L.231/2001 e D.lgs. 14/2019: un binomio possibile? , 2022
Crisi d'impresa e responsabilità amministrativa da reato dell'ente: un binomio possibile?
L'ausp... more Crisi d'impresa e responsabilità amministrativa da reato dell'ente: un binomio possibile? L'auspicio che si sviluppi anche nel nostro Paese un modello di impresa sapiens ( ), in modo da evitare il prevalere dell'egoismo arrogante del privato che tutto pretende e nulla vuol dare ( ), è sempre più avvertito alla luce dell'esigenza di far penetrare l'etica ( ) nelle maglie normative in materia d'impresa, sempre più impregnate di formalismo positivistico e di statualismo imperativistico ( ). Seppure il legislatore delinei parametri di liceità (civile, amministrativa o penale) del comportamento degli operatori, permette, al contempo (e paradossalmente) di ampliare la possibilità di infrangere quei confini proprio grazie all'eccessivo rigore normativo che, sebbene funga formalmente da deterrente, consente, (anche) a chi fa impresa, comportamenti non sempre ethically correct ( ). Ed è proprio nei vuoti normativi, nelle contraddizioni testuali, nell'apparente equivalenza semantica, nei rinvii che una norma, per poter essere letta ed interpretata, fa ad un'altra, che si annida, talvolta, l'ambiguità (quando non anche l'incongruità) della disciplina legislativa di settore, nelle cui maglie può insinuarsi la condotta (o una pluralità teleologica di condotte) dell'imprenditore volta a fini elusivi, o comunque illeciti, pur rimanendo entro gli argini della non punibilità (penale) nonostante la riprovevolezza della sua condotta. Ecco che, l'etica, pervadendo, gradualmente, il mondo d'impresa, è destinata (o dovrebbe esserlo) a svolgervi sempre più un ruolo da protagonista, se correttamente intesa come vera e propria “fonte” integrativa che, sebbene non abbia - formalmente - la stessa autorevolezza di una fonte scritta, permetta di interpretare e modellare il tessuto normativo a contenuto imperativo, indicando all'interprete, un nuovo e più moderno modello ermeneutico, che non consti della mera “lettura” di una norma e della sua portata lessicale ma lo induca ad una più complessa analisi volta ad integrarne la struttura “significante” con un più ampio “significato” che si fa, al tempo stesso, status deontologico e filosofia morale del comportamento umano, che consentano di evidenziare e distinguere i comportamenti leciti da quelli illeciti secondo un ideale modello comportamentale. Il guadagno economico e l'adozione di strategie (lecite ed etiche) per conseguirlo, per chi assume su di sé tutti i complessi rischi connessi all'attività d'impresa, ne costituiranno allora riflesso naturale e fisiologico: ma le molteplici direzioni e dimensioni della “responsabilità” che ne discendono -, consequenziali alla gestione dell'impresa-, oltre ad essere di natura economica, si estrinsecheranno altresì in forme di responsabilità giuridica, sociale e (soprattutto) morale nei confronti di coloro che sono partecipi nell'attività dell'investimento iniziale ma anche nei confronti dei propri dipendenti, consulenti, fornitori, utenti, della comunità in cui si opera (ed infine, ma non per ciò con meno importanza, di se stesso ( )). Questo composito prisma di responsabilità, che grava sulle spalle di chi conduce un'impresa, la necessità di dover fronteggiare un mercato economico globale sempre più aggressivo - spesso inquinato da pratiche commerciali scorrette e sleali -, di concorrere in modo agguerrito (per lo più, per le piccole aziende) e di dover mirare a produrre utili d'impresa, spingono l'imprenditore a tenere comportamenti ed a sostenere ritmi che possano almeno tentare di reggere il confronto con le grandi imprese e di essere “responsabilmente” concorrenti, seppur in una forma ed in una dimensione differente. Per fronteggiare tale sfida, però, vi sono una serie di elementi estrinseci che non possono essere separatamente considerati e tantomeno ignorati o elusi: la crisi economica che il Paese sta attraversando e le pressioni fiscali che avvolgono in una morsa soffocante gli