Linee di Ricerca
Matteo Galletti
BIOETICA
Versione 1.0
Linee
di
Ricerca
SWIF - Sito Web Italiano per la Filosofia
Rivista elettronica di filosofia - Registrazione n. ISSN 1126-4780
Linee di Ricerca – SWIF
Coordinamento Editoriale: Gian Maria Greco
Supervisione Tecnica: Fabrizio Martina
Supervisione: Luciano Floridi
Redazione: Eva Franchino, Federica Scali.
AUTORE
Matteo Galletti [matteo.galletti@email.it] è borsista presso il CIRSFID (Centro interdipartimentale di ricerca
in sociologia e filosofia del diritto, storia del diritto e informatica giuridica) presso l’Università degli Studi di Bologna.
Si occupa di bioetica, di etica normativa, teorie dell’identità personale. Ha pubblicato vari articoli di bioetica su
riviste specializzate (“Bioetica. Rivista interdisciplinare”, “Bioetica e società”, “HEC Forum”) e una monografia:
Decidere per chi non può. Approcci filosofici all’eutanasia non volontaria (Firenze 2005).
La revisione editoriale di questo capitolo è a cura di Gian Maria Greco.
LdR è un e-book, inteso come numero speciale della rivista SWIF. È edito da Luciano Floridi con il coordinamento editoriale
di Gian Maria Greco e la supervisione tecnica di Fabrizio Martina.
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in cui ciascun testo è un capitolo autonomo. In esso l'autore o l'autrice, presupponendo solo un minimo di conoscenze di base,
fornisce una visione panoramica e critica dei temi principali, dei problemi più importanti, delle teorie più significative e degli
autori più influenti, nell'ambito di una specifica area di ricerca della filosofia contemporanea attualmente in discussione e di
notevole importanza. Il fine è quello di fornire al pubblico italiano un'idea generale su quali sono gli argomenti di ricerca di maggior
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AUTORE, Titolo, in L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2006, ISSN 1126-4780, p. X, www.swif.it/biblioteca/lr.
SWIF – LINEE DI RICERCA
BIOETICA
MATTEO GALLETTI
Versione 1.0
INTRODUZIONE
Sempre più spesso sulle pagine di quotidiani e periodici e nei notiziari televisivi compaiono le
cosiddette “questioni di bioetica”, che immancabilmente suscitano ampi ed accessi dibattiti
nell’opinione pubblica. Basti pensare al risalto che hanno avuto, in tempi recenti, casi come
quello di Terry Schiavo, una donna in stato vegetativo per cui è stata chiesta e ottenuta la
sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali, o la discussione sulle tecniche di
procreazione medicalmente assistita. Le nuove tecnologie che, a partire dagli anni ’60 e ’70
del secolo scorso, offrono una straordinaria capacità di intervenire sulla vita biologica
sollevano molti interrogativi etici. In breve la riflessione critica sulla rivoluzione bio-medica
tende a mettere in discussione l’astratto imperativo per cui “tutto ciò che è tecnicamente
possibile è moralmente doveroso”.
La bioetica è la riflessione sull’accettabilità di pratiche vecchie e nuove, come
l’eutanasia, il rifiuto di terapie, l’interruzione di trattamenti di prolungamento della vita,
l’aborto, la contraccezione, i trapianti, le sperimentazioni che coinvolgono embrioni umani, la
diagnosi embrionale pre-impianto, la riproduzione assistita, la clonazione, i test genetici, la
terapia genica ecc. Fanno inoltre parte del dibattito la definizione stessa di bioetica,
l’estensione della gamma di problemi che rientrano nella sua sfera di competenza e l’obiettivo
che essa si propone. Perciò, in quanto segue, ci soffermeremo in primo luogo sulle domande
epistemologiche che possono nascere in merito a questa discussione propedeutica sulla natura,
M. Galletti, Bioetica, in L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2006, pp. 1027-1059.
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i limiti e il ruolo della bioetica e specificatamente sulla relazione tra bioetica e filosofia. Nella
seconda parte passeremo a trattare il rapporto tra bioetica ed etica pubblica: è possibile
raggiungere soluzioni condivise sulle questioni di vita e di morte tra individui che vivono in
società moralmente pluraliste e frammentate? Nella terza parte, infine, esamineremo alcuni
concetti-chiave, di natura eminentemente filosofica, che sono al centro delle discussioni sulle
singole pratiche; non tratteremo singoli temi di bioetica perché anche solo dalla lista che
abbiamo appena presentato, si evince che essi sono troppo numerosi per questa breve
trattazione introduttiva.
1. IL BIOS E L’ETHOS DELLA BIOETICA
Preliminarmente, è opportuno specificare di quale vita si occupa la bioetica. La prima volta
che apparve il termine “bioetica”, esso indicava una scienza della sopravvivenza dell’uomo
che aveva ad oggetto i sistemi viventi in senso generale; il bios era quindi la natura in quanto
tale, la cui integrità era stata messa in pericolo dalla rivoluzione tecno-scientifica (Potter
[1971]). Sebbene oggi una definizione di tipo “globale” della bioetica sia ancora sostenuta,
soprattutto in Italia, sembra prevalere l’idea che il bios contemplato dalla bioetica sia
essenzialmente quello umano. Ciò comporta che la bioetica si debba occupare principalmente
delle questioni che attengono al “nascere, curarsi e morire degli esseri umani” (Lecaldano
[1999], p. 4). Questo non vuol dire che altre questioni – come il trattamento degli animali
non-umani o il rapporto tra uomo e ambiente naturale – non abbiano alcuna rilevanza etica;
questi problemi sono ampiamente dibattuti, pongono grandi sfide alle visioni morali che
difendono un’impostazione antropocentrica, ma sembrano costituire filoni di ricerca e
discussione a se stanti (per una panoramica si possono vedere Battaglia [1995]; Bartolommei
[1998]).
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La radice comune di questi campi della riflessione morale sembra essere la svolta che
ha dominato l’etica filosofica di indirizzo anglosassone, tra gli anni ’60 e gli anni ’70 del
secolo scorso. Dalle riflessioni sulla logica del discorso e dell’argomentazione morali, sulla
natura e sulle proprietà del ragionamento e dei criteri morali si passa ad applicare le teorie
etiche a problemi concreti, legati all’ambiente, al trattamento degli animali, alla guerra, alla
giustizia sociale e, appunto, ai progressi della medicina e della biologia (Mori [1980];
DeMarco e Fox [1986]).
Ciò non risolve il problema di definire di quale etica si stia parlando; preso atto della
svolta “pratica” in etica e del profilarsi di nuove condizioni in cui gli esseri umani nascono, si
curano e muoiono, ci si può chiedere se le mutate condizioni richiedano una nuova etica e
quale etica sia eventualmente quella più appropriata.
