Famiglia
Di Ba Jin
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Anteprima del libro
Famiglia - Ba Jin
1
Titolo dell’opera originale
Jia 家
© Ba Jin 1933
Traduzione dal cinese di Lorenzo Andolfatto
© Atmosphere libri 2018
Via Seneca 66
00136 Roma, Italia
www.atmospherelibri.it
blog.atmospherelibri.it
info@atmospherelibri.it
II edizione nella collana Asiasphere aprile 2018
ISBN 978-88-6564-282-5 (edizione digitale)
Published by arrangement with People's Literature Publishing
House Co., Ltd. China.
CAPITOLO 1
Il vento soffiava forte, e la neve scendeva danzando nell’aria posandosi ovunque e da nessuna parte insieme, come se qualcuno avesse squarciato in cielo un sacco di cotone. I fiocchi si accumulavano lungo le vie ai piedi delle mura di cinta delle case, orlando di bianco le strade sporche di fango.
Passanti e portatori di palanchino sfidavano il vento e la neve, avanzando con fatica. La neve scendeva sempre più fitta imbiancando tutto il cielo e ricoprendo ogni cosa: la strada, i tetti dei palanchini sostenuti dai pali di bambù, gli ombrelli, i volti della gente.
Il vento si prendeva gioco degli ombrelli piegandoli in ogni direzione e strappandoli di tanto in tanto dalle mani dei passanti. Insieme allo scricchiolio dei passi sulla neve, il suo ululare lugubre creava nell’aria una strana musica, che penetrava nelle orecchie dei passanti come un sinistro ammonimento: la bufera avvolgerà il mondo per lungo tempo ancora, sembrava dire, e la bellezza della primavera tarderà a tornare.
Si era già fatta sera, ma i lampioni non erano ancora stati accesi, così che il buio pian piano andava avvolgendo ogni cosa, lasciando sul selciato soltanto acqua e fango. L’aria era gelida. Un desiderio soltanto animava chi si trovava ancora sulla strada – quello di tornare al più presto al caldo fra le mura domestiche.
«Su, muoviti!»
Chi parlava era un ragazzo di diciotto anni, ombrello in una mano, l’altra che stringeva a sé il cappotto. Parlava rivolto all’indietro, col viso rotondo arrossato dal freddo, e un paio di occhiali dalla montatura dorata sul naso.
Dietro di lui avanzava il fratello più piccolo: un ragazzo dalla stessa identica corporatura, vestito allo stesso modo. Questi era di poco più giovane del primo, e aveva il volto più smunto, sebbene i suoi occhi brillassero luminosi.
«Siamo quasi arrivati, non c’è bisogno di correre… oggi sei stato davvero bravo durante le prove, il tuo inglese è scorrevole e naturale. La parte del dottor Livesey ti viene davvero bene».
Trascinato dall’entusiasmo, il ragazzo più giovane aveva accelerato il passo per star dietro al fratello, finendo con l’insozzarsi l’orlo dei pantaloni di acqua e fango.
«Non è per via dell’inglese, ma soltanto perché non ho paura di farmi avanti» disse Gao Juemin, il più grande, ridendo e aspettando che Juehui, il più piccolo, si mettesse al passo con lui.
«Tu non hai abbastanza coraggio, e senza coraggio il ruolo di Cane nero non può riuscir bene. Piuttosto, ieri avevi preparato la tua parte per bene, come mai oggi sul palco non sei riuscito a recitarla? Se non ci fosse stato il signor Zhu a suggerirti le battute, mi sa che non saresti nemmeno riuscito ad arrivare alla fine».
Juemin parlava con affetto, non c’era alcuna traccia di rimprovero nella sua voce.
Il ragazzo più giovane si fece rosso in volto. «Non so perché» si affrettò a ribattere, «ma non appena salgo sul palcoscenico vado in confusione. Mi sento addosso gli occhi di tutti, ed ecco che allora mi viene da recitare la mia parte tutta d’un fiato…» Un colpo di vento tentò di portargli via l’ombrello dalle mani interrompendo la sua risposta a metà, e Juehui rinsaldò con forza la sua presa sul manico. Il vento si placò. Le strade nel frattempo si erano già tutte coperte di neve, e il loro manto bianco era pieno di impronte, le più fresche a scalzare il passo alle vecchie.
«Mi viene da recitare la mia parte tutta d’un fiato» continuò Juehui, «ma non appena apro la bocca ecco che non ricordo più niente, nemmeno le battute più facili. Ho sempre bisogno che il signor Zhu mi dia il la, soltanto allora riesco a sbloccarmi. Non so se andrà così anche il giorno della messa in scena. Se ciò dovesse succedere davvero, perderei la faccia!» Il voltò fino a poco prima spensierato di Juehui assunse un’espressione greve. La neve attutiva il rumore dei suoi passi leggeri.
«Fratellino, non devi aver paura» gli risposte Juemin cercando di sollevarlo, «ripassa la tua parte ancora un paio di volte e vedrai che riuscirai a ricordartela senza problemi. Devi soltanto salire sul palco con un po’ di fiducia in te stesso. E poi, a dirla tutta, l’adattamento dell’Isola del tesoro fatto dal signor Zhu non è che sia dei migliori, ho paura che questo nostro spettacolo non avrà molto successo…»
Juehui rimase in silenzio. Le parole piene d’affetto del fratello lo avevano rincuorato. In cuor suo sperava davvero che lo spettacolo sarebbe andato bene: voleva ricevere il plauso degli spettatori e dei suoi compagni, e in quella maniera far fiero suo fratello. Immerso in quei pensieri, Juehui scivolò a poco a poco dentro a un’altra dimensione… tutto intorno a lui era cambiato. Davanti ai suoi occhi era la locanda dell’ammiraglio Benbow, dove abitava il suo vecchio amico Bill: si era trasformato nello scaltro Cane nero, aveva perduto due dita fra mille peripezie sulle tracce di Bill, ed era infine giunto al suo cospetto, col cuore trepidante ma scosso allo stesso tempo da un terribile presentimento. Pensava già a come gli si sarebbe presentato davanti, alle accuse che gli avrebbe lanciato dopo che questi aveva tradito la sua fiducia occultando il tesoro. Immerso nel suo ruolo, il testo dello spettacolo prese come a sgorgagli dal cuore proprio come l’aveva imparato a memoria. «Ho capito adesso!» esclamò Juehui esultante, quasi avesse ricevuto una rivelazione.
