Prima che tutto cambi
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Se da un lato l’Europa ferve di ideali e di illusioni, non mancano le contraddizioni. Anche Viareggio ha le sue: mentre la Darsena vive del lavoro dei marinai, dei pescatori e dei calafati, al di qua del canale Burlamacca, si moltiplicano i luoghi di ritrovo e la passeggiata si mostra superba. L’incendio del 1917 ne cambierà il volto, ma è solo l’inizio. La grande guerra pretenderà un pesante tributo in termini di vite umane e difficoltà economiche, pagate soprattutto dal proletariato. Il biennio rosso, l’avvento del fascismo, la Seconda guerra mondiale lasceranno tracce indelebili anche sul piano urbanistico. Gli anni Cinquanta-Sessanta vedono un miglioramento generale del tenore di vita: gli alberghi di lusso ospitano i grandi nomi della finanza e dello spettacolo, per chi non se li può permettere ci sono le pensioncine e le stanze in affitto. Il turismo viareggino cambia volto: da turismo di élite, lentamente dirottato verso Forte dei Marmi, all’attuale turismo di massa.
Sorretti da una solida e attenta ricerca documentale ricca di aneddoti, testimonianze inedite e materiale d’archivio, le Autrici tratteggiano un’epoca nell’intento di ricostruirne atmosfere, speranze e delusioni.
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Prima che tutto cambi - Maria Teresa Landi
18
Nota delle Autrici
Raccontare il Novecento, soprattutto nella nostra zona – Viareggio e la Versilia – significa per noi affondare mente e cuore in un passato recente, vivo e intessuto di ricordi.
È stato scritto che il ricordo è storia individuale, familiare e ambientale, ma in questo protrarsi verso le proprie radici risiede il segreto della sua forza, che ci sospinge verso il futuro .
Parole profondamente vere, che racchiudono in sé il senso del nostro lavoro e, se vogliamo, la nostra utopia: illuminare il passato per leggere meglio il presente e guardare al futuro con nuova e più matura consapevolezza.
Nella raccolta di racconti, dal titolo quanto mai evocativo Nella terra del diavolo, abbiamo descritto un territorio che fin dalle origini ha lottato per la sua sopravvivenza: acquitrini, malaria, povertà… Tutto questo fino al momento in cui Viareggio assurge a città, vede sorgere i palazzi dei nobili lucchesi e diventa così meta turistica d’élite. Una città che evidenzia però una netta separazione tra i più che cercano di sopravvivere e i pochi che ostentano la loro ricchezza.
L’abbiamo lasciata negli ultimi anni del 1800 e ci è sembrato giusto continuare il nostro viaggio, spulciando tra aneddoti, testimonianze possibilmente inedite e documenti d’archivio, nell’intento di ricostruire atmosfere, speranze e delusioni del XX secolo di casa nostra, secolo nuovo e interessante, ma senza dubbio inquieto e complesso. Dunque.
All’alba del ’900 l’Europa ferve di ideali e di illusioni, prima fra tutte la speranza di una pace tra i popoli. Una visione ottimistica che permea di sé la vita di ogni giorno: Belle époque a indicare il periodo. Epoca felice davvero: fioriscono i grandi magazzini, le pubblicità, i caffè-concerto, le grandi esposizioni universali. Nasce una nuova arte, il Liberty o Art Nouveau, e, meraviglia delle meraviglie, arrivano il cinema e il fumetto. Un’epoca in realtà piena di contraddizioni e di tensioni, più o meno alla luce del giorno. Basti pensare alla realtà italiana fatta di distanze abissali tra un Nord industrializzato, un Sud ancora agricolo e ai problemi legati all’occupazione.
In questo quadro come si colloca Viareggio?
