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Una vita in movimento
Una vita in movimento
Una vita in movimento
E-book183 pagine2 ore

Una vita in movimento

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Info su questo ebook

Una vita in movimento: La strada lunga e tortuosa rappresenta la fatica, la sofferenza che, nell'immaginario collettivo, ha lo scopo di farci conquistare la felicità. L'orizzonte rappresenta la meta da raggiungere per essere felici. La rigogliosità del paesaggio sono i momenti di felicità vissuti dall'uomo mentre si affanna per raggiungerla... ma non li avverte. Adriano, un tassista, racconta il suo percorso di vita tra i più significativi momenti, attraversando importanti scelte esistenziali. Una storia, come una gentile e divertente carezza, che rivela un animo sensibile, riflessivo e curioso. Un amante della vita da cui trae lezioni per se stesso e per chi ama. Egli descrive le sue strade battute con simpatia e alle volte con semplice stupore di chi proviene da un umile passato che dona però, alla sua essenza, i più profondi sentimenti ed un onore che lo contraddistingue dai luoghi comuni. Il suo desiderio è quello di narrare vissuti per un lettore che saprà sorridere di alcune esperienze e commuoversi di fronte a piccole, grandi sorprese che egli riserva alla sua famiglia, con la volontà di un insegnamento d'amore e di una più larga scuola di vita. Fa capolino, nella sua fede religiosa, delicatamente intravista, un angelo custode che lo porta per mano aiutandolo a superare i suoi conflitti emotivi, le sue preoccupazioni... come in un gioco di scacchi... egli riuscirà a fare il suo scacco matto nella sua realtà.
LinguaItaliano
Data di uscita29 feb 2020
ISBN9788855088596
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    Anteprima del libro

    Una vita in movimento - Adriano Burelli

    piatto-burelli.jpg

    Adriano Burelli

    Una vita in movimento

    EDIFICARE

    UNIVERSI

    © 2020 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it

    I edizione elettronica febbraio 2020

    ISBN 978-88-5508-859-6

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri

    Dedico questo libro alla mia splendida famiglia,

    alla mia sposa Anna,

    compagna di giochi della vita e amica sincera.

    Alle mie figlie, Barbara e Francesca,

    che fin da bambine mi hanno regalato gioia e amore.

    Ai miei cinque nipotini,

    Sofia, Beatrice, Alessia, Massimo e Vittoria,

    che mi hanno regalato una seconda vita.

    Grazie a tutti voi di essere al mio fianco.

    prefazione

    La storia di Adriano Burelli è la storia di un uomo normale che ha vissuto una vita straordinaria. In questo racconto ognuno di noi può riconoscersi, rivivendo i momenti importanti della propria esistenza come riflessi nello sguardo di Adriano, che con costante trasporto emotivo ricorda e condivide con noi gli episodi salienti della sua vita.

    Adriano ci insegna infatti, mettendo a nudo la propria storia con il suo stile diretto ma allo stesso tempo variopinto, a vedere la bellezza non solo negli avvenimenti insoliti (e, certamente, tanti ne ha vissuti Adriano), ma anche nella quotidianità, nelle piccole cose sulle quali ci soffermiamo solo quando ripensiamo al passato. Questo è particolarmente evidente nei primi capitoli, nei quali l’Autore ricorda l’infanzia trascorsa nella campagna, in un paesino che oggi ci appare quasi come la scenografia di un film d’autore, ma che Adriano ci fa apparire reale come se fosse davanti ai nostri occhi. Anche la Roma caotica in cui Adriano muove i primi passi da ragazzino è un luogo che non esiste più, ma attraverso gli episodi, e soprattutto le persone raccontate, anche noi oggi riusciamo a coglierne la bellezza.

    Di capitolo in capitolo veniamo accompagnati lungo le tappe di una vita piena di sorprese; lentamente ci accorgiamo che, attraverso i tanti ricordi riportati a galla, Adriano ci sta facendo entrare nel suo mondo più intimo, regalandoci emozioni vere.

    Non voglio anticipare troppo, perché i colpi di scena sono davvero tanti: anche chi segue da tempo le clickatissime avventure di Adriano scoprirà vicende inaspettate e troverà tante occasioni per ridere e commuoversi leggendo questo libro, questo ritratto di un uomo mai banale che ama sottolineare i suoi pochi mezzi intellettuali e la sua scarsa frequenza scolastica ma che in realtà può certamente insegnare qualcosa a tutti noi.