Juemin lo guardò con stupore. «Che succede? Perché sei così felice?»
«Fratellone, ho capito il segreto del recitare» gli rispose Juehui con un sorriso compiaciuto. «Devo mettermi nella testa di Cane nero, quando lo faccio le parole mi escono da sole, non c’è nemmeno bisogno che mi sforzi di ricordarle!»
«Hai detto bene, il teatro funziona proprio così» gli rispose Juemin sorridendo. «Adesso che hai capito il segreto, la tua parte sarà un successo».
«Ha quasi smesso di nevicare ora, è meglio chiudere gli ombrelli. Col vento che tira è faticoso tenerli aperti». Così dicendo Juemin scosse il proprio ombrello e lo chiuse. Juehui fece lo stesso, e i due fratelli presero a camminare uno a fianco all’altro portandosi gli ombrelli in spalla.
Aveva smesso di nevicare, e il vento si era a poco a poco affievolito. Uno spesso strato di neve ricopriva le mura di cinta e i tetti, e il buio della sera era illuminato qui e lì dalla luce delle lanterne. Le luci dei negozi brillavano fra i portoni delle abitazioni dipinti di nero, puntellando come decorazioni la strada fredda e silenziosa. Nel freddo di quella sera d’inverno, erano promesse sparpagliate di luce e calore.
«Juehui, hai freddo?» Juemin si rivolse al fratello con premura.
«No, anzi. Parlare così mi ha fatto dimenticare il freddo».
«E allora perché tremi?»
«Perché sono agitato. Mi succede così ogni volta che sono agitato, mi batte fortissimo il cuore. Ogni volta che penso allo spettacolo mi faccio sempre prendere dall’agitazione. Mi auguro davvero che lo spettacolo vada bene… Fratellone, tu non pensi che sia una cosa assurda questa, vero?» Così dicendo, Juehui si voltò verso Juemin guardandolo negli occhi.
«Neanche un po’» gli rispose lui con affetto. «Spero tanto anch’io che lo spettacolo abbia successo. Siamo uguali, io e te. In classe mi basta ricevere anche il più piccolo degli encomi dal professore, ed ecco che sono felicissimo».
«Sì, hai detto bene» rispose Juehui accostandosi ancor di più al fratello, e i due ragazzi continuarono a camminare insieme l’uno affianco all’altro, incuranti del freddo, della neve, della notte.
«Juemin, sei proprio caro» disse Juehui sorridendogli.
«Anche tu lo sei» rispose Juemin ricambiando lo sguardo luminoso del fratello con un sorriso.
Juemin si guardò intorno: così discorrendo, erano quasi arrivati a casa.
«Sbrighiamoci, svoltato l’angolo siamo arrivati».
Juehui annuì e tutti e due accelerarono il passo. Svoltato l’angolo della strada, i due fratelli si trovarono in una viottola ancor più calma e silenziosa.
I lampioni lungo la strada erano già stati accesi, e le loro fiammelle a olio protette dalle teche di vetro brillavano solitarie, stagliando sulla neve le ombre pallide dei loro sostegni.
Lungo la strada si affrettavano ancora dei passanti, pochi: pian piano sparirono anche loro, lasciando dietro di sé una scia di impronte. Le impronte si stagliavano sulla neve come forme addormentate che si animavano di tanto in tanto quando un altro passante vi imprimeva sopra il proprio peso, strappando loro un rumore attutito, quasi un sospiro. Passante dopo passante, le impronte avevano perso i propri contorni, trasformandosi in strane figure impresse per terra: piccole buche nere nel bianco senza fine delle strade.
Affiancate una all’altra contro il vento freddo erano numerose ville protette da portoni neri. Coppie di taciturni leoni di pietra ne guardavano gli ingressi che, quando aperti, sembravano come fauci di bestie fantastiche. Ciascun portone apriva a un antro nero, il cui interno era inaccessibile ai più. Ciascuna villa aveva alle spalle diverse generazioni di abitanti, e molte di loro avevano cambiato più volte nome. In ciascuna di esse era custodito un segreto. Ciò che custodivano questi portoni e cancelli molte volte scrostati e altrettante ridipinti era qualcosa di indifferente al passare del tempo, e ora come in passato rimaneva celato agli occhi di chi vi rimaneva all’esterno.
I due fratelli si fermarono a metà della via, davanti a una residenza dal portone più grande delle altre. Dopo essersi scrollati la neve di dosso e aver raschiato le proprie scarpe di cuoio sui gradini di pietra del portone, Juemin e Juehui entrarono in casa portandosi appresso l’ombrello. Il rumore dei loro passi sparì in fretta nell’antro buio dell’ingresso. Fuori, la via si fece di nuovo silenziosa.
La casa era simile alle altre, con due leoni di pietra a guardia dell’entrata e due lanterne rosse che pendevano dall’alto, ma a distinguerla dal resto del vicinato erano due grandi vasi rettangolari di pietra disposti ai lati dei gradini d’ingresso. Oltre a questi, ai due lati del portone vi erano appese due placche di legno – un distico propiziatorio scritto a caratteri neri su un fondo di lacca rossa, che recitava Pace e prosperità, lunga vita e un buon raccolto, mentre sui battenti si stagliava imponente la figura di un Custode della soglia che brandiva una spada.
CAPITOLO 2
Il vento era calato, ma l’aria rimaneva gelida. Sebbene fosse scesa la sera, questa non aveva ancora portato il buio completo. In alto era il grigio del cielo, in basso il bianco delle strade innevate. Ammantato di bianco era anche un cortile attraverso cui passava un sentiero lastricato di pietre e costeggiato ai due lati da piante di pruno in vaso, i cui rami erano coperti di neve.