È e si sente città, ma in confronto a Milano, Roma, Torino e così via appare molto piccola e provinciale. Gelosa della propria identità, questo sì a tutti i livelli, ma con una profonda contraddizione interna tra la mentalità semplice e pratica della classe meno abbiente – operai dei cantieri, marinai, pescatori etc. – non troppo lontana dalla gente di campagna e la borghesia medio-alta. Quest’ultima, assolutamente convinta della propria distanza rispetto al mondo contadino e operaio, desiderosa di affermarsi, troverà soprattutto nello sviluppo turistico preziose occasioni di crescita economica e prestigio sociale. Se da una parte la Darsena vive, anzi sopravvive, del lavoro dei marinai, dei pescatori e dei calafati, dall’altra, al di qua del canale Burlamacca, si caratterizza sempre di più come città plaisir. Si moltiplicano i luoghi di ritrovo e la passeggiata offre superba uno scenario di tutto rispetto. Si pavoneggia, infatti, mostrando i suggestivi padiglioni in legno: negozi, caffè, ingressi per gli stabilimenti balneari.
È quello che il turismo borghese richiede e non c’è dubbio che il fior fiore della società benestante scelga Viareggio per le sue lunghe vacanze. Qui il Liberty impera sia nell’edilizia effimera, libera, fantastica, sia in quella ufficiale o nella muratura dei villini, arricchiti dal genio di artisti come il Chini e il Belluomini. I padiglioni stagionali ben si prestano a costituire il palco della commedia estiva, fatta di villeggianti e moda, assai diversa dallo stile di chi vive tutto l’anno nel borgo marinaro e operaio. Gli edifici sul lungomare, opere di costruttori locali, carpentieri, che curano l’allestimento dei bastimenti, sono concepiti con la stessa tecnica marinaresca: transenne, pennoni, doghe, tramezzi. Il tocco finale lo danno le insegne decorate, i cartelloni pubblicitari, i lumi e il mobilio. È lì che fantasia, estro, amore per la propria terra si sbizzarriscono in una sorta di epopea pioneristica americana.
L’incendio del 1917 cambierà il volto della passeggiata, ma è solo l’inizio.
La grande guerra pretenderà un pesante tributo in termini di vite umane e difficoltà economiche, pagate soprattutto dal proletariato.
Negli anni ’20-’21 (il famoso biennio rosso) disoccupazione e miseria sfociano inevitabilmente in fermenti di rivolta che lasciano a terra dei morti e nella coscienza dei viareggini un senso di sconcerto e di paura.
Proprio a partire da questi anni si palesa la contraddizione già presente peraltro tra le due anime della città. Mentre sul lungomare sfilano i nomi dell’aristocrazia e dell’intellighenzia europea, intorno a loro vivacchia la massa anonima della gente comune spettatrice un po’ stupita, un po’ invidiosa, forse anche un po’ insofferente.
Qui come altrove, l’avvento del fascismo, la conseguente guerra lasciano tracce indelebili e la ricostruzione dopo il ’45 non è da meno.
Riassumendo, come giustamente afferma Tommaso Fanfani: [1]
Con il passaggio tra XIX e XX secolo l’assetto urbanistico della città plaisir non solo si consolida, ma diviene oggetto di attenzione costante da parte delle amministrazioni pubbliche che si succedono negli anni. La sistemazione della passeggiata rimane al centro dell’attenzione pubblica, e quasi freneticamente si susseguono [… ] le costruzioni sul lungomare. Il trionfo della città plaisir avviene negli anni Venti e Trenta del Novecento, quando la città assume l’assetto urbano e architettonico che giunge a noi, in parte modificato o dalle distruzioni della Seconda guerra mondiale, o dalla furia distruttrice di impresari edili e dalla scarsa sensibilità per la conservazione del patrimonio architettonico da parte di qualche politico malaccorto del Secondo dopoguerra.
Scempio urbanistico di cui si paga il fio ancora oggi.
Non è certo l’unica trasformazione né la più sostanziale. In realtà, come nel resto del paese, gli anni ’50-’60, quelli del miracolo economico per intenderci, vedono un miglioramento generale del tenore di vita, anche grazie al proliferare delle farfalline indispensabili ai più per potersi permettere piccole e grandi soddisfazioni, dalla tv al frigo, all’automobile e, perché no, la famosa vacanza. Sono gli anni della speranza. Aldo Cazzullo, noto giornalista e scrittore, parlando appunto di questi anni, titola il suo nuovo libro Giuro che non avrò più fame! Il grido di Rossella O’Hara, ma anche quello delle tante donne italiane che, uscite da una guerra terribile, vogliono per i propri figli un mondo migliore.
