La ragazza scomparsa
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Info su questo ebook
Un grande thriller
Dall'autrice del bestseller Urla nel silenzio
Charlie e Amy, due bambine di soli nove anni, compagne di gioco, scompaiono all’improvviso. Un messaggio recapitato alle rispettive famiglie conferma l’ipotesi peggiore: le giovani sono state rapite. È l’inizio di un incubo. Poco tempo dopo, un secondo messaggio è ancora più mostruoso. I malviventi mettono le due famiglie l’una contro l’altra, minacciando di uccidere una delle due bambine. Per la detective Kim Stone e la sua squadra il caso è più difficile del solito. I rapitori potrebbero davvero trasformarsi in assassini spietati. Bisogna agire con rapidità e trovare la pista giusta. E Kim ha intuito che nel passato delle due famiglie si nascondono degli oscuri segreti...
Un’autrice da oltre 5 milioni di copie
Pubblicata in 29 Paesi
Due ragazzine scomparse, ma una sola tornerà
«La nuova regina del giallo.»
Antonio D’Orrico
«Angela Marsons è paragonabile al campione americano del thriller James Patterson.»
Il Corriere della Sera
«Milioni di copie vendute. Angela Marsons è già nella top ten italica.»
Il Fatto Quotidiano
«La detective Kim Stone indaga sul sequestro di due ragazzine di nove anni. Solo la coppia che offrirà il riscatto più alto potrà riabbracciare di nuovo la figlia.»
Bookseller
Angela Marsons
Ha esordito nel thriller con Urla nel silenzio, bestseller internazionale ai primi posti delle classifiche anche in Italia. La serie di libri che vede protagonista la detective Kim Stone ha già venduto 5 milioni di copie, e comprende Il gioco del male, La ragazza scomparsa, Una morte perfetta, Linea di sangue, Le verità sepolte (Premio Bancarella 2020), Quelli che uccidono, Vittime innocenti e il prequel Il primo cadavere. Angela vive nella Black Country, in Inghilterra, la stessa regione in cui sono ambientati i suoi thriller.
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Anteprima del libro
La ragazza scomparsa - Angela Marsons
Capitolo 1
Black Country, marzo 2015
Kim Stone si sentì ribollire di rabbia. Dal punto di innesco, nel suo cervello, quella sensazione si irradiò come una scossa elettrica fino alla pianta dei piedi, poi rifece il tragitto al contrario.
Se il suo collega, Bryant, fosse stato con lei, l’avrebbe invitata a calmarsi. A riflettere prima di agire. A pensare alla carriera, al lavoro che le dava da vivere.
Quindi, meglio che fosse da sola.
La Pure Gym si trovava in Level Street, su Brierly Hill, e andava dal centro commerciale di Merry Hill al Waterfront, il complesso di uffici e bar.
Era domenica, ora di pranzo, e il parcheggio era pieno. Kim fece il giro, scorse la macchina che stava cercando e parcheggiò la Ninja fuori dall’ingresso principale.
Non contava di fermarsi a lungo.
Entrò nell’atrio e si avvicinò al banco informazioni. Una donna bella e tonica le rivolse un sorriso smagliante e le porse la mano. Kim concluse che volesse vedere la sua tessera. Kim ne aveva un’altra da mostrare. Il distintivo.
«Non sono socia, ma ho bisogno di scambiare due parole con una delle vostre clienti».
La donna si guardò intorno come se avesse bisogno di chiedere consiglio su come comportarsi.
«Questioni di polizia», affermò Kim. Più o meno, aggiunse, fra sé e sé.
La donna annuì.
La poliziotta guardò il tabellone con le frecce e capì subito dove andare. Girò a sinistra e si ritrovò dietro a tre file di attrezzi su cui alcune persone facevano step, camminavano o correvano.
Guardò il lato B di quegli individui in fila che sprecavano energie senza andare da nessuna parte.
La donna che stava cercando faceva step nell’angolo in fondo. Per primi, riconobbe i lunghi capelli biondi, legati a coda di cavallo. Il fatto che tenesse il cellulare davanti a sé, sul display, fu la conferma definitiva.
Una volta individuato l’obiettivo, Kim si dimenticò dello sbattere degli arti che correvano e marciavano, e anche delle occhiate incuriosite che le persone le lanciavano, essendo l’unica persona completamente vestita nella sala.
Adesso, riusciva a pensare solamente al coinvolgimento della donna nella morte di un ragazzo di diciannove anni di nome Dewain.
Kim si diresse davanti all’attrezzo. L’espressione sconvolta sul viso di Tracy Frost riuscì quasi a scalfire la sua rabbia. Quasi.
