi così ampia e conclamata, di fronte ad una svalutazione della
filosofia come scienza universale, cosa può fare l’uomo di cultura? Cosa può fare il
filosofo che legge le contraddizioni e le criticità dello spirito del tempo contemporaneo?
Il suo compito, osserva Husserl, è tutt’altro che marginale: il filosofo deve rimettersi in
gioco e deve, con convinzione, migliorare e modificare il mondo che trova di fronte a
sé. Husserl dichiara che in un clima simile non vi è spazio per nessun dibattito filosofico
sterile né per scontri su dottrine in competizione. Non è nemmeno possibile, aggiunge,
fare filosofia rimanendo comodamente seduti in uno studio a deliberare sull’astratto. Il
compito del filosofo in un mondo di crisi è ben altro, e richiede un’elevata attività. Se,
come li definisce Husserl, i filosofi sono i «funzionari dell’umanità»165, è necessario che
essi avvertano tutto l’onere di questa nobile definizione, e lavorino affinché la
conoscenza possa, a tutti gli effetti, ritornare a dirsi universale. La filosofia ha
dimostrato il suo fallimento di fronte al positivismo, ma essa è sempre risorta da ogni
crisi: anche la crisi delle scienze europee, sostiene il padre della fenomenologia, deve
essere un’occasione affinché il sapere filosofico ritorni al suo antico splendore con
rinnovata forza e rinnovato entusiasmo. Il terreno sul quale si gioca la partita dell’ultima
opera di Husserl è, appunto, quello della responsabilità individuale dei filosofi: ognuno
di loro deve contribuire e collaborare a migliorare l’immagine e il ruolo delle scienze
contemporanee. Partendo da queste linee programmatiche si dipana l’intera costruzione
architettonica dell’ultima opera del maestro, che si presenta come una ricostruzione
dell’intera storia della filosofia e una valutazione sulle ultime frontiere della psicologia
sperimentale. Percorrendo la storia del pensiero egli è in grado di mettere in risalto i
nuclei centrali delle idee di ciascun pensatore, evidenziando la specificità del pensiero
di ciascuno e valutandolo alla luce delle tendenze generali del periodo. Il confronto
finale con la psicologia sperimentale, disciplina formatasi nell’alveo della scienza
positiva, gli consente di introdurre il discorso relativo all’entrata in crisi delle scienze,
che esamineremo nel prossimo capitolo. Leggendo il testo non è difficile percepire quel
graduale allontanamento da una prospettiva filosofica universale che Husserl
diagnostica alla scienza e alle idee: le radici della crisi novecentesca sembrano
ravvisarsi già nelle costruzioni filosofiche seicentesche; l’epoca della nascita della
165
82
Ibidem, pg. 46
scienza
moderna
viene
visualizzata
da
Husserl
come
l’anticipazione
di
quell’atteggiamento unicamente misurativo ed impersonale che sarà tipico dello stile
scientifico contemporaneo. Particolarmente toccanti e dense di significato sono le righe
che concludono la prima parte dell’opera, La crisi delle scienze quale espressione della
crisi radicale di vita dell’umanità europea:
Io cercherò di ripercorrere le vie che io stesso ho percorso, non di addottrinare;
cercherò semplicemente di rilevare, di descrivere ciò che vedo. Io non ho
nessun’altra pretesa se non quella di poter parlare, innanzitutto di fronte a me
stesso e quindi di fronte agli altri, con conoscenza di causa e in piena coscienza,
come uno che ha vissuto in tutta la sua serietà il destino di un’esistenza
filosofica166.
Forti di questo metodo dai caratteri critici e fenomenologici, occorre addentrarsi nello
status quaestionis cioè, in altre parole, descrivere – seguendo Husserl – l’originarsi
della crisi, rilevare il dipanarsi del suo percorso nella storia del pensiero e presentare la
strategia che il filosofo propone grazie alla peculiarità del metodo fenomenologico per
riuscire a venire a capo del problema delle scienze europee.
3.2 Dalla riforma della matematica alla fenomenologia del Lebenswelt
3.2.1 «La natura è un libro scritto in lingua matematica». Galileo e la genesi del
metodo scientifico
La matematica (e dunque, anche la geometria) sono – e lo si può dire senza alcun
timore – le discipline più antiche del mondo: l’antica Grecia è stata il luogo privilegiato
in cui esse si sono forgiate e si sono sistematizzate. Esponenti degni di nota come
Euclide hanno contribuito a fondare le leggi della prima matematica (e della prima
geometria), preparando il terreno sul quale i posteri avrebbero continuato ad arricchire il
patrimonio di conoscenze. La geometria antica era considerata un insieme di
conoscenze fondate su assiomi dai quali si deducono teoremi che si applicano a figure e
a casistiche che il geometra è in grado di manipolare e spiegare: tutto l’edificio della
166
Ibidem, pg. 47
83
matematica greca è in se stesso chiuso e non contradditorio; armonico rispetto al ciclo
della physis-forza viva naturale. Tuttavia, fa notare Husserl, con l’avvento dell’età
moderna cambia radicalmente il modo di intendere l’orizzonte ed il fine di queste
scienze:
[L’antichità] non arriva a riconoscere la possibilità di un compito infinito, quella
possibilità che per noi è ovviamente legata al concetto di spazio geometrico e al
concetto di geometria in quanto scienza di questo spazio167.
La geometria antica era concepita come un sistema idealmente completo e idealmente
chiuso, ed era impensabile una sua universalizzazione ed un suo utilizzo a fini pratici: il
complesso di conoscenze geometriche era, per l’appunto, un insieme teorematico, cioè
un sistema di leggi unicamente “da contemplare”168. Un utilizzo tecnico della
geometria, oltre che impensabile, sarebbe coinciso con una svalutazione profonda della
nobiltà della geometria come episteme, avrebbe significato “macchiare” la perfezione di
una scienza ideale con la bassezza e la praticità di un’applicazione meccanico-tecnica.
