Costruire ponti: la traduzione come strumento per una politica e poetica dell'ospitalità, 2018
Recensione a: Paola Zaccaria, La lingua che ospita. Poetiche politiche traduzioni , Milano, Melte... more Recensione a: Paola Zaccaria, La lingua che ospita. Poetiche politiche traduzioni , Milano, Meltemi, 2017, 289 pp..
Border, confini, ibridazione, creolizzazione, impurità, complessità: come entrano nella riflessione sulla letteratura (e sulla traduzione) questi concetti legati al tema delle migrazioni cui assistiamo quotidianamente? Nella seconda edizione de La lingua che ospita , frutto di una rilettura che conferma la necessità di utilizzare la lente del border critical thinking come strumento chiave per interpretare gli attraversamenti planetari contemporanei e le nuove costruzioni di muri, Paola Zaccaria pluralizza le coordinate indicate nel sottotitolo, Poetiche, politiche, traduzioni, per restituire complessità a quelle pratiche che prendono avvio dalla condizione di soglia, dal confine spesso permeabile tra le culture. Il concetto di border indicizza la «consapevolezza che i confini comportano, nonostante tutto, un contatto tra popolazioni, sistemi conoscitivi e lingue che possono scontrarsi ma anche entrare in relazione, intrecciandosi attraverso pratiche e ambiti culturali, epistemici, linguistici, stilistici, psicologici, etnografici e molto altro» (pp. 13-14). Attingendo alle tracce storiche della diaspora africana e a quelle dei chicanos messico-americani, da sempre plurilingue e resistenti alle richieste di assimilazione, acculturazione e integrazione dentro le strutture dell'egemonia culturale colonizzatrice, il saggio di Paola Zaccaria propone al lettore un itinerario attraverso testi eterodossi, disorganici e destabilizzanti rispetto a forme e generi letterari codificati, «testi che svelano nella scrittura stessa il conflitto, l'irrequietezza, l'assenza di certezze, il mutamento incessante» (p. 57). Le esigenze da cui nasce questo saggio sono molteplici: mettere in relazione letteratura e politica; aprire il dialogo con il pensiero e le culture non eurocentriche che emergono con la decolonizzazione e il postcolonialismo; creare segni che parlino di frontiera, incontro, attraversamento; ripensare il lessico alla luce dell'attuale situazione geopolitica. In una parola, fare «prove tattiche di planetarietà» (p. 251), ovvero disaffiliarsi dal proprio paese, pensarsi nel pianeta. L'autrice mette alla prova il lettore adottando uno stile complesso, circolare, ricco di riferimenti colti che vanno da Eduard Glissant a Paul Gilroy, da Assia Djebar a Gloria Amzaldua...
Costruire ponti: la traduzione come strumento per una politica e poetica dell'ospitalità, 2018
Recensione a: Paola Zaccaria, La lingua che ospita. Poetiche politiche traduzioni , Milano, Melte... more Recensione a: Paola Zaccaria, La lingua che ospita. Poetiche politiche traduzioni , Milano, Meltemi, 2017, 289 pp..
Border, confini, ibridazione, creolizzazione, impurità, complessità: come entrano nella riflessione sulla letteratura (e sulla traduzione) questi concetti legati al tema delle migrazioni cui assistiamo quotidianamente? Nella seconda edizione de La lingua che ospita , frutto di una rilettura che conferma la necessità di utilizzare la lente del border critical thinking come strumento chiave per interpretare gli attraversamenti planetari contemporanei e le nuove costruzioni di muri, Paola Zaccaria pluralizza le coordinate indicate nel sottotitolo, Poetiche, politiche, traduzioni, per restituire complessità a quelle pratiche che prendono avvio dalla condizione di soglia, dal confine spesso permeabile tra le culture. Il concetto di border indicizza la «consapevolezza che i confini comportano, nonostante tutto, un contatto tra popolazioni, sistemi conoscitivi e lingue che possono scontrarsi ma anche entrare in relazione, intrecciandosi attraverso pratiche e ambiti culturali, epistemici, linguistici, stilistici, psicologici, etnografici e molto altro» (pp. 13-14). Attingendo alle tracce storiche della diaspora africana e a quelle dei chicanos messico-americani, da sempre plurilingue e resistenti alle richieste di assimilazione, acculturazione e integrazione dentro le strutture dell'egemonia culturale colonizzatrice, il saggio di Paola Zaccaria propone al lettore un itinerario attraverso testi eterodossi, disorganici e destabilizzanti rispetto a forme e generi letterari codificati, «testi che svelano nella scrittura stessa il conflitto, l'irrequietezza, l'assenza di certezze, il mutamento incessante» (p. 57). Le esigenze da cui nasce questo saggio sono molteplici: mettere in relazione letteratura e politica; aprire il dialogo con il pensiero e le culture non eurocentriche che emergono con la decolonizzazione e il postcolonialismo; creare segni che parlino di frontiera, incontro, attraversamento; ripensare il lessico alla luce dell'attuale situazione geopolitica. In una parola, fare «prove tattiche di planetarietà» (p. 251), ovvero disaffiliarsi dal proprio paese, pensarsi nel pianeta. L'autrice mette alla prova il lettore adottando uno stile complesso, circolare, ricco di riferimenti colti che vanno da Eduard Glissant a Paul Gilroy, da Assia Djebar a Gloria Amzaldua...