Gli alberghi di lusso a Viareggio ospitano ancora i grandi nomi della finanza e dello spettacolo, mentre per chi non se li può permettere ci sono le pensioncine e le stanze in affitto.
Il turismo viareggino sta cambiando volto: da turismo di élite, lentamente dirottato verso Forte dei Marmi, all’attuale turismo di massa con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.
La popolazione, che nel 1951 era di quarantaduemila abitanti, aumenta ancora, ma ne cambia la tipologia. Accanto ai viareggini doc e ai vecchi trabaccolari cresce il flusso degli immigrati da altre regioni e con loro ovviamente crescono anche le periferie. Più lento il salto culturale. In estrema sintesi, si potrebbe osservare che il gap generazionale tra i nati nel Secondo dopoguerra e i loro genitori era ben poca cosa rispetto all’oggi.
Tanto per fare un esempio, i bambini di quegli anni non ricevevano cento regali per Natale, ma forse non ne avevano bisogno, anche perché, non avendo la giornata scandita da mille impegni – e se lo studio non c’entra pazienza! – potevano ritagliarsi più ampi spazi per giocare e sbrigliare la fantasia.
Un altro esempio: l’emancipazione femminile del dopoguerra portò sì tante donne a lavorare anche fuori casa, magari per arrotondare il magro bilancio familiare, ma anziani e malati restavano comunque affidati alle loro cure. L’esercito delle badanti riunite in piazza Shelley o via Battisti era di là da venire. Luci e ombre, come sempre.
Tante cose sarebbero cambiate dopo il fatidico ’68: contestazione giovanile, autunno caldo, crisi dei valori tradizionali e ancora atti di terrorismo…
A Viareggio in particolare due fatti sconvolsero la tranquilla routine di cittadina di provincia: nel dicembre del ’68 la contestazione della Bussola, che mise in carrozzella lo studente Soriano Ceccanti; a gennaio del ’69 poi l’uccisione del piccolo Lavorini diede un forte scossone alla coscienza dei viareggini. Due chiari segnali che le cose stavano cambiando anche qui, ma questa è un’altra storia. Prima o poi ve la racconteremo. Forse.
Maria Teresa Landi, Luciana Tola
[1] Tommaso Fanfani, Storia illustrata di Viareggio. Pacini Editore, Pisa, 2005.
Chi meglio di D’Annunzio ha saputo trasmettere le suggestioni della nostra Versilia? In effetti il vate conosce il nostro territorio, lo visita una prima volta nel 1899 con Eleonora Duse, poi nel 1906, ospite della Versiliana, e da Bocca d’Arno al Magra ne rimane incantato.
E tutto è bianco
, dice un verso della lirica Il commiato
nella raccolta Alcyone , [1] per poi coglierne la vera essenza in La pioggia nel pineto
. Pochi versi per saggiare l’intensità del rapporto uomo-natura quaggiù.
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.
Versi come una sinfonia, capaci di creare in chi legge la forte sensazione d’inoltrarsi nella macchia e lasciarsi avvolgere da una natura incontaminata.
D’Annunzio si trova a Marina di Pietrasanta con Ermione, la donna amata. Chissà se è Eleonora Duse o la Rudinì come dicono alcuni, ma non è questo che conta.
Mentre passeggiano, li sorprende un fresco temporale estivo.
Le gocce, cadendo leggere sui rami e sulle foglie, creano una musica, destano odori, esaltano il verde delle foglie. I due, immersi in suoni, profumi e sensazioni tattili, si sentono parte viva della natura che li circonda, fino a perdersi in essa.
Emozioni che hanno sapore di favole, di illusioni momentanee, ma portatrici di serenità e di gioia.
Immagini che si fissano nella nostra fantasia, fino a sentir risuonare la voce del poeta in ogni luogo che lui ha descritto. E se ci concentriamo fino allo spasimo, restiamo senza fiato e non possiamo più dimenticare, come Mario Soldati che in Storie di spettri racconta:
Il panorama che avevamo di fronte, di una grandiosità ineguagliabile, è rimasto impresso nella mia memoria con la stessa precisione di certi capolavori […] davanti a noi, oltre il fiume, […] l’immensa scena era chiusa, verso sinistra, dal massiccio delle Apuane, grigie, azzurrine, biancastre, frastagliate, selvagge, e in apparenza altissime: verso destra, invece, era aperta alla civile, dolce pianura della Versilia, che, come un grande arco a tre fasce, pineta spiaggia frangente, sembrava protendersi verso sud per abbracciare di slancio tutto il Tirreno […]
Un paesaggio che intriga in ogni momento del giorno, in ogni stagione: le sue aurore quando il sole tinge di rosa i monti all’oriente, i tramonti che vedono incendiare l’orizzonte, il colore dell’aria, l’odore salmastroso e quello acuto della resina dei pini.