La scienza moderna, al contrario, inverte questo punto di vista e si concentra
esclusivamente sulla possibilità che la scienza (intesa come sinergia fra matematica e
geometria, sebbene la prima includa in se stessa la seconda) possa studiare la totalità
dell’essere, riconducendo la complessità e la poliedricità di quest’ultimo alle leggi
espresse dalle sue formule. Husserl parla di una «novità» relativamente alla concezione
del mondo e della scienza che si inaugura in età moderna, che è data da una «idea di
una totalità infinita dell’essere e di una scienza razionale che lo domina
razionalmente»169. Per rendere possibile una tale idea di scienza, è necessario – come
ricorda lo stesso Husserl – che la geometria si accosti alla matematica e si fonda con
essa: la matematica formale, ovvero la matematica che opera con simbologie e
procedure d’equazione e calcolo, è la disciplina che occorre affinché si possano
elaborare teorie scientifiche epistemologicamente solide per la descrizione della realtà.
Con Cartesio si inaugura la prospettiva della geometria come scienza analitica, la
167
Ibidem, p. 52
Il termine «teorema» rimanda al verbo greco theoreìn, che significa «contemplare», «osservare»,
«guardare». Si suppone che il termine «teorema» designasse, nell’antichità greca, una legge geometrica
talmente perfetta da poter essere solo osservata, contemplata e ammirata e non manipolata in alcun modo;
se non attraverso il lavoro mentale su figure ed entità geometriche ideali quali «il triangolo», «il
quadrato», «il cerchio» ed altre a seguire.
169
E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee…, op. cit., p. 52
168
84
cosiddetta «geometria analitica»170, alla quale è demandato il compito di esprimere
tramite equazioni la res extensa circostante all’uomo; semplificandone le forme
attraverso le idee geometriche innate che la tradurranno in equazioni rappresentabili
graficamente su di un piano cartesiano. La nuova scienza moderna esige, come si è
accennato anche nei paragrafi precedenti, semplificazione della complessità del reale,
matematizzazione dei fenomeni naturali, compressione degli stessi in una formula
“portatile” generalmente applicabile ed espressa di norma da un’equazione –
un’uguaglianza fra membri. Husserl si concentra attentamente attorno alla figura di
Galileo, ed occorre cercare di comprendere il perché di questa scelta, che è presto
spiegato: lo scienziato pisano è il fautore di quella che Husserl chiama «riforma della
matematica», che coincide con l’applicazione del metodo matematico formale da parte
della scienza alla realtà circostante al fine di spiegarla e di rendere esaurientemente
ragione del suo funzionamento. A suo giudizio, proprio con questo scienziato si
inaugura quell’atteggiamento che dà il titolo al § 9 della seconda parte della Crisi delle
scienze europee, la «matematizzazione galileiana della natura». Sebbene Galileo non
fosse ancora «un fisico nel senso odierno e pregnante della parola»171, egli porta avanti
un metodo che sarà invalso nella successiva pratica scientifica, basato sulla costruzione
di ipotesi, la loro verificazione mediante esperimenti semplici e l’elaborazione di leggi
sulla base dei riscontri ottenuti. Specialmente per quanto riguarda la pratica
sperimentale, fu inevitabile per lui mescolare il sapere geometrico con quello
matematico al fine di utilizzarlo a fini tecnici per l’indagine della natura:
La geometria, in quanto «applicata», era divenuta un mezzo della tecnica e la
guidava nella concezione e nell’adempimento dei suoi compiti: in particolare del
compito di elaborare sistematicamente una metodica della misurazione per la
170
La geometria analitica, nata con Cartesio, è la riconduzione delle forme geometriche ad equazioni
algebriche. Essendo le forme geometriche le soluzioni della rispettiva equazione (di primo grado per la
retta e di secondo grado, ad esempio, per la circonferenza), è possibile rappresentare una curva od una
retta in un piano cartesiano conoscendone, per l’appunto, la sua equazione; che ci dà notizie sulla natura
della curva, la sua inclinazione e le sue proprietà geometriche fondamentali. L’equazione tipica di una
retta è di primo grado ed assume la formula
, dove m è il coefficiente angolare che ci
fornisce informazioni sull’inclinazione della retta rispetto agli assi ortogonali, mentre q è la cosiddetta
«intercetta» che, se uguale a zero, ci informa che la retta passa per l’origine degli assi; l’equazione tipica
di una parabola, invece, è di secondo grado ed assume la forma
. La geometria
analitica rappresenta l’intento cartesiano di dominare la res extensa attraverso le forme geometriche
innate nella res cogitans, semplificandone le forme in linee e curve semplici descritte da equazioni o
lineari o meno.
171
E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee…, op. cit., p. 53
85
determinazione obiettiva delle forme, […] mediante l’approssimazione, agli ideali
geometrici delle forme limite172.
Ecco che, così, l’esperimento si trasforma in una macchina meccanica di simulazione
del contesto naturale, ma c’è dell’altro: le basi tecniche e geometriche con le quali esso
è stato approntato assicurano allo scienziato di poter descrivere elegantemente in
termini formali quanto esso dimostra. Il pratico induttivismo galileiano diventa un
veicolo innovativo per rendicontare il funzionamento della natura: l’uomo si ritrova fra
le mani mezzi logici sorprendenti attraverso i quali esprimere con sicurezza tutto ciò che
gli si presenta di fronte agli occhi. Non più schiavo di una natura sfuggente e che ama
nascondersi, come quella di eraclitea memoria, lo scienziato può finalmente penetrare
con la sicurezza del formalismo matematico, i meandri più scuri della natura. Anche se
non è presentato nella trattazione husserliana, si può addurre a fine esplicativo
l’apparato sperimentale che Galileo organizza nei Discorsi e dimostrazioni matematiche
intorno a due nuove scienze per spiegare la differenza che sussiste fra il moto rettilineo
uniforme ed il moto uniformemente accelerato: la struttura sperimentale galileiana ed il
suo modus operandi nell’affrontare la questione bastano da soli a chiarire quanto
Husserl sostiene a proposito, cioè la tecnicizzazione della geometria e la
formalizzazione matematica dei suoi asserti che si sviluppano a partire dal pensiero
scientifico della modernità. L’ipotesi originaria è che:
Quando […] osservo che una pietra, che discende dall’alto a partire dalla quiete,
acquista via via nuovi incrementi di velocità, perché non dovrei credere che tali
aumenti avvengano secondo la più semplice e più ovvia proporzione173?