«Due parole?», chiese, sebbene non fosse esattamente una domanda.
Per un secondo, la donna fu sul punto di perdere l’equilibrio. Sarebbe stato un vero peccato.
«Come diavolo hai fatto…?». Tracy si guardò intorno. «Non mi dire che hai usato il distintivo per entrare?»
«Due parole, in privato», ripeté Kim.
Tracy continuò con l’esercizio.
«Senti, per me possiamo anche parlare qui», disse Kim, alzando la voce. «Non rivedrò mai più questa gente, io».
Kim sapeva di avere già addosso gli occhi di almeno metà della sala.
Tracy scese con un salto all’indietro e prese il telefono.
L’ispettore rimase sorpreso dell’altezza della donna, che non arrivava al metro e sessanta. Non l’aveva mai vista senza i suoi tacchi da quindici centimetri, che fosse estate o inverno.
Kim spalancò la porta del bagno delle signore e attaccò Tracy al muro. La testa della donna mancò l’asciugamani elettrico per un pelo.
«Cosa cazzo ti è venuto in mente?», gridò.
Una porta si aprì e una ragazzina sgattaiolò fuori dalla stanza. Adesso, erano sole.
«Non puoi toccarmi, come…».
Kim indietreggiò, quel tanto che bastava a lasciare uno spiraglio fra di loro. «Come diavolo hai potuto pubblicare quella storia, brutta stronza? Ora è morto. Dewain Wright è morto, e la colpa è tua».
Tracy Frost, giornalista locale della peggiore specie in circolazione, sbatté due volte le palpebre, mentre il suo cervellino assorbiva le parole di Kim. «Ma… il mio… pezzo…».
«Grazie al tuo pezzo l’hanno ammazzato, stupida gallina».
Tracy iniziò a scuotere la testa. Kim annuì. «Oh, sì, invece».
Dewain Wright era un adolescente del quartiere di Hollytree. Aveva fatto parte di una banda, gli Hollytree Hoods, per tre anni e voleva uscirne. Ma la voce era arrivata alle orecchie della gang e l’avevano accoltellato, per poi lasciarlo lì a morire. Erano convinti di averlo ucciso. Invece, un passante gli aveva prestato i primi soccorsi. E Kim era stata chiamata a investigare sul tentato omicidio.
Il primo ordine dell’ispettore era stato quello di tacere il fatto che Dewain fosse ancora vivo, a tutti tranne la sua famiglia. Sapeva che se la notizia fosse giunta a Hollytree la banda avrebbe trovato il modo di finirlo.
Quella notte, Kim l’aveva passata su una sedia al suo capezzale, pregando che smentisse la prognosi e ricominciasse a respirare da solo. Gli aveva tenuto la mano, nella speranza che la sua energia gli desse la forza di tornare indietro. Il coraggio dimostrato dal ragazzo, quando aveva tentato di cambiare vita e di sfidare il destino, l’aveva commossa. Le sarebbe piaciuto avere l’opportunità di conoscere quel giovane temerario che aveva deciso che la vita della gang non faceva per lui.
Kim avanzò e fulminò Tracy con gli occhi. Non aveva vie di fuga. «Ti ho pregato di non divulgare la storia, ma non hai proprio resistito, eh? Volevi essere la prima, vero? Sei talmente disperata che per farti notare dalle testate nazionali butteresti via la vita di un ragazzino!», le gridò Kim in faccia. «Be’, per il tuo bene, spero che ti chiamino, perché qui non c’è più posto per te. Di questo me ne assicurerò personalmente».
«Non è stata…».
«Certo che è stata colpa tua», si infuriò l’ispettore. «Non so come hai fatto a scoprire che era ancora vivo, ma adesso è morto. E stavolta sul serio».
Il volto della giornalista si contrasse. Quell’idiota voleva dire qualcosa, ma non trovava le parole.
In ogni caso, Kim non intendeva ascoltarla.
«Lo sai che stava cercando di uscire dalla gang, no? Dewain era un bravo ragazzo che non voleva morire».
«Non è possibile che la colpa sia mia», disse Tracy, mentre il suo viso iniziava a riprendere colore.
«Sì, invece, Tracy», rispose Kim, sottolineando bene le parole. «Sulle tue mani schifose c’è il sangue di Dewain Wright».
«Stavo solo facendo il mio lavoro. Il mondo aveva il diritto di sapere».
Kim fece un passo avanti.
«Lo giuro su Dio, Tracy, non troverò pace finché il massimo che potrai fare con un giornale sarà consegnarlo a domicilio…».
Le sue parole furono interrotte dallo squillo del cellulare.