imprenditori in difficoltà ( ). Il presente lavoro si propone allora l’obbiettivo di indagare e di interrogarsi sui modelli operativi dell’impresa (ir)responsabile nell'ambito della crisi d'impresa con particolare riguardo al concetto di abuso della crisi da parte dell’imprenditore, ed i riflessi derivanti dalla massimizzazione delle perdite che incidono sulla (mancata, ovvero carente) tutela dell'integrità psichico-fisica dei prestatori di lavoro. L’incipit volgerà ad analizzare l'interrelazione e le divergenze tra i due modelli di prevenzione (Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza e Decreto 231/2001) e gli strumenti normativi funzionali al risanamento delle imprese in difficoltà al fine di consentire, agli imprenditori, di rilevare (non solo) tempestivamente lo stato di crisi ( ) e poi di insolvenza ma - anche - di utilizzare gli stessi istituti, avendo come principale obiettivo il risanamento e la prosecuzione dell'attività piuttosto che la sua cessazione - salvi casi oggettivamente irrimediabili ed irreversibili ( ). Conseguente scopo sarà proprio quello di analizzare le significative differenze che intercorrono tra lo stato di “pre-crisi” e lo stato di “crisi”, rilevando come l'abuso possa radicarsi e svilupparsi nel mero stato di “incubazione e maturazione diacronico”, ove la (non) palese manifestazione dell'incapacità di adempiere alle proprie obbligazioni si protragga in uno stabile disequilibrio economico non direttamente suscettibile di costatazione da parte dei terzi ma di immediata valutazione da parte del personale dipendente. L’indagine proseguirà con il tentativo di superare la rigidità del positivismo giuridico - e la sua tradizionale staticità - delineando (ed analizzando) la crisi d'impresa in correlazione alla normativa di cui al D.lgs. 231/2001 al fine di cogliere l'impatto della crisi d'impresa sul sistema di prevenzione dei reati commessi in violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro. In tale ottica, il problema della tutela della persona in mancanza di risorse economiche è accentuato a causa del fatto che la «massimizzazione delle perdite» (la cui causa risiede nella “crisi” ovvero nell'“insolvenza), sebbene possa essere individuata e circoscritta dal D.Lvo. 14/2019 al piano di regole positivizzate, in realtà si traduce in un “risparmio di spesa” inteso quale elemento costitutivo dell'“interesse” ovvero del “vantaggio” dell'ente dal quale ne trae profitto, il cui danno si manifesta nella sottrazione delle risorse economiche necessarie alla tutela dell'incolumità dei lavoratori ingiustamente destinatari del pregiudizio, e nella violazione delle esigenze di contemperamento degli interessi e di proporzionalità tra vantaggio di una parte e interesse sacrificato dall'altra ( ). In questa prospettiva, ad acuire le vulnerabilità a cui i prestatori sono espositi, oltre alla lacunosità delle norme in tema di lavoro, vi è l'assenza di disposizioni di cui al D.lgs. 231/2001 nel Codice della Crisi che rendono, di fatto, debole (se non del tutto assente) il controllo dell'Organismo di Vigilanza sull'operato del management. Nel prosieguo, l'indagine porrà, quindi, attenzione sulla centralità, se non anche l'essenzialità, del ruolo dell'Organismo di Vigilanza nella procedura di risoluzione concordataria della crisi al fine di evidenziare la necessità non più prorogabile di una sinergica collaborazione tra l'Organismo stesso e il commissario giudiziale nel momento applicativo del diritto al fine di valutare la condotta degli amministratori «attraverso parametri di composizione sensibili alla forza assiologica degli interessi coinvolti» ( ). In funditus, l’indagine esplorerà come la non attuazione del “Sistema 231” in sede di crisi d'impresa a causa della sua “onerosità” si riverbera sul complesso asset aziendale, e che la mancanza di una visione, ad opera delle Istituzioni, “a più ampio raggio” e a “più ampio contenuto” dell'attività determina una capitis deminutio della costituzionalizzazione della persona a fronte della centralità del principio della par condicio creditorum.