Essa deve poter essere verificata e, allo scopo, Galileo prepara un esperimento
consistente in un piano inclinato segmentato (al fine di poter misurare lo spazio
percorso), un orologio ed un mobile. Egli fa scorrere il mobile dall’apice del piano
inclinato sino a valle, misurando la relazione che intercorre fra spazio percorso e tempo
impiegato, rilevando che:
172
in 1 segmento temporale è stato percorso 1 segmento di distanza
in 2 segmenti temporali sono stati percorsi 4 segmenti di distanza
Ibidem, p. 58
G. GALILEI, Discorsi e dimostrazioni matematiche attorno a due nuove scienze attinenti alla
meccanica e ai movimenti locali, 6, Edizioni Nazionali, vol. VIII, p. 191 (tr. it., 6, in 1958, p. 169)
173
86
in 3 segmenti temporali sono stati percorsi 9 segmenti di distanza
È intuitivo, per una mente allenata all’astrazione matematica della pratica geometrica
come quella di Galileo, notare che la distanza percorsa dal mobile è legata al quadrato
del tempo impiegato, secondo la famosa relazione per cui:
.
La fiducia di Galileo in tale metodo scientifico era così certa che egli, come fa notare
David Oldroyd, credeva effettivamente nel fatto che i risultati di un esperimento
potessero davvero essere una spiegazione teorica oppure una causa di un fenomeno174:
se indichiamo con p i risultati sperimentali e con q le teorie o le cause relative all’evento
in esame, per Galileo era automatico ragionare secondo la struttura logica del modus
ponens, concludendo che era necessario che sussistesse una relazione del tipo:
175
Senza addentrarci ulteriormente nella filosofia della scienza galileiana e nella
spiegazione dettagliata della sua modalità di lavoro scientifico, possiamo comunque
concludere che questo scienziato ha realmente rappresentato un punto di svolta degno di
attirare l’attenzione dei filosofi attenti e mai stanchi d’indagine come Husserl.
L’instancabilità teoretica del filosofo moravo ci porta ora alla necessità di discussione di
un altro scoglio direttamente derivato dalla nuova scienza e che caratterizza un aspetto
pregnante della crisi delle scienze d’Europa: la corrispondenza fra formula matematica e
realtà.
174
Cfr. D. OLDROYD, Storia della filosofia della scienza, tr. it. di L. Sosio, Net, Milano 2002, p. 76
Oldroyd sostiene l’idea che Galileo abbia realmente e fisicamente svolto gli esperimenti che descrive
in ciascuno dei suoi testi (contro, ad esempio, l’ipotesi del «Galileo platonico» che fornisce Alexandre
Koyré), e che egli creda fermamente nel rapporto di consequenzialità che si instaurerebbe fra riscontri
sperimentali e spiegazioni teoriche. Oldroyd si basa su studi filologici che hanno dimostrato l’interesse di
Galileo per il modus ponens (se p q, e p├ q) elaborato da San Tommaso d’Aquino, al quale si rifà
l’espressione cui questa nota si riferisce. Nel pensiero logico dell’Aquinate è possibile dedurre le cause
(q) dalle evidenze fenomeniche (p), al contrario di quanto afferma la moderna filosofia della scienza. In
simboli logici abbiamo che:
se p [se (se p q) q]
Giustamente, Oldroyd fa notare che un tale sistema di pensiero era assai funzionale e comodo in un’epoca
come quella medievale in cui si sentiva forte il bisogno di realizzare l’adhaequatio fra pensiero cristiano
ed aristotelico: nel regno della probabile incertezza di questa adeguazione era fondamentale avere una
conoscenza la più certa possibile, che consentisse di passare per via logica senza ulteriori “rimorsi”
dall’evidenza della filosofia naturale alle leggi della teologia cristiana. Nel clima contemporaneo,
dominato dall’indecidibilità di alcuni problemi scientifico-filosofici, la tecnica del modus ponens suona
indubbiamente poco convincente.
175
87
3.2.2 Mondo naturale e matematica formale. Quale distanza?
Un problema radicale con il quale Husserl si confronta nei sottoparagrafi f e g
del § 9 della Crisi delle scienze europee è l’adeguazione della scrittura formale con la
realtà; in particolare il filosofo si chiede se esiste la possibilità di riempire con un senso
le formule che la scienza ci consegna. Il rischio, se no, sarebbe quello di operare con
scritture prive di qualsiasi referenza con la realtà, e ciò segnerebbe il fallimento del
progetto scientifico contemporaneo. Innanzitutto, Husserl chiarisce che cosa sia una
formula e per cosa venga utilizzata: essa è una «idealità matematica» che racchiude in
sé (come si è già accennato più sopra) la semplificazione di un evento naturale che si
manifesta ordinariamente in determinate circostanze. Essa permette di prevedere il
comportamento del sistema in esame grazie alla particolare coordinazione degli
elementi che la compongono: le relazioni operative di carattere matematico che legano
le grandezze presenti in una formula sono le effettive responsabili della corretta
descrizione dei fenomeni. Nel caso del moto uniformemente accelerato di Galileo, ad
esempio, è fondamentale che gli operatori algebrici delle formule siano la
moltiplicazione e l’elevamento a potenza. Lo scienziato, quindi, semplicemente
osservando come sono coordinati fra di loro i membri di un’equazione, è in grado di
prevedere l’evoluzione dell’evento che essa descrive. La formula scientifica, a tutti gli
effetti, è apparsa la chiave per dominare la conoscenza della realtà. In secondo luogo, le
equazioni hanno un carattere assolutamente generale, le eventuali eccezioni sono ben
documentate, possono essere utilizzate da ciascuno che abbia una buona competenza
delle operazioni formali dell’aritmetica. Non si precludono a nessuno, e il loro raggio di
spiegazione dei fenomeni cui si riferiscono pretende di avere portata universale: le
formule scientifiche sono leggi universali. I nuovi scienziati elaborano regole ad arte
affinché le proposizioni formali esprimano tutta la propria potenza: il nuovo metodo
scientifico inaugurato da Galileo, puntualizza Husserl, passa anche attraverso
l’elaborazione di rigide regole per la costruzione e la risoluzione delle leggi scientifiche
forgiate grazie alla formalizzazione aritmetica. Il «vecchio pensiero aritmetico», come
lo chiama il filosofo, si allarga di colpo, e arriva a conoscere una fase nuova:
88
Esso diventa un pensiero a priori libero, sistematico, purificato da qualsiasi realtà
intuitiva, un pensiero che considera soltanto i numeri in generale, i rapporti
numerici, le leggi numeriche176.