Tracy colse l’occasione per allontanarsi da Kim.
«Stone», rispose.
«Deve venire alla centrale. Subito».
L’ispettore capo Woodward non era certo un boss affettuoso, ma di solito si prendeva per lo meno la briga di salutare, per quanto in modo brusco.
La mente di Kim iniziò a lavorare. La chiamava di domenica, all’ora di pranzo, dopo aver insistito affinché si prendesse la giornata libera. E qualcosa l’aveva già fatto incazzare.
«Sto arrivando, Stacey. Ordina un bicchiere di vino bianco per me», spiegò, chiudendo la telefonata. Se il capo era rimasto sorpreso nel sentirsi chiamare Stacey, gli avrebbe dato una spiegazione in seguito.
Non ci pensava neppure a rivelare che aveva ricevuto una chiamata urgente dal suo capo mentre si trovava a portata di sputo dalla reporter più spregevole che avesse mai conosciuto.
Le opzioni erano due. Era nella merda fino al collo, oppure era successo qualcosa di grosso. In entrambi i casi, non sarebbe stato un bene se quella farabutta avesse origliato la conversazione.
Tornò a concentrarsi su Tracy Frost. «E non pensare che sia finita qui. Troverò il modo di farti pagare per quello che hai fatto. Lo giuro», disse, aprendo la porta del bagno.
«Ti faccio licenziare», le urlò Tracy alle spalle.
«Accomodati pure», ribatté l’ispettore voltandosi. La sera prima un diciannovenne era morto, inutilmente. Kim aveva visto giorni migliori.
E aveva la sensazione che quello in corso stesse per riservarle delle brutte sorprese.
Capitolo 2
Kim parcheggiò la Ninja sul retro della stazione di polizia di Halesowen.
La polizia delle West Midlands serviva quasi due milioni e novecentomila cittadini, coprendo le città di Birmingham, Coventry, Wolverhampton e l’area della Black Country.
Le forze erano suddivise in dieci unità locali, compresa la sua, quella di Dudley.
Kim raggiunse l’ufficio, al terzo piano. Bussò, e quando entrò rimase di sasso.
La sorpresa non fu dovuta al fatto che Woody fosse seduto accanto alla figura imponente del proprio capo, il sovrintendente Baldwin.
Non dipese neppure dal fatto che Woody indossasse una polo invece del completo con la camicia bianca e le mostrine sulle spalle.
Il motivo fu che, persino dalla soglia, Kim riusciva a vedere le gocce di sudore che imperlavano la pelle color caramello sulla sua testa. La sua ansia si percepiva a vista d’occhio.
Ecco, adesso era preoccupata. Non aveva mai visto Woody sudato.
Quando richiuse la porta, due paia di occhi si posarono su di lei.
Non capiva cosa avesse combinato per far incazzare entrambi. Il sovrintendente Baldwin veniva dalla stazione di Lloyd House, Birmingham, e Kim l’aveva visto spesso. In televisione.
«Signore?», disse, rivolgendosi all’unico uomo in quella stanza che significasse qualcosa per lei. Era impossibile guardare il suo capo senza notare la foto incorniciata del figlio ventiduenne, con indosso l’uniforme della marina militare. Due anni dopo il momento in cui era stata scattata, l’esercito aveva restituito a Woody il suo corpo senza vita.
«Si sieda, Stone».
Kim avanzò e prese posto sull’unica sedia, abbandonata al centro della stanza. Iniziò a guardare a turno prima l’uno e poi l’altro, ansiosa di ricevere un indizio. La maggior parte delle conversazioni che avevano luogo fra lei e Woody erano precedute da un momento in cui il capo sentiva il bisogno di torturare la pallina antistress che teneva sulla scrivania. Di solito era un buon segno, significava che fra di loro andava tutto bene.
Quel giorno, la pallina rimase sul tavolo.
«Stone, stamani è avvenuto un fatto: un rapimento».
«Confermato?», domandò lei, immediatamente. Spesso, le persone disperse venivano ritrovate nel giro di un paio d’ore.
«Sì, confermato».
Kim rimase in attesa, paziente. Anche nell’eventualità di un rapimento confermato, non capiva perché si ritrovasse seduta al cospetto dell’ispettore capo e del suo superiore.
Per fortuna, Woody non era un amante della suspense, né delle inutili macchinazioni. Andava dritto al punto.
«Si tratta di due bambine».
Kim chiuse gli occhi e respirò a fondo. Ecco, adesso capiva perché si erano scomodati anche i pesci grossi.
«Come l’ultima volta, signore?».
Sebbene non avesse preso parte alle indagini, tredici mesi prima, tutti i membri della polizia delle West Midlands si erano interessati al caso. In molti avevano dato una mano nelle ricerche che seguirono.