Oggi molta acqua è passata sotto i ponti e la Versilia è diversa da allora, ma chi ci è vissuto da sempre e se ne deve allontanare sente il distacco, la mancanza del mare che occhieggia tra un bagno e l’altro, della pineta ombrosa. Allora è forte il desiderio di arrivare in cima al molo per vedere ancora una volta la costa distesa languidamente al sole, come una bella donna.
[1] Gabriele D’Annunzio, Alcyone. Garzanti, Milano, 2006.
La solitudine dorata del poeta
Un uomo solo, completamente nudo, in sella al suo cavallo dal nome ridondante di Malatestino, tra la sabbia e le onde. Gli fa da sfondo il profilo merlato delle alpi Apuane. D’Annunzio si sente libero, via dai legami che lo soffocano: i figli, un amore finito, le insoddisfazioni politiche. Via dalle continue vili richieste dei debitori che lo tallonano ovunque, anche qui purtroppo. Oggi il proprietario del Capanno dopo il pranzo, in verità piuttosto saporito, si è avvicinato al tavolo e ha preteso che saldasse il conto, quel tanghero! Ha chiesto i soldi a lui, D’Annunzio, conosciuto e apprezzato poeta.
Scusate tanto, sor D’Annunzio, se mi permetto, ma è un popoino che ’un mi pagate. Poeta o no, io ci campo con ’sto lavoro.
Vi pagherò non temete, tornerò non dubitate.
Se n’è andato offeso, con l’intenzione di non entrare mai più in quella stamberga.
Che crede, pensa forse di farmi un favore? Dovrebbe essere onorato di vedermi nella sua trattoria!
borbotta sdegnoso.
Come se non bastasse, appena uscito, una scena orribile: una bimba morsa da uno dei cani a lui cari. Ha portato con sé, alla Versiliana, tutto il canile e tutta la scuderia: ventinove veltri e parecchi cavalli; sono il suo passatempo, non può rinunciarci. Corre a vedere.
La piccola, lì davanti a lui piange disperata, imbrattata di sangue… La mamma fuori di sé: La mia bambina!
grida. Gabriele la soccorre, la consola, chiama aiuto. Resta ad aspettare che un infermiere, accorso sul posto, la medichi e tutto si sia ricomposto. Alla fine chiede mille volte scusa, lasciando cento lire alla madre. E come può far finta di niente?
Generoso dunque, ma allo stesso tempo tracotante, sicuro del proprio valore, della propria superiorità.
"Io ero convinto di essere non pure uno spirito eletto ma uno spirito raro; e credevo che la rarità delle mie sensazioni e dei miei sentimenti nobilitasse, distinguesse qualunque mio atto." A parlare è Tullio Hermil, protagonista di L'innocente, [1] una delle tante proiezioni che Gabriele ha di se stesso.
Adesso osserva inquieto il mare, così calmo, lontano anni luce dalla tempesta che lo dilania; sente la necessità di sfogare la rabbia che monta, di mettere alla prova il suo coraggio senza paura.
L’uomo che vale, pensa, affronta il pericolo con sfrontatezza, osa l’inosabile.
Ha deciso: si lancerà in una corsa sfrenata lungo la riva del mare.
Malatestino sbuffa, madido di sudore sotto il sole caldo dell’estate. La spiaggia, una distesa di lame e dune, bianca tra cespugli di tamerici, sfavilla fino alla pineta e diventa per lui fonte d’ispirazione.
Intanto le immagini si addensano in pensieri, parole, metafore… che ripete per non dimenticare.