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Border, confini, ibridazione, creolizzazione, impurità, complessità: come entrano nella riflessione sulla letteratura (e sulla traduzione) questi concetti legati al tema delle migrazioni cui assistiamo quotidianamente? Nella seconda edizione de La lingua che ospita , frutto di una rilettura che conferma la necessità di utilizzare la lente del border critical thinking come strumento chiave per interpretare gli attraversamenti planetari contemporanei e le nuove costruzioni di muri, Paola Zaccaria pluralizza le coordinate indicate nel sottotitolo, Poetiche, politiche, traduzioni, per restituire complessità a quelle pratiche che prendono avvio dalla condizione di soglia, dal confine spesso permeabile tra le culture. Il concetto di border indicizza la «consapevolezza che i confini comportano, nonostante tutto, un contatto tra popolazioni, sistemi conoscitivi e lingue che possono scontrarsi ma anche entrare in relazione, intrecciandosi attraverso pratiche e ambiti culturali, epistemici, linguistici, stilistici, psicologici, etnografici e molto altro» (pp. 13-14). Attingendo alle tracce storiche della diaspora africana e a quelle dei chicanos messico-americani, da sempre plurilingue e resistenti alle richieste di assimilazione, acculturazione e integrazione dentro le strutture dell'egemonia culturale colonizzatrice, il saggio di Paola Zaccaria propone al lettore un itinerario attraverso testi eterodossi, disorganici e destabilizzanti rispetto a forme e generi letterari codificati, «testi che svelano nella scrittura stessa il conflitto, l'irrequietezza, l'assenza di certezze, il mutamento incessante» (p. 57). Le esigenze da cui nasce questo saggio sono molteplici: mettere in relazione letteratura e politica; aprire il dialogo con il pensiero e le culture non eurocentriche che emergono con la decolonizzazione e il postcolonialismo; creare segni che parlino di frontiera, incontro, attraversamento; ripensare il lessico alla luce dell'attuale situazione geopolitica. In una parola, fare «prove tattiche di planetarietà» (p. 251), ovvero disaffiliarsi dal proprio paese, pensarsi nel pianeta. L'autrice mette alla prova il lettore adottando uno stile complesso, circolare, ricco di riferimenti colti che vanno da Eduard Glissant a Paul Gilroy, da Assia Djebar a Gloria Amzaldua...
Border, confini, ibridazione, creolizzazione, impurità, complessità: come entrano nella riflessione sulla letteratura (e sulla traduzione) questi concetti legati al tema delle migrazioni cui assistiamo quotidianamente? Nella seconda edizione de La lingua che ospita , frutto di una rilettura che conferma la necessità di utilizzare la lente del border critical thinking come strumento chiave per interpretare gli attraversamenti planetari contemporanei e le nuove costruzioni di muri, Paola Zaccaria pluralizza le coordinate indicate nel sottotitolo, Poetiche, politiche, traduzioni, per restituire complessità a quelle pratiche che prendono avvio dalla condizione di soglia, dal confine spesso permeabile tra le culture. Il concetto di border indicizza la «consapevolezza che i confini comportano, nonostante tutto, un contatto tra popolazioni, sistemi conoscitivi e lingue che possono scontrarsi ma anche entrare in relazione, intrecciandosi attraverso pratiche e ambiti culturali, epistemici, linguistici, stilistici, psicologici, etnografici e molto altro» (pp. 13-14). Attingendo alle tracce storiche della diaspora africana e a quelle dei chicanos messico-americani, da sempre plurilingue e resistenti alle richieste di assimilazione, acculturazione e integrazione dentro le strutture dell'egemonia culturale colonizzatrice, il saggio di Paola Zaccaria propone al lettore un itinerario attraverso testi eterodossi, disorganici e destabilizzanti rispetto a forme e generi letterari codificati, «testi che svelano nella scrittura stessa il conflitto, l'irrequietezza, l'assenza di certezze, il mutamento incessante» (p. 57). Le esigenze da cui nasce questo saggio sono molteplici: mettere in relazione letteratura e politica; aprire il dialogo con il pensiero e le culture non eurocentriche che emergono con la decolonizzazione e il postcolonialismo; creare segni che parlino di frontiera, incontro, attraversamento; ripensare il lessico alla luce dell'attuale situazione geopolitica. In una parola, fare «prove tattiche di planetarietà» (p. 251), ovvero disaffiliarsi dal proprio paese, pensarsi nel pianeta. L'autrice mette alla prova il lettore adottando uno stile complesso, circolare, ricco di riferimenti colti che vanno da Eduard Glissant a Paul Gilroy, da Assia Djebar a Gloria Amzaldua...