Tra chi sostiene che davanti alle novità portate dal progresso biotecnologico (tecniche
di prolungamento della vita, riproduzione assistita, trapianti ecc.) non occorra una nuova etica
ma siano sufficienti gli strumenti teorici propri della riflessione filosofico-morale occidentale,
sono preminenti gli autori che difendono teorie orientate a varie forme di personalismo,
ontologicamente fondate o ispirate al kantismo. Sebbene questa prospettiva non sia omogenea
ma comprenda vari autori e vari tipi di teorizzazione filosofica, si possono individuare alcuni
tratti comuni:
1) la bioetica consiste nell’applicazione di una teoria etico-antropologica ai particolari casi
biomedici;
2) l’etica sottesa alla bioetica deve tutelare la dignità e la vita dell’essere umano dal
concepimento alla morte;
3) la bioetica deve principalmente porsi come un argine allo sviluppo biomedico, visto come
una fonte non di opportunità per estendere le libertà e incrementare la qualità della vita, ma di
possibili rischi per l’integrità e la dignità umana. Non sono i progressi biomedici che devono
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imporre un cambiamento all’etica, ma è l’etica che deve vincolare o frenare tali progressi
(Sgreccia [1999]; Mordacci [2003], pp. 46-51, 328-379).
Il lato oscuro della tecnologia viene denunciato anche nella prospettiva di restituire alla
medicina una struttura “sostenibile”, che rinunci al sogno di un progresso illimitato che
ingaggi una lotta senza tregua con la sofferenza e la mortalità e aspiri al controllo completo
della natura. Limitare l’uso della tecnologia biomedica comporterebbe non solo una maggiore
efficacia della pratica medica e una trasformazione dei valori che essa dovrebbe incorporare,
ma anche un ridimensionamento dei costi economici dei sistemi sanitari (Callahan [1998]).
Sulla sponda opposta, l’esigenza di una nuova etica che riesca adeguatamente ad
affrontare la casistica contemplata (soprattutto quella “di frontiera”, che include casi-limite,
che sono tragici e mettono a dura prova il nostro apparato concettuale e le nostre visioni del
mondo) spinge a ripensare le categorie concettuali tradizionali e a fondare un nuovo
approccio.
In particolare, Hans Jonas ha sottolineato che la tecnica moderna ha trasformato in
modo radicale l’agire umano, i cui effetti non sono relativi al qui e all’ora ma possono
estendersi in modo quasi indefinito nello spazio e nel tempo. A questa mutazione deve
corrispondere un’adeguata mutazione dell’etica, che deve ispirarsi al «novum etico» della
responsabilità, la quale implica un atteggiamento di prudenza (in dubio pro malo) e deve
essere esercitata verso la totalità dell’umanità attuale e delle generazioni future che potrebbero
essere toccate dalle conseguenze delle nostre azioni presenti (Jonas [1990]; Jonas [1997], pp.
48-54).
L’approccio di Jonas fa in modo che l’esercizio della responsabilità suffragata
dall’atteggiamento prudenziale porti ad opporsi preventivamente a molte applicazioni biotecnologiche (fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la clonazione ed alcuni aspetti
dei trapianti d’organi), ma non tutti coloro che sostengono la necessità di una rivoluzione etica
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ritengono che essa debba tradursi automaticamente in una cultura del limite. La disponibilità
di nuove tecnologie applicate al dominio biologico umano si è accompagnata alla nascita di
un nuovo atteggiamento culturale e ad un nuovo senso morale comune, ultime propaggini del
processo di secolarizzazione della cultura, della rivoluzione scientifica e della valorizzazione
dell’autodeterminazione individuale. La nuova etica si fonda sul principio del rispetto
dell’autonomia delle persone, utilizza la “qualità della vita” come parametro in base al quale
giudicare la bontà morale delle azioni umane e rifiuta ogni norma assoluta e ogni imperativo
che sia ritenuto valido a prescindere dalle conseguenze e dalle situazioni specifiche. La vita
(umana) è disponibile in tutte le sue fasi, in quanto il suo valore è determinato dall’uomo
stesso e non da una divinità o dalla natura. I casi di bioetica mettono a nudo le incoerenze e i
limiti della tradizionale etica della sacralità della vita e solo la nuova prospettiva può riuscire
a superarli (Mori [2002]). Ciò significa che compito dell’etica non è tanto quello di
individuare il “limite” oltre il quale la scienza e la tecnologia non devono spingersi, ma di
specificare le «ragioni che giustificano un dato giudizio morale» (Mori [1993], p. 402), di
ripensare radicalmente e rivoluzionare i nostri stessi concetti di vita e di morte, e di evitare gli
abusi che possono derivare dalle nuove pratiche, tutelando al contempo le preferenze e gli
interessi di persone e esseri senzienti (Singer [2000]).
Dalla veloce disamina di questi orientamenti è possibile ravvisare la qualificazione
della bioetica come impresa eminentemente filosofica e soprattutto etica (Fornero [2005], pp.
7-13) e al tempo stesso la sua forte valenza normativa: le premesse di fondo e i metodi
individuati consentono di decidere sui vari casi e di dare una risposta definitiva ai dilemmi
che si presentano alla coscienza morale. Questo secondo aspetto può risultare stridente se
messo a confronto con la complessità e l’apparente aporeticità dei dilemmi bioetici e con le
domande che essi risvegliano (cos’è la vita? Quando ha valore? Cos’è la morte? ecc.). Perciò
si possono ragionevolmente sollevare dubbi sull’idea che la filosofia (e l’etica) applicata al
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dominio biomedico sia un esercizio normativo, in cui si giunge a conclusioni razionalmente
giustificate. Un’impostazione maggiormente critica vede nella bioetica filosofica un momento
di chiarificazione dei concetti in gioco e di problematizzazione delle nuove pratiche, al fine di
individuare i nodi problematici che altrimenti rimarrebbero nascosti, seppure nella
condivisione che le nuove tecnologie hanno aperto spazi di libertà e di opportunità prima
inimmaginabili. Da questo punto di vista sono stati sottolineati i limiti delle teorie etiche
tradizionali e di quegli approcci che, in modo eccessivamente “rigido”, tendono a generare
categorizzazioni
strette,
o
troppo
generalizzanti,
misconoscendo
la
complessità
dell’esperienza morale e delle relazioni e delle emozioni che sono in gioco quando si
affrontano tematiche delicate come la nascita, la cura e la morte (MacLean [1993]; Botti
[2000]). D’altra parte non si può eludere il fatto che la bioetica, seppure abbia una radice
storico-fondativa di carattere filosofico, si presenta come il punto di intersezione tra vari
saperi e varie metodologie che appartengono a discipline diverse. Per cui la discussione sui
casi sarà realmente proficua – anche dal punto di vista della chiarificazione di concetti,
argomentazioni e problemi – solo se potrà giovare dell’apporto di discipline diverse come il
diritto, la psicologia, la sociologia, oltre naturalmente che della medicina e della biologia
stesse. Anche da questo punto di vista la bioetica appare come uno sforzo collettivo di
delucidazione e di approfondimento, piuttosto che di sola presentazione di argomentazioni
che giungano a conclusioni normative, vincolanti per tutti gli individui in forza della loro
cogenza razionale.
2. BIOETICA ED ETICA PUBBLICA
Il dibattito epistemologico sullo statuto della bioetica genera una pluralità di modi di intendere
la natura di quest’ultima e di definire le caratteristiche e il compito dell’etica che la dovrebbe
guidare. Tale pluralità si ritrova oggi anche nelle società democratiche occidentali, in cui la
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possibilità di conciliare punti di vista diversi sulla nascita, la cura e la morte diviene altamente
problematica.