    Enrico Zampieri

    capitolo primo

    IL GREMBIULE

    Il mio primo ricordo è un grembiulino bianco a quadretti blu. No, no, era a quadretti neri. È passato tanto tempo. Erano tutti a quadretti neri, i nostri grembiuli, tutti uguali: forse confezionati dalla stessa mano, o forse copiati da un unico modello. Erano grembiuli con gli automatici sulla schiena, ma fino al punto vita, in modo che la parte terminale si aprisse per scopi fisiologici, come unico abbellimento avevano una cintura, rigorosamente della stessa stoffa, legata sotto l’ultimo bottone con un grande fiocco. Forse serviva a dare forma al grembiulino, o un tocco stilistico alla silhouette del bambino.

    Ripenso a quei primi anni della mia vita ed è un po’ come se fossi fuori dal mio corpicino e vedessi dall’alto un bambino con la testa reclinata in avanti per guadarsi i piedi: vedo la piega dell’orlo del grembiule ben sotto le piccole ginocchia – o forse arrivava alle caviglie? – è un ricordo un po’ confuso. La cosa che, però, mi ricordo bene, è che sotto quel grembiule noi bimbi del rione non avevamo niente, né pannolini né mutandine. Quando un amichetto si allontanava dandoci le spalle, gli si scostavano, tra un passo e l’altro, i lembi dell’ultima parte del grembiule, lasciando intravedere le natiche: qualche volta erano bianche, ma il più delle volte erano sporche di terra o di merda. La facevamo sul terreno come i gatti o come i cani, proprio davanti a casa nostra. I pannolini, così come li conosciamo oggi, a quei tempi non esistevano. Quando poi arrivava la sera la mia mamma, diligentemente, mi fasciava con panni di lino fatti a triangolo, chiamati sorrisi (è ovvio che servissero a evitare di bagnare il letto). Durante il giorno, invece, eravamo lasciati liberi di farla dove ci pareva: in breve tempo sarebbe passata una delle mamme a raccoglierla e darci una pulita.

    A quei tempi il nostro asilo era all’aperto, nell’unico spiazzo fatto di terra battuta davanti alla nostra casa, e tutto intorno avevamo pietre di ogni grandezza e forma. Le nostre mamme erano le maestrine e a turno ci controllavano sferruzzando, tutte intente a fare la calza o la maglietta; quelle libere da questo compito se ne stavano dentro le loro case a sbrigare le faccende. Solo mia madre, di tanto in tanto, gettava un’occhiata dalla piccola finestra che dava proprio sullo slargo davanti a casa; qualche volta io me ne accorgevo, allora lei mi sorrideva dolcemente e a me sembrava un modo per dirmi bravo.

    E così, a turno, tutte sferruzzavano e senza farsi notare da noi bimbi, ci controllavano. Cercavano di evitare che finissimo sulle pietre rischiando di farci qualche buco nella testa, cosa che, ovviamente, succedeva sempre. Se tra noi bimbi il gioco si tramutava in un litigio, a nessuno sarebbe importato niente, a quei tempi c’era la convinzione che questo fosse il modo più normale e naturale per crescere bene. Insomma, crescevamo con i bozzi in testa come fosse l’insegnamento scolastico per eccellenza.

    Nel mio paese di sassi ce ne sono davvero tanti: l’intero paese è fatto di sassi. Le quattro case che compongono il rione sono state costruite lungo il perimetro di un’enorme pietra a ottocento metri d’altezza. Questo sperone roccioso ha dato il nome al mio paese: Pietrasecca. Ho imparato poi a scuola che, nell’antichità, costruire case a ridosso di uno strapiombo era il modo migliore per difendersi dai saccheggi. Ancora oggi per due lati Pietrasecca è impossibile da scalare; un lato, comunque molto ripido, è organizzato in piccole terrazze coltivate a ortaggi. Il paese è accessibile da un solo punto, dove nel Medioevo fu costruito un enorme portone, del quale oggi restano due torrette a testimoniarne l’esistenza.

    Questo è il luogo in cui sono nato, il 15 luglio del 1950, terzo di quattro fratelli: prima di me vennero Francesco, che se ne andò di casa quando io ero ancora piccolo, e Aleandra, di tre anni più grande. Mio fratello Paolo, invece, nacque quando io avevo sette anni.