Juemin avanzava per primo camminando in direzione dei gradini di pietra che portavano all’ala sinistra della casa. Non fece tempo a oltrepassare la soglia d’ingresso che una giovane voce di donna lo chiamò dalla finestra: «Secondo e terzo giovane padrone, siete tornati. Presto, è pronto in tavola, e ci sono anche degli ospiti a cena». Mingfeng, la cameriera, aveva i capelli raccolti in una treccia, e il corpo grazioso avvolto in un cappotto imbottito di cotone color blu. Ancora sedicenne, aveva un volto soffice dalla pelle liscia e delicata, e quanto sorrideva le si formavano due fossette sulle guance. I suoi occhi luminosi e innocenti seguirono i due ragazzi lungo il cortile. Juehui, rimasto indietro, le rispose con un sorriso.
«Va bene, mettiamo via gli ombrelli e arriviamo» rispose Juemin a voce alta senza nemmeno guardarla, e così dicendo superò con una gran falcata la soglia d’ingresso.
«Mingfeng, chi sono gli ospiti?» le chiese Juehui oltrepassando anche lui la soglia.
«Vostra zia, la signora Zhang, insieme alla signorina Qin. Su, fate in fretta!» rispose Mingfeng spostandosi dalla finestra e rientrando in casa.
Vedendo le sue spalle sparire all’interno di casa, Juehui sorrise ancora, e quindi si affrettò a entrare nella propria stanza. Juemin, lasciando la camera, si rivolse al fratello: «Che cosa vi stavate dicendo tu e Mingfeng? Dai, sbrigati a venire a tavola, se ci attardiamo ancora un po’ finiremo col non trovare niente più da mangiare». Con queste parole Juemin si diresse verso la sala da pranzo.
«D’accordo, vengo con te allora» rispose Juehui. «Per fortuna i miei vestiti non si sono bagnati, non c’è bisogno che mi cambi». Ciò dicendo Juehui gettò l’ombrello a terra e uscì veloce dalla stanza.
«Certo che sei proprio disordinato, te l’avrò ripetuto mille volte ma tu non ascolti mai!» lo riprese Juemin, seppure col sorriso sulle labbra. Così dicendo tornò indietro, raccolse l’ombrello del fratello, lo aprì così che si asciugasse meglio e lo appoggiò con cura sul pavimento.
«Che cosa posso farci?» rispose Juehui ridendo, «è la mia natura, sono sempre stato così. Però mi fa ridere ora vedere come tu, dopo avermi detto di fare in fretta, ti stia adesso attardando qui».
«Tu e la tua parlantina!» rispose Juemin ridendo, per poi avviarsi di nuovo verso l’uscita. Juehui seguì il fratello continuando a sghignazzare. Nella sua testa aveva preso forma la figura di una ragazza, ma presto scomparve quando mise piede nella sala da pranzo: lì dentro vi era tutto un altro spettacolo.
Attorno al tavolo sedevano sei persone: al posto d’onore sedeva la signora Zhou, loro matrigna, mentre di fianco a lei sedeva la loro zia, ovvero la signora Zhang. A sinistra sedevano la signorina Qin, loro cugina, e Li Ruijue, la cognata, e a seguire Juexin, loro fratello maggiore, e Shuhua, la sorella più piccola. Juemin e Juehui salutarono prima la zia e poi la cognata, e quindi andarono a sedersi nei due posti rimanenti. La cameriera Zhang si affrettò a servir loro una scodella di riso ciascuno.
«Come mai ci avete messo così tanto a tornare?» domandò loro la signora Zhou con fare gentile, sorreggendo con una mano la propria scodella. «Se non fosse stato per la signora Zhang, che è passata a farci visita, a quest’ora avremmo già finito di cenare».
«Oggi col signor Zhu abbiamo fatto le prove per lo spettacolo, per questo siamo tornati tardi» rispose Juemin.
«C’è appena stata una gran nevicata, deve fare molto freddo fuori. Siete tornati col palanchino?» chiese la signora Zhou con cortesia mista ad apprensione.
«No!» si affrettò a rispondere Juehui alla menzione del palanchino. «Non prendiamo mai quell’aggeggio, siamo tornati a piedi».
«Non sia mai che mio fratello prenda il palanchino, è un umanista lui!» commentò Juexin ridendo, e tutto il tavolo scoppiò in una risata.
«Fuori non fa poi così freddo» intervenne Juemin, «e il vento è già calato. Inoltre, chiacchierando lungo la strada, il ritorno a piedi diventa piacevole».
«Cugino grande» disse Qin rivolgendosi a lui, «lo spettacolo di cui parlate verrà messo in scena per la festa di fine anno? E quando si terrà questa?» Qin era nata lo stesso anno di Juemin, ma gli era di qualche mese più giovane, e per questo motivo si rivolgeva a lui chiamandolo cugino grande
. Il suo vero nome invece era Zhang Yunhua, mentre Qin era un nomignolo affettuoso con cui la chiamavano in casa Gao. Qin era iscritta al terzo anno della scuola normale provinciale per ragazze, ed era considerata la ragazza più bella e intelligente di tutta la famiglia.
«Molto probabilmente si farà nella primavera dell’anno che viene, con l’iniziare del nuovo semestre. Dopo tutto non manca che una settimana o poco più prima della fine delle lezioni e del semestre. Qin, quand’è che voi inizierete le vacanze invece?»
Qin aveva posato la scodella sul tavolo. «Da noi sono già iniziate la settimana scorsa. Pare che manchino i fondi, perciò è stato deciso di finire prima le lezioni».
«Sì, i fondi dedicati all’educazione sono stati confiscati per coprire le spese dell’esercito. Tutte le scuole sono nella stessa condizione di povertà. La nostra situazione però è un po’ diversa: stando al contratto che la nostra scuola ha stilato col professore straniero, che si faccia lezione o meno a quest’ultimo deve comunque venir conferito lo stipendio, perciò tanto vale approfittarne per fare qualche lezione in più durante questi giorni…»
«Pare poi che il preside sia in buoni rapporti col governatore» continuò Juemin, «perciò non ha troppe difficoltà a trovare finanziamenti». Il ragazzo appoggiò la scodella sul tavolo, e Mingfeng gli porse un tovagliolo caldo.