Indubbiamente, i fenomeni migratori e la progressiva secolarizzazione del mondo
occidentale hanno contribuito alla frammentazione etica post-moderna e quindi alla difficoltà
di individuare valori capaci di vincolare tutti gli individui. Nelle attuali società multietniche e
pluraliste del mondo occidentale si registrano molteplici posizioni su interrogativi cruciali che
riguardano il valore della vita, i diritti e la definizione della persona o il significato della
morte, cosicché su questioni pratiche come l’aborto, l’eutanasia, la sperimentazione sugli
embrioni ecc. l’opinione pubblica si divide, attestandosi su posizioni talvolta antitetiche. La
bioetica quindi si trova davanti alla sfida di approntare gli strumenti concettuali per regolare
tale pluralismo. L’alternativa generale che si pone è tra il tentativo di tutelare le diversità
etiche, preso atto dell’impossibilità di una morale vincolante universalmente, cercando al
tempo stesso di individuare vincoli essenziali per la convivenza pacifica; oppure di tentare
una ricomposizione più o meno debole del pluralismo, individuando una base comune
condivisibile da tutti.
Molto spesso le due grandi opzioni possono sfumare tra loro, perché anche chi sceglie
la prima individua nei vincoli una base comune. Tuttavia, questa scelta porta a risultati deboli,
nel senso che ricerca teorie generali che abbiano un carattere quanto più possibile neutrale. In
questo senso la proposta più nota è quella di H. Tristram Enghelardt, il quale sostiene che una
morale comprensiva (cioè capace di vincolare tutti) non può che essere procedurale, cioè
priva di un contenuto sostanziale. Essa dovrà in primo luogo tutelare le diverse comunità
morali, le loro specifiche visioni del bene e della vita buona e le particolari soluzioni in
ambito bioetico. All’interno di una data comunità, ad esempio, potrà essere dichiarata
ammissibile l’eutanasia e quindi lecita la sua pratica e questo consenso sarà duraturo finché
tutti i membri convergeranno sulle ragioni morali che generano questo giudizio. Quando però
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non si incontrano “amici morali” (cioè membri di una stessa comunità morale) ma “stranieri
morali” (cittadini che non condividono la stessa etica e che quindi hanno atteggiamenti diversi
rispetto a date pratiche) si dovrà fare ricorso a un’etica procedurale, che si fondi soprattutto
sul permesso (un’azione è moralmente lecita solo se chi la subisce ha dato il suo consenso) e
sulla beneficenza, intesa nella forma particolare della regola aurea: “fai agli altri ciò che essi
vorrebbero che fosse fatto loro”. Solo questi due principi possono fondare un’etica
procedurale valida per agenti che non condividono la stessa idea di bene; al tempo stesso essi
sono vincoli necessari perché le controversie vengano risolte con autorità ma non con forza,
sono cioè i prerequisiti fondamentali perché si dia una società pacifica (Engelhardt [19962]).
Da notare che questo approccio al pluralismo (bio)morale implica anche una frammentazione
del sistema sanitario di una società in sotto-sistemi, organizzati secondo la gerarchia dei valori
che la comunità utente persegue (Martelli [1993]). I tratti generali della teoria di Engelhardt si
avvicinano molto alle tesi liberali, per cui a livello di un’etica pubblica intersoggettiva
possono essere considerate lecite tutte le azioni che non provocano un danno all’altro
(Charlesworth [1993]), ma se ne distinguono nel tratto essenziale di considerare il consenso e
l’autonomia degli individui non un valore ma un “vincolo collaterale”.
L’eccessivo formalismo delle teorie libertarie alla Enghelardt può portare a cercare
soluzioni che non rinuncino alla ricerca di una base comune per le decisioni pubbliche in
materia di bioetica; in questo caso le possibili proposte sono variegate.
La varietà è principalmente data dal senso in cui si intende il ruolo dell’etica pubblica
rispetto al pluralismo (bio)morale e alla natura stessa dell’etica. Per una parte di queste teorie
è ancora valido l’impianto liberale, modificato secondo le esigenze dettate dalle società
pluraliste. In questo senso, al tradizionale costruttivismo politico di Rawls, si sono aggiunte
varie teorie di etica pubblica; in sede bioetica sono particolarmente interessanti le proposti
affini ma non identiche di Ronald Dworkin e Sebastiano Maffettone.
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Secondo Dworkin, le controversie pubbliche in materia di bioetica dovrebbero
rinunciare a discutere questioni metafisiche (ad esempio, la personalità dell’embrione nel caso
dell’aborto), perché ciò porterebbe difficilmente ad una decisione condivisa riguardo a singole
pratiche. Serve invece un appello a intuizioni condivise sul valore della vita e a principi che si
fondano su diritti, in particolare modo sul diritto all’uguale considerazione e rispetto. Tali
diritti e principi possono essere la base comune delle diverse teorie e posizioni proprio perché
possono ricavarsi dalla carta costituzionale (Dworkin [1993]).
Al realismo morale di Dworkin si può contrapporre il costruttivismo metafisico di
Maffettone, secondo il quale le grandi discussioni bioetiche non possono fare a meno della
metafisica, cioè non possono non affrontare questioni di senso. Perciò occorre sviluppare una
“metafisica pubblica”, che consiste in un’«indagine sui principi primi che mettono insieme le
nostre credenze sul mondo con quelle degli altri e sui principi primi che governano i nostri
atteggiamenti reciproci e i comportamenti pratici nell’ambito di un concetto di esperienza
intersoggettivamente inteso» (Maffettone [1998], p. 211). È una metafisica che non consiste
nella ricerca sull’essenza delle cose ma nell’indagine che prende sul serio la dimensione
linguistica e intersoggettiva della convivenza sociale, che si pone come scopo il
raggiungimento di scelte collettive quanto più condivise possibili, pur riconoscendo il valore
del pluralismo e dell’identità di diverse teorie etiche e diverse visioni del mondo.
Tutti questi approcci si sforzano di cercare basi comuni, formali o sostanziali, per
superare il pluralismo (bio)morale, senza pretendere di annullarlo, di contro ad altre tendenze
teoriche per cui l’individuazione di valori condivisi significa l’accettazione di un particolare
punto di vista morale, il cui riconoscimento (ma non la sua costruzione) è preliminare rispetto
alla discussione stessa tra le varie posizioni etiche. Il punto forte di questo orientamento
consiste nell’idea che esista alla fine una sola bioetica vera e che il pluralismo delle bioetiche
sia in realtà un problema da superare per ristabilire la verità etica, che tutti i cittadini
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dovrebbero riconoscere grazie alla ragione. Questa specifica verità etica si basa sulla comune
natura umana di tutti i partecipanti alla discussione pubblica e su valori, ontologicamente
fondati, che non possono non venire riconosciuti come fondamentali (Palazzani [1996]).
La vivacità con cui il dibattito pubblico si presenta ancora oggi, soprattutto in Italia, è
sintomo che si è ancora lontani dalla possibilità di costruire un’etica pubblica condivisa che
possa anche servire come base per una legislazione che sappia rispettare il pluralismo
(bio)morale senza rinunciare a creare le convergenze più ampie possibili su temi delicati ed
essenziali.