    Tutti noi siamo nati in casa. Di quella casa ricordo ancora ogni piccolo dettaglio: la rivedo così com’era, arroccata presso lo strapiombo, con tutte le stanze disposte attorno ad un grosso tronco di legno conficcato nella roccia, uniche fondamenta della casa. Ricordo in particolare quella piccola stanza dove tutta la famiglia era solita trascorrere il tempo: la capacità di arrangiarsi delle donne di una volta trasformava quel piccolo luogo in base a ogni esigenza. Era una magia che sapeva fare molto bene la mia mamma: a volte quella stanza era soggiorno, altre volte era una cucina, per poi trasformarsi all’occorrenza in sala da pranzo, ma solo quando era pronta la cena. Non era più grande di tre metri per quattro; il camino era rialzato da un semplice e basso scalino, sul quale io, a due anni circa, mi sedetti, arrostendomi il sedere sulla brace... e se non fosse stato per la mamma e per qualche medico tempestivo, oggi non sarei qui a raccontarlo. Spesso la mia mamma raccontava questo episodio, e quando lo faceva sembrava rivivere quel momento con un’espressione di sofferenza sul volto, si strofinava i polpastrelli delle dita, come se avesse appena finito di sfilare i carboni ardenti sprofondati nella mia carne viva.

    Il camino era sempre acceso, sia d’estate sia d’inverno, perché aveva sempre una sua utilità: scaldava la casa nei rigidi inverni di montagna, ci permetteva di stare intorno al fuoco dopo cena, oppure semplicemente serviva per cucinare. C’era sempre la pila appesa su di una catena, per avere sempre pronta l’acqua calda. La mamma con quella pentola di rame, che noi chiamavamo la Cottora, ci faceva di tutto: scaldava l’acqua per lavarsi quando fuori nevicava, lessava le patate insieme alle castagne, oppure faceva la polenta per mangiarla insieme a tutta la famiglia.

    Al centro della stanza era posizionato un piccolo tavolo rettangolare all’incirca lungo un metro e largo settanta centimetri; era in legno grezzo, coperto da una tovaglia di plastica colorata. Ci mangiavamo in sei, quando nessuno mancava. Noi, seduti intorno a quel tavolo, ognuno nel proprio posto, mangiavamo la polenta fino a consumare anche quella del familiare che stava di fronte, scatenando liti a non finire. Mio padre, per evitare la catastrofe familiare, inventò un gioco davvero interessante, che lui riteneva istruttivo. Era il divertimento più piacevole che avessi mai conosciuto, addirittura mi sembrava un rito. Consisteva, in sostanza, nel mangiare la polenta un poco per volta allo scopo di ricostruire la tipica forma a stivale dell’Italia. Il mio posto era sempre davanti alle coste dell’Abruzzo e del Molise, dove, però, c’era poco da mangiare; nel frattempo la mamma, che avevo di fronte, scolpiva le coste del Lazio e della Campania. Le avanzava sempre della polenta; forse lo faceva apposta per passarla a me, che sembravo il più affamato. La polenta che rimaneva veniva tagliata a piccoli pezzi quadrati e si arrostiva sulla brace il giorno successivo.

    Nella parete sinistra del camino c’era la dispensa a muro per occupare meno spazio. Era di un colore celestino pallido, ed era così vecchia e malandata da avere la vernice quasi tutta scrostata. A me però non importava niente, quello che m’interessava veramente erano le buone marmellate della mamma, ordinatamente riposte sui ripiani superiori per non farle prendere a noi bimbi, e poi erano protette dalle mosche da ante di vetro trasparente. Io però, quando lei usciva per fare qualche commissione, o solo per parlare con le vicine, prendevo la sedia, ci salivo sopra e le rubavo; quando la mamma se ne accorgeva inizialmente mi dava una strillata, poi però faceva finta di niente. Spesso prendeva un cucchiaino e mi faceva dare una leccata. Era tanto buona la mia mamma.

    Dalla parte opposta della stanza, dirimpetto al caminetto, c’era l’unico tramezzo della stanza, fatto con frasche e calce. Era stato costruito per dividere la zona notte dalla zona giorno: dietro a esso, infatti, c’era la camera di mamma, quella con il letto grande. Addosso al muro fatto di frasche e calce c’era un piccolo cucinino a tre fornelli; era poggiato su di una piccola credenza smaltata di bianco a due ante, all’interno della quale, da un lato, c’erano le padelle accatastate, nell’altro l’alloggio della bombola del gas.