L.231/2001 e D.lgs. 14/2019: un binomio possibile? , 2022
Crisi d'impresa e responsabilità amministrativa da reato dell'ente: un binomio possibile?
L'ausp... more Crisi d'impresa e responsabilità amministrativa da reato dell'ente: un binomio possibile? L'auspicio che si sviluppi anche nel nostro Paese un modello di impresa sapiens ( ), in modo da evitare il prevalere dell'egoismo arrogante del privato che tutto pretende e nulla vuol dare ( ), è sempre più avvertito alla luce dell'esigenza di far penetrare l'etica ( ) nelle maglie normative in materia d'impresa, sempre più impregnate di formalismo positivistico e di statualismo imperativistico ( ). Seppure il legislatore delinei parametri di liceità (civile, amministrativa o penale) del comportamento degli operatori, permette, al contempo (e paradossalmente) di ampliare la possibilità di infrangere quei confini proprio grazie all'eccessivo rigore normativo che, sebbene funga formalmente da deterrente, consente, (anche) a chi fa impresa, comportamenti non sempre ethically correct ( ). Ed è proprio nei vuoti normativi, nelle contraddizioni testuali, nell'apparente equivalenza semantica, nei rinvii che una norma, per poter essere letta ed interpretata, fa ad un'altra, che si annida, talvolta, l'ambiguità (quando non anche l'incongruità) della disciplina legislativa di settore, nelle cui maglie può insinuarsi la condotta (o una pluralità teleologica di condotte) dell'imprenditore volta a fini elusivi, o comunque illeciti, pur rimanendo entro gli argini della non punibilità (penale) nonostante la riprovevolezza della sua condotta. Ecco che, l'etica, pervadendo, gradualmente, il mondo d'impresa, è destinata (o dovrebbe esserlo) a svolgervi sempre più un ruolo da protagonista, se correttamente intesa come vera e propria “fonte” integrativa che, sebbene non abbia - formalmente - la stessa autorevolezza di una fonte scritta, permetta di interpretare e modellare il tessuto normativo a contenuto imperativo, indicando all'interprete, un nuovo e più moderno modello ermeneutico, che non consti della mera “lettura” di una norma e della sua portata lessicale ma lo induca ad una più complessa analisi volta ad integrarne la struttura “significante” con un più ampio “significato” che si fa, al tempo stesso, status deontologico e filosofia morale del comportamento umano, che consentano di evidenziare e distinguere i comportamenti leciti da quelli illeciti secondo un ideale modello comportamentale. Il guadagno economico e l'adozione di strategie (lecite ed etiche) per conseguirlo, per chi assume su di sé tutti i complessi rischi connessi all'attività d'impresa, ne costituiranno allora riflesso naturale e fisiologico: ma le molteplici direzioni e dimensioni della “responsabilità” che ne discendono -, consequenziali alla gestione dell'impresa-, oltre ad essere di natura economica, si estrinsecheranno altresì in forme di responsabilità giuridica, sociale e (soprattutto) morale nei confronti di coloro che sono partecipi nell'attività dell'investimento iniziale ma anche nei confronti dei propri dipendenti, consulenti, fornitori, utenti, della comunità in cui si opera (ed infine, ma non per ciò con meno importanza, di se stesso ( )). Questo composito prisma di responsabilità, che grava sulle spalle di chi conduce un'impresa, la necessità di dover fronteggiare un mercato economico globale sempre più aggressivo - spesso inquinato da pratiche commerciali scorrette e sleali -, di concorrere in modo agguerrito (per lo più, per le piccole aziende) e di dover mirare a produrre utili d'impresa, spingono l'imprenditore a tenere comportamenti ed a sostenere ritmi che possano almeno tentare di reggere il confronto con le grandi imprese e di essere “responsabilmente” concorrenti, seppur in una forma ed in una dimensione differente. Per fronteggiare tale sfida, però, vi sono una serie di elementi estrinseci che non possono essere separatamente considerati e tantomeno ignorati o elusi: la crisi economica che il Paese sta attraversando e le pressioni fiscali che avvolgono in una morsa soffocante gli