«Bene, finché riuscite a studiare, il resto non conta» intervenne Juexin.
La signora Zhang si rivolse a Qin: «Che scuola frequentano? Me ne sono scordata…»
«La memoria di mamma è proprio terribile» disse Qin sorridendo. «Sono iscritti alla scuola di lingue straniere, te l’ho già detto tempo fa».
«Hai ragione, sì. È che ormai sono invecchiata, e la mia memoria è quel che è. Pensa che oggi, giocando a majiang, ho fatto una scala ma poi sono finita col dimenticarmene!» rispose la signora Zhang ridendo.
Appoggiate le scodelle su tavolo, i commensali avevano ormai finito di mangiare e si stavano pulendo la bocca con dei tovaglioli caldi.
«Andiamo a sederci nelle mie stanze» disse la signora Zhou scostando la propria sedia e alzandosi in piedi. Tutti gli altri la imitarono e, alzatisi dal tavolo, si diressero verso la stanza adiacente.
In coda al gruppo, Qin venne affiancata da Juemin, che si rivolse a lei sottovoce: «Qin, dal prossimo anno, dopo le vacanze estive, la nostra scuola aprirà i corsi anche alle ragazze».
Nel sentire quelle parole Qin si illuminò in volto: la notizia inaspettata l’aveva riempita di gioia e ora guardava con occhi raggianti il volto di Juemin. Ciò non le sembrava vero, e parte di lei temeva che Juemin la stesse prendendo in giro: «Per davvero?»
«Certo. Quando mai ti ho raccontato bugie?» Juemin le rispose con serietà. «Se non mi credi, chiedi pure a Juehui».
«Non ho detto che non ti credo, ma questa notizia mi ha colto del tutto impreparata» rispose Qin euforica.
«La notizia è vera» aggiunse Juehui, «bisogna vedere però se la metteranno davvero in pratica».
«Qui nel Sichuan c’è ancora troppa gente vincolata alle tradizioni, e queste persone hanno molta influenza. Di sicuro si scaglieranno contro un provvedimento del genere. Ragazzi e ragazze insieme nella stessa classe… nemmeno nei loro sogni più reconditi si sarebbero potuti immaginare una cosa del genere!» La voce di Juehui vibrava d’indignazione.
«Ma questo non importa!» intervenne Juemin. «Basta che il nostro preside sia deciso a portare avanti la questione, e allora si farà. L’ha detto lui stesso: se non si dovesse iscrivere nessuna ragazza chiederà alla moglie di farlo, così da dare l’esempio».
«No, voglio essere io la prima!» disse Qin con un moto d’entusiasmo, come se quello fosse il suo sogno più genuino.
«Qin, piccola, perché ve ne rimanete lì sulla soglia? Su, venite a sedervi qui con noi, di cosa state parlando?» li interruppe la signora Zhang.
«Qin» continuò Juemin sottovoce, «chiedi a tua madre il permesso di venire nella nostra stanza, così potrò spiegarti nel dettaglio la faccenda».
Qin annuì in silenzio e si accostò alla madre sussurrandole qualche cosa nell’orecchio. La signora Zhang sorrise: «D’accordo, vai pure, ma cerca di non fare tardi».
Qin le rispose con un cenno col capo e uscì dalla stanza insieme a Juemin e Juehui. Appena fuori, sentirono il rumore delle tessere del majiang venir distribuite sul tavolo. Sua madre avrebbe giocato almeno quattro partite.
CAPITOLO 3
«Questo semestre noi finiremo di leggere L’Isola del tesoro»diceva Juemin, «e a partire dal prossimo inizieremo con Resurrezione di Tolstoj». I tre ragazzi avevano lasciato la sala da pranzo e stavano percorrendo le scale di pietra diretti verso la camera. Juemin si rivolgeva a Qin col sorriso in volto. «E dal prossimo semestre avremo Wu Youling come professore di letterature cinese, è lui che ha scritto Sul cannibalismo e la morale confuciana, l’articolo pubblicato su Xin qingnian1».
«Oh, conosco Wu Youling, è quello che in un colpo solo ha distrutto l’intero impianto confuciano
. Siete davvero fortunati!» Qin rispose piena d’ammirazione. «Il nostro insegnante di letteratura cinese è uno della vecchia guardia, ha fatto gli esami imperiali, e ci fa leggere soltanto brani dal Guwen Guanzhi2. Con l’inglese, poi, siamo fermi da un po’ di anni al Chambers’s English Reader…sempre le stesse anticaglie! Davvero non vedo l’ora che la vostra scuola apra anche alle donne».
«Suvvia, il Chambers’s non è poi così malvagio!» intervenne Juehui con fare sarcastico, da dietro agli altri due. «Non l’hanno poi anche tradotto? Mi pare che in cinese si intitoli qualcosa come Il sorriso dei poeti, a cura di tale Lin Qinnan».
Qin si voltò e squadrò Juehui. «Lo so che ti piace scherzare, cugino, ma questa è una cosa seria!»
«Va bene, allora non dico più nulla» rispose Juehui ridendo, «vi lascio alle vostre conversazioni». Così dicendo, Juehui rallentò intenzionalmente il passo lasciando entrare Qin e Juemin per primi nella stanza, e quindi si fermò sulla soglia.
La sala centrale del padiglione era in penombra, mentre le stanze laterali erano illuminate dalla lampade elettriche. Dall’ala sinistra veniva il ticchettio delle tessere del majiang; tutto intorno si sentivano le voci degli altri abitanti in giro per la casa. Imbiancato di neve, il cortile centrale sembrava qualcosa di bello e puro. Juehui alzo la testa e si guardò intorno: la sua mente vibrava di un’elettricità insolita. Voleva lanciare un urlo, ridere forte. Allargò le braccia come a mostrare la vastità dello spazio che li circondava, e in esso la libertà del suo corpo: non vi era proprio nulla che lo intralciasse, nulla che lo legasse.