3. TRE CONCETTI CHIAVE: PERSONA, AUTONOMIA, NATURA
Se si passa al vaglio una possibile lista dei concetti fondamentali della bioetica, ci si accorge
che essi sono dopo tutto i concetti su cui la filosofia per secoli ha esercitato la sua riflessione
critica; le biotecnologie hanno costretto a sviluppare un ulteriore lavoro di approfondimento e
di ripensamento delle categorie tradizionali, con lo scopo di individuare nuovi significati
oppure per rafforzare quelli tradizionali, minacciati fortemente dall’invasione della tecnica.
L’analisi filosofica di concetti che fanno parte anche del nostro vocabolario ordinario, ma
vivono oggi di nuovi (possibili) significati a causa della rivoluzione biotecnologica, è pratica
essenziale. Anche nelle discussioni sui media intorno a problematiche di bioetica, l’uso di
nozioni come quella di persona, libertà e natura è estremamente diffuso. Tuttavia, credere che
questa diffusione sia sintomo di una convergenza tra le varie posizioni su un significato
univoco di questi concetti sarebbe illusorio; uno dei compiti della filosofia in bioetica è quindi
quello di analizzare la pluralità dei significati e mostrare i tratti caratteristici, i limiti e le
potenzialità degli argomenti che sui concetti fondamentali si basano.
3.1. Persona
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Come anticipato, uno dei termini fondamentali della bioetica è quello di “vita”, sulle cui
manifestazioni la tecnica interviene pesantemente; le biotecnologie riproduttive e genetiche
hanno reso visibile e scomposto le fasi iniziali dell’esistenza umana, spingendo la biologia a
individuare vari stadi dello sviluppo umano prima celati all’occhio dell’osservatore
scientifico. Non si parla più genericamente di embrione e di feto, ma anche di ootide, preembrione, zigote. Alla fine della vita si parla di morte cerebrale, morte dell’organismo, morte
della persona, indicando con la prima la cessazione totale delle funzioni del cervello, con la
seconda l’estinguersi dei processi vitali (anche cellulari) dell’organismo umano, con la terza
la perdita irreversibile della coscienza (morte neocorticale). Come conseguenza di queste
scomposizioni, è diventato ormai corrente una distinzione tra la vita biologica dell’essere
umano (lo svolgimento di funzioni biologiche) e la vita biografica delle persone (avere
esperienze, avere un carattere, essere autocoscienti, formare piani di vita ecc.) (Rachels
[1989], p. 32; Singer [2000], pp. 184-187).
Se è possibile distinguere, per lo meno sul piano concettuale, tra queste due definizioni
di vita, la domanda fondamentale risulta allora: quando un essere umano diviene (o cessa di
essere) una persona? Questa domanda è fondamentale non solo perché riguarda il modo in cui
noi descriviamo il mondo e gli individui (umani) che lo popolano, ma anche perché
comprende questioni morali cruciali. Infatti il principio di rispetto per le persone è ormai un
leit-motiv della bioetica, sebbene il suo significato e la sua estensione applicativa variano
rispetto alla teoria che si assume. In questa sede, ci limiteremo ad una definizione generica,
per cui il principio di rispetto per le persone implica che si debba garantire la massima tutela
possibile alle persone. Sul piano morale la domanda fondamentale assume questa forma:
quando un essere umano inizia a (o cessa di) possedere piena tutela morale? Se si sostiene la
distinzione tra persona ed essere umano ritenendola una distinzione non solo concettuale ma
anche reale, l’essere umano inizia a essere destinatario di tutela morale solo nel momento in
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cui acquisisce nel suo sviluppo le caratteristiche proprie della persona, cioè quando diviene
capace di possedere una vita mentale. La tutela morale può essere accordata in modo
progressivo, cioè a diversi gradi di acquisizione della vita mentale corrispondono diversi gradi
di tutela morale: un feto, capace soltanto di avvertire dolore, sarà oggetto di una tutela morale
minore rispetto a un individuo adulto, autocosciente, razionale ecc. (Tooley [1983]). Lo stesso
schema si ripete alla fine della vita; una perdita delle capacità cognitive e funzionali implica
una perdita di tutela morale, che può essere progressiva, fino a giungere a identificare la morte
dell’individuo con la morte della persona, cioè con la perdita definitiva e irreversibile di tali
capacità (morte cerebrale neo-corticale; Green, Wikler [1980]). Sebbene non vi sia un accordo
su quali caratteristiche effettivamente concorrano a definire la persona, è stata sottolineata una
certa arbitrarietà nella scelta della definizione e soprattutto nel passaggio dalla descrizione
empirico-metafisica a quella morale, in quanto le proprietà cognitive non possiedono alcuna
valenza morale intrinseca (Beauchamp [1999]); inoltre perché limitarsi alle caratteristiche
cognitive? Perché non includere anche capacità emotive e affettive? Anche esse possono
esprimere interessi, piani di vita per il futuro, impegni e relazioni verso gli altri e verso se
stessi. In questo modo la sfera delle persone sarebbe notevolmente ampliata, giungendo ad
includere a pieno titolo i bambini piccoli o pazienti affetti da malattie neurodegenerative ma
ancora coscienti.
L’obiezione fondamentale che è stata rivolta alle teorie “funzionaliste” è quella di
frammentare eccessivamente la soggettività, riducendola a capacità cognitive che sono
manifestazioni estrinseche e contingenti e trascurando l’essenza reale della persona, la
sostanza che, appunto, sostiene e rende possibili tali fenomeni. Da questo punto di vista, la
persona non è più un insieme di “funzioni” ma una sostanza che permane in modo unitario e
continuo dal momento del concepimento o dalla formazione di un nuovo codice genetico che
contiene il programma in base al quale un particolare individuo si svilupperà, fino alla morte
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dell’individuo (Agazzi [1998]; Serra [2003]). Parimenti, la tutela morale non ammette alcuna
gradualità: dal punto di vista morale non si possono discriminare le varie fasi della vita,
accordando ad alcune un valore morale superiore rispetto ad altre (Carrasco de Paula [2004]).
I limiti di questo approccio risiedono soprattutto nell’idea che per accertarsi della
presenza della persona basti guardare agli eventi biologici presenti: laddove si può accertare
l’unione dei due gameti o la formazione di un nuovo DNA, vi è la persona. Ma in questo
modo si nega al concetto la valenza metafisico-morale che gli è propria, riducendola ad una
proprietà biologica (Lecaldano [1999], pp. 228-235); niente di diverso, in ultima istanza, da
chi sostiene che si può ipotizzare la presenza della persona quando inizia l’attività neurologica
con la formazione della corteccia cerebrale (Mori [1995], pp. 70-71). Inoltre, tributare una
tutela morale all’essere umano in tutte le sue fasi si rivela problematico quando vi sia in gioco
un conflitto di diritti, oppure quando il prolungamento dell’esistenza biologica tramite
intervento medico comporti anche un peggioramento della qualità della vita dell’individuo.