imprenditori in difficoltà ( ). Il presente lavoro si propone allora l’obbiettivo di indagare e di interrogarsi sui modelli operativi dell’impresa (ir)responsabile nell'ambito della crisi d'impresa con particolare riguardo al concetto di abuso della crisi da parte dell’imprenditore, ed i riflessi derivanti dalla massimizzazione delle perdite che incidono sulla (mancata, ovvero carente) tutela dell'integrità psichico-fisica dei prestatori di lavoro. L’incipit volgerà ad analizzare l'interrelazione e le divergenze tra i due modelli di prevenzione (Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza e Decreto 231/2001) e gli strumenti normativi funzionali al risanamento delle imprese in difficoltà al fine di consentire, agli imprenditori, di rilevare (non solo) tempestivamente lo stato di crisi ( ) e poi di insolvenza ma - anche - di utilizzare gli stessi istituti, avendo come principale obiettivo il risanamento e la prosecuzione dell'attività piuttosto che la sua cessazione - salvi casi oggettivamente irrimediabili ed irreversibili ( ). Conseguente scopo sarà proprio quello di analizzare le significative differenze che intercorrono tra lo stato di “pre-crisi” e lo stato di “crisi”, rilevando come l'abuso possa radicarsi e svilupparsi nel mero stato di “incubazione e maturazione diacronico”, ove la (non) palese manifestazione dell'incapacità di adempiere alle proprie obbligazioni si protragga in uno stabile disequilibrio economico non direttamente suscettibile di costatazione da parte dei terzi ma di immediata valutazione da parte del personale dipendente. L’indagine proseguirà con il tentativo di superare la rigidità del positivismo giuridico - e la sua tradizionale staticità - delineando (ed analizzando) la crisi d'impresa in correlazione alla normativa di cui al D.lgs. 231/2001 al fine di cogliere l'impatto della crisi d'impresa sul sistema di prevenzione dei reati commessi in violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro. In tale ottica, il problema della tutela della persona in mancanza di risorse economiche è accentuato a causa del fatto che la «massimizzazione delle perdite» (la cui causa risiede nella “crisi” ovvero nell'“insolvenza), sebbene possa essere individuata e circoscritta dal D.Lvo. 14/2019 al piano di regole positivizzate, in realtà si traduce in un “risparmio di spesa” inteso quale elemento costitutivo dell'“interesse” ovvero del “vantaggio” dell'ente dal quale ne trae profitto, il cui danno si manifesta nella sottrazione delle risorse economiche necessarie alla tutela dell'incolumità dei lavoratori ingiustamente destinatari del pregiudizio, e nella violazione delle esigenze di contemperamento degli interessi e di proporzionalità tra vantaggio di una parte e interesse sacrificato dall'altra ( ). In questa prospettiva, ad acuire le vulnerabilità a cui i prestatori sono espositi, oltre alla lacunosità delle norme in tema di lavoro, vi è l'assenza di disposizioni di cui al D.lgs. 231/2001 nel Codice della Crisi che rendono, di fatto, debole (se non del tutto assente) il controllo dell'Organismo di Vigilanza sull'operato del management. Nel prosieguo, l'indagine porrà, quindi, attenzione sulla centralità, se non anche l'essenzialità, del ruolo dell'Organismo di Vigilanza nella procedura di risoluzione concordataria della crisi al fine di evidenziare la necessità non più prorogabile di una sinergica collaborazione tra l'Organismo stesso e il commissario giudiziale nel momento applicativo del diritto al fine di valutare la condotta degli amministratori «attraverso parametri di composizione sensibili alla forza assiologica degli interessi coinvolti» ( ). In funditus, l’indagine esplorerà come la non attuazione del “Sistema 231” in sede di crisi d'impresa a causa della sua “onerosità” si riverbera sul complesso asset aziendale, e che la mancanza di una visione, ad opera delle Istituzioni, “a più ampio raggio” e a “più ampio contenuto” dell'attività determina una capitis deminutio della costituzionalizzazione della persona a fronte della centralità del principio della par condicio creditorum.