Ritornò con la mente a una scena dello spettacolo di fine anno, nella quale in veste di Cane nero doveva entrare in una locanda e battere il pugno sul tavolo chiedendo ad alta voce da bere. «Mingfeng, il tè!» esclamò d’improvviso, rapito dallo spirito della scena, quasi senza rendersene conto. «Portaci tre tazze di tè!»
Una voce gli rispose dalla stanza laterale a sinistra, e dopo poco comparve dalla porta la giovane cameriera portando due tazze di tè.
«Come mai soltanto due?» la riprese Juehui con lo stesso tono imperioso. «Te ne ho chieste tre, mi pareva di essere stato chiaro!» Mingfeng, che nel frattempo si sera avvicinata con le tazze, nel ricevere quel rimprovero ad alta voce ebbe un sussulto, così che le mani le tremarono leggermente, spandendo delle gocce di tè dalle tazze. Ricompostasi, alzò il capo in direzione di Juehui e abbozzò un sorriso: «Ho due mani soltanto». «E non potevi prendere un vassoio?» le rispose Juehui ricambiando il sorriso.
«D’accordo, allora porta queste due tazze a Qin e Juemin». Così dicendo Juehui si fece in disparte appoggiandosi alla cornice dell’ingresso, così da lasciar passare Mingfeng.
Mingfeng servì il tè e si apprestò rapida a lasciare la stanza. Sentendola tornare verso la porta, Juehui vi si piantò di fronte a gambe aperte, impedendole il passaggio.
Mingfeng avanzò lentamente, e quando gli fu alle spalle si schiarì la voce. «Giovane padrone, lasciatemi passare» disse rivolgendosi a Juehui con voce bassa.
Che non avesse sentito le parole di lei, o che le avesse sentite facendo finta però di non averlo fatto, Juehui non si mosse di un millimetro.
Mingfeng insistette una seconda volta, aggiungendo che aveva anche delle altre commissioni da sbrigare per la signora. Juehui però continuava a star fermo. Immobile come una statua, se ne stava sulla soglia di ingresso ostruendone il passaggio.
«Mingfeng» giunse una voce dalla sala principale. «Mingfeng…» Era la voce della signora Zhang.
«Lasciatemi andare, signorino, la signora mi sta chiamando». La voce di Mingfeng era ora scossa dall’agitazione. «Se mi presento in ritardo verrò sgridata!»
«E se anche fosse, che vuoi che ti faccia?» le rispose Juehui ridendo. «Puoi dirle che eri occupata con me».
«La signora non mi crederà, e se perde la pazienza non appena gli ospiti se ne saranno andati si infurierà con me!» La ragazza parlava a voce bassissima, così che nessuno potesse sentirla da dentro alla stanza.
In quel momento una seconda voce risuonò nel cortile: era quella di Shuhua, la sorella di Juehui. «Mingfeng, Mingfeng, la signora vuole il suo tabacco!»
Juehui si fece finalmente da parte lasciando libero il passaggio, e Mingfeng corse via di fretta.
Dalla sala principale venne di nuovo la voce di Shuhua, che apostrofava Mingfeng lì appena entrata. «Si può sapere dov’eri finita? La signora ti stava chiamando e tu nemmeno rispondevi!»
«Stavo servendo il tè al terzo giovane padrone» rispose Mingfeng abbassando il capo.
«Tutto questo tempo soltanto per servire del tè! E comunque la voce per rispondere ce l’avevi, come mai non rispondevi?» Shuhua non aveva che quattordici anni, ma nel riprendere Mingfeng aveva assunto una postura da adulta, cosa che le riusciva in maniera del tutto naturale. «Spicciati, se la signora lo viene a sapere ti rimprovererà anche lei!» A queste parole Shuhua si voltò dandole le spalle e ritornò nella sala, seguita in silenzio dalla giovane cameriera.
Quello scambio era giunto chiaramente alle orecchie di Juehui, e ciascuna parola lo colpì come un colpo di frusta. Il viso gli si imporporò, e venne colto da un’improvviso sentimento di vergogna. Era lui la cagione di quei rimproveri, lo sapeva bene, e l’atteggiamento di sua sorella più piccola l’aveva disgustato. Avrebbe voluto intervenire a difesa di Mingfeng, ma qualcosa dentro di lui l’aveva trattenuto lì nel buio della soglia a guardare la scena da lontano, come se tutto ciò non avesse niente a che fare con la sua persona.
Le due ragazze se ne erano andate, e Juehui si trovò da solo sulla soglia di fronte al cortile, con il bel volto di Mingfeng ancora impresso davanti a sé in quella sua espressione di rassegnazione sempre uguale, che non mostrava mai alcuna lamentela o dolore: come un mare muto, che tutto riceve e tutto inghiotte, senza suono.
A tratti giungeva alle sue orecchie anche la voce di un’altra ragazza, ovvero Qin, e con essa i contorni del suo viso altrettanto bello. Qin aveva la sua stessa espressione di Juehui: risoluta, ardente di energia, e non disposta ad alcun compromesso. Il volto di Mingfeng e quello di Qin erano simboli di due vite diverse, prefiguravano due diversi destini. Nel metterli a confronto, Juehui non capiva perché si sentisse più affine al primo dei due. Era il viso di Mingfeng che lo attraeva di più, sebbene dei due fosse il secondo quello ad apparire più felice e luminoso.
L’immagine del primo dei due volti gli si ingrandì davanti agli occhi, e l’espressione di dolore e rassegnazione che lo marcava divenne ancora più vivida. Juehui voleva consolare quel volto, offrigli qualcosa che potesse sollevarlo, eppure non gli veniva in mente nulla. Pensava al destino di Mingfeng, e sapeva che questo era già stato scritto fin da prima della sua nascita insieme a quello di chissà quante altre ragazze come lei, senza eccezione. Era un destino ingiusto, pensava Juehui, e lui voleva opporvisi, cambiarlo. Uno pensiero bizzarro si affacciò nella sua testa, facendolo sorridere.