Sono chiaramente possibili soluzioni “mediane”, che tendono a conferire tutela morale
anche agli esseri umani che non possiedono ancora capacità cognitive superiori (ad es.
embrioni, feti, neonati) o non le possiedono più (ad es. pazienti in stato vegetativo
permanente, pazienti affetti da gravi malattie neurodegenerative), senza tuttavia rinunciare
alla possibilità che in casi tragici e dilemmatici, in nome della dignità umana, si possa optare
per soluzioni che abbrevino la vita biologica (soprattutto alla fine, quando l’esistenza si sta
inequivocabilmente avviando verso la morte; Reichlin [2002]). Oppure si sceglie di
posticipare l’inizio dell’individualità dal concepimento al 14° giorno, momento in cui
compare nell’embrione la “stria primitiva” e si esclude la possibilità di uno sviluppo
gemellare, sostenendo però che l’individuo va trattato come una persona fin dal concepimento
(Ford [1988]). Ci si può quindi non impegnare ontologicamente, rinunciando a stabilire
quando l’individuo inizia a o cessa di essere persona e sostenere, in sede etica, che esso deve
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comunque essere trattato come una persona; questo tipo di trattamento potrebbe essere
giustificato da ciò che l’individuo potrebbe diventare (una persona in atto) oppure da chi
l’individuo è stato nel passato. Seguendo parzialmente questi suggerimenti, si può approdare
ad un modello che mette in luce i limiti degli approcci più diffusi allo statuto morale degli
individui: ciò che conta non è la valutazione di quali capacità o di quali proprietà l’individuo
sia in grado di esprimere in una particolare fase della vita (fase embrionale, fase fetale, fase
adulta, fase terminale) ma il complesso dell’esistenza stessa di quell’individuo, nei limiti in
cui è possibile ricostruirla, e le relazioni che attualmente lo caratterizzano.
Quando si affrontano questioni altamente problematiche e tragiche come l’aborto o la
sospensione di terapie di prolungamento della vita in un paziente in stato vegetativo
permanente, si dovranno tenere in considerazione elementi che fanno riferimento non solo alle
proprietà intrinseche dell’individuo (l’embrione/il comatoso è capace di provare piacere o
dolore? È una persona dal punto di vista ontologico?) ma anche alla situazione concreta in cui
ci si trova. E il riferimento alla situazione concreta implica anche il riferimento alle relazioni e
agli affetti di cui è destinatario l’individuo, alle sue preferenze passate quando siano
disponibili ecc. (Botti [2000]). La questione, se l’individuo considerato sia o non sia persona,
lascia spazio in questo modello alternativo ad altre domande che riguardano il contesto più le
capacità: “quali sono i sentimenti della madre rispetto all’embrione? È disposta ad accoglierlo
o a rifiutarlo? Per quali motivazioni?”; “Qual era il piano di vita del paziente prima di entrare
in stato vegetativo? Considerava un’esistenza meramente biologica compatibile con i suoi
valori? Qual è l’atteggiamento dei suoi cari?”. La risposta a queste domande non può essere
predeterminata, in base ad una lista di valori o tramite un armamentario filosofico che
incaselli rigidamente lo sviluppo individuale in categorie come “persona”, “essere senziente”
ecc.
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È stato sollevato un altro dubbio sull’uso del concetto di persona per le questioni
bioetiche. L’appello alla “persona” può in alcune discussioni rivelarsi come una mossa
strategica che consista in un uso retorico del concetto, che ha il fine di chiudere le
controversie piuttosto che risolverle; inoltre esso è strettamente dipendente da assunti
ontologici e morali, per cui è impossibile darne una definizione neutrale, non stipulativa.
Autori di orientamento molto diverso hanno sottolineato la difficoltà di usare la nozione di
persona come strumento risolutivo delle controversie in bioetica e come mezzo di
ricomposizione dei conflitti tra varie prospettive etiche (Hare [1975]; Dworkin [1993]).
3.2. Autonomia
L’appello al principio dell’autonomia dell’individuo è stato il punto cardine della
contestazione del cosiddetto “paternalismo medico”, ossia dell’atteggiamento imputato alla
medicina tradizionale per cui i giudizi e le scelte di ciò che è bene per il paziente spettano
esclusivamente al clinico. Con l’affermazione storica dei diritti dei pazienti di essere
adeguatamente informati sui dati diagnostici e prognostici e, conseguentemente, di potere
decidere se accettare o rifiutare le opzioni di cura prospettate in base ai propri valori e al
proprio giudizio sulla qualità della vita risultante, si è messa in atto una rivoluzione
dell’ambito del rapporto medico-paziente.
Nell’ambito clinico-medico (ma anche in quello genetico) esistono problemi specifici,
legati alla definizione di quale sia il grado di competenza richiesto affinché un individuo
possa essere definito autonomo; questo punto ha chiaramente delle ricadute sulla possibilità di
informare il paziente sulla diagnosi, la prognosi, le possibili linee terapeutiche, oppure su
conoscenze genetiche che lo riguardano acquisite tramite test e analisi, ma anche sul valore da
attribuire a forme di dissenso/consenso e all’espressione di preferenze e interessi (Beauchamp
e Childress [1999], pp. 139-185).
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Sul piano morale l’autonomia si presta poi a fungere da spartiacque tra la categoria
degli “agenti morali” (gli individui competenti, capaci di scegliere e di agire, dotati diritti
morali individuali) e i “pazienti morali” (gli individui che non possiedono tali caratteristiche,
che non sono dotati di diritti ma sono comunque destinatari di doveri e protezione). La
rivendicazione dell’autonomia e del rispetto delle scelte degli agenti morali si è presto estesa
dall’ambito della relazione medico-paziente ad altre sfere, per cui si parla di autonomia
procreativa (la libertà di scegliere se, come e quando riprodursi) e autonomia alla fine della
vita (la libertà di rifiutare trattamenti salva-vita, anche tramite direttive anticipate, oppure di
richiedere interventi attivi che abbreviano l’esistenza).
Affinché la vasta gamma di problemi morali che vengono evocati in questi contesti sia
intelligibile, occorre avere chiaro quali possano essere il significato e il ruolo dell’autonomia.
Da un punto di vista altamente formale l’autonomia è semplicemente il possesso di un diritto
negativo alla non interferenza, giustificato dal fatto nella sfera personale l’individuo
autonomo è il solo giudice competente e che la possibilità di scegliere e agire senza
costrizioni esterne è un valore in sé; ogni intervento esterno che limiti la sua libertà di
decidere sul proprio corpo, sulla propria salute, sulla propria vita è moralmente indebito (a
meno che l’esercizio della libertà dell’individuo non pregiudichi la libertà altrui). Così anche
la donna sola che volesse ricorrere ad un intervento di procreazione assistita è moralmente
titolata a farlo, poiché è in suo potere disporre dei suoi processi riproduttivi (Charlesworth
[1993]).
In
un
senso
meno
formale,
l’autonomia
può
venire
interpretata
come
autodeterminazione, cioè come progettualità e come capacità di formulare piani di vita che
consentano di definire la propria identità e di circoscrivere ciò che importante per chi vive
quella esistenza. L’autodeterminazione allora è identificabile con il possesso di interessi
critici, cioè quelle preferenze in base alle quali riteniamo riuscita o degna di essere vissuta la
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nostra vita (Dworkin [1993]). Le scelte individuali di avvalersi della procreazione assistita, ad
esempio, o di rifiutare terapie salva-vita devono essere rispettate nella misura in cui
rispecchiano il piano di vita della singola persona, informato ai suoi interessi critici.