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L'auspicio che si sviluppi anche nel nostro Paese un modello di impresa sapiens ( ), in modo da evitare il prevalere dell'egoismo arrogante del privato che tutto pretende e nulla vuol dare ( ), è sempre più avvertito alla luce dell'esigenza di far penetrare l'etica ( ) nelle maglie normative in materia d'impresa, sempre più impregnate di formalismo positivistico e di statualismo imperativistico ( ).
Seppure il legislatore delinei parametri di liceità (civile, amministrativa o penale) del comportamento degli operatori, permette, al contempo (e paradossalmente) di ampliare la possibilità di infrangere quei confini proprio grazie all'eccessivo rigore normativo che, sebbene funga formalmente da deterrente, consente, (anche) a chi fa impresa, comportamenti non sempre ethically correct ( ).
Ed è proprio nei vuoti normativi, nelle contraddizioni testuali, nell'apparente equivalenza semantica, nei rinvii che una norma, per poter essere letta ed interpretata, fa ad un'altra, che si annida, talvolta, l'ambiguità (quando non anche l'incongruità) della disciplina legislativa di settore, nelle cui maglie può insinuarsi la condotta (o una pluralità teleologica di condotte) dell'imprenditore volta a fini elusivi, o comunque illeciti, pur rimanendo entro gli argini della non punibilità (penale) nonostante la riprovevolezza della sua condotta.
Ecco che, l'etica, pervadendo, gradualmente, il mondo d'impresa, è destinata (o dovrebbe esserlo) a svolgervi sempre più un ruolo da protagonista, se correttamente intesa come vera e propria “fonte” integrativa che, sebbene non abbia - formalmente - la stessa autorevolezza di una fonte scritta, permetta di interpretare e modellare il tessuto normativo a contenuto imperativo, indicando all'interprete, un nuovo e più moderno modello ermeneutico, che non consti della mera “lettura” di una norma e della sua portata lessicale ma lo induca ad una più complessa analisi volta ad integrarne la struttura “significante” con un più ampio “significato” che si fa, al tempo stesso, status deontologico e filosofia morale del comportamento umano, che consentano di evidenziare e distinguere i comportamenti leciti da quelli illeciti secondo un ideale modello comportamentale.
Il guadagno economico e l'adozione di strategie (lecite ed etiche) per conseguirlo, per chi assume su di sé tutti i complessi rischi connessi all'attività d'impresa, ne costituiranno allora riflesso naturale e fisiologico: ma le molteplici direzioni e dimensioni della “responsabilità” che ne discendono -, consequenziali alla gestione dell'impresa-, oltre ad essere di natura economica, si estrinsecheranno altresì in forme di responsabilità giuridica, sociale e (soprattutto) morale nei confronti di coloro che sono partecipi nell'attività dell'investimento iniziale ma anche nei confronti dei propri dipendenti, consulenti, fornitori, utenti, della comunità in cui si opera (ed infine, ma non per ciò con meno importanza, di se stesso ( )).
Questo composito prisma di responsabilità, che grava sulle spalle di chi conduce un'impresa, la necessità di dover fronteggiare un mercato economico globale sempre più aggressivo - spesso inquinato da pratiche commerciali scorrette e sleali -, di concorrere in modo agguerrito (per lo più, per le piccole aziende) e di dover mirare a produrre utili d'impresa, spingono l'imprenditore a tenere comportamenti ed a sostenere ritmi che possano almeno tentare di reggere il confronto con le grandi imprese e di essere “responsabilmente” concorrenti, seppur in una forma ed in una dimensione differente.
Per fronteggiare tale sfida, però, vi sono una serie di elementi estrinseci che non possono essere separatamente considerati e tantomeno ignorati o elusi: la crisi economica che il Paese sta attraversando e le pressioni fiscali che avvolgono in una morsa soffocante gli imprenditori in difficoltà ( ).