Kim conosceva molti particolari del vecchio caso, e le tornò subito in mente il dettaglio più rilevante.
Una delle bambine non era mai stata ritrovata.
Woody la riportò al presente. «A questo punto non ne siamo più sicuri. All’inizio sembrava così. Le bambine sono grandi amiche e sono state viste per l’ultima volta al centro sportivo di Old Hill. La madre di una delle due doveva andare a prenderle a mezzogiorno e mezzo, ma le si è fermata la macchina».
«Entrambe le mamme hanno ricevuto un messaggio sul telefono a mezzogiorno e venti, in cui i rapitori le avvertivano di aver preso le due bambine».
Era solo l’una e un quarto. Le piccole erano state portate via meno di un’ora prima, ma la presenza del messaggio significava che non ci sarebbero state domande ad amici e vicini di casa, non c’era nessuna speranza che le ragazzine fossero semplicemente scappate. Non erano scomparse, erano state rapite e il caso era ancora aperto.
Kim rivolse lo sguardo al sovrintendente.
«Mi dica, cos’è andato storto l’ultima volta?»
«Come, scusi?», chiese lui, sorpreso. Era ovvio che non si aspettava di essere interpellato in modo tanto diretto.
Mentre il suo cervello formulava una risposta, Kim osservò il volto dell’uomo. Addestrato alla perfezione per affrontare i media. Nessuna ruga d’espressione, neanche una goccia di sudore all’attaccatura dei capelli. Non la sorprendeva. Prima di arrivare a lui, c’erano diversi sottoposti su cui puntare il dito.
In risposta alla sua domanda, Baldwin le rivolse uno sguardo vuoto. Era un avvertimento, doveva tenere la bocca chiusa.
Lei rispose allo sguardo. «Be’, solo una delle bambine è stata liberata, qualcosa dev’essere andato storto».
«Non credo che i dettagli…».
«Signore, perché sono qui?», domandò Kim, rivolgendosi di nuovo a Woody. Si trattava di un duplice rapimento. Era un caso da dipartimento di Investigazione criminale, non da polizia locale. La gestione di un’indagine di questo calibro sarebbe stata affidata a diversi gruppi. Alcuni sarebbero andati in cerca di indizi, altri avrebbero ricostruito il contesto o avrebbero fatto domande porta a porta, guardato i filmati delle telecamere e parlato con la stampa. A lei, sicuramente, non sarebbero stati assegnati i rapporti con i media.
Woody e Baldwin si scambiarono un’occhiata.
Kim capì subito che la risposta non le sarebbe piaciuta. All’inizio, pensò che volessero dirottare la sua squadra sull’indagine. Potevano anche dimenticarsi della pila di casi di cui si stavano occupando, fra violenze sessuali, domestiche, truffe e tentati omicidi, oltre al completamento delle deposizioni per Dewain Wright.
«Volete che la mia squadra si unisca alle ricerche…?»
«Non ci saranno ricerche, Stone», rispose Woody. «Vogliamo richiedere il silenzio stampa».
«Scusi?».
Era insolito per un caso di rapimento. In genere, la stampa ci metteva due minuti a venirne a conoscenza.
«Non abbiamo trasmesso alcuna comunicazione sulle frequenze radio e al momento i genitori mantengono il riserbo».
Kim annuì, aveva capito. Se ben ricordava, anche l’ultima volta ci avevano provato, ma al terzo giorno la notizia era già su tutte le prime pagine. Quello stesso giorno, più tardi, la ragazzina sopravvissuta era stata ritrovata sul ciglio della strada, mentre dell’altra non si era mai più saputo niente.
«Sono ancora un po’ confusa, su cosa…».
«Hanno richiesto lei come responsabile dell’indagine, Stone».
Passarono dieci secondi. Kim rimase in attesa della battuta. Ma non arrivò.
«Scusi?»
«Ovviamente, è fuori discussione», esclamò Baldwin. «Non è abbastanza qualificata per dirigere un’indagine di questa portata, è chiaro».
Per quanto la pensasse allo stesso modo, Kim ebbe la tentazione di citare il caso di Crestwood, in cui lei e la sua squadra avevano catturato l’assassino di quattro adolescenti.
Si girò, in modo da avere davanti solamente Woody.
«Chi l’ha richiesto?»
«Una delle madri. Ha chiesto espressamente di lei e non vuole parlare con nessun altro. Deve raccogliere le prime dichiarazioni, mentre ci occupiamo di formare la squadra. Poi dovrà fare rapporto e passare subito il caso nelle mani di chi sarà nominato a capo delle indagini».