Lo distolgono dal turbinio delle idee due guardie vestite di tutto punto che gli si parano davanti, obbligandolo a fermare la corsa. Malatestino fa resistenza, vorrebbe continuare, ma il padrone stringe le briglie senza incertezze. Ambedue guardano altezzosi gli sbirri che hanno osato interrompere la loro breve fuga.
Sa che non si può stare nudi? Non è mica a casa sua. È oltraggio alla pubblica decenza!
tuona uno. L’altro annuisce, trattenendo per la cavezza il cavallo, e Gabriele sdegnoso: Voi non sapete con chi parlate. Toglietevi dinanzi e lasciatemi andare!
Non aspetta risposte, strattona le briglie e prosegue la sua cavalcata adamitica.
È furioso. Com’è possibile sopportare tale insolenza? Questi versiliesi sono di un’ignoranza! Ogni giorno una prova, valletti, cameriere, negozianti, una massa di analfabeti; poche e sorprendenti le eccezioni. Ripensa al dialogo di pochi giorni prima.
Sta cercando la strada per Seravezza, quando vede un contadino che zappa la terra. Quale migliore informatore di uno del posto? Si ferma dunque, chiedendo a gran voce: Eh tu, piccolo villico, sai dirmi ove è sita Seravezza?
E quello: Che hai itto?
Non capisce l’italiano, poveretto lui! Semplice come i pastori d’Abruzzo che conosce bene, ma capace magari di ripetere a memoria migliaia di versi. Contadini, cavatori, boscaioli cantano infatti senza difficoltà le avventure e gli amori di Orlando, la fuga di Angelica… si affidano alla memoria orale, ai copioni tramandati di padre in figlio, recitati senza espressione, marionette su di un palco improvvisato, ma con la maestria dei cantastorie professionisti. Abiti colorati cuciti dalle donne, spade di legno abbozzate a fatica dai tronchi dei castagni e poi il finale, sempre quello:
Un altr’anno se a Dio piace
tornerem di nuovo al canto.
Vi consoli il cielo intanto
e vi doni la sua pace. [2]
È il maggio, spettacolo della povera gente sul sagrato delle pievi, fonte di rinnovata ispirazione. D’Annunzio ne torna rinvigorito, arricchito, pronto a meditare su nuove storie. Le scriverà, ne è sicuro, ma con calma, quando l’ispirazione gli guiderà la mano.
Non lavora molto piuttosto, illanguidito da una natura intrigante e misteriosa.
È il 1906. Da giugno a novembre, D’Annunzio soggiorna in Versilia nella villa La Versiliana. Insieme a lui i figli Mario, Gabriellino e Venerio, e la marchesa Di Rudinì.
"Ricordo, con un vivo rimpianto di quei giorni, l’estate che trascorsi, anni or sono, in compagnia di Gabriele d’Annunzio e mio fratello Veniero, in Versilia. Abitavamo noi soli, una vastissima villa, la Versiliana, [3] tra il Forte de’ Marmi e Viareggio, circondata dalla magnifica pineta che laggiù si distende lungo la spiaggia ." Parole di Gabriellino, figlio ventenne del poeta, che ricorda con nostalgia quei giorni felici.
La Versiliana è una grande villa di tre piani, color ocra. La camera del poeta si trova al secondo piano, proprio in angolo. Dalle finestre può ammirare il mare e la pineta, un paesaggio ancora selvaggio e solitario. Rari i pescatori di arselle, qualche barca a vela all’orizzonte, cespugli di tamerici e più in là, verso i monti, l’ombra della macchia. Un rifugio ideale per chi ha bisogno di isolarsi dalle richieste pressanti del mondo o per gli innamorati.
Sono vacanze spensierate per i ragazzi, che rimangono quasi tutto il giorno in costume da bagno a giuocare, a correre, a fare gare… Con loro anche un giovanissimo Saba che accenna stupito alla signora vestita di veli bianchi che si aggira come un fantasma per le stanze, mentre il vate nuota e si abbronza apparentemente senza pensieri. [4] È appunto Alessandra di Rudinì, la donna che lo ama follemente e che vede con dolore scemare di giorno in giorno il suo interesse per lei. In effetti Gabriele, gran donnaiolo, si è invaghito di un’altra e vive con fastidio la sua insistenza. [5] Le è stato vicino dopo l’operazione, [6] poi