Ma proprio in questa trasformazione del «pensiero aritmetico» si trova il pericolo più
grande che Husserl avverte, il quale investe l’intera natura e il senso della ricerca
scientifica umana: «Il senso delle formule sta nelle idealità, mentre tutto il faticoso
processo di ricerca che porta ad esse ha soltanto il carattere di un mezzo verso il
fine»177. In altre parole, la formula, l’equazione matematica sono il semplice prodotto
della mente umana che interpreta secondo schemi prestabiliti i risultati conseguiti
attraverso la tecnica e l’osservazione seprimentale. È naturale che Husserl, giunto a
questo stadio delle proprie considerazioni, giudichi che – rispetto alla nuova matematica
formale – sta nascendo un «nuovo orizzonte di senso». Quest’orizzonte è
completamente innovativo perché inaugura una concezione nuova della matematica e
della scienza; discipline che, dall’età della Nuova Scienza in poi, saranno chiamate a
lavorare sempre più su paradigmi ideali e formali (le formule e le elaborazioni
algebriche della natura) non curandosi più di evadere quesiti di ordine differente
dall’ambito strettamente tecnico-applicativo. Avanzando nelle epoche storiche, questa
nuova tendenza continua ad evolvere, finendo con il diventare l’unica modalità
metodologica scientifica riconosciuta: agli scienziati viene sempre più utile e comodo
lavorare sulle situazioni semplificate e spogliate della loro radicale effettività,
prevedendo tramite gli strumenti matematici in loro dotazione l’evoluzione
dell’Universo e del mondo. Il sogno e l’illusione di manovrare la natura con semplici
lettere, operatori e numeri sembra essere ormai una chiara realtà:
Agiscono ora soltanto quei modi di pensiero e quelle tecniche che sono
indispensabili a una tecnica come tale. Si opera con lettere dell’alfabeto, con segni
di collegamento e di relazione (
) e secondo le regole del giuoco delle
loro coordinazione; si procede in realtà in un modo che non è sostanzialmente
diverso da quello del giuoco delle carte o degli scacchi178.
Il clima di queste prime pagine di Obiettivismo e soggettivismo è denso di
preoccupazione per il destino della scienza e della successiva ricerca; il timore diffuso
nel filosofo moravo investe l’intera conoscenza e l’intero destino dell’umanità:
E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee…, op. cit., p. 73
Ibidem, p. 77
178
Ibidem, p. 75
176
177
89
procedere nella ricerca scientifica senza interrogare gli aspetti più umani di questa, o
comunque senza tener conto dell’essenzialità viva della natura che si studia. Il progetto
della matematica formale, che si risolve nell’apoditticità delle formule che produce,
comporta, secondo Husserl, un vero distacco fra la realtà e la formula matematica. La
distanza fra le due è indubbiamente alta, ed è auspicabile che un uomo di cultura e di
scienza come lui si adoperi per salvare questa situazione controversa e pericolosa. Il
distacco formula-realtà è uno dei principali fattori che hanno svuotato di senso le
scienze europee e che ne hanno determinato la crisi, unitamente alla perdita d’interesse
– da parte di queste ultime – per le domande spiritualiattraverso le quali avrebbero
potuto rendersi utili, buone e genuine per l’umanità. Mediante l’analisi dei passi
successivi della Crisi delle scienze europee seguiremo Husserl nell’elaborazione di una
teoria filosofico-fenomenologica del superamento della condizione formalistica e
positivistica della scienza, che porterà ad approdare al Lebenswelt, l’husserliano
“paradiso” del mondo-della-vita.
3.2.3 Fenomenologia dell’esperienza scientificaμ il Lebenswelt come chiave di
ristabilimento del senso della ricerca scientifica
Il percorso husserliano di analisi e indagine attorno ai temi e ai metodi delle
scienze europee, come si è evidenziato precedentemente, ha origine con lo studio della
concezione scientifica rinascimentale, che vede un costante intreccio fra scienza e
filosofia. Le questioni scientifiche in senso stretto non possono mai essere disgiunte da
un universo filosofico che le contiene e che fornisce loro un senso all’interno di una
cornice più ampia di conoscenze che travalica le barriere della scienza tout court. La
scienza moderna e, di riflesso, anche quella novecentesca, registrano – e lo si è discusso
prima – un brusco distacco fra le due discipline: filosofia e scienza sembrano non avere
più nulla da spartire, sembrano non essere più l’una necessaria a garantire i fondamenti
dell’altra. L’orizzonte rinascimentale, che aveva rappresentato la via di conciliazione di
questi saperi (e di tutto il sapere), ora è definitivamente tramontato. Una causa, secondo
Husserl, fu la scienza moderna, l’atteggiamento matematico-formalistico di Galileo che
aveva ridotto a forma numerica ed espressione geometrica qualunque aspetto della
realtà viva, della natura-in-azione intorno a noi stessi. Ma c’è di più, e sarebbe riduttivo
90
imputare a Galileo la resposabilità di aver generato una situazione così grossa e
complessa. Per cui seguiremo il filo del discorso husserliano che si delinea a partire dal
sottoparagrafo h di Obiettivismo e soggettivismo, mettendo in risalto di volta in volta i
nuclei fondamentali delle analisi del maestro. Il filosofo moravo mette immediatamente
in luce, con un’espressione chiara, pulita e diretta il problema fondamentale che ha
permesso l’entrata in crisi delle scienze, che denomina «problema radicale»: a suo
giudizio la difficoltà più grossa delle scienze contemporanee è data dal fatto che «il
senso proprio del metodo, delle formule, delle «teorie» rimanesse incomprensibile e che
durante l’elaborazione ingenua del metodo non venisse mai compreso»179. Questa secca,
autorevole frase raccoglie in sé l’essenza della preoccupazione di Husserl: una scienza
che procede nella definizione di metodi formali dei quali non conosce né il senso né
l’orizzonte d’uso e d’utilizzo è destinata a fallire. È destinata a fallire poiché, persa nei
problemi formali, dimentica di conoscere la sua funzione, il suo scopo, la sua missione.