Kim annuì, aveva capito la procedura, ma Woody non aveva ancora risposto del tutto alla sua domanda.
«Signore, posso avere i nomi delle bambine e quello della madre?»
«Charlie Timmins e Amy Hanson sono le bambine. A chiedere di chiamare lei è stata la mamma di Charlie. Si chiama Karen, sostiene di essere sua amica, è vero?».
Kim scosse la testa, spiazzata. Era impossibile. Non conosceva nessuna Karen Timmins e poi lei non aveva amici.
Woody consultò un foglio sulla scrivania.
«Scusi, Stone. Forse la conosce con il suo nome da ragazza. Si chiama Karen Holt».
La schiena di Kim si irrigidì. Quel nome apparteneva al suo passato: un luogo che visitava di rado.
«Stone, a giudicare dalla sua espressione mi sembra che invece la conosca».
Kim si alzò e parlò guardando solamente Woody. «Signore, farò come dice e andrò a tastare il terreno, per poi passare il caso nelle mani del futuro responsabile. Ma le assicuro che questa donna non è mia amica».
Capitolo 3
Kim sterzò e superò la coda di veicoli, portandosi in cima alla fila. Quando la luce gialla fu sul punto di illuminarsi, fece rombare il motore e attraversò l’incrocio sfrecciando.
Al successivo spartitraffico, il suo ginocchio sfiorò l’asfalto a più di sessanta chilometri all’ora.
Dirigendosi a sud, lasciò il cuore della Black Country, chiamata così a causa dello spesso strato di minerale di ferro nel sottosuolo, alto circa nove metri, e dei filoni di carbone grezzo che affioravano in vari punti della zona.
Storicamente, gli abitanti della regione si erano sostentati con l’agricoltura, ma spesso avevano rimpinguato i guadagni lavorando come fabbri o chiodaioli. Nel 1620, nel raggio di una quindicina di chilometri da Dudley Castle, vivevano ventimila artigiani del ferro.
Kim era rimasta sorpresa dell’indirizzo che le avevano dato. Non immaginava che Karen Holt vivesse in una delle zone più belle della Black Country. A dire il vero, era stupita che quella donna fosse ancora viva.
Quando attraversò Pedmore, le case si fecero via via più lontane rispetto alla strada. I terreni erano più ampi, gli alberi più alti e le abitazioni ben distanziate l’una dall’altra.
Il sobborgo, originariamente un villaggio nelle campagne del Worcestershire, era stato inglobato da Stourbridge con l’espansione edilizia degli anni fra le due guerre.
Kim svoltò su Redlake Road, imboccando un vialetto, con la ghiaia che scricchiolava sotto le gomme. Si avvicinò alla proprietà, e fra sé e sé cacciò un fischio.
La casa era una villa indipendente, vittoriana, con grandi finestre su entrambi i lati del portoncino, dalla simmetria perfetta. I mattoni bianchi sembravano dipinti di fresco.
Kim fermò la moto davanti al portico sontuoso, sopra il quale sorgeva un balcone con la sua balaustra. Su entrambi i lati, sporgeva un bovindo.
Era il genere di casa con cui gridare al mondo che ce l’avevi fatta. E Kim non poteva neppure immaginare cosa diavolo avesse combinato Karen Holt per arrivare fin lì. Se fosse stata in compagnia di Bryant, avrebbero fatto il solito gioco, indovina il valore della casa
, e lei non avrebbe scommesso che valesse meno di un milione e mezzo di sterline, tanto per cominciare.
Accanto a una Range Rover argentata, era parcheggiata un’auto civetta, una Vauxhall Cavalier. Una rapida occhiata confermò che la casa non era visibile dalle altre abitazioni, in nessuna direzione. Si avviò, cercando di fissare i dettagli da riportare al funzionario che Woody avrebbe nominato, chiunque fosse.
Ad aprirle la porta venne un agente, Kim lo riconobbe per via di un vecchio caso. L’ispettore entrò in un ingresso sontuoso, che sfoggiava un pavimento a mosaico di ceramica Minton. Al centro della stanza, dominava un tavolo rotondo di quercia con il vaso di fiori più alto che lei avesse mai visto. Ai due lati dell’ingresso, si affacciavano altrettanti salotti in cui accogliere gli ospiti.
«Dov’è?», chiese Kim all’agente.
«In cucina, signora. C’è anche la madre dell’altra bambina».
Kim annuì e oltrepassò la scalinata. A metà strada, una donna le andò incontro. Se Kim impiegò un po’ di tempo a metterla a fuoco, dall’espressione sul volto dell’altra, invece, fu evidente che l’aveva riconosciuta subito.