«Non può essere» Juehui mormorò fra sé e sé, «non può funzionare a questa maniera. Ma… e se vi fosse una possibilità?» Quel pensiero, e il corollario di conseguenze che ne seguivano, gli tolsero ogni vigore. «È un sogno, è solamente un sogno».
Eppure quel sogno resisteva all’oblio tanto quanto Juehui si mostrava reticente a lasciarlo andare. «Se solo venisse da una famiglia come quella di Qin… allora no che non ci sarebbero problemi!» Se Mingfeng fosse stata davvero come Qin, rifletteva Juehui in quei momenti, allora fra loro due tutto sarebbe stato normale, sensato.
Juehi rise di se stesso. «Che assurdità mi vengono in mente! Questo non è amore, è soltanto un gioco». A quelle parole il viso triste di Mingfeng scomparve pian piano da davanti ai suoi occhi, mentre l’altro, più deciso e risoluto, prese brevemente il suo posto, prima di scomparire anch’esso.
Ha senso starsene in casa con i barbari alle porte?
Sebbene questo vecchio detto non gli fosse mai piaciuto, in questo momento sembrava però offrire la perfetta soluzione al suo dilemma. Juehui prese così a ripeterlo con convinzione. I suoi barbari
non erano gli stranieri: Juehui non aveva intenzione di prender l’armi per andare a far guerra agli stranieri. Sentiva però che per diventare uomo
doveva abbandonare la famiglia, e costruirsi da solo un percorso fuori dal tracciato. Quanto a quale tipo di percorso avrebbe intrapreso, Juehui non aveva che idee vaghe e confuse. Ripetendo a voce alta il proverbio rientrò in camera.
«Guarda, il fratellino è impazzito!» Juemin, in piedi di fianco allo scrittoio, stava conversando con Qin, che era seduta davanti a lui su una poltrona di bambù. Vedendo Juehui rientrare nella stanza parlando a voce alta, i due giovani erano scoppiati a ridere.
«Possibile che tu non l’abbia ancora capito?» disse Qin rivolgendosi a Juemin ma fissando Juehui con uno sguardo ironico. «Tuo fratello è un eroe!»
«Che sia proprio Cane nero? Anche Cane nero era un eroe…» rispose Juemin ridendo insieme a Qin.
Juehui si indispettì. «Poco importa come la mettiate, Cane nero era comunque meglio del dottor Livesey, un borghese qualsiasi».
«E questo cosa vorrebbe dire?» gli chiese Juemin con ironia mista a stupore. «Perché, cosa pensi che diventerai tu, fra qualche anno?»
«È vero, è vero!» Juehui ribatté con disprezzo. «I nostri avi erano dei notabili, e la nostra è una famiglia di notabili. Questo deve per forza far di me un notabile, giusto?» Il giovane si azzittì attendendo la risposta del fratello.
Juemin si rese presto conto che quello scambio, che per lui era iniziato come uno scherzo, aveva seriamente scosso il fratello, e sebbene cercasse ora delle parole per stemperarlo non riusciva a trovare alcuna risposta adatta. Anche Qin non diceva nulla, e se ne stava seduta lì di fianco in silenzio, osservando i due fratelli.
«Basta, ne ho abbastanza di questa vita» continuò Juehui. Più parlava e più si agitava, il viso gli si era fatto paonazzo. «Secondo te perché nostro fratello sospira e si lamenta sempre? Non è forse per via di questa famiglia, per la vita di questa nostra famiglia per bene, per l’insopportabile atmosfera che permea queste mura? Le sapete benissimo anche voi, queste cose… Noi facciamo parte di una grande famiglia, non sarà chissà quale dinastia, ma sono pur sempre quattro generazioni che viviamo qui. Ciononostante, non c’è giorno che passi senza che ci sia una battaglia, uno scontro. Proprio una bella famiglia!» A questo punto Juehui si interruppe: era ormai fuori di sé dalla rabbia, e sebbene volesse dire molte altre cose ancora, gli sembrava di avere qualcosa in gola che gli impedisse di parlare. Non erano state le parole del fratello a istigarlo, ma un altro motivo piuttosto: l’espressione pacata del volto di Mingfeng. Juehui si sentiva molto vicino a lei, ma era come se fra loro si ergesse un alto muro invisibile, ovvero lo status della sua famiglia, che gli impediva di ottenere ciò che voleva, e che per questo lui detestava.
Juemin osservava il viso arrossato del fratello più giovane, i suoi due occhi agitati. Gli si avvicinò e gli prese la mano, dandogli pacca affettuosa sulla spalla. «Non era mia intenzione deriderti, hai ragione tu» gli rispose con voce sentita, «il dolore che senti tu è lo stesso che sento anch’io… io e te staremo sempre insieme…» Juemin tuttavia non sapeva che Juehui aveva in mente il volto di un’altra persona.
Juehui annuiva in silenzio. Nell’ascoltare le parole del fratello la sua rabbia era svanita in un istante.
Anche Qin si era alzata. Le parole di Juehui l’avevano commossa. «Cugino, nemmeno io volevo deriderti, e anch’io starò sempre con voi. Dovrò lottare ancora di più, poiché la mia condizione è ancora più difficile».
I due fratelli si voltarono a guardarla: i suoi occhi grandi e belli brillavano di una luce malinconica, come se qualcosa li turbasse. Questi non erano i suoi soliti occhi vivaci, al loro posto vi era un volto triste e meditabondo che rivelava un tormento interiore. Era la prima volta che Juemin e Juehui vedevano in lei tale espressione, e capirono subito che c’era qualcosa che l’affliggeva. Aveva detto bene: le sue difficoltà erano ben più grandi delle loro. Qin non si mostrava spesso così triste, e perciò tale espressione sul suo volto faceva molto più effetto che il suo atteggiamento vivace di ogni giorno. I due ragazzi furono presi da una volontà di sacrificio: sarebbero stati disposti a sacrificarsi completamente pur di realizzare le speranze e i desideri di lei. Il loro era però un desiderio indefinito, vago: non corrispondeva ad alcun atto concreto, ma soltanto a un imperativo interiore.