Per riprendere un’efficace metafora husserliana, un tale metodo scientifico assomiglia
molto ad una macchina che, dotata di regole ben chiare e definite, può essere utilizzata
da ciascuno; anche se non conosce il fine per il quale la sta adoperando. Valutando
quest’idea della matematica come un suo profondo discredito, Husserl, retoricamente, si
chiede se:
[…] è possibile che la geometria, la scienza siano state progettate fin dall’inizio
come una macchina, come il prodotto di una metalità perfetta […], di una mentalità
scientifica?180
Questa domanda racchiude in sé una questione fondamentale, che diverrà il cuore del
programma filosofico della Crisi delle scienze europee, quella legata alla ricerca delle
basi trascendentali della ricerca scientifica, ovvero dei suoi fondamenti e dei suoi
principi primi. Non mettere a tema il discorso filosofico in merito alla fondazione
trascendentale della scienza significa proseguire ancora più velocemente verso la strada
della crisi, eliminando qualsiasi possibilità di emersione da quest’ultima. In particolare,
sia Husserl che il suo autorevole specialista italiano Renzo Raggiunti, ribadiscono a
gran voce la necessità di uno studio fenomenologico dell’epistemologia della scienza al
fine di preservarla dall’essere una teoria ideale, composta di meri simboli e vesti formali
179
180
Ibidem, p. 81
Ivi
91
non effettivamente rappresentanti la realtà così com’è. La proposta di Husserl consiste,
pertanto, nell’elaborazione fenomenologica del concetto di Lebenswelt, tradotto in
italiano come «mondo-della-vita», inteso come modalità pre-scientifica e pre-idealistica
del fare scienza, tipica di ciascun individuo. Occorre però procedere con ordine:
nuovamente, saranno gli studi di Raggiunti a guidare l’esposizione delle tematiche della
fenomenologia del Lebenswelt, in modo tale da poter ottenere un quadro esaustivo del
problema in esame. Per questo motivo, occorre ritornare al tema già accennato
dell’idealità della ricerca scientifica, riportando le considerazioni dello studioso italiano;
il quale scrive che:
L’abito ideale [della scienza] fa sì che noi prendiamo per il vero essere quello che
invece è soltanto un metodo, un metodo che deve servire a migliorare mediante
«previsioni scientifiche» in un progressus ad infinitum le previsioni grezze, le
uniche possibili nell’ambito di ciò che è realmente esperito ed esperibile nel
mondo-della vita181.
Raggiunti vuole sottolineare la rinnovata preoccupazione di Husserl per un massiccio
svuotamento di senso del metodo scientifico che, come già si è visto, dall’epoca
moderna in avanti si è avvalso di metodi formali dalla dubbia aderenza alla realtà. Per
questo motivo, Husserl propone un percorso a ritroso in stile fenomenologico: a partire
dalla situazione critica attuale, il filosofo moravo si propone di analizzare i fondamenti
della conoscenza scientifica, cercando di ottenere il «senso storico della fondazione
originaria»182. Come fa notare, giustamente, il filosofo italiano, per recuperare l’intimo
senso della storia e la sua essenza trascendentale, occorre primariamente lasciarsi alle
spalle l’apparato di oggettività che gli scienziati sono via via andati a costruire per la
scienza. Solo in questo modo sarà possibile accedere alla cosiddetta «prima riduzione»,
che consente un’iniziale approccio al mondo-della-vita.
3.2.4 La prima riduzione fenomenologica
La prima riduzione fenomenologica che Husserl applica al metodo scientifico ha
lo scopo dichiarato di permettere l’accesso al Lebenswelt ed alle sue strutture di senso.
Questo procedimento preliminare prevede la messa fra parentesi delle costruzioni
181
182
92
R. RAGGIUNTI, Introduzione a Husserl, op. cit., p. 83
Ibidem, p. 84
metodologiche ordinarie della scienza (quindi prevede la sospensione del tradizionale
obiettivismo scientifico) che, una volta epochizzate, permetteranno di vedere il primo
precipitato del processo riduttivo, che è – per l’appunto – il mondo-della-vita. È
particolarmente interessante notare come già il primo precesso di riduzione sveli
immediatamente la realtà del Lebenswelt: è stato sufficiente arginare il formalismo per
accedere ad una dimensione più autentica e vera della scienza. Tuttavia è necessario
comprendere il mondo-della-vita come l’orizzonte d’azione della scienza; proprio
questo aspetto è stato il più travisato dalla ricerca scientifica dal Seicento in avanti. La
prima riduzione fenomenologica del metodo scientifico ci svela il Lebenswelt, e ce lo
presenta come lo sfondo vivo e attivo all’interno del quale comunemente operiamo e
viviamo: tutta la realtà naturale, uomo compreso, fa parte del Lebenswelt. Nulla di ciò
che è vivo e che appartiene al mondo gli si può sottrarre. Sebbene il metodo
fenomenologico ci abbia permesso di guadagnare l’accesso a questa dimensione
fondamentale, Raggiunti annota che:
Compito della fenomenologia è quello di indagare scientificamente il modo in cui
il mondo-della-vita funge da fondamento, «il modo in cui sono fondate le sue
validità prelogiche rispetto alle verità logico-teoretiche»183.