Karen Timmins non assomigliava per niente a Karen Holt.
I jeans strappati, che un tempo avevano fasciato le sue curve, avevano lasciato il posto a un paio di eleganti pantaloni a sigaretta. I top scollati e aderenti da cui straripava il seno erano stati rimpiazzati da un golfino a V, che lasciava intuire le forme piuttosto che sbattertele in faccia.
I capelli biondo platino erano tornati al loro castano naturale, e il taglio alla moda incorniciava un volto attraente, ma non esageratamente bello.
Qualche intervento di chirurgia. Non molti, ma abbastanza da cambiare in modo significativo i suoi tratti. Kim concluse che dovesse trattarsi del naso. Karen l’aveva sempre odiato, e non aveva tutti i torti.
«Kim, grazie a Dio. Grazie di essere venuta. Grazie».
L’ispettore lasciò che le stringesse la mano per ben tre secondi, prima di ritrarla.
Una seconda donna comparve al fianco di Karen. Nei suoi occhi, il terrore lasciò il posto alla speranza.
Karen si fece da parte. «Kim, lei è Elizabeth, la madre di Amy».
La poliziotta salutò con un cenno del capo la donna, che aveva gli occhi sbaffati di mascara. Aveva un caschetto di capelli lucidi e ramati, che sembrava una scodella. Aveva qualche chilo in più rispetto a Karen, e indossava dei pantaloni di cotone color crema e un maglione ciliegia.
«E tu sei la madre di Charlie?», domandò Kim.
Karen annuì con forza.
«Le avete trovate?», chiese Elizabeth, senza fiato.
Kim scosse la testa e le invitò a tornare in cucina.
«Sono qui per raccogliere i dati iniziali…».
«Non ci aiuterai a trovare…».
«No, Karen, stanno formando la squadra. Sono qui solo per raccogliere i dati iniziali».
Karen aprì la bocca per ribattere, ma Kim sollevò una mano e le rivolse un sorriso rassicurante.
«Vi prometto che verrete affiancate dagli agenti migliori, colleghi che hanno molta più esperienza di me in questo genere di casi. Prima raccogliamo i dati, prima potrò passarli a loro, così le vostre bambine potranno tornare a casa».
Elizabeth annuì, aveva capito, invece Karen la guardò con sospetto. Eh, sì, era un’espressione che Kim conosceva bene.
E, proprio come faceva quando erano ragazzine, Kim la ignorò.
«Vi hanno mandato dei messaggi?», chiese.
Entrambe le porsero il cellulare. Per primo, prese quello di Karen, e lesse le parole fredde del rapitore.
Non c’è bisogno di correre. Oggi Charlotte non tornerà a casa. Non è uno scherzo. Ho preso tua figlia.
Kim restituì il telefono a Karen e passò a quello di Elizabeth.
Oggi Amy non tornerà a casa. Non è uno scherzo. Ho preso tua figlia.
«Va bene, raccontatemi per filo e per segno quanto è accaduto», esclamò, passandolo a Elizabeth.
Le due donne sedettero intorno alla penisola. Karen bevve un sorso di caffè, e iniziò a raccontare. «Stamani le ho lasciate al centro sportivo…».
«A che ora?»
«Alle dieci e un quarto. La lezione inizia alle dieci e mezzo e finisce a mezzogiorno e un quarto. Vado sempre a prenderle alle dodici e trenta».
Kim percepiva l’emozione nella sua voce, stava trattenendo le lacrime. Elizabeth posò la mano su quella dell’amica, incoraggiandola a proseguire.
Karen deglutì. «Sono uscita di casa per andare a prenderle appena in tempo. Di solito mi aspettano nell’atrio. Ma la macchina non partiva… è stato allora che ho ricevuto il messaggio».
«Avete delle telecamere in questa casa?», domandò Kim. Era convinta che l’auto fosse stata manomessa da qualcuno che si era introdotto nella proprietà.
Karen scosse la testa. «Perché dovremmo?».
«Non toccare la macchina», le ordinò Kim. «La scientifica potrebbe scoprire qualcosa». Era possibile, ma non probabile. «I rapitori conoscono bene le vostre abitudini».
Elizabeth alzò la testa. «Sono più di uno?».
Kim annuì. «Credo di sì. Le vostre figlie hanno nove anni. Non sono facili da gestire, insieme. Una lotta fra un adulto e due bambine sarebbe stata difficile da nascondere. Avrebbero fatto rumore».
Elizabeth ebbe un sussulto, ma Kim non poteva evitarlo. Piangere non avrebbe riportato indietro le loro bambine. Se avesse funzionato, avrebbe versato anche lei volentieri un paio di lacrime.