La domanda che si pone è se questi non siano modi per assegnare valore alle
preferenze e non alle persone. La prospettiva potrebbe essere ribaltata, sostenendo che si
debba rispettare gli interessi proprio perché si rispettano le persone che sono portatrici di
quegli interessi. Su quali criteri si fonda questo rispetto? Si devono rispettare tutte le
preferenze in quanto preferenze espresse da persone, oppure esistono fondamenti in base ai
quali si possono discriminare dal punto di vista morale quali richieste possiamo accettare e
quali rifiutare? Partendo dall’idea che non tutte le scelte autonome (cioè libere da costrizioni)
sono di per sé scelte moralmente giustificate, l’autonomia degli individui viene identificata
con la capacità di conformare le proprie azioni ai dettami della ragione pratica, e in particolare
modo dell’imperativo categorico di trattare le persone come fini in sé. Al soggettivismo
liberale si contrappone quindi l’oggettivismo di ispirazione (neo)kantiana. In questo modello
l’autonomia risulta limitata da considerazioni pratiche, che rendono moralmente
ingiustificabili certe scelte: ad esempio, si possono rifiutare terapie salva-vita solo nei casi in
cui la malattia pregiudichi la capacità di agire come un agente razionale autonomo; si rifiuta la
liceità dell’eutanasia volontaria; si rifiutano forme di riproduzione artificiale, come la
fecondazione eterologa o la maternità surrogata, che possono stravolgere il significato della
procreazione e non tenere adeguatamente conto del benessere del nascituro (Reichlin [2002],
pp. 188-208; [1999], pp. 186-193).
Tuttavia è possibile riprendere la concezione liberale dell’autonomia, nella misura in
cui prescrive una divisione tra legge e morale e assegna diritti di non-interferenza,
coniugandola con una concezione meno assoluta e meno razionalistica dell’essere autonomi.
È la via intrapresa da recenti rivisitazioni dell’utilitarismo, in cui l’autonomia è un
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«prerequisito strumentale della realizzazione del bene e del giusto», e in particolare modo
della possibilità di sviluppare e realizzare il proprio sé (Lecaldano [1999], pp. 104-105). In
questa prospettiva l’autonomia non è la scelta arbitraria di qualsiasi valore ma deve
combinarsi con le esigenze di responsabilità verso le sofferenze, attuali o possibili, delle altre
persone ed esseri senzienti. Pertanto, nelle questioni attinenti alla nascita, cura e morte degli
esseri umani le scelte autonome devono essere suffragate da ragioni morali prima di essere
considerate moralmente accettabili; ad esempio, il diritto di ricorrere a tecniche di
fecondazione assistita trova un limite nelle conseguenze che il ricorso di queste tecniche avrà
per il benessere e la qualità della vita dei nascituri (ibidem, pp. 168-172).
Queste teorie sono legate in modo indissolubile ad una concezione individualistica,
che dipinge l’autonomia come una proprietà “inerente” al soggetto, che è presente o assente, e
sulla base di tale presenza/assenza decide il valore dell’individuo. Soprattutto la bioetica
femminista e la bioetica della cura hanno messo in luce quanto questa idea trascuri il fatto che
la presenza/assenza dell’autonomia è una questione di processi graduali, in base ai quali tale
capacità viene acquisita e perduta. Non solo il divenire autonomi dipende in larga parte dalle
relazioni con gli altri e dal modo in cui si viene riconosciuti come tali dagli altri, ma l’ideale
di un soggetto totalmente autonomo, nel senso difeso dalla bioetica standard, rischia di essere
un’astrazione chimerica. Si può mettere in discussione che il soggetto che formalmente viene
definito autonomo sia genuinamente tale, soprattutto nel caso in cui si parli del contesto
medico, dove le relazioni che si instaurano determinano una condizione di “asimmetria”, dove
il paziente si trova in partenza in una posizione di subordinazione.
Alla visione individualistica (e razionalistica) dell’autonomia difesa da liberali,
neokantiani e utilitaristi razionali viene contrapposta l’idea di un’“autonomia relazionale”, che
dia ampio spazio alle situazioni concrete e all’ambiente emotivo e relazionale in cui si situano
le singole scelte (Marsico [1990], pp. 108-115). Sul versante negativo ciò può portare anche a
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smascherare casi apparenti di autonomia; ad esempio, mettendo in luce le forme di
oppressione che si nascondono nelle situazioni in cui le tecnologie sembrano conferire alla
donna una maggiore libertà procreativa (Sherwin [2001]), oppure denunciando come nella
scelta di rifiutare certe terapie salva-vita, venga riconosciuta all’autonomia maschile una forza
moralmente normativa superiore rispetto a quella femminile, alla quale viene assegnato un
onere della prova più alto per giustificare le proprie scelte (Miles e August [1990]).
Se al centro della bioetica viene posta l’esigenza di riconoscimento dell’autonomia, i
casi in cui sono coinvolti pazienti morali risultano particolarmente spinosi: quali doveri hanno
le persone verso gli esseri umani dotati di capacità di provare piacere/dolore ma che non sono
autonomi? In questa ottica, si dovrebbero differenziare i casi in cui il paziente è stato
autonomo ma adesso non lo è più (ad esempio i pazienti divenuti permanentemente
incoscienti, di cui sono eventualmente disponibili direttive anticipate o testimonianze indirette
sui loro interessi passati per il futuro) e casi in cui il paziente non è mai stato e non sarà mai
autonomo (ad esempio neonati con gravi malattie o neonati anencefalici). Anche in questo
caso la giustificazione e il peso dei doveri di beneficenza verso i pazienti morali sono diversi
a seconda della teoria etica che si adotta.
Diverso il caso degli embrioni: si può ricordare che alcune autrici hanno premura di
differenziare i problemi morali e sociali che sorgono nel caso in cui l’embrione sia già
impiantato nel ventre materno (problemi dell’aborto, del conflitto madre-feto ecc.) e il caso in
cui l’embrione si trovi all’esterno del grembo (ad esempio in laboratorio, o congelato perché
soprannumerario), perché nei due casi sono in gioco relazioni diverse tra l’embrione e
l’ambiente esterno (Boccia e Zuffa [1998]).
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3.3. Natura
La conquista tecnologica di contesti naturali sempre più ampi sembra il tratto caratteristico
della biomedicina moderna; il rapporto tra natura e artificio, natura e cultura, caso e scelta
costituisce uno dei nodi problematici fondamentali. Come si è detto, la tecnologia ha
profondamente cambiato (e cambierà) i modi tradizionali di nascere, curarsi e morire. Si pensi
ad esempio alla riformulazione del concetto di morte: l’arresto irreversibile dell’attività
cardio-polmonmare costituiva il parametro per la dichiarazione di morte dell’individuo. Con
la disponibilità di nuove tecnologie di prolungamento della vita si è reso necessario passare ad
un modello che identifica il momento del decesso clinico con la cessazione di alcune o tutte le
funzioni cerebrali (Lamb [1985]).