Occorre, prima di tutto, comprendere cosa sia effettivamente il Lebenswelt: oltre che
ambiente ed oggetto della ricerca scientifica, esso è anche la sua fondazione pre-logica:
il mondo-della-vita contiene potenzialmente in sé l’essenza della ricerca scientifica,
ancora però non logicizzata né formalizzata. È l’indagine fenomenologica che ci
permette di distinguere questi due piani, il piano del mondo-della-vita pre-logico e preteoretico e il mondo-della-vita oggetto di studio di una scienza obiettiva: la pretesa
obiettività che la scienza reclama per sé a gran voce viene definita da Husserl una
«sustruzione», ovvero una costruzione sopra un fondamento già dato. Una sustruzione è
«qualcosa che di principio non è percepibile ma che è fondato sul percepibile»184: il
complesso di formule e metodologie aritmetico-geometriche delle quali la scienza ha
imparato a servirsi sono costruzioni logiche, idealità appunto, del mondo; ma non ne
sono la vera essenza. L’essenza di quelle formule, ed è questo che la scienza fatica a
realizzare, per Husserl, è proprio la vita del mondo-della-vita. È la fisicità, la motilità, la
183
184
Ibidem, p. 85
Ivi
93
generatività della natura che ci circonda e che si offre a noi. Dal primo procedimento di
riduzione si evince, pertanto, una nozione assolutamente preziosa: il fatto che il senso
perduto della ricerca scientifica – responsabile della sua crisi – è direttamente connesso
e ritrovabile proprio nel Lebenswelt. Nella misura in cui il sapere scientifico ritornerà,
grazie al contributo dell’indagine fenomenologica, alle proprie radici filosofiche; esso
potrà allora costituirsi come un’esperienza significativa per l’uomo e per il destino
dell’intera umanità. Il passaggio significativo che Husserl ha voluto sottolineare, e lo si
è compreso dalle analisi dello studioso Raggiunti, riguarda proprio il rapporto fra
scienza e vita, o meglio, fra scienza e physis: prima di procedere con qualsiasi altra
considerazione fenomenologica, per Husserl è fondamentale evidenziare che la scienza
deve riconoscere la sua fondazione nella realtà circostante. Il suo obiettivo non deve
essere l’idealità formalistica, ma la vita del mondo che si propone di studiare e di
rendicontare. Il passaggio successivo, nell’argomentazione husserliana, riguarda una
seconda riduzione fenomenologica (ossia la riduzione del precipitato fenomenologico
ottenuto tramite la prima, ovvero il Lebenswelt), che prende il nome di «fenomenologia
trascendentale del mondo della vita». Questo secondo procedimento riduttivo chiarirà
più dettagliatamente le relazioni che legano l’uomo e l’umanità intera alla scienza,
inaugurando una prospettiva intersoggettiva comunque non immune da problemi di
ordine teoretico.
3.2.5 La seconda riduzione fenomenologica: la «fenomenologia trascendentale del
mondo della vita» e il paradosso dell’intersoggettività
La seconda riduzione, come precisa Raggiunti, si distingue dalla prima per il suo
carattere «totale»: il suo obiettivo è quello di epochizzare ogni residuo di atteggiamento
naturale che permanga ancora dopo la prima riduzione. L’operato di questa seconda
epoché è talmente radicale da investire in prima persona proprio l’individuo, ciascun
«io» che vive ed agisce nel mondo della vita. Se l’atteggiamento naturale è
l’atteggiamento tipico dell’uomo-nel-mondo, secondo la descrizione fornita da Husserl
in Idee I, nel momento stesso in cui la riduzione fenomenologica esige una sua messa
fra parentesi, l’unico residuato che si ottiene è la «funzione costitutiva dell’io nel
94
mondo-della-vita»185. Per questo motivo la seconda riduzione si propone di chiarire il
senso dell’operatività umana nel mondo-della-vita, inteso come correlato coscienziale di
una soggettività umana che lo comprende e che gli dona senso e significato;
proponendoci una sua visione trascendentale. Il passaggio immediatamente successivo
alla messa fra parentesi dell’atteggiamento naturale, nel corpo della seconda riduzione,
è l’epochizzazione dell’obiettivismo. Qualsiasi teoria obiettiva (o che pretende di essere
tale) deve essere esclusa dal presente discorso in quanto la focalizzazione è ora rivolta
sul singolo uomo e sulla sua soggettività: l’attenzione sulla soggettività umana è
fondamentale per Husserl al fine di poter proseguire nella fondazione di una teoria della
conoscenza rigorosa ma che, nello stesso tempo, non abbandoni l’unicità di ciascuna
soggettività. Husserl, a quest’altezza del discorso, si concentra sulla figura umana come
elemento attivo nell’orizzonte del Lebenswelt: l’uomo, ciascun uomo, entra a far parte
del mondo-della-vita e ne è parte attiva e costitutiva; ogni individuo è inserito nella
globalità del mondo in cui vive. In quanto tale, ciascuna soggettività conosce, e lo fa
attraverso forme proprie e personali che forniscono senso alla realtà attraverso la somma
di angolazioni prospettiche conoscitive differenti: questo vale a dire che – nel
complesso del secondo processo riduttivo – l’umanità acquisisce per Husserl un doppio
statuto rispetto al Lebenswelt: è nello stesso tempo sia soggetto di conoscenza che
oggetto di conoscenza. Ogni individuo conosce oggetti del mondo ed altri individui, ma
lui stesso diventa sicuramente oggetto della conoscenza di un altro individuo simile a
lui. Come giustificare, quindi, l’obiettività della conoscenza? Come garantire l’idea
dell’esistenza
certa
di
una
conoscenza
incrollabile?
Sembra
proprio
che
l’argomentazione di Husserl sia giunta a produrre un vero e proprio paradosso, noto
come «paradosso dell’intersoggettività». È un problema complesso e di difficile
risoluzione; esso riguarda il problema di come sia possibile creare una conoscenza
universale a partire da più soggettività conoscitrici e donatrici di senso al Lebenswelt, le
quali sono, nello stesso tempo, sia soggetti di conoscenza che oggetti conosciuti. Ecco
come Husserl espone questo paradosso:
L’intersoggettività universale in cui si risolve tutta l’obiettività, tutto ciò che è in
generale, non può essere che l’umanità, la quale, a sua volta, è innegabilmente una
parte del mondo. Ma come può una struttura parziale del mondo, la soggettività
umana del mondo, costituire l’intero mondo, costituirlo quale sua formazione
185
Ibidem, p. 86
95
intenzionale? – Il mondo: una formazione che è già sempre divenuta e che
continuamente diviene, una formazione della connessione universale della
soggettività trascendentalmente operante – ma i soggetti che operano in comune
come possono essere soltanto fattori parziali della loro operazione totale?
L’elemento soggettivo del mondo inghiotte per così dire il mondo e perciò anche se
stesso. Ma questo è un controsenso186!