«Avete notato qualcosa di strano ultimamente? Facce o auto viste più di una volta? Avete avuto la sensazione di essere osservate?».
Entrambe le donne scossero la testa.
«E le bambine vi hanno raccontato qualcosa di particolare? Magari un estraneo che ha attaccato bottone?»
«No», risposero all’unisono.
«I padri delle ragazze?»
«Stanno tornando dal campo di golf. Siamo riuscite a contattarli poco prima che arrivassi tu».
Era quella la risposta che cercava. Entrambi i padri erano presenti, era evidente, quindi l’ipotesi di una battaglia per la custodia delle figlie era da escludere. Inoltre, si capiva che le due famiglie erano molto unite.
«Per favore, siate sincere con me. Avete contattato qualcun altro, amici, parenti?».
Negarono tutte e due con un cenno del capo, e Karen parlò. «L’agente con cui abbiamo parlato ci ha detto di non farlo finché qualcuno non si fosse messo in contatto con noi».
Era stato un buon consiglio, dal momento che l’ipotesi del rapimento aveva trovato conferma. Non erano scappate. Erano state prese da qualcuno.
«Cosa dobbiamo fare, ispettore?», chiese Elizabeth.
Kim era consapevole che d’istinto, in questi casi, si voleva cercare, muoversi, camminare, agire, fare qualcosa. Le bambine erano sparite da un’ora e mezzo circa. E il peggio doveva ancora venire.
Scosse la testa. «Niente. Possiamo concludere che chi ha organizzato il rapimento sa quello che fa. Conoscono le vostre abitudini, vi hanno osservato attentamente. Con molta probabilità, le bambine sono state attirate lontano dal centro sportivo in uno dei tre modi seguenti. Primo, da una persona che conoscono. Secondo, da una persona che percepiscono come degna di fiducia. E terzo, con una promessa».
«Una promessa?», chiese Karen.
Kim annuì. «Le vostre figlie sono troppo grandi per convincerle con le caramelle, penso più a un cagnolino o un gatto».
«Oddio», esclamò Elizabeth. «Sono mesi che Amy mi supplica di prenderle un micetto».
«Sono pochi i bambini che resistono alla tentazione», spiegò Kim. «È per questo che funziona». Inspirò a fondo. «Sentite, abbiamo deciso di chiedere il silenzio stampa».
A questo punto, non c’era bisogno di spiegare il perché. Meno sapevano del caso precedente, meglio era.
Kim proseguì: «Quindi, non ci saranno ricerche. Sarebbe inutile. Non le ritroveremo con la solita caccia all’uomo. Il rapimento è stato pianificato, e si sono già messi in contatto con voi. Le vostre bambine non sono sperdute in qualche campo in attesa di essere ritrovate».
«Ma cosa vogliono?», chiese Karen.
«Sono sicura che ve lo faranno sapere, ma fino a quel momento dovrete stare zitte. Non dovete dirlo neppure ai membri della famiglia. Nessuna eccezione. Se la stampa ne venisse a conoscenza, le indagini ne risentirebbero. Il modo migliore per riportare a casa le bambine non è sguinzagliare centinaia di persone per le campagne».
Kim notò l’indecisione dipinta sui loro volti. Presto, sarebbe stato compito di qualcun altro occuparsene, ma per ora spettava a lei assicurarsi che mantenessero il riserbo. Almeno finché non tornava alla stazione e passava la patata bollente a chi di dovere.
«Vorreste che tutte le persone che conoscete stessero in guardia, è una reazione naturale, e vorreste andare anche voi là fuori a cercarle, ma non porterebbe a niente». Kim si alzò. «Il responsabile dell’indagine arriverà a breve. Nel frattempo, dovreste fare una lista delle persone da contattare nei prossimi giorni per giustificare l’assenza delle vostre figlie, o la vostra».
Karen era sbigottita. «Ma io voglio… non puoi…?».
Kim scosse la testa. «Avete bisogno di una persona che abbia esperienza nei casi di rapimento».
«Ma io voglio…».
Proprio al momento giusto, un bambino scoppiò a piangere nella stanza accanto. Elizabeth scostò la sedia dal tavolo. Kim la imitò, e si avviò alla porta.
Karen le afferrò il braccio. «Per favore, Kim…».
«Karen, non posso prendere il caso. Non ho l’esperienza necessaria. Mi dispiace, ti assicuro che il capo dell’indagine farà tutto il possibile…».
«Questo perché allora mi odiavi?».
Kim era scioccata. Karen non aveva detto una falsità, ma lei non avrebbe mai permesso al passato di influenzarla quando in ballo c’erano le vite di due bambine.