    A sinistra del cucinino una porta di legno grezzo nascondeva una scala a chiocciola, che portava in una stanza sotto strada dove, nascosto da una tenda in plastica colorata, si trovava il gabinetto. Davanti alla finestra avevamo un lavandino in metallo smaltato, anche esso era bianco, credo fosse antico, dall’aspetto somigliava a quelli ornamentali del Settecento. Era completo di tutto: c’era uno specchio, che poteva essere rovesciato dal lato che deformava l’immagine, spesso mi divertivo a fare le smorfie. C’era poi un lavello ovale e, subito sotto, l’alloggio delle brocche, ai lati sporgevano i braccioli intarsiati per appendere gli asciugamani e infine, seminascosta da una parte della stanza, c’era una grossa tinozza in plastica color verde per farci il bagno tutta la famiglia.

    Nella nostra casa avevamo la corrente elettrica, ma non l’impianto idraulico. L’acqua veniva portata dalla mia dolce mamma dopo averla attinta dalla fontana pubblica. Il lavandino era dunque un oggetto polivalente, un po’ come la Cottora. Lì ogni mattina, a turno, si lavava tutta la famiglia, ma venivano lavate anche le stoviglie e, quando la mamma aveva tempo, era usato anche per rendere puliti e profumati i piccoli capi d’abbigliamento, mentre il grosso delle coperte e delle lenzuola venivano lavate giù nel fosso. Quando accompagnavo la mia mamma, con le altre donne del paese, il lavaggio della biancheria sembrava trasformarsi in una grande festa: si cantavano canzoni popolari al ritmo del rumore delle lenzuola sbattute e strofinate sulle pietre levigate e rese lisce dalla corrosione del piccolo torrente, ed io per rendermi utile, stendevo le lenzuola sopra i rovi, aiutato ovviamente, dalla mamma.

    Di fronte a casa c’era la stalla dove alloggiavano gli animali. Avevamo un asino da carico e alcuni conigli e galline per il consumo familiare, oltre ad un maiale, che, mio padre comprava ancora cucciolo all’inizio di ogni anno e per tutto il periodo veniva trattato come un animale domestico, coccolato, vezzeggiato e accudito per farlo crescere e ingrassare al meglio. Poi, a ridosso del Natale, arrivava il momento di ammazzarlo. Allora mio padre attirava la povera bestia in un punto fuori dalla stalla, ma l’animale era restio, sembrava capisse che fosse arrivata la sua ora, normalmente seguiva mio padre come fosse un cane, ma, quando arrivava quel momento, faceva due passi in avanti e uno indietro, e per mio padre era una gran fatica farlo arrivare nel posto giusto. Quando finalmente arrivava nel piccolo slargo proprio davanti casa, (praticamente nel nostro asilo), mio padre lo grattava accarezzandolo sotto la pancia, abituato a questi gesti d’affetto, il maiale si sdraiava a terra mettendosi a pancia all’aria per farsi grattare meglio. A quel punto altri quattro uomini, che si erano nel frattempo nascosti per non spaventare l’animale, saltavano fuori e l’afferravano per le quattro zampe tirandolo per bloccarlo; gli strilli disumani della povera bestia mi costringevano a tapparmi le orecchie e guardare da un’altra parte. Una volta immobilizzato l’animale entrava in azione il macellaio del paese, ed io, che ero curioso nonostante l’orrore che provavo, di tanto in tanto mi voltavo per sbirciare. Poi, nel vedere il lungo ferro appuntito di un paio di centimetri di diametro, con l’impugnatura attorcigliata su se stessa a forma di elle, che si calava sul petto del maiale conficcandosi tra le costole per spaccargli il cuore, mi voltavo di nuovo con un senso di orrore. Nel frattempo, le donne avevano messo l’acqua sul fuoco, una volta bollente: questa veniva gettata sull’animale appena ucciso per ammorbidirne la cotenna e subito gli uomini cominciavano a raschiare via il pelo dalla pelle con coltelli affilati come rasoi. Dopodiché, il maiale veniva appeso per le zampe posteriori addosso alla parete della nostra casa proprio di fianco alla porta dell’ingresso e lasciato dissanguare, il sangue veniva fatto colare in un catino e poi messo a cuocere. Tutta l’operazione assomigliava ad un elaborato rituale, e il banchetto finale di questo rito prevedeva che gli uomini che avevano ucciso e poi squartato il maiale si riunissero a mangiare il sangue cotto, il cosiddetto sanguinaccio.

    Molto più semplice, e per me estremamente affascinante, era il metodo con cui mio

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