Chiaramente l’uso della tecnica può avere risvolti positivi, come nel caso del trapianto
d’organi, e al contempo sollevare problemi morali seri, relativi in questo caso allo statuto
morale e agli usi del corpo umano.
La dicotomia tra naturale e artificiale porta necessariamente con sé una differenza
etica? Intorno alla possibilità di utilizzare il criterio della “naturalità” per giudicare la moralità
delle tecniche si è sviluppato un ampio dibattito; quanto più la tecnica allontanerebbe l’essere
umano dal carattere naturale delle pratiche che esercita, tanto più essa sarebbe soggetta a
critica morale. La natura avrebbe quindi una forza normativa, perché detterebbe i valori che
l’intervento umano deve rispettare soprattutto quando interviene sulla sua stessa vita
biologica. L’appello alla natura si traduce in modi argomentativi diversi. Da una parte esso
può significare che l’uomo deve rispettare il carattere teleologico dei processi vitali, senza
intromettersi con interventi che li bloccano o li devino (ad esempio l’interruzione o la
manipolazione della vita umana nascente). A questa visione si può associare una concezione
della medicina come arte, il cui compito principale è sostenere e aiutare i processi naturali
(Pellegrino, Thomasma [1988]). D’altra parte, l’affermazione del primato morale del naturale
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sull’artificiale può anche derivare dal riconoscimento dell’unità inscindibile che si realizza tra
l’essere biologico e l’essere biografico dell’uomo, intesa non in senso astratto ma come
realizzazione concreta che si ritrova in tutte le pratiche umane. Nel momento in cui la tecnica
interviene per sostituire o cancellare la “naturalità”, scindendo l’esperienza dal dato biologico
(ad esempio nella procreazione assistita), essa de-umanizza (“snatura”) la pratica stessa, ne
impoverisce il significato simbolico e morale e diminuisce il bene umano che in essa invece si
dovrebbe realizzare (Kass [2002]).
Contro l’asserzione del carattere normativo della natura sono state mosse critiche
stringenti, che si rifanno ad una tradizione di riflessione morale risalente a David Hume e
John Stuart Mill. La massima che impone all’uomo di seguire la natura non ha alcuna valenza
morale, perché tutte le azioni umane consistono in sé in un’alterazione della natura e perché,
se gli individui imitassero molti fenomeni naturali, le loro azioni sarebbero giudicate
immorali (Lecaldano [1999], pp. 147-148). La non praticabilità della via dell’appello alla
natura viene difesa anche in considerazione del fatto che i confini tra natura e cultura sono in
realtà molto labili. Dalla nascita alla morte gli eventi e i processi che caratterizzano la vita
sono continuamente permeati da modi e organizzazione culturali, compresa la medicina
stessa. Il ritorno al “buon selvaggio” e all’uomo non-manipolato è soltanto un mito non
praticabile perché da sempre gli individui hanno messo in atto forme di vita che sono prodotti
dell’evoluzione culturale (Scarpelli [1998], pp. 220-223).
Un modo alternativo di comprendere la dicotomia natura-artificio si ritrova negli
autori che spostano l’obiettivo dell’analisi critica dal piano della valutazione diretta della
moralità delle azioni a quello delle implicazioni della tecnica per l’identità del genere umano.
In questo senso, la novità della logica della tecnologia biomedica consiste nella
trasformazione dell’idea stessa di natura. Se nell’età pre-scientifica la natura è oggetto di
osservazione, oggi è invece oggetto di manipolazione, finalizzata a stabilire il controllo da
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parte dell’uomo sui processi naturali. Ciò che prima era imputabile al caso, che non può
essere giudicato moralmente responsabile di ciò che accade, sta divenendo sempre più
imputabile all’intenzionalità umana (ad esempio, la scelta di tratti genetici gli individui
possono avere, di quali vite siano degne di essere vissute ecc.).
Molto spesso questi cambiamenti si trasformano nell’accusa che le biotecnologie
portino l’uomo a volere fare la parte di Dio (playing God), secondo il sogno prometeico (e per
alcuni tipico dell’atteggiamento scientifico-tecnologico moderno) di controllo e uso delle
forze naturali per il bene dell’umanità. In particolare modo, come si è detto, ciò che prima era
prerogativa della natura (in particolare modo nei processi di procreazione e di costituzione
genetica degli individui), domani potrebbe essere, in modo crescente, oggetto della
responsabilità della nostra scelta. Lo spazio di ciò che possiamo scegliere e determinare erode
sempre più lo spazio di ciò che la natura, Dio o il cieco caso ci assegnano come dato non
alterabile e come punto di partenza contingente delle nostre vite.
Lo spostamento del confine tra caso e scelta incide sui valori che riteniamo più
importanti e che strutturano le nostre vite e le nostre società. Davanti a questa prospettiva, c’è
l’opzione di rifiutare il cambiamento, dichiarando (moralmente e giuridicamente)
indisponibili le basi biologiche della vita umana che rendono possibili le “autodescrizioni
intuitive” che ci rendono consapevoli di cosa siamo e di come ci distinguiamo dagli altri
esseri viventi, in modo da conservare il limite tradizionale tra ciò che rimane al di fuori dalla
nostra responsabilità e ciò che invece ricade nel raggio delle nostre scelte possibili (Habermas
[2001]). Ma la destabilizzazione della morale convenzionale provocata dallo spostamento del
confine caso/scelta potrebbe essere vista non come una ragione per “tornare indietro” ma
come una sfida da accettare, che implichi un ripensamento delle nostre strutture morali. Lo
smarrimento che si prova quando la tecnica mette a dura prova le nostre assunzioni
fondamentali sulla vita e l’etica (uno stato di “caduta libera morale”) è tipico delle rivoluzioni
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concettuali, che aprono momenti di incertezza; ma la scelta radicale che l’uomo deve
affrontare quando si sposta così radicalmente il confine caso/scelta è tra “giocare con il
fuoco” e assumersene le responsabilità o fuggire davanti a ciò che è sconosciuto. Un
atteggiamento responsabile suggerisce di accettare la sfida delle biotecnologie e di rivedere le
proprie strutture morali di base per sapere cogliere le opportunità e frenare i risvolti pericolosi
della nuova tecnica (Dworkin [2000]).
3.3.1. Natura umana
La riflessione sui possibili mutamenti della natura umana che le biotecnologie potrebbero
determinare porta a domandarsi se esista e quale sia una vera natura umana, che serva da
paradigma normativo per stabilire l’accettabilità morale di certi interventi (Bayertz [2003]).
Negli ultimi anni, soprattutto negli Stati Uniti, questo problema è stato al centro di un
dibattito sulle cosiddette “tecnologie di miglioramento” (enhancement debate), cioè tutti gli
interventi (farmacologici, genetici, chirurgici) che possono potenziare tratti, capacità e
comportamenti dell’uomo (Parens [1998]).