Dimentichi delle proprie difficoltà, Juemin e Juehui erano concentrati sulla condizione di Qin. Dopo un breve momento di silenzio, fu Juemin a riprendere la parola: «Qin cara, non crucciarti. Troveremo una soluzione anche per te, stai tranquilla. Si dice che dove c’è volontà, c’è soluzione
. Ecco, io sono convinto della bontà di questo proverbio. Ti ricordi di quanto il nonno fosse contrario al fatto che ci iscrivessimo a una scuola pubblica? Alla fine siamo stati noi ad averla vinta».
Qin fece due o tre passi indietro portandosi una mano alla fronte e appoggiandosi di peso con l’altra sullo scrittoio. Il suo sguardo era confuso, quasi come si fosse appena svegliata da un sogno.
«Cugina Qin, mio fratello ha ragione, non c’è bisogno di allarmarsi» Juemin intervenne con voce sincera, «tu pensa soltanto a preparare bene i corsi. Ripassa l’inglese, l’importante è che tu passi l’esame di lingua straniera. Quanto al resto, troveremo una soluzione».
Qin accennò a un sorriso cercando con le mani di sistemarsi i capelli, ma il suo viso mostrava ancora tracce d’angoscia. «Spero davvero che sia così. Mamma non si opporrà, di sicuro sarà d’accordo con le mie scelte, ma è nonna la persona che temo di più, e con lei il resto dei parenti. A parte voi due, in casa si opporranno tutti a questa decisione».
«Ma loro cosa c’entrano? I tuoi studi sono affare tuo, inoltre tu non sei parte di questa famiglia!» esclamò Juehui con indignazione.
«Ma voi non sapete quante critiche mamma ha ricevuto quando mi sono iscritta alla scuola per femmine. Tutti i parenti le dicevano che non era appropriato che una ragazza della mia età si mostrasse in giro per la strada, che avrei dato chissà quale immagine della nostra famiglia, che avrei perso il rispetto di tutti. L’anno scorso la quinta zia arrivò persino a ridermi in faccia, e io non sapevo come risponderle. Questo fece soffrire moltissimo mamma. Lei è una persona all’antica, e sebbene rispetto ad altri sia meglio disposta al nuovo, ha pur sempre i suoi limiti. Poiché mi vuole bene, si è presa sulle proprie spalle la responsabilità di quella decisione senza badare al chiacchiericcio dei parenti. Questo però non vuol dire che fosse d’accordo con la mia volontà… sto già frequentando una scuola, e adesso vorrei addirittura iscrivermi a un istituto misto, insieme a dei ragazzi! Pensate davvero che qualcuno fra i nostri parenti possa schierarsi a favore di una cosa del genere?» Sempre più scossa, dritta in piedi e con gli occhi lucidi, Qin guardava Juemin fisso in volto, cercando in lui una risposta.
«Nostro fratello maggiore non si opporrà» rispose Juemin senza esitazione.
«Ma non sarà lui a creare questioni. La zia si opporrà di sicuro, e per la quarta e la quinta zia questa diventerà una nuova fonte di pettegolezzi».
«E tu lasciale spettegolare!» rispose Juehui. «Quelle si trovano ogni giorno a pranzo insieme, è ovvio che passino tutto il tempo a parlare degli affari di famiglia. Stai sicura che se anche tu non facessi niente di niente, quelle troverebbero comunque qualcosa da ridire su di te. Non c’è modo di far chiudere loro la bocca, per cui tanto vale lasciarle blaterare e riderci sopra senza dar loro retta».
«Juehui ha ragione. Qin, sta a te deciderti» disse Juemin incoraggiandola.
«Allora ho deciso» rispose Qin con un moto d’entusiasmo improvviso. I suoi occhi brillavano, aveva ripreso il suo solito, risoluto vigore. Parlò con voce sicura: «Mi è chiaro: ogni tentativo di riforma e di cambiamento ha un suo costo, richiede dei sacrifici, e adesso è giunto il mio turno».
«Con quest’attitudine raggiungerai certamente il tuo scopo» rispose Juemin in suo sostegno.
Qin sorrise. «Che lo raggiunga o meno, questo non ha molta importanza. Ciò che importa è che ci provi». A quelle parole, Juemin e Juehui la guardarono con occhi pieni di ammirazione.
Dalla stanza a fianco giunse il suono dell’orologio: erano le nove passate.
«Devo andare ora, ormai avranno terminato la quarta mano di majiang» Così dicendo Qin si sistemò i capelli e si avviò verso la porta. Uscendo, si voltò verso i due fratelli: «Quando avete tempo, passate a trovarmi per parlare un po’, io durante il giorno ho sempre molto tempo libero».
«D’accordo» risposero Juemin e Juehui all’unisono. I due fratelli l’accompagnarono fuori, e quando Qin fu tornata da sua madre, essi si voltarono e tornarono nella propria stanza.
«Qin è proprio una ragazza coraggiosa» disse Juemin ad alta voce, perso anch’egli nelle proprie fantasie. «Per quale motivo una ragazza vivace come lei debba sopportare tali difficoltà mi è inspiegabile».
«Ciascuno hai i propri problemi da affrontare, anche io ho i miei...» Juehui si interruppe bruscamente, come se si fosse reso conto di aver detto troppo.
«Anche tu avresti dei problemi? Sentiamo, quali sarebbero questi problemi?» gli rispose Juemin con stupore. Juehui arrossì in volto. «Niente, niente, stavo scherzando!»
Juemin non rispose, ma continuò a fissare il fratello con aria perplessa.
«Il palanchino della signora!» disse una voce da fuori. Era la voce di Mingfeng.
«È arrivato il palanchino della signora!» urlò uno dei servitori. Dopo pochi minuti il cancello principale si aprì ed entrarono due portatori di palanchino, che appoggiarono di fronte ai gradini di casa. Dalla strada echeggiava cupo e solenne il suono di un gong: era scoccata la seconda veglia.