La frustrazione di Kim davanti all’impossibilità di aiutare quella donna disperata aumentò, per quanto i suoi superiori fossero stati molto chiari al riguardo.
«Perché, Karen, perché me?».
La donna fece un mezzo sorriso. «Ti ricordi quando ci mandarono dalla famiglia Price e Mandy aveva le scarpe da ginnastica distrutte? Hai chiesto a Diane un paio nuovo, e lei ha detto di no».
Mandy era una ragazzina timida, silenziosa, parlava a malapena. Aveva le piante dei piedi graffiate e doloranti, a forza di sfregarle sulla ghiaia.
«Certo che me lo ricordo», rispose Kim. Per lei era stata la famiglia affidataria numero sette. L’ultima.
«Ricordo come hai reagito. Hai scoperto quanto gli passavano ogni mese per prendersi cura di noi. Poi hai annotato quello che spendevano per la spesa, le bollette e l’affitto».
Sì, Kim aveva osservato il contenuto delle buste che scaricavano ogni sabato mattina, poi era andata al supermercato e aveva fatto il conto. Una notte, era rimasta sveglia fino a tardi e aveva passato in rassegna le bollette.
«Dopo un mese, hai mostrato loro un foglio di carta, dicendo che l’avresti mandato ai servizi sociali».
I Price facevano quello di mestiere, e avevano sempre accettato i ragazzi più grandi, per cui ricevevano i sussidi più alti.
«Non potrò mai dimenticare quello che è successo dopo», esclamò Karen, con un sorriso che non riuscì a illuminarle gli occhi. «C’erano scarpe nuove da tutte le parti». Scosse la testa. «Allora, non sapevamo niente di te. Non parlavi ad anima viva del tuo passato – anzi, parlavi poco in generale – ma si capiva che eri una tipa determinata».
Kim accennò un sorriso. «E vuoi che mi occupi del caso perché ti ho fatto guadagnare un paio di scarpe nuove?»
«No, Kim. Voglio che te ne occupi perché sono sicura che, se deciderai di aiutarci, riabbraccerò mia figlia».
Capitolo 4
Venti minuti dopo, quando Kim bussò ed entrò, Woody era da solo.
«Signore, lo voglio», disse lei.
«Cosa, Stone?», chiese il capo, appoggiandosi allo schienale della poltrona.
«Il caso. Voglio guidare le indagini».
Lui si grattò il mento. «Non hai sentito quello che ha detto il sovrintendente…».
«Sì, ho sentito forte e chiaro, ma si sbaglia. Riporterò a casa quelle bambine, quindi se è così gentile da dirmi a chi devo leccare il…».
«Non sarà necessario», rispose lui, afferrando la pallina antistress.
Maledizione, non aveva ancora attaccato con il discorsetto persuasivo e aveva già perso. Ma il passato le insegnava che a volte si può strappare una vittoria anche dalle grinfie della sconfitta.
«Signore, sono tenace, determinata, motivata…».
Lui si riappoggiò allo schienale e inclinò la testa di lato.
«Sono ostinata, testarda…».
«Oh, sì, certo che lo è, Stone», ribatté lui.
«Non mangerò, dormirò, berrò, finché…».
«Va bene, Stone. È suo».
«Non troverà qualcuno che lavorerà più duramente di… ehm, cosa?».
Woody si sporse in avanti e mollò la pallina. «Quando se n’è andata, io e il sovrintendente abbiamo avuto una lunga conversazione. Ho usato molti di quegli aggettivi, fra gli altri. Gli ho assicurato che, se esiste qualcuno in grado di riportare a casa quelle bambine, quel qualcuno è lei».
«Signore, io…».
«Ma qui ci giochiamo tutti e due la testa, Stone. Il sovrintendente sarà sollevato da ogni responsabilità, in caso di fallimento. Soprattutto dopo l’ultima volta. A partire da adesso, tolleranza zero. Un passo falso e siamo fuori, entrambi. Capito?».
Kim apprezzava la fiducia che Woody aveva riposto in lei, e non l’avrebbe deluso. Cercò di immaginare la conversazione che aveva avuto luogo fra il suo capo e il sovrintendente. L’uomo che le stava davanti, per convincere Baldwin, doveva aver fatto un discorso particolarmente appassionato.
«Di cosa ha bisogno?», chiese, impugnando la penna.
Kim fece un respiro profondo. «Di tutti i fascicoli dell’ultimo caso. Lì troverò le risposte che cerco su come sono state condotte le indagini».
«Già predisposti. Poi?»
«Voglio l’agente di collegamento del caso precedente».