Le preoccupazioni espresse da alcuni autori riguardano l’eventualità che tali interventi
possano “de-umanizzare” le generazioni future, ossia creare persone che mancano di
caratteristiche fondamentali che oggi gli esseri umani posseggono. Si concretizzerebbe così
l’incubo della creazione di un Mondo nuovo, in cui gli abitanti sono modificati, programmati
e controllati dall’inizio alla fine della loro vita, condizione incompatibile con la nozione di
“dignità umana” che oggi riconosciamo (Kass [2002]; Fukuyama [2002]). Alcuni aspetti di
questa degradazione sono visibili già adesso: l’uso di farmaci che modificano l’umore o il
comportamento, come il Ritalin e il Prozac, mettono a repentaglio la relazione diretta con ciò
che realmente siamo e con il mondo come realmente è (President’s Council [2003]). In breve,
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le tecnologie del miglioramento mettono a serio rischio il modo autentico in cui siamo esseri
umani.
Sul versante opposto, si sottolinea che tali tecnologie hanno in realtà un valore
positivo perché non solo aumentano la possibilità di scelta, ma tendono anche a migliorare la
qualità della vita degli esseri umani e quella delle generazioni future. Soprattutto nell’ambito
delle scelte che possono mutare il profilo genetico della prole, è moralmente obbligatorio
mettere in atto tutti gli interventi che possono incrementare le prospettive di avere un bambino
che possa condurre la migliore vita possibile. In nome del “Principio delle beneficenza
procreativa”, sono quindi moralmente obbligatori sia gli atti negativi, come la selezione
embrionale, sia atti positivi di ingegneria genetica, senza fare distinzione tra geni portatori di
malattie e geni che esprimono caratteristiche come il sesso o l’intelligenza (Savulescu [2001]
e [2005]; Stock [2002]).
Potere incidere sulla salute, sulla durata della vita, su facoltà intellettuali, disposizioni
e comportamento, migliorando e perfezionando tali caratteristiche, è del resto quello che
l’umanità ha sempre fatto; l’unica differenza è la maggiore raffinatezza del mezzo. La
prospettiva per cui potremmo essere capaci di trasformare noi stessi in qualcosa di “diverso”
suscita preoccupazioni e paure ma esistono motivazioni ragionevoli per pensare che la
generazione “post-umana” potrà godere della stessa dignità di cui godiamo noi oggi; la dignità
è una nozione morale che non può essere intaccata da alcun cambiamento biologico, fisico o
ambientale (Bostrom [2005]).
Ciò che distingue “bioconservatori” e “postumanisti” non è soltanto la differente
concezione della natura umana – per gli uni intangibile, pena la perdita di valore morale, per
gli altri aperta al cambiamento e malleabile e sostanzialmente indipendente dal valore morale
degli individui – ma anche il paradigma etico di riferimento. I bioconservatori accettano il
paradigma della “gratitudine”, per cui ogni capacità, disposizione ecc. degli esseri umani sono
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doni di Dio o della natura di cui essere grati; i postumanisti invece accettano il paradigma
della “creatività”, per cui gli esseri umani hanno la responsabilità di trasformare se stessi e il
mondo. Nella realtà, i due paradigmi non sono così nettamente contrapposti. Le persone
spesso adottano un atteggiamento di scetticismo verso certe tecnologie o certi farmaci e un
atteggiamento di accettazione verso altri interventi: molti sarebbero critici nei confronti di una
pillola di “Viagra femminile”, che crei una percezione artificiale dell’intimità nelle donne per
far nascere il desiderio sessuale, ma sarebbero invece favorevoli a un intervento chirurgico
che consenta ad un individuo di cambiare sesso. La motivazione di questa ambivalenza è
radicata nell’interazione tra l’intervento e l’idea di autenticità. Poiché una parte essenziale
della auto-realizzazione autentica è l’esperienza dell’intimità con un’altra persona, la pillola
renderebbe artificiale, non autentico, non vero un aspetto fondamentale della propria identità.
L’intervento chirurgico invece sembrerebbe necessario affinché il soggetto riesca a sviluppare
la propria autentica identità. Sembrerebbe quindi raccomandabile un approccio che valuti i
singoli casi e le singole tecnologie, riconoscendo e valorizzando gli atteggiamenti ambivalenti
che spingono a riconoscere dignità e apprezzabilità ad entrambi i paradigmi (Parens [2005]).
RINGRAZIAMENTI
Desidero ringraziare i referees anonimi, il cui lavoro ha migliorato di molto il presente testo
sia nella forma che nel contenuto; senza i loro consigli la versione finale sarebbe stata
sicuramente peggiore. Un ringraziamento particolare va a Gian Maria Greco che fin
dall’inizio ha dimostrato cura, pazienza e attenzione nel seguire le varie stesure dello scritto.
Chiaramente gli errori e le confusioni che nonostante ciò fossero ancora presenti sono da
addebitare esclusivamente all’autore.
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SCHEDA DI APPROFONDIMENTO
Per una visione d’insieme sulla bioetica si può tenere conto dell’Encyclopaedia of Bioethics, a
cura di W.T. Reich [19952], MacMillan, New York e P. Singer, H. Kuhse (a cura di), [1998],
A Companion to Bioethics, Blackwell, Oxford, accompagnato dal volume antologico a cura
degli stessi autori [1999], Bioethics. An Anthology, Blackwell, Oxford.
In italiano sono utili R. Mordacci [2003], Una introduzione alle teorie morali.
Confronto con la bioetica, Feltrinelli, Milano; E. Lecaldano (a cura di) [2002], Dizionario di
bioetica, Laterza, Roma-Bari; A. Pessina [1999], Bioetica. L’uomo sperimentale, Mondadori,
Milano; F. Rufo (a cura di) [2005], Bioetica e società complessa. Una prospettiva laica,
Ediesse, Roma; G. Ferranti, S. Maffettone (a cura di) [1992], Introduzione alla bioetica,
Liguori, Napoli.
La letteratura in materia di bioetica è divenuta oramai sterminata e sono
numerosissime le pubblicazioni dedicate a singoli temi. Per un primo approccio si possono
comunque vedere: L. Preta [1999], Nuove geometrie della mente. Psicoanalisi e bioetica,
Laterza, Roma-Bari; G. Berlinguer [2000], Bioetica quotidiana, Giunti, Firenze; S. Pollo
[2003], Scegliere chi nasce. L’etica della riproduzione umana tra libertà e responsabilità,
Guerini e Associati, Milano; D. Neri [2001], Bioetica in laboratorio, Laterza, Roma-Bari; D.
Neri [1995], Eutanasia, Laterza, Roma-Bari.
Sono inoltre da consultare le riviste specialistiche interamente dedicate alla bioetica.
Tra di esse si segnalano: Bioethics (ed. Blackwell); Hastings Center Report (ed. Hastings
Center); Bioetica. Rivisita interdisciplinare (ed. Guerini e Associati), Medicina e morale (ed.
Università Cattolica Sacro Cuore/Vita e Pensiero).
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Matteo Galletti – Bioetica
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BIBLIOGRAFIA
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Franco Angeli, Milano.
Battaglia L. (1998), a cura di, Etica e animali, Liguori, Napoli.
Bartolommei S. (1995), Etica e natura. Una «rivoluzione copernicana» in etica?, Laterza,
Roma-Bari.
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