Il presente lavoro si propone allora l’obbiettivo di indagare e di interrogarsi sui modelli operativi dell’impresa (ir)responsabile nell'ambito della crisi d'impresa con particolare riguardo al concetto di abuso della crisi da parte dell’imprenditore, ed i riflessi derivanti dalla massimizzazione delle perdite che incidono sulla (mancata, ovvero carente) tutela dell'integrità psichico-fisica dei prestatori di lavoro.
L’incipit volgerà ad analizzare l'interrelazione e le divergenze tra i due modelli di prevenzione (Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza e Decreto 231/2001) e gli strumenti normativi funzionali al risanamento delle imprese in difficoltà al fine di consentire, agli imprenditori, di rilevare (non solo) tempestivamente lo stato di crisi ( ) e poi di insolvenza ma - anche - di utilizzare gli stessi istituti, avendo come principale obiettivo il risanamento e la prosecuzione dell'attività piuttosto che la sua cessazione - salvi casi oggettivamente irrimediabili ed irreversibili ( ).
Conseguente scopo sarà proprio quello di analizzare le significative differenze che intercorrono tra lo stato di “pre-crisi” e lo stato di “crisi”, rilevando come l'abuso possa radicarsi e svilupparsi nel mero stato di “incubazione e maturazione diacronico”, ove la (non) palese manifestazione dell'incapacità di adempiere alle proprie obbligazioni si protragga in uno stabile disequilibrio economico non direttamente suscettibile di costatazione da parte dei terzi ma di immediata valutazione da parte del personale dipendente.
L’indagine proseguirà con il tentativo di superare la rigidità del positivismo giuridico - e la sua tradizionale staticità - delineando (ed analizzando) la crisi d'impresa in correlazione alla normativa di cui al D.lgs. 231/2001 al fine di cogliere l'impatto della crisi d'impresa sul sistema di prevenzione dei reati commessi in violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro.
In tale ottica, il problema della tutela della persona in mancanza di risorse economiche è accentuato a causa del fatto che la «massimizzazione delle perdite» (la cui causa risiede nella “crisi” ovvero nell'“insolvenza), sebbene possa essere individuata e circoscritta dal D.Lvo. 14/2019 al piano di regole positivizzate, in realtà si traduce in un “risparmio di spesa” inteso quale elemento costitutivo dell'“interesse” ovvero del “vantaggio” dell'ente dal quale ne trae profitto, il cui danno si manifesta nella sottrazione delle risorse economiche necessarie alla tutela dell'incolumità dei lavoratori ingiustamente destinatari del pregiudizio, e nella violazione delle esigenze di contemperamento degli interessi e di proporzionalità tra vantaggio di una parte e interesse sacrificato dall'altra ( ). In questa prospettiva, ad acuire le vulnerabilità a cui i prestatori sono espositi, oltre alla lacunosità delle norme in tema di lavoro, vi è l'assenza di disposizioni di cui al D.lgs. 231/2001 nel Codice della Crisi che rendono, di fatto, debole (se non del tutto assente) il controllo dell'Organismo di Vigilanza sull'operato del management.
Nel prosieguo, l'indagine porrà, quindi, attenzione sulla centralità, se non anche l'essenzialità, del ruolo dell'Organismo di Vigilanza nella procedura di risoluzione concordataria della crisi al fine di evidenziare la necessità non più prorogabile di una sinergica collaborazione tra l'Organismo stesso e il commissario giudiziale nel momento applicativo del diritto al fine di valutare la condotta degli amministratori «attraverso parametri di composizione sensibili alla forza assiologica degli interessi coinvolti» ( ).
In funditus, l’indagine esplorerà come la non attuazione del “Sistema 231” in sede di crisi d'impresa a causa della sua “onerosità” si riverbera sul complesso asset aziendale, e che la mancanza di una visione, ad opera delle Istituzioni, “a più ampio raggio” e a “più ampio contenuto” dell'attività determina una capitis deminutio della costituzionalizzazione della persona a fronte della centralità del principio della par condicio creditorum.