Possiamo schematizzare la sua struttura argomentativa in tre punti in modo tale da
renderla immediatamente visibile e comprensibile:
l’atteggiamento naturale e l’obiettività della conoscenza, nel corso della seconda
riduzione, vanno messe fra parentesi;
nello stesso tempo, è anche oggetto conosciuto
in questo modo si pone in risalto la soggettività: ciascun soggetto conosce ma,
ma com’è possibile, allora, che l’umanità, intesa come intersoggettività, ovvero
come comunanza di una pluralità di soggetti, possa essere simultaneamente la
protagonista della conoscenza e la “cosa” conosciuta? È possibile costruire una
conoscenza oggettiva nonostante la pluralità degli stili conoscitivi di ciascuna
soggettività?
La risoluzione di questo paradosso è proposta da Husserl nel § 54 della Crisi delle
scienze europee. Il sottoparagrafo a del § 54 porta il seguente titolo: Noi in quanto
uomini e noi in quanto soggetti fungenti-operanti e, per questo, ci costringe a riflettere
su
quell’aspetto
che
Husserl
chiama
il
«problema
della
costituzione
dell’intersoggettività». Infatti, prima di risolvere (o meglio, di dissolvere) il paradosso,
occorre capire come si costruisce l’intersoggettività alla quale siamo approdati:
In particolare non è stato rilevato il fenomeno dell’evoluzione di significato per cui
l’«io» - appena io dico «io» si trasforma in «io altro», in «noi tutti», nel noi con
molti «io», nel noi entro cui io sono soltanto «un» io187.
La difficoltà di questo paradosso, che affonda la sua problematicità nella difficile
costituzione dell’intersoggettività, può essere superata, precisa Husserl, solo
dissolvendolo: anche Raggiunti nota che «[il paradosso] nei termini in cui è espresso,
appare irrisolubile»188. L’unica via praticabile di dissoluzione del paradosso
dell’intersoggettività prende in considerazione la nozione di «io originario» (Ur-ich): la
E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee…, op. cit., p. 206
Ibidem, p. 208
188
R. RAGGIUNTI, Introduzione a Husserl, op. cit., p. 89
186
187
96
nozione del «noi» che si viene a costituire a partire dalla somma di più «io» non può
essere considerata, spiega Raggiunti analizzando il testo husserliano, come sinonimo di
«uomini reali, in quanto tali». Si tratta, semmai, di un «fenomeno umanità» che la
seconda riduzione, tramite il paradosso ci porta a scoprire; e l’umanità come fenomeno
(cioè l’umanità trascendentale, potremmo dire) ci permette di scoprire l’essenza, ovvero
l’originarietà di ciascun io che la compone, che è l’io trascendentale, l’io come
fenomeno. Ciò che è soggetto (l’io, l’umanità) è ora diventato “oggetto” dall’essenza
obiettiva (in quanto fenomeno-io e fenomeno-umanità). È chiaro che l’io e l’umanità
dell’atteggiamento naturale non hanno nulla a che vedere con i loro omologhi
fenomenici: questi ultimi sono stati neutralizzati dalla seconda riduzione e godono di
un’ontologia trascendentale completamente differente dalla semplice “portata di mano”
dell’umanità e dell’io naturali. Perché il paradosso si dissolve attuando un passaggio al
soggetto trascendentale ed all’umanità trascendentale? Per il fatto che i loro omologhi
non neutralizzati diventano così fenomeni obiettivi: non più molteplicità scoordinate ma
molteplicità accumunate dalla stessa costituzione essenziale. Un discorso analogo vale
per il mondo: non più molteplicità di oggetti staccati e svincolati gli uni dagli altri, il
Lebenswelt acquisisce, tramite la seconda riduzione, lo statuto di fenomeno-mondo. Per
cui si lavora con fenomeni-io che costituiscono il fenomeno-umanità che co-abitano in
un fenomeno-mondo: da un punto di vista obiettivo, di puro discorso di essenze, non vi
è più la difficoltà di dover lavorare con soggetti che fungono anche da oggetti di
conoscenza: la diversità dei loro stili conoscitivi si risolve in una conoscenza globale, e
la loro costituzione essenziale è solamente quella di se stessi in quanto fenomeni. Da
questa prospettiva è interessante analizzare un frammento quale «il mondo non è
soltanto per l’uomo singolo ma anche per la comunità umana». In esso è racchiusa
l’essenza del concetto di Lebenswelt quale vero e proprio mondo-della-vita: un mondo
di circolazione attiva delle conoscenze e del sapere, in cui la scienza (intesa
specificatamente come conoscenza) viene resa cosa viva al servizio dell’umanità,
fenomeno composto dalla somma delle soggettività trascendentali di ciascun individuo
che compone il Pianeta. Questa concezione husserliana della scienza e della
conoscenza, molto vicina a quella rinascimentale esaminata più sopra, vuole essere la
chiave per mezzo della quale il maestro riesca a proporre una via d’uscita dalla crisi che
sta dilaniando le scienze e, contemporaneamente, il genere umano. Una prospettiva
97
umanitaria della scienza quale è quella del filosofo moravo si riflette anche sulla storia
della filosofia e sulla sua teleologia: Husserl ritiene che la teleologia sia «insita nel
divenire storico della filosofia», ma occorre la volontà di attuare e di rendere presente
quest’orizzonte di senso per l’intera storia del pensiero. Per cui è l’umanità
trascendentale del mondo-della-vita che deve volere il rilancio della filosofia come
strumento di indagine e di sicuro supporto all’intero edificio della conoscenza,
soprattutto di quella scientifica. Solo in questo modo, è la tacita conclusione di Husserl,
la scienza ritornerà a poter interloquire con l’uomo e con l’umanità, offrendosi nella sua
migliore utilità.
98
Conclusione
Dopo aver scritto numerose pagine, cercare di trovare un tema conclusivo che le
leghi e che le riassuma in modo esaustivo e coerente non è di certo un compito facile.
Tuttavia è bene tirare le somme del lavoro svolto fino a qui, e lo farò cercando di avere
uno sguardo il più generale possibile.