CAPITOLO 4
Notte, morte. Il buio si era impadronito della casa. Le lampade, ora spente, vibravano a intermittenza di un suono che presentiva miseria e che, sebbene bassissimo, riempiva ogni spazio: un singhiozzare lontano e sommesso. Il tempo della felicità era giunto al termine, veniva la stagione del pianto.
Distesi sui propri letti, e deposte le maschere che si indossano durante il giorno, uomini e donne tiravano le somme del giorno appena passato. Era il momento in cui l’animo si dischiudeva, concedendo accesso al suo fondo, ai suoi angoli più reconditi. Vi era chi si tormentava piangendo il giorno ormai sprecato, perduto, ancora una volta speso in una vita di sofferenze. Certo, vi era anche chi del giorno appena passato si poteva dire soddisfatto, ma queste erano poche persone, e già dormivano. Gli altri, gli infelici, giacevano in letti freddi, maledicendo il proprio destino. Che fosse di giorno o in piena notte, il mondo si mostrava come sempre con due facce, a due tipi diversi di persone ed esistenze.
La fiammella di una lampada a olio illuminava di luce cupa la camera della servitù. Una mano coprì lo stoppino, che si spense crepitando, facendo piombare la stanza nel buio. Sulla destra, coricate su dei letti di legno, dormivano russando due serve, entrambe sulla trentina: la serva He, che accudiva i nipoti della prima signora, e vicino a lei la serva Zhang, a servizio di quest’ultima. Sulla sinistra c’era un altro letto di legno, uguale agli altri: su di esso dormiva mamma Huang, la più anziana, dai capelli striati di bianco. Di fianco a lei, su un lettino più piccolo, sedeva Mingfeng con lo sguardo ipnotizzato sullo stoppino della lampada che ancora mandava scintille nel buio.
Mingfeng sgobbava ogni giorno da mattina sera a servizio delle signore di casa Gao, e soltanto quando queste erano andate a dormire allora poteva godersi qualche attimo di libertà e di riposo, prima di dormire. Da un po’ di tempo a questa parte Mingfeng aveva iniziato a dare sempre maggiore importanza a questi brevi momenti di pace: non voleva andare a dormire presto, ma preferiva piuttosto godersi quei momenti fino in fondo, aggrappandosi a loro il più a lungo possibile. Erano momenti in cui poteva riflettere, e ripensare alle cose passate. Nessuno la poteva disturbare – se li era guadagnati duramente – e soltanto allora il vociare degli ordini e dei rimproveri ricevuti durante tutto il giorno svaniva.
Anche lei, come tutti gli altri, durante il giorno indossava una maschera finta fatta di premura e sorrisi di cortesia, ma alla sera, durante questi suoi preziosi istanti di libertà, poteva liberarsi di questa maschera e fare spazio al proprio animo, alla mente e il cuore, e rivelare a sé stessa ciò che ivi era custodito.
Sono sette anni che vivo qui
era il primo pensiero che ultimamente continuava ad affiorarle in testa come un tarlo ostinato. Sette anni, possibile che fosse passato così tanto tempo? L’idea di aver vissuto per così tanto tempo a questo modo, in maniera piatta e uniforme, la meravigliava. Al netto di tutte le lacrime che aveva pianto, di tutti i rimproveri che aveva dovuto sopportare, la sua vita trascorreva mediocre. Le lacrime, i rimproveri, gli insulti e i maltrattamenti non avevano fatto altro che infiorettare una vita altresì priva di avvenimenti. Ma tutto ciò era inevitabile, pensava Mingfeng, e sebbene avrebbe fatto di tutto per sfuggirgli, tale era la realtà delle cose: non le rimaneva che sopportarla. Era convinta che tutto ciò che succedeva al mondo fosse stabilito da un essere superiore, una divinità onnisciente, e che se lei era giunta a tal punto, tale evidentemente doveva essere il suo destino. La sua era una visione del mondo semplice, della quale poteva trovare conferma nelle persone che la circondavano.
Eppure nel suo cuore c’era qualcos’altro che la inquietava. Dell’esistenza stessa di questa cosa nemmeno lei era al corrente, ma nel frattempo essa aveva iniziato ad agitarsi dentro di lei, instillandole un nuovo desiderio.
Ho trascorso più di sette anni qui, quasi otto ormai!
pensò Mingfeng in un momento di improvvisa chiarezza, e il cuore le si appesantì: come molte altre ragazze nella sua stessa posizione, anche Mingfeng cominciava a lamentare il proprio destino. Quando la signorina primogenita viveva ancora qui, mi chiedeva spesso del mio futuro… ma quel è il mio futuro adesso?
Davanti ai suoi occhi era uno spazio enorme e vuoto, senza alcuna meta o direzione. Quindi, un volto familiare. Se la signorina fosse ancora qui, almeno ci sarebbe qualcuno in questa casa ad aver cura di me. Lei mi ha insegnato un mucchio di cose, persino a leggere e a scrivere. Ora è morta. Le persone buone non vivono mai a lungo…
Tale pensiero le rigò il volto di lacrime.
Quanto andrà avanti ancora questa vita?
si domandò miseramente. I ricordi le mettevano paura. I suoi ricordi prendevano forma a partire da quel momento di sette anni prima, quando – nevicava – una donna di mezz’età dal viso crudele l’aveva comprata dal padre rimasto vedovo, portandola nella sua nuova casa, la stessa di adesso. Comandi, rimproveri, difficoltà e lacrime erano entrati allora a far parte della sua vita, diventandone gli elementi portanti, giorno dopo giorno sempre uguali. Come molte altre ragazze nella sua condizione, inframezzava alla monotonia della sua vita dei sogni più belli, ma queste erano fantasie di un istante, che svanivano subito. La realtà si imponeva ogni volta di nuovo, cruda e fredda. Sognava anche lei, a tratti, bei vestiti e giocattoli, un letto caldo e del buon cibo, e una ragazzetta uguale e identica a lei a farle da serva. I giorni però passavano sempre uguali, portandole sempre le stesse sofferenze, senza mai