L'auspicio che si sviluppi anche nel nostro Paese un modello di impresa sapiens ( ), in modo da evitare il prevalere dell'egoismo arrogante del privato che tutto pretende e nulla vuol dare ( ), è sempre più avvertito alla luce dell'esigenza di far penetrare l'etica ( ) nelle maglie normative in materia d'impresa, sempre più impregnate di formalismo positivistico e di statualismo imperativistico ( ).
Seppure il legislatore delinei parametri di liceità (civile, amministrativa o penale) del comportamento degli operatori, permette, al contempo (e paradossalmente) di ampliare la possibilità di infrangere quei confini proprio grazie all'eccessivo rigore normativo che, sebbene funga formalmente da deterrente, consente, (anche) a chi fa impresa, comportamenti non sempre ethically correct ( ).
Ed è proprio nei vuoti normativi, nelle contraddizioni testuali, nell'apparente equivalenza semantica, nei rinvii che una norma, per poter essere letta ed interpretata, fa ad un'altra, che si annida, talvolta, l'ambiguità (quando non anche l'incongruità) della disciplina legislativa di settore, nelle cui maglie può insinuarsi la condotta (o una pluralità teleologica di condotte) dell'imprenditore volta a fini elusivi, o comunque illeciti, pur rimanendo entro gli argini della non punibilità (penale) nonostante la riprovevolezza della sua condotta.
Ecco che, l'etica, pervadendo, gradualmente, il mondo d'impresa, è destinata (o dovrebbe esserlo) a svolgervi sempre più un ruolo da protagonista, se correttamente intesa come vera e propria “fonte” integrativa che, sebbene non abbia - formalmente - la stessa autorevolezza di una fonte scritta, permetta di interpretare e modellare il tessuto normativo a contenuto imperativo, indicando all'interprete, un nuovo e più moderno modello ermeneutico, che non consti della mera “lettura” di una norma e della sua portata lessicale ma lo induca ad una più complessa analisi volta ad integrarne la struttura “significante” con un più ampio “significato” che si fa, al tempo stesso, status deontologico e filosofia morale del comportamento umano, che consentano di evidenziare e distinguere i comportamenti leciti da quelli illeciti secondo un ideale modello comportamentale.
Il guadagno economico e l'adozione di strategie (lecite ed etiche) per conseguirlo, per chi assume su di sé tutti i complessi rischi connessi all'attività d'impresa, ne costituiranno allora riflesso naturale e fisiologico: ma le molteplici direzioni e dimensioni della “responsabilità” che ne discendono -, consequenziali alla gestione dell'impresa-, oltre ad essere di natura economica, si estrinsecheranno altresì in forme di responsabilità giuridica, sociale e (soprattutto) morale nei confronti di coloro che sono partecipi nell'attività dell'investimento iniziale ma anche nei confronti dei propri dipendenti, consulenti, fornitori, utenti, della comunità in cui si opera (ed infine, ma non per ciò con meno importanza, di se stesso ( )).
Questo composito prisma di responsabilità, che grava sulle spalle di chi conduce un'impresa, la necessità di dover fronteggiare un mercato economico globale sempre più aggressivo - spesso inquinato da pratiche commerciali scorrette e sleali -, di concorrere in modo agguerrito (per lo più, per le piccole aziende) e di dover mirare a produrre utili d'impresa, spingono l'imprenditore a tenere comportamenti ed a sostenere ritmi che possano almeno tentare di reggere il confronto con le grandi imprese e di essere “responsabilmente” concorrenti, seppur in una forma ed in una dimensione differente.
Per fronteggiare tale sfida, però, vi sono una serie di elementi estrinseci che non possono essere separatamente considerati e tantomeno ignorati o elusi: la crisi economica che il Paese sta attraversando e le pressioni fiscali che avvolgono in una morsa soffocante gli imprenditori in difficoltà ( ).