Questo elaborato ha un carattere decisamente storico: ho ricostruito i passaggi più
fondamentali del pensiero husserliano adottando la prospettiva storica appunto, ossia
rimanendo fedele ai testi dell’autore e alla loro articolazione nel tempo. Questo mi ha
permesso di poter esporre in un lavoro unico più tematiche che, solitamente, sono
condensate in poche pagine di manuale, oppure che sono distribuite fra più volumi che
le trattano sì più specificatamente, ma risultando più dispersivi. Per cui il lettore può
trovare qui un’esposizione completa del pensiero husserliano: delle parti più note e più
comunemente discusse, come la costruzione del metodo fenomenologico e la questione
dell’epistemologia novecentesca, ma anche di quegli aspetti che, solitamente, non sono
oggetto di dibattito frequente; mi riferisco in modo specifico al capitolo 2, il quale si
occupa di ricostruire i passaggi più significativi dell’Husserl logico e matematico,
ponendo particolare attenzione ai suoi rapporti con Frege, intensi e fecondi per lo
sviluppo del pensiero di entrambi i filosofi.
Sebbene questo lavoro ricopra tutto l’arco temporale della produzione del maestro,
(parte del titolo mette in evidenza questo aspetto, sottolineando il 1891 come data
d’inizio del filosofare husserliano con Filosofia dell’aritmetica ed il 1935 come anno di
redazione dell’opera postuma La crisi delle scienze europee e la fenomenologia
trascendentale), non è però da considerarsi come il tentativo di aver esaurito ogni
questione relativa al pensiero di questo autore: sono ben consapevole della limitatezza
di alcuni aspetti trattati qui: ad alcuni problemi avrebbe potuta essere dedicata più
attenzione, certi aspetti delle opere discussi e descritti in un dettaglio maggiore, forse
avrei potuto prendere in esame altri testi e altra produzione di Husserl. È vero però che
questo elaborato nasce in una circostanza specifica, che impone – giustamente – di
procedere ad una doverosa selezione e ad una efficace sintesi degli argomenti da
99
trattare; per cui suppongo che questa possa valere a giustificazione per eventuali
mancanze ed omissioni.
«Conclusione» è un termine che suggerisce fine, chiusura, interruzione del discorso
senza possibilità di proseguire oltre. Vorrei che non fosse così: credo che mai nessuna
opera, libraria o artistica che sia, termini del tutto in se stessa. Il bello è poterne portare
un pezzo nel cuore e, se realmente interessati, prendersi cura di lei ampliandola
ulteriormente. Lo stesso vale quindi per questo lavoro: mi auguro che possa essere un
buon inizio per riflettere sulla cospicua quantità di spunti che offre il pensiero di questo
poliedrico e grande autore.
100
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103
104
Indice dei nomi
Abbe, Ernst; 65
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich; 20;
26
Brentano, Franz; 1; 4; 29; 30; 31; 36;
40; 55
Heidegger, Martin; 9; 10
Cantor, Georg; 53; 64; 65
Hume, David; 11; 21; 22; 23; 24; 25;
26
Cartesio, Renato; 1; 7; 8; 10; 11; 12;
13; 14; 15; 16; 17; 18; 19; 20; 25; 32;
80
Kant, Immanuel; 1; 15; 18; 19; 24;
25; 26; 27; 28; 29; 32; 56
Copernico, Niccolò; 8; 13
Locke, John; 20; 21
Dilthey, Wilhelm; 45
Mill, John Stuart; 51
Euclide; 79
Newton, Isaac; 8
Frege, Gottlob Friedrich Wilhelm; 1;
4; 29; 51; 52; 62; 63; 64; 65; 66; 95;
97
Galilei, Galileo; 1; 8; 21; 79; 81; 82;
83; 84; 86
Pirrone di Elide; 11
Russell, Bertrand; 64
105
Stumpf, Carl; 43
von Swendeborg, Emanuel; 25
von Meinong, Alexius; 31
Wolff, Christian; 26
von Sigwart, Cristoph; 51
106
Ringraziamenti
Un grazie dal profondo del cuore al mio relatore Enrico Giannetto, un professore di
grande e profonda umanità, che mi ha saputo seguire, aiutare e sostenere non solo
durante la stesura di questo lavoro, ma anche per tutta la durata del mio percorso
universitario. Mi sento di ringraziarlo in modo sincero per la vicinanza che ha sempre
dimostrato nei miei confronti sin dal primo giorno di lezioni, quel caldo tre ottobre
2011, in cui iniziava – insieme a quella di altri colleghi – la mia vera e propria
esperienza universitaria; ricca di tensioni e ansie che mi devastavano, in un turbine
angosciante. La sua presenza costante e rassicurante è stata indubbiamente uno sprone a
continuare e a rendere sempre di più, i suoi consigli un esempio per vivere al meglio la
vita. Per me la sua conoscenza è stata una grossa fortuna, di quelle che capitano rare: un
professore che, senza ombra di dubbio, è stato nei miei confronti, per davvero, un
secondo padre.
Certamente un ringraziamento va anche ai miei genitori, Santina e Mario, i quali hanno
speso energie e sacrifici affinché io coronassi questo mio grande sogno. Sogno che è
stato sempre tenuto vivo dal forte desiderio della mamma di vedere suo figlio laureato:
tutto ciò è diventato realtà, e crederlo è difficile! Non posso dimenticare i miei nonni,
Angela, Sandro e Concetta che hanno sempre seguito con apprensione e vivo interesse il
mio percorso universitario, credendo sempre in me.
Come dimenticare gli amici, vecchi e nuovi, che sono un sostegno fortissimo nei
momenti di difficoltà e un motivo validissimo per gustarsi il bello della vita. Non è
importante elencare dei nomi: ognuno a modo suo è stato e sarà sempre speciale, e per
tutti c’è un affettuoso ricordo.
107
E poi ringrazio il mio amore, Roberta, la cui presenza è sempre speciale per me! Ora è
davvero difficile, dal mio punto di vista, riuscire ad immaginare una vita senza di te, che
mi hai permesso di trovare per davvero un senso al mio essere qui, e che hai completato
la mia esistenza e la mia storia. Il tuo amore sincero mi ha aiutato ad andare oltre i
problemi reali e i problemi poco seri, affrontando di giorno in giorno la vita avendo la
certezza di camminare al fianco di una persona speciale. Perché, ed è proprio vero,
finché al mondo c’è qualcuno che ci tiene a te, ricorda, se puoi, quello è il bene più
grande che hai. Mi auguro di poter essere anche io per te, ogni giorno, il tuo bene più
grande come tu lo sei per me.
108