Il Contino
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Anteprima del libro
Il Contino - Claudio Guerinoni d’Averara
sconosciuto
Introduzione
Claudio Guerinoni d’Averara nasce a Bergamo nel giugno del 1953, ultimo erede dei notabili affrescatori Guerinoni d’Averara, famosi già nel XIV secolo e imparentati con i Baschenis. A soli quattordici anni inizia la carriera artistica avvalendosi di una protezione concessa dall’esule Re d’Italia, che lo affida a una contessa di Bergamo Alta.
In rotta con il padre che non lo vorrebbe scultore, viene accolto e accudito dalla contessa come un figlio, iniziando a realizzare i suoi primi gioielli per Casa Savoia e le aristocrazie internazionali. A sedici anni, il Contino, come viene chiamato, è colpito da una crisi d’identità e ricoverato in vari ospedali psichiatrici dove, anche a causa della sua appartenenza alla nobiltà e ai suoi legami con l’ex Casa Reale, viene sottoposto a trattamenti disumani che generano un trauma psichico incancellabile, capace di abbattere il morale e l’ispirazione artistica. Per tale motivo vivrà per decenni in stato di paralisi mentale isolato ed escluso da qualsiasi forma di vita pubblica e sociale. Dopo anni di abbandono viene segretamente accolto e salvato dalla pittrice Ginetta Benzoni, che lo riconduce sulla via di una ritrovata espressione artistica.
La sua storia è raccontata in un volumetto dal titolo Sindrome Borderline
in cui trasuda tutta la passione umana di un artista talentuoso quanto sfortunato e oggetto di una vendetta immeritata.
da Qui Bergamo, luglio 2014
Il contino
Raggiunta la soglia dei sessant’anni, è quasi un obbligo da parte mia voler riassumere gli eventi più salienti di una vita troppo movimentata. Tutto ciò mi rende fortemente teso e mi reca una grande fatica, perché il rimorso di aver spezzato questa mia esistenza mi getta nella confusione, e a stento riesco a riconoscere un passato trascorso nella violenza e nell’ingiustizia.
Sul tempo andato getto però un sorriso, tentando di ironizzare sulla cattiveria di chi ostacolò la mia innocenza sempre tesa a un corso che avrei voluto felice. I momenti che da sempre compongono la mia vita sono strani e troppo difficili, mi sento però orgoglioso di aver superato tanti ostacoli apparentemente invalicabili. Non so fin dove la memoria possa approdare e, sfogliando le pagine degli anni fuggiti, restano appiccicati solo gli attimi più carichi di emotività. Così si contrassegnano nell'animo i personaggi di ricordi emergenti e ancora lucidi. Tra questi spicca come peculiare la figura di mio padre, cui destino e vita trovo molto simili ai miei.
Intravedo mio padre ancora giovane e attivo, quando creava con pazienza e laboriosa tenacia accurati ceselli commissionati dal Clero, manufatti da destinare all’arredo di non poche diocesi.
Irresistibilmente, mi sembra di risentire il ticchettio lieve e ritmico di quel leggero e veloce martello che immolava la sua fatica. Un uomo miseramente rinchiuso in un'improvvisata bottega, oggi adibita a garage. Mi ero affezionato al suo negozio, e anche nei giorni più tristi, guardavo mio padre che nelle gelide giornate d’inverno, tra raggeli e brividi, limitava un meticoloso lavoro, sempre interrotto da continue e noiose pause. Ancora piccolo, già lo osservavo. Sognavo di apprendere un così particolare mestiere, e sbirciavo sulle nascenti opere. Fissavo in tal modo il movimento delle sue mani, guardando con quanta abilità egli destreggiasse le dita che indirizzavano con sicurezza i musicali scalpellini.
Si può apprendere un mestiere limitandosi all’osservazione, così scultori principianti fingevano di far visita a mio padre, osservando abusivamente la sua opera allo scopo di carpirne i segreti.
Mio padre non volle mai assumere allievi e sacrificò i figli per la continuità della professione. Erano gli anni Cinquanta, dominava la miseria, ma il papà, padrone di se stesso, animava con grandezza infinita i poco compensati sacrifici che gravavano sul precario sostentamento della famiglia. Mio padre profumava di pece, elemento indispensabile per la realizzazione del cesello.
Quella maledetta pece si appiccicava sulle mani, sulla camicia, cadeva sul pavimento e si attaccava alle suole delle scarpe, provocando un fastidioso tacchettare. Liti furiose si creavano con i commercianti che a stento riuscivano a rimuovere la pece dai pavimenti dei loro negozi.
Il papà era un accanito lavoratore, iniziava a faticare di prima mattina e il ticchettio ritmico del suo martello importunava il sonno dei vicini a tal punto da ricevere minacce da questi ultimi. Nei giorni di festa facevamo visita agli atelier degli amici pittori.
I pittori lavoravano in gruppo ed entrando nei loro studi venivi assalito dall’odore dell’essenza di trementina. Fissavo ardentemente le loro tele, non tralasciando uno sguardo alle modelle seminude. Era un mondo di luce, di colore, di gioia. La loro creatività non aveva limiti e dentro di me dicevo da grande sarò anch’io così!
La nostra bottega invece era tutta cupa, le pareti erano annerite dal fumo della pece. Risplendevano però crocefissi, lampade e tabernacoli eseguiti con assoluta precisione. Cure continue venivano serbate al lavoro per migliorare la studiata vistosità, arricchita da argentature e dorature purissime.
La piccola bottega era l’ultima presenza di quel declino agonizzante che travolgeva l’arte nel ciclone meccanico e industriale favorito dall’incalzante progresso e dall’ignoranza della gente. La mano dell’artista veniva sostituita da calcolate riproduzioni nelle quali non si riconosceva la freschezza originale del maestro che incarnava appassionatamente la propria