Il presente lavoro si propone allora l’obbiettivo di indagare e di interrogarsi sui modelli operativi dell’impresa (ir)responsabile nell'ambito della crisi d'impresa con particolare riguardo al concetto di abuso della crisi da parte dell’imprenditore, ed i riflessi derivanti dalla massimizzazione delle perdite che incidono sulla (mancata, ovvero carente) tutela dell'integrità psichico-fisica dei prestatori di lavoro.
L’incipit volgerà ad analizzare l'interrelazione e le divergenze tra i due modelli di prevenzione (Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza e Decreto 231/2001) e gli strumenti normativi funzionali al risanamento delle imprese in difficoltà al fine di consentire, agli imprenditori, di rilevare (non solo) tempestivamente lo stato di crisi ( ) e poi di insolvenza ma - anche - di utilizzare gli stessi istituti, avendo come principale obiettivo il risanamento e la prosecuzione dell'attività piuttosto che la sua cessazione - salvi casi oggettivamente irrimediabili ed irreversibili ( ).
Conseguente scopo sarà proprio quello di analizzare le significative differenze che intercorrono tra lo stato di “pre-crisi” e lo stato di “crisi”, rilevando come l'abuso possa radicarsi e svilupparsi nel mero stato di “incubazione e maturazione diacronico”, ove la (non) palese manifestazione dell'incapacità di adempiere alle proprie obbligazioni si protragga in uno stabile disequilibrio economico non direttamente suscettibile di costatazione da parte dei terzi ma di immediata valutazione da parte del personale dipendente.
L’indagine proseguirà con il tentativo di superare la rigidità del positivismo giuridico - e la sua tradizionale staticità - delineando (ed analizzando) la crisi d'impresa in correlazione alla normativa di cui al D.lgs. 231/2001 al fine di cogliere l'impatto della crisi d'impresa sul sistema di prevenzione dei reati commessi in violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro.
In tale ottica, il problema della tutela della persona in mancanza di risorse economiche è accentuato a causa del fatto che la «massimizzazione delle perdite» (la cui causa risiede nella “crisi” ovvero nell'“insolvenza), sebbene possa essere individuata e circoscritta dal D.Lvo. 14/2019 al piano di regole positivizzate, in realtà si traduce in un “risparmio di spesa” inteso quale elemento costitutivo dell'“interesse” ovvero del “vantaggio” dell'ente dal quale ne trae profitto, il cui danno si manifesta nella sottrazione delle risorse economiche necessarie alla tutela dell'incolumità dei lavoratori ingiustamente destinatari del pregiudizio, e nella violazione delle esigenze di contemperamento degli interessi e di proporzionalità tra vantaggio di una parte e interesse sacrificato dall'altra ( ). In questa prospettiva, ad acuire le vulnerabilità a cui i prestatori sono espositi, oltre alla lacunosità delle norme in tema di lavoro, vi è l'assenza di disposizioni di cui al D.lgs. 231/2001 nel Codice della Crisi che rendono, di fatto, debole (se non del tutto assente) il controllo dell'Organismo di Vigilanza sull'operato del management.
Nel prosieguo, l'indagine porrà, quindi, attenzione sulla centralità, se non anche l'essenzialità, del ruolo dell'Organismo di Vigilanza nella procedura di risoluzione concordataria della crisi al fine di evidenziare la necessità non più prorogabile di una sinergica collaborazione tra l'Organismo stesso e il commissario giudiziale nel momento applicativo del diritto al fine di valutare la condotta degli amministratori «attraverso parametri di composizione sensibili alla forza assiologica degli interessi coinvolti» ( ).
In funditus, l’indagine esplorerà come la non attuazione del “Sistema 231” in sede di crisi d'impresa a causa della sua “onerosità” si riverbera sul complesso asset aziendale, e che la mancanza di una visione, ad opera delle Istituzioni, “a più ampio raggio” e a “più ampio contenuto” dell'attività determina una capitis deminutio della costituzionalizzazione della persona a fronte della centralità del principio della par condicio creditorum.